6.

Nella stanza al piano superiore Milly, intralciata nei movimenti da Agatha, che l’aveva accompagnata e la sosteneva con amorevole sollecitudine per il braccio, cercava a tentoni i fiammiferi.

«Voglio vederti, Aggie cara» disse Milly avanzando alla cieca. «Lo desidero tanto».

«Ciò che in questo momento io desidero con tutto il cuore per la mia sorellina stanca» rispose Agatha, «è vederla riposare. Dopodiché» aggiunse con improvvisa severità, «andrò giù per chiedere a quella donna cosa intende…»

«Ho riposato tutto il giorno» replicò Milly procedendo di qualche altro passo assieme ad Agatha e brancolando con la mano libera. «Ho dormito profondamente per ore».

«Riesci a dormire?» chiese Agatha sorpresa, ricordando come dopo la morte di Gaston non avesse chiuso occhio per notti e notti di fila. Ma dopo un attimo aggiunse di essere contenta per lei.

«Non si sprecano molto con l’elettricità, qua dentro» la interruppe Milly sempre brancolando.

«Eppure» ribatté Agatha, pratica di quei trucchi ma indispettita visto che era lei a farne le spese, «ci verrà addebitata ugualmente sul conto, con tanto di maggiorazione. Immagino» proseguì spostandosi per la stanza attaccata al braccio di Milly, «che a casa abbiate fatto arrivare la luce elettrica, perché ricordo che ai tempi c’era il gas, e magari anche negli alloggi della servitù, così ora non dovete più stare a preoccuparvi se anche la luce rimane accesa tutta la notte».

«Ernest si preoccupava» ribatté Milly assorta nella ricerca e facendo cadere quello che evidentemente doveva essere un candeliere; comunque sia, qualcosa cadde sulle assi di legno con un suono metallico e senza rompersi.

«Pover’uomo» sospirò Agatha, «adesso ha smesso di preoccuparsi».

«Chissà» disse Milly chinandosi per cercare a tastoni sul pavimento, trattenuta dalla presa di Agatha sul braccio.

Trovò il candeliere, ma era senza candela. Eppure una doveva avercela avuta, perché il bordo era costellato di gocce di cera rappresa che le si staccavano tra le dita.

«Mia piccola Milly» disse Agatha in tono amorevole, «non devi dubitare. Devi pensare che ora Ernest è completamente libero, senza più nulla di cui preoccuparsi, pover’uomo. “Adesso scala”» citò, benché Milly ne fosse ignara, «“altre vette con altri amici”».

«Non credo gli piacesse arrampicarsi» replicò Milly, ora intenta a cercare i fiammiferi; se fosse riuscita a fare un po’ di luce forse da qualche parte avrebbe trovato una candela. «Anzi lo detestava al punto che l’anno scorso aveva fatto installare l’ascensore. Solo per trasferirsi dal pianterreno alla camera da letto».

«Era così ricco?» chiese Agatha, sapendo quanto costasse installare un ascensore, perché quando all’inizio lei e Gaston prevedevano un futuro radioso per il loro albergo, cui meditavano di aggiungere nuovi piani, avevano trascorso le serate a consultare cataloghi di ascensori.

Ma neppure per tutto l’oro del mondo avrebbe potuto costringersi a provare un briciolo di pietà. Un ascensore che costava centinaia di sterline, migliaia di franchi, usato solo per portare a letto un uomo sano — gli incidenti, ragionò, non sono malattie, e dunque non rendono infermi in precedenza — mentre lei, sui monti, non sapeva da che parte voltarsi per procurare ogni giorno un pasto regolare al marito cagionevole.

«Sì, era ricco» confermò Milly facendo scivolare la mano lungo la superficie del cassettone e ritirandola piena di polvere.

Dopo una lotta interiore Agatha ebbe la meglio sul proprio senso di pietà; dopotutto, anche se in ritardo, avrebbe beneficiato a sua volta della ricchezza di Ernest. «Sono tanto felice per te, Milly mia» disse. «Per il resto della tua vita non dovrai più avere ansie o preoccupazioni di sorta».

«Beh» rispose Milly mentre la mano che brancolava andò a urtare contro un vaso che venne però afferrato al volo prima di infrangersi a terra, «le cose non stanno proprio così. Oh, Aggie, si interruppe, ho così tante cose da dirti!» E posando per un istante la guancia contro la spalla di Agatha, e trovandola quanto mai ossuta, soggiunse: «Come sei magra».

«Certo che lo sono» ribatté l’altra. «Il dolore assottiglia».

«Dici davvero?» chiese Milly un po’ a disagio, senza interrompere la sua ricerca a tentoni; già, e lei, allora? Non si poteva certo dire che lei si fosse assottigliata. E comunque nessuno, ragionò, poteva aspettarsi che il peso accumulato sul corpo per anni svanisse nel giro di una sola settimana. Aggie aveva impiegato tre mesi. Sicuramente in una settimana nemmeno il dolore più acuto sarebbe riuscito…

«Certo che sì» rispose Agatha. «Ci prepara».

«A cosa?» indagò Milly sempre avanzando, seguita da Agatha.

