CAPITOLO TERZO
Al suono delle sirene Marty Smith disse addio a quel che rimaneva del suo boccale di birra e si precipitò in Carrington Road. Due autoscale dei pompieri, una macchina della polizia e un’ambulanza sfrecciavano a tutta velocità una dietro l’altra. Sul marciapiede opposto a Defoe Mansions si era accalcata una piccola folla di curiosi con gli occhi rivolti verso l’alto.
Marty seguì la direzione del loro sguardo e fu colto da un brivido di piacevole esaltazione. Sulla sommità di Defoe Mansions poté scorgere le sagome di due persone, un uomo e una donna.
Erano aggrappati, o meglio l’uomo era aggrappato al colmo di un abbaino sul tetto della parte nuova dell’edificio, aggiunto quando Defoe Mansions venne trasformata. Con la mano libera l’uomo tratteneva la donna per la cintura. Il corpo di lei penzolava inerte nel vuoto e dava l’impressione che fosse morta o svenuta.
Marty intuì la successione dei fatti. La ragazza doveva essere caduta dal tetto principale e scivolata giù su quello della parte aggiunta. Se l’abbaino non fosse stato nella direzione della sua caduta, la ragazza sarebbe andata a schiantarsi sul marciapiede. Solo in un modo l’uomo aveva potuto raggiungerla. Doveva essersi calato sul tetto sottostante subito dopo che la ragazza era precipitata.
Marty rabbrividì al solo pensiero e si fece più vicino alla folla.
Nel frattempo i pompieri avevano innalzato la scala fino all’abbaino.
Uno di loro, con in testa un elmetto e aiutato dall’uomo che si trovava sul tetto, si caricò la donna sulle spalle e cominciò a scendere. L’uomo si sporse in avanti per appoggiare il piede sul primo piolo, quindi discese dietro di loro. Intanto il gruppetto di curiosi si era allargato e alcuni agenti in uniforme avevano creato una barriera per dar modo agli infermieri di deporre il corpo inerte sulla lettiga e caricarla velocemente dentro l’ambulanza.
Quest’ultima, accesa la luce blu e azionate le sirene, scomparve subito do-po in fondo a Carrington Road.
Facendosi strada a gomitate fra i numerosi reporter, i poliziotti e i curiosi, l’uomo che poco prima era sul tetto corse velocemente verso l’Austin 1100, parcheggiata vicino al marciapiede. Saltò dentro e sfrecciò all’inse-guimento dell’ambulanza. Contemporaneamente gli agenti presero posto nelle loro macchine e seguirono l’Austin.
Un brusio di voci concitate salì dalla folla attonita. Marty Smith, con le mani in tasca alla ricerca di un gettone, si diresse verso il Rose and Crown.
* * *
«Per amor del cielo, Harry, sta’ calmo! Ti hanno appena detto che si salverà.» Nat fece ruotare la sedia, divaricò le gambe e si sedette mettendo le braccia sullo schienale. «Se fossi in te me ne andrei a far baldoria invece di star qui a preoccuparmi per una sgualdrinella che ha cercato di farmi fuori.»
Harry non reagì. Nat lo guardò con aria accusatrice e indicò una porta dietro la quale entrambi sapevano che si trovava la camera mortuaria.
«Potresti essere lì adesso, amico. Non lo capisci? Se non fossi stato abbastanza veloce da schivare la pallottola, potresti essere sdraiato là su una gelida tavola di marmo.»
Harry, in piedi, appoggiava la schiena al calorifero. Era troppo nervoso per starsene seduto e d’altronde le sedie di una sala d’aspetto di un ospedale non sono mai molto invitanti. Aveva raggiunto l’ospedale in tempo per vedere Judy che veniva trasportata al pronto soccorso. Il medico di turno l’aveva vagamente tranquillizzato, ma le sue parole non erano servite a cal-mare la sua ansia. Aveva quindi deciso di aspettare finché Judy non avesse ripreso conoscenza. Dieci minuti più tardi era sopraggiunto Nat.
«Sì, lo so», fece Harry con ostinazione, «lo so che può sembrare assurdo, ma non condivido la tua opinione sulla ragazza, non l’ho mai condivi-sa».
«Cosa ti succede, Harry? Ti stai innamorando di lei?» chiese Nat con espressione stupita.
«Non essere sciocco!»
«Ah sì?» Nat si alzò dalla sedia e disse in tono iroso: «Allora ti dirò qualcosa sulla tua protetta e soci. Da quando abbiamo trovato quelle famo-se fotografie, ho continuato a far ricerche sui precedenti del signor Peter Newton e della signorina Judy Black».
Nat gli si fece più vicino, quasi a sottolineare i suoi sospetti.
«Io e il sergente Quilter abbiamo dovuto abbordare metà delle prostitute di Londra, per non entrare in particolari. Ti assicuro che di sesso ne abbiamo fin sopra i capelli io e Quilter. A questo punto una serata di follia me la immagino giocando a tombola e bevendo succo d’arancia.»
«Che cosa hai scoperto di Judy?»
«Newton lavorava per un tizio che si chiama Tam Owen.» Nat si volse e cominciò a passeggiare su e giù per la stanza. «Non chiedermi chi è Tam Owen perché non lo so. Apparentemente controlla un giro di ragazze squillo, ma in realtà pare che si tratti di qualcosa di più. Un ricco provinciale, approdato in città in cerca di diversivi, compone un determinato numero e si mette in contatto con una ragazza affascinante di nome Judy Black. Dalla conversazione lei scopre con chi ha a che fare e allora lo scarica a Newton… o piuttosto lo scaricava a Newton. A questo punto Newton procura la compagna occasionale e nel giro di ventiquattr’ore il povero babbeo si ritrova ad acquistare un assortimento di foto pornografiche dal nostro signor Owen.»
«Dimentichi che è stata proprio Judy a parlare per prima di Tam Owen.
Non vedo per quale ragione avrebbe dovuto farlo se si fosse trovata a far parte del giro», ribatté Harry.
«È abbastanza ovvio. Si è accorta di muoversi su un terreno pericoloso e poi aveva paura di te, Harry.»
«Non sono d’accordo. Non è di me che aveva paura, Nat, ma di te.»
«Di me?» Nat si fermò e guardò Harry con aria sbigottita. «Se non l’ho mai vista!»
«Mai?»
«No, mai. Cosa ti fa pensare il contrario?»
«Non ha importanza.» La finestra di fronte a Harry dava su un corridoio parallelo all’ala dell’edificio in cui si trovava. Poteva scorgere due infermiere che spingevano una barella verso la sala operatoria, ma la persona che veniva trasportata rimaneva fuori del suo campo visivo. «Allora, dove vogliamo arrivare?»
«Il nostro obiettivo è come incastrare quel bastardo di Owen. E non credere che Judy Black sia disposta a parlare, perché non lo è. Owen le ha messo addosso una paura indiavolata.»
«Rimane sempre Linda Wade», fece Harry con calma.
«Sai bene cosa ha detto il tuo amico Heaton della Wade», puntualizzò Nat. «Ha detto che ha denaro da buttar via. Quel denaro proviene da Tam Owen. Non credo che sia disposta a disfarsi della gallina che fa le uova d’oro, mio caro Harry.»
«Non saprei.»
«Be’, se credi di poter impressionare la signorina Wade, avanti, datti da fare! Vai a parlarle. In fondo tentar non nuoce.»
In quel momento la porta si aprì e Nat si interruppe. Entrò un medico che parve ad Harry straordinariamente giovane.
«Ispettore Dawson?» Guardava i due uomini con aria interrogativa.
«Sono io», disse Harry facendo un passo avanti.
«Mi chiamo Friedman, ho in cura la signorina Black.»
«Come sta, dottore?»
«È stata molto fortunata. Penso che si trovasse in stato di incoscienza nel momento in cui si portava oltre il parapetto; così che il suo corpo era inerte quando è precipitata sull’abbaino sottostante. Ciò le ha evitato delle frattu-re molto gravi. Infatti, ha riportato soltanto la lussazione di una spalla che abbiamo già rimesso a posto. Non dovrebbe esserci nulla di preoccupante, allo stato attuale.»
«Posso vederla?»
«Be’…» il medico parve dubbioso. «Quando ha ripreso conoscenza ha chiesto subito di lei, ma poiché ha subito un violento shock, le abbiamo somministrato un sedativo. Sarebbe opportuno che la paziente dormisse il più a lungo possibile, perciò sono costretto a chiederle di ritornare più tardi.»
«Mi dica a che ora.»
«Verso le otto?»
«Benissimo.»
Il medico fece un cenno col capo e si diresse verso la porta. L’atteggiamento vigile e assorto dei due poliziotti l’aveva messo a disagio.
Quando si fu allontanato, Nat prese ad abbottonarsi il soprabito.
«Incontriamoci qui alle otto meno cinque, Harry.»
Questi annuì soprappensiero. «Benissimo, Nat.»
«Dicevo sul serio a proposito di Linda Wade.» Il tono di Nat era più cordiale. «Provaci.»
Quando Harry si rimise in macchina per tornare a Defoe Mansions, l’ora di punta non era ancora iniziata. Parcheggiò l’auto un centinaio di metri più avanti e percorse a piedi il breve tratto che lo separava dall’edificio. Si fermò un attimo sul marciapiede a guardare il tetto. Gli parve di rivivere quei momenti in cui, vedendo il corpo di Judy precipitare dal parapetto, aveva temuto per la sua vita. Guardando dal basso, gli pareva impossibile che la sommità dell’abbaino fosse sufficientemente larga da arrestare la caduta di un corpo. Non l’aveva neppure notato quando era scivolato sul tetto per raggiungere Judy.
Una figura che si muoveva nell’ingresso dell’edificio attirò la sua attenzione. Ne uscì un uomo quasi di corsa. Indossava una giacca di velluto a coste e al collo portava un foulard di seta. Harry lo riconobbe immediatamente. Era Sidney Heaton. Guardandosi intorno con aria furtiva si diresse verso un’auto parcheggiata a un lato della strada. Le mani gli tremavano a tal punto che a mala pena riuscì a introdurre la chiave nella serratura. Nel premere il bottone d’accensione, la macchina fece un balzo in avanti perché aveva dimenticato di mettere il cambio in folle. Quando infine riuscì ad avviare il motore, si portò bruscamente al centro della strada senza controllare lo specchietto retrovisore, quindi partì a velocità sostenuta oltre-passando il Rose and Crown.
Harry rimase a guardare l’auto che si allontanava e poi attraversò rapidamente la strada.
Entrato nell’ascensore, Harry salì fino al terzo piano. Chiuse i cancelli e così il gabbiotto rimase al piano. Vide subito che la porta dell’appartamento di Linda era socchiusa.
Sostò un attimo sulla soglia cercando di individuare il suono che prove-niva dall’interno, quindi spinse la porta ed entrò in anticamera.
Da una stanza di fronte al bagno dove si era già nascosto in precedenza, si udivano dei singhiozzi incontenibili. In punta di piedi si avvicinò alla porta e si trovò di fronte a una camera da letto più intima e personale di quella che dava sul soggiorno.
Linda Wade sedeva di fronte allo specchio della toilette e si asciugava il volto bagnato di lacrime. Le sue spalle nude erano coperte di lividi ed e-scoriazioni, alcune così profonde che sanguinavano. Qualcuno doveva averla percossa violentemente con un guinzaglio o con un frustino da cavallo.
Benché ormai abituato a scene di violenza, Harry non poté fare a meno di provare un senso di nausea di fronte a quello spettacolo. Harry si mosse verso di lei. La ragazza vide il movimento riflesso nello specchio e si girò lentamente.
«Come diavolo ha fatto a entrare?»
«Dio mio!» bisbigliò Harry. L’aggressore di Linda, non contento di averla percossa sulle spalle, le aveva sfregiato anche il viso; la parte sinistra dalla tempia al mento era completamente sfigurata.
«Visto?» disse Linda, ancora scossa dai singhiozzi che non riusciva a frenare. «Carina, vero?»
«Ha bisogno di un medico.» Harry si mosse verso il telefono ma la ragazza alzò una mano per fermarlo.
«Non voglio un dottore, non voglio vedere nessuno. Ha visto come sono ridotta.»
Nascose il viso in un asciugamani.
«Chi è stato?» chiese Harry con un tono di voce stranamente calmo.
«Per favore, mi lasci sola.»
«Linda, ascolti…»
«Non ha sentito quello che ho detto? Mi lasci in pace.»
Harry prese uno sgabello e le si sedette di fianco.
«So chi è il responsabile di tutto questo, non c’è bisogno che me lo dica.
È Tam Owen, vero?»
D’un tratto Linda smise di singhiozzare, e diede una rapida occhiata allo specchio che rifletteva il suo volto lacerato.
«Oh, Dio! Come sono ridotta! Guardi la mia faccia. Quel maledetto por-co!»
«Perché l’hanno fatto? Forse perché ho trovato il passaporto? O forse perché ha fallito con Judy?»
«Per favore, mi lasci in pace.»
Harry vide che Linda si era calmata e questo era un buon segno. Decise di cambiare tattica.
«Judy è in ospedale. Lo sa?»
Questa volta si girò di scatto, sussultando per l’acuto dolore alle spalle.
«In ospedale?»
«Sì, c’è stato un incidente.»
«Non le credo.»
«È vero. È ricoverata al St. Matthew’s.»
«È grave?»
«No, non credo. Devo vederla stasera.» Harry indicò il volto della ragazza. «So che è terribile da vedersi, al momento, ma non è poi così grave come può pensare. Vada da un bravo medico e in un paio di mesi non le rimarrà neppure un segno.»
