«Perché?».
«Io sono istruttrice di boxe cinese».
Beh, questa era davvero forte.
«Boxe cinese? Vuol dire kungfu».
«L'espressione kungfu non significa niente. O meglio significa tutto, ma non indica nessuna arte marziale in particolare.
Kungfu significa, approssimativamente, lavoro duro».
La conversazione era lievemente surreale. Eravamo passati dai problemi psichiatrici di Martina alle arti marziali ed alla filosofia cinese, con cenni di filologia.
Chiesi a suor Claudia che cosa fosse esattamente quella boxe cinese di cui era istruttrice. Mi spiegò che secondo la leggenda era una disciplina elaborata in Cina da una giovane monaca, nel sedicesimo secolo. Il nome di quella disciplina era Wing Tsun, e suor Claudia teneva le sue lezioni due volte alla settimana in una palestra dove facevano danza e yoga.
Dissi che mi sarebbe piaciuto assistere ad un allenamento e lei, dopo avermi guardato in faccia per qualche istante – come per verificare se parlavo sul serio o avevo detto una cosa tanto per fare conversazione, rispose che mi avrebbe invitato, una volta.
A quel punto era veramente tutto. Così feci un cenno di saluto un po' goffo con la mano, salii in macchina e misi in moto mentre lei andava ad aprire il cancello per lasciarmi uscire.
Allontanandomi lentamente lungo la strada sterrata guardai nello specchietto retrovisore. Suor Claudia non era rientrata. Stava ferma vicino ad una colonna e sembrava guardasse la mia macchina che andava via. O forse guardava altro, in qualche posto che io non conoscevo e nemmeno mi potevo immaginare. C'era qualcosa nel suo stare lì da sola, sullo sfondo di quella campagna solitaria ed irreale, che mi diede una improvvisa fitta di tristezza.
Dopo dieci minuti trascorsi in una specie di apnea della coscienza mi ritrovai su una strada asfaltata, di nuovo nel mondo esterno.
La mattina dopo avevo un processo a Lecce. Così mi alzai presto e dopo doccia e barba misi uno degli abiti seri che indossavo quando andavo in trasferta. Questa dell'abito serio, perlopiù grigio scuro, era un'abitudine presa quando ero un giovanissimo procuratore legale. Avevo superato gli esami a venticinque anni e a quell'età avevo un aspetto da matricola universitaria. Per sembrare un vero avvocato dovevo invecchiarmi, pensavo; e l'abito grigio scuro mi sembrava l'ideale.
Col passare degli anni, a Bari dove mi conoscevano, la divisa grigia smise di essere indispensabile. Anche perché, col passare degli anni, la mia faccia da matricola universitaria mostrava qualche segno di evoluzione. Per così dire.
Arrivato a quarant'anni avevo conservato l'abitudine di indossare un abito grigio quando andavo in trasferta. Perché fosse chiaro, dove non mi conoscevano, che ero effettivamente un avvocato. Concetto sul quale io stesso conservavo qualche segreto dubbio.
Insomma comunque misi un abito grigio, una camicia azzurra, una cravatta regimental, presi la borsa che avevo portato a casa dallo studio la sera prima, e uscii dopo aver lasciato il caffè sul comodino di Margherita. Dormiva ancora, con il suo respiro quieto e deciso.
Ero arrivato al garage e stavo per salire in macchina quando squillò il cellulare. Era il mio collega di Lecce, che mi aveva associato in quella difesa. Mi informava che il presidente del collegio che si occupava della nostra causa era ammalato e che quindi il processo sarebbe stato rinviato.
Dunque era inutile che andassi fino a Lecce solo per ascoltare un'ordinanza di rinvio. Effettivamente era inutile, convenni. Ma come faceva a sapere, alle sette e mezzo del mattino che il presidente era ammalato? Ah, sapeva questa cosa dal giorno prima, ma era stata una giornata molto pesante e così si era dimenticato di avvertirmi. Bravo.
Comunque mi avrebbe fatto sapere lui la data del rinvio. Ah, grazie, troppo gentile. Allora ciao. Sì, ciao. E vaffanculo.
Io di regola non amo alzarmi la mattina presto, se non è strettamente indispensabile. Se ho voglia di vedermi un'alba – talvolta capita – preferisco piuttosto restare sveglio tutta la notte e poi andare a dormire la mattina. Procedura di una qualche difficoltà, nei giorni lavorativi. Svegliarmi presto – dovermi svegliare presto – mi rende piuttosto nervoso.
Quella mattina era successo, per via del mio collega leccese. Così mi ritrovavo in giro per la città, poco prima delle otto, in una bella mattina di novembre. Senza niente da fare visto che quella giornata, secondo i programmi, era dedicata al processo in trasferta che era saltato.
Ovviamente in breve sarei stato ghermito dall'ansia e sarei finito in studio a sbrigare carte che non erano urgenti e a fare telefonate che non erano utili. Lo sapevo bene. Conosco l'ansia. A volte riesco anche a capire i suoi trucchi, e a batterla.
Più spesso vince lei e mi fa fare cose stupide, anche se so benissimo che sono cose stupide. Come andare in studio un giorno in cui potrei andarmene altrove a leggere un libro, ad ascoltare un disco, o a vedere un film in uno di quei cinema in cui fanno le proiezioni di mattina.
Dunque sarei andato in studio, ma non erano ancora le otto; troppo presto anche per farsi risucchiare dal gorgo dell'ansia da produzione. Così pensai che potevo farmi una passeggiata, magari fino al lungomare; potevo fare colazione in un bar di quelli che mi piacevano, sempre dalle parti del mare. Potevo fumarmi una bella sigaretta. No, quella no. Stronza idea questa di smettere di fumare, pensai mentre mi avviavo verso Corso Vittorio Emanuele.
Ero arrivato quasi al rudere del Teatro Margherita ed al suo cantiere di restauro infinito quando vidi, mentre mi veniva incontro, una faccia vagamente familiare. Strizzai gli occhi – gli occhiali non li mettevo, se non per andare al cinema e guidare la macchina – e vidi che quello faceva una specie di sorriso e poi sollevava un braccio, a salutare.
«Guido!».
«Emilio?».
Emilio Ranieri. Forse quindici anni che non ci vedevamo. Forse di più.
Quando fummo vicini l'uno all'altro, dopo un attimo di esitazione mi abbracciò. Dopo un altro attimo di esitazione risposi all'abbraccio. Emilio Ranieri era stato mio compagno di scuola al liceo e poi, per due o tre anni, avevamo frequentato insieme l'università. Lui aveva smesso prima di laurearsi, per andare a fare il giornalista. Aveva cominciato con una radio in Toscana e poi lo avevano assunto all'Unità, dove era rimasto fino a quando il giornale non aveva chiuso.
Ogni tanto me ne avevano parlato alcuni amici comuni; sempre di meno, col passare degli anni. Nel periodo mitico della mia vita, a cavallo fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, Emilio era stato uno dei miei pochissimi veri amici. Poi era scomparso; e in un certo senso, anch'io ero scomparso.
«Guido. Sono contento. Cazzo se non sei uguale, a parte qualche capello in meno».
Lui non era uguale. Aveva ancora tutti i capelli ma erano quasi completamente bianchi. Agli angoli degli occhi aveva rughe che sembravano scavate nel cuoio; violente e dolorose, mi parvero. E anche il sorriso aveva qualcosa di diverso; di spaurito e vinto.
Però anch'io ero contento. Anzi ero felice di averlo incontrato. Il mio amico Emilio.
«Anch'io sono contento. Che cosa ci fai a Bari?».
«Adesso ci lavoro».
«Come sarebbe: ci lavori?».
«Ero disoccupato da quando ha chiuso l'Unità. Poi ho saputo che qui a Bari cercavano gente per rinforzare la redazione dell'ANSA, mi sono proposto e mi hanno preso. Con i tempi che corrono si può dire che mi è andata bene».
«Vuoi dire che adesso stai qua stabilmente?».
«Se non mi cacciano. Cosa non impossibile, ma insomma cercherò di comportarmi bene».
Mentre Emilio parlava provai uno stranissimo, doloroso misto di contentezza, rabbia e malinconia. Mi ero reso conto, a un tratto, di una verità che avevo tenuto accuratamente nascosta a me stesso: da tempo non avevo più un solo amico.
Forse questo è normale, quando arrivi dalle parti dei quaranta. Tutti hanno i cazzi loro; famiglie, bambini, separazioni, carriere, amanti; e l'amicizia è un lusso che non si possono permettere. Forse l'amicizia vera è un lusso di quando hai vent'anni.
O forse dico solo cazzate. Certo è che in quel momento mi resi conto, dolorosamente, del fatto che non avevo più amici.
E però ero così contento che Emilio fosse lì con me; contento che quel processo fosse saltato; contento di aver deciso di prendermi un'ora di vacanza.
«Andiamo a prendere un caffè, dai».
Andiamo, fece lui, di nuovo con quel sorriso spaurito. Così incongruo su quella faccia da capo del servizio d'ordine della FOCI ai tempi delle botte con i fascisti da una parte e gli autonomi dall'altra.
Ci sedemmo in un piccolo bar ai confini della città vecchia. Io presi un cappuccino ed un cornetto; Emilio solo il caffè. Dopo averlo bevuto si accese una delle emmesse che fumava sin dai tempi del liceo. Quella non era la sigaretta ultraslim, ultralight di Martina, cui era facilissimo rinunciare. Quella era un pezzo di storia, un prisma di emozioni, una specie di macchina del tempo.
Quando dissi no grazie, con un banale gesto della mano, quasi a respingere il pacchetto che Emilio mi aveva offerto, notai una specie di disappunto sulla faccia del mio amico. Fumare insieme, lo sapevo bene, aveva sempre avuto un significato speciale. Come un rituale di amicizia.
Scambiammo un po' di parole senza consistenza, di quelle che si dicono per ristabilire un contatto, quando è passato tanto tempo; di quelle che si dicono per ricreare le coordinate di un territorio che è diventato sconosciuto.
E fu senza consistenza che gli chiesi di sua moglie – non l'avevo conosciuta, sapevo solo che Emilio si era sposato sei o sette anni prima, con una collega a Roma – facendo la solita, banale domanda che ci si scambia nei paraggi dei quaranta.
«Tu sei separato o resisti?».
Mentre la facevo, quella domanda, sentii calare un gelo metallico. Prima che Emilio rispondesse; prima ancora di finire quelle parole che ormai erano fuori e che non potevo ritirare.
«Lucia è morta».
La scena diventò in bianco e nero. Muta e assordante. E improvvisamente priva di senso.
Mi venne in mente una frase di Fitzgerald, ma non me la ricordavo bene. Nella notte buia dell'anima sono sempre le tre del mattino. Si mescolò ai frammenti di una conversazione inesistente tutta nella mia testa, che girava a vuoto. Quando è morta? Perché? Ah, si chiamava Lucia. Molto lieto. È un bel nome, Lucia. Mi dispiace. Quanti anni aveva? Era bella? Come stai, Emilio ? Condoglianze. Bisogna andare avanti. Perché nessuno mi ha detto niente? E chi me lo doveva dire? Chi?
Oh merda, merda, merda.
«Si è ammalata ed è morta in tre mesi».
La voce di Emilio era tranquilla, quasi atona. Davanti alla mia faccia muta e dispersa raccontò la sua storia, e quella di Lucia. Ragazza di trentaquattro anni che un giorno di aprile andò dal medico a ritirare delle analisi, e seppe che il suo tempo era quasi scaduto. Anche se aveva tante cose da fare, ancora.
Cose importanti, come un bambino, per esempio.
«Sai, Guido, allora pensi un sacco di cose. E soprattutto pensi al tempo sprecato. Pensi alle passeggiate che non hai fatto, alle volte che non hai fatto l'amore, a quando hai mentito. A quando hai fatto il ragioniere con la moneta degli affetti. Lo so che è banale, ma pensi che vorresti tornare indietro e dirle quanto la ami, tutte le volte che non l'hai fatto e avresti dovuto. Cioè sempre. Non è solo il fatto che vuoi che non muoia. È il fatto che vorresti che il tempo non fosse stato sprecato, in quel modo».
