Episodio #3, Capitolo 3
Guerra, dicembre 214 a.C.
Con le tenebre giunse la tregua. Non la pace, giacché il frastuono di mazze e scalpelli echeggiò dal campo romano per tutta la notte. Frixos ipotizzò che stessero riparando i danni alle macchine d’assedio. Aggiunse che secondo lui stavano rivestendo di lastre di ferro lo scheletro delle torri, e che l’indomani avrebbero tentato di avvicinarsi ancor di più alle mura.
Anche noi approfittammo dell’oscurità per completare i preparativi. Archimede restò a darci indicazioni, con voce talmente roca che io stesso stentavo a capirlo, finché riuscì a reggersi in piedi. Quando mi avvidi che barcollava, pregai l’araldo di Epicide di accompagnarlo alla villa, e mandai anche un messaggio a Ipsicle pregandolo di badare a lui. Mi figurai i commenti indispettiti di mio fratello dinanzi a quella richiesta e - nonostante la situazione - sorrisi.
I romani tornarono all’attacco al canto del gallo. Perseverando nella loro tattica, saggiarono le difese in punti diversi da quelli che avevano attaccato il giorno precedente. Seguendo il piano concordato, Frixos costrinse all’inazione le catapulte piazzate sui bastioni della Neapoli. I romani, notando che da quella direzione non giungevano proiettili, si fecero sotto con una delle loro torri d’assedio.
Raggiunsi Frixos e Malcone sugli spalti. In quel settore le mura di Dionisio piegavano verso sud, formando un arco di pietra col lato concavo rivolto verso le campagne. Il terreno, un falsopiano, favoriva i legionari che spingevano la torre. Su entrambi i lati della macchina d’assedio, le centurie marciavano in formazione serrata, con i triari che percuotevano i giavellotti contro l’umbone degli scudi e i veliti che indirizzavano grida di dileggio verso le mura.
Giunti a distanza di tiro, gli arcieri romani cominciarono a bersagliarci. Malcone ordinò ai suoi di non rispondere ai colpi. Io mi rifugiai al coperto e continuai a scrutare i romani attraverso le feritoie.
La torre d’assedio era vicina, adesso. I legionari, imbaldanziti per essere giunti tanto a ridosso delle mura, ci gridavano contro epiteti di notevole creatività.
Un centurione romano, evidentemente specialista in quel genere di offese, uscì d’un tratto dai ranghi, si piazzò a gambe larghe, gonfiò il petto e urlò al nostro indirizzo un insulto talmente triviale che io stesso mi sorpresi ad arrossirne.
«Mastico poco il latino, Dinostrato» si lamentò Malcone. «Che ha detto?»
Io tossicchiai, imbarazzato.
«Se ho capito bene, dice che quella torre è il… be’, il membro virile del duce Marcello.»
«Cosa?» esclamò il cartaginese, basito.
Il centurione continuava a sbraitare. Provai a tradurre a beneficio di Malcone.
«Ripete quant’è potente e inarrestabile il…» cercai invano le parole; il greco non si prestava a quelle volgarità «l’arnese di Marcello, insomma. Aggiunge che presto ci sfonderà il… e che potrebbe piacerci, giacché è noto che i siracusani, e anche i punici, sono tutti pederasti.»
Malcone fulminò con lo sguardo i suoi uomini, che si agitavano nervosi, ammonendoli di ignorare la provocazione.
«Frixos!» esclamò «sei pronto?»
«Quando volete» assicurò il merarca.
Malcone si rivolse a me. Io controllai la posizione della torre romana, consultai velocemente gli appunti di Archimede, verificai la regolazione della catapulta e annuii.
«Adesso!» ordinò il gigante cartaginese.
