VENTISEIESIMO

Fece tutto velocemente, come un soldato che conosce la sua missione, come se fosse in trance. Rientrò nella biblioteca, fece ruotare la libreria girevole e rimise al suo posto il pomello di madreperla. Spense la torcia e si avvicinò alla porta a vetri che dava sul corridoio. La aprì e si affacciò per controllare che non ci fosse nessuno in giro. Poi scivolò fuori e si diresse verso l’ingresso. Lì, davanti al grande portone di legno scuro, era seduto Pollok. Jonas trasalì, il cane lo guardava con aria interrogativa, cosa ci faceva lì quel ragazzo strano, a quell’ora del mattino? Proprio in quell’istante il grande pendolo cominciò a suonare: erano le otto in punto.

Jonas approfittò del rumore per lanciarsi verso l’uscita, Pollok non si oppose, si fece da parte goffamente e lo lasciò passare.

– Grazie, Pollok.

Una volta fuori, Jonas si guardò intorno e poi si mise a correre verso il cancello. Nessuno si era accorto di lui. Stava piovendo a dirotto. Ma Melampo dov’era?

Jonas si arrampicò sull’inferriata e scavalcò, atterrando su una pozzanghera che gli fece inzaccherare i pantaloni. Poi raggiunse la fermata del tram e si riparò sotto la pensilina.

Che accidenti di fine aveva fatto Melampo?

Il tram passò poco dopo e Jonas salì. Dentro il solito odore di corpi accalcati, di fumo e di cappotti umidi. Si sistemò su un sedile in fondo, tolse lo zaino e lo tenne sulle ginocchia. Aveva la sensazione che tutti lo stessero osservando, e si chiedessero cosa ci faceva lì, a quell’ora del mattino. Ma poi pensò che era solo una sua impressione, nessuno lo conosceva, nessuno lo stava guardando, nessuno si domandava proprio nulla.

Dopo una ventina di minuti scese e si diresse di corsa verso casa. Il cancello era aperto, e anche la porta di ingresso. Si fiondò dentro e salì i gradini due alla volta. Alle otto e mezzo in punto era nella sua stanza.

Di Melampo nessuna traccia.

Allora si spogliò e rimise il pigiama, gli sembrava che fosse passata un’intera giornata da quando lo aveva tolto prima di volare verso Extramondo. E invece era trascorsa un’ora e mezza. La testa gli girava un po’, sentiva le gambe molli. Aveva fame, infilò le pantofole e scese in cucina.

Sua madre era lì, come ogni giorno, che preparava la colazione. Non si accorse subito di lui, come ogni giorno. Poi si voltò e gli sorrise.

– Buongiorno tesoro.

– Buongiorno.

– Siediti, ti ho preparato due fette di pane caldo con la marmellata di ribes.

– Grazie.

– E bevi il tuo latte.

Gli allungò una tazza di latte bollente e ritornò a occuparsi della cucina. Jonas sorseggiò il latte e addentò una fetta di pane. Erano entrambi squisiti. Gli era sempre piaciuto il modo in cui si mescolavano i sapori in bocca, e il gusto del latte che rimaneva sulla lingua e sul palato. Si sentì meglio.

Per un istante gli sembrò che tutto potesse restare così, e che alla fine non c’era nessun motivo di ficcarsi nei guai. Era dentro la sua casa, dentro il suo mondo, era con sua madre, era protetto.

In quel momento qualcosa sembrò sciogliersi, le paure dei giorni trascorsi, il peso di quella enorme responsabilità sulle spalle, quel tempo stretto che aveva davanti a sé, il conto alla rovescia prima della mezzanotte. Tutto sembrò liberarsi dall’ansia. Respirò profondamente.

Alla fine era una giornata normale, c’erano le vacanze e il rientro a scuola era ancora lontano. Jonas poteva occuparsi delle cose di ogni giorno, senza più nessuna paura. Bevve ancora un sorso di latte e chiuse gli occhi.

Quando li riaprì la cucina era senza colore, e sua madre non c’era più.

Jonas chiuse di nuovo gli occhi e li riaprì. La scena rimase la stessa. La cucina sembrava un luogo abbandonato e senza vita. I mobili che sua madre teneva lustri lucidandoli ogni giorno adesso erano sporchi e in disordine. E soprattutto, la luce era stata risucchiata in un’atmosfera densa e fosca.

