Capitolo 2

La potenza giovane.

Giovane? Non è proprio il primo aggettivo che viene in mente quando si pensa all’India, un paese che ci domina dall’alto dei suoi cinquemila anni di storia, ricco di monumenti favolosi, di arti e di religioni che risalgono alla notte dei tempi. Eppure la forza dell’India oggi è la sua giovinezza, l’aspetto che cattura l’attenzione degli esperti occidentali.

Misurato nella ricchezza del Prodotto interno lordo, il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti è fissato tra soli ventotto anni, nel 2035. Poi nel 2050 sarà l’India a superare l’economia americana agganciando quella cinese. A quel punto la gara tra i due giganti asiatici potrà dare un esito sorprendente. Per non aver saputo controllare il boom delle nascite, è l’India ad avere una marcia in più: la forza lavoro più giovane del mondo. Lo scenario elaborato dalla banca Goldman Sachs domina l’attenzione del World Economie Forum, il vertice dei Vip dell’economia globale che si riunisce ogni anno sulle montagne dei Grigioni. «Shifting Power», lo spostamento del potere, è il titolo dato all’edizione 2007 del summit di Davos. I leader del capitalismo riuniti in Svizzera concordano sulla direzione di marcia: lo spostamento del potere è dagli Stati Uniti verso «Cindia». Le dinamiche della competitività e la forza della demografia giocano in profila all’orizzonte una nuova sfida per il primato mondiale tra Cina e India. A breve termine i numeri promuovono Pechino: crescita del Pil, produttività, esportazioni, attrazione degli investimenti esteri. Ma in pochi decenni l’equazione potrebbe essere sovvertita dalla demografia. Il successo della Repubblica popolare nel controllare le nascite -con la politica del figlio unico ha un costo inevitabile. «Per il rapido invecchiamento della sua popolazione» rivela il rapporto Goldman Sachs «la Cina già oggi assomiglia ai paesi ricchi nella sua struttura generazionale. In meno di vent’anni la popolazione cinese sarà più vecchia di quella americana.» A Davos, Min Zhu, vicepresidente della Bank of China, spiega che la Cina oggi risparmia il 50% del suo Prodotto interno lordo e accumula milleduecento miliardi di dollari di riserve valutarie proprio perché è obbligata a preparare lo choc economico dell’invecchiamento. Nei prossimi vent’anni la popolazione cinese sarà cresciuta di altri centocinquanta milioni, raggiungendo il miliardo e mezzo, ma l’incremento sarà concentrato nelle generazioni anziane. L’India avrà trecento milioni di abitanti in più, arrivando anche lei a quota un miliardo e mezzo, ma l’aumento sarà quasi tutto di giovani. Quando la Cina dovrà consacrare risorse crescenti al sistema previdenziale, la forza lavoro indiana sarà ancora nel fiore della giovinezza.

«Oggi l’India ha duecento milioni di giovani fra i 15 e i 24 anni di età, cioè più dell’intera popolazione del Brasile» dice il demografo dell’università di Harvard David Bloom «e il 70% dei suoi abitanti hanno meno di 35 anni.» «Siamo esattamente complementari ai vostri paesi ricchi» commenta il presidente della Confindustria indiana Seshasayee «perché abbiamo la risorsa che a voi mancherà di più: una sovrabbondanza di giovani competitivi, motivati, entusiasti e carichi di ottimismo sul loro avvenire.» Per mezzo secolo l’India avrà il vantaggio di essere il colosso più giovane del pianeta. La sfida indiana richiede altri sforzi: investimenti nell’istruzione, nelle infrastrutture, una liberalizzazione più spinta per attirare investimenti esteri, flessibilità del mercato del lavoro e riduzione dei lacci burocratici. Per sorpassare la Cina, l’India dovrà assomigliarle un po’“di più: nella modernità di autostrade e aeroporti, nello sviluppo manifatturiero, nell’apertura ai mercati globali. Montek Ahluwalia, presidente della commissione Pianificazione di New Delhi, ammette che anche nella politica delle nascite gli capita di invidiare un po’”la Cina: «Non dico che vorrei la regola del figlio unico, ma non mi dispiacerebbe avere una media di due figli per coppia. Il fatto è che noi, a differenza della Cina, queste scelte non possiamo imporle alle famiglie. Sono i limiti, diciamo così, della democrazia.