«È facile a dirsi.»
Linda si guardò allo specchio e alzò un dito per toccare lo sfregio.
«No, ne sono convinto. Al St. Matthew’s c’è uno specialista in chirurgia plastica, è un mago nel suo campo. Le saprò dire come si chiama.»
«Grazie», disse Linda riconoscente, soffiandosi il naso nell’asciugamani.
Harry attese alcuni minuti, poi ritornò all’attacco per farsi dire chi l’aveva ridotta in quello stato.
«Crede che sia pazza?» disse scuotendo il capo. «Non vede cosa mi è accaduto solo perché ho sbagliato con Judy? Non le dirò proprio nulla, e non so di cosa stia parlando. Non conosco nessun Tam Owen. Oh, Dio, la mia faccia! Sono un mostro.»
Aveva ricominciato a piangere.
«Presto o tardi», disse Harry, «dovrà pur vuotare il sacco su Owen, quindi è meglio che lo faccia adesso».
«Per favore, vada via. Mi lasci in pace. Per carità…»
Era chiaro che si trovava in uno stato di shock tale da non riuscire a dare un senso logico alle sue parole.
Harry si alzò. «Va bene, Linda. Ne riparleremo. Posso far qualcosa per lei?»
«No, grazie. Prendo un paio di aspirine e me ne vado a letto per un’ora.»
«Ottima idea.»
Muovendosi in direzione della porta, Harry diede una rapida occhiata in giro. Nessun oggetto che poteva essere stato dimenticato dal visitatore di Linda attirò la sua attenzione.
«A proposito, quanto tempo è rimasto qui il signor Heaton?»
«Heaton?» La sorpresa di Linda parve genuina.
«Già.»
«Non l’ho visto. Non è mica stato qui.»
«Veramente, Linda?»
La ragazza non rispose. Era ancora intenta a tamponarsi la ferita.
«Non crede che sarebbe meglio chiudere la porta a chiave dietro di me, tanto per essere prudenti?»
Linda fece un breve cenno del capo e lo seguì in anticamera. Harry vide che aveva i piedi nudi perfettamente curati, le unghie laccate di uno smalto dorato.
* * *
Gli animali che si agitavano nelle gabbie parvero istintivamente conta-giati dall’umore del cliente che entrava nel negozio. Era in uno stato di agitazione tale che l’aria attorno a lui sembrava carica di elettricità. Cominciarono a squittire, abbaiare e miagolare tutti insieme, senza però soffocare il suono del campanello azionato dalla porta d’ingresso.
Heaton comparve dal retro del negozio. «È chiuso. Non ha letto il cartello sulla porta?»
Il tono della sua voce era più polemico che infastidito. Aveva la luce di fronte e non riusciva a distinguere chi fosse entrato. D’un tratto i suoi modi cambiarono.
«Oh, salve, signor Dawson.»
«Desidero parlarle, signor Heaton», fece Harry senza tante cerimonie.
«Sì, sì, certamente.» Heaton prese a fregarsi nervosamente le mani. «Io…
mi rincresce di non averla riconosciuta subito. Vuole accomodarsi nel mio studio?»
Harry ignorò l’invito. «Cosa è accaduto questo pomeriggio?»
«Questo pomeriggio?»
«Sì, a casa della signorina Wade.»
«Mi spiace.» Con palese nervosismo, Heaton si aggiustò il foulard attorno al collo. «Non capisco.»
«Allora cercherò di essere più chiaro. Voglio semplicemente che mi dica cosa è accaduto questo pomeriggio nell’appartamento di Linda.»
«Penso che ci sia un errore, signor Dawson.» Heaton si sforzò di incontrare lo sguardo accusatore di Harry. «Sono rimasto qui tutto il pomeriggio a sistemare i conti.»
«Non ci siamo, Heaton.» Harry scosse il capo. «L’ho vista mentre lasciava Defoe Mansions. Ho notato che si trovava in difficoltà nell’aprire la portiera della sua auto e nel metterla in moto. Ha visto per caso qualcuno da Linda? E cosa è successo?»
«Non… non ho visto nessuno. Oh, mio Dio, ciò è molto imbarazzante.»
Le labbra gli tremavano visibilmente e per un attimo Harry pensò che fosse in procinto di scoppiare in lacrime. «Non so proprio cosa dirle, signor Dawson. Le assicuro che non ho l’abitudine di far visita…»
«Senta, Heaton, parliamoci francamente. Non faccio parte della squadra del buon costume e me ne infischio della sua vita sessuale. Non mi interessa di sapere con chi va a letto. Ma c’è una cosa che mi deve dire e subito.
Cosa è successo questo pomeriggio?»
Heaton fissò Harry come un coniglio ipnotizzato, quindi si diresse verso la porta del negozio. La chiuse a chiave e ritornò lentamente dove si trovava.
«Devo… raccontare dall’inizio?»
«No, non voglio sentire la storia della sua vita. Le ripeto che voglio sapere solo cosa è successo questo pomeriggio.»
«Io… sono andato da Linda. Saranno state le cinque e un quarto.» Heaton si umettò le labbra. «Sono entrato nell’appartamento. C’era qualcosa di insolito che non riuscivo a capire e poi… Linda era sdraiata sul pavimento e piangeva. Dio mio, che scena spaventosa. Aveva il vestito strappato e perdeva sangue dalle spalle e dal viso.»
Si coprì il volto con le mani e per un momento fu incapace di continuare.
«Era orribile, signor Dawson, veramente orribile. Non sapevo proprio cosa fare.»
«Cosa ha fatto?»
«Temo di essermi comportato molto male. Ma cerchi di capire la mia situazione, signor Dawson. Mi trovavo là, in quell’appartamento, con una donna ridotta in quello stato…»
«Allora se l’è svignata.»
«Sì, temo di sì.»
Harry rimase impassibile di fronte alle giustificazioni di Heaton. Sapeva per esperienza che quei tipi apparentemente innocui e dall’aria sottomessa erano forse i più portati a improvvisi atti di violenza. Eppure stentava a credere che quell’uomo spaventato che aveva visto fuggire da Defoe Mansions avesse potuto aggredire Linda in modo così brutale.
«Linda l’ha vista?»
«Non lo so, non ne sono certo.»
«Come ha fatto a entrare nell’appartamento?»
«Linda mi aveva dato la chiave.»
«Quando?»
«Ieri sera, quando siamo andati a cena insieme. È stata una specie di…
ricevuta, diciamo.»
«Le ha dato del denaro?»
«Eh… sì, infatti. Mi ha dato la chiave dicendomi che potevo usarla ogni volta che fossi andato a farle visita.»
Heaton mise una mano in tasca ed estrasse una chiave. «Eccola.»
«È vero quello che mi ha detto?»
«Lo giuro. Francamente non potrei mentirle su una cosa simile.» Ancora una volta Heaton assunse un’espressione onesta e sincera. «Lei mi conosce, signor Dawson.»
«È proprio qui che sbaglia. Io non la conosco affatto, signor Heaton.»
Harry gli prese la chiave di mano. «Questa la tengo io.»
* * *
Quando Harry arrivò all’ospedale all’ora stabilita, Nat era già lì ad aspet-tarlo, seduto su una di quelle scomode sedie della sala d’attesa. Aveva le gambe accavallate e fumava una sigaretta.
«È un gran sollievo avere cinque minuti a nostra disposizione, senza quei maledetti telefoni che ci rompono i timpani. Mi sono liberato prima del previsto, così sono arrivato in anticipo. Hai seguito il mio consiglio per quanto riguarda Linda?»
«Sì», rispose Harry con freddezza. Poi raccontò all’amico della sua visita nell’appartamento di Linda e dell’interrogatorio fatto a Heaton.
«Non ho mai incontrato questo Heaton.» Nat si alzò per gettare il mozzicone dalla finestra. Nella stanza c’era un cartello «Vietato Fumare» e di conseguenza non c’erano portaceneri. «È stato Yardley a interrogarlo quella volta. Devo ammettere che la sua storia mi sembra piuttosto inverosimi-le.»
«Sì, ma non dimenticare che l’ho visto uscire da Defoe Mansions. Era veramente terrorizzato, quasi fosse preso dal panico.»
«Non poteva essere tutta una finzione?»
«Sì, potrebbe essere, ma perché avrebbe dovuto fingere?»
«Mettiamo che l’abbia appena aggredita. Se la sta svignando, quando improvvisamente ti vede. Finge allora di essere un pover’uomo terrorizzato che odia talmente la violenza che non farebbe male a una mosca.»
«Può anche darsi.» Harry non aveva certo l’intenzione di prendere le di-fese di un soggetto come Heaton. «Mi domando perché. Doveva pur avere un motivo.»
«Non necessariamente. Forse ha ricevuto un torto e ha agito per ripicca.
Ragazze come Linda Wade subiscono spesso delle aggressioni. È un rischio che sanno di correre, fa parte del gioco.» Nat parlava con quel cini-smo che aveva acquisito in cinque anni di esperienza nella squadra del buon costume.
«Sì, ma c’è un altro punto. Heaton potrebbe lavorare per Owen.»
Nat annuì con un cenno del capo.
«Oppure», continuò Harry seguendo un’idea che gli era balenata nella mente, «la tua ipotesi è giusta e Heaton è un vero commediante… di prim’ordine, direi».
«Cioè?»
«Può darsi che Heaton sia l’uomo che stiamo cercando. Forse è lui Tam Owen.»
«Be’, tutto è possibile, naturalmente», fece Nat non molto convinto.
Nat era lento nelle sue reazioni, pensò Harry. D’altra parte, era compren-sibile. Da oltre cinque giorni stava lavorando a quel caso e da allora erano stati commessi altri due omicidi. In simili circostanze, giorno e notte, giorni feriali e festivi, non fanno alcuna differenza. Finché l’assassino non viene scoperto, non ci si può permettere nemmeno un’ora di riposo.
«Nat, stavo pensando a Judy Black. Se parla, se è disposta ad aiutarci, dovremo proteggerla. Non possiamo permettere che badi a se stessa, una volta uscita dall’ospedale. Almeno non dopo quello che è successo a Linda Wade oggi pomeriggio.»
«Che cosa intendi fare, Harry?»
«Alcuni miei amici hanno un albergo nel Cotswolds. È un posto molto tranquillo; nessuno scoprirà mai il suo nascondiglio.»
«Dove si trova?» Nat si era distratto, sembrava avesse perso interesse per quello che Harry gli stava dicendo.
«Te l’ho detto, si trova nel Cotswolds. Un villaggio chiamato Steeple Aston.»
«Okay.» Nat sorrise cercando di concentrarsi maggiormente per scaccia-re il sonno che gli appesantiva le palpebre. «Se è disposta a vuotare il sacco, ti permetterò di portarla al sicuro, altrimenti…» Il suo tono era cambiato. «Se invece si rifiuta di aiutarci, allora, dovrà vedersela con me… Oh, buona sera, dottore.»
Nat si alzò leggermente imbarazzato. Il dottor Friedman aveva aperto la porta silenziosamente.
«Buona sera», li salutò il medico in tono formale.
«Come sta la nostra paziente, stasera?» chiese Nat.
Il medico si volse verso Harry. «Sta molto meglio, può lasciare l’ospedale domani mattina, se vuole, ma naturalmente dovrà riguardarsi per un giorno o due. Le ho detto che lei è qui, signor Dawson. La ragazza avrebbe piacere di vederla, ma…» Friedman lanciò una rapida occhiata a Nat, «da solo, possibilmente».
«Va bene», fece Nat tornando a sedersi. «Aspetterò qui.»
* * *
Judy era in una camera privata a un letto. Con grande sorpresa di Harry non era coricata, ma seduta in una poltrona vicino alla finestra. Indossava lo stesso vestito di poche ore prima e portava il braccio sinistro al collo.
Fumava una delle sue solite sigarette e, nonostante il suo pallore, sembrava abbastanza ristabilita. I capelli tinti di scuro la facevano apparire ancora strana agli occhi di Harry.
«Posso entrare?» chiese Harry facendo capolino dalla porta.
La ragazza assentì. Harry chiuse la porta e si diresse verso una sedia.
«Come si sente?»
«Non c’è male.»
«Le fa male la spalla?»
«No, per il momento.»
Ci fu un breve silenzio durante il quale entrambi non riuscivano a trovare le parole adatte. Judy volse il capo e per la prima volta lo guardò negli occhi.
«Mi spiace per quanto è accaduto. È stata tutta colpa mia. Mi sono comportata come una sciocca. Mi hanno detto che ha rischiato la vita per sal-varmi.»
«Nessun rischio, mi creda. Piuttosto, mi dispiace molto che si sia fatta male.»
«Cosa accadrà ora? Che cosa ne farete di me?»
Harry si sedette su una poltroncina in un angolo della stanza. La poteva vedere di profilo, mentre la ragazza non era obbligata a incontrare il suo sguardo. Pensò che fosse abbastanza in forze per affrontare una spiacevole notizia.
«Judy, c’è qualcosa che deve sapere. Linda Wade è piuttosto malridotta.
Be’… è stata aggredita da qualcuno.»
«No. Oh, no! Quando è accaduto?»
«Questo pomeriggio. Il suo viso è orribilmente sfregiato, purtroppo.» Si sporse in avanti e parlò con calma ma molto chiaramente. «Ora mi ascolti, Judy, mi deve dire la verità. Voglio sapere tutto quello che sa su Newton e Tam Owen.»
«Ma le ho già detto la verità!» Judy spense la sigaretta ancora a metà nel portacenere che aveva accanto.