Parlava al presente. Perché il suo tempo si era spezzato.
Mi raccontò tutto, con calma. Come se volesse esaurire l'argomento. Mi raccontò di come lei si era trasformata, in quelle poche settimane; di come la sua faccia era diventata piccola, e le sue braccia magre, e le sue mani senza forza.
Io stavo zitto, e pensavo che in tutta la mia vita non avevo mai contemplato il dolore in una forma così tersa, nitida, pura. Disperata.
Poi arrivò il momento di salutarci.
Ci alzammo dal tavolino e facemmo qualche passo insieme. Emilio sembrava tranquillo. Io no. Tirò fuori il portafoglio, frugò un po' all'interno e poi ne tirò fuori uno scontrino. Di una lavanderia a gettone, di quelle che cominciavano ad apparire in città, con insegne gialle e un nome americano. Ci scrisse sopra il suo numero di telefono e me lo diede, mentre io gli passavo uno dei miei stupidi biglietti da visita. Mi disse di chiamarlo, e che comunque lui mi avrebbe chiamato.
Sembrava tranquillo. I suoi occhi guardavano altrove.
Feci squillare tre, quattro, cinque, sei volte. Ad ogni squillo cresceva l'urgenza, e l'angoscia. Stavo per schiacciare il pulsante di fine conversazione, e provare sul cellulare, quando dall'altra parte sentii la voce di Margherita che rispondeva.
«Sì?».
Tono sbrigativo, di chi sta uscendo di casa per andare al lavoro. Io rimasi in silenzio per qualche istante, perché all'improvviso non sapevo che dire, e mi sentivo la gola ostruita.
«Chi parla?».
«Sono io».
«Ehi. Stavo uscendo, mi hai preso sulla porta. Che c'è? Sei già a Lecce?».
«Io volevo dirti...».
«... ?».
«Volevo dirti...».
«Guido, cosa c'è? Stai bene? È successo qualcosa?». Adesso una leggera nota di allarme nella voce.
«No, no. Non è successo niente. Non sono andato a Lecce, il processo è saltato».
Mi interruppi, ma questa volta lei non chiese niente. Rimase zitta, ad aspettare.
«Margherita» – mentre parlavo mi resi conto che non la chiamavo mai per nome – «ti ricordi quella volta che mi mandasti un messaggio sul telefonino...».
Non mi fece finire di parlare.
«Me lo ricordo. Ti scrissi che averti incontrato era una delle cose più belle che mi fossero mai capitate. Non era vero. È stata la più bella».
«Ecco, io volevo dirti la stessa cosa. Cioè non proprio la stessa... ma volevo dire che ora non posso spiegarti...». Balbettavo.
«Guido, io ti amo. Come non ho mai amato nessuno in tutta la mia vita».
Allora smisi di balbettare.
«Grazie».
«Grazie? Sei uno strano tipo, Guerrieri».
«È vero. Ceniamo fuori stasera?».
«Offri tu?».
«Sì. Ciao».
«Ciao. A stasera».
La comunicazione si interruppe. Io ero fermo all'angolo fra Corso Vittorio Emanuele e Via Sparano. I negozi stavano aprendo, i camion scaricavano la merce, la gente camminava a testa bassa.
Grazie, dissi di nuovo da solo, prima di rimettermi in cammino.
La mattina dopo andai in tribunale direttamente da casa. Avevo un processo per sfruttamento della prostituzione. La mia cliente era una ex modella, attrice di film porno, accusata di avere organizzato un giro di altre ragazze. Lei, insieme ad altre due, faceva da intermediaria fra le ragazze ed i clienti; lavorava con il telefono ed internet e prendeva una provvigione sulle transazioni andate a buon fine. Lei stessa si prostituiva con pochi, molto selezionati, molto danarosi clienti. Non gestiva una casa di appuntamenti o niente di simile. Semplicemente metteva in contatto la domanda con l'offerta. Le ragazze lavoravano a casa, nessuna veniva sfruttata; nessuno si faceva male.
Con un impegno degno sicuramente di una causa migliore la procura e la polizia avevano indagato per mesi su questa pericolosa organizzazione. Avevano fatto appostamenti, avevano preso i clienti all'uscita delle case delle ragazze; soprattutto avevano intercettato telefoni e computer.
Alla fine dell'indagine era scattata la custodia in carcere per le tre organizzatrici del traffico. Il provvedimento diceva che
la spiccatissima pericolosità sociale manifestata dalle tre indagate, la loro capacità di avvalersi con disinvoltura, per il compimento dei loro progetti criminosi, degli strumenti più sofisticati della moderna tecnologia (telefoni cellulari, internet etc.), la loro attitudine a reiterare comportamenti antisociali lascia ritenere l'indispensabilità della custodia cautelare nella forma più severa, vale a dire quella carceraria.
Nadia era stata in carcere per due mesi; per altri due mesi era stata agli arresti domiciliari e poi era stata rimessa in libertà. Nella prima fase del procedimento si era fatta difendere da un altro collega; poi era venuta da me, senza spiegarmi per quale motivo aveva voluto cambiare avvocato.
Era una donna elegante e intelligente. Quella mattina dovevo discutere il suo processo con il rito abbreviato, cioè davanti al giudice dell'udienza preliminare.
La quasi totalità delle prove a suo carico consisteva nelle intercettazioni telefoniche e telematiche. In base ai risultati di quelle intercettazioni era pacifico che Nadia, assieme alle sue due amiche, aveva – come si leggeva nel capo di imputazione
organizzato, coordinato, gestito un imprecisato ma comunque ampio numero di donne dedite alla prostituzione, facendo da tramite fra le suddette donne ed i loro clienti e percependo per tale prestazione ed in generale per il supporto logistico fornito all'illecito traffico, percentuali sul compenso delle meretrici, variabili fra il 10 ed il 20 per cento...
eccetera, eccetera.
Leggendomi gli atti con attenzione mi ero reso conto però che c'era un vizio formale nei provvedimenti con cui le intercettazioni erano state autorizzate. Su quel vizio formale contavo di giocarmi il processo. Se il giudice mi dava ragione le intercettazioni erano inutilizzabili e a carico della mia cliente rimaneva veramente ben poco. Certo non abbastanza per una condanna.
Quando il cancelliere fece l'appello e Nadia disse che era presente, il giudice la guardò senza riuscire a nascondere una sfumatura di stupore. Con il suo tailleur grigio antracite, la camicetta bianca, il trucco impeccabile e sobrio sembrava tutto fuorché una puttana. Chiunque fosse entrato in aula e l'avesse vista seduta lì, vicino a me fra le copie del fascicolo, avrebbe pensato che era un'avvocatessa. Solo molto, molto più carina della media.
Sbrigate le formalità il giudice diede la parola al pubblico ministero.
Era un giovane magistrato dall'aria sciatta e annoiata. Sostituiva quello che aveva condotto le indagini e non faceva niente per nascondere il suo tedio. Non mi era molto simpatico.
Disse che la penale responsabilità dell'imputata emergeva pacificamente dagli atti del procedimento, che una completa ricostruzione di fatti e responsabilità era già contenuta nell'ordinanza di applicazione della custodia cautelare, e che la pena adeguata da applicare per questo caso, indubbiamente grave, era la reclusione per anni 3 e la multa di euro duemilacinquecento. Fine della requisitoria.
Nadia socchiuse gli occhi per un secondo, sentendo quelle richieste, e scosse la testa come per scacciare un pensiero molesto. Il giudice mi diede la parola.
«Signor giudice. Potremmo facilmente difenderci nel merito, esaminando punto per punto gli esiti delle indagini e dimostrando come in nessun modo emerga, a carico della mia assistita, un comportamento di sfruttamento, o anche solo di favoreggiamento dell'altrui prostituzione».
Era falso. Esaminando punto per punto gli esiti delle indagini emergeva esattamente che Nadia aveva organizzato, coordinato, gestito un imprecisato ma comunque ampio numero di donne dedite alla prostituzione.
Appunto.
Ma noi avvocati abbiamo un riflesso condizionato. Comunque sia, il nostro cliente è innocente, e tutto il resto. Non riusciamo a trattenerci.
«Ma il compito di un difensore», proseguii, «è anche quello di individuare e proporre al giudice ogni questione che, in prospettiva preliminare, consenta una decisione rapida ed economica».
E spiegai qual era la decisione rapida ed economica. Spiegai che le intercettazioni erano inutilizzabili, perché alcuni decreti erano del tutto sprovvisti della motivazione. La mancanza di motivazione è un vizio insanabile, per un provvedimento di intercettazione. Dissi che se quelle intercettazioni erano inutilizzabili – ed erano inutilizzabili, non era possibile nemmeno guardarle, e a carico della mia cliente rimaneva niente altro che un castello di congetture, eccetera eccetera.
Mentre parlavo il giudice sfogliava il fascicolo.
Quando finii si ritirò in camera di consiglio e ci rimase quasi un'ora. Poi uscì e lesse una sentenza di assoluzione con formula: perché il fatto non sussiste.
Bravo Guerrieri, mi dissi mentre il giudice leggeva. Poi salutai con molta cordialità – noi avvocati salutiamo sempre con cordialità i giudici, quando assolvono i nostri clienti – e uscii dall'aula insieme a Nadia.
Aveva le guance arrossate, come quando sei stato in un ambiente molto riscaldato, o quando ti sei molto agitato. Tirò fuori un pacchetto di Marlboro oro e se ne accese una usando uno zippo.
«Grazie» disse dopo aver tirato un paio di boccate avide.
Feci un cenno del capo, modesto. Ma ero molto soddisfatto.
Mi disse che sarebbe passata il pomeriggio in studio. Per saldare. Poi, dopo avermi guardato in faccia per qualche secondo, mi chiese se poteva dirmi una cosa. Certo che poteva, risposi.
«Lei è un avvocato molto bravo, per quello che posso capire io. Ma è anche qualcosa di più. Faccio un lavoro per cui ho imparato a conoscere gli uomini, e a riconoscere quelli che ne varrebbero la pena. Le rare, rarissime volte che li incontro. Ho avuto due avvocati, prima di lei. Tutti e due mi hanno chiesto – come dire – una integrazione della parcella, direttamente in studio, chiudendo a chiave la porta. Penso che per loro fosse normale, in fondo sono una puttana, e così...».
Aspirò con forza la sigaretta; io non sapevo che dire.
«E così niente. Lei, oltre a farmi assolvere, mi ha trattata con rispetto. E questo non me lo dimenticherò. Quando vengo in studio le porterò un libro. Oltre ai soldi, ovviamente».
Poi mi strinse la mano e andò via.
Decisi di andare a prendermi un caffè, o qualcos'altro. Ero leggero come dopo un esame all'università. O dopo aver vinto un processo, appunto.
Nel corridoio che portava al bar, davanti a me vidi Dellisanti, in mezzo ad un gruppo di praticanti, giovani avvocati, segretarie. Dopo la sua telefonata in studio non ci eravamo risentiti.
Il mio primo impulso fu di girare sui miei passi, uscire dal palazzo di giustizia e andare a prendermi quel caffè in un bar di fuori. Per evitare l'incontro. Rallentai anche, e mi ero quasi fermato quando a voce alta, nella mia testa, sentii dire: "Sei rincoglionito del tutto? Hai paura di quel trombone e della sua banda di scagnozzi ? Il caffè te lo prendi dove ti pare e loro si fottano". Testualmente così. A volte mi capita.
Così accelerai di nuovo, superai Dellisanti ed il suo codazzo fingendo di non vederli ed entrai nel bar.
Mi raggiunsero al bancone mentre stavo ordinando una spremuta di arancia.
«Ciao Guerrieri». Cordiale come un pitone.
Mi voltai come se solo in quel momento mi fossi accorto della loro presenza.
«Ah, ciao Dellisanti».
«Allora che mi dici?».
«In che senso?».
«Hai verificato quello che ti ho detto? Su quella signorina, intendo dire».
Non sapevo che dire. Mi seccava dargli qualsiasi tipo di risposta e quell'uomo sapeva come mettere a disagio l'interlocutore. Senza dubbio.