La riduzione della natalità da noi avviene lentamente, con l’evoluzione del costume, l’urbanizzazione, l’istruzione delle donne». I demografi e gli economisti lo rassicurano: in questo caso la democrazia ha regalato all’India un vantaggio competitivo sul suo grande vicino.

Una recente indagine inglese la consacra come la nazione più ottimista del pianeta, dove il 97% degli imprenditori ha fiducia nel futuro. E il resto del mondo ha scoperto l’India come «l’altra» superpotenza emergente: con una crescita del Pil del 9% e un miliardi di euro all’anno solo per i beni di consumo. I suoi punti di forza ormai sono celebri. Le undicimila università che sfornano due milioni di laureati all’anno, fra cui oltre duecentomila ingegneri. L’eccellenza mondiale nell’informatica e nel software. I laboratori di punta nella biogenetica. La capacità di fornire a basso costo e alta qualità ogni genere di servizi, dai callcenter delle compagnie aeree agli studi legali. Il volto seducente dell’India non interessa solo l’economia. Il regime democratico, lo Stato di diritto, la diffusa conoscenza dell’inglese, la cultura meno distante dalla nostra, ne fanno per molti aspetti la vera alternativa alla Cina: un gigante dal volto buono, rassicurante. Nel dialogo con New Delhi non c’è il macigno dei diritti umani che pesa sulle relazioni con Pechino.

 

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Tata e i capitalisti con un’anima.

Si è comprato un’icona del lusso a New York, The Pierre, che ha aggiunto agli altri quattordici hotel cinque stelle della sua catena Taj, ma non si sognerebbe di possedere un jet privato e tanto meno lo yacht. Da vent’anni abita sempre nello stesso appartamento, confortevole ma semplice, al secondo piano di un palazzo di Mumbai dove vive anche sua suocera. I vicini giurano di non avergli mai visto dare una festa.

Questo è lo stile di Ratan Tata, 68 anni, capo di un impero con 93 società che includono il secondo produttore di tè del mondo (Tata Tea), il numero uno asiatico del software (Tata Consultancy Services), il gigante dell’acciaio Tata Steel, e poi le automobili, i camion, il turismo, la finanza. Un personaggio con cui bisogna fare i conti per capire il miracolo economico indiano, che è fatto anche di uomini, capitani d’industria fuori del comune, innovatori dalla tempra eccezionale. Il fatturato di ventidue miliardi di dollari, Ratan Tata lo ha moltiplicato per sette da quando prese il comando dell’azienda di famiglia nel 1991: un anno chiave per l’India, l’inizio delle riforme con cui Manmohan Singh (oggi primo ministro, allora ministro delle Finanze) iniziò la graduale liberalizzazione dell’economia. Tutta la storia del gruppo Tata, la più antica dinastia capitalistica dell’establishment indiano, si svolge in parallelo con la storia del paese nell’ultimo secolo e mezzo. Il meglio dell’India si identifica con loro, ma nelle vicende del gruppo si sono rispecchiati anche i momenti di debolezza e di declino.

Il capostipite Jamsetji Nusserwanji Tata era figlio di un commerciante parsi di Bombay, membro della minoranza di antica origine persiana la cui religione discende dal culto di Zoroastro. Era un uomo di stampo aristocratico ma con un forte orgoglio nazionalista.