Frixos e i suoi aiutanti rimossero la copertura di canne che nascondeva l’arma (un massiccio litobolo, uno dei più grandi in città) e tagliarono le funi che trattenevano il meccanismo di lancio. Il proiettile fu scagliato insieme alla catena cui era fissato. Come Archimede aveva calcolato, gli anelli di ferro si srotolarono durante il volo, influendo a stento sulla traiettoria. La torre romana fu colpita sul fianco, a due terzi dell’altezza. Il bolide (l’ancora di una pentera) fece ciò che un masso non avrebbe potuto, trapassando la corazzatura e conficcandosi profondamente tra le travi portanti della macchina d’assedio.
«Ora!» gridai a mia volta «mollate il contrappeso!»
Frixos fece scattare il meccanismo, liberando il blocco di pietra fissato all’altra estremità della catena. Il macigno scivolò docilmente lungo il fianco interno dei bastioni. Gli anelli di ferro si tesero. L’ancora, strattonata violentemente all’indietro, aprì i suoi bracci di bronzo incastrandosi irrimediabilmente nello scheletro della torre.
I legionari, colti alla sprovvista, tardarono a reagire. Frixos e i suoi uomini corsero a manovrare l’argano. La catena si tese ancor di più. Si udì uno scricchiolio, poi la torre oscillò, cominciò a inclinarsi verso le mura. Qualche romano, resosi finalmente conto della situazione, ruppe il proprio gladio tentando di spezzare la catena. Gli arcieri, sulla cima pencolante della struttura, presero a urlare e ad accalcarsi sulle scale nel disperato tentativo di fuggire. Qualcuno si gettò nel vuoto.
Un ultimo giro d’argano e la torre d’assedio s’abbatté con fragore al suolo. I legionari che non erano stati lesti a mettersi in salvo rimasero schiacciati.
«Scoccate!» sbraitò Malcone.
I nostri arcieri affollarono il ballatoio del bastione. I frombolieri punici s’inerpicarono sul parapetto e fecero roteare le loro fionde. Una pioggia di dardi si abbatté sul nemico. I romani alzarono gli scudi in difesa, ma il crollo della torre aveva spezzato la loro formazione, aprendo varchi attraverso i quali le nostre frecce potevano far strage. Sentii che i centurioni gridavano di rimettersi in piedi e cercar riparo. Sventolai un cencio in direzione di Frixos. Il merarca diede l’ordine; le catapulte che avevamo tenuto in ozio tutta la mattina presero a bersagliare di proiettili la formazione avversaria.
Udii lontano l’eco di una buccina. Scrutai l’orizzonte. Scorsi sulla collina un drappello di cavalieri.
«Dev’essere Marcello» commentò Malcone. «Mi piacerebbe vedere la sua faccia, adesso.»
I cavalieri fecero dietro-front e scomparvero oltre il poggio. Si udì un secondo squillo di corno. I legionari abbandonarono disciplinatamente i resti della torre e si ritirarono, trascinando indietro a forza di braccia i compagni feriti e lasciando sul campo i morti.
Nello scorgere quell’ordinato ripiegamento - nient’affatto una rotta - e il modesto numero di corpi riversi sull’erba - non più di due dozzine - mi sentii vagamente deluso; avevamo respinto il nemico, certo, e abbattuto una delle sue torri. Ma non era abbastanza.
D’impulso mi issai sul parapetto, cercai tra le file romane il centurione che ci aveva insultato. Mi parve di vederlo. Raccolsi tutto il fiato che avevo, posi le mani a coppa intorno alle labbra e sbraitai in latino nella sua direzione.
«Correte a nascondervi, vigliacchi!» mi sgolai «e se il vostro virile duce vi chiede cosa ha fermato il suo “inarrestabile cazzo”, ditegli che è stato l’Artiglio di Archimede!»
Saltai giù. Malcone e Frixos mi fissavano sorpresi.
«Ecco» dissi «ora sì che è abbastanza.»