In realtà avrei dovuto dirgli che lui pensasse a difendere il suo cliente. Imputato di reati gravi. Io avrei pensato a difendere la mia cliente. Persona offesa degli stessi gravi reati. Avrei dovuto dirgli di non provare mai più a farmi telefonate del tipo di quella di qualche giorno prima, che gliene avrei fatta passare la voglia. Insomma, risposte da uomo.
Invece arrangiai qualcosa del tipo che le cose non sono come sembrano, e comunque erano diverse da come gliele avevano raccontate. E insomma, poi non sapevo come tirarmi fuori solo qualche giorno dopo aver accettato l'incarico. Senza un pretesto valido, niente. Magari fra qualche settimana, o qualche mese, vedendo come andava il processo potevamo riparlarne.
Insomma, risposte da vigliacco.
«Va bene, Guerrieri. Io quello che ti dovevo dire te l'ho detto. Fai un po' come credi, poi ognuno si prende le sue responsabilità e paga le conseguenze delle sue azioni».
Si girò e andò via. Con lui tutti gli altri, in formazione.
Perfettamente addestrati.
Dopo una manciata di secondi scossi la testa, con un movimento simile a quello che fanno i cani quando sono bagnati e vogliono togliersi l'acqua di dosso, e poi andai alla cassa del bar per pagare.
«Ha già fatto l'avvocato Dellisanti» disse il cassiere.
Stavo per rispondergli che la mia spremuta me la pagavo io, o qualcosa di simile. Poi pensai che era meglio evitare il ridicolo. È sempre meglio, nei limiti del possibile. Così annuii, feci un cenno di saluto e me ne andai.
Il buon umore per il risultato del processo di quella mattina era scomparso.
Martina e suor Claudia vennero in studio il giorno prima dell'udienza.
Non arrivai subito al punto. Ci girai attorno per un po', come faccio quasi sempre. Per prima cosa dissi a Martina che non era necessario si presentasse l'indomani. In quell'udienza ci sarebbero state solo questioni preliminari, atti introduttivi e richieste di prova. Per quello bastava che ci fossi io. Non c'era bisogno che perdesse una giornata di lavoro, dissi. Non c'era bisogno che si spaventasse prima del necessario. Pensai. Lei sarebbe venuta solo all'udienza nella quale avremmo dovuto esaminarla, fra qualche settimana presumibilmente.
Mi chiese cosa sarebbe successo, esattamente a quella udienza. Ecco. Il punto.
Glielo dissi cosa sarebbe successo, con tutta la cautela di cui ero capace.
Sarebbe stata interrogata prima dal pubblico ministero; poi anch'io le avrei fatto qualche domanda. Infine sarebbe stato il turno della difesa.
«Qui viene la parte più... complessa. L'accusa si basa sostanzialmente sulla sua parola e così l'obbiettivo dell'avvocato di Scianatico è molto semplice: screditarla. Cercherà di farlo con ogni mezzo. Cercherà di farla cadere in contraddizione; cercherà di provocarla e farle perdere la calma. È improbabile che si comporti gentilmente, e se lo fa sarà solo per farle abbassare le difese».
Feci una pausa, prima di dirle la parte peggiore. La guardai in faccia. Sembrava calma. Un po' vaga, ma calma.
«Tirerà fuori i suoi problemi di salute, Martina. Tirerà fuori la storia del ricovero e il fatto che ha avuto problemi... cure psichiatriche».
Martina non cambiò espressione. Forse ci fu solo un aumento della vaghezza nello sguardo. Forse. Però sentii quasi immediatamente l'odore. Intenso e leggermente acido. Sono sempre stato capace di sentire gli odori delle persone, di riconoscerli, e di accorgermi quando cambiano.
Da bambino quando entravo in ascensore sapevo dire sempre quale dei condomini ci era passato prima. E avevo anche dei nomi, per gli odori. Per esempio c'era una signora che abitava nel nostro palazzo che dava un odore di minestra di fagioli. Una ragazza triste, occhialuta e pallida dava un odore di carta vecchia e polvere. Il padrone di una salumeria lasciava in ascensore un odore caldo e compatto che occupava lo spazio e metteva a disagio. Tanti anni dopo ne ho sentito uno uguale in una bottega ad Istanbul. Era così somigliante che per un attimo pensai che il signor Curci potesse apparire all'improvviso, da qualche parte, con il suo grosso collo, la sua piccola testa, le sue braccia corte e massicce.
Passò qualche secondo prima che riuscissi a sfuggire a quel cortocircuito olfattivo ed a ricordarmi che quel signore era morto dieci anni prima, quando ancora abitavo dai miei genitori. E dunque non poteva aggirarsi per le botteghe di Istanbul.
Spesso mi accorgo se una donna è indisposta, dall'odore. È una cosa che di solito non vado a dire in giro, perché non è esattamente il genere di notizia che mette a proprio agio le signore. Sono capace di sentire e riconoscere l'odore della paura, che è molto brutto, rancido e ancestrale. L'ho sentito tante volte nelle questure, nelle caserme dei carabinieri, nelle carceri, assistendo agli interrogatori dei miei clienti. Di quelli più disperati, più deboli o solo più vigliacchi quando capiscono di essere davvero nei guai, o proprio di non avere scampo.
La prima volta fu quando, appena diventato procuratore legale, mi trovai ad assistere d'ufficio un omino accusato di omicidio. Mi chiamarono in questura di notte – ero di turno – perché dovevano interrogarlo con urgenza. Dicevano che aveva accoltellato un energumeno che poco prima lo aveva preso a schiaffi e pugni in un bar. Dicevano che c'era un testimone che lo aveva visto. L'omino – spalle strette e un po' curve, faccia smarrita da piccolo predatore – si difendeva negando tutto. Non è vero, non è vero, non è vero ripeteva scuotendo la testa con una voce quasi monotona e fuori posto, vista la situazione.
Chiedeva di essere messo a confronto con il testimone; che si sbagliava e sicuramente si sarebbe reso conto dell'errore, guardandolo in faccia. Era convincente, nella grigia essenzialità della sua difesa, ed a me venne il dubbio che i poliziotti avessero preso un grosso granchio. E credo che il dubbio venne anche al sostituto procuratore che lo stava interrogando.
Poi ci fu il colpo di scena. Nella stanza dove si svolgeva l'interrogatorio entrarono due poliziotti; uno di loro portava un sacchetto di plastica trasparente, attraverso il quale si vedeva un grosso coltello di quelli tipo rambo, con la lama sporca di sangue. I due poliziotti avevano la faccia del gatto che porta in bocca un topo.
Quello con il sacchetto lo fece dondolare davanti agli occhi dell'omino.
«E adesso sei proprio fottuto, stronzetto. Era meglio se ce lo facevi ritrovare tu. Adesso non sappiamo che farcene della tua confessione. Ci sono più impronte qua sopra che in tutto l'archivio della questura. E queste sono tutte tue».
Si capiva bene che il poliziotto avrebbe voluto sottolineare le sue parole con un paio di schiaffi ben dati. Ma purtroppo non si poteva – dovette pensare – davanti al giudice e all'avvocato.
Non mi ricordo cosa successe dopo, esattamente. L'uomo smise di negare e poco dopo confessò, questo è certo. Ma non ricordo bene la sequenza, e quello che disse, e quello che gli chiedeva il pubblico ministero, e quello che anch'io dissi per dare un senso alla mia inutile presenza.
A quel punto non era importante. Quello che mi ricordo bene invece è l'odore, che in breve riempì quella piccola stanza della questura. Coprendo la puzza di fumo – quello freddo di anni e quello caldo di una notte di interrogatori – gli odori delle persone, della carta, della polvere, degli avanzi di caffè nei bicchierini di plastica.
Era un odore acre, invadente e un po' osceno. Inconfondibile per me, dopo quella notte.
Subito dopo aver detto a Martina che l'avvocato di Scianatico avrebbe frugato fra i suoi problemi personalissimi, sentii quell'odore. Non fortissimo, ma inequivocabilmente quello. E non fu piacevole. Cercai di ignorarlo mentre cominciavo a darle istruzioni su come comportarsi.
«Come abbiamo detto, cercherà di provocarla. E dunque la prima regola è: non accettare le provocazioni. È quello che vuole e noi non glielo dobbiamo dare».
«Come... come può cercare di provocarmi?».
«Tono di voce; insinuazioni; domande aggressive».
Prima di proseguire feci una breve pausa. Per respirare, e lanciare un'occhiata a suor Claudia. La sua faccia aveva l'espressione vivace di una statua dell'isola di Pasqua.
«Riferimenti ai suoi problemi... come le ho detto».
«Ma cosa c'entrano i miei problemi con il processo ?».
Già, cosa c'entravano? Buona domanda. Se hai avuto bisogno di uno psichiatra non puoi fare il testimone? E l'avvocato? L'avvocato lo puoi fare? mi chiesi prima di rispondere, ricordandomi frammenti angosciosi del mio passato.
«In astratto, e sottolineo: in astratto, la circostanza che un teste abbia avuto qualche... problematica di disagio, può essere rilevante. Per valutare l'attendibilità di quello che dice, per ricostruire meglio la storia delle sue dichiarazioni, eccetera. In concreto noi – voglio dire, sia io che il pubblico ministero – staremo attentissimi per impedire abusi. Però non sarebbe una buona idea opporsi ad ogni domanda sulle sue difficoltà di salute...».
Problematiche di disagio. Difficoltà di salute. Mi fermai a pensare che stavo facendo delle vere acrobazie verbali per non chiamare le cose con il loro nome.
«... sulle sue difficoltà di salute, perché potrebbe sembrare che abbiamo qualcosa da nascondere. Così la mia idea è questa, se voi... se lei è d'accordo. Giochiamo d'anticipo. Quando toccherà a me interrogarla, sarò io il primo a farle domande su questi argomenti. Ricovero, terapie psichiatriche, eccetera. Così facciamo emergere il fatto con tranquillità, facciamo vedere che non abbiamo niente da nascondere, gli togliamo l'effetto sorpresa e la suggestione sul giudice, riduciamo il rischio di momenti di tensione. Che ne dice?».
Martina si voltò a guardare suor Claudia; poi guardò di nuovo me; fece un sì meccanico con la testa. L'odore era diventato più acuto, e mi chiesi se suor Claudia potesse sentirlo. Se lo sentiva, non si riusciva a capire dalla faccia.
Non si riusciva a capire niente, dalla faccia.
Ripresi a parlare.
«Naturalmente per fare questa cosa c'è bisogno che lei mi racconti tutto, con calma».
Accese una sigaretta. Si guardò attorno come se cercasse qualcosa fra gli scaffali, sulla scrivania o fuori dalla finestra.
Poi mi raccontò tutto. Una storia comune, come tante altre.
Problemi con l'alimentazione, dall'adolescenza. Problemi con lo studio all'università. L'esaurimento nervoso per via di un esame che non riusciva a superare. La depressione, l'anoressia, il ricovero. E poi l'inizio del recupero. I farmaci, la psicoterapia. L'incontro con un'infermiera che lavorava anche come volontaria a Safe Shelter.
L'incontro con suor Claudia, l'impegno nella casa rifugio con le ragazze. La laurea, finalmente. Il lavoro. L'incontro con Scianatico.
E tutto il resto, che in parte sapevo già. Mi disse anche alcune cose che non sapevo, a proposito della convivenza con Scianatico e di certe sue propensioni. Cose molto spiacevoli ma che forse avremmo potuto tirar fuori nel processo, se riuscivo a trovare il modo.
Disse anche qualcosa della sua famiglia. Di sua madre, poco. E di sua sorella minore, che era sposata e adesso aveva anche un bambino. Del padre invece non parlò e mi venne naturale pensare che fosse morto, ma non le feci nessuna domanda.
Il racconto di Martina durò almeno tre quarti d'ora. Sembrava un po' più tranquilla, come se si fosse tolta un peso, alla fine, e mi ripeté che non prendeva più medicine, da almeno quattro anni.
Speriamo non debba prenderle dopo questo processo le medicine, pensai.
«Posso chiederle una cosa?» disse dopo avere acceso un'altra delle sue sigarette.
«Dica».
«Lui sarà in aula quando io verrò interrogata?».
«Non lo so. È libero di venire o non venire; lo sapremo solo quella mattina. Ma per lei deve essere indifferente, che lui ci sia o non ci sia».