Quando l’impero britannico sembrava ancora nel pieno del suo fulgore lui era già convinto che l’India poteva diventare una grande potenza, capace di svilupparsi con le proprie forze. Sotto gli inglesi costruì il primo impianto siderurgico del paese, la prima centrale idroelettrica, la prima industria tessile, la prima compagnia di navigazione, il primo cementificio, la prima università scientifica (i suoi discendenti avrebbero proseguito nella vocazione pionieristica creando la prima banca, la prima compagnia aerea, il primo impianto petrolchimico, la prima fabbrica di automobili). J. N. Tata era anche un progressista di idee avanzate, capace di anticipare certe conquiste sociali dei «fabiani» inglesi (i padri lettera ai figli in cui esprimeva il suo disgusto per le condizioni di vita della classe operaia britannica, il grigio squallore dei quartieri popolari di Londra, Manchester e. Le consegne che lasciò per la costruzione della città -che dopo la sua morte è stata battezzata in suo onore Jamshedpur -erano avveniristiche: «Le vie devono essere larghe e ariose, piene di alberi che diano ombra. Che ci sia ampio spazio per giardini e aiuole». Il sistema di relazioni industriali di Tata Steel fu in anticipo sui tempi non solo in India ma anche rispetto all’Occidente, precedendo con il suo paternalismo illuminato certe conquiste del movimento sindacale europeo. Tata diede agli operai degli altiforni la giornata lavorativa di otto ore nel 1912, l’assistenza per la maternità nel 1928, la partecipazione agli utili nel 1934. Tuttora la città di Jamshedpur resta un modello irraggiungibile per gran parte dell’India: l’azienda fornisce gratis alle famiglie dei dipendenti alloggi e scuole, ospedali e impianti sportivi. Nel 2004 le Nazioni Unite l’hanno designata fra i sei capolavori mondiali di pianificazione urbana, a pari qualità con San Francisco e Melbourne. Gli ideali del fondatore non sono stati traditi dai suoi eredi. La holding Tata continua a essere controllata da undici fondazioni filantropiche che versano un centinaio di milioni di dollari all’anno in opere di utilità sociale. Oltre alle borse di studio e alla ricerca nelle università, il gruppo finanzia progetti per l’ambiente come il risanamento del Gange e la salvaguardia di razze in via di estinzione.

Ma nella parabola dei Tata c’è anche una lunga fase di involuzione, in parallelo con «l’esperimento socialista» dei governi di Nehru e Indirà Gandhi. Dopo l’indipendenza il gruppo perse sia le linee aeree che le assicurazioni, nazionalizzate. Le sue dimensioni davano fastidio durante gli anni del flirt ideologico e diplomatico tra New Delhi e Mosca, e le aziende persero una guida unificante. Soprattutto, all’ombra del sistema del raj -una complessa impalcatura di lacci e lacciuoli, regolamentazioni amministrative e permessi -il gruppo Tata finì per addormentarsi sugli allori, protetto dalla concorrenza. La rinascita a partire dal 1991 ha seguito una logica capitalistica: l’azienda non ha esitato a far ricorso alle ristrutturazioni, dimezzando i dipendenti della siderurgia in dieci anni. È rimasto qualcosa però dello spirito originario. Nella ricerca del profitto, Ratan Tata segue una «via indiana»: lo attira la parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a paesi emergenti come il suo, dove il grosso del mercato si situa a livelli di reddito minimi. Perciò non è un caso se l’automobile da duemila euro nasce nei centri di design di Tata. La storia di questa utilitaria è una parabola dell’anomalia indiana. «Voi europei» dice Tata «credete che per noi sia tutto più facile, perché guardate al vantaggio competitivo del nostro costo del lavoro. Provate a guardare la realtà da un altro punto di vista. È proprio perché il potere d’acquisto del ceto medio indiano è ancora molto basso rispetto al vostro, che noi viviamo sotto una formidabile pressione competitiva, siamo costretti a raggiungere livelli di efficienza superiori per sfornare prodotti a costi accessibili per i nostri consumatori.» Il camioncino più diffuso in tutta l’India -in realtà un motofurgone su cui contadini e piccoli commercianti sono capaci di caricare una quantità indescrivibile di merci ed euro. Nello stesso spirito il gruppo lancia duecento motel Ginger in tutta l’India che offrono standard di igiene e pulizia impeccabili, bagni singoli, aria condizionata e Internet, per meno di venti euro a notte. È il sogno democratico del turismo e della mobilità di massa alla portata del subcontinente. Non è solo Tata ad aver capito che il segreto del successo in India è offrire un benessere «accessibile» al livello di potere d’acquisto locale, e che tenga conto delle limitazioni indiane. Un suo concorrente, il gruppo Videocon, ha invaso l’India di lavatrici da cinquanta euro: plebiscitate dalle massaie non solo per il loro basso costo, ma anche per una speciale «memoria elettronica» programmata per neutralizzare i frequenti blackout elettrici.