Milly, sotto choc per il suo lutto, diceva strane cose, pensò Agatha. «A cosa, povera anima afflitta, se non al ricongiungimento? » chiese in tono solenne. «Non è forse quella l’unica nostra speranza, l’unica cosa che ci è rimasta? Insieme alla consolazione di sapere che i nostri cari sono sereni e in pace? Ora è così che devi pensare a Ernest, Milly, sereno e in pace».

«Credi che lo sia?» disse Milly. «Ho avuto come l’impressione», e qui fu scossa da un leggero brivido, «che mi stesse accanto, che non se ne fosse realmente andato».

«Difatti non se n’è realmente andato, Milly cara» la rassicurò l’altra. «Lui ti sta vicino, veglia su di te».

«No, non dico che mi veglia…solo…mi guarda» puntualizzò Milly con un nuovo brivido nel ricordare la notte trascorsa in camera sua, a casa.

«E io dico proprio che veglia su di te, Milly» insisté l’altra con aria grave. «Veglia su di te col suo amore. Cos’hai detto?» chiese, quando Milly, andando a sbattere contro un altro mobile, fece un rumore che coprì la sua risposta.

«Ho detto che non credo mi stesse vegliando» fu la risposta di Milly.

Agatha restò immobile e obbligò Milly a fare altrettanto.

«Sorellina mia» riprese sempre in tono grave, «non vorrai dirmi che il trauma ti ha fatto perdere la fede?»

«No» ribatté Milly; e in effetti così non era, perché quel tipo di fede, la fede di cui erano piene le lettere di Agatha negli ultimi tempi, lei non l’aveva mai avuta, dunque non poteva averla persa. Gaston poteva fare o meno, provare o meno, le cose che Agatha asseriva facesse e provasse; lui era svizzero, e forse era diverso; ma che Ernest stesse vegliando su di lei col suo amore aveva dell’incredibile. Perché avrebbe dovuto? Non l’aveva amata quand’era vivo; l’aveva odiata, al punto che il suo unico pensiero era stato mettere in atto la sua complicata punizione. Era stata lei, con il suo comportamento malvagio, a instillare l’odio nel cuore di lui, un odio sfociato in una trama meschina e codarda; pensare che adesso lui, in cambio della malvagità di cui lei gli aveva riempito il cuore, dovesse amarla, voleva dire aspettarsi decisamente troppo. La sua era una doppia colpa. Era responsabile della meschinità e della codardia di Ernest. E lo era anche di aver allontanato Arthur dalla virtù. Si sentiva gravata dal fardello dei suoi peccati. Doveva dirlo ad Aggie, non poteva lasciarla un altro minuto con quell’impressione sbagliata su di lei — al diavolo la candela — doveva dirle subito…

Stava per abbandonare le ricerche e riversare nelle orecchie della sorella tutta la verità senza ulteriore indugio, quando la sua mano incappò nella scatola di fiammiferi.

«Eccoli» esclamò. «Li ho trovati…», e districandosi con gentilezza dall’amorevole stretta di Agatha, aprì la scatola e accese un fiammifero.

Davanti a lei, proprio sotto il suo naso, c’era un altro portacandele, questa volta con dentro una candela; tenendo il fiammifero acceso nell’incavo della mano per ripararlo dagli spifferi d’aria che entravano dalla finestra, voltò le spalle ad Agatha per accendere lo stoppino.

«Ho così tante cose da dirti, oh, sapessi quante, Aggie carissima» confidò con voce piuttosto tremante, ora che il momento della confessione era arrivato.

Tenendo il fiammifero nell’occhiello dello stoppino piegato per sciogliere il grasso in cui era imprigionato e liberarlo, proseguì: «Ma dovrai avere pazienza, tanta pazienza», e qui la mano, e il fiammifero che teneva, tremarono, «e volermi bene, tanto bene…mi vorrai sempre bene, Aggie?» chiese. «Qualunque cosa io abbia fat… qualunque cosa sia successa?»

«Milly mia» rispose Agatha, alla quale quel parlare faceva di nuovo pensare a una crisi di nervi, ma che allo stesso tempo era così curiosamente simile a ciò che di lì a poco avrebbe chiesto a sua volta alla sorella, «non sono forse venuta apposta fin dalla Svizzera per far questo, per volerti bene per sempre e per farmi volere bene per sempre?»

«Non riesco a capire» spiegò Milly con un sospiro di sollievo davanti alle parole dell’altra, riuscendo a liberare lo stoppino e ad accendere la candela, «come io abbia potuto resistere tutto questo tempo senza…»

Stava per dire «la mia cara sorella», ma voltandosi in quell’istante con la candela accesa in mano, le parole le si spensero in gola. Svanirono, le morirono sulle labbra. Quelle parole furono inghiottite dal silenzio. Per l’eternità.

Si fissarono a vicenda.

E Agatha, dopo quello che parve un bel po’ di tempo, articolò con voce stupita: «Milly?»

E Milly, balbettando, come se la mente brancolasse per trovare una via di uscita, una qualsiasi altra via d’uscita, disse: «Allora eri tu, stamattina…»



Un garbo estremo si impossessò di loro. L’atmosfera s’irrigidì per l’imbarazzo. E le palpebre di Milly si abbassarono pudiche come quelle di chi si ricordi come sia scortese fissare un estraneo.