C’era una specie di nebbia grigia, una fuliggine che si posava lentamente sulle superfici, sul tavolo, sui fornelli, sul frigorifero. E una puzza di marciume intorno.

Jonas si alzò. Sentì crescere quel sentimento che lo aveva invaso nelle ultime settimane. Una tristezza improvvisa e profonda cominciò a penetrare la carne e le ossa, a togliergli la forza di muoversi, di reagire. Dove era finita sua madre? Si mosse a fatica e uscì dalla cucina.

Il soggiorno era nelle stesse condizioni, come la scena di un disastro atomico, quando le cose restano immobili in un mondo senza vita. Sentì quel dolore crescere ancora, e le forze spegnersi.

Si mosse verso le scale, scansando la poltrona rovesciata e il lume in frantumi. Salì un gradino alla volta, compiendo uno sforzo enorme, fino a che arrivò al primo piano. Il corridoio era avvolto nella nebbia, la carta da parati pendeva, lacera, dalle pareti e le porte delle camere erano sfondate. Non c’era nessuno. La casa era deserta, abbandonata a se stessa. Jonas era solo. Era solo al mondo.

Allora chiuse gli occhi. E li tenne stretti.

Non voleva più riaprirli, non voleva più tornare in quel sogno mostruoso, non voleva più guardare quel mondo. Non voleva più guardare quel Mondo Nero.

Quando li riaprì, tutto era tornato alla normalità. Sua madre armeggiava in cucina e sua sorella, che nel frattempo era entrata per fare colazione, ascoltava la radio a tutto volume. Jonas si alzò e la abbracciò, istintivamente.

– Ma che vuoi? Che ti prende?

Morgana lo allontanò bruscamente e Jonas sorrise. Era felice che sua sorella fosse lì, sana e salva. Poi guardò l’ora, erano le nove e un quarto. Si girò e risalì in camera.

Il cuore era in tumulto, il cervello lavorava al doppio della velocità. Jonas ripensò a quanto era successo e provò a trovare una risposta, qualcosa che avesse un senso. Quella visione. Ecco, quella visione doveva significare qualcosa. Per la prima volta Jonas percepì il senso vero del pericolo che era in agguato. Quello che aveva visto era il Mondo Nero, non poteva essere altrimenti. Le sue visioni erano aumentate negli ultimi giorni, le voci che sentiva intorno a sé, quel silenzio così pieno di sofferenza. Era lo scenario che lo aspettava. Ciò che sarebbe successo se le porte si fossero spalancate e i mondi fossero entrati in contatto. Sarebbe stata la fine di tutto, il dolore che non ha tregua, la perdita delle forze e della speranza. Sarebbe stato un viaggio senza ritorno.

A meno che lui non li avesse fermati. Adesso gli era chiaro, non c’erano alternative.

Jonas prese lo zaino e riversò il contenuto sul letto. La sua agenda, il coltellino milleusi, lo stereoscopio, l’involto con la fotografia e la clessidra. Guardò ogni cosa con attenzione, quasi a voler trovare in quegli oggetti la risposta alla sua domanda. Poi prese lo stereoscopio e la fotografia. Si sistemò alla scrivania, posò i gomiti sul piano e avvicinò gli occhi al visore. L’immagine della scuola divenne un’immagine a rilievo.

Accanto al portone c’erano due uomini di guardia e alcuni passanti sulla strada, una signora con una cuffia bianca e una carrozzina di legno. Se qualcuno aveva voluto che lui trovasse quell’immagine la risposta doveva essere lì dentro. Non poteva essere altrove.

Puntò il visore e premette il grilletto.

Tutto diventò bianco, la sua camera sparì e Jonas si ritrovò davanti alla scuola, la sua scuola, cent’anni prima.

Restò fermo qualche istante, fino a quando dal silenzio ovattato cominciarono ad arrivare i suoni e i rumori di quel mondo lontano. Tutto quanto intorno aveva il colore della fotografia, il bianco, il nero e le variazioni dei grigi, ma per il resto sembrava vivo e presente. La signora con il passeggino attraversò la strada e subito dopo una carrozza con i cavalli passò velocemente.