Al tramonto Malcone tornò dalla ronda e venne a sedersi al mio fianco. Io gli porsi un orcio di vino già annacquato, da cui lui si servì generosamente. Vidi che il suo pettorale era coperto di polvere rossa. I capelli crespi erano impastati di sudore, le sue braccia tatuate segnate da abrasioni.
Lassù sugli spalti l’aria sapeva di cenere; i tizzoni della torre romana abbattuta, cui avevamo deciso di dar fuoco finché c’era concesso, fumavano ancora. Tra le nubi basse, stormi di uccelli neri volteggiavano inseguendosi l’un l’altro e lanciando strida lugubri contro il cielo cupo.
«Com’è andata?» m’informai.
Lui addentò la forma di pane che gli avevo offerto. Aveva mandibole proporzionate alla sua statura, e trangugiò tutto in pochi istanti.
«Bene, grazie agli dèi» replicò «solo qualche ferito. I più gravi, due uomini che manovravano un onagro giù a Tiche. Non avevano piantato i fermi prima di scagliare, così il rinculo li ha travolti; uno ha le gambe spezzate, l’altro ha perso un braccio.»
«E i romani?» aggiunsi.
«Sono rientrati al campo. Dopo stamani si son fatti più prudenti.»
Storse la bocca.
«Troppo prudenti, in verità. Credevo sarebbero tornati con le scale e gli arieti. Invece niente. Per Melqart, mi chiedo cos’abbiano in mente.»
Giacché non aveva chiesto direttamente la mia opinione, restai in silenzio. Ero onorato che mi degnasse della sua conversazione. Tuttavia ero consapevole di quale fosse il mio posto, e non volevo sembrargli insolente.
Fu lui, bontà sua, a proseguire. Quando ebbe spazzolato pane e vino, si slacciò il pettorale, lo gettò lontano, si levò in piedi e fece scrocchiare le ossa della schiena. Poi lanciò uno sguardo sorpreso verso la pianura e atteggiò le labbra in una smorfia.
«Chi sono quelli, Dinostrato?»
Mi sporsi dal parapetto. Scorsi le figure cenciose che si aggiravano furtive intorno ai cadaveri che i romani avevano lasciato sul campo.
«Sono mendicanti» asserii.
«Mendicanti? E che fanno laggiù?»
«Cercano oggetti di valore. Vedete quel carro? Penso che intendano riportare i corpi dei caduti al campo romano, e farsi pagare il servizio.»
Malcone sembrò turbato da un pensiero improvviso.
«Per Melqart, come hanno fatto a uscire? Chi ha aperto loro le porte?»
«La Confraternita dei Topi è potente» gli spiegai. «A Siracusa nessuno, tiranno o polemarca, può sbarrar loro il passo.»
«Ti burli di me, Dinostrato servo di Archimede?»
Scrollai le spalle; Malcone non poteva sapere, e raccontargli le mie disavventure con la Confraternita, giù alle Latomie, sarebbe stato indecoroso.
«Al contrario» mi limitai a ribattere. «Chiedete al nobile Epicide, se ne dubitate.»
Il cartaginese scosse la testa con aria spossata.
«Mi sforzerò di crederti. Ma siete davvero uno strano popolo. In fin dei conti, vi capisco meno di quanto comprenda i romani.»
Tornò a scrutare il turpe lavoro dei mendicanti.
«Devo confessartelo, Dinostrato; la guerra mi disgusta.»
La sua affermazione mi stupì. Di nuovo, preferii tacere. Lui levò gli occhi al cielo e sospirò.
«Sono un uomo di mare, Dinostrato servo di Archimede, non un guerriero. Come quasi tutti i miei compatrioti. Per i veri figli di Qart Hadasht le guerre sono carneficine stupide, e spesso inutili.»
«Perché avete attaccato i romani, allora?» azzardai.
Lui indurì il tono della voce.
«È stato Annibale. Si è arrogato il diritto di decidere ignorando il parere dei suffeti. In nome di una vendetta che riguarda più i suoi avi che il popolo punico. Lui e la maledetta genìa dei Barcidi ci stanno conducendo alla rovina.»