Capitalismo con un’anima, è una definizione che si adatta bene anche ad altre grandi dinastie del paese. L’imprenditore singolo più ricco è Mukesh Ambani, maggiore azionista del conglomerato Reliance Industries che pesa da solo per il 3,5% del Pii indiano. Con venti miliardi di dollari di fatturato il suo business più importante è nell’industria petrolchimica, ma la passione di Ambani sono le energie alternative.

Profetizza una seconda «rivoluzione verde» -la prima fu la riforma agraria che riuscì ad affrancare l’India dalle carestie -e finanzia il Life Sciences Center di Mumbai, all’avanguardia nel produrre nuovi biocarburanti estratti da cellulosa e piante tropicali.

«Un mondo senza benzina» è il suo slogan, e la Reliance ha creato una vasta rete di generatori di biomasse nei villaggi agricoli, per produrre energia a partire dallo stereo animale e altre fonti naturali.

Altre dinastie del capitalismo indiano, ormai, molti occidentali le conoscono bene perché le hanno in casa. Il gruppo Mittal di Lakshmi e Aditya, padre e figlio, controlla la maggior parte della siderurgia europea dopo aver acquistato il colosso Arcelor (francobelgaspagnolo) per trenta miliardi di euro. In un sol colpo Mittal ha affossato il pregiudizio di chi vedeva l’India solo come un paese emergente dove le nostre multinazionali delocalizzano i callcenter. Al contrario, la vecchia Europa è diventata terra di conquista per le multinazionali indiane. E non solo nel mondo del business. Il partito laburista inglese, alla fine del 2006, era finito sull’orlo della bancarotta, dissanguato dalle spese elettorali e dagli scandali. A salvarlo è stato proprio Lakshmi Mittal, che ha regalato un assegno di due milioni di sterline a Tony Blair. «Sono felice che uno dei businessman più geniali del nostro tempo abbia deciso di aiutarci generosamente a ridurre i nostri debiti» ha dichiarato Blair, a pochi mesi dalla sua uscita di scena. Sessantanni fa l’India era un possedimento imperiale britannico, oggi il partito di governo a Londra viene sovvenzionato da un uomo nato sotto l’amministrazione coloniale inglese.

La campagna acquisti dei Mittal non è un exploit isolato. Kumar Mangalam Birla, presidente del gruppo Birla, con la sua filiale dell’alluminio Hindalco ha comprato il rivale americano Novelis e si è issato al primo posto mondiale nel settore. L’impresa farmaceutica Ranbaxy di Malvinder Singh è reduce da otto acquisizioni in America, Italia, Romania e Sudafrica. Dall’inizio del 2007 le multinazionali indiane hanno dato la scalata con successo a trentaquattro gruppi stranieri, per un valore di undici miliardi di dollari. «The Economist» prevede: «Un giorno saranno loro a insegnarci le nuove dilagare nelle grandi università americane ed europee le teorie di Sun Tzu sulla guerra, l’ultima moda a Harvard è un manuale di Nury Vittachi che s’intitola The Kama Sutra ofBusiness: Management Principles from Indian Classics (Il Kama Sutra degli affari: I principi del management nei classici indiani).

 

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I fuochi d’artificio dei nuovi tycoon.

Per la sua corporatura potrebbe essere il buttafuori di una discoteca di Manhattan. La lunga chioma argentata è curata con un taglio finto selvaggio, tipo criniera di leone dondolante sulle spalle, più un pizzo di barba e baffo alla Sandokan. Al lavoro si presenta con abbigliamenti così vistòsi da evocare un narcotrafficante sudamericano in vacanza al casinò di Montecarlo, o un petroliere texano in viaggio di nozze con la quarta moglie a Las Vegas. Immancabili gli occhiali da sole dalla montatura di platino massiccio, anelli con smeraldi e zaffiri alle dita e il catenone d’oro al collo. Vijay Mallya sembra la caricatura di un nuovo ricco indiano in un film comico di Hollywood. In realtà recita la caricatura di se stesso. In questo paese lui incarna il nouveau riche per antonomasia, è il riassunto di tutti gli eccessi e tutte le qualità che fanno del capitalismo indiano un protagonista inedito sulla scena internazionale, certamente imprevedibile, tutto fuorché noioso.