«Ha detto che Peter Newton era un agente immobiliare. Bene, non lo era affatto. Lui e Tam Owen controllavano un’organizzazione di ragazze squillo.»
Judy guardò fuori della finestra prima di rispondere, poi disse con estrema calma: «Sì, lo so, me l’ha detto Linda. Mi ha raccontato tutta la storia. Non ne sapevo nulla finché non…»
Con uno scatto di impazienza la ragazza si alzò e andò a mettersi dietro a Harry, fuori dal suo campo visivo.
«Oh, a che serve? Tanto non mi crederebbe.»
«Mi dica quel che sa. Deciderò dopo se crederle o no.»
Harry rimase seduto dov’era. La ragazza si sarebbe aperta più facilmente se non si fosse sentita sotto la pressione del suo sguardo.
«Secondo Linda», cominciò, «quando Peter mi incontrò per la prima volta capì subito che ero la ragazza adatta per quel genere di lavoro, ecco perché mi portò con sé a Londra. Dopo un po’ di tempo si accorse di essere innamorato di me e decise che…» Si interruppe per un momento. Da come si muoveva alle sue spalle, Harry capì che la ragazza era inquieta. «A quel tempo non sapevo nulla di questo giro di ragazze squillo. Peter me l’aveva tenuto nascosto. Non sapevo assolutamente nulla, è la verità.»
«Ma sapeva di Linda», puntualizzò Harry, «doveva sapere che genere di vita conduceva, altrimenti…»
«Sì, lo sapevo. Era una mia intima amica. Ma le giuro che non sapevo di Peter.»
«Cosa accadde la sera in cui dovevamo incontrarci davanti al ristorante Chez Maurice a Soho?»
Judy, sentendo che le gambe le tremavano ancora per la debolezza, tornò a sedersi sulla poltrona.
«Tam Owen sapeva che la polizia mi stava ricercando e ordinò a una delle sue ragazze di farle quella famosa telefonata. Allora, quando Linda la vide davanti al ristorante, capì immediatamente cosa stesse tramando Tam e decise di aiutarmi. Così telefonò a Tam e gli disse che Peter mi aveva da-to una lettera che conteneva informazioni su di lui.»
«Su Tam Owen?»
«Sì.»
«Era vera… la storia della lettera?»
«No, ma lo stratagemma riuscì. Mi aveva già messo Marty Smith alle calcagna. Quando ci fermammo nel Mall, Marty gli telefonò per prendere ordini. Tam era preoccupato perché temeva che avrei potuto consegnare la lettera alla polizia…»
«Così ordinò a Marty Smith di sistemarmi a dovere e di riportarla da lui.
Poi la convinse a tagliare la corda.»
«Sì, solo che fu Linda a parlare con lui. Io non ho mai incontrato Tam Owen.»
«Mai?»
«No, mai. Solo Marty. È un amico di Linda, anche se non è il termine più adatto. Non credo che abbia degli amici. È un duro, forse il più violento di tutti gli scagnozzi di Tam Owen.»
Allungò una mano per prendere una sigaretta. Harry fece scattare l’accendino e lei mise una mano sulla sua per avvicinarla alla sigaretta.
«Vada avanti, Judy», fece Harry dopo che la ragazza ebbe tirato la prima boccata della sigaretta.
«Linda mi disse che se fossi rimasta in giro non avrei avuto scampo. Mi fece capire che avevo già agito in modo sospetto e che prima o poi la polizia mi avrebbe pizzicata. Promise che mi avrebbe procurato un passaporto falso.»
«Direttamente da Tam Owen?»
«No, da Marty Smith.»
Harry si soffermò un attimo a riflettere. Judy era notevolmente impallidita. Evidentemente la conversazione l’aveva stancata, ma Harry decise di continuare visto che le cose prendevano la piega giusta.
«Judy, per l’ultima volta mi dica la verità. È stata lei a uccidere Peter Newton?»
Lei lo fissò dritto negli occhi e Harry notò che aveva delle ciglia molto lunghe che mettevano in risalto la bellezza dei suoi occhi.
«No», disse con fermezza.
«Non sapeva nulla della vera attività di Newton?»
«Che cosa intende dire?»
«Non si accorse che lui era dentro fino al collo in quella sporca faccenda? Non pensò di denunciarlo?»
«No», rispose Judy. «Le cose andarono diversamente. Volevo aiutare Peter. Sapevo che si trovava nei guai e cercavo di persuaderlo ad andare dalla polizia a raccontare tutto. Ecco perché litigammo quella sera al ristorante.»
«Ma credevo che il motivo della lite fosse quel famoso collare.»
«Infatti, fu per il collare e per quel messaggio che lei ricevette la mattina dopo che Peter venne ucciso.»
* * *
Alle undici del mattino seguente Harry si recò all’ospedale a prendere Judy. Essendo stata ricoverata d’urgenza, non aveva bagaglio. Gli abiti che indossava al momento dell’incidente erano stati puliti e stirati da una solle-cita infermiera. Una buona dormita era stata un toccasana per Judy, tanto che le sue guance avevano ripreso colore. Aveva il braccio sinistro sorretto da una fascia bianca e portava la giacca sulle spalle.
Non ci vollero più di dieci minuti per raggiungere Defoe Mansions.
Questa volta Harry non cercò di passare inosservato e parcheggiò la sua Austin proprio di fronte all’entrata. Dal portabagagli estrasse una valigia vuota che Judy avrebbe riempito coi suoi oggetti personali.
Giunti sulla soglia dell’appartamento, Harry depose la valigia e le rivolse un sorriso rassicurante prima di suonare il campanello.
«Lasci fare a me, parlerò io con Linda. Lei pensi soltanto a preparare la valigia.»
Judy assentì e si aggiustò nervosamente la fascia. Dopo un minuto Harry tornò a suonare il campanello e questa volta premette il pulsante per una decina di secondi. Potevano udire il suono echeggiare nell’appartamento.
«Non credo sia in casa», fece Judy, sperando così di evitare un confronto diretto con Linda.
«Non sono d’accordo.» Harry indicò la cassetta delle lettere. «Provi a chiamarla per nome, forse se riconosce la sua voce viene ad aprire.»
Judy si chinò e sollevò lo sportello della cassetta.
«Linda», chiamò attraverso l’apertura. «Sono io, Judy.»
Ancora nessuna risposta. Harry attese un altro po’, quindi estrasse di tasca la chiave di Sidney Heaton e la infilò nella serratura.
«Dove l’ha presa?»
Harry ignorò la domanda e aprì la porta senza far rumore. Raccolse la valigia e si inoltrò nell’appartamento facendo segno a Judy di seguirlo.
Come questa entrò nel soggiorno chiamando Linda, Harry le si fece più vicino per proteggerla da eventuali pericoli.
«Decisamente non è in casa. Le mie cose si trovano in questa stanza…»
«Aspetti!» Stava già per aprire la porta di fronte alla camera dove era stata trovata Linda, quando Harry la fermò e, scostandola, entrò a perlustrare la stanza. Era vuota e aveva un aspetto desolato.
«Va bene, entri pure», disse, «e faccia il più presto possibile. Ho una strana sensazione».
Judy entrò nella stanza e aprì l’anta di un armadio a muro. Harry appoggiò la valigia sul letto e fece scattare la serratura.
«È strano», esclamò Judy.
«Che cosa?»
«I miei vestiti sono tutti al loro posto ma quelli di Linda sembrano essere scomparsi.»
«Tiene i suoi abiti qui? Credevo che…»
«No, la maggior parte li tiene nell’altra stanza, ma di solito appendeva gli abiti lunghi in questo armadio. Aspetti, vado a vedere.»
Prima che avesse potuto fermarla, la ragazza era già fuori della stanza.
L’avrebbe seguita se il telefono sul comodino non avesse cominciato a squillare.
Rimase un istante a fissarlo, indeciso se rispondere o no, poi sollevò il ricevitore e lo avvicinò all’orecchio.
Immediatamente una voce asciutta domandò: «È il 586-1729?»
Harry diede un’occhiata alla targhetta per controllare il numero.
«Sì.»
«C’è un telegramma per Linda Wade.»
«Grazie, prendo nota.»
«Le leggo il testo. ‘L’aspetto domani alle dieci. Firmato Douglas’.»
«Douglas, ha detto?»
«Sì, esatto.»
«Dove è stato fatto il telegramma?»
«È stato consegnato all’ufficio postale di St. Albans alle undici e quaran-tacinque.»
«Grazie.»
«Vuole la conferma scritta?»
«Sì, per favore.»
Harry era ancora vicino al telefono quando Judy ritornò.
«Chi era?»
«Hanno sbagliato numero. Ha scoperto qualcosa?»
«Sì, se n’è andata, ha lasciato l’appartamento. Il suo guardaroba è completamente vuoto.»
«Va bene, Judy, muoviamoci. Non abbiamo molto tempo.»
Judy si avvicinò all’armadio e cominciò a piegare i vestiti e a riporli nella valigia.
«Quanto tempo impiegheremo per arrivare in quel posto?»
«Impiegheremo circa due ore per arrivare a Bicester. Steeple Aston è a circa dieci miglia da lì.»
Harry era in mezzo alla stanza con occhio sempre vigile, pronto a prendere nota del più piccolo dettaglio.
«Steeple Aston?»
«Sì, questo è il nome del villaggio, l’albergo si chiama Il Monastero.»
«È un nome piuttosto insolito per un albergo», constatò Judy, ritornando verso l’armadio.
«Sì, lo so. È più una pensione che un albergo, ma non si preoccupi. Le piacerà.»
«Ne sono certa. Sono contenta di lasciare Londra per un po’.»
Piegò una giacca e la ripose nella valigia, quindi si drizzò e rivolse a Harry uno sguardo tenero.
«Le sono molto grata, Harry, per quello che sta facendo per me.»
«Non si preoccupi», disse Harry, pensando che era molto bella quando abbandonava quel suo modo di fare ostentatamente aspro. «Si prenda cura di sé e, soprattutto, si ricordi quello che le ho detto; non dia a nessuno il suo indirizzo, non esca dall’albergo per nessuna ragione e se ha bisogno di comunicare con qualcuno, telefoni a me.»
Judy sorrise al tono sincero e premuroso di lui. «Non lo dimenticherò.»
«I proprietari dell’albergo sono miei amici. Ho detto loro che deve rista-bilirsi dalle conseguenze di un incidente automobilistico e che ha assoluto bisogno di…»
Si interruppe ed entrambi guardarono in direzione dell’anticamera. Qualcuno aveva suonato il campanello. Harry mise un dito sulle labbra e fece cenno a Judy di rimanere dov’era. Poi entrò nell’anticamera, chiudendo la porta dietro di sé, e rimase immobile ad ascoltare.
Dal pianerottolo, gli giunse il cigolio dei cancelletti che si chiudevano e il rumore sordo dell’ascensore in discesa. Chiunque avesse suonato non aveva certo nulla di urgente da comunicare.
Harry attese un attimo, poi aprì la porta. Il pianerottolo era vuoto, ma c’era una grossa busta bianca sullo zerbino.
Si chinò per raccoglierla, ma prima ancora di toccarla capì di avere commesso un errore imperdonabile. Con la coda dell’occhio scorse una gamba che si muoveva lungo la parete di fianco alla porta. Cercò di farsi da parte per schivare un colpo inevitabile, ma ormai era troppo tardi. Il calcio di una pistola lo colpì violentemente alla nuca ed egli cadde sulla soglia.
Marty Smith scavalcò il corpo e si precipitò nell’appartamento con la pistola in pugno.
«Judy!»
Si fermò sulla soglia del soggiorno, guardandosi attorno furtivamente, quindi si diresse verso la porta della camera da letto adiacente e l’aprì di botto. Tornò in anticamera continuando a chiamare la ragazza ad alta voce.
Notando che una delle porte che davano sull’ingresso era chiusa, si avvicinò di soppiatto e la spalancò.
Judy era lì, a due passi da lui, con gli occhi sbarrati.
«Marty!» esclamò, sforzandosi di sorridere. «Sei tu?»
«Già, perché diavolo non rispondevi?»
«Non ero sicura che fossi tu. Sei riuscito a sistemare quello stupido pie-dipiatti?»
«Direi!»
La prese per una mano e la condusse in anticamera. Alla vista del corpo di Harry, Judy si arrestò.
«L’hai voluto proprio tu, maledetto bastardo!» Nei suoi occhi non c’era la benché minima traccia di compassione.
«Vieni, Judy», la sollecitò Marty, trascinandola via.
La ragazza dovette scavalcare il corpo di Harry. Così facendo, notò che il suo viso era rivolto verso l’ascensore; aveva gli occhi leggermente soc-chiusi, e un lieve tremito delle palpebre le fece capire che non era morto ma soltanto svenuto.
Marty, davanti all’ascensore, continuava a premere impazientemente il pulsante di chiamata, sebbene l’indicatore ne segnalasse la salita. Aveva la mano già pronta sulla maniglia del cancelletto e l’aprì non appena l’ascensore giunse al piano. Fece entrare la ragazza con uno spintone e ripose la pistola nella fondina.
Il signor Pye era stato uno dei primi inquilini di Defoe Mansions e abitava al piano terreno. Sapeva per esperienza che c’era solo un sistema per far fermare l’ascensore al primo piano quando i passeggeri avevano già premuto il bottone del piano terra. Si doveva tirare con forza la porta nel momento in cui l’ascensore si trovava a livello del piano.
La manovra prese letteralmente di sorpresa Marty che fissò sconcertato il signor Pye quando questi entrò sorridendo nel gabbiotto. Schiacciò il bottone del piano terra e, come l’ascensore ripartì, rimasero in silenzio l’u-no vicino all’altro.