Jonas si avvicinò alle scale e guardò in alto, così come era solito fare prima di entrare a scuola. Dal cornicione un leone con la testa d’aquila gli lanciò uno sguardo appuntito.

Sopra il portone, con i caratteri disegnati su una lamiera piatta, c’era la scritta Ospedale psichiatrico. Jonas deglutì, poi cominciò a salire le scale.

Non ebbe difficoltà a passare tra i due gendarmi che presidiavano l’entrata. Nessuno poteva vederlo, lui era il ragazzo che arriva dal futuro. Ma lui poteva vedere e sentire tutto. E questa cosa non lo metteva tranquillo.

Attraversò l’androne, a parte qualche dettaglio sugli arredi era esattamente come l’androne della scuola, e si incamminò nel corridoio alla destra dell’entrata.

Dalle grandi finestre che scandivano il percorso arrivava una luce livida, che rendeva ancora più pallide le pareti e le porte verniciate di bianco. C’era un odore strano, di sudicio e di pulito insieme, c’erano fiori nei vasi e alcune immagini sacre, c’era, di tanto in tanto, una voce lontana che emetteva un suono indistinto. Sempre lo stesso suono, a intervalli regolari.

Nel corridoio incrociò un medico e due infermieri che accompagnavano un paziente. Era un ragazzo di una ventina d’anni, con gli occhi persi nel vuoto e due vistose cicatrici sulle tempie. Quando gli passò accanto, Jonas sentì quell’odore farsi più intenso, di disinfettante e umori del corpo, poi si girò a guardarlo mentre spariva dentro una stanza, aveva i piedi nudi, e faceva freddo.

Poi Jonas diede un’occhiata nelle stanze, agli ambulatori, alla mensa. Tutte le camere erano in ordine, gli arredi sembravano lucidati da poco, le infermiere si muovevano con precisione ed efficienza. Niente di quanto aveva immaginato ascoltando i racconti che gli faceva Molly di sua zia, chiusa in una stanza con i materassi, intrappolata in una camicia di forza. Niente di tutto questo, pensò Jonas.

Ma si sbagliava.

Passò da un corridoio all’altro, seguendo il perimetro dell’edificio. Su quel lato c’era meno luce e dalle camerate arrivavano le voci, come i suoni dissonanti di un’orchestra senza direttore. Jonas aprì una porta e si affacciò all’interno. La stanza era enorme, c’erano una quarantina di letti di ferro battuto verniciati di bianco, per ciascun letto un paziente. In fondo alla sala due infermieri in uniforme, alla cintura portavano un crocifisso, un mazzo di chiavi e un bastone corto. Anche all’ingresso c’erano due infermieri, erano alti e grossi, e stringevano in mano una specie di manganello.

Jonas si mosse con prudenza, passò loro accanto e si diresse verso i letti, sentiva crescere l’agitazione. C’erano uomini di tutte le età, coricati sui letti, seduti oppure in piedi, fermi sotto l’occhio vigile dei controllori. Sembravano abituati al controllo, come certi animali addomesticati che devono eseguire stancamente un numero al circo. Alcuni parlavano da soli, altri sembravano scambiare qualche parola col vicino, altri ancora sembravano persino ridere. Anzi no, ridevano davvero, ma quel riso non metteva nessuna allegria. Era un riso disperato. Jonas sentì salire la pena e la vergogna per tutti quegli uomini smarriti, sconfitti, reclusi, per la libertà perduta per sempre, per l’impossibilità di essere quello che forse desideravano essere, di sentire quello che volevano sentire. A un certo punto uno di loro si alzò, avrà avuto trent’anni, aveva i capelli rasati e la barba incolta. Attraversò la camerata e raggiunse uno degli infermieri, come per chiedere qualcosa, probabilmente chiedeva di uscire, di andare in bagno, una cosa del genere. L’infermiere non rispose, non disse nulla, non mutò espressione. Non lo guardò. Allora l’uomo si voltò e tornò indietro, e andò a sedersi sul suo letto.

Jonas non riusciva a capire, avrebbe voluto fare qualcosa, dire qualcosa, ma non poteva. Si avvicinò all’uomo e lo guardò da vicino. Aveva lo sguardo triste, un odore acido, e si mordeva appena il labbro inferiore. Poi una lacrima, improvvisa, gli rigò il viso e cadde sulla camicia da notte consunta.

