Terzo giorno

Giovedì

Le 7.30 e già Berté camminava a passo spedito verso via Modigliani.

Era uscito senza fare colazione né incontrare la Marzia, mentre il paese era ancora buio e il mare appariva grigio e burrascoso. L’aria umida, entrando nei polmoni, diede a Berté la soffocante impressione di inspirare acqua gelata.

Le feste di Natale erano passate da poco, pensò notando ancora appeso fuori da una finestra un pupazzo di Babbo Natale, munito di sacco di juta pieno di doni e in atto di arrampicarsi su una scala di corda.

I ricordi dell’ultimo 25 dicembre, trascorso con la Marzia, erano meravigliosi. Non passava un Natale così da quando erano vivi i suoi. Aveva anche telefonato ai vecchi amici ritrovati in città, durante il drammatico assassinio del Valerio, condividendo con loro la lamentela sul poco tempo che avevano a disposizione per la vita privata. Almeno gli auguri li aveva fatti...

Era diverso il Natale di Lungariva da quello di Milano quando il 24 dicembre sembrava che finisse il mondo, e tutto dovesse essere compiuto prima della Messa di mezzanotte. Corse pazze all’acquisto dell’ultimo regalo, confezione veloce dei pacchetti, telefonate concitate anche alle vecchie zie calabresi, talmente rimbambite che, per farsi riconoscere, bisognava spiegare loro la genealogia fino alla settima generazione...

Perché il milanese corresse sempre, e in particolare si agitasse la notte della Vigilia, lui non se lo spiegava, ma così era.

Lungariva invece, anche dopo Natale, aveva la statica bellezza di un presepe, pensò guardandosi intorno.

Le case che costeggiavano il porto, incorniciate da una fila ininterrotta di luci che ne disegnavano i contorni, sembravano di cartapesta. Impossibile che ci vivesse qualcuno di reale. Sorrise fra sé pensando all’accozzaglia di personaggi improbabili che animano i presepi: il pastorello con il flauto, la contadinella che portava a spasso le oche, la vecchia curva sull’arcolaio... i re magi, un paio di cammelli e qualche pecora.

Da piccolo, aveva anche cercato un possibile collegamento tra il Bambinello palestinese, nato nella mangiatoia, e il ciccione, con barba bianca e giubba rossa orlata di pelliccia, che in Finlandia costruiva giocattoli antiquati quanto inutili (tipo macinini da caffè mignon, rudimentali carriole dipinte con colori sgargianti, e montagne di Pinocchio, con tanto di nasone legnoso, giunture snodate e giacchettina di panno). Quando aveva saputo che quell’immagine di Babbo Natale era una creazione pubblicitaria della Coca Cola, ne era rimasto deluso e buona parte dell’entusiasmo se n’era andato, insieme con l’infanzia...

Il suono dell’arrivo di un SMS lo distolse dai pensieri natalizi.

Sul display: Marzia.

Mi piace tantissimo... l’ho già al polso. Grazie! E un cuoricino rosso.

Lapidaria, ma si coglieva che il regalo le era piaciuto.

Soddisfatto, Berté infilò la faccia all’interno del bavero rialzato, dove aveva ficcato la coda in modo che gli riscaldasse il collo come fosse la sciarpa di lana che aveva dimenticato in camera. Ancora pochi passi e si trovò davanti alla casa gialla.

In quell’istante vide sfrecciare lo scooter di Lacostone.

Anche al mattino presto... Se quello non era un mistero!

L’uomo con cui aveva parlato al telefono, invece, non c’era ancora. Mentre lo aspettava, Berté si guardò intorno.

Perché quella casa, stretta in mezzo agli altri villini, avesse catturato il suo interesse non riusciva ancora a spiegarselo. Non era niente di speciale, ma la sentiva già sua.

Si immaginò mentre la sera percorreva la strada in leggera salita per tornare a casa...

Oddio, parte il romanticume.

...in quella casa dove intravedeva una calda luce accesa. Si figurò la Marzia che lo aspettava cantando una romanza con la sua delicata voce da soprano, e intanto gli cucinava...

Ah, ecco!

...una meravigliosa pasta con le vongole.

«Commissario Berté?»

La voce proveniva da una finestra aperta del secondo piano.

«Sì!» esclamò lui alzando lo sguardo e scorgendo l’uomo che lo aveva chiamato.

«Prego, salga pure» gli rispose quello.

Berté aprì il cancello posto tra due colonne, gialle come la casa, sormontate da un triangolo di cemento che reggeva una palla di pietra, percorse il giardinetto ed entrò nel minuscolo androne. Affrontò la rampa di scale che lo avrebbe portato al secondo piano con una baldanza che gli procurò il fiatone.

L’uomo lo aspettava davanti alla porta dell’appartamento. Non molto alto, capelli bianchi, occhi acuti dietro spesse lenti da vista e destra cordialmente tesa. A Berté parve un viso noto. Cercò di rammentare dove l’avesse già visto, e, mentre gli stringeva la mano, di colpo ricordò. Dote da poliziotto quella di vedere una persona una sola volta, anche solo per pochi minuti, e non dimenticarla più!

«Lei è l’uomo che ai Bagni Medusa dipingeva il tabellone delle chiavi delle cabine», esclamò.

«Sì, sono io, ai Medusa sono una specie di istituzione. Ho insegnato a giocare a ping pong a intere generazioni! Cicci Canepa, piacere.»

Con un sorriso lo invitò a entrare nell’appartamento.

La prima impressione fu di un ambiente ampio, non molto luminoso, ma con il vissuto che si respira nelle vecchie case, che trattengono le anime di chi le ha abitate.

«È spazioso», constatò Berté guardandosi intorno. Era un appartamento di carattere, pensò. Una casa non convenzionale, adatta a un pittore, a un musicista, a un poeta o a una giornalista, come la sua amica Chiara che scriveva sul Corriere della Sera, insomma qualcuno in cerca d’ispirazione artistica.

Quindi non un poliziotto...

Perché no? si offese Berté, in fondo anche lui era un artista.

La casa era arredata con mobili vecchi più che antichi, ma non brutti. Lo colpì soprattutto un tavolo da pranzo rotondo con al centro un vaso liberty dai colori delicati. Lì, seduto al computer, avrebbe potuto scrivere tanti, tantissimi, una montagna di racconti.

Da mandare tutti al Servello!

«Ci sono tre camere da letto, un salotto, la sala da pranzo, una cucina e due bagni, e là in fondo...» continuò intanto il Canepa, indicandogli un vano illuminato da un alto lucernario dai vetri colorati, «la stanza che usavamo come ripostiglio e come deposito di biciclette. Dico ‘usavamo’ perché questa è la casa dove ho vissuto con i miei genitori finché non mi sono sposato. Secondo me, questo locale potrebbe essere sfruttato meglio. Il lucernario è d’epoca.»

Berté fu conquistato da quello spazio che prendeva luce dall’alto. Era il luogo ideale per ascoltare i suoi obsoleti CD e per vedere film cult, abbracciato alla Marzia su un comodo divano, e magari non solo vedere film...

...sul comodo divano.

«Questa è la cucina», proseguì il Canepa precedendolo nella stanza, «abbiamo voluto mantenere il lavello di pietra com’era ai tempi dei miei genitori, sa, noi liguri siamo conservatori, non buttiamo via niente.»

Berté fece un cenno d’assenso. In realtà non gli interessavano i dettagli. Lui, quando entrava in una casa, era sensibile alle atmosfere, e in questa si sentiva bene.

«È un bell’appartamento», osservò «perché non lo abita lei?»

Vizio poliziottesco di fare domande.

L’uomo lo guardò con un’espressione un po’ mesta.

«Quando mi sono sposato era ancora occupato dai miei, e così con mia moglie siamo andati a stare in un altro quartiere, e non ci siamo più spostati. Io ero un comandante di mercantili, mi assentavo per lunghi periodi, era giusto che scegliesse lei la casa in cui vivere.»

Berté sentì il sangue ribollire: un altro comandante di mercantili? Ma li incontrava tutti lui?

Qui è più raro trovare alpini.

«Ah, era un comandante... conosce per caso un certo Marco Pestarino?» chiese Berté in tono indifferente. Temeva, invece, un’amicizia tra i due, cosa che gli avrebbe mandato di traverso l’appartamento.

«So chi è, ma non ci siamo mai parlati. Io sono in pensione ormai da anni», rispose serafico il Canepa.

Dentro di sé Berté esultò come faceva da ragazzo dopo un gol del Milan.

Non considerava più il marito della Marzia come un rivale, sapeva che tra loro non esistevano contatti fisici, però...

Sempre stato antipatico.

Un’antipatia istintiva. Erano diversi e, anche a cercarli, non trovava punti di contatto con il Pestarino. Non c’era affinità elettiva...

Ma solo gelosia terrona.

Era così. Comunque, per nascondere l’entusiasmo derivato dall’indifferenza che il Canepa aveva manifestato nei confronti del bel capitano di lungo corso, Berté si affacciò alla finestra della cucina che dava su una strada stretta, fiancheggiata da due file di portici.

Notò che proprio sotto la finestra alcuni operai stavano sistemando un tombino, ma soprattutto notò Irina Radu che passeggiava, accompagnata da un uomo alto e ben piantato.

Parlavano animatamente e si intuiva una certa familiarità tra loro.

Di colpo Berté sentì nella testa un’esplosione di immagini ancora poco chiare, una ricostruzione frammentaria, ma con una sua logica schiacciante.

«Non c’è il riscaldamento...», gli stava dicendo il Canepa, «potremmo trovare un accordo sulle spese per installarlo. Mi ha sentito commissario?»

No. Berté non lo sentiva più.

L’adrenalina gli pulsava nelle vene. Richiuse la finestra e tornò in cucina.

Per il momento il progetto casa gialla doveva essere archiviato.

Aveva una fretta indiavolata di uscire, ma non poteva essere così villano da piantare lì il Canepa senza spiegazioni.

«La prendo! La casa, voglio dire. Ma adesso, mi scusi, devo scappare...» si diresse alla porta, «non posso spiegarle. Sono nel mezzo di un’indagine e ho visto due tizi con i quali devo parlare subito.»

Il Canepa sembrò spiazzato, ma poi sorrise e gli porse un mazzo di chiavi.

«Gliene lascio un mazzo, così torna con comodo e se la riguarda bene, magari con la sua fidanzata... e si ricordi che manca l’impianto di riscaldamento.»

Berté mormorò un «sì, sì» distratto, prese le chiavi, mentre nel suo cervello tutti i tasselli si mettevano al posto giusto.

«Signor Canepa, lei è... un genio! Adesso non posso spiegarle perché. Le telefono più tardi per accordi... scappo, e grazie della fiducia.»

«Se non posso fidarmi nemmeno di un commissario di polizia! Ma non mi ha nemmeno chiesto il prezzo...»

Berté però non gli rispose e continuò a scendere a rotta di collo lungo le scale. Si buttò di corsa nel vicolo alla ricerca di Irina e compagno, ma per quanto cercasse attorno, non li trovò: i due si erano come dissolti.

A Berté non resto che imprecare. La sequela di parolacce, urlate senza ritegno, fece uscire da un portone una vecchina che gli gridò un «vai al diavolo, maleducato» prima di rientrare in casa.

Come darle torto?

Berté prese il cellulare dalla tasca e compose il numero di Parodi.

«Pasquale! Cerca Irina Radu, la colf della Saturno, mi pare abiti nel quartiere San Giovanni, ma non credo sia già a casa. L’ho appena vista nei pressi di via Modigliani, insomma, portala in ufficio! Con lei c’era un tipo alto, forse un romeno... dev’essere un muratore da com’era vestito. Voglio parlare anche con lui.»

«Va bene, dottore...», rispose Parodi esitante.

«Fai presto! Dopo ti spiego, non perdere tempo, vai a cercare Irina e portamela. Io sto arrivando», gli gridò Berté.

Non poteva spiegargli in due parole che, di colpo, in quella benedettissima casa gialla, si era ricordato di una pila di roba stirata sopra una sedia.

«Devo interrogare quei due subito, prima che scappino!» chiuse la telefonata correndo verso l’ufficio.

La casa gialla era veramente fonte d’ispirazione: in quel luogo dal sentore liberty le sue sinapsi funzionavano alla perfezione.

Sinapsi? Sentore? Comunque zero termosifoni.

Come aveva potuto dimenticarsi di Irina Radu? Si domandava, dandosi dello stupido. Travolto dal suicidio dei Piccinelli e dalle seduzioni della Torre, aveva tralasciato il controllo delle testimonianze.

