Episodio #8, Epilogo
Campo d’assedio romano, 541 ab urbe condita (212 a.C.)
Marco Claudio Marcello si levò stancamente dal tripode, scostò la ruvida tela militare che chiudeva l’ingresso della tenda e scrutò fuori, nella luce incerta dell’aurora.
I quartieri delle truppe, s’avvide con compiacimento, erano in ordine nonostante la disciplina allentata dai saccheggi. L’aria era fredda e sanguigna. Tra le mura di Siracusa, i fuochi degli incendi ardevano inesausti. Uccelli da preda volteggiavano nel cielo striato di fumo. C’era odore di erba bagnata e di cattivi pensieri.
Il console vuotò la vescica nella latrina del campo, già affollata da legionari che eseguivano quel compito nello stesso modo in cui combattevano, vale a dire spalla a spalla coi propri compagni. Poi tornò dal prigioniero.
Notò con sorpresa che il lungo racconto non lo aveva sfinito. Al contrario; rispetto a quando il centurione Agrippa l’aveva trascinato, vinto e prostrato, nella tenda, sembrava un altro uomo. Liberarlo dalle catene, rifletté Marcello, era stata una buona idea. Dove avrebbe potuto fuggire, del resto? E forse - aggiunse tra sé - narrare la sua storia l’aveva sgravato da un fardello troppo doloroso di ricordi.
«Sei sveglio, greco?» l’apostrofò, pungolandolo con la punta del calzare.
«Un giorno forse potrò chiudere di nuovo gli occhi senza temere incubi» ribatté il prigioniero «non oggi.»
Marcello lo ignorò seccamente.
«Torna alla tua storia, greco. Cosa avvenne dopo Akrillai?»
Dinostrato si strinse nelle vesti lacere.
«Grazie alla testimonianza di Malcone, Peristione cadde in disgrazia. Epicide non lo mise ai ferri solo perché, con tutte le perdite che avevamo subìto, ogni braccio in grado di alzare un’arma era un tesoro. Superstiti della battaglia, sfuggendo alla vostra cattura, continuarono a presentarsi alle Porte per giorni. Anche Ippocrate, alla fine, riuscì a rientrare. Si seppe poi che col favore delle tenebre aveva ripiegato su Akrai con un pugno di uomini. Il tiranno decretò che gli dèi erano stati compassionevoli, e che occorreva ringraziarli nonostante la sconfitta. Cleomede propose tre giorni di celebrazioni in onore della Cacciatrice. Epicide convenne, e il popolo si recò in massa a pregare al santuario di Artemide» il prigioniero fissò il console negli occhi. «Il resto dovete dirmelo voi.»
«Dovete?» ripeté incredulo Marcello. «Bada alla tua lingua, greco; l’accordo che abbiamo stretto non ti concede nessun diritto.»
«Allora?» insistette Dinostrato.
Il romano aggrottò severamente le sopracciglia, ma accondiscese.
«Una delle nostre spie in città ci recapitò un messaggio. Non firmato, solo marchiato con un sigillo. Diceva che all’alba la torre di Eurialo sarebbe rimasta sguarnita. Pensai a una trappola, ma inviai ugualmente una coorte a verificare. Trovammo le porte socchiuse e le sentinelle sgozzate. Come dicevi, erano poco più che fanciulli; di certo non si aspettavano un tradimento. Profittammo dell’occasione senza perdere tempo, e prima che il sole fosse alto l’Epipoli era in mano nostra.»
Dinostrato si levò in piedi.
«È stato Peristione, vero? Dov’è ora? Cosa gli avete promesso? Oro? Il trono di Siracusa?»
Marcello intimò al prigioniero di tacere. Il suo tono palesava irritazione. Si affacciò all’uscita della tenda, chiamò a gran voce. Agrippa comparve all’istante, mostrandosi sorpreso di trovare Dinostrato ancora a colloquio con il console.
«Qualcuno, tra i prigionieri, ha rivendicato il messaggio grazie al quale abbiamo preso la torre di Eurialo?» s’informò Marcello.
Il centurione esitò; i suoi occhi color Tevere puntarono Dinostrato.
“Devo parlare dinanzi a un nemico, mio duce?” sembrò protestare silenziosamente.
«Rispondi, in nome di Ercole!» ingiunse Marcello.
Agrippa batté il pugno contro il pettorale.
«È proprio come avete detto, console. Un siracusano orbo da un occhio ci ha mostrato un anello col sigillo che abbiamo trovato sul messaggio. Ha detto di chiamarsi “Peristione”, se ho capito bene; parla latino come una vacca ubriaca.»