Jonas sentì una stretta al cuore e tutta l’impotenza di chi non può fare nulla dinanzi al dolore. Tornò indietro e si avviò alla porta, e uscì.

Mentre si allontanava, sentì arrivare le voci, concitate, poi le grida e il rumore dei passi. Poco dopo la porta della stanza si spalancò e i due infermieri trascinarono via l’uomo, che aveva smesso di reagire. Jonas rimase a guardare per un po’, il corpo sghembo, portato via, come una marionetta e sentì crescere quella tristezza buia che conosceva.

Percorse di nuovo il corridoio e si ritrovò davanti alle scale che portavano al piano superiore. Quella scala la vedeva ogni giorno, affollata di ragazzi e di ragazze, in mezzo al vociare allegro prima e dopo le lezioni. Adesso era vuota, sospesa in un silenzio sintetico, appena interrotto dalle voci che si avvertivano in lontananza. Jonas cominciò a salire. Cosa stava cercando, lì dentro?

Giunto al primo piano si accostò alla finestra che si affacciava sul cortile. Al centro del giardino troneggiava il platano, ancora giovane e snello. Non c’era nessuno, solo il passaggio furtivo di una suora. Poi si girò verso il corridoio e vide la porta dell’aula, quella della sua classe, e sentì un rimescolio improvviso. Chissà cosa c’era, dentro quella stanza. Si avvicinò.

Accostò l’orecchio alla porta, ma non sentì nessun suono, nessuna voce. Allora aprì, cautamente.

C’era poca luce, le finestre erano coperte da pesanti tendaggi, il pavimento era rivestito da mattonelle bianche che risalivano anche sulle pareti, quattro tavoli di marmo erano allineati sotto grandi lampade che piovevano dal soffitto. In fondo alla stanza una vasca da bagno, o qualcosa che somigliava a una vasca da bagno. Jonas entrò, prendendo confidenza con la penombra. C’era un odore intenso di medicinale. Sopra i tavoli erano agganciate delle staffe con fibbie di metallo e una specie di collare all’estremità, il marmo bianco era gelido. La vasca in fondo alla stanza era grande e piena d’acqua, Jonas rimase a guardare il riflesso strano della luce che filtrava dalle tende sopra la superficie mossa dell’acqua. Sentì freddo, all’improvviso, senza che ce ne fosse un motivo. Come quando arriva l’influenza e il corpo rabbrividisce.

Fu allora che alzò lo sguardo e lo vide, nascosto nell’ombra, come un animale selvatico che si protegge dietro una siepe. Tremava. Aveva la testa rasata, i piedi nudi e il viso pallido, e gli occhi neri che guardavano fissi. Quegli occhi lo stavano guardando.

Jonas si immobilizzò, sentendosi improvvisamente vulnerabile, al centro di un gioco che non controllava più. Il ragazzo che lo fissava aveva più o meno la sua età, così sembrava, portava una camicia da notte bianca che gli lasciava scoperte le gambe e le braccia, e si teneva le ginocchia strette, appollaiato su uno sgabello. Jonas lo guardò negli occhi senza avere il coraggio di parlare.

In quell’istante entrò un medico accompagnato da due infermieri, Jonas istintivamente si nascose dietro la tenda, anche se quei tre non potevano vederlo. Rimase fermo lì, in attesa.

Il medico disse qualcosa agli infermieri che annuirono, uno dei due trasportò un secchio di metallo. Versò il contenuto nella vasca, con un rumore di cascata. La superficie si coprì interamente di cubetti di ghiaccio. Poi l’altro infermiere si avvicinò al ragazzo e lo prese per un braccio, il ragazzo oppose resistenza e allora arrivò anche l’altro infermiere. Lo spostarono di peso e lo portarono fino al bordo della vasca, mentre quello si dimenava, facendo ruotare le gambe per aria, come se pedalasse.

Lo fecero sedere su una sedia e lo tennero fermo, il dottore prese uno sgabello, si sedette di fronte a lui e rimase in silenzio. Poi prese dalla tasca un astuccio d’argento, si accese una sigaretta e aspirò profondamente. Buttò fuori il fumo e cominciò a parlare.