Improvvisamente Judy, con il braccio libero, tentò di estrarre la pistola dalla fondina di Marty, ma non ci riuscì perché l’uomo le afferrò il polso.
«Mi aiuti!» gridò all’attonito signor Pye.
Questi reagì con sorprendente rapidità buttandosi sul braccio di Marty per far deviare la canna della pistola verso il pavimento. Nella colluttazio-ne partirono due pallottole che andarono a conficcarsi nel pavimento di legno e riempirono il gabbiotto di un acuto odore di cordite. Con la mano libera, Marty colpì allo stomaco il signor Pye, il quale, con una smorfia di dolore, allentò la presa e si raggomitolò sul pavimento.
In quel momento l’ascensore si fermò. Marty aprì il cancello e spinse fuori la ragazza con violenza. Questa inciampò sul gradino, attraversò la hall barcollando e andò a sbattere contro la parete opposta. Come Marty si mosse per raggiungerla il signor Pye, ancora a terra, allungò una mano, lo prese per il risvolto dei pantaloni e lo fece cadere lungo disteso sul pavimento.
Marty si rialzò bestemmiando, si voltò di scatto e colpì il malcapitato con un calcio. Poi si diresse verso Judy che, riversa sul pavimento, si la-mentava sommessamente.
Si era chinato afferrando la ragazza per i piedi e voltava la schiena alla rampa di scale che terminava accanto all’ascensore. Harry, che nel frattempo era tornato in sé, prese a scendere le scale a tre gradini per volta. Il salto finale lo portò dritto alle spalle di Marty, facendolo cadere. L’automatica gli scivolò di mano e Judy fu pronta ad allontanarla con un calcio.
Con uno sforzo notevole Marty riuscì a liberarsi dalla stretta di Harry e si allontanò da lui rotolando su se stesso. Con un colpo di reni balzò in piedi estraendo contemporaneamente un coltello a serramanico.
Harry ebbe appena il tempo di sollevarsi sulle ginocchia che Marty gli si parò contro, ma nello stesso tempo si rese conto che la sua era una posizione di vantaggio. Come Marty gli puntò il coltello addosso, Harry fece un mezzo giro su se stesso afferrandogli il polso con la mano sinistra e torcendoglielo. Poi allungò la destra per incrociare la mano armata di Marty e, sfruttando la sua stessa forza, deviò il colpo verso l’alto.
Marty lanciò un urlo e si inarcò all’indietro per evitare che Harry gli spezzasse il braccio. Appena cercò di sollevare la testa, un potente sinistro di Harry lo mise fuori combattimento.
Harry si precipitò verso Judy che, rannicchiata in un angolo, si stringeva convulsamente la spalla fasciata. Il suo volto era alterato da una smorfia di dolore.
«Tutto bene, Judy?»
La ragazza si sforzò di sorridere.
«Se andiamo avanti di questo passo, farò una lunga vacanza in ospedale.»
«Le farò compagnia», scherzò Harry fregandosi il nuovo bernoccolo che spuntava alla base del capo.
Dietro di lui il signor Pye raccolse con estrema cautela la pistola di Marty e inserì la sicura.
* * *
Quella mattina Harry se la prendeva comoda. Dopo tutto era ancora in licenza e voleva godersi quei pochi giorni che gli rimanevano. Aveva ancora parecchi affari del padre da regolare e inoltre doveva badare al negozio. Douglas Croft era abbastanza competente, ma riluttante a prendere delle decisioni da solo. Ora che aveva consegnato Marty Smith nelle mani della polizia, Harry era sicuro che Yardley e Nat sarebbero riusciti a sma-scherare Tam Owen. Il sospetto che un tempo sembrava pendere su di lui era stato chiarito; tuttavia non era ancora convinto che Yardley avesse potuto veramente sospettare di lui. Se quella sera ormai lontana il sovrintendente capo aveva visto il programma televisivo dedicato a suo padre, aveva forse voluto mettere al suo posto «il duro e affascinante ragazzo di Scotland Yard».
Sebbene in cuor suo non volesse ammetterlo, la ragione principale della sua attuale serenità era la certezza di sapere Judy al sicuro, in un luogo do-ve nessuno potesse trovarla.
Le aveva telefonato quella stessa mattina, ancora prima di prepararsi la colazione. La ragazza pareva felice e in buona salute e, nonostante la brutta caduta, la sua spalla non si era ulteriormente contusa. Le ripeté le rac-comandazioni di non lasciare l’albergo e di non fare alcuna telefonata all’infuori che a lui.
Stava entrando nella stanza da bagno per radersi quando udì suonare il campanello della porta accanto al negozio. Esitò un attimo, poi decise di aprire. Poteva essere Nat che veniva a comunicargli i recenti sviluppi del caso. Forse avevano individuato il nascondiglio di Linda o forse avevano convinto Marty Smith a rompere il suo ostinato silenzio.
Il visitatore mattutino era Hubert Rogers e, a giudicare dal suo aspetto fresco ed elegante, era sicuramente diretto in ufficio: il nodo della cravatta scompariva nella V del rigido colletto bianco, la bombetta appoggiata drit-ta sul capo, le scarpe nere lucidate a dovere. L’ombrello arrotolato e la valigetta completavano il quadro.
Harry non poté fare a meno di nascondere una certa sorpresa.
«Buon giorno, signor Dawson. Può dedicarmi pochi minuti?»
«Sì, certo. Entri pure.»
«Mi scusi», fece Hubert, gettando uno sguardo di apprezzamento alla vestaglia di seta e al pigiama a righe di Harry. «Spero di non averla buttata giù dal letto.»
«No, non si preoccupi.» Harry lo fece accomodare nel salotto. «Il fatto è che al momento sono in licenza e mi lascio prendere dalla pigrizia. Posso offrirle qualcosa?»
«No, grazie.» Con un gesto prevedibile, Hubert appoggiò la bombetta e l’ombrello esattamente nello stesso posto della sua precedente visita.
«Dawson, ho dato un’occhiata alle cose di mia zia e ho sistemato alcune faccende che la riguardavano. Ieri ho dovuto prendere una decisione circa il cane.»
«Zero?»
«Alla fine ho deciso di regalarlo a un amico che vive in campagna.»
«Dove si trova il cane? All’albergo?»
«Sì, stranamente quell’albergo ha del personale che si prende cura dei cani, forse proprio per questa ragione mia zia aveva scelto quel posto.»
Harry aveva già notato che quando Hubert parlava di sua zia lo faceva con una certa condiscendenza. Sicuramente non gli andava a genio il fatto che una sua parente prossima fosse caduta così in basso da fare la domestica di professione. «Tra parentesi, saprà che mia zia era una cliente e non una di-pendente di quell’albergo.»
«Sì, lo so.» Harry non aveva intenzione di invitare Hubert a sedersi.
«Ma mi dica la ragione della sua visita.»
«Bene, quando sono andato a prendere Zero, la prima cosa che ho notato è stato il collare.» Hubert fece scattare la serratura della sua valigetta.
«Senza dubbio era nuovo di zecca e dopo tutto il chiasso sollevato da mia zia sull’originale regalatole da suo padre, ho pensato di esaminare questo a fondo.»
Tolse dalla valigetta un collare nuovo fiammante e lo porse a Harry.
«C’è qualche cosa di diverso in questo?»
«Sì.» Hubert aspettò che lo guardasse attentamente. Era fatto di un doppio strato di morbida pelle e all’interno c’era una piccola cerniera lampo che nascondeva una tasca segreta.
«Ha trovato qualcosa qui dentro?» chiese Harry aprendo la cerniera.
«Sì.» Hubert sfruttava al massimo la situazione. Con una certa aria di trionfo estrasse un foglietto piegato dalla tasca del panciotto. «Qualcosa che le appartiene, signor Dawson.»
Harry prese il pezzo di carta e lo aprì. «Che cos’è?»
«Sembra una ricevuta… di una collana di perle.»
Harry spiegò il quadratino di carta sul tavolo e lesse: GIOIELLERIA MINERVA
BURLINGTON STREET, RIF.: A4961
LONDRA, W.L.
DAWSON. COLLANA DI PERLE A TRE FILI. RIPARATA.
Harry alzò lo sguardo. «Non è mia.»
«Ma è intestata a lei, c’è scritto il suo nome.»
«No, è intestata a mio padre, ma ne conoscevo l’esistenza. Grazie per avermela portata.»
«Lei sapeva che…?» Hubert rimase deluso di fronte all’atteggiamento in-differente di Harry.
«Già.»
«Allora sapeva che era nel collare?»
«No. Ma le ripeto che ne conoscevo l’esistenza, anzi l’abbiamo cercata dappertutto senza riuscire a trovarla.»
L’altro era palesemente irritato dal tono casuale di Harry.
«Capisco», disse Hubert sulle sue. Poi improvvisamente arrossì. «No, invece non capisco un accidente.»
Per scaricare l’improvviso impeto di collera prese a passeggiare su e giù per la stanza, quindi si girò per incontrare lo sguardo di Harry. «Se la ricevuta apparteneva a suo padre, cosa c’entrava mia zia? E perché nasconderla nel collare, mi domando? Ma c’è qualcos’altro. È evidente che questo collare è stato fatto per un fine particolare. Sono certo che non è facile trovare un oggetto del genere in commercio.»
«È vero», annuì Harry soprappensiero. «Vorrei tenere sia la ricevuta che il collare, se non le dispiace.»
«Naturalmente, se lo desidera.»
Nel frattempo Hubert si era calmato e, prima di parlare, tossì brevemente. «Dawson, ieri ho parlato con il sovrintendente Yardley. Mi ha detto che per il momento non ci sono nuovi sviluppi per quanto riguarda l’omicidio di mia zia e non si prevedono imminenti arresti. Ma ho avuto la sensazione che mi stesse, be’… nascondendo qualcosa.»
«Se è così, la sta nascondendo anche a me.» Harry si mosse in direzione della porta. «Mi scusi, signor Rogers, ma ho un appuntamento alle nove e mezzo e come vede devo ancora vestirmi.»
Dopo aver accompagnato Hubert alla porta, Harry ritornò in soggiorno e trovò Douglas Croft in piedi vicino al tavolo, intento a esaminare il collare.
Era salito al piano superiore dalla scala a chiocciola e portava una busta sotto il braccio.
«Harry, cosa diavolo è questo? Dove l’ha pescato?»
«Te lo dico fra un momento, Douglas», rispose Harry in modo spicciati-vo mentre attraversava la stanza. «Prima devo fare una telefonata.»
«È privata? Perché in tal caso…»
«No, no.» Nel comporre il numero, accennò a un breve sorriso. «Anzi, preferisco che tu rimanga.»
Harry attese pazientemente la risposta all’altro capo del filo. Diede un’occhiata a Douglas e parlò in tono casuale.
«Douglas, conosci una ragazza di nome Linda Wade?»
«Linda chi?»
«Wade», ripeté l’altro.
«No, non credo…»
«Mai sentita nominare?»
«Linda Wade. No, ne sono certo.» Il volto di Douglas rimase privo di espressione. «Perché?»
Harry gli volse le spalle nel momento in cui udì una voce gracchiare nel ricevitore. «Pronto, telegrammi? Questo è il 586-2679. Devo inviare un messaggio alla signora Sybil Conway, Acquacheta, Broadway Avenue, Hampstead, London, N.W.3.»
Mentre dettava l’indirizzo lentamente e con chiarezza poteva udire il ritmico ticchettio della macchina da scrivere.
«Fatto? Il testo è: Trovata la ricevuta. Stop. Suggerisco di incontrarci al Serpentine Restaurant, Hyde Park, oggi pomeriggio alle quattro.»
Ascoltò l’operatore che ripeteva il messaggio, compitando i nomi propri, poi aggiunse: «Esatto. Il nome del mittente è Croft. Douglas Croft».
* * *
Quando le lancette del suo orologio segnarono le quattro e un quarto, Harry cominciò a domandarsi se il pesce avesse abboccato all’amo. Non che fosse tedioso starsene seduto a un tavolo sulla terrazza del Serpentine Restaurant. Dal punto in cui si trovava poteva scorgere coppie di innamo-rati in barca che remavano goffamente scivolando sulle lucide acque del lago, stormi di anatre e di altri uccelli acquatici che si accalcavano attorno a una signora dai capelli bianchi che gettava loro briciole di pane. Una di quelle persone sole e isolate che preferiscono avvicinare esseri indifesi piuttosto che i loro simili. Poteva udire in lontananza il rumore sommesso del traffico che scorreva lungo la strada alle sue spalle. Le delimitazioni del parco servivano a tener lontano mezzo miglio da dove si trovava Harry quei bolidi rombanti che inquinavano l’atmosfera coi gas di scarico. Al di là degli alberi, dalla parte opposta della Serpentine, c’era il commissariato di polizia di Hyde Park.
Intravide la Bentley mentre svoltava da Ring Road. Nei sedili anteriori c’erano due persone, ma quando Arnold Conway uscì sulla terrazza era so-lo.
Aveva il classico aspetto dell’uomo arrivato che si gode il frutto di pochi anni di lavoro redditizio. Portava un elegante abito principe di Galles che gli cadeva perfettamente. Il taglio dei suoi capelli ondulati, brizzolati solo alle tempie, era stato eseguito da uno dei migliori parrucchieri della città.
Si guardò intorno per alcuni istanti e notò Harry Dawson seduto a un tavolo, ma di Douglas Croft non c’era nemmeno l’ombra. Poi, senza alcuna esitazione, si mosse verso il tavolo di Harry.