Ora doveva rimediare, e in fretta, pensò, controllando il fiatone.

Dopo appena mezz’ora si trovava davanti Irina Radu, spaventata e pallidissima, con accanto la Graffiani né pallida né spaventata, ma solo incuriosita.

Non era riuscito a dirle niente prima del colloquio e quindi il PM non sapeva cosa aspettarsi dall’interrogatorio.

«Allora, signora Irina, adesso mi racconta tutto, ma dal principio!» esordì Berté cercando di controllare il tono della voce che tendeva a salire. «Prima, però, ci dice il nome dell’uomo con cui parlava poco fa sotto i portici. L’ho vista con i miei occhi e quindi non neghi.»

Irina Radu divenne ancora più smorta e spalancò la bocca senza riuscire a parlare.

«Allora? Sa che sto perdendo la pazienza?» incalzò Berté e le lanciò uno sguardo talmente nero che la donna si ritrasse come se fosse stata aggredita.

«Dimitri Vasile», sussurrò.

«Dove lo troviamo?»

«Fa il muratore, adesso è vicino a Municipio per muro rotto...

Berté fissò Parodi, che uscì senza parlare, poi tornò a concentrarsi sulla donna.

«Perché non mi ha detto che lunedì sera era in casa della dottoressa Saturno quando lei è arrivata da Asti?»

La donna lo guardò sorpresa. Passarono alcuni secondi prima che rispondesse: «Io... dimenticata...»

«Eh, no, no, no! Così non ci siamo. Se continua a mentire non finisce bene!»

La donna abbassò lo sguardo, ma non parlò.

«L’altro giorno lei mi ha detto che la dottoressa le aveva telefonato dalla macchina chiedendole di presentarsi il martedì mattina. Non mi ha detto invece di averla vista proprio lunedì sera. È vero o no?»

Irina annuì.

«Quando la Saturno è arrivata, lei era a casa sua e stava stirando. Non può essersi dimenticata di dirmi questo. Quindi ha mentito e senz’altro ci deve essere un motivo se l’ha fatto.»

La Radu si girò verso la Graffiani come cercando un’alleata. Il magistrato però non mosse un ciglio.

Berté avvicinò il volto a quello della donna.

«Facciamo così: ora le racconto come sono andate le cose.» Questa volta usò un tono falsamente suadente. «Ho visto con i miei occhi la roba stirata appoggiata sopra una sedia e non sono stato l’unico. L’ha vista anche lei la pila di panni, vero dottoressa?»

La Graffiani confermò.

«E lunedì sera, dalla Saturno, lei ha visto anche che c’era un bel malloppo nascosto, diciamo... nel beauty case scozzese» azzardò «non so come l’abbia scoperto, ma prima o poi ce lo dirà. Forse la Saturno l’ha abbandonato da qualche parte mentre andava in bagno e lei ha buttato l’occhio nel sottofondo, scoprendo le mazzette di contanti.»

Irina lo fissò con odio.

«Dottoressa portava beauty anche in bagno. Lei sempre attaccata a quella borsa, io non visto proprio niente!»

Berté non commentò e proseguì imperterrito.

«Non le è parso vero: tutti quei bigliettoni! Significava ritornare al suo paese e non lavorare più come badante. Ha subito avvertito Dimitri, e avete organizzato il colpo. Farò controllare il suo traffico telefonico e vedrà che troverò una sua telefonata a Dimitri in un orario compatibile con la mia ricostruzione.»

«Io telefonato per dire altro, non questo! Lui non sapeva che facevo la notte dalla Bianchi!»

«Secondo me, vi siete visti prima che lei prendesse servizio dall’altra signora. Lei ha dato a Dimitri le chiavi dell’appartamento della Saturno e gli ha spiegato dove trovare i soldi, poi si è creata l’alibi, restando a curare la signora Bianchi, in presenza della figlia.»

«No!» gridò Irina.

«Intanto Dimitri ha aspettato, come lei gli aveva suggerito, che la Saturno si addormentasse», affermò Berté puntandole l’indice contro, «ed è entrato in casa aprendo con le chiavi, senza fare rumore. Forse non aveva intenzione di ammazzarla, questo lo verificheremo in seguito, forse voleva solo rubarle i soldi; la Saturno però era sveglia e quando lui se l’è trovata davanti ha perso la testa e l’ha uccisa. Poi ha preso il malloppo, e infine ha scassinato la porta per allontanare i sospetti da lei. In questo modo noi non avremmo pensato che l’assassino avesse le chiavi... e spiega anche perché la Saturno non avesse sentito i maneggi alla serratura. La mattina, per finire il depistaggio delle indagini, lei è ritornata a casa della Saturno come se nulla fosse, ha creato la messinscena dei tarocchi e dei soldi in bocca, così tanto per confondere le acque... e lo ha fatto indossando i guanti di gomma che ho notato sul balcone e che la Scientifica sta già analizzando. Li ha poi lavati, pensando così di ripulirli dalle tracce di sangue, infatti quando li ho visti erano ancora bagnati, e solo dopo ci ha telefonato. Cosa ne pensa?»

«Non è vero niente!» gridò di nuovo Irina alzandosi.

«Basta mentire!» l’urlo di rimando di Berté fu così devastante che un agente entrò di colpo con la mano sulla fondina.

Berté lo fulminò con lo sguardo, intimandogli di uscire. Poi fissò di nuovo la badante.

«Avanti, confessi! Perché non mi ha detto di essere stata dalla Saturno anche lunedì?»

«Io non so cosa lei vuole e perché lei odia me. Io solo dimenticata di dire che ero a stirare lunedì. Ero agitata per cadavere dottoressa, ma io non visto soldi! Io andata a lavorare e basta e Dimitri no sa niente, lui!»

«È il suo uomo?» la incalzò Berté, mentre la Graffiani gli metteva una mano sulla spalla come per suggerirgli di calmarsi.

«Io divorziata al mio paese, e lui è mio uomo. E allora?»

Berté fece un sospiro d’impazienza verso la Graffiani, ma tacque.

La freddezza della domestica lo spiazzava. Era spaventata, ma non piangeva, lo affrontava sicura della sua posizione. La sua certezza, invece, iniziava a creparsi.

«Dimitri non sa niente di dottoressa, mai vista, lui...»

L’ingresso di Parodi la interruppe. Con un cenno d’intesa il sovrintendente gli fece capire che Dimitri Vasile era nella stanza vicina.

Berté annuì.

«Adesso la lascio qui a pensare, signora Irina. Dottoressa Graffiani, la affido a lei per qualche minuto, torno subito. Parodi resta qui anche tu.»

Uscì senza dare tempo a nessuno di ribattere.

La situazione andava presa di petto.

Quasi di pancia...

Lui aveva un sacco di difetti: era irascibile, indeciso, complessato... mettiamoci dentro tutto, però si prendeva le sue responsabilità.

La coscienza non aveva un corpo, ma in quel momento Berté se la immaginò diventare piccina piccina, e provò un grande sollievo nell’averla zittita, almeno una volta.

Aveva fatto centro, lo sentiva: il piano dei due romeni non faceva una grinza.

Movente: il denaro, e anche un velato disprezzo, che, fin dalla prima volta, aveva colto negli occhi della domestica quando parlava della sua datrice di lavoro. Come confermato dal segretario, la Saturno non era tenera con i dipendenti.

Entrò deciso nella stanza accanto.

Sabatini stava in piedi accanto al muratore, che invece era seduto in una postura che denotava tensione. Occhi d’acciaio, capelli biondicci, naso affilato, pelle arrossata da venuzze, fisico potente e sguardo duro.

«Hai preso le generalità?» chiese Berté all’agente.

«Sì, dottore, ho controllato anche il permesso di soggiorno. Tutto in regola.»

«Lei è Dimitri Vasile?» iniziò Berté piazzandosi davanti a lui.

In attesa della risposta si chiese: era quello il volto dell’assassino della Saturno?

Era quello «l’assassino intelligente»?

Per uno come lui, magari sotto effetto della vodka, ammazzare una donna indifesa era uno scherzo da ragazzi.

«Sì, io Dimitri Vasile, ma se essere ancora per altra notte nel bar, io dire che...»

«Quale notte?» Berté inarcò le sopracciglia sorpreso.

«Sì, io già detto a carabinieri che io non fatto niente, altri picchiati, io preso calcio qui guarda...» alzò un pantalone mostrando un livido bluastro sulla tibia.

«Di cosa sta parlando?»

«Di rissa, a Rapallo. Io tutta notte di lunedì in caserma... ora basta, voi lasciarmi in pace! Io deve lavorare.»

Di colpo Berté vide vacillare il suo castello di illazioni. Lunedì era la notte dell’omicidio.

«Mi racconti tutto dall’inizio.»

«Era festa per mio cugino Igor che torna Romania per sposarsi e noi amici salutare lui. Andati a Rapallo in ristorante, poi bere in bar, ma qui altri uomini dice noi fatto troppo casino, troppo bere e così finito a pugni, ma io non picchiato nessuno! Quando arrivati carabinieri hanno portato via noi e tenuti tutta notte, poi io e altri mandati casa... parla con loro.»

Berté fece cenno a Sabatini perché controllasse. L’agente uscì dalla stanza per telefonare.

«A che ora è successo?» la voce di Berté ebbe un tremito.

«Mangiato alle 9, poi bar alle 11 e finiti in caserma... Al mattino, quasi le 7 tornato a casa e andato lavoro, anche se male a gamba.»

«Lei è fidanzato con Irina Radu?»

«Sì. Cosa c’entrare Irina?» il romeno alzò la voce a sua volta.

«Risponda alle mie domande!»

Sabatini rientrò facendo un cenno di assenso: aveva avuto dai carabinieri di Rapallo la conferma della versione fornita dal romeno.

Berté sedette di schianto alla scrivania.

Dimitri non c’entrava niente, era stato ospite dell’Arma per tutta la notte... quindi o Irina aveva un altro complice oppure non era coinvolta affatto.

Berté si passò una mano sugli occhi: gli sembrava di avere fatto una ricostruzione convincente, perfetta, e invece...

«Da quanto tempo conosce Irina?» domandò in un tono di voce conciliante.

«Da un anno. Lei brava donna, noi quando avere soldi ci sposiamo.»

«Quando avere soldi», non poté evitare di pensare Berté.

Nella sua ricostruzione non aveva tenuto conto del dopo.

Il piano, chiunque l’avesse premeditato, era stato deciso senza un lungo anticipo. Ipotizzando che Irina avesse un altro complice e che le cose si fossero svolte come lui aveva immaginato, cosa avrebbero fatto i due una volta compiuto il furto?

Scappare sarebbe stato come puntarsi addosso una freccia rossa: la fuga sarebbe stata subito notata. Quindi: restare, aspettare, nascondere il contante rubato sotto il materasso, vivendo normalmente. Poi trovare un pretesto per tornare in Romania portandovi poco alla volta il bottino, e così risolvere la vita.

Forse questo era logico. Una perquisizione in casa della Radu poteva starci.

«Lei conosceva la dottoressa Saturno?» chiese al muratore, fermando i pensieri veloci e quasi impedendo al cervello di proseguire nella disamina.

«No, io mai vista, io so che lei uccisa, Irina trovata e lei molto spaventata ... Ah, ora capito!» gridò Dimitri alzandosi, «voi credete sono stato io! Ma adesso sai che io non stato!»

Berté abbassò la testa. L’alibi fornito dai carabinieri di Rapallo era inattaccabile.

«Per ora può andare», disse in fretta. «Firmi la deposizione e resti a disposizione. Potrei richiamarla. Se ha bisogno di una dichiarazione per il lavoro ...»

«No, io no bisogno niente! Mio capo sa chi sono!» esclamò fiero il Vasile. «Io uomo onesto, io romeno, qualche volta bevo vodka, ma non va in giro ad ammazzare donne! Capito, poliziotto?»

Dimitri uscì senza salutare, portando il suo fisico prestante e il suo sguardo tempestoso fuori di lì.

Berté rientrò nel suo ufficio sconfitto.

La Graffiani lo guardò interrogativa e a lui non restò che scuotere la testa.

Sedette alla scrivania, sotto gli occhi attenti delle due donne che, ognuna con le proprie motivazioni, aspettavano il verdetto.

«Allora, Irina, mi vuole dire la verità?»

«Io già detta a dottoressa qui: lunedì io fatto la notte dalla Bianchi con sua figlia. Non ucciso nessuno, e mio Dimitri no c’entra con morta.»