«Ma mi potrà fare anche lui delle domande?».
«No. Le domande può fargliele solo il suo avvocato. E a proposito si ricordi questo: quando la interroga, e quando risponde, non guardi verso di lui. Guardi verso il giudice, guardi davanti a sé; ma non verso di lui. Si ricordi che non deve entrare in conflitto con lui, e questo è più facile se evita di fronteggiarlo con lo sguardo. E poi se non capisce bene una domanda non cerchi di rispondere. Cortesemente, senza guardarlo, dica all'avvocato che non ha capito e chieda di ripetere. E se io o il pubblico ministero facciamo una opposizione a qualche sua domanda, lei si fermi, non risponda e aspetti che il giudice decida sull'opposizione. Tutte queste cose gliele ripeterò il giorno prima dell'udienza in cui verrà esaminata, ma cerchi di ricordarle da ora».
Chiesi se c'era qualche altra cosa che volevano sapere. Martina scosse il capo.
Suor Claudia mi guardò per qualche istante. Poi pensò che non era il momento per quella domanda, qualunque fosse. Anche lei fece no con la testa.
«Tutto a posto, allora. Ci risentiamo domani pomeriggio, così vi dico cosa è successo». Dissi così mentre le accompagnavo alla porta.
Non ero affatto convinto che fosse tutto a posto.
Quando furono uscite andai a spalancare le finestre, anche se fuori faceva freddo. Per far cambiare l'aria. Non volevo che l'odore acre della paura rimanesse a lungo lì dentro.
Chiusi studio, tornai a casa, cenai con Margherita e al momento di andare a dormire dissi che scendevo nel mio appartamento. Dovevo lavorare, controllare alcune carte per il processo del giorno dopo e avrei fatto tardi. Non volevo disturbarla e così avrei dormito da me.
Era vero solo che non volevo disturbarla. Ci sono sere in cui sai già che si prepara una notte di insonnia. Non è che ci sia un segno speciale, eclatante ed inequivocabile. Semplicemente lo sai. Quella sera lo sapevo. Sapevo che mi sarei messo a letto e ci sarei rimasto, sveglissimo, per un'ora o poco più. Poi mi sarei dovuto alzare, perché non puoi restare a letto nelle notti di insonnia.
Avrei dovuto girare per casa, avrei letto qualcosa nella speranza che mi facesse venire sonno, avrei acceso la televisione e tutto il resto del rituale.
Non volevo che questo accadesse da Margherita. Non volevo che mi vedesse malato, anche solo di una insonnia occasionale. Mi vergognavo.
Quando le dissi che andavo a casa mia per lavorare lei mi guardò diritto negli occhi.
«Vai a lavorare, adesso?».
«Sì, ti ho detto, c'è questo processo che comincia domani. Ci saranno un sacco di questioni preliminari, è un processo rognoso e insomma devo ricontrollare un po' tutto».
«Sei uno dei bugiardi più scarsi che abbia mai conosciuto».
Rimasi qualche secondo senza dire niente.
«Proprio scarso, eh?».
«Dei peggiori».
Mi strinsi nelle spalle, pensando che una volta ero piuttosto bravo a dire le bugie. Con lei però non mi ero tenuto in esercizio.
«Qual è il tuo problema? Se hai voglia di stare da solo basta dirlo».
Già, basta dirlo.
«Stanotte non credo che dormirò e allora non voglio tenere sveglia anche te».
«Non dormirai? E perché?».
«Non dormirò. Non lo so esattamente perché. A volte mi capita. Voglio dire: di saperlo in anticipo».
Mi guardò di nuovo negli occhi, ma con una espressione diversa, adesso. Si chiedeva quale fosse il problema, visto che io non glielo avevo detto, e forse nemmeno lo sapevo. Si chiedeva se poteva fare qualcosa. Alla fine concluse che quella sera, quella notte non poteva fare niente. Allora mi poggiò la mano sulla spalla, mi strinse per qualche secondo e poi mi diede un rapido bacio.
«Va bene, buonanotte, ci vediamo domani. E se ti viene sonno non rimanere sveglio solo per coerenza».
Me ne andai accompagnato da un senso di colpa indefinito e molesto.
Dopo, andò tutto secondo copione. Un'ora a girarmi nel letto, nella stupida speranza di essermi sbagliato ad interpretare i segni premonitori. Più di un'ora davanti alla televisione a vedere, fino alla fine, Il lupo della Sila, con Amedeo Nazzari, Silvana Mangano, Vittorio Gassman. Tantissimi interminabili minuti a leggere Minima Moralia. Nella speranza, che cercavo di tenere nascosta a me stesso perché il trucco funzionasse, di annoiarmi fino al sonno invincibile. Mi annoiai, ma il sonno non arrivò.
Mi assopii leggermente – una specie di dormiveglia affannoso – solo quando una luce malata ed un leggero, metodico, inesorabile rumore di pioggia cominciavano a filtrare dalle tapparelle, ad annunciare la giornata che si preparava.
Attraversai la città sotto la stessa pioggia, cercando di proteggermi con un ombrello tascabile comprato qualche settimana prima da un cinese. Come di regola al secondo uso – cioè quella mattina – l'ombrello si ruppe, ed io mi bagnai. Quando, poco prima delle nove e mezzo, arrivai in tribunale non ero di buon umore.
L'aula dove teneva udienza Caldarola era nel mezzo di un corridoio di passaggio.
Come tutti i giorni di udienza la confusione era grande. C'erano, mischiati fra loro, gli imputati, i loro avvocati, i poliziotti ed i carabinieri che dovevano deporre, alcuni pensionati che trascorrevano le loro mattinate interminabili a vedersi i processi invece che giocare a briscola sulle panchine dei giardinetti. Ormai li conoscevano tutti e loro conoscevano e salutavano tutti.
A qualche metro di distanza da questo gruppone c'erano altre persone con foglietti in mano e l'aria spaesata; l'aria di chi non avrebbe voluto essere lì.
Avevano ragione. Erano i testimoni dei processi, di regola vittime dei reati. Su quei foglietti c'era scritto che erano obbligati a presentarsi davanti al giudice e che
in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento avrebbero potuto essere accompagnati coattivamente a mezzo della polizia giudiziaria e condannati al pagamento di una somma...
eccetera, eccetera.
Stavano per vivere un'esperienza surreale, nel migliore dei casi. Un'esperienza che non avrebbe aumentato la loro fiducia nella giustizia.
Fra i due gruppi filtrava la folla di passaggio con un movimento ininterrotto. Commessi con carrelli e cumuli di fascicoli, imputati che cercavano la propria aula o il proprio avvocato; agenti di polizia penitenziaria che accompagnavano detenuti in catene; facce nere e sperdute; masnadieri tatuati con modi da cliente abituale di tribunali e questure; altri masnadieri che dopo qualche istante ti accorgevi che erano poliziotti dell'antiscippo; giovani avvocati con abbronzature fuori stagione, grossi colletti, grossi nodi di cravatta; persone normali sparpagliate nel tribunale per i motivi più vari. Quasi mai buoni.
Tutti avrebbero voluto andarsene al più presto. Anch'io.
Seduta su una panca, lo sguardo fisso su un muro sudicio c'era suor Claudia. Con il solito giubbotto di pelle nera, pantaloni di tipo militare a tasconi. Nessuno aveva preso posto vicino a lei. Nessuno di quelli in piedi le stava troppo vicino. Distanza di sicurezza mi comparve scritto in testa per uno o due secondi.
Non so come fece a vedermi, perché appunto aveva lo sguardo apparentemente fisso sul muro davanti a lei ed io arrivavo di lato, fra la folla. Certo è che quando fui a cinque o sei metri da lei, girò la testa come obbedendo ad un comando silenzioso e subito dopo si alzò con quel suo movimento fluido e pericoloso, da predatore.
Mi fermai davanti a lei, a qualche decina di centimetri. Sconfinando in quella bolla dove gli altri non entravano. La salutai con un cenno del capo e lei rispose nello stesso modo.
«Come mai è venuta?».
Mi parve, per una frazione di secondo, di cogliere nella sua faccia qualcosa di simile all'imbarazzo; e un'ombra di rossore. Una frazione di secondo, e forse me lo immaginai soltanto. Quando parlò la sua voce era quella delle altre volte; grigia come l'acciaio di certi coltelli.
«Martina non viene. Glielo ha detto lei. Allora sono venuta io per vedere cosa succede e poi raccontarglielo».
Annuii e dissi che potevamo entrare in aula. L'udienza sarebbe cominciata fra poco ed era meglio essere lì per sentire a che ora sarebbe stato trattato il nostro processo. Mentre dicevo così mi resi conto che non avevo ancora visto Scianatico e nemmeno Dellisanti.
Suor Claudia si sedette a ridosso della balaustra che separa lo spazio destinato al pubblico da quello dove si trovano gli avvocati, gli imputati, il pubblico ministero, il cancelliere. Il giudice. Insomma dove si fa il processo.
Dopo averle spiegato in breve cosa sarebbe successo di lì a poco, andai dal cancelliere che era già seduto al suo posto. Davanti aveva due colonne di fascicoli: i processi che in teoria si sarebbero dovuti celebrare in quell'udienza.
In teoria. In pratica ci sarebbero state sospensioni, nullità, rinvii su richiesta della difesa oppure "per l'eccessivo carico di procedimenti dell'odierna udienza". In pratica, alla fine dell'udienza il giudice non avrebbe deciso che tre o quattro cause al massimo. Caldarola non pensava che l'eccesso di lavoro fosse dignitoso, per un magistrato.
Chiesi al cancelliere di vedere il fascicolo. Volevo controllare le liste dei testimoni del pubblico ministero e della difesa. Io non avevo depositato liste perché davo per scontato che Alessandra Mantovani avesse indicato tutti i testimoni rilevanti.
Il cancelliere mi diede il fascicolo ed io andai a sedermi su uno dei banchi degli avvocati. Tutti ancora vuoti, nonostante la folla di fuori.
La Mantovani, come previsto, aveva indicato tutti i testimoni necessari.
Martina, ovviamente; l'ispettore di polizia che aveva fatto le indagini; un paio di ragazze di Safe Shelter; la mamma di Martina; i medici. Nessuna sorpresa.
Sorprese spiacevoli invece ce n'erano nella lista della difesa.
C'erano una decina di testi che avrebbero dovuto deporre:
1) sui rapporti fra il professor Scianatico e la presunta parte offesa Fumai Martina in costanza di convivenza;
2) in particolare su quanto constatato in occasione delle frequentazioni con il professor Scianatico e la presunta parte offesa;
3) su quanto a loro conoscenza in ordine a patologie fisiche e psichiche della presunta persona offesa e sui risvolti comportamentali di tali patologie;
4) sulle ragioni a loro note della cessazione della convivenza.
Ma il vero problema non erano quei testimoni. Quelli servivano solo a fare il polpettone. Il problema era il nome che concludeva la lista. Il professor Genchi, ordinario di medicina legale e psichiatria forense.
Era indicato come consulente perché riferisse:
... in ordine alle condizioni di salute mentale della presunta persona offesa valutate alla stregua del contenuto delle dichiarazioni testimoniali e delle acquisizioni documentali che verranno richieste; ciò allo scopo di verificare l'idoneità mentale della presunta persona offesa a rendere testimonianza e, in ogni caso, allo scopo di valutare l'attendibilità dei contenuti di tale testimonianza.
Conoscevo quel professore; l'avevo incontrato in molti processi. Era una persona seria, ben diverso da alcuni suoi colleghi, che fanno consulenze compiacenti e ben pagate su criminali detenuti. Per sostenere che hanno gravi malattie psichiatriche, che con quelle malattie non possono assolutamente restare in carcere e che, dunque, devono essere mandati al più presto agli arresti domiciliari. Inutile dire che questi signori, novantanove casi su cento, sono sani come pesci. Inutile dire che quei consulenti lo sanno benissimo, ma di fronte a certi onorari non vanno troppo per il sottile.
Genchi era una persona seria, uno cui i giudici davano ascolto. Giustamente. Non si sarebbe mai prestato a venire a deporre in un processo per dire sciocchezze o per proporre una consulenza addomesticata. Dellisanti aveva scelto uno che non si sarebbe mai fatto forzare la mano per esagerare le sue valutazioni. Questo significava che si sentiva molto sicuro.