«È stato lei a inviare il telegramma.» Era più un’affermazione che una domanda. Conway aveva fatto un quadro della situazione, accettandola.
«Voglia scusare mia moglie, aveva alcune spese da fare così ho pensato di sostituirla.»
«Era lei che aspettavo, signor Conway.» Harry cercava invano di attirare l’attenzione di una cameriera prima che scomparisse all’interno del ristorante. «Ma è leggermente in ritardo. Le è stato difficile parcheggiare la poltrona a rotelle?»
Conway si limitò a rispondere con un sorriso enigmatico e con una domanda di rimbalzo.
«Mi dica, signor Dawson. Il telegramma è realtà o fantasia?»
«Non credo di capirla. Ho la ricevuta della collana di perle, se è quello che vuol dire.»
«Infatti. Posso vederla?»
Harry estrasse la ricevuta e la tenne sollevata in modo che Conway potesse leggerla. L’altro non fece alcun cenno di prenderla.
«Grazie», disse. Prese una sigaretta piatta dal pacchetto e l’accese. Un forte aroma di tabacco turco aleggiò nell’aria. «Quando ha saputo della ricevuta?»
«Sua moglie si era messa in contatto con un mio amico.»
«Douglas Croft», annuì Conway. «So che lavorava per suo padre.»
«Esatto. La signora Conway aveva telefonato a Douglas e gli aveva detto che mio padre doveva aver messo la ricevuta in qualche posto e…»
«Aveva chiesto a Croft di cercarla.»
«Già.»
«E l’ha trovata?»
«No. Veramente è stato qualcun altro a trovarla.»
«Capisco.» Conway frugò in una tasca del suo panciotto alla ricerca di un bocchino. «Ma stento ancora a capire il significato del telegramma.
Non poteva inviare direttamente la ricevuta a mia moglie?»
«Sì, ma in tal caso avrei dovuto rinunciare al piacere della sua compagnia, signor Conway. E non era quello che avevo in mente.»
«E cosa aveva in mente? Cosa vuole da me?»
Conway aveva uno strano modo di sbattere le ciglia quando fissava qualcuno negli occhi. Harry appoggiò i gomiti sul tavolo cercando di incontrare il suo sguardo.
«Voglio sapere come mai mio padre si trovava coinvolto in questa faccenda. Voglio sapere perché sua moglie ha iniziato una relazione con lui.
Voglio sapere perché Tam Owen lo ha ucciso.»
Harry aveva parlato a bassa voce e per un attimo gli parve che Conway non lo avesse udito. La sua espressione non era cambiata e non aveva battuto ciglio.
«Suo padre era uno sciocco», disse con calma, «e anche sfortunato. Il consiglio che posso darle, giovanotto, è di farsi i fatti suoi e di non occuparsi di questa faccenda».
«Supponiamo che non voglia seguire il suo consiglio.» Harry si sforzò di mantenere calmo il tono della voce, benché sentisse aumentare la collera dentro di sé.
«Non la credo così stupido. Ha visto cos’è accaduto a Linda Wade.»
«Non mi spavento facilmente. Non è la prima volta che mi trovo di fronte a casi del genere. Io stesso sono stato aggredito due volte nel giro di pochi giorni.»
«Lo credo bene.» Conway fece cadere la cenere della sigaretta. «Ma non è a lei che mi riferisco.»
«A chi allora?» chiese Harry. «Si riferisce forse a Judy Black?»
Le labbra di Conway si aprirono in un sorriso allusivo. «Non vorrà certo che accada qualcosa di spiacevole alla signorina Black, vero?»
«Ha proprio ragione. E non le accadrà niente!»
«È troppo sicuro di sé. Forse perché crede che non riusciremo a trovarla?» Il sorriso gli si accentuò. Conway si stava proprio divertendo. «Vuole che le dica dove si trova Judy Black in questo preciso momento?»
«Sì, avanti.»
Conway prese tempo tirando alcune boccate alla sigaretta prima di giocare la carta vincente. «Si trova in un hotel chiamato Il Monastero, a Steeple Aston, un piccolo villaggio a dieci miglia da Bicester.»
L’effetto che produsse non era proprio quello che Conway sperava. I lineamenti di Harry si incresparono in un largo sorriso. Si sporse in avanti e gli batté sulla spalla leggermente imbottita.
«Se fossi in lei non ci scommetterei, signor Conway.»
L’anziana signora sulla sponda del laghetto aveva terminato di gettare le briciole di pane. Indirizzò alcune parole di rimprovero alle anatre che avevano innalzato un coro di protesta come lei accennò ad andarsene. Per la prima volta da quando era arrivato Conway parve meno sicuro di se stesso.
«Cosa vuol dire, ‘non ci scommetterei’?»
«Ieri pomeriggio», spiegò Harry vivacemente, «accompagnai Judy a ca-sa di Linda Wade a radunare le sue cose; a un certo punto comparve Marty Smith. Non ho bisogno di dirle che cosa è accaduto al vostro signor Smith».
«Vada avanti.»
«Dopo averlo messo fuori combattimento tornai nell’appartamento e mi misi a frugare dappertutto. Trovai i microfoni e il registratore. Sapevo che la mia conversazione con Judy riguardo all’albergo di Steeple Aston era stata registrata, così lasciai l’installazione dove si trovava. Credo di avervi proprio buggerato, signor Conway.»
«Non me personalmente», disse Conway in tono iroso, girando il capo per non incontrare lo sguardo divertito di Harry. «Avevo detto a Tam Owen, tempo fa, che avrebbe fatto un grosso errore a sottovalutarla…»
Si interruppe non appena una voce femminile dal timbro basso e riserva-to giunse attraverso l’altoparlante. «Il signor Arnold Conway è desiderato urgentemente al telefono. Il signor Arnold Conway, per favore.»
«È per me», disse Conway con aria sorpresa, «dove devo andare?»
Harry fece un cenno in direzione di una porta a vetri all’estremità della terrazza.
«Vada là in fondo, subito dietro la porta c’è una cabina telefonica.»
Mentre aspettava, Harry si divertì a guardare un giovanotto che evidentemente non aveva mai messo piede in una barca prima d’allora, ma cercava di emulare il vincitore della coppa Diamond. Conway fu di ritorno dopo pochi minuti. Era come se camminasse sui carboni ardenti e con gli occhi lanciava sguardi pungenti in tutte le direzioni, compresa la strada al di là del ristorante.
«Era mia moglie», disse con un atteggiamento di studiata noncuranza.
«Voleva sapere se ne avevo ancora per molto.»
«Cosa le ha risposto?»
«Le ho detto di venirmi a prendere fra poco.»
«Sarei lieto se si unisse a noi.»
«Non credo proprio, amico…»
«La mattina in cui mio padre venne ucciso», lo interruppe Harry deliberatamente, «era Sybil che doveva incontrare al club, non è vero? La raffi-nata, elegante Sybil, che mio padre si illudeva fosse innamorata di lui, era soltanto un’esca».
Conway non ebbe tempo di rispondere. Reclinò il capo non appena udì il crepitio ormai familiare che precedeva un annuncio attraverso l’altoparlante.
«Il signor Harry Dawson è desiderato al telefono. Il signor Harry Dawson, per favore.»
«È il suo turno, vecchio mio.» Harry si alzò, indeciso se rispondere alla chiamata. Conway sollevò lo sguardo e sorrise. «Non si preoccupi, ispettore, non scappo.»
Harry si affrettò verso la porta a vetri che aveva indicato a Conway.
Douglas Croft era l’unico a sapere dove si trovasse. A meno che la signora Conway…
Come Harry si avvicinò al banco, la ragazza del bureau lo guardò con aria interrogativa.
«Signor Dawson? Può prendere la comunicazione nella cabina di fronte.»
Prima di entrare lanciò uno sguardo attraverso la porta a vetri. Conway era ancora seduto al tavolino in atteggiamento rilassato, contornato da una nuvola di fumo.
Chiuse la porta dietro di sé e sollevò il ricevitore. Udì soltanto il classico suono di linea libera. Provò ugualmente a parlare.
«Pronto, sono Dawson. Pronto… pronto.»
Dopo mezzo minuto si arrese, aprì la porta e passò davanti al bureau, at-tirando l’attenzione della ragazza seduta al banco.
«Non c’è nessuno in linea», disse. «È sicura…»
Un urlo proveniente dalla terrazza lo interruppe. Seguirono altre urla ac-compagnate da rumori di vetri in frantumi e di tavolini ribaltati.
Harry si lanciò verso la porta che dava sulla terrazza e la spalancò. I tavoli intorno a Conway erano vuoti. Colta dal panico la piccola folla dei presenti era indietreggiata. Conway era piegato in avanti, con la fronte appoggiata sul tavolino, immobile.
Harry attraversò di corsa la terrazza. Un tipo calmo, dall’aria professionale, forse un medico, si stava avvicinando con passi affrettati. I due uomini raggiunsero il tavolo contemporaneamente.
«Che cosa è accaduto?»
«C’è stato uno sparo», rispose l’altro in modo sbrigativo. «Forse è prove-nuto da quel punto.»
Fece un gesto in direzione di una siepe vicino alla strada. Harry afferrò Conway per i capelli e gli sollevò il capo. Dal foro del proiettile sotto l’occhio destro usciva un fiotto di sangue.
Gli riabbassò il capo con delicatezza, quindi lasciò di corsa la terrazza dirigendosi verso il prato da dove poteva scorgere la strada al di là della siepe.
Una Jaguar grigia stava schizzando via da un lato della strada con un grande stridio di copertoni sull’asfalto. Senza badare al limite di velocità consentito in quel tratto di strada, scomparve in direzione dell’Albert Memorial. Harry non fece in tempo a leggere il numero di targa.
Ritornò sui suoi passi e fece per dirigersi verso il morto. Come raggiunse la terrazza, una donna in pelliccia con gli occhi spalancati dal terrore stava uscendo di corsa dalla porta a vetri. Harry si mosse velocemente per fermare Sybil Conway prima che potesse vedere quella scena impressio-nante.
* * *
Harry era fermo sul marciapiede in Parliament Square e osservava le lancette del Big Ben che segnavano le otto precise. L’ora di punta della se-ra era già passata e, sebbene il traffico che turbinava attorno alla piazza fosse ancora intenso, consisteva per la maggior parte di auto private, taxi e pullman a noleggio che trasportavano turisti alla scoperta della vita notturna londinese.
Non era stato facile fissare un incontro con l’impegnatissimo sovrintendente capo Yardley. Alla fine Yardley stesso aveva suggerito una soluzio-ne. Poiché doveva recarsi a Camden Town per svolgere delle indagini su un nuovo caso, chiese a Harry di accompagnarlo, cosicché avrebbero potuto parlare durante il tragitto.
Erano circa le otto e dieci quando la Ford blu si fermò lungo il marciapiede di fronte a lui. Harry si sentì rabbrividire. Alla guida della Ford si trovava lo stesso Yardley, conosciuto come un guidatore spericolato.
Il sovrintendente si allungò sul sedile di fianco per aprire la portiera.
Non accennò a scusarsi per il lieve ritardo e Harry si sedette in macchina allacciandosi la cintura di sicurezza.
«È gentile da parte sua dedicarmi un po’ del suo tempo, sebbene senza ampio preavviso. Lo apprezzo molto.»
La testa di Harry fece un balzo all’indietro non appena Yardley accelerò in prima.
«Per quale ragione voleva vedermi?»
«Volevo parlare con lei, ma pensavo che se fossi venuto in ufficio avrei avuto la possibilità…» Si interruppe quando la macchina fece una brusca sterzata per immettersi in Whitehall. «Ho scoperto la verità su mio padre, signore.»
Il grugnito di Yardley lo incoraggiò a proseguire il discorso.
«Oggi pomeriggio, dopo l’assassinio di Arnold Conway, ho riaccompa-gnato a casa sua moglie. Era letteralmente sconvolta. L’ho lasciata parlare, pensando che sfogarsi un po’ le avrebbe fatto bene, e d’altra parte era proprio quello che desiderava. Mi ha raccontato di mio padre e della signora Rogers. Ha spiegato perché…»
«Dawson», lo interruppe Yardley, «mi interessa sapere quello che ha detto la signora Conway, ma non crede che sarebbe meglio partire dall’inizio?»
«Sì, mi scusi.» Harry accettò il lieve rimprovero e fece un cenno d’as-senso. «Sembra che la signora Rogers, prima di essere assunta da mio padre, avesse avuto una carriera piuttosto movimentata, e occupasse contemporaneamente un certo numero di posti. Un giorno scoprì che un tizio per il quale lavorava, che si chiamava Tam Owen, aveva per le mani un giro di ragazze squillo. Pensò bene di raccogliere delle prove sulla sua attività: fotografie, liste di appuntamenti e la copia fotostatica di una lettera molto compromettente scritta da Owen. Quindi la signora Rogers cominciò a ri-cattarlo. A un certo punto deve essersi accorta del rischio che correva, visto che Tam Owen era un tipo senza scrupoli e avrebbe potuto ucciderla.
Gli disse allora che, se mai le fosse accaduto qualcosa, mio padre l’avrebbe sostituita. Per farla breve, gli fece supporre che lei e mio padre lavoravano insieme.»
«Il che non era vero.»
Il sistema usato da Yardley per evitare la massa di veicoli che giostrava-no attorno a Trafalgar Square era di fare una manovra che lo portava dritto in direzione di Cockspurs, premere l’acceleratore e fingere che la strada fosse completamente libera. Lo stratagemma funzionò ma i due uomini dovettero subire gli insulti di parecchi automobilisti inviperiti.