Marcello trasecolò.
«Perché non ne sono stato informato?»
L’altro chinò il capo, contrito.
«Contavo di farlo ieri sera, console, ma voi avete ordinato di lasciarvi solo con questo greco, e io…»
«Non importa» tagliò corto Marcello «dov’è ora il guercio di cui parli?»
«Nel recinto dei prigionieri. Però non lo sembra affatto. Un prigioniero, voglio dire. È tutta la notte che ciarla.»
«Ciarla? Di che?»
«Se lo conosco bene, starà reclutando seguaci» interloquì Dinostrato. «Di certo spergiura di essere sempre stato filo-romano, si vanta della vostra gratitudine, e assicura che lo nominerete reggente della nuova Siracusa alleata di Roma.»
Il centurione annuì.
«Da quel che ho capito, è proprio ciò che il guercio blatera.»
Marcello si ritrasse con una smorfia di disgusto.
«Preferirei mille nemici come Annibale a un solo “alleato” come questo cialtrone.»
«Signore?»
«Dagli ciò che merita, Agrippa» ordinò seccamente il console «e mandami una staffetta; devo inviare un dispaccio al Senato.»
Il centurione batté ancora una volta il pugno sul pettorale e s’accomiatò.
«Che significa “Dagli ciò che merita”?» azzardò Dinostrato, deluso.
Marcello stirò le labbra a scoprire i denti.
«A Roma c’è un detto. L’animo dei traditori è diviso; il modo migliore di trattarli è dividere anche il loro corpo. Di norma li facciamo squartare. Gli si legano gli arti a quattro cavalli da tiro, li si frusta. Ciò che resta si dà ai cani.»
Dinostrato impallidì. Il console infierì sprezzante.
«Perché ti sorprendi, greco? Noi romani siamo figli di Attilio Regolo; possiamo sovvenzionare spie o delatori, ma non accetteremmo mai di compensare chi straccia un giuramento di fedeltà.»
«Ignoro chi sia questo “Regolo”» replicò l’altro con un filo di voce «ma avete ragione, non dovrei sorprendermi; ho visto le vostre croci, lassù sulla collina.»
Marcello ingiunse di nuovo il silenzio.
«Dimmi ancora una cosa, greco. Che fine ha fatto il tuo amico punico, quel “Malcone” di cui stavi diventando… intimo?»
«Si è imbarcato sull’ultima nave. Assieme a Epicide e Ippocrate. Spero che riesca a tornare da sua moglie. A Cartagine.»
«Scappato come un topo, insomma» sferzò Marcello «come i due buffoni che vi siete scelti come tiranni.»
«Non li ho certo acclamati io» precisò Dinostrato «e neppure il mio padrone.»
«Davvero?» ghignò il console, adesso quasi divertito. «Allora chi è stato, dimmi, a piazzare il loro culo africano sul trono di Ortigia?»
Dinostrato s’incupì. Chinò lo sguardo, rispose quasi tra sé.
«Erano giorni strani, quelli. Geronimo era stato appena trucidato, a Siracusa molti reclamavano la corona. Il generale Adranodoro aveva provato a imporsi vantando la sua parentela con Gerone, per finire scannato insieme a sua moglie Demarata. Gli aristocratici si erano divisi in mille fazioni, tutti contro tutti, famiglie e clientele intente a misurarsi sul filo delle spade. Il resto dell’Assemblea attendeva, ammaestrata da decenni di ubbidienza e piaggeria, che emergesse il vincitore per affrettarsi a salire sul suo carro. Alla fine, temo, decisero di affidare il potere all’ambasciatore di Annibale perché almeno Epicide sembrava sapere ciò che voleva.»
Marcello sbuffò.
«Ercole mi è testimone, siete un popolo di stolti. Vi avremmo schiacciati in un giorno, se non aveste avuto tra voi Archimede. È strano che il tuo padrone non abbia compreso che si stava battendo dalla parte sbagliata.»
Dinostrato si scosse.
«Archimede non si è mai “battuto”. Non mi avete ascoltato? Egli aspirava a ben altri traguardi che a un’insulsa vittoria militare; questa guerra insensata non destava in lui alcun interesse.»
«Ti ho ascoltato fin troppo bene, greco» ribatté Marcello «e ho capito anche ciò che tu non vuoi vedere.»
«Che intendete?»
Il console impostò la voce su un registro retorico.