Berté fece un sospiro.

«Questo è vero, ma lei ha mentito, Irina, glielo ripeto. Non me la bevo la sua ‘poca memoria’. Non può essersi dimenticata di aver visto la Saturno la sera prima che morisse. Perché non me lo ha detto?»

Per risposta lei alzò le spalle.

«Dimitri non c’entra, d’accordo», proseguì Berté, «devo però trattenerla e metterla in prigione, per falsa testimonianza. Lei è coinvolta in questo omicidio.»

Alla sua boutade la Graffiani spalancò gli occhi, ma Berté le rivolse uno sguardo d’intesa. Irina invece si toccò la tempia con un dito, come per dirgli: sei pazzo!

«Irina, non si metta nei guai per qualcun altro... dica la verità», insistette Berté in tono accomodante. «Sta coprendo qualcuno?»

La donna incrociò le braccia, serrò le labbra e rivolse lo sguardo alla Graffiani, ignorando Berté.

«Tu chiami avvocato per me: senza, io non dice più niente.»

Berté si impose la calma. Forse si girava dei film inesistenti, ma negli occhi chiarissimi della domestica, all’apparenza inespressivi, lui coglieva un fondo di ansia. Non si sbagliava, per la miseria, non era possibile sbagliarsi: la menzogna, o l’omissione, non avevano senso.

«Cos’ha visto a casa della dottoressa, quel pomeriggio?»

La donna non mutò espressione né rispose.

«A che ora esattamente se n’è andata?» proseguì Berté.

Irina abbassò gli occhi e strinse le labbra.

«Lei ha paura, signora, ancora non riesco a capire di cosa o di chi... oppure nasconde qualcosa o qualcuno...»

La Radu non mosse un muscolo.

Berté capì che non ne avrebbe cavato nulla.

«Va bene. Continui a tacere!» gridò tornando minaccioso. «Ma da qui lei non si muove!»

La Graffiani a quel punto lo guardò fisso e gli chiese di uscire con lei dalla stanza.

«Berté, si può sapere cosa le prende?» gli chiese appena restarono soli. «Non possiamo trattenere le persone senza prove. Mi dice per cosa fermo la Radu? D’accordo, falsa testimonianza... ma mi deve dire come mai si accanisce in questo modo. C’è qualcosa che mi ha taciuto?»

«No, niente. Ma...»

«Ma?»

«Qualche volta dobbiamo affidarci anche all’istinto. Sento che la Radu è coinvolta, non ho uno straccio di prova, ma l’istinto mi dice che...»

«Io ho preso diversi granchi dando retta all’istinto», lo interruppe il PM, «il suo invece è infallibile? Non mi pare! Confermo la mia stima nei suoi confronti, ma io devo garantire la legge.»

«Anch’io... sì, anch’io ne ho presi di granchi», buttò fuori Berté passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore.

«La sto lasciando lavorare in totale libertà, mi sembra. Un altro magistrato l’avrebbe già rimessa al suo posto. Lei mi sembra piuttosto su di giri, Berté. La invito di nuovo alla calma. Trattengo la Radu per alcune ore, poi sono costretta a lasciarla andare. Si regoli di conseguenza», concluse, invitandolo a rientrare nell’ufficio, mentre Parodi accompagnava Irina in un’altra stanza.

La romena lo seguì senza fiatare, mantenendo inalterata l’espressione: labbra strette, mascelle contratte e negli occhi la determinazione a tenere la bocca chiusa.

La Graffiani fece un sospiro, e si passò una mano fra i capelli.

«Mentre lei interrogava il Vasili ho provato anch’io a farla parlare, ma niente da fare. Mi fissava con i suoi occhi freddi e lasciava trasparire solo rabbia. È evidente che la Saturno non le piaceva, ma ha un alibi solidissimo. Parodi ha chiamato la signora Bianchi che ce lo ha confermato: è stata lei a chiederle di restare con loro tutta la notte.»

«La Saturno doveva avere un mucchio di soldi in quel beauty case, dottoressa. Per mettere insieme una cifra simile Irina avrebbe dovuto fare la badante per una quarantina d’anni!»

La Graffiani fece un sorrisetto ironico.

«Guardi che non tutte le badanti straniere sono ladre.»

Berté la guardò tra il sorpreso e il seccato.

«Mi dà del razzista?»

«Ma no! Solo che Irina è una donna sola, in un paese estero, ci percepisce tutti come nemici... forse ha taciuto per questo. Lei ha deciso a priori che quel muratore fosse un assassino, prima ancora di sentirlo parlare.»

La Graffiani aveva negato, ma sotto sotto gli dava del becero razzista.

No. Niente di più lontano da lui. Lui divideva solo il mondo in persone oneste e criminali, a prescindere dalla nazionalità e dal colore della pelle.

«Dottoressa, si sbaglia se pensa questo di me», ribadì con una sfumatura di delusione nella voce. «Nel nostro mestiere, però, non possiamo sottovalutare niente: siamo pagati per pensare tutto il male possibile degli altri. Io di fronte alle menzogne alzo le antenne. E lei non si faccia fuorviare dalle apparenze. Quella donna mente, lo sento... e si sta cacciando nei guai.»

«Visto che ne è così convinto, se la veda lei, Berté. La lascio per qualche ora. Ho una montagna di carte da visionare e la grana del suicidio dei Piccinelli da gestire. Oltre al rimorso, che non riesco a scrollarmi di dosso, c’è anche tutto il resto, compresa la stampa che ci sta mettendo in croce.»

Berté le fece un gesto di saluto e si ributtò sulla sua poltrona. Anche lui aveva parecchie scartoffie sul tavolo.

Erano passati solo due giorni dal delitto e aveva già cambiato idea più volte.

Farsi prendere dalla frenesia era sbagliato, ma essere tempestivi era fondamentale. Sapeva per esperienza che quando le indagini si trascinano a lungo poi è dura risolverle.

Qualcosa gli stava sfuggendo, ma non riusciva ad acchiapparla.

Si accinse a leggere per l’ennesima volta i SIT e i rapporti dei suoi uomini, ma aveva gli occhi stanchi e le parole gli si confondevano davanti. Allontanò il foglio finché il braccio glielo consentì, ma non bastava ancora.

Doveva rassegnarsi e mettere gli occhiali da presbite, almeno quando leggeva in condizioni di luce scarsa. Forse con un paio di occhiali color tartaruga o rossi avrebbe assunto un’aria professorale, saggia...

Sentì il cellulare che vibrava nella tasca.

Il numero era quello di Stefano Rigoni, il suo collega di Milano, nonché caro amico.

La sua Milano si materializzava nella voce dall’accento lombardissimo.

«Ti ho visto al telegiornale. Sei sempre più bravo a parlare senza dire niente!» rise Stefano.

«Tu sì che mi conosci! Senti: ti ha chiamato la Patty per la borsa?»

«Sì, sì... è venuta qui a fare la denuncia. Tutte a lei capitano!»

Berté poteva immaginare in che stato di agitazione fosse la sua ex dopo l’ennesimo furto: una volta l’avevano scippata mentre andava in bicicletta con la borsa di Vuitton appesa al manubrio ed era caduta rompendosi un braccio, un’altra volta le avevano rubato la macchina in un posteggio non custodito. Si era fidata e aveva lasciato le chiavi a uno mai visto... ora la borsetta al supermercato!

«Sì, lei è particolarmente sfigata, ma la situazione a Milano sta peggiorando, a quanto sento.»

«Lascia perdere, Gigi! La gente è sempre più incavolata e sta diventando aggressiva. Non sappiamo più come gestire i matti, sono troppi. Tutti urlano e litigano e poi pretendono che la Polizia risolva anche le stupidaggini come le liti tra condomini.»

«Come vedi non è che qui in Liguria si sta più tranquilli...» si permise di commentare Berté.

«Scappo, Gigi, mi sta chiamando il tuo ‘amico’ Stabili. Mi manchi, ciccione con la coda!»

Stefano si dissolse con una risata.

Gli mancava la questura di Milano? Si chiese. Ma non si diede risposta.

Verso le due, dopo un nervoso spuntino composto da sandwich saporiti, ma anche decisamente pepati, e una birra analcolica che risultò scipita, Berté, ingrugnito, buttò i fogli che aveva letto e riletto alla ricerca di qualche appiglio.

Una marea di interrogatori, fiumi di parole, e ancora niente di fatto.

Era scontento per la piega che aveva preso la ‘questione Irina’, come l’aveva catalogata. Non c’erano prove, e quella non parlava.

«Saturno contro»...

Come il film di Ozpetek, visto qualche anno prima. Fece una breve ricerca su Wikipedia e trovò una frase che lo colpì: «Saturno è il pianeta che, secondo gli astrologi, quando è ‘contro’ porta rotture, cambiamenti, nuovi incontri, dai quali si può uscire provati, cambiati e persino migliorati».

Nessuno tra quelli che gli avevano parlato della Saturno era migliorato grazie a lei; di contro, però, parecchie erano state le rotture e i cambiamenti avvenuti a causa sua.

D’altra parte l’avida commercialista aveva un progetto di vita poco avido: trasferirsi in Brasile con un poeta, e mantenere lui e la sorella.

La contraddizione continuava ad apparirgli stridente.

Il lavoro di un commercialista è quanto di meno esoterico si possa immaginare. Conti e bilanci non hanno nulla a che vedere con predizioni e cabale, tantomeno con poesia e musica.

Il vero mistero sono le azioni e le scelte degli uomini.

Un amante dei romanzi come lui questo lo sapeva. E meglio ancora lo sapeva il poliziotto: spesso i casi reali erano più inverosimili delle trame dei libri che leggeva.

Berté gettò sulla scrivania la biro smangiucchiata che aveva in mano e si diede una sistemata alla coda.

Invece, nella sua scelta di mettere la testa a posto e affittare una casa a Lungariva (così avrebbe detto sua madre) c’era lo zampino di chi?

La coscienza non ha zampini.

In quel momento entrò il Fucci, seguito dalla Belli. I due erano ormai intimi, si davano del tu, e si comportavano come se si conoscessero da anni. Probabile che fossero in una fase di innamoramento professionale. Capitava, a volte, durante i casi in cui si era costretti a stare fianco a fianco giorno e notte.

Sedettero di fronte a lui per ragguagliarlo sulle ultime scoperte.

«Dottore, stiamo solo azzardando perché gli accertamenti incompleti sono tanti», iniziò il Fucci, «ma ormai è chiaro che la Saturno, sei mesi fa, aveva iniziato a derubare i suoi clienti con varie metodologie, anche fantasiose.»

«Così, vendendo gli immobili e rubando ai clienti», intervenne la Belli, «aveva realizzato un notevole patrimonio, di cui una parte ingente era stata esportata in Olanda e un’altra supponiamo sia già in Brasile. Abbiamo avanzato richiesta in Olanda per incontrare l’amica banchiera della Saturno.»

«Doveva ripulire il patrimonio», disse il Fucci, «resta da capire se i Torre abbiano accesso ai codici segreti del conto di Rotterdam o facciano parte del trust che lei stava costituendo... ecco un movente per assassinarla.»

«Non siete ancora riusciti a contattare telefonicamente l’amico brasiliano?» domandò Berté.

«Volevo dirle anche questo, dottore», proseguì la Belli, «ha riacceso il telefono: pare sia stato per alcuni giorni nella giungla per un safari fotografico. Ha saputo della morte della Saturno solo stamattina, dalla sorella. Tra poco lo richiameremo, così anche lei potrà parlargli.»

Safari fotografico, rimuginò Berté.

Aveva proprio sbagliato tutto, lui, nella sua micragnosa vita: restava a raspare tra l’immondizia umana, invece di andarsene a far foto agli animali selvatici, che tra l’altro, eticamente, erano migliori di molti umani.

«A Pasqua la Saturno era stata in Brasile per una decina di giorni e ci è tornata di nuovo un mese fa», continuò la Belli, «abbiamo verificato i documenti di viaggio. Si era fermata una settimana. Naturalmente non possiamo risalire ai suoi spostamenti una volta sbarcata dall’aereo. La destinazione del luogo dove avrebbero vissuto lei e i fratelli Torre ancora non la conosciamo. Può darsi che non sia la stessa in cui ora risiede lui.»

Berté annuì assorto.

Per Folco Torre il vero paradiso era rappresentato dai soldi della Saturno, altro che esotismi, poesie, safari, chiari di luna! Per di più se i fratelli Torre si intestardivano a non rivelare il luogo dove si sarebbero trasferiti tutti insieme appassionatamente, il sospetto che sapessero qualcosa dei loschi traffici della Saturno diventava forte. C’era molto fumo intorno a quel progetto di vita.