Volgendosi, appoggiò la problematica candela sul cassettone con grande cura, perché aveva le mani malferme.

Aggie. Dov’era? Chi era quella donna in camera con lei? Che fine aveva fatto sua sorella? Quella donna macilenta, severa, con gli occhi grandi e pieni di… oh, sì, di stupita ostilità (perché ostilità?), quella donna non era Aggie, non poteva essere Aggie, ma solo qualcuno che le aveva rubato la voce. Mia sorella… oh, mia sorella! era il grido impaurito che si levava dal cuore di Milly, svuotatosi all’improvviso di ciò che l’aveva colmato e riscaldato fino a quel momento.

Si nascose dietro le buone maniere, e altrettanto fece Agatha, profondamente scioccata e sbalordita per l’aspetto di Milly. Non l’avrebbe mai riconosciuta, si disse Agatha, con tutta quella ciccia addosso. Di lei rimanevano solo gli occhi e la voce, mentre il resto di ciò che un tempo era stata Milly era scomparso, sotto la chiara evidenza di un’ininterrotta, sfrenata autoindulgenza, così parve ad Agatha, abituata a una vita risicata all’osso, ai più alti standard di pensiero e ai più bassi di sussistenza.

Le venne in mente la parola «satolla». Si sentiva lontana anni luce. Restò ammutolita, fissando la schiena carnosa di Milly rivestita di costoso tessuto nero. Era tornata per confortare sua sorella sofferente, ma dov’era finita quella sorella sofferente? La vera infelicità, si disse, non è mai grassa.

«Temo» disse Milly in tono garbato, ancora voltata dall’altra parte, sforzandosi di dire qualcosa e parlando con voce talmente diversa da quella che aveva usato sino a poco prima da notarlo lei stessa, «che tu sia molto stanca».

«No, non lo sono affatto, grazie» rispose Agatha con uguale gentilezza. «Sono soltanto più vecchia».

Cadde il silenzio. Milly, china sulla candela, si affaccendò con lo stoppino, da cui si levava un fil di fumo.

Mia sorella… oh, mia sorella…

Naturalmente Agatha sapeva che in una sola settimana non era possibile dimagrire e ingrigirsi, anche se i grandi dolenti della storia ci erano riusciti, anzi, ad alcuni era bastata una sola notte, quanto meno per ritrovarsi con i capelli grigi, però una persona poteva mostrare i segni di ciò che aveva passato. Milly non ne mostrava alcuno. Su di lei non c’era la minima traccia di una netta reazione alle recenti vicissitudini né, se era per quello, a qualunque vicissitudine. Aveva l’aspetto di una bambola, una bambola paffuta. Bianca e rosa, per di più; bianca e rosa a quarantacinque anni. Poteva esserci del vero sentimento, una reale profondità di sentimento in una donna che, dopo venticinque anni di esistenza, anni che per quanto prosperosi dovevano avere avuto i loro alti e bassi, sembrava ancora una bambola di porcellana? Com’era possibile, si chiese Agatha, confortare e aiutare con intento sincero una bambola?

Il silenzio si prolungava, e Milly, giusto per spezzarlo, tanto stava diventando insopportabile, prese una sedia e la mise vicino ad Agatha, ancora in piedi.

«Non vuoi sederti?» chiese senza guardarla.

«Grazie» rispose l’altra senza guardarla a sua volta.

Ma ognuna vedeva l’altra; ognuna vedeva tutto.

La sedia era traballante, e troppo bassa per Agatha, che sedette con cautela sistemando di lato le ginocchia ossute. Anche solo gli ultimi giorni, si disse, senza distogliere dal cassettone gli occhi severi, anche solo gli ultimi pochi, orribili giorni, ogni ora dei quali doveva essere stata un tormento indicibile per qualunque donna con un minimo di sentimento, sarebbero stati più che sufficienti a incidere solchi persino sul viso più levigato. E sul viso di Milly Agatha non vedeva solchi, neppure una ruga. Certo, gli occhi erano un po’ gonfi, e arrossati, ma lei non aveva fatto tutta quella strada dalla Svizzera per confortare un po’ di gonfiore e arrossamento. Pasti, oh, quanti pasti, si disse, mentre dentro di lei l’amore e la comprensione, frustrati e superflui, andavano cagliandosi al ricordo di tutti i pasti che lei e il povero Gaston avevano saltato. Persino in quell’ultima settimana, quella dopo la tragedia, Milly aveva sicuramente continuato ad alimentarsi in modo regolare e abbondante, altrimenti non avrebbe mai potuto…

Agatha si sentiva lontana anni luce. Per un bel pezzo, dopo la morte di Gaston, lei non era riuscita a buttar giù che un’occasionale tazza di tè e un pezzo di pane. La prima cosa che scompare, insieme all’oggetto del vero amore, è l’appetito. Cosa c’era in comune, cosa poteva esserci in comune tra lei e una tale, fin troppo evidente superficialità?