– Allora, Neil, oggi come andiamo?

Il ragazzo non rispose. Sembrava non sentire.

– Come è andata questa notte? Quella gente viene sempre a trovarti?

Nessuna risposta, nessuna reazione.

– Come hai detto che si chiamano? Non mi ricordo. Vuoi dirmelo tu?

Il ragazzo restò zitto. Il dottore aspirò di nuovo dalla sigaretta, il fumo formò una nuvola densa, sospesa sopra la vasca.

– Lo capisci, Neil, nessuno di noi si sta divertendo. Se non mi rispondi, se non collabori, io sono costretto a farti fare… il bagno.

Il ragazzo emise un piccolo gemito, e tornò immobile subito dopo.

– Non è così difficile, devi solo parlare, raccontarmi quello che vedi. Devi dirmi solo come sono fatti, questi che vengono a trovarti. Oppure dirmi che ti sei inventato tutto, che hai sognato, immaginato, quello che vuoi. Potrebbe bastare solo questo, tu mi dici che ti sei inventato tutto e io dico agli infermieri che possono lasciarti andare, e torni con gli altri. Non è difficile.

Neil sollevò appena lo sguardo, e intercettò quello del dottore. Sembrò articolare un suono con la bocca, ma non disse nulla. Il medico restò ancora in attesa, fumando. Il ragazzo riprovò a parlare, facendo uno sforzo enorme, tanto che gli si gonfiarono le vene del collo. Poi abbassò la testa, la sollevò di colpo, e sputò sul camice del medico. Quello tirò fuori un fazzoletto dal taschino e si pulì, poi fece un cenno agli infermieri, i due, senza mutare espressione, sollevarono di peso il ragazzo e lo infilarono nella vasca.

Neil cominciò a dimenarsi, schizzando l’acqua ovunque intorno a sé, ma i due lo immobilizzarono, completamente immerso nell’acqua gelata. Jonas si mosse in avanti, avrebbe voluto fare qualcosa, chiamare qualcuno, ma non aveva senso, lo sapeva, non aveva senso neanche pensarci. Quello che stava vedendo non stava succedendo in quel momento, era già successo, forse cento anni prima, e lui non era lì, era solo uno spettatore. E allora perché quel ragazzo lo aveva fissato, poco prima, come se lo vedesse?

Dopo una serie di immersioni forzate gli infermieri tirarono fuori Neil e lo misero a sedere di fronte al medico, che sembrò perfino sorridere, intenerito alla vista del ragazzino in preda ai fremiti del congelamento. Non era intenerito, Jonas gli si mise accanto e lo guardò meglio. Quel sorriso era una smorfia.

– Lo sai, Neil, che non mi piace dover fare questo. Mi ci costringi. Ma lo faccio per il tuo bene. Lo facciamo perché tu guarisca. Adesso andrai nella tua stanza. Sono in pochi, qui, a godere del privilegio di avere una stanza tutta per sé. Dovresti essere riconoscente.

Poi fece un altro cenno agli infermieri, che sistemarono il ragazzo su una sedia a rotelle.

– Così la prossima volta forse ti deciderai a raccontarmi qualcosa di questi uomini venuti da un altro mondo. Venuti dal futuro. Oppure mi dirai che ti sei inventato tutto. E tutto tornerà come prima. Tutto tornerà tranquillo.

Il medico spense la sigaretta su uno dei piani di marmo e uscì. Jonas, che aveva il respiro corto per l’ansia, seguì con lo sguardo i due che cominciarono a spingere Neil nella direzione opposta, verso un’altra uscita. Poi decise di seguirli. Aprirono la porta e si infilarono in un corridoio più stretto che terminava con una serie di porte più piccole. Ne aprirono una e accompagnarono il ragazzo all’interno, Jonas si infilò con loro. Quando uscirono, Jonas rimase solo con Neil, nella piccola camera senza finestre.

Si accostò alla parete. Sentì qualcosa che cedeva dentro di sé, deglutì e provò a respirare con la bocca. Sentì il fiato mancare.

Il muro era soffice, come un materasso. La stanza era tutta rivestita di materassi.

Era dentro la stanza dei matti, quella dei suoi incubi.