Mallya controlla un impero fatto di birra e aeroplani, al quale aggiunge una scuderia di cavalli da corsa, la passione personale per le gare automobilistiche (è ex pilota di rally), le regate velistiche, nonché un terzo o quarto mestiere come politico (è membro della Camera Alta, l’equivalente di un Senato a New Delhi). Un insieme di attività da oltre due miliardi di euro di fatturato che Mallya controlla al cento per cento -finora non ha voluto quotarsi in Borsa -ne fanno, a quanto si dice, il terzo tycoon più ricco del suo paese.

Non si può dire che Mallya sia partito proprio da zero, visto che al centro del suo business c’è la produzione di birra ereditata dal padre, lo United Breweries Group di Bangalore. Ma quando il padre Vittal morì improvvisamente nel 1983, a 59 anni, l’azienda era minuscola rispetto alle dimensioni di oggi. Nonostante l’apparenza del playboy (flamboyant, lo definisce la stampa indiana), che lo distingue nettamente dallo stile sobrio e riservato delle dinastie più antiche come i Tata e i Mittal, Mallya si è guadagnato sul campo i galloni dell’imprenditore vero e nessuno mette in dubbio il suo talento. Il business della birra e altre bevande alcoliche si è ingigantito sotto il marchio Kingfisher: controlla il 60% del mercato indiano, il che equivale al 10% del mercato mondiale. Produce anche un whisky tra i più venduti in Asia, accusato di pirateria dalla Scotch Whisky Association perché usurpa la nobile etichetta per spacciare un distillato a base di melasse anziché cereali. Ma il problema è stato risolto quando Mallya ha lanciato la scalata a una delle più antiche distillerie scozzesi, la White & Mackay.

Dopodiché, oltre a controllare 140 marche blasonate che risalgono al 1846, è diventato anche uno dei maggiori membri della Scotch Whisky Association e così potrà cessare la causa contro se stesso.

Kingfisher sui cieli dell’India sembra sia nato come un trucco per aggirare il divieto di pubblicità per gli alcolici. Oggi è un business in piena espansione, la compagnia aerea con la più forte crescita al mondo. Partita con due apparecchi che facevano la spola due volte al giorno tra Bangalore e Mumbai, a venti mesi dalla nascita aveva già ventiquattro apparecchi e centocinquantasei voli quotidiani, anche all’estero. Ora la Kingfisher è una delle prime compagnie ad avere ordinato da Airbus, il «gigante dei cieli», ben cinque superjumbo A380 da 555 passeggeri. Li metterà in servizio insieme con altri venti nuovi Airbus A345, per inaugurare i primi voli nonstop fra India e Stati Uniti. La prima rotta senza scalo non collegherà all’inizio le due capitali politiche bensì le due Silicon Valley del pianeta: BangaloreSan Francisco, una tratta da quattordicimila chilometri di volo che è anche un itinerario della vita privata di Mallya, visto che lui ha il suo quartier generale a Bangalore ma la moglie e i figli vivono in una lussuosa villa affacciata sulla Baia di San Francisco. Mallya è convinto che il trasporto aereo resterà a lungo un mestiere ricco di soddisfazioni in Asia, dove il ceto medio emergente sta scoprendo le comodità dell’aereo e il lusso delle vacanze. Tra le sue frasi celebri: «Il traffico passeggeri in India sta crescendo del 50% all’anno; il 20% è un boom artificiale indotto dalla guerra dei prezzi tra le lowcost, resta però un 30% all’anno che è la nostra velocità di crescita sostenibile nel lungo periodo». Il suo vanto: «Kingfisher ha le hostess più belle del mondo. Noi non operiamo nel trasporto aereo, il nostro business si chiama ospitalità». Per controllare la qualità del servizio spesso Mallya si presenta all’ultimo momento all’imbarco di uno dei voli Kingfisher, sale a bordo a salutare i passeggeri di persona e a fare gli annunci dal microfono durante il volo (è anche pilota). Molti sostengono che perfino il suo abbigliamento appariscente, lo stile di vita sopra le righe, la personalità esuberante, sono potenti strumenti di marketing: non c’è investimento pubblicitario che conquisti la risonanza di una singola apparizione in pubblico di Mallya, sempre circondato di paparazzi e curiosi come una star di Hollywood. Come il suo ispiratore Richard Branson in Gran Bretagna, l’uomo è riuscito a diventare il «logo» della sua azienda. Naturalmente Mallya è un Richard Branson molto indiano. Tutto di lui, anche gli eccessi, rinvia a qualche elemento della multiforme identità culturale del suo paese. Il lusso di cui si circonda gli è valso questa definizione del giornalista Neeraj Rawal: «Con i suoi orecchini di diamanti e le sue scuderie di purosangue, è la versione moderna del nostro maharajah, che oggi usa i jet come ieri gli elefanti».