Anche Milly sedette sul bordo del letto, ad angolo retto rispetto alla sorella, mentre la fiamma della candela, che fluttuava nella corrente d’aria proveniente dalla finestra, proiettava una gigantesca testa sormontata da un cappellino sulla parete in alto, verso il soffitto, un’ombra irrequieta che oscillava in modo grottesco. Essendo troppo doloroso guardare com’era diventata Milly, Agatha si era messa di profilo, un profilo che risultava meno estraneo del pieno viso, perché il primo dura più a lungo del secondo; nelle sue linee generali a Milly pareva vagamente familiare, come se una qualche zia anziana, molto somigliante ad Agatha, una di quelle somiglianze che raggelano i pretendenti, fosse venuta in visita. Ma niente a che vedere con Aggie, pensò Milly, mentre un senso di tragica e profonda perdita si faceva strada cupamente nel suo cuore vuoto; niente a che vedere con sua sorella, colei di cui, fino a cinque minuti fa, con tanto calore e vivacità, aveva avuto il cuore ricolmo.

Si lisciò il vestito sulle ginocchia, e intrecciò le mani in grembo, osservandole come per controllare che si comportassero bene. Le osservava, però non le vedeva. Vedeva Agatha; vedeva con perfetta chiarezza quell’estranea con la voce di Agatha. Mia sorella… oh, mia sorella!

«Quando sei partita dalla Svizzera?» le domandò paralizzata dal garbo, dando voce con nervosismo alla prima cosa che le era venuta in testa, per non prolungare ancora il silenzio. Ma l’estranea sulla sedia non pareva infastidita dal silenzio. O, comunque, non faceva niente per evitarlo.

«L’altro ieri all’alba» rispose Agatha, fissando il cassettone.

«Devi essere esausta» disse Milly, in apparenza rivolgendosi alle proprie dita.

«No, niente affatto» replicò Agatha, in apparenza rivolgendosi al cassettone.

L’ombra sulla parete fu scagliata in avanti e ondeggiò sul soffitto. Milly si era alzata per chiudere la finestra.

«Non voglio che tu stia in mezzo alla corrente» disse con sollecitudine, provando sollievo nel fare qualcosa e armeggiando con il fermo, che non voleva bloccarsi.

«La corrente non mi dà nessun fastidio» fu la risposta di Agatha, immobile sulla sedia.

«Immagino ce ne siano molte in Svizzera» proseguì Milly facendo uno sforzo. «Tutte quelle montagne».

«Di cosa immagini ce ne siano molte?» domandò Agatha con cupa pazienza.

«Di correnti».

«Forse».

Ah, ma non era un’assurdità, si chiese Milly, la più abominevole delle assurdità, mettersi a parlare, lei e sua sorella, di correnti d’aria, quando non si vedevano da una vita, ed essere così compite, così rigide, e comportarsi come due perfette estranee quando l’altra era tutto ciò che ognuna aveva al mondo, tutto ciò a cui attingere amore e consolazione?

No, lei si sarebbe comportata in modo naturale, decise Milly; si sarebbe costretta a farlo…

«Sei cambiata, naturalmente» esordì con le braccia ancora alzate nel tentativo di chiudere la finestra, o perché il fermo non funzionava o perché le mani non erano abbastanza salde per farlo funzionare, e comunque era pur sempre una scusa per voltarle la schiena. «Ma non ha importanza, Aggie…», incredibile quanto le riusciva difficile chiamare Aggie quell’estranea sulla sedia, «il corpo non ha importanza. L’esteriorità non conta nulla».

«Però si presta come simbolo» l’ammonì Agatha dalla sedia.

«Io penso di no» rispose Milly.

«Chiedo scusa, prego?» replicò l’altra, non avendo sentito davvero per via del rumore che Milly faceva con il fermo.

«No, no, no!» esclamò Milly voltandosi rapidamente e affrontando la figura immobile. «Non parlarmi in quel modo, non dire “Chiedo scusa, prego?” a me, a me, come se… come se…»

Le parole le morirono sulle labbra. Non riusciva a continuare. Fu travolta da un’ondata di intensa solitudine. Quell’estranea così glaciale, che non voleva neppure guardarla; la stanzetta squallida in cui regnava un senso di disaffezione, la tragicità della perdita.

Mia sorella… oh, mia sorella! L’aveva persa, persa; se n’era andata per sempre; la cara persona a cui aveva sempre pensato — così amorevole e comprensiva…sì, sempre amorevole, sempre comprensiva, qualunque cosa lei facesse o meno — come una lampada accesa, a illuminare un anno dopo l’altro…

«Come se?» la incoraggiò Agatha in tono glaciale quando Milly si interruppe.

Milly si sforzò di reagire. Era un’assurdità madornale. Ciascuna era paralizzata dall’esteriorità dell’altra, ma entrambe dovevano superare lo choc, andare oltre l’apparenza, raggiungere il puro spirito e ciò che senz’altro c’era nel cuore di entrambe: il dolce, caloroso, semplice amore fraterno di un tempo.

«Aggie» riprese, sforzandosi di pronunciare quella parola.

«Sì, Milly?»

«Mi trovi molto cambiata? Al punto da non riuscire a guardarmi?»