Il Fucci e la Belli si alzarono e lo salutarono. Avevano tanto materiale da esaminare, dissero quasi all’unisono: ormai era un ritornello.

Mentre uscivano dal suo ufficio si scontrarono quasi con un giovane agente che chiese il permesso di entrare.

«Posso parlarle, commissario?» domandò il ragazzo.

Berté borbottò un sì infastidito.

L’agente avanzò a fatica, piegato in avanti, con una mano sul fianco sinistro, finché raggiunse la scrivania, ma non si sedette.

Berté lo guardò incuriosito.

«Sei tutto storto, che ti è successo?»

«Colpo della strega. Mi sono chinato per raccogliere un foglio finito sotto uno schedario e ho sentito come una pugnalata nella schiena. Non riesco a mettermi dritto. Sono venuto a chiederle se posso andare a casa.»

Berté chiuse un attimo gli occhi sentendo salire una stanchezza sempre più grande.

Nei film d’azione i poliziotti non dormono mai. Non mangiano, non bevono, non vanno in bagno. Seguendo una morale granitica, anche se li pestano a sangue continuano le indagini. Non si rompono le costole, non si slogano le caviglie e, quando accade, non si mettono in malattia.

In un libro letto di recente, un poliziotto americano si licenziava e spendeva tutti i suoi averi per ritrovare una bambina scomparsa... Le prendeva di santa ragione, rischiava di morire assassinato, ma niente, mica mollava la presa!

Americanate!

Nella realtà, e Berté aveva ormai la sua esperienza, i poliziotti si ammalano, eccome! E si mettono in malattia.

«Sei già ridotto così alla tua età?» chiese infastidito all’agente.

Battuta da vecchio.

«Siamo nel mezzo di una fottuta indagine», continuò con l’accento del duro dei telefilm, «e per una... streppa, mi chiedi un permesso! Che figura facciamo con il mondo? Se lavoravi per l’FBI ti rideva dietro tutta l’America!»

«Dottore, mi fa un male cane», piagnucolò l’agente, «non riesco nemmeno a stare seduto...»

Chissà se il giovanotto aveva capito cos’era la streppa? A volte si dimenticava di non essere più a Milano.

Mentre lui elucubrava, l’agente lo guardava speranzoso, e Berté non trovò altri argomenti per ribattere, soprattutto perché una volta era rimasto anche lui con la schiena bloccata e non si era divertito per niente.

E poi al diavolo i polizieschi made in USA!

L’agente gli porse il permesso già compilato solo da firmare e nel farlo appoggiò il suo cellulare sulla scrivania. Proprio in quel momento il telefonino squillò. A Berté cadde l’occhio sul display e vi vide scritto: Costa.

«Rispondi!» ordinò Berté all’agente diventato rosso ciliegia.

Per una frazione di secondo i due si fronteggiarono con lo sguardo, mentre gli squilli proseguivano insistenti. Il giovane alla fine rispose, dicendo in fretta al giornalista che non era un momento opportuno per parlare e chiuse in fretta la chiamata.

Berté non aveva distolto lo sguardo da lui per un solo istante.

«Dottore, io non gli ho mai detto niente riguardo alle indagini!» si giustificò il giovane. «Costa è amico di mio fratello maggiore, sono cresciuti insieme. Ci prova sempre ad avere informazioni da me, ma io non gliene ho mai date! Glielo chieda pure.»

Berté si lasciò sfuggire un sospiro.

«A pensar male si fa peccato, ma di solito si indovina», era uno dei suoi motti, ma sui giornali non erano trapelate indiscrezioni sull’indagine, e poi in quel momento non aveva tempo per approfondire la cosa.

Firmò il permesso senza commentare e lo allungò all’agente, ma prima che questo si allontanasse, gli lanciò uno sguardo che significava «stai attento perché ti tengo sotto controllo».

Almeno quello!

Quasi lo invidiava, pensò Berté abbandonandosi allo schienale della poltrona e chiudendo gli occhi. Si sarebbe messo volentieri in malattia anche lui...

Stacco solo per un attimo, disse fra sé, sbadigliando. Un attimo per recuperare il filo dei pensieri, per riposare, per poi riprendere rinfrancato...

Si ritrovò seduto nel negozio della Torre, fra gli oggetti più strani: lampadari in cui braccia umane reggevano candele, portaombrelli contenenti bandiere multicolori che sventolavano, cassettiere con i tiretti aperti da cui usciva una nebbia rossastra.

Seduta a un tavolino rotondo, la cartomante smazzava i tarocchi. Indossava un vestito trasparente, più vedo che non vedo, e i suoi capelli neri, lunghi e vaporosi, erano mossi da una brezza fredda. Anche nel sogno Berté era consapevole della bizzarria della situazione, dell’avvenenza della donna e soprattutto dello strano pizzicore che sentiva nelle vene.

La Torre lo fissava con i suoi occhi irresistibili e lui desiderava toccarla, e infatti allungava le mani fino a sfiorarle le cosce.

«I tarocchi parlano chiaro», diceva la donna con voce da sirena, mostrandogli una carta, «lei non deve più avere contatti con Patty, commissario. Rappresenta la sua infanzia, è come un pelouche, come la copertina di Linus. Lei deve crescere, ha capito?»

«L’ho lasciata da quasi due anni...» si giustificava lui, mentre seguitava a palpeggiarla.

«L’ha lasciata, ma solo a parole. Quando è tornato a Milano, il Natale scorso, è andato a letto con lei, e Marzia lo sa benissimo. Vedo qui...» gli mostrò un’altra carta, «che non è stato perdonato.»

«La Marzia non mi ha mai detto niente», constatò mesto Berté, mentre, in modo del tutto contraddittorio, tentava di baciare la donna.

«L’ha fatto per non apparirle gelosa! Lei è un uomo che piace molto, commissario...»

La cartomante avvicinò pericolosamente la scollatura alla bocca di lui. «Cosa dovrei fare?» chiese lui con voce tremante, quasi soffocato nel petto della donna.

«Interrompere i contatti con Patty, dimenticarsi il suo numero di telefono, smetterla di pensare a lei.»

Berté annuì soggiogato. Era quasi un piacere abbandonarsi agli ordini della Torre. Era sicura di sé, e poi le carte indicavano il percorso da seguire. Sì, doveva obbedirle, doveva sottomettersi a lei...

«Mi ascolti», continuava intanto la sirena, «non deve sposare Marzia, e non deve fare figli con lei. Lasci stare quell’insulsa casa gialla. Stia con me... insieme ci divertiremo. La porto in Brasile, ha capito? Staremo insieme per sempre, Per SEMPRE!»

Berté si svegliò di schianto, in un lago di sudore, con la testa appoggiata alla scrivania.

Come al liceo, nell’ora di Storia dell’arte, quando si proiettavano le diapositive.

Per sempre?

Così aveva detto la Torre.

La porta che si apriva lo fece sobbalzare sulla poltrona. La rassicurante voce di Parodi lo riportò alla realtà, anche se la strana sensazione di schiavitù dei sensi, che aveva provato durante il sogno, faticava ad abbandonarlo.

«Dottore, abbiamo Folco Torre in linea dal Brasile.»

«Ah, bene... passamelo. Ehm... Parodi, dove li avete comprati i sandwich che ho mangiato oggi?»

«In un baretto che hanno appena aperto sulla calata. Buoni, vero? Con quelle salsine piccanti...»

«Sì, sì, buoni, ma teneteli d’occhio ’sti nuovi baristi, mi raccomando. Non è che importano le salsine dalla Colombia o dal Messico?»

Parodi non lo sapeva, e Berté era certo che non avesse nemmeno capito il motivo della sua richiesta. Come avrebbe potuto?

Intanto alzò il telefono sentendo una voce maschile che diceva : «Pronto, pronto, commissario Berté?»

Folco Torre aveva una voce fonda, da basso, leggermente arrochita, forse dal fumo. Una di quelle voci che fanno subito pensare a un uomo di fascino e d’esperienza.

«Sì, sono io», rispose cercando di modulare meglio la propria voce.

«Sono già in aeroporto. Fra due ore prendo l’aereo e torno in Italia. Sono sconvolto, sa?»

«Lo credo», rispose Berté.

«Donna così stanca... apri le tue ali intatte. Vola libera mentre la rondine canta! Vieni ai fuochi d’artificio. Vedi la nera signora sorridere. Lei brucia...» canticchiò il Torre.

«Prego?» domandò Berté spiazzato.

«Born it blue. Non conosce questa canzone? Cantata da Caetano...»

«Rino Gaetano?»

«No... Caetano Veloso, un grande compositore brasiliano.»

Lui non era un esperto di musica sudamericana. L’unica bossa nova che gli veniva in mente era La palla è rotonda, l’inno dei Mondiali di calcio 2014, scritta da Claudio Sanfilippo e cantato da Mina.

«Solo ascoltando la musica di Caetano riesco a consolarmi», continuò il Torre ispiratissimo, «appena tornato dal safari, ho riacceso il telefono e mia sorella mi ha dato la terribile notizia... Un colpo! Se non fosse stato per gli amici che ho qui, persone di cuore e dalla mente illuminata, non so come sarei riuscito a reggere al dolore. Mi sento già perso senza Luciana... ci eravamo appena sposati, la casa è quasi pronta...»

«Eravate sposati?» Berté non nascose la sorpresa.

«Sì, certo, non glielo ha detto mia sorella?»

No, quella non parla mai, a parte le idiozie che dice nei sogni degli altri, avrebbe voluto rispondere, ma preferì soprassedere. La notizia era notevole.

«In Italia il vostro matrimonio non risulta registrato.»

«Le solite lungaggini burocratiche...» sospirò il Torre. «Qui in Brasile le cose vanno a rilento. Luciana mi ha detto che se ne sarebbe occupata lei... e invece...ora sono di nuovo solo!»

Berté sentì come un singulto, ma poteva anche essere un disturbo nella recezione.

«In che data vi siete sposati e dove?»

«Che importanza può avere ormai...»

Berté sentì una scarica di incazzatura, che ancora riusciva a tenere sotto controllo, ma non sapeva per quanto. I fratelli Torre avevano il vizio di non rispondere alle domande!

«Lasci decidere a me quello che è importante o no», disse Berté in tono deciso, «e mi dica data e località.»

Il Torre attese qualche secondo prima di rispondere, come se cercasse di ricordare. Per essere uno sposo novello, e disperato, era alquanto distratto. O forse era solo uno smemorato.

«Esattamente un mese fa a Bahia, testimoni due cari amici di qui. Avremmo voluto anche Linda con noi, ma è stata una decisione improvvisa: Luciana una mattina si è alzata e mi ha detto: sposiamoci! Subito, oggi! E così abbiamo fatto, ma avevamo promesso a mia sorella che poi avremmo ripetuto la cerimonia con lei e con altri amici. Che saudade, commissario...»

Berté non commentò e invece chiese: «Il matrimonio si è svolto in modo regolare, intendo è legalmente valido?»

Visti i tipi, magari era un matrimonio finto, una specie di rituale.

«Sì, tutto regolare, credo, ma perché mi chiede questo? L’importante è che io e Luciana avevamo unito le nostre anime solitarie.»

Va bene essere uno svaporato, un poeta, un artista, ma quando c’è da ereditare si diventa tutti prosaici, avrebbe voluto dirgli...

«Che lei sappia, la dottoressa aveva fatto testamento?» domandò invece.

Ci fu un intervallo di silenzio rotto solo da qualche gracchio nel telefono.

«Testamento?» ripeté il Torre alzando la voce. «La mia rondine era una donna ancora giovane e sana, perché avrebbe dovuto fare testamento?»

«Quindi secondo lei un testamento non esiste?»

«Io non ne so niente. È saltato fuori qualcosa?»

Malignamente Berté lesse una nota di interesse nella domanda.

«Ne parliamo appena lei sarà qui. Ho molte cose da chiederle.»

«Non avete ancora preso quell’infame assassino?»

«No, ma lo prenderemo.»

Sarà stato il sogno, le salse sudamericane spalmate nei panini appena mangiati, sarà stato l’accento esotico che forse studiatamente il Torre metteva nella voce, ma nella mente di Berté comparve un volto: Valdomiro Santos, detto Vadinho.

Ecco chi, da subito, gli avevano ricordato le foto in casa della Torre! L’attore protagonista di Dona Flor e i suoi due mariti, uno dei film che più lo avevano divertito in vita sua.