Mentre leggevo e mi preoccupavo avvertii una presenza alle mie spalle.
Mi voltai sollevando lo sguardo. Alessandra Mantovani, con la toga già sulle spalle. Mi salutò in modo professionale – buongiorno avvocato – ed io risposi nello stesso modo. Buongiorno dottoressa.
Poi andò a sedersi al suo posto. Aveva la faccia impercettibilmente tesa. Piccole pieghe agli angoli della bocca; gli occhi appena socchiusi. Fui certo che avesse già letto la lista di Dellisanti.
Il commesso che la seguiva depositò sul suo banco due faldoni polverosi, pieni di fascicoli con le copertine scolorite.
Passò qualche minuto e finalmente entrò Dellisanti con il solito codazzo di segretarie, assistenti, praticanti avvocati.
Quasi subito dopo suonò la campanella elettrica che segnalava l'inizio dell'udienza.
Erano arrivati praticamente insieme. L'avvocato dell'imputato e il giudice. Un caso, di sicuro.
I preliminari si esaurirono in fretta.
Il giudice dichiarò aperto il dibattimento e fece leggere i capi di imputazione dal cancelliere; integralmente, come prevede la legge. Di solito non si fa, nella pratica. Il giudice chiede alle parti: "Diamo per letti i capi di imputazione?". Poi, di solito, non ascolta nemmeno la risposta e va avanti. Dà per scontato che a nessuno interessi sentire la lettura delle imputazioni, perché tutti le conoscono già benissimo da prima.
Quel giorno Caldarola non diede per letti i capi di imputazione e così dovemmo ascoltarli tutti dalla voce nasale e carica di un accento greve del cancelliere Filannino da Barletta. Un uomo magro, con la pelle grigiastra, pochi capelli, una smorfia di tristezza cattiva agli angoli della bocca.
Questo non mi piacque. Caldarola era uno che sopra ogni altra cosa desiderava sbrigarsi. Suonava male che perdesse tempo con formalità e questo doveva significare qualcosa, ma non capivo bene cosa.
Dopo la lettura delle imputazioni Caldarola invitò il pubblico ministero a fare le sue richieste di prova. Alessandra si alzò e la toga le scese perfettamente lungo il corpo, senza che ci fosse bisogno di aggiustarla sulle spalle. Come succedeva quasi a tutti e, per esempio, a me.
Parlò pochissimo. In pratica si limitò a dire che avrebbe provato i fatti indicati nelle imputazioni attraverso i testi della sua lista e la produzione dei documenti. Dal modo in cui guardava il giudice, mi resi conto che anche lei aveva una sensazione simile alla mia. Che qualcosa stesse accadendo alle nostre spalle.
Poi toccò a me, ed io dissi ancora meno. Mi riportavo alle richieste del pubblico ministero, chiedevo l'esame dell'imputato, se lui accettava di rispondere, mi riservavo di fare le mie osservazioni sulle richieste della difesa quando le avessi sentite.
«La parola alla difesa dell'imputato».
Dellisanti si alzò.
«Grazie signor giudice. Noi siamo tutti qui, ma non dovremmo esserci.
Infatti ci sono processi che non dovrebbero nemmeno cominciare. Questo è uno di quei processi».
Prima pausa. La testa si girò verso il banco dove eravamo seduti Alessandra ed io. Alla ricerca della provocazione. Alessandra aveva una faccia priva di espressione, e guardava il vuoto, da qualche parte dietro il banco del giudice.
Io non ero così bravo, e invece di ignorarlo gli tenni gli occhi addosso; ma era esattamente quello che voleva.
«Un professionista, un accademico integerrimo, membro di una delle famiglie più importanti e rispettate della nostra città è stato trascinato nel fango da accuse false e originate solo dal risentimento di una donna squilibrata e...».
Mi alzai in piedi quasi di scatto. Avevo abboccato.
«Giudice, la difesa non può fare di queste considerazioni offensive. Men che meno in questa fase, nella quale deve limitarsi alle richieste di prova. Io la prego di invitare l'avvocato Dellisanti ad attenersi scrupolosamente al disposto di legge: indicare i fatti che intende provare e chiedere l'ammissione delle prove. Senza commenti».
Caldarola mi disse che non era il caso di agitarmi. Che poi, se non stavo calmo era esattamente lo stesso. Il gioco non era nelle mie mani.
«Avvocato Guerrieri, non se la prenda così. La difesa deve pur chiarire il contesto e le ragioni delle sue richieste di prova. Altrimenti come faccio a capire se queste richieste sono rilevanti? Lei vada avanti, avvocato Dellisanti. E, avvocato Guerrieri, cerchiamo di evitare ulteriori interruzioni».
Figlio di puttana. Pensai, ma avrei voluto dirlo. Grandissimo figlio di puttana. Cosa ti hanno promesso?
Dellisanti riprese a parlare, a suo agio.
«Grazie signor giudice, lei ha colto perfettamente il senso, come sempre. È infatti evidente che per introdurre i nostri temi di prova devo formulare alcune considerazioni che di tali temi di prova costituiscono la premessa. In sostanza, se vogliamo formulare – come effettivamente faremo – una richiesta di audizione di un consulente psichiatrico, dobbiamo dire, e dobbiamo poter dire, che lo facciamo perché riteniamo la presunta persona offesa affetta da gravi turbe psichiche, che ne compromettono la credibilità e la stessa capacità di rendere testimonianza. Su queste cose, soprattutto quando è in ballo l'onorabilità, la libertà, la stessa vita di un uomo come il professor Scianatico, c'è poco spazio per convenevoli o giri di parole. Piaccia o non piaccia al pubblico ministero e alla parte civile».
Altra pausa. La sua testa si girò di nuovo verso il nostro banco.
Alessandra era una specie di sfinge. Anche se guardandola attentamente si poteva individuare una piccolissima, ritmica contrazione della mascella, poco sotto lo zigomo. Ma appunto, bisognava guardare molto attentamente.
«E dunque in primo luogo noi chiediamo di provare che la presunta» – diceva presunta con un sibilo, quasi uno sputo – «persona offesa è affetta da patologie psichiatriche, che verranno meglio indicate dal nostro consulente, puntualmente indicato in lista, professor Genchi. Un nome che non richiede presentazioni.
«Chiediamo inoltre di provare la sussistenza di tali patologie, le ragioni della separazione a suo tempo verificatasi e più in generale una situazione di grave disadattamento sociale e inadeguatezza personale della presunta parte offesa, attraverso i testi indicati nella nostra lista. Chiediamo anche noi l'esame del professor Scianatico il quale, lo comunico sin d'ora, certamente acconsente ad essere esaminato ed a rispondere alle domande per fornire ulteriori elementi di prova della sua innocenza. Non abbiamo nessuna considerazione da fare sulle richieste di prova del pubblico ministero.
«E nemmeno su quelle della parte civile che, per la verità, non sembra averne fatte di significative. Grazie signor giudice, ho finito».
Dellisanti finì di parlare e già Caldarola stava cominciando a dettare la sua ordinanza.
«Il giudice, sentite le richieste delle parti, ritenuto...».
«Chiedo scusa giudice, avrei qualche osservazione sulle richieste di prova formulate dalla difesa. Se mi da la parola».
Alessandra aveva parlato con una voce bassa e tagliente, appena modulata dal suo leggero accento veneto. Caldarola fece un'espressione un po' imbarazzata e mi parve anche di notare un accenno di rossore sulla sua faccia solitamente giallastra. Come se fosse stato scoperto a fare qualcosa di vagamente vergognoso. Appunto.
«Prego, pubblico ministero».
«Non ho osservazioni sulla richiesta di ammissione dei numerosi testi indicati in lista. Mi appaiono sovrabbondanti, ma non è questione che intendo porre. Non adesso, perlomeno. Voglio dire qualcosa invece sulla richiesta di audizione del professor Genchi, indicato dalla difesa come consulente, specialista in psichiatria. Voglio porre un paio di questioni, su questa richiesta. Una riguarda specificamente la vicenda processuale di cui oggi cominciamo ad occuparci. L'altra ha carattere più generale, sull'ammissibilità di simili richieste. Il professor Genchi ha mai visitato la signora Martina Fumai ? Il professore ha mai almeno visto la signora Martina Fumai? La difesa non ce lo ha detto, mentre ci ha detto con grande, apodittica, e soprattutto offensiva sicurezza che la signora Martina Fumai è una squilibrata. Se, come io credo, il professor Genchi non ha mai visitato la persona offesa di questo processo, allora mi chiedo su cosa dovrebbe vertere la sua deposizione di consulente.
«Perché la difesa, violando nella sostanza il dovere di discovery, non ce lo ha detto. E questa considerazione introduce il secondo problema che voglio porre.
«È possibile richiedere l'espletamento di accertamenti psichiatrici su un testimone – o anche su un imputato senza che dagli atti emerga alcun elemento da cui se ne possa desumere la necessità? A questa domanda di carattere generale bisogna rispondere prima di decidere sull'istanza della difesa. Perché, giudice, accogliere una simile istanza senza che essa sia fondata su qualche elemento di fatto significa creare un pericoloso precedente. Ogni volta che un teste non ci piace, per le più varie ragioni, buone e meno buone, potremo chiedere che venga uno psichiatra a parlarci dei privati, personalissimi problemi di questo teste. E chi non ha problemi personali, disagio psichico, o dipendenze. Magari da alcol. E questi problemi sono solo affari suoi e vorrebbe legittimamente che rimanessero solo affari suoi?».
Scandì le ultime parole voltandosi a guardare Dellisanti, seduto al suo banco.
Fra le varie voci sul suo conto c'era quella di una sua inclinazione ai superalcolici. Anche in orari non convenzionali, come per esempio la prima mattina nei bar dalle parti del suo studio. Quello non si voltò. Aveva una brutta faccia, con le mascelle serrate. Il clima stava diventando pesante.
«E dunque, giudice, io mi oppongo fermamente a che venga ammessa la deposizione del consulente indicato dalla difesa. Almeno fino a quando non ci verrà chiarito in termini concreti su cosa dovrebbe effettivamente riferire, e come le cose su cui dovrebbe riferire possono riguardare l'oggetto di questo processo».
Io mi associai all'opposizione del pubblico ministero. Poi Dellisanti chiese di nuovo la parola. Il suo tono non era più rilassato come all'inizio.
«Io davvero signor giudice non capisco di cosa abbiano paura il pubblico ministero e la parte civile. O forse lo capisco, per essere sinceri, ma voglio evitare gli spunti polemici. E comunque i casi sono due. O la signorina Martina Fumai non ha problemi di natura psichiatrica, e allora non c'è nulla di cui preoccuparsi, nel momento in cui si prospetta l'audizione di uno specialista come il professor Genchi. O la signorina Fumai ha problemi di natura psichiatrica. Ma allora questi problemi – li chiamo così in termini volutamente riduttivi – devono emergere, perché se ne possa valutare l'incidenza sulla capacità di rendere una testimonianza e, più in generale, per valutare l'attendibilità di questa testimonianza. E in ogni caso, signor giudice, allo scopo di evitare il trascinarsi di una polemica e di opposizioni chiaramente strumentali, io posso sin d'ora produrre in fotocopia documentazione medico-psichiatrica riguardante la presunta persona offesa».
Dellisanti prese una cartellina celeste e la protese leggermente, con un gesto vago, verso il giudice. Uno dei suoi addestrati portaborse si alzò di scatto, prese la cartellina e la depositò sul banco del giudice.
A quel punto mi alzai e chiesi la parola.
«Brevemente», mi ammonì Caldarola che adesso cominciava a spazientirsi.
«Solo due parole, giudice» mi sentivo parlare e la mia voce era tesa.
«Innanzitutto ci farebbe piacere sapere come la difesa sia giunta in possesso di queste fotocopie. Anzi, per la verità, ci piacerebbe in primo luogo esaminarle, queste fotocopie, visto che l'avvocato Dellisanti non ha avuto l'amabilità di metterle a disposizione del pubblico ministero e della parte civile. Come, prima ancora che le regole processuali, quelle della cortesia avrebbero imposto».