«Sei diventata più robusta» rispose Agatha evasiva, lo sguardo incollato al cassettone.

«Sì, sì, lo so. Si è destinati a crescere un po’, dopo venticinque anni».

«Certo è vero» rispose Agatha.

«Ma non importa. Cosa vuoi che importi? Dopotutto è naturale, immagino, arrotondarsi un po’. Ma quello che importa davvero è…»

«Forse che io l’ho fatto?» la interruppe Agatha.

«Fatto cosa?»

«Arrotondarmi, come dici tu».

No, certamente Agatha non si era arrotondata. Anzi, aveva fatto l’esatto contrario, aveva perso del tutto quel po’ che un tempo l’aveva resa rotonda. Ma era forse una ragione per rallegrarsene? E le parve di rilevare di nuovo, nella voce dell’altra, una certa ostilità. Ma perché?

«Se» disse Agatha mentre Milly stava in silenzio, sempre senza spostare gli occhi dal cassettone, «ti dò l’impressione di essere una donna triste, allora devi perdonarmi e ricordarti che sono una donna triste».

«Ma non lo sono anch’io?» chiese Milly. «Non lo sono anch’io, triste? Voglio dire…»

S’interruppe, perché si chiese se era davvero triste allo stesso modo in cui lo era Agatha, sinceramente in lutto. Non si trattava piuttosto del senso di colpa, e di un’infelicità dovuta all’essere stata scoperta?

«So» disse Agatha con voce inespressiva, «che devi essere molto triste, e sono venuta fin dalla Svizzera per consolarti. Però…»

Anche lei s’interruppe, e la stanza sembrò riecheggiare della malinconia di cui era intrisa la sua voce. Persino la parola consolazione, una bella parola che evocava calore e buone nuove, era talmente carica di biasimo e ostilità da risuonare come un rintocco funebre.

Milly fece qualche passo verso di lei, e tornò a sedere sul letto.

«Sei stata tanto cara, davvero tanto cara» disse, afferrando la mano della sorella con determinazione. Se fosse stato buio l’avrebbe baciata. Era la cosa giusta da fare, ne era certa; ma con la candela accesa scoprì di non farcela. Era molto più facile baciare al buio. Tutto veniva più facile al buio, rifletté disperata distogliendo lo sguardo dal profilo severo di Agatha. Ma anche in tal caso, buio o non buio, anche i baci prima o poi finiscono, e ti ritrovi al punto di partenza. Certo che il buio in molti casi era un grosso incoraggiamento; se non fosse stato per quella candela ora le avrebbe raccontato tutta la storia di Arthur.

Fu percorsa da un brivido. Che cosa orribile, pensò Milly: pensi di raccontare una storia così tremenda a qualcuno che credi tua sorella, poi accendi la candela e ti ritrovi un’estranea lì seduta ad ascoltarti. La candela l’aveva salvata. Sì... ma solo per il momento. Alla fine avrebbe dovuto dirglielo. Non poteva andare con lei in Svizzera e mangiare il suo pane senza chiarire ogni cosa. Né poteva evitare di spiegarle per quale motivo non aveva quasi più il becco di un quattrino, e la spiegazione doveva essere sincera. Niente più bugie, si ripromise Milly.

Ma, prima di tutto, doveva riuscire a superare il nuovo aspetto di Agatha, abituarsi a lei in quei nuovi panni, imparare a vedere attraverso di essi, ritrovare l’amore al di sotto di quell’insolita apparenza.

Mia sorella… oh, mia sorella…

Milly, seduta sul bordo del letto, si rifiutava recisamente di ascoltare il grido che le dilaniava il cuore. Presto l’estraneità si sarebbe dissolta; presto Agatha l’avrebbe accettata. Era chiaro che il mutamento avvenuto in lei aveva scioccato profondamente la sorella, e Milly sentiva che forse sarebbe riuscita a sopportare meglio i cambiamenti di Agatha se quest’ultima avesse accettato i suoi più di buon grado. Si sarebbero abituate l’una all’altra. Si sarebbero...

Gli occhi di Milly, distogliendosi trepidi dal profilo di Agatha, si posarono sulla mano che stava stringendo, e vi rimasero inchiodati. Non riuscì più a pensare. Per un attimo restò attonita, ammutolita, a bocca socchiusa.

«Aggie…» disse poi in un soffio, lo sguardo sempre fisso, perché la mano che Milly osservava per la prima volta era una mano irriconoscibile; non solo deforme e rovinata dal lavoro, resa rossa e ruvida dalle intemperie, ma...

«Aggie...?» ripeté di nuovo in un soffio indicando l’altra mano, incapace di aggiungere altro, perché non erano forse — sì, dovevano esserlo — le mani scarne di chi per lungo tempo aveva avuto penuria di tutto, persino — Mia sorella… oh, mia sorella! — di cibo?

E Agatha, seguendo il dito puntato di Milly e posando gli occhi sulle mani e sul viso chino su di esse, e colpita dal contrasto tra il viso liscio, paffuto e senza rughe e le mani vergognosamente brutte e nodose, fu colta dall’improvviso desiderio non solo di confessarsi all’istante, ma di confessarsi, come la spingeva un qualche strano impulso, nel modo più meticoloso e doloroso. Stranamente, ora non sentiva più il desiderio di tirare fuori il meglio, ma il peggio.