Vadinho: gran bevitore, giocatore e traditore, era incredibilmente affascinante. Erotismo allo stato puro. Dona Flor non era riuscita a liberarsi dell’incanto del marito nemmeno dopo la sua morte.

Anche la Saturno per il ‘suo’ Vadinho si era rovinata. Aveva iniziato a rubare, e si era decisa a lasciare tutto per seguire il profumo di uomo ‘sensuale’ che Folco Torre spandeva intorno a sé.

Se lo immaginò abbronzato, sguardo da adorabile canaglia, camicia decorata a pappagallini e fiori, sbottonata sul petto liscio, la sigaretta che pendeva dalle labbra morbide, l’alito dal dolciastro sapore di cachaca... e la voce roca che cantava le canzoni di quel Peloso...

Veloso, santiddio!

Roba da sedurre in un niente una donna delusa e stanca, come diceva la canzone che lui aveva citato, e con tanto bisogno di un amore voluttuoso.

La Saturno avrà pensato, come pensava lui ogni tanto: affanculo tutto!

Solo che lei, se qualcuno non gli avesse spaccato il cranio a mazzate, l’avrebbe fatto davvero, mentre lui si limitava a lamentarsi, schiavo di un’etica che gli impediva persino di parcheggiare in sosta vietata.

Oppure... la fuga era causata da altro? Un bel giorno un Fucci precisetto e implacabile o chi per lui, munito di un fascicolo traboccante denunce dei vari clienti inferociti, si sarebbe presentato alla porta della melanconica ma razionale commercialista/rondine, chiedendole spiegazioni...

«Signor Torre, dica la verità!» riprese Bertè.

«Non si metta in mente strane idee, commissario: la morte di Luciana per noi è una rovina, lei ci avrebbe salvati, capisce? Mi aveva aperto un conto in Brasile, e io avevo trovato una bella casa per noi tre. Con i suoi soldi mi avrebbe permesso di dipingere, di pubblicare i miei versi. Mia sorella si sarebbe finalmente tranquillizzata e Luciana con me sarebbe rifiorita. Io e Linda le volevamo bene, con noi aveva trovato la famiglia che non aveva mai avuto. Desiderava vivere qui, nel mio paradiso... qui si sta bene, sa? Venga anche lei, dottore e vedrà!»

È che non gli donano le camicie con i pappagallini...

«Signor Torre, l’aspetto a Lungariva», chiuse in fretta Berté.

Voleva capire, guardandolo in faccia, se sapeva che la sua rondine in realtà era una gazza ladra.

Una laboriosa gazza che aveva abbandonato la retta via per racimolare il suo gruzzolo, affrontando rischi per organizzare la fuga, e senza lasciar trapelare nulla.

E l’altra, la Torre?

Fin da giovane si era portata il carico del fratello sulle spalle. Aveva sanato le sue spese da artista spiantato. L’ultimo atto d’amore era stato quello di presentarle una donna ricca e manipolabile, schiava dei sensi e delle passioni, e sufficientemente pazza da seguirli nel piano assurdo di trasferire le loro vite assurde in quel posto assurdo pieno di pappagallini, assurdi pure loro.

Insomma: la stakanovista Saturno aveva incontrato il fancazzista Vadinho, e si era resa conto di quanto fosse bello vivere guardando le stelle piuttosto che fare conti, bilanci, e brigare di continuo per far evadere il fisco ai suoi clienti.

In Brasile, con i soldi accumulati dalla gazza ladra, il trio aveva il futuro assicurato.

Tutto questo che nesso aveva con l’omicidio?

Qualcuno aveva voluto impedire la fuga della rondine?

Forse la teoria del battito d’ali di una farfalla, che cambia il corso degli eventi, era vera? Gli si ingarbugliava il cervello quando qualcuno cercava di spiegargli il paradosso temporale causato da un avvenimento minimo, ma doveva ammettere che se la Saturno non avesse perso la testa per Vadinho, forse non si sarebbe messa a rubare, e la sera di lunedì non avrebbe avuto in casa tutto quel contante che qualcuno aveva visto, e quindi non sarebbe stata assassinata.

Destino.

Sì, il destino per gli uomini esiste, ma a volte piccoli eventi possono cambiarlo.

«Parodi!» chiamò interrompendo il volo della farfalla che prendeva una direzione problematica. Appena il sovrintendente entrò gli disse: «Convoca il Donadei, per favore, ma prima, ti prego... fammi compagnia».

Parodi lo anticipò mimando il gesto di portare la tazzina alla bocca. Lui lo seguì alla macchinetta del caffè.

Ci voleva un caffè doppio. Macché doppio! Triplo, quadruplo!

Mentre sorseggiava il primo espresso, Berté cercò di carpire il segreto del sovrintendente: quando ci provava lui, la macchinetta spruzzava getti di vapore in tutte le direzioni, poi si bloccava mandando lampeggianti bagliori rossi o verdi, secondo una ‘non logica’ che lo mandava in bestia.

«Tuo cognato ne vende ancora di queste macchinette?» chiese lanciando il bicchierino nel cestino dei rifiuti.

«Fa lo spiritoso, eh dottore?» rispose Parodi preparandosi un caffè. «No, non ne vende proprio. Si è messo a fare il piastrellista con il suocero.»

«Ha fatto bene.»

«Come giudica il Torre, dottore?» gli chiese Parodi cambiando discorso. Diventava permaloso quando si scherzava sulla macchina del caffè.

«Mi è sembrato quasi un personaggio letterario. È uno di quelli che fanno impazzire le donne: scrive versi, dipinge... va ai safari fotografici. Avvolge le donne nel fumo dei suoi sigari e a letto le fa sentire uniche!»

Parodi lo fissò imbarazzato, bevendo il suo caffè.

«Ma il fatto che lui e la Saturno si siano sposati cambia le carte in tavola», affermò Berté chiedendo con un gesto al sovrintendente di preparargli un altro caffè. «Voglio dire che ci sono due piste in questo caso: una riguarda le ruberie della Saturno e la sua fuga d’amore, più o meno pilotata dai Torre; l’altra il suo omicidio. Se il matrimonio non è valido, per i Torre la morte della Saturno è una disgrazia, non un bene. Non hanno fatto in tempo ad assicurarsi l’eredità. Finora non è saltato fuori un testamento, e se i due riescono a tenersi la cifra che lei aveva depositato in Brasile sarà già tanto. Perché avrebbero dovuto ammazzarla, prima di essere certi che il matrimonio fosse valido? La Saturno si era invaghita di Vadinho, non guardarmi così, Pasquale, è un soprannome che gli ho dato io... e per lui aveva deciso di mollare tutto.»

Parodi ascoltava interessato.

«Bel coraggio!» disse armeggiando alla macchinetta, «come fanno a vivere in questo modo? Dopo anni in Polizia non riesco ancora a capacitarmi. Rubare, pure ai poveri, per andare a vivere in Brasile con due spostati che giocano con i tarocchi e leggono poesie! Poi finiscono male... e ci credo, belin

Il destino secondo Parodi.

Berté gli diede una pacca sulla spalla.

«Tu sei lontano anni luce da gente simile, e proprio per questo lo Stato ti paga, no? Per catturare i criminali come quelli.»

«Non so nemmeno se definire la Saturno una criminale...» disse Parodi porgendogli l’altro caffè, «mi sembra più una stupida, dottore, mi scusi se non rispetto i morti... ma come si fa a credere ai tarocchi?»

«Pensa alla vita che faceva», disse Berté inghiottendo la prima sorsata rovente, «da quando aveva iniziato a rubacchiare qua e là non aveva fissa dimora, o meglio... si spostava da Asti a Lungariva senza avvisare nessuno dei suoi spostamenti, a parte il Donadei. Una specie di latitanza, direi... Lunedì sera però torna a Lungariva, dove aveva qualcosa da incassare, e chiama la Torre. Chissà quanti dettagli da definire con la cognata! La Torre, però, commossa dalla disperazione della Piccinelli, le rivela che la Saturno è a Lungariva. Sempre mentre è in macchina, la Saturno riceve la telefonata del Carraro che ha bisogno di incontrarla per farsi spiegare la cartella di Equitalia. Si innesca così una catena di visite nell’appartamento...»

«Qualcuno di loro ha visto i soldi ed è tornato più tardi per rubare», intervenne Parodi.

«Probabile», Berté buttò nel cestino anche il secondo bicchierino vuoto. «Al suo arrivo a Lungariva la Saturno trova in casa Irina che sta stirando. La domestica potrebbe aver visto il malloppo e averci fatto un pensierino, visto che si è ‘dimenticata’ di riferirci questo particolare.»

«Strano, dottore.»

«Strano sì. E Irina aveva anche le chiavi dell’appartamento...»

Berté non finì la frase perché gli si avvicinò un agente.

«Dottore, è arrivato il signor Donadei.»

«Andiamo, Parodi», disse dirigendosi verso il suo ufficio, «sentiamo se il nostro Fred ha qualcos’altro da raccontarci.»

«Si accomodi, prego», lo invitò Berté sedendosi sulla sua poltrona.

L’autista aveva gli occhi cerchiati e l’aspetto trascurato.

«Scusi, Donadei, perché non mi ha detto che lunedì, quando ha accompagnato a casa la dottoressa, c’era la domestica nell’appartamento?»

Sul viso del Donadei comparve un’espressione meravigliata.

«Non mi sembrava una cosa importante. Non era la prima volta che vedevo Irina in casa di Luciana.»

«Stava stirando, lei me lo conferma, vero?»

Il Donadei lo fissò ancora più perplesso.

«Sì...» rispose, «ha presente com’è fatto l’ingresso? Lei non mi ha nemmeno visto, non ha alzato lo sguardo dall’asse da stiro; io ho appoggiato la valigia di Luciana e me ne sono andato subito.»

Irina non sapeva che oltre alla Saturno qualcun altro l’avesse vista in quella casa il lunedì sera, altrimenti non avrebbe nascosto il fatto.

«Bene. Era quello che volevo sapere.»

«Tutto qui?»

«No.»

L’autista fece un sospiro come per significare: me la sentivo!

«Un mese fa, la Saturno aveva sposato il fratello della Torre e si sarebbe trasferita in Brasile con lui. Lei lo sapeva?»

Sul volto del taxista si disegnò uno stupore sincero.

«Cosa?» gli uscì strozzato. «No... come potevo immaginarlo? Ah, ma ora tutto si spiega: ci era andata a Pasqua, in Brasile, e poi anche un mese fa è sparita per una settimana ed era tornata... diversa. Adesso capisco perché!»

Sapeva proprio tacere la Saturno, pensò Berté: aveva imparato la lezione fin da piccola, probabilmente dagli zii: «Non dirlo a nessuno, Luciana... non dire che la mamma si è buttata dalla finestra. Taci Luciana, fatti sempre gli affari tuoi...»

«Per realizzare il suo progetto aveva iniziato ad appropriarsi dei beni dei suoi clienti», continuò Berté. «Poi depositava il maltolto a Rotterdam e da lì ne disponeva come voleva, anche dal Brasile.»

«Non sapevo che rubasse, commissario, mi creda... non lo sapevo! Lei mi... mi aveva incantato! Lo sa cosa vuol dire portare in macchina una donna che indossa solo una sottoveste di pizzo sotto la pelliccia? Luciana era sempre provocante, aveva sempre tutto... fuori!»

Lo sa, lo sa... lui accarezza le cosce alle cartomanti...

«Sostiene ancora di non aver ascoltato le telefonate fatte e ricevute dalla dottoressa durante il percorso da Asti a Lungariva?»

L’autista scosse la testa.

«Non ho sentito quello che diceva. Io guidavo e ascoltavo la musica.»

«Lei non ha un bell’aspetto, sa?»

Il volto del Donadei in effetti era segnato. Occhi gonfi, colorito spento, capelli arruffati.

«Questa storia mi sta rovinando la vita», ammise a bassa voce. «Roberta vuole lasciarmi, e voi mi state addosso come se Luciana l’avessi ammazzata io, e quei due soldi che ho portato in Olanda me li sequestrerete...»

La voce dell’uomo s’incrinò, ma Berté non voleva sentire altri piagnistei e salutando con un cenno del capo, lasciò il Donadei a Parodi e uscì dall’ufficio.

Una vibrazione in tasca gli annunciò che era arrivato un sms. Un haiku, della Marzia.

Il brodo caldo

diventa saporito

mentre nevica

Nevica?

Guardò fuori dalla finestra e vide la sua amica palma sofferente, anzi più che altro spaesata per l’inconsueta situazione.