La religione non può mancare. Ogni volta che la Kingfisher acquista un nuovo Airbus, l’apparecchio deve fare il suo volo inaugurale a Dirupati, una celebre città mistica nello Stato dell’Andhra Pradesh, dove un prete gli da la benedizione. Su tutte le fusoliere degli aerei è dipinta l’immagine della divinità indù Venkateswara. Mallya ogni anno si reca in pellegrinaggio a Sabarimala nel Kerala, dopo aver fatto i rituali quarantadue giorni di astinenza. Arrivato a destinazione si mescola alla folla dei fedeli e cammina con loro per dieci chilometri a piedi nudi prima di salire la gradinata del tempio. Non è mai mancato a questo appuntamento negli ultimi vent’anni. Come politico Mallya spiazza chi si aspetta un tycoon impegnato a difendere gli interessi della propria nei villaggi, e per aver migliorato la condizione degli intoccabili che lavorano nelle discariche.

L’impegno sociale e umanitario è un carattere che si ritrova in molti personaggi della nuova generazione indiana protagonista del miracolo economico. Sembra quasi che le immense difficoltà di questo paese -la povertà ancora estesa, le diseguaglianze crescenti, l’arretratezza di servizi e infrastrutture -funzionino da stimolo al talento di un nuovo tipo di imprenditore, che cerca di risolvere i problemi della società e al tempo stesso di guadagnarci.

Come inserire settecento milioni di popolazione rurale nel circuito dell’informazione, e quindi anche nell’economia di mercato, superando quella barriera che è l’isolamento della campagna? Questa è la sfida che ha raccolto Satyan Mishra, 33 anni, fondatore e amministratore delegato della Drishtee, un’azienda nata nel nuovo millennio per mettere a disposizione dei villaggi certi servizi essenziali che abbondano nell’ambiente urbano. Drishtee ha creato in tutto il paese una miriade di minuscole edicole dotate di computer collegato a una rete Intranet. All’edicola della Drishtee l’abitante delle zone più sperdute può fare di tutto: ordinare la patente di guida o un certificato di nascita, spedire una email, fare delle fotocopie o delle foto d’identità, trovare una moto usata sugli annunci online, perfino cercar moglie in uno dei tanti siti matrimoniali. Mishra ha già aperto più di mille edicole in nove Stati. La Drishtee anticipa l’attrezzatura -computer e stampante, videocamera, connessione Internet via telefonino -del valore di milleduecento euro, che il gestore dell’edicola può rimborsare in diversi anni, e per nove euro al mese offre all’edicolante un servizio completo di formazione, assistenza e manutenzione. Mishra ha avuto un tale successo che il governo indiano ha chiesto il suo aiuto per migliorare la qualità (atroce) dei servizi amministrativi forniti dalla burocrazia locale. Fa profitti e al tempo stesso aiuta quella parte del paese che ne ha più bisogno: «Uno degli handicap delle campagne è la mancanza di accesso, la distanza da tutto. Perché possano competere anche loro bisogna prima di tutto dargli il modo di sconfiggere l’isolamento».