«Certo che non era vero!» fece Harry dopo essersi ripreso dal brivido provocatogli dalla spericolata manovra. «Persino Tam Owen aveva dei dubbi. Disse a Sybil Conway di fare amicizia con mio padre, in tal modo avrebbe avuto la possibilità di chiarire la sua posizione. Sybil dichiarò che, a suo avviso, la signora Rogers aveva mentito e inoltre riferì un particolare interessante, e cioè che andava matta per il suo barboncino, Zero.»
«Così decisero di rapire il cane e pretesero come riscatto la lettera originale e la copia fotostatica.»
L’aria condizionata della macchina emanava un caldo insopportabile.
Yardley detestava gli spifferi e soleva tenere i finestrini ermeticamente chiusi. Harry abbassò furtivamente il finestrino di pochi centimetri.
«Esatto. Peter Newton, su incarico di Tam Owen naturalmente, telefonò alla signora Rogers per fissarle un appuntamento. Fu allora che la signora Rogers annotò il suo numero di targa su una busta della corrispondenza di mio padre, lasciandola sulla sua scrivania. Si incontrò con Peter che la condusse a casa sua e le mostrò il collare del cane come prova tangibile del rapimento. La signora Rogers non abboccò in quanto, a insaputa di Newton, si trattava di un altro collare. Sarò in grado di spiegare questo particolare solo quando avrò ottenuto qualche informazione al riguardo da Judy Black. Il punto di maggiore rilievo è che la signora Rogers si accorse che stavano bluffando nei suoi confronti, così Tam Owen decise che doveva spaventarla in qualche altro modo.»
«Per esempio, facendo fuori suo padre.»
Al semaforo di Lower Regent Street era scattato il rosso. Yardley frenò bruscamente senza spegnere il motore e mise il cambio in folle. Per alcuni istanti rimasero assorti a guardare la girandola delle insegne luminose attorno a Piccadilly Circus.
«Sì.» Harry proseguì il suo racconto con un tono di voce più sommesso.
«Sybil Conway combinò un incontro con mio padre al club per una lezione di golf. Poco prima dell’ora stabilita gli telefonò per comunicargli che avrebbe ritardato e gli disse di aspettarla sul campo vicino alla piazzuola sei. Incontrò invece Marty Smith e Tam Owen. Marty lo colpì con un pugno e Owen prese una grossa pietra dal ruscello e…»
Yardley si volse a guardarlo con un’espressione di compassione che Harry non gli aveva mai notato prima. Il semaforo scattò e un taxi dietro di loro prese a suonare con impazienza.
«E Newton?» fece Yardley svoltando in Upper Regent Street.
«Newton era già sul campo, pronto a raccontare la sua storia preceden-temente studiata sulla disgraziata pallina che aveva colpito mio padre alla nuca.»
«Bene», osservò Yardley seccamente. «Questi individui credevano di farla franca con un omicidio e invece si sono spinti troppo oltre. Sembra tutto abbastanza improbabile, ma devo ammettere che si collega con quanto le ha detto Judy Black. Comunque non riesco a capire perché Newton le avesse inviato quel messaggio.»
«Non fu Newton a inviarlo.»
«Chi allora?»
«Judy. Aveva grosso modo intuito quello che stava succedendo. Era convinta che la cosa migliore che Peter potesse fare era di incontrarmi e prendere di petto la situazione. Ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto, a meno che qualcuno o qualcosa lo avesse costretto. Allora ebbe l’idea di in-viarmi il collare e il messaggio. La sera stessa raccontò a Peter quello che aveva fatto e gli consegnò la ricevuta della lettera raccomandata. Gli disse anche che il giorno successivo sarebbe stato sicuramente interrogato dalla polizia e che, se gli rimaneva un po’ di buon senso, avrebbe fatto meglio a spifferare l’intera storia. Sfortunatamente litigarono. Peter tornò a casa e telefonò a Tam Owen. Non è necessario che le racconti in che modo Tam Owen risolse la situazione.»
«Infatti. Dio mio, questo caso assume, giorno per giorno, un aspetto sempre più contorto.»
Per alcuni istanti Yardley rimase assorto a seguire con lo sguardo i se-gnali che regolavano il traffico attorno a Oxford Circus e verso Portland Place.
«Non sta deviando dal suo percorso?» chiese Harry.
«La lascio a Regent’s Park. Là c’è la linea diretta per St. John’s Wood.
Vuole andare a casa, vero?»
«Sì, grazie, va benissimo.»
«Le ha spiegato la faccenda della poltrona a rotelle e dell’assegno intestato a Basil Higgs?»
«Be’, i Conway erano persone un po’ particolari. Entrarono a far parte del giro di Tam Owen principalmente per divertimento. Conway era il tipo d’uomo che si caricava osservando gli altri fare la figura degli stupidi. Infatti deve essersi divertito un mondo a convincere un ufficiale di polizia a emettere un assegno a favore di un conto alimentato dai proventi dei loro ricatti.»
«E la poltrona a rotelle?»
«Le ho raccontato la storia del marito invalido inventata da Sybil Conway per turlupinare mio padre? Infatti, quando andai a ritirare Zero, dovettero recitare la parte fino in fondo. Ripensandoci devono essersi fatti delle grasse risate. Se non altro la messa in scena servì a farle sorgere dei dubbi sulla mia versione. Non è così, signore?»
Yardley tossì e non fece alcun commento. Erano già in prossimità della stazione metropolitana di Regent’s Park quando riprese l’argomento.
«E il collare, cosa rappresentava?»
«Secondo me il collare era un segno simbolico della diffidenza di questa gente. La signora Rogers era il tipo di persona in continua ricerca di qualcosa da utilizzare per mettere la gente sotto pressione. Sottrasse a mio padre la ricevuta e la nascose nel collare di Zero.»
«Ma il cane era senza collare quando andò a riprenderlo dai Conway.»
«Sì, lo so. Penso addirittura che non l’avesse addosso quando fu rapito, oppure qualcuno può averlo scambiato con un altro.»
«E naturalmente quella collana di perle doveva essere così preziosa da indurre la signora Conway a riaverla a tutti i costi.»
«Sì, valeva una grossa cifra. Ecco perché il ladro che si introdusse nell’appartamento dei Conway cercava proprio quella. Allora la signora ebbe la brillante idea di tentare di farsi risarcire dalla compagnia di assicurazioni.»
«Tutto questo è molto interessante, Dawson, ma non ha ancora trovato una risposta alla domanda più importante di tutte.»
«Cioè?»
Yardley fermò la macchina di fianco al marciapiede e fissò pensieroso la strada attraverso il tergicristallo.
«Chi è Tam Owen?»
* * *
L’autista della polizia, che condusse Judy nell’appartamento di Harry Dawson la mattina seguente, era stato avvertito che se fosse accaduto qualcosa alla ragazza durante il tragitto la sua carriera nella polizia si sarebbe conclusa bruscamente. Così, quando giunsero in Finchley Road, la tenne per un braccio mentre chiudeva la portiera e le rimase alle costole durante il breve tratto di marciapiede e lungo la rampa di scale che conduceva all’ingresso privato.
La ragazza suonò il campanello e gli rivolse un sorriso.
«Sono al sicuro, adesso, veramente al sicuro!»
L’agente era un giovane simpatico sui venticinque anni. Scosse il capo sorridendo apertamente.
«Gli ordini erano di consegnarla personalmente al signor Dawson, signorina.»
Il suo cuore batté più velocemente nel vedere il volto della ragazza irra-diato dal sorriso. Ma non era per lui. La porta si era aperta e Harry Dawson era comparso sulla soglia. Portava una giacca sportiva a quadri e un paio di pantaloni marrone.
«Salve, Judy, entri pure.»
«Buon giorno, signore», disse il poliziotto, facendogli notare che esisteva anche lui.
«Buon giorno, Fuller. La può lasciare sotto la mia protezione. Molte grazie.»
«È stato un piacere.» Fuller sorrise e si rivolse a Judy. «Sempre a sua disposizione, signorina. Basta che chieda all’ispettore di farci un fischio.
Possiamo essere molto utili nelle ore di punta.»
Si congedò da Harry e si allontanò giù per le scale.
Che bocconcino! pensava. Un corpo da mozzare il fiato e le più belle gambe di Londra. Questi detective hanno una fortuna sfacciata.
Harry fece accomodare Judy in salotto. Era un mattino luminoso e i raggi del sole filtravano attraverso le finestre. Judy aveva ridato ai suoi capelli il colore naturale e ora splendevano sotto la luce del sole. Si era tolta la fascia e il dolore alla spalla sembrava completamente scomparso. Harry la guardò e pensò che era semplicemente meravigliosa.
«Ha fatto colazione?»
«Sì, avevo appena finito quando è arrivato l’autista.»
«È rimasta sorpresa quando le ho telefonato?»
«Be’, sì.»
Harry la condusse in un angolo del salotto, dove aveva sistemato delle comode poltrone.
«Si segga, Judy. Posso offrirle una tazza di caffè?»
«No, grazie, non ora.»
Judy si sedette sul divano e con l’agilità di un gatto ripiegò le gambe sotto di sé. Harry si accomodò all’altra estremità.
«Judy, questa mattina mi son fatto una lunga chiacchierata con il sovrintendente Yardley. Le chiediamo di aiutarci.»
«Farò quello che posso, gliel’ho già detto.»
«Sì, lo so, ma… voglio che lei sia convinta di quello che fa e di quello che rischia.»
Judy aprì un nuovo pacchetto di Piccadilly con filtro.
«Cosa vuole che faccia?»
«Prima di tutto voglio che parli con Linda Wade.»
«Ma non so dove trovarla. Non la vedo da…»
«Sappiamo dove si trova. Il nostro instancabile sergente Quilter l’ha sco-vata a St. Albans.»
«St. Albans? Che cosa ci fa lì?»
«È in una clinica privata in Maylee Park, specializzata in chirurgia plastica. È diretta da un giovane chirurgo di nome Douglas. Walter Douglas.»
«Douglas? Dove ho già sentito questo nome?» disse Judy aggrottando le sopracciglia.
«Il braccio destro di mio padre si chiama Douglas. Douglas Croft. Proprio una coincidenza. Domani il viso di Linda verrà sottoposto a un’operazione di trapianto. Sembra che il chirurgo asporti un lembo di tessuto da una regione del corpo di Linda per ricostruire quella danneggiata.»
Judy sorrise. «Posso immaginare da quale parte del suo corpo sarà asportato, ma scommetto che non le farà piacere avere una cicatrice anche lì.»
«Penso che dovrebbe andare a trovarla prima dell’operazione», disse Harry.
«D’accordo, ma conoscendo Linda penso che sarà troppo spaventata per parlare. Non dirà nulla di nuovo. È troppo tardi.»
«Capisco.»
«Allora perché vuole che io la veda? Qual è il punto?»
Harry aspettò che si accendesse una sigaretta, poi disse: «Vogliamo soltanto che lei trasmetta un messaggio. È lei che deve parlare, Judy, e non Linda Wade».
* * *
«Francamente non ti capisco, Judy. Non so dove vuoi arrivare.»
«Non preoccuparti, Linda. Ti chiedo semplicemente di trasmettere un messaggio per me.»
«Come posso inviare un messaggio a una persona che nemmeno conosco?»
Judy si rivolse all’amica con uno scatto d’ira. «Oh, per amor di Dio, non trattarmi come una bambina! Conosci Tam Owen. Hai avuto a che fare con lui. Gli hai parlato per telefono non una ma centinaia di volte.»
Il medico che aveva in cura Linda aveva insistito affinché la ragazza si mettesse a letto subito dopo il suo arrivo in ospedale. Le sue spalle, avvol-te in bende, erano appoggiate su una pila di soffici guanciali. Un lato del suo viso era interamente ricoperto da una larga medicazione, fermata da una benda che le girava tutt’intorno al capo. Si poteva vedere soltanto l’occhio, circondato da una tumefazione viola scuro. In un cesto sopra una sedia a portata di mano il gatto siamese, Chow, sonnecchiava tranquillo.
«Judy, perché credi che io sia qui?» disse Linda a bassa voce. «Perché credi che stia per subire questo maledetto intervento? Tam Owen mi ha conciato così perché credeva…»
«Linda», tagliò corto Judy in tono esasperato, «tutto quello che ti chiedo di fare è di trasmettere un messaggio. Se conoscessi Owen, se sapessi co-me mettermi in contatto con lui, lo farei io stessa».
Linda si mosse cautamente sui guanciali ed ebbe una smorfia di dolore.
«Che… che cos’è questo messaggio?»
Judy si sedette sul bordo del letto. «Digli che sono venuta a trovarti. Digli che sono tornata a casa tua e che voglio parlare con lui, Chiedigli di venirmi a trovare là domani mattina.»
Mentre Judy parlava Linda scuoteva il capo. «Non verrà di persona, manderà Marty Smith, e sai benissimo di che cosa è capace quel bastardo…»
«Non può mandare Marty. La polizia l’ha già messo nel sacco. Lo hanno incriminato per omicidio.»
Un lato del volto di Linda si increspò in un ghigno di soddisfazione e gli occhi le brillarono di piacere.
«Quando è successo?»
«Linda, non ho molto tempo. Devo ritornare in città per l’ora di pranzo.
Sei disposta ad aiutarmi o no?»
«Supponiamo di sì», disse Linda lentamente. «Supponiamo che telefoni a Owen e lui mi chieda per quale motivo vuoi vederlo. Cosa devo rispondere?»
«Digli che voglio prendere il posto di Peter. Stesso appartamento, stesse condizioni, stesso giro.»