Una palma «spaesata»? Sentisse il Servello...

I fiocchi cadevano stentati e confusi, come se non sapessero che direzione prendere, ma erano sufficienti per creare un’atmosfera ovattata.

Quella Marzia! pensò Berté mentre componeva il suo numero.

Rispose al terzo squillo.

«Hai visto?» disse lei. «Anche a Lungariva può nevicare.»

«Sai che freddo, neve e montagne non mi appassionano, ma devo ammettere che qui è suggestivo... e il brodo caldo c’entra con la nevicata?»

La Marzia rise.

«No, non è il menu che avevo in mente per questa sera.»

Berté chiuse gli occhi.

«Avanti, dimmi quello che mi preparerai.» Si sentiva come un bambino che vuole scoprire prima la sorpresa chiusa nel pacco dono.

«Ho pensato di iniziare con panissa impanata e fritta...»

Berté emise un mugolio. La panissa era stata una scoperta piacevole: non aveva mai pensato alla farina di ceci come a una leccornia e invece adesso era uno dei suoi cibi preferiti.

«Poi lasagne al pesto», continuò la Marzia, «con la sfoglia sottile come mi ha insegnato mia madre.»

Il mugolio si ripeté. Lo conosceva quel pesto chiaro, chiaro e saporito, con appena un lieve aroma d’aglio, e qualche pinolo lasciato intero qua e là...

«E di secondo, per non appesantirti, un’orata al sale... ma, per stuzzicarti, la accompagneremo con la mia maionese, bella soda come piace a te.»

«E poi?»

«Anche se fa freddo una coppetta di panera si gusta volentieri... aiuta a digerire.»

Anche il gelato panna e caffè alla ligure... Era troppo!

«Basta, ti prego, altrimenti le ore non passeranno mai!» implorò Berté pensando alla Torre che nel sogno gli proponeva di lasciare una cuoca come la Marzia. Figuriamoci!

Uomo romantico.

«Eh, no, non ho finito: che ne dici di una crostata con crema al limone?»

«Potrei vendermi l’anima per la tua crostata.»

«Non ti chiedo tanto: solo di avvertirmi un quarto d’ora prima del tuo arrivo.»

Berté tornò sulla terra.

«Non sarà prima delle nove.»

«Ti aspetto...» la voce della Marzia si dissolse.

A lui sembrò di sentire lo schiocco di un bacio, ma non ne era sicuro al cento per cento.

Illuso...

Giornata inconcludente, considerò infilando il cellulare in tasca, almeno però avrebbe cenato come Dio comanda.

Pensò a quella testarda di Irina ancora chiusa nel suo silenzio... alla fine avrebbe dovuto rimandarla a casa. Come farle confessare il segreto che custodiva?

Pensò anche a Vadinho in volo verso l’Italia con la sua camicia fiorata e i suoi sogni di vedovo ricco... Avrebbe riabbracciato la sorella seduttiva, ma zitella, e avrebbero dovuto cambiare di nuovo i loro piani per il futuro.

Con un sospiro poco convinto si mise a scrivere un paio di rapporti, si confrontò brevemente con la Belli e il Fucci su alcuni documenti, poi decise di uscire, rifiutando la proposta di Sabatini che si era offerto di accompagnarlo con l’auto.

Ormai era quasi ora di andare dalla Marzia, e due passi per snebbiarsi ci volevano.

Raccolse chiavi e cellulare dalla scrivania e mentre controllava di avere la Beretta al suo posto nella fondina, l’occhio gli cadde sul libro di racconti mandati dalla Rossi che non aveva ancora sfogliato. Lo prese e lo infilò nel tascone interno del cappotto... chissà, forse dopo cena l’avrebbe letto con la Marzia...

Un paio di saluti agli agenti di turno con le consuete raccomandazioni e superò il portone, uscendo sulla strada.

Il freddo umido della sera gli provocò un brivido. Cadeva ancora qualche fiocco stanco che si depositava sulla sua coda, sciogliendosi all’istante.

Lui detestava il clima nordico, e per questo la sua milanesissima madre lo prendeva spesso in giro: «tu e tuo padre: due terroni che stanno bene solo rosolati al sole!»

Un aperitivo alcolico gli avrebbe fatto passare la confusione che sentiva in testa, decise, sentendosi quasi intirizzito, e sarebbe arrivato dalla Marzia meno congelato.

Voleva farle un discorso serio: la casa gialla rappresentava l’inizio di una nuova vita per entrambi.

Forse il freddo che sentiva dentro non era solo dovuto al clima... i cambiamenti come quello che si apprestava a compiere lo mettevano in agitazione.

Senza contare il vantaggio che andando ad abitare in via Modigliani alla fine avrebbe scoperto perché Lacostone vi passava di continuo...

Berté ridacchiò, era quasi felice.

Facendo il suo mestiere la felicità era quasi proibita. Quando gli capitava di essere quasi felice si sentiva in paradiso.

Si toccò le tasche per essere certo della presenza delle chiavi lasciategli dal Canepa. Era deciso: il giorno dopo avrebbe preso per mano la Marzia e l’avrebbe portata a vedere la casa gialla.

C’era tutto il tempo per installare i termosifoni e ritinteggiare le pareti. Avrebbe lasciato fare alla Marzia che aveva buon gusto per l’arredamento. L’importante era fare il passo insomma.

Poi lei avrebbe parlato con il Pestarino. Magari lui si sarebbe trasferito altrove... perché non in Brasile, da Vadinho, dove forse la bella cartomante con le sue doti magiche lo avrebbe guarito dal suo problemino...

Perfidissimo!

Con questi allegri pensieri arrivò davanti al Caffè del Porto. Stava per entrare quando vide Don Erminio che, visibilmente infreddolito, gli veniva incontro, camminando con affanno.

«Buona sera padre!» lo salutò Berté.

«Ah, è lei commissario!» rispose il sacerdote fermandosi, «come procedono le sue indagini?»

«Venga, le offro qualcosa e intanto la aggiorno», disse Berté d’istinto. Si era ripromesso di incontrare il sacerdote, ma non ne aveva avuto il tempo.

Il religioso accettò e insieme entrarono nel caffè.

L’atmosfera era densa di odori. Altri avventori, quasi tutti del posto, si ritrovavano lì per una partitina a carte o per un bicchiere prima di rincasare. Al loro ingresso li salutarono. Qualcuno certamente sapeva chi fossero, gli altri sarebbero stati ben presto informati. Berté sentiva di sottofondo i commenti sulla neve, e notava i loro sguardi incuriositi.

A Lungariva un prete corpulento e un poliziotto con la coda che di sera bevevano insieme in un bar rappresentavano un fatto insolito, quasi quanto la nevicata.

«Cosa prende, don Erminio?» domandò Berté indicandogli un tavolino appartato, «le andrebbe un bicchiere di Pigato?»

«Non dovrei, ma sono un po’ raffreddato e un po’ di alcol mi riscalderà.»

Faccia simpatica, pensò Berté osservandolo, e sguardo pacifico di chi è consapevole di aver fatto la giusta scelta di vita.

«Ho sentito di quei due villeggianti che si sono tolti la vita. Un’altra brutta disgrazia, santa pace!» esclamò il ‘don’ sedendosi impacciato nello stretto angolo. Il Caffè del porto aveva i tavolini piccoli e loro due occupavano tutto lo spazio concesso.

«E pensare che all’inizio la mamma di Enzo era così contenta...» esordì don Erminio sorseggiando il Pigato, «che stesse con la signora Luciana, intendo.»

«Le aveva parlato di lei?» chiese Berté.

«Sì, sì...certo, e non in confessione, quindi posso dirle tutto!» il prete gli fece un sorriso complice.

Una fortuna, pensò Berté.

«Era contenta, ma solo all’inizio. Poi ha cominciato a lamentarsi, dicendo che quella donna pensava solo ai soldi e stava rovinando suo figlio...»

«Enzo non ha fratelli?» chiese Berté che si stava figurando un tipico quadro famigliare italiano. Un figlio unico, con una madre piuttosto invadente.

«No, nessuno. E quella mamma... uh! Parlava solo di lui. Poi poverina, è andata un po’ via di testa, sa... alla fine rimbecilliamo tutti.»

«Cosa non le piaceva della signora Luciana?»

«Diceva che era una zingara. Viaggi, ristoranti, belle case, che poi lei non puliva e non teneva in ordine... infatti è stata la signora Carraro a chiedermi se avevo una domestica fidata da mandare al suo Enzo, e io le ho proposto Irina, una brava ragazza romena che era venuta in parrocchia da me a cercare lavoro...»

Berté sentì una scossa violenta nelle vene e fissò don Erminio con stupore.

«Quando è avvenuto questo?»

«Quando Enzo conviveva con Luciana, altra cosa che alla signora Carraro proprio non andava giù. Voleva un santo matrimonio, giustamente.»

«Aspetti, aspetti... non divaghiamo. Quindi Irina faceva le pulizie anche a casa di Enzo Carraro quando viveva con la Saturno, ho capito bene?»

«Sì, sì, l’hanno aiutata parecchio. Poi, quando si sono separati, Irina ha continuato a lavorare per tutti e due. Viene ancora ogni tanto, in parrocchia, a dare una mano nelle feste. Una brava figliola!»

Berté diede l’ultima sorsata al suo bianchino e poi balzò in piedi.

«Lei mi è stato molto utile... sì, molto utile! Le racconterò più tardi quanto, ma adesso, mi scusi... devo proprio andare.»

Uscì di corsa. Senza nemmeno pagare il Pigato.

Cafone recidivo.

Ecco che i pezzi del puzzle stavano andando tutti al loro posto.

Nella tasca sentì anche la vibrazione del cellulare. Guardò il display: Patty.

Si guardò bene dal rispondere in quel momento.

Nella testa gli turbinavano mille pensieri, ma uno era dominante: sapeva chi era il colpevole e doveva fermarlo subito.

Lungariva non era un paese piccolo, ma era inutile telefonare in ufficio per chiedere una macchina, avrebbe fatto prima a piedi.

Di nuovo la vibrazione del cellulare, e di nuovo lui lo ignorò. Aveva deciso di non occuparsi più dei capricci della Patty e dei casini che lei ripetutamente combinava!

Si mise quasi a correre, ma presto il fiato gli venne meno, riprese quindi la strada a passo spedito.

Per regolamento avrebbe dovuto consultarsi con la Graffiani e farsi mandare rinforzi, ma in quel momento i regolamenti erano l’ultimo dei suoi pensieri. Ormai era arrivato davanti alla casa.

Non voleva perdere tempo, e nemmeno prendere altri granchi.

Suonò il citofono, cercando di controllare il respiro affannato per la corsa.

Alla voce che rispose preferì non dire Polizia ma solo: «Commissario Berté».

La serratura del portone scattò con un rumore secco.

È in casa, per fortuna, pensò, e mi ha aperto!

Scartò l’idea di servirsi dell’ascensore, e scelse di non salire di corsa come l’istinto gli suggeriva, non voleva apparire impaziente. Diede due colpetti confortanti sul rigonfio della Beretta e raggiunse il piano.

Il Carraro lo aspettava sulla soglia di casa con un sorriso tirato sulle labbra.

«Buona sera, qualche novità?» gli domandò invitandolo a entrare.

Berté salutò, ma non rispose alla domanda, dirigendosi deciso verso la sala.

«Si sieda, prego», lo invitò l’ex amante della Saturno indicandogli una poltrona invasa dai cuscini. Berté però preferì restare in piedi.

«Signor Carraro, ha sofferto quando la dottoressa Saturno l’ha lasciata?»

Il Carraro lo guardò sbigottito. Gli lesse negli occhi che avrebbe voluto dirgli ma che cavolo di domanda è questa? Ma a un commissario che ti piomba in casa di sera, mentre fuori nevica, non si può rispondere così.

«È sempre doloroso quando le storie finiscono, ma...»

«La dottoressa però continuava a passarle dei soldi, vero?» lo interruppe Berté.

Il Carraro abbassò lo sguardo.

«Mi aiutava, gliel’ho detto. Ho attraversato un momento critico, anche mia madre...»

«Sì, sì... questo me lo ha detto», lo fermò di nuovo Berté, «ma mi ha taciuto dell’altro...»

Lasciò la frase in sospeso finché il Carraro alzò gli occhi per fissarlo.

«Ad esempio», riprese Berté, «mi ha nascosto il fatto che la sera del delitto, oltre alle informazioni sulla cartella di Equitalia, la sua ex le ha allungato qualche banconota, presa dal sottofondo del beauty case scozzese.»