«Lavoro» disse brevemente. E dopo una pausa, con gli occhi posati sulla morbidezza di Milly, come per valutare in quale soffice punto affondare la lama: «E fame».

La candela accesa illuminava due figure immobili che si guardavano negli occhi. Quelli di Milly erano pieni di sconcertato orrore.

«Fame» ripeté in un sussurro. Poi, di nuovo, «Fame…?»

«Non conosci questa parola?» chiese Agatha, ella stessa sorpresa per l’onda di amarezza che la stava travolgendo, come se nel corso degli anni — mentre spinta dall’orgoglio camminava a testa alta e con gli occhi velati da lacrime rabbiose sui monti mano nella mano con Dio — nel suo cuore se ne fosse ammassata un’enorme quantità e lei l’avesse soffocata e volutamente, insistentemente ignorata, e ora tutta quell’amarezza si riversasse su Milly.

Era forse perché lassù, dove i pochi, rari abitanti lottavano anch’essi tra mille difficoltà, non c’erano stati termini di paragone che mettessero in risalto la sua povertà? Era forse perché, pur avendo sempre saputo che Milly era benestante, l’averla avuta lontana dagli occhi non le aveva dato modo di constatare quanto fosse offensiva quella sua prosperità? Sarebbero bastate le briciole cadute dalla tavola imbandita di Milly a salvare lei e Gaston dagli spasmi della povertà e dai tormenti di chi non può nutrirsi a sufficienza, che tanto avevano funestato i loro ultimi anni assieme. Vero, nelle ultime settimane aveva mangiato con regolarità, ma non bastava certo qualche settimana a eliminare dal suo corpo le tracce delle privazioni, né sarebbe mai riuscita a cancellarle, lo sapeva, dal suo cuore inaridito.

Milly però sembrò non registrare quella domanda risentita, e continuò a fissarla con sguardo orripilato. Se le cose stavano in quei termini, andava lentamente elaborando la sua mente, allora Aggie era stata — era — disperatamente povera; e se le cose stavano in quei termini, e la sorella l’aveva raggiunta per vivere con lei come ultima spiaggia, che ne sarebbe stato di entrambe?

«Raccontami» sussurrò. «Raccontami tutto, Aggie...»

Agatha prese a raccontare. Raccontò tutto con dovizia di dettagli, senza riguardi per nessuna delle due.

Dopo le prime frasi Milly smise di fissare l’altra con occhi colmi di orrore e scivolò sul pavimento ai suoi piedi, cingendo con un braccio le ginocchia ossute e poggiando la guancia sulle mani nodose.

Era giusto e doveroso, pensò Agatha nel raccontare la propria storia, che quella sorella così agiata e vissuta nella bambagia comprendesse una volta per tutte com’era davvero la vita e che cosa a volte costringesse a fare. Perché era chiaro che non ne aveva la minima idea. La sua agiatezza, sia spirituale che materiale, era assoluta.

Non riusciva a scorgere il viso di Milly, seduta immobile e silenziosa con il capo posato sulle sue mani; in breve, al ricordo di tutto ciò che aveva passato assieme a Gaston e per causa sua, mentre tutti gli altri vivevano alla grande — gente come i Bott, e i loro amici, i loro parenti e i tirapiedi, persino la loro servitù, viziata e certamente sovralimentata–, le lacrime presero a scorrere liberamente giù per il viso scarno.

Sembrava davvero, disse, che per avere una vita felice e di successo, felice cioè ai livelli più bassi, bastasse non provare emozioni. Nell’istante stesso in cui uno provava emozioni — emozioni per le cose belle ed eccelse, le cose, cioè, immortali — ecco che subito veniva bollato dalla sfortuna, addirittura perseguitato. Lei e Gaston erano stati perseguitati; lei e Gaston, che tanto tenevano ai loro ideali, che provavano emozioni tanto appassionate. Le cose più incredibili, quelle che non capitavano a nessun altro, capitavano a loro. Solo per fare pochi esempi, che a uno a uno potevano sembrare quasi insignificanti sul più ampio sfondo di sofferenza e morte, ma che, tutti insieme, avevano contribuito a intessere quello stesso sfondo: i clienti che, senza badare a spese, avevano prenotato da tempo le camere migliori, si ammalavano o avevano dei contrattempi all’ultimo momento e non si presentavano; un avventore era morto in albergo all’inizio di una stagione promettente: era accaduto subito dopo cena, gli altri si erano spaventati e se n’erano andati in massa, bollando l’albergo con una nomea difficile da cancellare, secondo la quale c’era qualcosa che non andava nell’acqua o negli scarichi, che aveva tenuto lontani gli ospiti per diverse stagioni; una volta era scoppiato un incendio, d’accordo, confinato a due stanze, ma quelle due stanze ne erano uscite completamente sventrate, e dato che non erano assicurati, mancando loro i soldi per pagare i premi, il danno era stato pesante. Fatti sfortunati come quelli accadevano di continuo. Le tubature scoppiavano; il peso della neve sfondava il tetto; le galline si ammalavano di malattie cui le galline altrui erano indenni; le capre non figliavano e morivano con facilità; interi raccolti di patate andavano persi per la micosi; piogge torrenziali si abbattevano al momento del raccolto, distruggendo la segale che avevano coltivato con tanta cura; e, quando i piedi dei clienti strappavano le lenzuola, quelli davano la colpa alle lenzuola. Infine era arrivata la guerra, e con essa la vera fame. Lei era così forte da sopportare ciò che Gaston non sopportava, dato che per fortuna riusciva meglio di lui a fare a meno del cibo, e poté curarlo durante la malattia. Era in grado di sopportare qualsiasi cosa, grazie al Signore, che le aveva donato uno spirito forte quanto il corpo, con un’unica eccezione: il dileggio che sarebbe stato gettato come fango sull’amato marito, il dileggio trionfante di quel crudele Ern…, di quella crudele famiglia, i Bott, se fosse venuta a conoscenza delle loro sofferenze.