Dellisanti, che si era appena seduto su una sedia che conteneva a stento il suo enorme culo, si alzò di nuovo con una agilità insospettabile.
Diventò molto rosso, in faccia ed anche sul collo. Il rossore faceva uno strano contrasto con il colletto bianco della camicia. Stretto su un collo brutale, che era quasi il doppio del mio. Urlò che lui non accettava lezioni di procedura, e tanto meno di buona educazione, da nessuno. Urlò altre cose, presumo offensive; ma non le sentii perché anch'io alzai la voce, e in breve l'udienza si trasformò in quello che si dice una indegna gazzarra.
A volte capita. Le cosiddette aule di giustizia raramente sono posti di convegno di gentiluomini. Non quelle che ho visto e frequentato io. Non quella di Caldarola, quella mattina.
Finì nel modo peggiore. Almeno per me. Il giudice disse che mi toglieva la parola. Io dissi che mi sarebbe piaciuta parità di trattamento, fra me e l'avvocato dell'imputato. Lui mi diffidò dal fare insinuazioni offensive e comunque ripeté – "per l'ultima volta" – che mi toglieva la parola. Io non smisi di parlare, e il tono e il volume della voce non erano bassi, né tranquilli.
Lo sapevo che stavo facendo una cazzata. Ma non riuscivo a fermarmi. Proprio come quando da ragazzino, durante le partite di calcio dei campionati scolastici, accettavo le più stupide provocazioni, mi lanciavo nelle risse, e regolarmente venivo espulso.
Finì più o meno come in quelle partite di calcio. Il giudice sospese l'udienza per cinque minuti. Quando rientrò non aveva una faccia cordiale. Per salvare le forme consentì a me e ad Alessandra di consultare il fascicolo di Dellisanti.
C'era la copia di una cartella clinica di una casa di cura privata del nord, dove Martina era stata ricoverata per alcune settimane.
Sia Alessandra che io ci opponemmo nuovamente a quella acquisizione e all'audizione di Genchi. Caldarola dettò a verbale la sua ordinanza con la solita voce monocorde, dove però adesso si intuivano sfumature di astio e di minaccia.
Il giudice,
sentite le richieste delle parti in ordine alle prove;
ritenuto che tutte le prove richieste sono ammissibili e pertinenti all'oggetto del processo;
ritenuto in particolare che è rilevante l'acquisizione della documentazione medico-psichiatrica relativa alla parte offesa ed altresì l'audizione dello specialista in psichiatria, entrambe richieste dalla difesa dell'imputato, allo scopo (come espressamente prevede l'articolo 196 del codice di procedura penale) di valutare le dichiarazioni della suddetta parte offesa e verificarne l'idoneità fisica e mentale a rendere testimonianza;
ritenuto altresì che il comportamento del difensore di parte civile avvocato Guerrieri nell'odierna udienza non sembra immune da censure disciplinari e deve essere quindi sottoposto alla valutazione delle competenti Autorità;
per questi motivi:
ammette tutte le prove richieste dalle parti;
rinvia per l'inizio dell'istruttoria dibattimentale all'udienza del 15 gennaio 2002;
dispone trasmettersi copia del verbale dell'odierna udienza al signor Procuratore della Repubblica in sede ed al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bari perché valutino, per quanto di rispettiva competenza, la sussistenza di profili di responsabilità disciplinare in capo all'avvocato Guerrieri Guido, del Foro di Bari.
«Hai fatto una cazzata» mi sibilò Alessandra mentre uscivamo dall'aula.
«Lo so».
Cercai qualcosa da aggiungere ma non trovai niente. Alle nostre spalle c'era Dellisanti, con i suoi. Parlavano fra loro. Commentavano, ed anche se non distinguevo le parole, non c'erano dubbi sul tono. Soddisfatto.
Salutai Alessandra e accelerai, perché non volevo sentirli. Chi avesse seguito la scena, e avesse visto quello che era successo prima, avrebbe pensato che scappavo.
Suor Claudia, che era stata in aula per tutto il tempo, mi scivolò vicino, senza che mi accorgessi da dove arrivava. Venne via con me, senza fare domande.
*
Non mi fece male, quella volta. Quando finì mi disse che quello era un segreto, fra lui e me. Non dovevo dire niente a nessuno. Se avessi detto qualcosa a qualcuno sarebbero successe cose brutte.
C'era un cucciolo, nel cortile. Era un bastardino bianco e l'avevo chiamato Snoopy. Dormiva in uno scatolone ed io gli portavo da mangiare i nostri avanzi, e qualche volta un po' di latte allungato con l'acqua. Dicevo che era il mio cane, anche se sapevo benissimo che non mi avrebbero mai permesso di portarlo su a casa.
Lui mi disse che se avessi parlato a qualcuno del nostro segreto, il cucciolo sarebbe morto. Io tornai nel cortile, dissi agli altri bambini che non avevo più voglia di giocare e andai ad abbracciare Snoopy. Fu solo allora che mi misi a piangere.
Delle volte che vennero dopo non ho un ricordo così chiaro. Sono confuse, mescolate una all'altra. Sempre in quella camera, con il letto sfatto, la puzza delle sigarette. Gli altri odori. Bottiglie di birra vuote sul comodino, o rovesciate sul pavimento. I rumori che lui faceva, quando stava... finendo. La paura che la mia sorellina, che spesso era nella stanza vicina, potesse entrare, e vederci.
Era passato più di un anno – me lo ricordo bene perché facevo la prima media – quando lui mi disse che stavo diventando grande, e che c'erano delle cose – delle altre cose – che dovevo sapere, e che lui doveva insegnarmi. Era un pomeriggio di pioggia, e mia madre era fuori. Lavorava anche il pomeriggio, quando poteva, perché lui era sempre disoccupato e non ce la facevamo ad andare avanti.
Quella volta mi fece male. Molto male. E il dolore mi rimase per tanti giorni.
Dopo aver finito mi disse che ero una donna, adesso. Mentre me lo diceva mi diede un pizzicotto sulla guancia; con l'indice e il medio. Come un gesto di tenerezza.
In quel momento, per la prima volta, pensai che avrei voluto che morisse.
*
Andare al supermercato mi rilassa. È sempre stato così da quando ero bambino. Allora mia madre ed io andavamo alla Standa di Corso Vittorio Emanuele, scendevamo al piano interrato, prendevamo un carrello e facevamo la spesa.
Mi ricordo il senso piacevole di freddo che si avvertiva scendendo l'ultima rampa di scale, entrando fra i banchi frigorifero e l'odore misto di cibi crudi. La carne nei banchi frigorifero, appunto – le verdure, la salumeria, la plastica; tutto mescolato in un odore unico, complicato e un po' asettico che era "l'odore della Standa", per me.
All'epoca non ce n'erano tanti di supermercati e andare alla Standa era un po' come andare al luna park della Fiera del Levante, che c'era a settembre, poco prima dell'inizio della scuola. Al supermercato della Standa c'erano alcuni prodotti che non si trovavano altrove. Per esempio certi formaggini in vaschetta, dall'aria vagamente esotica, dei quali non ricordo il nome. Ma il sapore sì, quello me lo ricordo bene; davano di prosciutto, una specie di gusto rustico, molto più intenso di quei triangolini che ero abituato a mangiare e che non sapevano di niente.
C'erano dei biscotti francesi che sembravano pasticcini. Erano un articolo di lusso e non si potevano mangiare come i biscotti ordinari, con il latte, per esempio. E c'erano tante altre cose con cui riempivamo il carrello che volevo sempre guidare io; cose che adesso riempiono la mia memoria con i colori sgranati e nostalgici di certe pellicole in superotto.
Credo che a tutti i bambini miei coetanei piacesse andare al supermercato. A me piace ancora adesso. Ci sono dei pomeriggi che non ne posso più dei clienti, delle carte, dello studio, delle telefonate con i colleghi.
Allora mi viene voglia di uscire, per andare in libreria, o al supermercato. Perlopiù me la faccio passare, quella voglia di uscire, perché ci sono altri clienti, altre carte, altri colleghi rompicoglioni con cui parlare al telefono. Qualche volta però, quando sono veramente al limite, esco. E qualche volta prendo la macchina, e me ne vado per un'ora, o anche due, in uno dei giganteschi ipermercati della periferia.
Mi da un senso di libertà girare di pomeriggio fra gli scaffali con un carrello e comprarmi le cose più inutili, il cibo più improbabile, i libri con lo sconto del venti per cento, gli articoli elettronici – che poi non uso mai – in offerta speciale. Quando rientro in studio mi sento meglio; non proprio impaziente di tornare a lavorare ma, insomma, meglio.
Quel pomeriggio ero appunto al mio supermercato preferito. Un capannone immenso nel bel mezzo di una delle periferie più degradate. Un posto quasi irreale.
Ero davanti agli scaffali del cibo etnico e stavo facendo incetta di tacos messicani, riso basmati, barattoli di zuppa di noodles tailandese, quando dalla tasca del giaccone sentii arrivare, in crescendo, le note di oh Susanna.
L'ultima improbabile suoneria con cui avevo personalizzato il mio cellulare. Non riconobbi il numero.
«Pronto?».
«Guido Guerrieri?». Voce di donna.
«Chi parla?».
«Claudia».
Stavo per dire Claudia chi? Poi la riconobbi.
«Ah, ciao».
Subito dopo mi ricordai che ci davamo del lei. Perché mi era venuto di dire ciao, non lo so. Ci fu un istante di silenzio.
«... ciao».
A quel punto ero in imbarazzo. Non sapevo se dovevo darle del tu o del lei, anche se dicendole ciao in qualche modo le avevo dato già del tu.
A volte penso di essere socialmente inadeguato. Scelsi la forma impersonale. Tipica dei socialmente inadeguati, appunto. Quelli che quando incontrano per strada qualcuno cui non sanno come rivolgersi dicono: salve.
«Tutto bene? Ci sono novità?».
«Ho telefonato al tuo studio e mi hanno detto che non c'eri. Allora mi sono ricordata che mi avevi chiamato sul cellulare e che avevo memorizzato il tuo numero. Ti ho disturbato?».
Beh, starei trattando una delicata questione di traffico internazionale di involtini primavera, ma comunque vedrò di trovare un minuto per te, suora. Nessun disturbo, ovviamente.
Mi disse che l'indomani avrebbe tenuto uno stage della sua arte marziale. Era aperto al pubblico, e se avevo ancora voglia di vedere com'era, potevo andare in questa palestra dalle parti del carcere. Lei ed i suoi allievi sarebbero stati lì dalle sei alle nove di sera.
Ero sorpreso, ma dissi che ci sarei andato; lei disse va bene, e riattaccò. Senza salutare.
Il pomeriggio dopo uscii dallo studio alle sei e mezzo facendo rinviare un appuntamento con un cliente che doveva venire a pagare, e che quindi non fece nessuna obiezione. Decisi di andare a piedi, anche se era piuttosto lontano, e alle sette e un quarto ero all'indirizzo che mi aveva dato Claudia.
Era una palestra dove facevano danza, yoga, cose del genere. Si chiamava Corpopsiche ed entrando pensai che stavo per assistere a qualcosa di vagamente esoterico del tipo zen, meditazione, movimenti languidi e spiritualità orientale. Cose per cui non vado matto.
Allora mi sentii improvvisamente un po' a disagio all'idea di perdere un pomeriggio di lavoro in quel modo e così mi dissi che sarei rimasto una mezz'ora per buona educazione. Poi avrei salutato e me ne sarei tornato in studio, magari chiamando un taxi per fare prima.
La palestra aveva il parquet, un grande specchio che occupava tutta una parete, un corrimano per gli esercizi della danza classica. Esattamente quello che mi ero aspettato vedendo l'insegna. C'erano alcune panche, occupate da una decina di spettatori. Mi sedetti in uno dei pochi posti liberi.
Se la palestra corrispondeva a quello che avevo immaginato, le cose che succedevano sul parquet – la lezione – erano molto diverse. C'erano una ventina di allievi, quasi tutti maschi. Indossavano pantaloni neri di tela, magliette bianche a mezze maniche e scarpette nere. Suor Claudia era vestita allo stesso modo, ma la sua maglietta era nera e non bianca.