Il Carraro arrossì di colpo.

«Lei quella sera ha notato che c’erano parecchie banconote da cinquecento euro in quel beauty.»

Il Carraro non replicò, si limitò a guardarlo male.

«Lei mi ha ripetutamente mentito», scandì Berté in tono gelido.

Il Carraro continuò a fissarlo. Cercava di mantenersi calmo, senza riuscirci, pensò Berté piantando i suoi occhi neri in quelli azzurri e acquosi dell’uomo.

Parlavano, quegli occhi: erano colmi di paura e rabbia.

«Lunedì notte, finito il torneo di burraco, lei è tornato a casa della sua ex. Verso la una.»

Il Carraro ebbe un piccolo sobbalzo.

«Cosa sta dicendo?»

«Nega di esserci tornato?» lo incalzò Berté ignorando la domanda.

«Le ho detto che ero a Rapallo! Ho decine di testimoni.»

«Intorno all’una, lei era dalla Saturno» ribadì Berté, come fosse sicuro della sua affermazione.

Il Carraro questa volta non lo smentì. Si intuiva, dalla sua espressione che cercava una risposta adeguata.

Dal canto suo, Berté voleva prendere tempo. Doveva sfruttare al meglio la situazione e l’effetto sorpresa che aveva prodotto precipitandosi a casa sua.

Sentì il cellulare vibrare nella tasca. Accidenti alla Patty! pensò infastidito.

«Mi ha anche tenuto nascosto il fatto che Irina Radu in questi anni ha continuato a farle da domestica a ore», proseguì Berté, «anzi forse più che domestica... una informatrice, o una complice... se non un’amante...»

«Ma non dica fesserie! Irina per me fa le pulizie e basta, e non mi sembra un reato!» gridò il Carraro, «Cosa viene qui a insinuare? E con che metodi!»

Berté non gli rispose e lo incalzò, alzando la voce.

«Quella sera Irina le ha confidato che la Saturno se ne sarebbe andata per sempre da Lungariva e deve averle anche confermato che nel beauty case c’erano parecchi contanti. Non è così?»

Mentre pronunciava l’avverbio «per sempre» Berté ebbe l’impressione di un dejà vu. Nel suo sogno la cartomante aveva ripetuto «per sempre, per sempre...»

L’ineluttabilità di quell’avverbio portava a un plausibile movente.

«Glielo ha raccontato quella bugiarda?» domandò il Carraro rosso in viso. «E lei le crede?»

«Che vita l’aspettava se la Saturno l’avesse lasciato per sempre?» seguitò Berté ignorando le sue domande. «Chi avrebbe saldato i suoi conti? Lei aveva bisogno del denaro della sua ex! Non era abituato a badare a se stesso: prima aveva vissuto alle spalle di sua madre e poi della sua amante. Quindi lei è tornato dalla Saturno, ha scassinato la porta ed è entrato, e quando se l’è trovata davanti ha perso la ragione e l’ha colpita, poi ha allestito una stupida messinscena con tarocchi e monete...»

Il Carraro sbarrò gli occhi come fosse sorpreso. Poi d’un fiato gridò: «Ma quali tarocchi e quali monete? Per questa accusa lei subirà delle conseguenze, perché io la denuncerò! Lei piomba qui a casa mia senza nemmeno un mandato e mi insulta con accuse infamanti! Io non le dirò più niente se non in presenza del mio avvocato. Adesso gli telefono e poi la vedremo!»

Il Carraro si spostò di lato, entrando nella piccola cucina.

Berté lo seguì svelto, cercando di afferrarlo per un braccio, poi però si trattenne. Non poteva toccarlo, doveva stare attento a come si comportava.

Il Carraro si girò di scatto.

Nella mano destra stringeva un grosso coltello da cucina afferrato al volo da un ceppo. Brandendolo si scagliò addosso a Berté senza dargli tempo di mettersi in guardia e di estrarre la pistola.

D’istinto Berté alzò le braccia per proteggersi, riuscendo a deviare la pugnalata diretta al petto.

Incontrando il libro infilato nella tasca interna del cappotto, la lama deviò verso l’ascella e penetrò in profondità nel braccio sinistro.

Quando il Carraro estrasse il coltello dalla sua carne per colpire di nuovo, Berté si sentì svenire.

Riuscì a stento a riprendersi, controllando il dolore lacerante che gli mordeva il braccio. Furono la rabbia e l’istinto di sopravvivenza a dargli la forza di reagire.

Si buttò urlando contro il Carraro e gli sferrò una ginocchiata nel basso ventre. L’uomo cadde a terra, quasi senza respiro. Berté con la sua mole gli premette un piede sopra la mano destra che stringeva ancora il coltello. Il Carraro, gemendo, lasciò la presa e tentò di rialzarsi, ma Berté cominciò a prenderlo a calci in faccia, fermandosi solo quando si accorse che l’uomo aveva perso conoscenza.

Respirando con affanno, prese dalla tasca le manette e servendosi del solo braccio destro lo ammanettò. Restò poi immobile, stringendo i denti, con il cuore in tumulto.

Si guardò il braccio e vide che il sangue, dopo aver intriso la stoffa del cappotto, scendeva a fiotti sul pavimento. Prese uno strofinaccio per tamponare la ferita, poi estrasse il cellulare dalla tasca per comporre il numero di Parodi, ma la vista gli si annebbiava e faticava a distinguere i simboli della tastiera. Si appoggiò a una sedia tentando di riprendere il controllo.

Doveva raggiungere la porta per chiamare aiuto. Si trascinò fino all’ingresso e spalancò l’uscio. Gli occhi gli si stavano chiudendo quando sentì una voce nota.

«Dottore!»

Alzò lo sguardo e vide Parodi con due agenti.

«Chiama l’ambulanza... sono ferito... poi ti spiego...»

Non udì la risposta del sovrintendente perché perse i sensi.

Quando rinvenne, dopo un sonno animato da sogni che sembravano non finire mai, vide attorno a sé molta gente.

Parlavano tutti e si muovevano freneticamente.

Si accorse di essere sdraiato sopra una barella, senza abiti addosso e sporco di sangue. Un infermiere gli stava mettendo una flebo, mentre un altro gli tastava il polso. Il male al braccio era quasi insopportabile e temette di svenire di nuovo.

Vergogna! Nei film americani i poliziotti non svengono.

La voce imperiosa della Bastarda lo rianimò. Sentiva però qualcun altro che lo chiamava.

«Gigi, Gigi...»

Era la voce tremante di Parodi. Il sovrintendente gli stava accanto con il colorito di uno straccio messo in candeggina.

«Le abbiamo telefonato tante volte», continuava, «perché non rispondeva? Quando è arrivato Barbagallo e ci ha raccontato tutto, volevamo avvertirla che...»

Allora non era la Patty...

«Che c’entra... il Barbagallo?» riuscì a chiedere con un filo di voce.

«Non la cercava per parlarle dei suoi problemi con la moglie, ma per fornire la sua testimonianza: la notte dell’omicidio, era di turno al ritiro dei bidoni proprio nella via dove abitava la Saturno; ha visto arrivare uno scooter guidato da un tipo con un casco giallo...»

Berté ricordò di aver notato un casco di quel colore nell’anticamera del Carraro.

«L’uomo ha posteggiato sul marciapiedi», seguitò Parodi, «e ha preso qualcosa dal bauletto: Barbagallo non ha visto cosa, ma io suppongo fosse il piede di porco, poi si è diretto verso il portone della Saturno ed è entrato. Circa un quarto d’ora più tardi, mentre lavorava in una via laterale, Barbagallo l’ha visto sfrecciare via. Il giorno dopo, nelle riprese televisive di un Tg, ha notato che l’abitazione dov’era avvenuto il delitto era proprio quella dove la notte prima era entrato l’uomo, ed è venuto da lei per parlargliene.»

E io non l’ho ascoltato! pensò Berté, dandosi del pirla, mentre un infermiere lo copriva con una coperta termica.

E doveva anche ringraziare il Tg! Immaginò il Costa che sghignazzava all’idea...

Ora tutto appariva ovvio: il colpevole era la persona più probabile, invece lui si era perso dietro piste complicate: l’autista, i clienti, l’amante in Brasile...

In quel momento vide passare il Carraro sopra una barella. Aveva gli occhi chiusi e il viso coperto di ecchimosi.

«L’ha conciato per bene, dottore», commentò Parodi seguendo con sguardo malevolo l’uscita del Carraro dalla sua casa. «Prima del carcere dovrà farsi parecchi giorni d’ospedale... se li merita!»

Berté tentò di fare un sorriso che risultò una smorfia. Si sentiva fluttuare e sperò che quella benedetta flebo facesse effetto al più presto.

«Parodi, fammi un piacere», mormorò, «cerca il libro che era nel mio cappotto... ci tengo ad averlo, mi ha salvato la vita... poi ti spiegherò... e avverti la Marzia che non ci sarò per cena.»

«Non si preoccupi troverò il libro», rispose sollecito il sovrintendente, «e tranquillizzerò Marzia... sa, le notizie qui girano in fretta e tendono a ingigantirsi.»

«Grazie...» farfugliò Berté, mentre i barellieri lo portavano giù dalle scale e lo caricavano sull’autoambulanza, destinazione ospedale di Rapallo.

Quando la Marzia saprà, cosa penserà di me? Che sono un temerario? Un eroe?

No, un fesso. Aveva fatto anche la crostata!

La Bastarda non aveva pietà... ma ragione sì.

Di nuovo un risveglio.

Aprì una fessura di palpebra e vide un soffitto bianco sopra di sé.

Delle ore appena trascorse aveva un ricordo molto vago: il trasporto in ospedale sulla lettiga con accanto Parodi che non la smetteva di parlare, l’entrata in sala operatoria e poi il sonno dell’anestesia.

Sbatté gli occhi e si accorse di volti ancora indistinti chini sopra di lui.

La nonna Peppa e la Patty... ma c’erano anche la Marzia e la Graffiani.

Tutte lo fissavano con espressione preoccupata.

La nonna aveva il viso corrucciato, come sempre, ma lui colse tenerezza nei suoi occhi intelligenti. La Patty ostentava un’espressione sdolcinata, da romanzo Harmony. Gli sembrò di sentire la sua voce che gli diceva: «amorino mio, come sei ridotto!»

Berté sbatté le palpebre e i volti della nonna e della Patty si dissolsero in un soffio, lasciando quelli della Graffiani e della Marzia.

Berté spalancò gli occhi.

In contemporanea la Marzia chiese «come stai?» e la Graffiani «come sta, dottore?»

Avrebbe voluto rispondere: bene, ma aveva la bocca impastata. Mosse il braccio sano e alzò il pollice in segno di ok.

Le due sembrarono contente.

«Ci ha fatto prendere un bello spavento!» sospirò la Graffiani. «Non so se il dottor Terani fosse più soddisfatto del risultato o più fuori di sé per come lei si è comportato. L’ho chiamato poco fa, anche se sono le tre del mattino: voleva essere informato sull’esito del suo intervento.»

Berté se lo immaginò che tuonava: «Mi pareva che non mi facesse una cazzata! Lei Berté mi sconvolge tutti i piani, mi scombussola le regole, mi fa svegliare pure di notte, mi farà morire, mi, mi...»

Pur rintronato come si sentiva, gli scappò una risatina.

«Sarà curioso di sapere com’è andata», gli disse ammiccante la Graffiani, mentre la Marzia estraeva dalla borsa il cellulare e usciva in corridoio per rispondere.

Berté annuì. Era curioso, sì, ma lo era anche di sapere chi telefonasse alla Marzia alle tre del mattino. E lei doveva rispondere per forza?

«Allora, in attesa che il primario mi cacci», proseguì la Graffiani, «le dirò quello che non può sapere.»

«Il Carraro ha confessato?» domandò Berté.

«Non è ancora in grado di parlare. In ogni caso abbiamo diverse prove a suo carico, ora. Lei aveva visto giusto con Irina... e ha fatto bene anche a minacciarla. Poco dopo la sua uscita dall’ufficio, la Radu si è decisa a parlare con me.»

Berté abbozzò un altro faticoso sorriso.

«Abbiamo cercato di contattarla, Berté, ma lei non ha risposto al cellulare.»

«Se la Radu avesse parlato prima...» sussurrò Berté, maledicendo ancora una volta i reticenti.

«Lei si sarebbe risparmiato una coltellata.»

«Irina è la domestica anche del Carraro...» disse Berté.