Scosse ancora la testa.
«Sai che ti dico, Dinostrato? Fosse per me, baratterei qualunque prospettiva di vittoria con la possibilità di tornar vivo da mia moglie Ilissa e dai nostri figli.»
Non potei far a meno di annuire.
«E tu?» chiese d’improvviso.
«Io?» ripetei disorientato.
«Tu non hai famiglia, Dinostrato? Una donna che ami, con cui vorresti vivere e invecchiare in pace?»
Chinai lo sguardo. Quella di Malcone voleva forse essere una domanda cordiale, una confidenza tra uomini per affermare che in quel frangente potevo considerarmi suo pari. Ma riportò alla mia mente ricordi che a distanza di tanti anni ancora mi tormentavano.
«Io servo il mio padrone» replicai alla fine, asciutto.
Lui sembrò capire molto più di quanto avevo ammesso. Levò l’enorme braccio tatuato, mi batté una pacca sulla spalla.
«Allora va’ dal tuo padrone, Dinostrato. E riposa. Ci attendono tempi difficili.»
Neppure io ero un guerriero, dopotutto; il campo di battaglia non era il mio posto. Così obbedii e tornai alla villa.
Nei giorni successivi mi concentrai sui compiti da domestico, soprattutto accudire il maestro, finché la febbre di Archimede non scese ed egli poté rimettersi al lavoro sui suoi trattati.
A ogni buon conto, incaricai Ipsicle di recarsi ogni alba sulle mura per parlare con Frixos, e di tornare poi al tramonto a riferire.
Con mia sorpresa, tranne domande specifiche sull’uso dell’Artiglio, i difensori dei bastioni non inviarono nessuna nuova richiesta per il maestro. Curiosamente, scoprii che il nome che io avevo affibbiato all’arma del maestro era molto piaciuto a Frixos e ai suoi guerrieri. Ipsicle mi disse che questi ultimi avevano preso a definire se stessi “artiglieri” e che Frixos, più che “menarca”, ormai ci teneva a essere appellato “capo dell’artiglieria”.
L’assedio, sosteneva Ipsicle, procedeva pigramente. I romani non avevano più rischiato le loro preziose torri d’assedio. Preferivano piuttosto azzardare incursioni di arcieri e devastare ciò che si trovava al di là delle mura.
Prima vittima del cambiamento di strategia, l’Olympieion; come il maestro aveva previsto, il grande tempio sull’altopiano fu saccheggiato e dato alle fiamme. Il tiranno, sensibile alle lamentazioni dei sacerdoti, propose di vendicare l’oltraggio nominando un ipparca che conducesse la cavalleria ad affrontare i romani. Malcone e gli altri dovettero penare non poco a convincerlo, almeno per il momento, a rinunciare a quella follia.
Fu alla luna nuova che capimmo la ragione della tattica attendista dei nemici. Quella mattina, ricordo, il maestro sembrava in ottima forma. Non lo vedevo così vitale da tempo, perciò arrischiai a condurlo in una lunga passeggiata fino alla sua spiaggia preferita, quella ove anni prima si compiaceva a raccogliere conchiglie.
A dispetto della stagione, era una splendida giornata, calda e luminosa. Mi empii i polmoni d’aria salmastra e per un istante riuscii persino a dimenticare la guerra che incombeva, come la spada che Dionisio aveva esibito a Damocle, sulle nostre vite.
D’improvviso capii che qualcosa non andava. Scorsi le barche dei pescatori ancora capovolte sulla rena. I tramagli vuoti e abbandonati sulla battigia. La folla fremente che fissava il largo, le donne che si stringevano ai loro sposi intonando cori di preghiera agli dèi.
Mi feci scudo con la mano contro il sole. E vidi.
Il mare all’orizzonte era un ribollire di navi romane.
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