Avrebbero dovuto aiutarla, non dileggiarla, disse Agatha togliendo la mano da sotto la guancia di Milly per arginare il fiume di lacrime. Un eccesso di prosperità materiale inaridiva l’anima delle persone. Se Gaston avesse avuto un piccolo capitale, una somma limitata, se avesse avuto un aiuto anche sporadico e temporaneo, avrebbe potuto salvarsi da quei frangenti difficili, nessuno dei quali era da imputare a sua colpa. Alla morte di lui sarebbe bastato un piccolo aiuto per risparmiare a lei l’amarezza di dover vendere l’albergo. Era stato invece venduto per quattro soldi, e lei aveva dovuto accettare il posto di contabile in quella che era stata casa sua. Probabilmente ciò che i Bott spendevano per dar da mangiare ai domestici in sovrannumero sarebbe ampiamente bastato a rimettere Gaston in piedi e a farcelo rimanere. In tal caso non sarebbe invecchiato anzitempo né si sarebbe ammalato per il troppo lavoro; no, sarebbe stato ancora vivo. Non si riferiva tanto a Ernest, che era morto, ma alla famiglia Bott in genere. Separandola da Milly, Ernest aveva senza dubbio agito con le migliori intenzioni, e non voleva certo criticarlo, essendo morto; ma la decisione del cognato aveva reso lei una reietta e implicato che suo marito, la persona più degna che avesse mai calpestato la terra di Dio, fosse una canaglia. Qualsiasi donna con un briciolo d’orgoglio, e a lei, era ben lieta di dirlo, l’orgoglio non era mai mancato, avrebbe agito allo stesso modo, nascondendo la vera natura della situazione a Milly che, per quanto sua sorella, e dunque in diritto di sapere la verità, era anche la moglie amorevole e fedele dell’uomo che le teneva separate, e in quanto tale stava dalla parte del nemico. Non voleva parlare di Ernest come di un nemico; come poteva esserlo se era morto? Ma questo non toglieva il fatto che c’erano persone che pensavano al successo solo in termini di denaro, incapaci di comprendere i successi dello spirito, tutti fondati sull’amore. Il suo era un matrimonio riuscito e prospero quanto quello di Milly, ma su un piano che Ernest non avrebbe mai compreso: quello dove non esisteva altro che amore.

Con questo non intendeva assolutamente criticare, perché non avrebbe mai osato criticare un morto; ma non poteva fare a meno di considerare l’insieme delle sue amare sfortune, e la disonestà di cui si era indubbiamente macchiata nello scrivere a Milly cose che non erano del tutto vere (se non in senso spirituale, cosa che, forse, sarebbe stata difficile da spiegare), come imputabili a un’unica causa: l’atteggiamento ingiusto, ristretto e crudele verso il suo matrimonio dimostrato da… beh, dai Bott.

«Ora non mi preoccupo più» proseguì posando sulla spalla di Milly la mano con la quale si era asciugata gli occhi, ma tirandola via rapidamente per l’impressione che le dava di un cuscino ben imbottito, e chiedendosi per l’ennesima volta se un dolore tanto acuto — il dolore che provava lei stessa e quello che avrebbe provato ogni donna che avesse perso il proprio amato marito, in special modo se, come Milly, lo aveva perso in modo tanto improvviso e violento — potesse mai stare racchiuso in tanta elastica paffutezza. «No, non mi preoccupo più delle ingiustizie subite. Ho superato questa fase, e sono pronta a lasciar correre l’angoscioso dolore che mi hanno arrecato i Bott, e vivere, magari mantenendo le distanze fino a dove lo permettono le buone maniere, ma pur sempre civilmente, nella loro famiglia. Sono venuta per aiutarti, Milly, per offrirti sostegno e consolazione, e non permetterò ai Bott di impedirmelo. Ora che le vecchie barriere sono crollate, il mio senso del dovere e il mio affetto mi hanno spinto a correre da te nel momento del…»

Stava per dire — avrebbe voluto dire — bisogno; ma esisteva davvero un bisogno, a parte il suo? Bastava guardare la spalla piena come un cuscino, e la morbida, liscia porzione di guancia che riusciva a scorgere, seminascosta da capelli senza un filo grigio, posata sul suo grembo. Sulle scale era stata tutta una grande emozione ed eccitazione, ma da quando era stata accesa la candela aveva forse notato una qualche evidenza di bisogno? Quel che aveva visto e udito era una donna paffuta, del tutto paga, vestita con abiti costosi, che rifuggiva il suo sguardo e diceva assurdità del tutto inadatte a degli eventi tanto tragici e solenni; e il fatto che lei fosse sua sorella non doveva renderla cieca alla realtà delle cose. Sostituì perciò la parola bisogno con la parola vedovanza; quella, perlomeno, era calzante. «Nel momento della vedovanza» terminò Agatha, senza aggiungere altro.