«Tu, greco, mi hai spiegato che il tuo padrone sognava di insegnare agli uomini il culto dell’ordine, della verità, dell’equilibrio universale. Che auspicava un mondo retto non più dai capricci dei re, ma dalla comprensione delle leggi naturali. Ebbene, la società che lui auspicava non è un ideale astratto; esiste già. E si chiama Roma.»
«Ne siete convinto?» arrischiò Dinostrato, inarcando un sopracciglio.
«È così» ribadì seccamente Marcello. «Anche noi, una volta, avevamo un sovrano che si considerava sciolto… noi diciamo absolutus… da qualunque dovere, che si arrogava di poter disporre il buono e il cattivo tempo come Giove Pluvio. Ma l’abbiamo scacciato nel sangue, e ora siamo una Repubblica. Il Diritto, la Legge e la Conoscenza… noi diciamo numerus… sono oggi il fondamento della nostra società.»
Il console gonfiò il petto.
«Capisci, adesso, perché eravamo destinati a sconfiggervi? Non vi siamo semplicemente superiori come guerrieri; siamo il mondo nuovo, l’idea vincente, l’evoluzione cui mirava il tuo maestro.»
Dinostrato rialzò il capo.
«Perdonatemi, console. Vi state sbagliando.»
«Cosa?»
«Credete davvero che Archimede ignorasse la vostra forma di governo? Vi assicuro che l’aveva studiata a fondo. In effetti, era uno degli argomenti del trattato cui stava lavorando quando i vostri uomini l’hanno ucciso.»
«Trattato?» intervenne Marcello in tono improvvisamente intrigato «di che trattato parli?»
«Il mio maestro sapeva calcolare, semplicemente osservandone il volo, ove sarebbe caduto un proiettile di catapulta. Anche la vita dei mortali, egli diceva, segue una parabola; dai primi passi che un uomo compie si può dedurre il destino che lo attende.»
«Di che stai vaneggiando, greco?» accusò severamente Marcello «non capisco.»
Dinostrato non si lasciò intimidire.
«Archimede riteneva che lo stesso principio valesse anche per le civiltà. Esse nascono, crescono, raggiungono un vertice, declinano. Studiando le caratteristiche di un popolo, asseriva il mio maestro, si può prevederne il successo o la rovina.»
«Vuoi farmi credere che Archimede ha predetto il futuro di Roma?»
Fu Dinostrato, questa volta, ad atteggiare le labbra lacerate in un sorriso.
«Sarebbe un bel trofeo da sfoggiare coi patrizi dell’Urbe, non è così? Un’autentica profezia di Archimede, un vaticinio con cui umiliare i vostri avversari politici.»
Marcello scoprì di nuovo i denti.
«Ho capito. Cosa chiedi in cambio, greco?»
Il prigioniero socchiuse gli occhi arrossati.
«Che mi concediate di celebrare le esequie del mio padrone. Di poterne disporre il sepolcro così come gli ho giurato.»
Il console meditò brevemente.
«Sia. La tua richiesta è accolta. Ti concedo tre giorni. Poi tornerai da me, a insegnarmi i globi d’argento e le altre macchine del tuo padrone.»
Dinostrato si alzò, sorpreso.
«Sono libero, dunque?»
«Agrippa ti consegnerà un salvacondotto. Quando mi avrai detto dov’è questa profezia, naturalmente.»
Il prigioniero frugò tra le vesti, ne cavò un minuscolo papiro. Lo srotolò. La fibra era macchiata di sangue scuro.
«L’ho sempre avuto con me» asserì. «Ora è vostro.»
Marcello afferrò con cupidigia il suo bottino.
«Molto bene, Dinostrato servo di Archimede. Va’ pure a onorare la memoria del tuo padrone. Ma rammenta: hai tre giorni.»
Il prigioniero si affrettò ad allontanarsi. Il romano pose la sua attenzione sullo scritto. Aggrottò la fronte nello sforzo di decifrare i caratteri vergati in greco. Il suo sguardo si fece interessato, poi avvinto, infine allarmato. Marcello tremò, deglutì, dovette sedersi.
Sulla soglia della tenda, il legionario di staffetta tossicchiò per richiamare l’attenzione del suo comandante.
«So che mi avete convocato, console» si informò timorosamente. «Cosa devo riferire al Senato?»
Marcello stracciò con rabbia il papiro e lo gettò nel fuoco che sopiva nel braciere. La fibra vegetale sfiorò i tizzoni ormai tiepidi, avvizzì, andò in cenere.
«Nulla» dichiarò il console. «Informali solo che la guerra, qui, è vinta.»
FINE