«Intendi dire che vuoi lavorare per Owen?» Il tono di Linda era così scandalizzato che il gatto si svegliò e guardò la sua padrona con aria interrogativa. «Dici sul serio?»
«Dico sul serio», le assicurò Judy. «Sono stanca di starmene con le mani in mano. So quanti soldi metteva in tasca Peter e so come lavorava. Non vedo perché non dovrei prendere io quel lavoro e farlo rendere come lui.»
«Ma se solo l’altro giorno non sapevi nulla di Peter. Eri convinta che di-rigesse una agenzia immobiliare.»
«Senti, Linda», Judy guardò l’orologio e si alzò, «devi darmi una risposta. Vuoi telefonare a Tam Owen per me? Non hai niente da perdere. Vedrai che te ne sarà molto grato».
«Va bene», ammise Linda dopo un momento. «Gli telefonerò, ma credo che tu stia per commettere un grosso errore. Se segui il mio consiglio…»
Judy la guardò con un’espressione che l’altra non aveva mai notato prima sul suo viso.
«Non voglio il tuo consiglio, Linda. Voglio soltanto che tu faccia quello che ti ho chiesto.»
«Gli telefonerò stasera, ma sono certa che non abboccherà.»
«Vedrai che lo farà.»
«Tu non conosci Tam Owen.»
«No, e lui non conosce me.»
Judy schiacciò nervosamente la sigaretta nel portacenere. La sua voce era fredda come il ghiaccio. «Digli che ero un’amica di Arnold Conway.
Un’intima amica.» Si alzò guardando dritto negli occhi di Linda. «Digli che eravamo soliti intrattenerci in conversazioni molto confidenziali.»
* * *
Judy non si era mai sentita così sola in vita sua. Era arrivata a Defoe Mansions con un’ora di anticipo; Harry l’aveva accompagnata solo per un breve tratto di strada. Aveva il sospetto che Tam Owen o qualcuno dei suoi uomini fosse in agguato nei pressi dell’edificio.
Il fatto di poter guardare dalla finestra e vedere la strada animata dal traffico e i passanti che si affrettavano lungo il marciapiede come se fosse stato un giorno qualsiasi della settimana le dava poco conforto. Poteva udire dei suoni giungere dagli appartamenti accanto: l’abbaiare di un cane, il pianto di un bambino, il rumore metallico del coperchio di una pattumiera.
Non riusciva a trovare pace. Ogni volta che si avvicinava all’anticamera veniva assalita dal pensiero terrificante dell’aggressione a Linda. Che dirit-to aveva Harry Dawson di coinvolgerla in una faccenda così rischiosa?
Desiderava ardentemente averlo vicino o almeno sapere dove poterlo raggiungere se si fosse trovata in pericolo.
Erano passate da poco le dieci e mezzo quando il telefono suonò, facen-dola sobbalzare. Alzò il ricevitore ma non ebbe alcuna risposta. Sentì che dall’altra parte del filo avevano appeso.
Era forse Tam Owen? Voleva controllare se lei fosse già arrivata?
Per la decima volta si avvicinò alla finestra, fissando la strada senza sco-stare le tende. Un uomo con un impermeabile chiaro andava su e giù lungo il marciapiede opposto. Non guardò mai in direzione di Defoe Mansions.
Pareva intento a osservare gli articoli esposti nelle vetrine. Se Judy non si fosse imbattuta in Nat Fletcher, quando questi era in servizio, non avrebbe certamente pensato che potesse essere un ufficiale di polizia.
Di Harry, nemmeno l’ombra.
Con la speranza di far passare il tempo più velocemente, entrò in cucina per prepararsi una tazza di caffè. I portacenere, sparsi in tutto l’appartamento, erano già colmi di mozziconi.
Aveva la tazzina alle labbra quando sentì suonare il campanello. La posò sul tavolino e notò che la mano aveva cominciato a tremarle. L’orologio a muro della cucina segnava le undici meno dieci.
Aveva forse deciso di arrivare prima dell’ora fissata? Nat e Harry si erano accorti che era giunto con dieci minuti di anticipo?
Esitò un momento, domandandosi se non era meglio ignorare qualsiasi chiamata precedente all’ora stabilita.
Il campanello suonò ancora.
Doveva sapere. Con il cuore che le batteva velocemente si avvicinò alla porta d’ingresso, si fermò un momento con la mano sul pomo della serratura, quindi la fece scattare.
L’uomo fermo sulla soglia le era completamente sconosciuto, ma c’era qualcosa di rassicurante nei suoi modi timidi e cerimoniosi. Sembrava sorpreso quanto lei.
«Oh», esclamò. Quindi, da vero gentiluomo, si tolse il cappello. «Buon giorno.»
«Buon giorno.»
«Posso parlare con la signorina Wade, per favore?»
Judy lo studiò con curiosità. Costui poteva essere… No, doveva per forza essere uno degli «amici distinti» di Linda. Aveva una speciale predilezione per gli uomini di mezza età, un po’ timidi e riservati.
«Al momento non è in casa.»
«Oh, che peccato!» Fece cenno di allontanarsi.
Sebbene tutto fosse possibile, era abbastanza improbabile che avesse scelto quell’ora del mattino per avvalersi dei favori di Linda.
«Posso fare qualcosa per lei? Sono un’amica della signorina Wade.»
«Be’… mi chiamo Heaton. Sidney Heaton.» La guardò con aria speran-zosa. «Ho un negozio di animali a St. John’s Wood, e Linda… ehm, la signorina Wade…»
«Ah, sì, certo. Linda mi ha parlato di lei. Entri pure, signor Heaton.»
«La ringrazio.»
Il contatto con un altro essere umano, in particolare con una creatura i-noffensiva come Sidney Heaton, era piuttosto rassicurante. Cionondimeno il tempo stava per scadere e non poteva permettersi di intrattenersi con lui troppo a lungo. Si fermò in anticamera lasciando la porta leggermente socchiusa.
«Linda è via», spiegò. «Deve essere operata. Penso che non sarà di ritorno prima della fine della settimana.»
«Oh, non lo sapevo. Credevo… Be’, non è importante.»
Rimase fermo, visibilmente imbarazzato, tenendo il cappello con entrambe le mani e lanciando frequenti occhiate in direzione del salotto, co-me se sperasse che Linda, da un momento all’altro, potesse materializzarsi.
«È sicuro che non posso fare qualcosa per lei?»
«No, è molto gentile…» Judy pensò che il suo modo di parlare lasciando le frasi incompiute fosse sintomatico di una certa mancanza di sicurezza.
«Be’… il fatto è che la signorina Wade aveva intenzione di acquistare un altro gatto siamese e ho visto… Ne ha già uno, lo sa?»
«Sì, lo so. Si chiama Chow.»
Judy aveva sentito il rumore dell’ascensore che cominciava a salire. Attraverso la porta socchiusa aveva visto il numero uno illuminarsi sull’indicatore dei piani.
«Esatto», proseguì Heaton. «Una creatura deliziosa. Ieri un mio cliente me ne ha portato un altro, proprio uguale a Chow, una cara bestiola. Di razza purissima. Sono sicuro che sarebbe disposto a venderlo a un prezzo vantaggioso…»
«Perché non telefona a Linda e vi mettete d’accordo? In ogni modo sono certa che le farebbe piacere sentirla.» Dall’indicatore Judy capì che l’ascensore era fermo al secondo piano. «Si trova nella clinica privata Maylee Park in St. Albans.»
«Può darmi il numero di telefono?» Heaton accennò a estrarre di tasca un’agendina telefonica.
«Temo di no.» Judy si mosse per ricondurlo alla porta. «Ma lo troverà senz’altro sulla guida.»
«È una buona idea, grazie.» Esitò un attimo, volgendo un ultimo sguardo verso il salotto, quindi aprì la porta. «È stata molto gentile. Arrivederla, signorina…?»
Gli strinse la mano, ma non raccolse l’intonazione interrogativa di Heaton.
Chiuse la porta e vi appoggiò la schiena. Cinque minuti alle undici. Respirò profondamente e si mosse verso il soggiorno.
Non aveva ancora superato la soglia che il campanello suonò nuovamente. Si fermò sui suoi passi. Qualcuno aveva avuto giusto il tempo di uscire al secondo piano e farsi con calma la rampa di scale che conduceva al piano superiore.
Aprire la porta per la seconda volta le costò uno sforzo maggiore. Quando lo fece, la tensione nervosa che aveva accumulato si era ormai scarica-ta.
«Mi spiace disturbarla ancora, ma… ha detto che la clinica si chiama Merton?»
Teneva in mano una penna e una piccola agenda. Era chiaro che aveva deciso di trascrivere l’indirizzo prima di prendere l’ascensore.
«No, Maylee», precisò Judy.
«Sì, naturalmente.» Heaton sorrise scusandosi. «Che stupido! Come ho potuto pensare che fosse Merton?»
Judy ripeté l’indirizzo scandendo le parole.
«Adesso ci siamo. Temo di non essere molto lucido, stamattina.»
Stava forse recitando? O piuttosto stava facendo una specie di esame preliminare prima di mettere le carte in tavola?
«Se vuole entrare glielo posso trascrivere io.»
«Non importa, grazie», disse Heaton dopo un attimo di esitazione. «Credo che me lo ricorderò.» Si toccò il cappello. «Grazie ancora, mi è stata di grande aiuto.»
Mentre Judy chiudeva la porta, una forte corrente d’aria la fece sbattere più velocemente di quanto fosse nelle sue intenzioni.
Ancora perplessa, si mosse verso il salotto. Vide immediatamente che la porta della camera da letto era spalancata. Era certa di averla chiusa prima di lasciare la stanza.
D’un tratto ebbe la netta sensazione che qualcuno dietro di lei la stesse osservando. Si girò di scatto.
Nat Fletcher era seduto su uno sgabello di fronte al mobile bar. Le fece un cenno rassicurante.
«Come ha fatto a entrare?» chiese Judy ancora tremante per lo spavento.
«Dalla scala antincendio, che lei conosce bene.» Fece un cenno in direzione della camera da letto. «Sembra piuttosto spaventata.»
«Lo sono», ammise Judy. «Ho una fifa indiavolata.»
«Non si preoccupi, andrà tutto bene. Teniamo l’appartamento sotto controllo.»
La ragazza si guardò in giro alla ricerca della sigaretta che stava fumando quando era comparso Heaton. Non trovandola, ne prese un’altra dal pacchetto che si stava svuotando rapidamente. Nat osservò le sue mani mentre faceva scattare l’accendino e notò che tremavano visibilmente.
Come tirò le prime boccate alla sigaretta, si udirono i rintocchi di un orologio a pendolo che suonava le undici.
«Quel tizio che è appena venuto ha detto di chiamarsi Sidney Heaton.
Pensa che…»
«Non si preoccupi.» Nat tamburellava con le dita su una piccola radio trasmittente che portava nel taschino della giacca. «Gli stiamo alle costole da quando è entrato nella zona…»
Fu interrotto dall’improvviso squillo del telefono. Judy si girò a fissarlo.
«Ci siamo.» Nat scivolò giù dallo sgabello. «Adesso, per favore, stia calma e cerchi di cavarsela bene.»
Si mosse lentamente verso il telefono, con gli occhi sempre fissi all’apparecchio. Nat rimase in un punto della stanza da dove poteva controllare sia l’ingresso che la camera da letto.
Judy fece un notevole sforzo per raccogliere tutto il suo coraggio e sollevò il ricevitore.
«Pronto… sì, signor Owen. Sono Judy Black. Perché non sale?»
Nat stava annuendo con approvazione. Il tono della sua voce era perfetto. Adesso che la commedia era iniziata, il nervosismo di lei era scomparso.
«Perché dovrei tenderle una trappola? Sono i soldi che mi interessano. In cambio di prove, naturalmente. Prove che la possono mandare dritto in prigione, e per parecchio tempo, signor Owen.»
Mentre parlava, sentì una corrente d’aria alle spalle. Si volse e vide Harry che usciva in punta di piedi dalla camera da letto.
«Non dimentichi che conoscevo anche Arnold Conway. E molto meglio di quanto possa immaginare. Si ricorda di quando gli ha ordinato di far sparire il cane? Bene, nel collare di questo cane c’era nascosta un’informazione molto compromettente. Ecco perché Arnold rifilò a Peter un altro collare, quello che mostrò alla signora Rogers. Ma lei è al corrente di tutto, ora, non è vero?»
Lanciò a Harry uno sguardo d’intesa, facendogli capire che non ne avrebbe avuto per molto. Harry alzò la mano destra unendo l’indice e il pol-lice in segno di approvazione.
«Sa benissimo perché Arnold Conway decise di rilevare l’impresa ricat-tatoria della signora Rogers, vero? Stava cercando di spillarle cinquantamila sterline…»
Harry poteva udire la voce dell’uomo gracchiare nel ricevitore, ma non era in grado di capire quello che diceva. Si avvicinò al telefono.
«D’accordo», proseguì Judy con quel tono di voce duro che sapeva usare con molta efficacia. «Ma Arnold non era così imprudente… No, vede, sapeva che prima o poi lei avrebbe cercato di intrappolarlo. Così, a titolo precauzionale, mi aveva chiesto di conservare quelle prove.»
Mentre aspettava la risposta i suoi lineamenti apparivano molto tesi.
«Quanto?» Sbottò in una secca risata. «Non voglio essere avida come Arnold. Diciamo ventimila in contanti. Va bene? Sì, ventimila.»
Ci fu un attimo di silenzio, quindi Harry udì che l’uomo, dall’altro capo del filo, faceva una controfferta. Judy si volse con aria allarmata.