Milly, sul pavimento ai suoi piedi, non parlò. Il viso, tranne quel sottile scorcio di guancia e capelli, era nascosto, e Agatha, seduta rigida sopra di lei, asciugandosi gli occhi con la mano libera, stava ingaggiando una lotta interiore per decidere se limitarsi a quelle due motivazioni, come spiegazione del suo precipitoso arrivo in Inghilterra, e continuare a nascondere l’altra ragione, quella più spregevole e materiale.

Smise di parlare, in preda ai dubbi. Perché Milly non diceva niente? Perché stava lì accasciata come fosse disumanamente addormentata? Non era addormentata, lo sapeva, perché sentiva i movimenti delle ciglia sulla mano che la guancia di lei imprigionava al di sotto. Perché, allora, non diceva niente?

«E inoltre» proseguì Agatha, prendendo la decisione e chinando il capo, perché quella parte di verità le costava un notevole sforzo, «sono stanca della povertà… stanca, stanca morta».

La sua voce era sorda, sfinita.

«Vedi come ti confesso le mie debolezze» soggiunse dopo un altro silenzio. «Non voglio tacere nulla. Ciò che mi preme, credo e spero, non sono le preoccupazioni materiali. Detesto e condanno il lusso. Non chiedo altro che sicurezza, protezione. Ho il grande desiderio» e qui si fermò per schiarirsi la voce, sentirla tremare la faceva vergognare, «di liberarmi dalle preoccupazioni materiali. Voglio liberarmi dalla paura. La vita è molto difficile quando si ha paura, paura del futuro, paura di non riuscire a risparmiare abbastanza per tenere lontani il freddo e la fame nella vecchiaia. In circostanze del genere si fa fatica a conservare la libertà dello spirito, perché quest’ultimo viene distratto dalle più sciagurate preoccupazioni. Il mio stipendio di contabile ammontava a cento franchi al mese, meno di cinquanta sterline all’anno nella vostra valuta inglese. Il nuovo proprietario mi ha anticipato la somma per questo viaggio. Gli ho detto che gliela restituirai tu. Ma per quanto tempo sarei riuscita a conservare il mio posto di lavoro se fossi rimasta là? Non lo vedi come sono ormai vecchia e fragile? Per quanto tempo ancora potevo aspettarmi pazienza e compassione da parte del proprietario dell’albergo? Questa domanda mi ha perseguitato giorno e notte. Poi ho appreso della morte di Ernest e, per quanto triste e terribile dev’essere per te, se lo amavi come io amavo il mio caro marito, per me è stata la salvezza. Voglio essere assolutamente sincera. È stato l’amore a portarmi qui, un immenso amore per mia sorella nel momento del dolore, e anche il senso del dovere, il sacro dovere di aiutarla e confortarla. Ma sono venuta anche in cerca di un rifugio, di un porto sicuro. Sono venuta a cercare la fine, una volta per tutte, di quella spaventosa, disperata povertà».

Cadde il silenzio. Agatha aveva detto tutto quello che doveva dire. Per la prima volta in vita sua si era messa a nudo davanti a qualcun altro.

E Milly, che durante lo sfogo era rimasta seduta senza muoversi né parlare, dopo qualche istante, con voce sommessa, come se parlasse a se stessa, disse: «Sai, è tutto così atroce che non riesco quasi a sopportarlo».

«Chiedo scusa, prego?» chiese Agatha, credendo di avere capito male; le sembrava infatti superficiale ed egoistico sentire Milly dichiararsi incapace di sopportare la mera descrizione di ciò che, per venticinque anni, lei aveva sopportato sulla propria pelle.

«Il castigo» mormorò Milly, di nuovo come rivolgendosi a se stessa.

«Chiedo scusa, prego?» chiese Agatha una seconda volta, raddrizzandosi e irrigidendosi ancor più sulla sedia. «Vuoi dire» domandò, «che consideri un castigo quello che abbiamo passato io e Gaston? E potrei chiedere per che cosa? No, non dirmelo» aggiunse subito sollevando la mano libera. «Riesco a immaginare i tuoi pensieri, e sono indegni. Come puoi tu, mia sorella, tirare fuori dopo tutti questi anni quella piccola, del tutto passeggera e date le circostanze inevitabile divergenza dalle strette convenzioni sociali?»

Ma Milly non rispondeva. Stava seduta immobile. E Agatha sentì qualcosa di bagnato colarle lentamente sulla mano.