Doveva essere il segno distintivo del maestro, come una cintura nera o qualcosa del genere.
Quello che facevano non assomigliava affatto alla danza, o allo yoga o a qualche cianfrusaglia new age. Si picchiavano con velocissimi pugni, e calci, e ginocchiate, e gomitate. Non controllavano i colpi, come si fa in molte arti marziali. Non erano movimenti eleganti, ma si capiva benissimo cosa sarebbe successo se quelle tecniche fossero state applicate in una situazione reale, in mezzo ad una strada, in una rissa.
Ero stupito, anche se, in un certo senso, quello che vedevo era coerente con le sensazioni che mi aveva comunicato suor Claudia, quando ci eravamo incontrati.
Mentre seguivo l'allenamento mi venivano in mente le parole, in sequenza, per nominare quelle sensazioni. Diretta, veloce, brusca, aggressiva. Cattiva.
La parola cattiva, come le altre, mi si materializzò spontaneamente in testa. In libera associazione; in sequenza, appunto. Non appena la sentii pronunciare dalla mia voce interna mi sentii a disagio come se l'avessi detta ad alta voce. O come se avessi scoperto e nominato una cosa che era meglio rimanesse nascosta.
Claudia, la suora cattiva.
Ad un certo punto dell'allenamento suor Claudia prese da una borsa un lungo fazzoletto nero, se lo passò sugli occhi, lo annodò dietro la nuca. Poi assunse una specie di posizione da combattimento mentre quello che sembrava l'allievo più esperto si metteva davanti a lei, vicino.
Era un ragazzo alto almeno un metro e novanta, con i capelli rasati a zero e l'aria pericolosa.
Ad un segnale silenzioso ed invisibile lo studente cominciò a sferrare pugni verso il viso di Claudia, e lei cominciò a pararli. Tutti, ad occhi bendati.
Ho fatto pugilato per tanti anni. Ho visto, dato, parato, schivato e soprattutto preso un sacco di pugni. Nelle palestre, sui ring dei dilettanti, e anche per strada. Prima di quella sera non avevo mai visto una cosa del genere.
Si muovevano con un ritmo preciso e regolare che mi fece tornare in mente un documentario sul circo visto tanti anni prima. La televisione era ancora in bianco e nero e c'era un signore piuttosto anziano dall'aria simpatica che, sulla pista di un circo con le gradinate deserte, faceva scuola di giocoleria ad un gruppo di ragazzini. Anche lui aveva gli occhi bendati e faceva girare in aria tre, o quattro, o cinque palle senza farle mai cadere e procedendo sempre con lo stesso ritmo. Preciso e regolare. Sembrava avesse dei magneti sulle mani, e che le palle ne fossero inevitabilmente, fatalmente attratte.
Claudia faceva più o meno la stessa cosa, con i cazzotti lanciati verso la sua faccia al posto delle palle. Aveva le mani magnetiche e con quelle mani magnetiche attirava e deviava i pugni, rendendoli innocui come palle di pezza.
Nel pugilato ci avevano sempre detto di non chiudere mai gli occhi. Quando si attaccava e soprattutto quando ci si difendeva. Non bisognava mai perdere il controllo della situazione. Vedere quello che faceva l'avversario, percepire con gli occhi il suo movimento appena cominciava, ed essere pronti a reagire; parare, o schivare e contrattaccare. Mi ero sempre trovato a mio agio con questa idea. Occhi aperti, sempre. Associavo gli occhi chiusi alla paura, e gli occhi aperti, banalmente, al coraggio. Guardare diritto in faccia il problema, o l'avversario, o quello che sia. Una delle mie poche certezze.
Ad un certo punto il ritmo regolare parve alterarsi. Impercettibilmente i pugni, o le parate, diventarono più veloci e poi in un attimo fu tutto finito.
L'allievo era a terra e suor Claudia su di lui. Gli torceva un braccio e gli teneva un ginocchio sulla faccia. Non ero riuscito a seguire bene il movimento che aveva portato a quella conclusione.
Lei si tolse la benda e tutti insieme fecero degli esercizi di rilassamento. Poi gli allievi si misero in fila davanti alla maestra. Si salutarono con un leggerissimo inchino, tenendo il pugno destro nel palmo della mano sinistra, le braccia flesse davanti al petto.
Solo allora lei sembrò accorgersi della mia presenza e venne verso di me, mentre la classe lasciava il parquet, verso gli spogliatoi.
Mi alzai, lei mi salutò con un cenno del capo, ed io risposi allo stesso modo.
Ero curioso adesso, avevo voglia di fare delle domande e mi ero del tutto dimenticato il progetto di prendere un taxi e tornare in studio.
«Non avevo mai visto una cosa del genere» dissi, senza un particolare sforzo di originalità. Gli incipit e le partenze non sono mai stati il mio forte. Lei non rispose niente, perché non c'era niente da rispondere.
«Non mi ricordo, come si chiama esattamente questa disciplina?» riprovai.
«Si chiama Wing Tsun».
«Non è proprio una cosa da ragazzine».
«La maggior parte delle cose da ragazzine, come quelle da ragazzini, non sono interessanti. La leggenda racconta che il Wing Tsun fu ideato da una monaca, per consentire anche a persone fisicamente deboli di prevalere su avversari molto grossi e forti. Del resto leggende del genere esistono in tutte le arti marziali. La più bella è quella sulle origini del ju-jutsu. Quella del medico giapponese e del salice piangente. La conosci?».
«No. Raccontamela».
«C'era un medico, nel Giappone antico, che aveva passato molti anni a studiare i metodi di combattimento. Voleva scoprire il segreto della vittoria ma era insoddisfatto, perché alla fine in ogni sistema a prevalere era la forza, o la qualità delle armi, o espedienti ignobili. Questo significava che per quanto uno si allenasse e studiasse le arti marziali, per quanto fosse forte o preparato, avrebbe sempre potuto trovare un altro più forte, o meglio armato, o più scaltro, che l'avrebbe sconfitto».
Si interruppe, come se le fosse passato per la testa un pensiero molesto.
«Ti interessa davvero o vuoi solo essere gentile?».
Cosa si risponde a una domanda del genere? Fatta da una signorina – una suora – che ha appena finito di pestare un energumeno di un metro e novanta, come se stesse facendo un gioco di prestigio? Niente, si risponde. È chiaro.
Mi limitai a guardarla in faccia con una espressione leggermente buffa del tipo: potremmo-anche-fìnirla-con-queste-schermaglie. O anche: non-sono-il-tipo-che-dice-una-cosa-solo-per-essere-gentile.
Incredibilmente funzionò. I suoi tratti si rilassarono un poco, e la sua faccia per la prima volta perse un po' della sua durezza. Trasformandosi. Carina, mi scappò di pensare, ma subito repressi il pensiero, vergognandomene. Anche se molto, molto strana, Claudia era una suora; ed io dalle suore avevo fatto tutte le scuole elementari. Certi schemi, certi modelli, certe associazioni sono molto difficili da abbandonare, se hai fatto le elementari dalle suore. Non si dice, e nemmeno si pensa che una suora è carina.
Claudia riprese a raccontare senza fare altri commenti. Io smisi di pensare alle suore, in generale ed in particolare; e ai miei banali tabù.
«Insomma, questo medico era avvilito, perché non faceva progressi nella sua ricerca. Un giorno d'inverno era seduto vicino ad una finestra, mentre fuori nevicava da ore. Guardava fuori, seguendo i suoi pensieri. Tutto il paesaggio era imbiancato, con tanta, tantissima neve. I prati, le rocce, le case erano coperti di neve. Ed anche gli alberi. I rami degli alberi erano carichi di neve, e a un certo punto il medico vide il ramo di un ciliegio che cedeva per il peso della neve, e si spezzava. Poi successe la stessa cosa con una grossa quercia. Era una nevicata mai vista».
Certamente io ho un'indole infantile. Mi piace che mi raccontino delle storie, se chi le racconta è bravo. Claudia era brava ed io volevo sapere come andava a finire.
«Nel parco, un po' più lontano dalla finestra, c'era uno stagno e intorno dei salici piangenti. La neve cadeva anche sui rami dei salici, ma non appena cominciava ad accumularsi, quei rami si piegavano e la neve cadeva a terra. I rami dei salici non si spezzavano. Vedendo quella scena il medico provò un improvviso senso di esultanza e si rese conto di essere giunto alla fine della sua ricerca. Il segreto del combattimento era nella non-resistenza. Chi è cedevole supera le prove; chi è duro, rigido, prima o poi viene sconfitto, e spezzato. Prima o poi troverà qualcuno più forte. Ju-jutsu significa: arte della cedevolezza. Il segreto era la cedevolezza. Nel Wing Tsun è più o meno la stessa cosa».
Pensai che se il segreto era la cedevolezza, non sembrava che lei se ne fosse impossessata del tutto. Per dirla chiaramente: Claudia non dava l'impressione di una persona cedevole.
Lei mi lesse nel pensiero. O più probabilmente si limitò a proseguire il discorso che aveva in mente.
«Ovviamente bisogna intendersi su cosa significhi cedevolezza. Significa resistere fino ad un certo punto, e poi sapere esattamente in quale momento cedere, e sviare la forza dell'avversario, che alla fine si ritorce contro di lui. Il segreto dovrebbe essere nel saper trovare il punto di equilibrio fra resistenza e cedevolezza; cedevolezza e resistenza; debolezza e forza. Il principio della vittoria dovrebbe essere tutto qui. Fare esattamente il contrario di quello che l'avversario si aspetta, e che a te verrebbe naturale, o spontaneo. Qualunque cosa significhino queste due parole».
Già, pensai. Vale anche per altro. Fare esattamente il contrario di quello che l'avversario si aspetta, e che a te stesso verrebbe naturale o spontaneo.
Qualunque cosa significhino queste due parole.
Mi venne in mente un libro che avevo letto qualche mese prima.
«È una bella storia. Mi ricorda quello che dice Sun Tzu in quel libro di strategia militare cinese».
Una sfumatura di stupore le attraversò la faccia. Che ne sapevo io, di Sun Tzu, della strategia militare cinese e tutto il resto ?
«L'arte della guerra».
«Appunto. Dice che la strategia è l'arte del paradosso».
«Giusto. Hai letto quel libro?».
No, ho un manuale con tutte le citazioni utili per ogni circostanza. Questa l'ho presa dal capitolo: Come impressionare le suore maestre di arti marziali.
«Sì».
«Perché?».
Che cazzo di domanda. Perché? Perché si legge un libro? Che ne so? Perché mi andava. Perché me lo sono trovato davanti quando non avevo niente da leggere, o da fare. Perché mi ha incuriosito la copertina; o il titolo. O due parole messe una vicina all'altra, in una pagina aperta a caso.
Perché si legge un libro ?
«Non lo so. Voglio dire, non c'è un perché. L'ho visto in libreria, l'ho preso e l'ho letto. Questa storia del paradosso era quella che mi aveva colpito di più, anche se non ero sicuro di aver capito, quando l'ho letto. Adesso mi sembra più chiaro».
Claudia mi guardò ancora qualche istante in faccia. Non era più sicura della classificazione che mi aveva attribuito, qualunque essa fosse.
Poi piegò le labbra, per una frazione di secondo. La sua idea di un sorriso. Il primo. Alzò la mano a fare ciao; un gesto un po' goffo, questo, e simpatico.
Poi, senza dire niente altro si girò e andò verso gli spogliatoi. Senza aspettare la mia risposta.
Così uscii dalla palestra e guardai l'orologio. Non avrei preso nessun taxi, e del resto non sarei nemmeno tornato in studio.
Erano quasi le dieci, ed era ora di andare a casa.
Mi misi in movimento a testa bassa. Camminando veloce verso il centro, fra negozi chiusi, circoli ricreativi e pub, mescolavo nella testa tutto quello che avevo visto e sentito.
A Bari Vecchia, proprio di fronte al fossato del Castello Svevo, tanti anni fa c'era una pizzeria. Piccolissima, una sola stanza con il bancone del pizzaiolo, il forno, la cassa. Da Nino, si chiamava. Non c'erano tavoli – e dove li dovevano mettere?