«Come posso essere sicura di potermi fidare di lei?»
Harry le fece segno di coprire il ricevitore e le bisbigliò tutto d’un fiato:
«Dica che gli farà avere una parte delle prove per mille sterline, il resto dopo».
Judy annuì. Era notevolmente impallidita. «No, signor Owen, è troppo rischioso. Io le farò avere una parte delle informazioni e lei mi dovrà consegnare mille sterline, tanto per essere pari. Parleremo del resto quando ci incontreremo. Va bene?» Ascoltava attentamente scuotendo la cenere della sigaretta sul portacenere. «Sì… sì. Ce l’ho, Cannon Street… Arrivederci.»
Depose il ricevitore e si appoggiò contro il tavolo. I due poliziotti le die-dero il tempo di riprendersi.
«Allora?» Nat ruppe il silenzio.
«Devo prendere la metropolitana fino a Charing Cross. Ha detto che de-ve prelevare il denaro da una banca lì vicino.»
«E lei cosa deve fare?»
«Devo fermarmi di fronte all’entrata dell’Embankment e aspettare che qualcuno si avvicini.»
* * *
Era un’ora morta del mattino e la stazione metropolitana di St. John’s Wood non era affollata. Judy aveva comprato il biglietto del metro molte altre volte, ma quel mattino era terribilmente agitata. I soldi le continuavano a cadere di mano e per di più si era allontanata senza ritirare il resto.
Ora era nuovamente sola, sebbene avesse la certezza che Nat, Harry e una mezza dozzina di agenti in borghese non fossero molto lontani da lei. Non osava guardarsi intorno per vedere se qualcuno la seguisse. Harry le aveva assicurato la sua protezione per tutto il tragitto da Defoe Mansions a Charing Cross. Era essenziale che lei, nel recarsi all’appuntamento, si compor-tasse come se fosse sola.
Ora i treni, dopo aver trasportato migliaia di passeggeri al loro posto di lavoro, passavano a intervalli meno frequenti. Una piccola folla si era sparpagliata sulla piattaforma, in attesa del treno. Le procurava un senso di sollievo sentirsi circondata da tante brave persone, rispettose della legge.
Un istinto di autoconservazione la guidò verso il punto più affollato.
Si mise a fissare un cartellone pubblicitario sulla parete ricurva di fronte a lei. Raffigurava due ragazze che si raccontavano meraviglie del lavoro appena trovato. In quel momento ebbe la sensazione di essere osservata e non poté resistere alla tentazione di guardarsi intorno.
Dietro di lei un giovanotto la stava contemplando con un’espressione piena di ammirazione. Si girò di scatto cercando di non dare a vedere il piacere che provava sentendosi ammirata. A giudicare dal sorriso non poteva essere né un detective, né uno scagnozzo di Tam Owen. Sembrava decisamente il tipo d’uomo che, in caso di necessità, sarebbe venuto in suo soccorso.
Dal fondo della galleria giunse il rumore di un treno in arrivo. Una folata di vento si riversò sulla piattaforma e Judy sollevò la mano per rimettere a posto un ciuffo di capelli che le era caduto sulla fronte. La motrice del treno apparve nella zona illuminata della stazione, quindi cominciò a rallenta-re. Judy scrutò i passeggeri in attesa sulla piattaforma senza riuscire a scorgere né Harry né Nat.
La folla dei viaggiatori si aprì a ventaglio, preparandosi nel punto in cui si sarebbero aperte le porte dei vagoni.
Il treno era mezzo vuoto, non era quindi necessario affrettarsi per occu-pare un posto a sedere. Judy entrò da una delle porte in coda e sedette vicino all’entrata. Con sollievo notò che Nat Fletcher era salito all’altra estremità del vagone. Aveva aperto il giornale senza guardare nella sua direzione. Una rapida occhiata alle facce dei viaggiatori presenti nel vagone la rassicurò. Nessuno di loro poteva essere Tam Owen. Il giovanotto aveva abilmente preso posto di fronte a lei per poterle ammirare le gambe.
Si udì il rumore dei passi affrettati dei soliti ritardatari. Un uomo piuttosto alto, vestito di grigio, con l’ombrello accuratamente arrotolato e la bombetta entrò per ultimo nello scompartimento.
Si fermò di fronte a Judy. Questa sollevò lo sguardo e vide che le sorri-deva, facendo un cenno in direzione del posto libero accanto a lei.
«Posso, signorina Black?»
Judy annuì mordendosi le labbra. Era arrivato il momento in cui doveva assolutamente mantenere la calma. Dopo tutto il presentimento di Harry si era rivelato giusto.
L’uomo le si sedette accanto. Le porte erano ancora aperte e il motore produceva il suo caratteristico ticchettio. Il conducente stava aspettando che il segnalatore gli desse via libera. Era sorprendente come un treno abbastanza affollato potesse essere così silenzioso mentre sostava nella stazione. Nessuno schiamazzo, nemmeno il brusio di una conversazione, solo quel regolare ticchettio simile a un mostruoso orologio.
Judy parlò a bassa voce. «Credevo di aver capito di dover aspettare fuori…»
«Ho cambiato idea», disse affabilmente, battendo una mano sulla valigetta. «Tutto bene. Ho qui il denaro. Ma non credo che mi servirà.»
«Perché no, signor Owen?»
«Rogers, prego.» Hubert assunse un’espressione compunta. «In queste occasioni preferisco essere chiamato col mio vero nome, Hubert Rogers.»
Il motore del treno produsse il classico ronzio che preannunciava l’immediata partenza.
«Perché pensa di non servirsene?» Judy si accorse che la voce le tremava, ma cercò di convincersi che non aveva nulla da temere.
Hubert le rivolse un sorriso amichevole. «Perché penso che stia bluffando con me, signorina Black. Ecco perché.»
Judy aprì la bocca per parlare, ma si trattenne non appena vide che l’espressione di Hubert era completamente cambiata. Anche quando parlò il suo tono di voce era diverso.
«Crede forse che io non sia preparato a una situazione del genere?» disse con calma. «Crede che sia la prima volta?»
«Quale… situazione?» Era come ipnotizzata dalla sua voce, non riusciva nemmeno a gettare uno sguardo in direzione di Nat.
«Una certa ragazza scopre qualcosa, qualcosa che mi riguarda personalmente.» Le stava parlando in fretta, sfiorandole quasi l’orecchio. «Si sente importante e quello che sa le dà un’eccessiva sensazione di potere. Decide di rischiare…»
«Attenzione alle porte!»
Hubert si interruppe non appena il ritornello familiare echeggiò nella stazione. L’avvertimento non era necessario in quanto la piattaforma era vuota. I pochi passeggeri del vagone erano seduti e quelli che erano discesi alla stazione di St. John’s Wood erano già scomparsi sulle scale mobili.
Judy arrischiò un’occhiata in direzione di Nat Fletcher.
Improvvisamente una mano afferrò il suo polso. Hubert si era alzato di scatto e si era mosso velocemente verso la porta scorrevole mettendo un piede fra i due battenti per evitarne la chiusura.
«Venga, Judy», disse vivacemente. «Da questa parte.»
Spinse fuori la ragazza e, come tolse il piede per seguirla, il treno cominciò a muoversi.
Accelerò rapidamente e, quando l’ultimo vagone passò davanti a loro, stava già procedendo a gran velocità. Judy ebbe appena il tempo di vedere Nat Fletcher che cercava invano di tirare la maniglia di comando della porta automatica. Era rimasto intrappolato dentro il vagone. Il treno lo portò lontano nel buio della galleria.
«È un suo amico, vero?» chiese Hubert con freddezza. «Mi domando quanti altri ce ne fossero là dentro.»
Le strinse fortemente il polso torcendoglielo dietro la schiena, in mezzo alle scapole. Un dolore lancinante la fece urlare. Hubert aveva volutamente afferrato il braccio slogato. Mentre la conduceva verso l’uscita, il marciapiede si era ormai svuotato e mezzo treno era già scomparso nella galleria.
Harry era rimasto ad attendere all’altra estremità della piattaforma dove si era fermata l’ultima carrozza. Quando aveva visto Nat entrare nello stesso scompartimento di Judy, aveva parlato con l’addetto alle porte e si era intrufolato nella piccola cabina di controllo situata in coda.
Ciononostante, la manovra di Hubert l’aveva colto di sorpresa. Quando le porte automatiche si erano richiuse, era convinto che, come Nat, anche Hubert Rogers fosse rimasto bloccato nello stesso scompartimento.
Come il treno prese velocità, notò con orrore la coppia ferma sulla piattaforma, il braccio della ragazza immobilizzato dalla stretta dell’uomo.
Spinse il ferroviere da un lato e con un balzo si buttò giù dal treno.
«Si fermi! Vuole suicidarsi?»
Il treno doveva procedere a venti, trenta miglia all’ora. D’altra parte non aveva scelta. Ruzzolò sul marciapiede e la velocità dell’atterraggio attutì l’impatto. Scivolò lungo la piattaforma andando a sbattere contro il muro.
Si ritrovò ammaccato e mezzo stordito. Quando si riprese, Hubert e Judy erano già scomparsi.
Si alzò a fatica e cominciò a correre lungo il marciapiede. In quell’arco di tempo potevano aver raggiunto solo una delle uscite. Girò l’angolo e vi-de che la scala di fronte a lui era vuota. Salì i gradini a tre alla volta, svoltò l’angolo successivo e vide che si trovavano in cima alla rampa di scale.
Hubert udì i passi affrettati dietro di lui e si girò di scatto. Quando vide Harry, infilò la mano libera sotto la giacca, estrasse una rivoltella e puntò la canna contro il petto di Judy. La minaccia del suo gesto era inequivoca-bile.
«Stai indietro, Dawson, molto indietro. Se fai un passo, sparo.»
Sempre con lo sguardo fisso su Harry cominciò ad allontanarsi. Dalla smorfia di Judy capì che doveva aver intensificato la stretta.
Paradossalmente fu proprio questo suo gesto di crudeltà a provocare la sua fine. La vista di Judy che si dibatteva disperatamente indusse Harry a tentare il tutto per tutto.
Come Hubert si girò per vedere se oltre l’angolo la strada fosse sgombra, Judy gli sferrò un calcio sul collo del piede col tacco appuntito. Con un movimento istintivo di difesa, Rogers sollevò il calcio del revolver per colpirla in viso.
Harry approfittò dell’occasione favorevole per lanciarsi su di lui. Hubert allentò la presa attorno al braccio di Judy, ma quando i due uomini caddero uno sopra l’altro, stringeva ancora la pistola in pugno. Harry gli stava sotto e nel cadere aveva sbattuto la testa contro un gradino.
Hubert stava cercando di dirigere la canna su Harry, quando Judy si gettò con furia sulla pistola afferrandola con entrambe le mani per deviare il colpo. Poi abbassò il capo e affondò i denti nella mano di Hubert, morden-dogliela fino all’osso.
Hubert lanciò un urlo e lasciò cadere la pistola. Judy fu pronta a raccoglierla e rimase ferma alle sue spalle. Hubert la fissò attentamente e dall’espressione del suo viso capì che in quel momento sarebbe stata capace di premere il grilletto. Si avvicinò la mano alla bocca e si succhiò la ferita.
«No», disse, «non sparare».
Sapeva cosa stava pensando Judy. Non al male che le aveva fatto, ma al viso rovinato di Linda Wade, allo spietato omicidio di Peter Newton, alle inutili esecuzioni di Tom Dawson e Arnold Conway.
«Per amor del cielo, Dawson», disse appena Harry si alzò, «le tolga quella pistola di mano».
Harry si mosse verso Judy e le si mise di fianco. «Dia a me la pistola, Judy. Non si preoccupi, se solo si alza lo uccido.»
* * *
Venti minuti più tardi Judy e Harry si trovavano sul marciapiede davanti all’ingresso della stazione di St. John’s Wood. In silenzio, guardavano Hubert Rogers, ora con le manette ai polsi, che veniva spinto tra la folla e fatto entrare nella macchina della polizia. Questa si allontanò dal marciapiede e la luce blu scomparve fra il denso traffico di mezzogiorno.
Un recente acquazzone aveva bagnato le strade, ma ora il sole era tornato a splendere. Tutto appariva chiaro e luminoso.
Harry si volse verso Judy, che aveva il braccio contuso piegato sotto il soprabito.
«Grazie, Judy, senza il suo aiuto non avremmo…» si interruppe. Gli era difficile trovare le parole giuste. «Cosa ha intenzione di fare, ora?»
«Avrei bisogno di un caffè forte», disse Judy. «Preferibilmente corretto con dell’whisky.»
«Non è una cattiva idea, ma voglio dire… dopo?»
«Non lo so, mi hanno offerto un lavoro a Manchester ma non ho ancora deciso se accettare o no. Pensavo di andare via per una settimana o due.
Credo di aver bisogno di una vacanza.»
«È un’ottima idea. Perché non va al Monastero, a Steeple Aston? È un albergo molto simpatico e tranquillo e, come le ho già detto, il direttore e la moglie sono miei amici.»
«Sì, forse.» Gli rivolse un sorriso enigmatico. «Steeple Aston. Vuol dire che devo prendere il treno alla stazione di Paddington?»
«No», rispose Harry fingendosi serio. «Certamente non a Paddington.»
«Euston, allora?»
«No.»
«King’s Cross?»
Harry scosse il capo e risero entrambi. La prese per un braccio, quello sano, e la condusse verso un bar, un centinaio di metri più avanti.
«Non devi prendere nessun treno. Andiamo a berci un caffè e ti dirò quali sono i miei piani per il futuro.»
FINE