Un ruolo simile lo svolge Rajesh Jain, il giovane fondatore della Novatium che ha lanciato sul mercato il primo computer da settanta euro, il NetPc, alla portata del ceto medio indiano. Jain vuole che entri nelle case di tutta l’India e perciò lo da anche in affitto: per sette euro al mese offre il computer insieme con l’abbonamento a Internet, i programmi di software, manutenzione e assistenza.

Ramalinga Raju, fondatore della Satayam Computer Services di Hyderabad, da una costola della sua società informatica ha creato un’impresa nonprofit per affrontare un «buco nero» dei servizi pubblici: il funzionamento disastroso delle chiamate d’emergenza per l’ambulanza del pronto soccorso. Con trenta milioni di euro donati da Raju e il software della sua azienda informatica, ha visto la luce un nuovo sistema nazionale di gestione delle chiamate d’emergenza che garantisce una risposta entro i due primi squilli del telefono per il 95% dei casi, una performance rara al mondo, e l’arrivo di un’ambulanza entro quattordici minuti in media, anche questo un risultato notevole negli ingorghi di traffico di Mumbai, Calcutta e Delhi. Il tocco indiano si rivela nella scelta del numero telefonico. Per le chiamate d’emergenza Raju ha scelto il 108: «Perché nel Pantheon induista ci sono 108 dei, e Krishna ballò con 108 donne».

Un’altra nonprofit nata in seno al nuovo capitalismo è Volunteers, che nei suoi novemila centri sparsi per l’India mette assieme i giovani del ceto medioalto desiderosi di fare volontariato e fa incontrare l’offerta con la domanda, cioè con l’universo di quelli che hanno bisogno del loro aiuto: orfani che non riescono a proseguire gli studi, bambini delle baraccopoli condannati all’analfabetismo, anziani poveri e soli, comunità locali colpite da calamità ambientali. Il fondatore di Volunteers, Shalabh Sahai, è un trentenne di Mumbai uscito da una delle business school più prestigiose del paese.

Molti volontari sono come lui, giovani professionisti e tecnocrati della nuova classe dirigente. La tradizione induista della filantropìa sentita come un dovere, dal vecchio tessuto sociale agricolo si è trasferita nella giovane élite cosmopolita.

 

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Il treno che porta al futuro La British East India Company cominciò a costruirle all’inizio dell’Ottocento per trasportare i suoi ricchi raccolti di cotone verso i porti di Bombay, Calcutta e Madras.

Più tardi il raj britannico le sviluppò per spostare rapidamente le sue truppe da un angolo all’altro dell’India e schiacciare nel sangue le rivolte indipendentiste. Le ferrovie indiane sono tuttora la più grande rete mondiale con sessantacinquemila chilometri di binari, sedici milioni di passeggeri al giorno (quasi sei miliardi all’anno). Sono anche il più grande datore di lavoro del mondo: 1,6 milioni di dipendenti diretti, più sette milioni di persone a cui danno indirettamente un reddito, e un indiano su dieci che in qualche modo dipende dalle ferrovie per la sopravvivenza quotidiana. Adesso per questo antico gigante è suonata l’ora di un cambiamento che sembrava impossibile, la privatizzazione. Vacilla il tabù storico del socialismo indiano, scosso da una modernizzazione sempre più drastica e veloce.

La vetusta ma capillare rete ferroviaria che collega il subcontinente è stata un simbolo potente dello statalismo ispirato da Nehru, il padre dell’indipendenza, e proseguito con sua figlia Indirà Gandhi. L’azienda dei treni è soprannominata «la linfa vitàle dell’India», un po’“per la sua funzione da zvelfare State, un po’”per la capacità di unificare fisicamente un paese di grandi distanze, enormi differenze sociali, etniche, religiose e linguistiche. L’epopea del viaggio in treno fa parte delle emozioni che hanno sedotto generazioni di viaggiatori occidentali: le immense, caotiche, chiassose stazioni di New Delhi e Mumbai sono un riassunto dell’India intera con il caos dei facchini che assediano i clienti, i profumi inebrianti dei cibi offerti sui marciapiedi di partenza, le fogge pittoresche dei viaggiatori sempre sovraccarichi, un museo vivente di facce e di colori esotici, gli animali e la sporcizia e i mendicanti ovunque. Ma negli ultimi anni le ferrovie indiane facevano notizia soprattutto in senso tragico, per gli incidenti a catena, i bilanci spesso raccapriccianti di vittime, fino a provocare una fatalistica assuefazione di fronte ai numeri vertiginosi di morti e feriti. L’arretratezza era sottolineata dal fatto che per un secolo e mezzo l’orario dei treni è rimasto sostanzialmente identico a quello messo a punto nel 1866 dalla società inglese Bradshaw.