Facevano solo la pizza Margherita e la romana con le acciughe. Il pizzaiolo era un uomo sulla cinquantina, piccolo e magro, con la faccia scavata, gli occhi febbricitanti che non guardavano nessuno. Poggiava le pizze bollenti con la pala, su un minuscolo piano di marmo dove un ragazzo grasso, con la faccia butterata ed ostile, le incartava ad una ad una e ce le consegnava con gesti bruschi. Come se volesse toglierci di torno al più presto perché, chiaramente, noi non gli eravamo simpatici. Nessuno gli era simpatico.
Noi eravamo quattro amici e andavamo a mangiarci le pizze con le mani, sul muretto del fossato. La pizza migliore di Bari, dicevamo scottandoci lingua e palato, cercando di evitare che la mozzarella incandescente ci finisse sugli abiti.
Non lo so se era davvero la pizza migliore di Bari. Forse era solo una pizza normale, come tante altre; ma noi ci sentivamo molto bohémien a sconfinare di sera nella città vecchia, che allora era un posto proibito e pericoloso. Forse era solo una pizza normale, ma noi avevamo vent'anni e la mangiavamo, e bevevamo la birra Peroni dalle bottiglie grandi, e poi accendevamo le nostre sigarette stando seduti su quel muretto. Restavamo lì a parlare, e a fumare, e a bere birra fino a tardi, tollerati dagli abitanti della zona; fino a quando gli abitanti della zona non se ne andavano a dormire e la pizzeria chiudeva.
Non mi ricordo di cosa parlavamo. Solite cose di ragazzi di vent'anni, credo. Ragazze, politica, sport, libri che leggevamo – o che avremmo voluto scrivere – di come avremmo cambiato le cose, e lasciato un segno, se non ci avesse preso la stanchezza. Come era successo agli altri.
Quando era molto tardi, in certe sere di primavera avanzata, tornavamo a casa attraversando la città vecchia, completamente deserta. Densa di odori forti, sporca, inquietante e bella.
L'aria vibrava delle nostre possibilità infinite, in quelle sere di primavera. Vibrava nei nostri occhi un po' sfuocati dalla birra, sulle nostre pelli tese e abbronzate, sui nostri muscoli giovani. Sulla nostra voglia rabbiosa di tutto.
Emilio Ranieri si era suicidato di martedì. Il giorno più stupido. Se ne era andato di sera sulla perimetrale dell'aeroporto, dove tanti anni prima andavamo a guardare l'atterraggio notturno dell'ultimo volo da Roma.
Aveva attaccato un tubo di gomma allo scappamento della sua macchina e aveva fatto passare l'altra estremità nell'abitacolo. Poi aveva chiuso tutti i finestrini, aveva acceso il motore e aveva aspettato.
Lo avevano trovato la mattina dopo, quelli della polizia aeroportuale. Nessun biglietto in macchina, nessun biglietto a casa. Niente.
La notizia la seppi nel pomeriggio, mentre ero in studio. Continuai a lavorare come se non fosse successo niente, fino alla chiusura. Quando rimasi solo telefonai a Margherita. Non ci fu bisogno di dirle che non rientravo a casa, quella sera.
Me ne andai in giro per la città, alla ricerca di ricordi, di un senso o di qualcosa d'altro. Che naturalmente non c'era. Andai in giro per i nostri posti. Andai davanti al mare, vicino all'ingresso monumentale della Fiera del Levante; camminai intorno al Teatro Petruzzelli, che non era più un teatro, ma solo un involucro rosso nel centro della città; mi sedetti su una macchina di fronte a dove c'era stato il Jolly, minuscolo, mitico cinema di terza visione. Dove adesso c'è solo una saracinesca chiusa e sporca.
Ogni tanto facevo caso a certi tristi addobbi natalizi, alle luci intermittenti e angosciose sui balconi e nei negozi. Mancavano meno di due settimane a Natale.
A un certo punto mi venne anche in mente di prendere la macchina e andare sulla perimetrale dell'aeroporto. Non lo feci. Per paura dei fantasmi, forse. O forse solo per timore che mi trovasse la polizia, magari mi portasse in ufficio e mi chiedesse cosa ci facevo lì, se c'entravo in qualche modo con il suicidio di Ranieri Emilio e tutto il resto. Non ci andai per non avere grane. Per vigliaccheria.
Alla fine mi ritrovai che era molto tardi davanti al castello, seduto sul muro del fossato, di fronte a dove era esistita la pizzeria Da Nino.
Quella è una zona che non è mai stata invasa dal movimento notturno degli ultimi anni. A poche centinaia di metri c'è un confine invisibile. Di là i pub, le vinerie, le pizzerie, i piano bar, i ristoranti vegetariani, le finte osterie tradizionali; e una fiumana di gente per tutta la notte. Di qua, intorno al castello, appunto, quelli di Bari vecchia. Giusto un paio di vecchi spacci di birra; una signora che d'estate arrostisce la carne su un fornello abusivo per strada; un'altra che frigge le sgagliozze di polenta. Ragazzini che giocano a pallone per strada; pregiudicati, sorvegliati speciali a gruppetti vicino al ponte levatoio. Cioè quello che era stato un ponte levatoio, ma che adesso è un piccolo ponte di pietra e basta. Polizia che ogni tanto arriva e si porta via i sorvegliati speciali, per fare il verbale, come dicono loro.
I sorvegliati speciali hanno il divieto di incontrarsi fra loro, e in generale di frequentare pregiudicati. Se lo fanno commettono un reato. Ma loro lo fanno lo stesso. Gli altri pregiudicati sono i loro amici. Con chi dovrebbero incontrarsi e fermarsi a fare due chiacchiere?
Il loro posto preferito è il ponte del castello. Lo sanno tutti e ovviamente lo sa anche la polizia – la questura è a poche centinaia di metri – che va lì quando ha bisogno di fare un po' di statistica con le denunce.
Quelli della vita notturna non vanno vicino al castello e nemmeno ci si avvicinano. Così la sera tardi, quando la gente del posto è andata a dormire, lì è deserto. Com'era tanti anni prima.
Mi sedetti sul muretto senza sapere perché ero andato lì. Senza sapere perché me ne ero andato in giro. Senza sapere niente. Guardando nel vuoto, senza nemmeno riuscire a mettere a fuoco un ricordo preciso. Un discorso, una voce, qualcosa percepita dai sensi in qualche momento del passato remoto. Nel quale avevamo abitato prima di partire verso il niente.
«Avvocato, tutto a posto? Ci stanno problemi?».
Sussultai, come quando ti scuotono mentre sei sul punto di addormentarti. Era uno spacciatore che avevo difeso qualche anno prima; non mi ricordavo il suo nome. La sua faccia assomigliava al muso di una tartaruga, con qualcosa di bonario e di assente insieme.
«Un mio vecchio amico si è suicidato, e io sono triste. Molto triste».
Quello non disse niente – solo un lieve cenno col capo – e dopo averci pensato qualche secondo si sedette sul muro, vicino a me. Rimanemmo così in silenzio, mentre anche dai vicoli del borgo antico si spegnevano gli ultimi rumori ed io avvertivo una strana sensazione di quiete.
Dopo qualche minuto faccia-di-tartaruga si alzò e sempre senza dire niente mi diede la mano. Mi venne naturale alzarmi in piedi, in segno di rispetto.
Aveva una mano piccola e una presa delicata, ma non debole.
Se ne andò verso la Cattedrale. Io mi incamminai nell'altra direzione, ascoltando il rumore dei miei passi sulle vecchie pietre lucide e deserte.
Dopo quella sera non pensai più ad Emilio. I giorni passarono, fluidi e silenziosi. Senza ritmo, senza colore. Senza niente.
Qualche giorno prima di Natale mi telefonò Claudia. Una telefonata strana. Mi fece gli auguri, io ricambiai e poi rimanemmo in silenzio. Un silenzio carico di imbarazzo. Mi sembrò che avesse chiamato per un motivo preciso, per dirmi una cosa precisa, diversa dagli auguri di Natale; e mentre il telefono squillava avesse cambiato idea.
Rimanemmo in silenzio ed io avevo la strana sensazione di stare in bilico da qualche parte, o su qualcosa. Poi avevamo chiuso senza che io avessi capito. E probabilmente senza che anche lei avesse capito.
Il ventitré dicembre arrivò in studio una cartolina dal Senegal. C'era scritto solo: per Natale e per il nuovo anno. Senza firma.
Era Abdou Thiam, il mio cliente senegalese – venditore ambulante in Italia, maestro elementare in Senegal – che l'anno prima era stato processato con l'accusa di avere rapito e ucciso un bambino di nove anni.
Dopo essere stato assolto era tornato nel suo paese e ogni tanto mi mandava delle cartoline, con poche parole o a volte nessuna. Sempre senza firma e senza il suo indirizzo. Abdou era andato vicinissimo all'ergastolo e quelle cartoline erano il suo modo per farmi sapere che non dimenticava quello che avevo fatto per lui.
Ripensai per qualche minuto a quel processo e a tutti i fatti che erano accaduti subito prima e subito dopo. Mi parve che fosse passata una vita intera, invece che meno di due anni e allora mi dissi che non avevo nessuna voglia di affrontare una riflessione sul senso del tempo e sulla natura dei ricordi. Così misi via la cartolina, in un cassetto insieme alle altre e chiamai Maria Teresa. Per sbrigare le ultime carte, andare via e lasciarmi risucchiare, e stordire, dalle strade affollate e frenetiche.
Per la sera della vigilia di Natale eravamo stati invitati a casa di amici.
Margherita disse che noi due ci saremmo scambiati i regali prima di uscire e così, alle nove, vestiti di tutto punto, ci ritrovammo a casa sua vicino al piccolo albero di Natale decorato con pigne giganti e fette sottili di agrumi essiccati. Erano quasi trasparenti e mandavano riflessi colorati. La casa era piena di odori buoni. Di aghi d'abete, di pulito, di candele profumate, del dolce al cioccolato e alla cannella che Margherita aveva preparato per quella sera di festa. Le casse dell'impianto stereo diffondevano le note allegre di Bright side of the road.
«Sei pericolosamente a mani vuote, Guerrieri? Se tiri fuori da sotto la giacca un altro libro o un disco o qualunque cosa non sia un vero regalo giuro che ti lascio stasera stessa e poi vado a fidanzarmi – per così dire – con un maestro di balli sudamericani».
«Mi ero sbagliato sul tuo conto. Pensavo che fossi una ragazza sensibile, poco materiale, interessata alle arti, alle lettere, alla musica. E comunque non mi sembra di vedere cumuli di regali per me, sotto quest'albero».
«Siediti e aspetta qui» fece lei scomparendo in direzione della cucina. Tornò un minuto dopo, spingendo un enorme pacco, di forma irregolare, confezionato con carta blu elettrico e un fiocco rosso.
«Questo è il tuo regalo, ma se non vedo il mio non ti puoi nemmeno avvicinare».
«Ma non conosci il piacere puro di donare, per la gioia dell'altro, senza contropartite che non siano la sua gratitudine e il suo sorriso? Non conosci...».
«No. Conosco il baratto. Tira fuori il mio regalo».
Scossi la testa. Va bene, visto che non capisci la poesia del donare, vado.
Andai alla porta, uscii sul pianerottolo e tornai dentro portando per il manubrio una bicicletta elettrica rossa, lucida e bellissima.
«Come schiaffo morale ti sembra sufficiente?».
Margherita accarezzò a lungo la bicicletta, come se averla vista non bastasse. Come una persona che conosce le cose toccandole, e non solo guardandole. Poi mi diede un bacio e disse che adesso potevo aprire il mio regalo.
Era una sedia a dondolo, di legno e vimini. Ne avevo sempre desiderata una, da quando ero piccolo, ma non mi ricordavo di averlo mai detto. Mi ci sedetti e provai a dondolarmi chiudendo gli occhi.
«Buon Natale» dissi dopo uno o due minuti. Sottovoce, sempre con gli occhi chiusi, come se stessi parlando da solo in una specie di dormiveglia.
«Buon Natale» rispose – anche lei sottovoce – mentre con le dita mi sfiorava i capelli, il viso, gli occhi.