Ora si volta pagina. Nel 2007 è scattata la prima fase della privatizzazione, con la messa in vendita del servizio cargo. Nell’India del boom economico la gestione dei treni merci è un business che ha già attirato le offerte di acquisto di ben quattordici governo di Manmohan Singh è stato un severo rapporto della banca centrale, secondo cui le ferrovie erano ormai sull’orlo della bancarotta con un debito di 610 miliardi di rupie (oltre dieci miliardi di euro). Nell’India di una volta un allarme simile avrebbe suscitato solo sbadigli: le ferrovie erano un feudo elettoralistico intoccabile, così potente da aver diritto a un ministro solo per loro, e la logica clientelare si imponeva su quella del mercato. Ma oggi a New Delhi tira un’aria nuova.

Il ministro delle ferrovie Lalu Yadav ha lanciato una liberalizzazione audace che sta già risanando in tempi record il bilancio: ora l’azienda pubblica ha oltre due miliardi di euro di attivo in cassa. Lalu Yadav si è accorto infatti di essere seduto su una miniera d’oro.

Insieme con la vendita del trasporto merci, l’altro grande affare che sta attirando gli investitori privati è la privatizzazione delle stazioni. I terreni e gli edifici delle stazioni vengono messi all’asta per farne di tutto: costruirci catene di alberghi moderni, shopping mali, ristoranti, sportelli bancari. Su questo business si sono avventati colossi internazionali come il gruppo francese Accor, che sogna di disseminare la rete ferroviaria indiana di moderni alberghi per turisti occidentali, e anche il gruppo locale Tata attraverso la società Indian Hotels. Sunil Mittal, il magnate dei telefonini indiani con la sua Bharti, è interessato a costruire nuovi centri commerciali a ogni fermata di treno. Il ministro Lalu Yadav ha fretta di fare cassa con queste privatizzazioni per poter migliorare la scadente qualità del servizio passeggeri. Contrariamente alle aspettative, ha scatenato una guerra di ribassi delle tariffe. Un gesto sorprendente ma anche una sfida obbligata.

Tra gli altri segni dello sviluppo economico accelerato, tra New Delhi e Bangalore, Mumbai e Calcutta dilagano le compagnie aeree lowcost come la Kingfisher. Di fronte alla guerra dei biglietti aerei a prezzi stracciati che stanno popolarizzando i voli tra centinaia di milioni di indiani, le ferrovie non avevano altra scelta: tagliare o vendere i rami secchi per tornare a essere competitive nel trasporto dei viaggiatori. Lalu Yadav ha osato promettere l’impensabile, annunciando che a breve termine offrirà vagoni con l’aria condizionata su tutte le tratte e in tutte le classi, per ciascuno dei sedici milioni di passeggeri quotidiani. Non sarà più l’India dei treni a vapore che ancora fanno sognare i turisti a Darjeeling, e il vento della modernizzazione porterà anche qui paesaggi un po’“più uniformi, più globalizzati. Prima o poi le grandi stazioni indiane smetteranno di evocare le storie di Rudyard Kipling per assomigliare ai dutyfree aeroportuali del mondo emergente, tutti uguali da Dubai a Singapore, da Hong Kong a Shanghai a

Kuala Lumpur. Per i viaggiatori occidentali sarà un altro paesaggio inghiottito nel passato e altre emozioni perdute. Ma per gli indiani lanciati alla rincorsa dell’Occidente e impegnati ad agganciare finalmente lo sviluppo economico, non c’è tempo di voltarsi indietro a indulgere in nostalgie.