«Sì, lavorava da entrambi. La Saturno però la trattava con distacco, invece il Carraro si confidava con lei e le parlava spesso della sua disperazione per l’abbandono subito. Un giorno le propose un accordo: lei gli avrebbe riferito tutto ciò che scopriva della vita e degli spostamenti della sua ex e lui, a ogni informazione, le avrebbe dato cinquanta euro. La Radu accettò».

Berté si congratulò con se stesso: la ricostruzione che aveva fatto era corretta.

«Lunedì sera, al suo arrivo da Asti, la Saturno aveva informato Irina che se ne sarebbe andata per sempre da Lungariva, quindi era meglio che lei cominciasse a cercarsi un altro lavoro. Non le ha raccontato i particolari, ma Irina aveva intuito che sarebbe andata lontano, per seguire un altro uomo. La Saturno solitamente non si lasciava andare alle confidenze, ci ha detto la Radu, ma quella sera era esasperata e si era sfogata definendo il Carraro una sanguisuga, un uomo insulso, senza più attrattive per lei. Ad avvalorare la confidenza le aveva chiesto di tornare il mattino dopo e iniziare a svuotare la casa, buttando via le prime cianfrusaglie. Con queste corpose informazioni, prima di recarsi al lavoro notturno, la Radu è corsa dal Carraro e gli ha riferito tutto. Così, inconsapevolmente, ha venduto la vita della Saturno per cinquanta euro.

«Dovevamo pensarci subito...» balbettò Berté.

«Quando la mattina del martedì Irina ha trovato il cadavere, ha sospettato subito del Carraro, anche se non aveva prove certe. Si è spaventata da morire, temendo di essere accusata di complicità, e ha deciso di creare una messinscena per allontanare i sospetti dal Carraro. Così si è infilata i guanti di gomma, ha inserito le monete in bocca alla vittima e le ha appoggiato i tre tarocchi sul petto.»

Se l’assassino non è intelligente, nemmeno chi lo vuole proteggere qui fa una gran figura, pensò Berté, alzando il braccio destro per fermare la Graffiani.

Aveva capito subito che c’era qualcosa di poco intelligente in quella messinscena.

«Il Carraro l’ha minacciata?» domandò.

«Lei sostiene di no, e in effetti se il Carraro l’avesse fatto sarebbe stato come autoaccusarsi. Ma Irina, anche se non era certa della sua colpevolezza, aveva paura di lui e temeva per la propria vita. Ci ha descritto un uomo instabile di nervi, succubo della madre e tormentato dai rimorsi. Poco dopo la testimonianza della Radu è arrivata quella del Barbagallo; a questo punto ho mandato Parodi con due uomini a casa del Carraro, per prelevarlo, ma lei era già partito in quarta, come nel Far West!» il rimprovero era affettuoso, ma deciso.

«Non sarei io, dottoressa, se mi comportassi bene», chiosò rauco Berté, «o mi tenete così o...»

La Graffiani annuì.

Anche la coscienza.

«La sua decisione intempestiva però ci ha risparmiato giorni di ricerche: il Carraro stava per fuggire. In camera sua abbiamo trovato una valigia pronta con i suoi abiti e i soldi sottratti alla Saturno. La prova che lo inchioda definitivamente. Lui amava e odiava quella donna. Irina mi ha detto che lui la definiva la sua ‘dea della rovina’. Quella che ancora non è chiara è l’intenzionalità: voleva solo rubare o era andato anche per ucciderla?»

«Già...» disse Berté, che in realtà si stava chiedendo dove fosse finita la Marzia.

Telefonata lunga.

Forse era uscita per eccesso di discrezione? Sapeva che la Graffiani gli avrebbe parlato dell’indagine e si era eclissata.

Sarà...

Quando si aprì la porta Berté sperò fosse lei, invece entrò un medico. Fisico prestante, capelli folti e scuri come le ciglia. Occhi neri e intelligenti.

«Sono il dottor Filippi. Come si sente?» domandò con accento laziale.

Un altro trasferito qui, pensò Berté provando un istintivo moto di simpatia verso di lui. Sui motivi del trasferimento preferì sorvolare.

«Avrei preferito incontrarla in un altro luogo», disse tentando un sorrisetto.

Alcuni mesi prima lui e il primario si erano sentiti al telefono, per il delitto del Miramare, ricordò Berté, mentre gli porgeva la destra.

«Cosa mi avete fatto?» domandò con voce debole.

«Ha riportato una ferita profonda. L’emorragia è stata importante, ma siamo intervenuti in tempo. Il fatto che lei indossasse un cappotto ha attutito il colpo...»

«È stato un libro a salvarmi...» disse Berté, «quello che avevo nella tasca interna... ha deviato il colpo...»

«Ah! Ho sempre sostenuto che un buon libro fa bene alla salute!» rise il medico. «Ma tornando all’intervento... Purtroppo la lama ha leso il tendine prossimale del bicipite e abbiamo dovuto ricucirlo alle ossa della sua spalla e l’intervento è durato più del previsto. La terremo sotto osservazione per le prossime quarantotto ore, poi la rimanderemo a casa con un tutore che dovrà tenere per almeno quattro settimane, e per i prossimi mesi non dovrà sollevare pesi. Una scocciatura, immagino, ma in fondo è stato fortunato... con un po’ di pazienza si riprenderà completamente.»

Berté annuì non proprio contento.

«Mi hanno detto che si è ferito catturando un assassino», disse il primario controllando la flebo. «le faccio i miei complimenti. Io sono figlio di un generale, e in casa mia le ferite di guerra, o che si riportano per onorare i propri doveri, sono considerate sacre.»

«Più che altro non riusciamo a tenerlo sotto controllo, il nostro eroe!» chiuse la Graffiani alzandosi e porgendo la mano al primario. «Bene, io vado, Berté. I ragazzi e Parodi la salutano, vedrà che domani, appena possibile, verranno tutti da lei in pellegrinaggio.»

«Ora lasciamo riposare il guerriero», il medico guardò l’orologio da polso, «il braccio è salvo, ma l’intervento è stato comunque invasivo.»

«Dottoressa», disse Berté alla Graffiani, «non mi va di saperla in giro di notte, da sola.»

«Grazie per il pensiero gentile», disse lei commossa, «ma non si preoccupi: c’è un agente che mi aspetta qui sotto con l’auto.»

La Graffiani uscì portandosi dietro il suo profumo di donna pratica e amabile e, quando anche il dottor Filippi la seguì, Berté si ritrovò da solo nella stanza d’ospedale.

Dov’era finita la Marzia?

O forse si era solo sognato che ci fosse anche lei?

No, aveva visto il suo volto, e anche sentito bene lo squillo del telefono.

In quel momento la porta si aprì e lei riapparve: bella anche alle tre del mattino.

Aveva sulle spalle una mantella blu con un collo di pelliccia color miele e sotto uno dei suoi abiti di lana fluttuanti e morbidi, di colore scuro, che non sottolineava le forme generose, ma le accompagnava. Gli occhi verdi, così seducenti, anche senza trucco, lo fissavano un po’ colpevoli.

«Marzia...» riuscì solo a dirle.

Lei si avvicinò e gli diede un bacio leggero sulla fronte, poi sedette di nuovo su una delle due sedie poste accanto al letto.

«Ti fermi qui?» domandò timido.

«Non penserai che ti lasci da solo?»

«Ma... dove dormirai?»

«Non fare troppe domande, signor eroe ‘di cui poi parleremo’» disse usando un tono severo, accompagnato però da uno dei suoi sorrisi al miele.

«Sono un eroe per te?» le chiese Berté. Gli interessava saperlo non tanto per il suo ego, ma per fargliela alla coscienza.

Ti pareva!

«Hai corso un bel rischio, Luigi», gli rispose lei sistemandogli le coperte. «Promettimi che non lo farai mai più. Non mi interessa un eroe morto. È stupido esporsi ai pericoli quando si può evitarlo.»

Berté avvertì il ridacchiare della bastarda che gli echeggiava nella testa.

«Sai come sono fatto...»

«Sì, ti ho visto in azione.»

«Ce l’hai ancora con me?»

«No... ma, come hai appena sperimentato sulla tua pelle, l’impulsività porta sempre guai.»

Perché notava nei suoi occhi una strana inquietudine?

«Lo vuoi ancora un uomo impulsivo?»

E patetico...?

La Marzia in risposta gli diede un bacio sulla bocca. Labbra morbide e dolci.

Ma sfuggenti... sì, decisamente sfuggenti.

Lui, invece, nonostante le condizioni in cui si trovava si sentiva esplodere di desiderio verace e terrone e l’avrebbe stesa sul letto dell’ospedale facendole qualunque cosa, purché non casta.

Altro che poliziotti americani!

«Adesso la priorità è che tu guarisca.»

«Sai perché ti ho fatto questa domanda? Perché ho una confessione da farti... una comunicazione, una decisione importante che coinvolge anche te.»

La Marzia lo guardò interessata.

«Avanti, signor commissario, parli! Sono curiosa.»

Berté stava per dirle tutto, ma poi si fermò. Prima voleva sapere chi le aveva telefonato.

Calabrese doc.

«Chi era al telefono?» chiese cercando di assumere un’espressione indifferente.

Lei arrossì.

Porca miseria! Aveva un altro!

Il Servello?

«Era... Ma che importa? Dimmi il segreto, ti prego, non resisto più!» gli sussurrò avvicinando di nuovo le labbra alle sue.

Che doveva fare?

La parte terrona urlava dentro di lui esigendo una risposta, la parte nordica invece non vedeva l’ora di proporle di mettersi con lui davvero, ufficialmente, insomma. Alla fine sparò d’un fiato:

«Ho affittato una casa per noi... una casa gialla e grande dove potremo vivere insieme... se tu mi vorrai, coda da rockettaro e carattere di mer... pessimo, compresi».

Se voleva spiazzarla c’era riuscito.

La Marzia lo guardò a bocca aperta senza riuscire a ribattere.

«Te lo avrei detto a cena, ma poi è andata diversamente...» la fissò con intensità nella speranza che lei si decidesse a commentare, ma lei seguitava a tacere.

«Prenditi il tempo che vuoi», proseguì Berté, «so che non sarà facile parlare con tuo marito, ma tu capisci che non posso più vivere alla pensione Aurora... mi sento un cuculo, finché tu ci vivi con il Pestarino io...»

Finalmente era riuscito a dirlo!

Ci voleva una pugnalata.

La Marzia lo fissò ancora per qualche istante prima di fare un altro di quei suoi meravigliosi sorrisi.

«Sarai anche scorbutico», mormorò «impulsivo, caustico, rigido, testardo...»

Berté annuì sentendo che la coscienza faceva altrettanto.

«Ma io ti amo, Luigi!»

«È un sì, allora?»

La Marzia rise, non una risata squillante, ma almeno dimostrava che si era lasciata alle spalle l’amarezza.

«Sei davvero incorreggibile! Non dimenticherò come ti sei comportato... ma ti darò un’altra opportunità. Concedimi del tempo, però, non si può chiudere un matrimonio in pochi giorni. Anche perché... Prima al telefono... era...»

«Chi cazzo era, Marzia?»

«Non alzare di nuovo la voce, Luigi, ti prego! Mi ha chiamato Marco, da un ospedale di Città del Capo: è ricoverato, anche lui. Gli è caduta una cassa su un piede e glielo ha fratturato. È già stato operato, non ha voluto dirmelo prima per non farmi preoccupare... rientrerà in aereo dopodomani.»

La Marzia ora non sorrideva più. Berté rimase così, senza parole.

Il Pestarino gli aveva appena rubato il palcoscenico.

Inimmaginabile. Nello stesso giorno lui e il suo rivale erano finiti sotto i ferri!

Risultato: la Marzia avrebbe dovuto occuparsi della convalescenza di suo marito, e non della sua.

Fregato!

Si doveva rassegnare.

Avesse proposto alla Patty di vivere con lui nella casa gialla, quella avrebbe fatto i salti di gioia, sarebbe subito corsa all’Ikea a comperare tonnellate di baggianate tipo candele, mestoli, poltrone su cui era impossibile sedersi...

Ma lui non amava più la Patty.

«Quindi dovrai occuparti di lui... e non potrai certo digli di noi», constatò con un’espressione da bassethound.

«Beh... si è fatto male a un piede, mica l’hanno operato al cuore! Faremo le cose... per bene, vedrai.»

Eccola la sua signora Maigret, sempre assennata, sempre tranquilla. Il contrario di lui che si accendeva subito come un fiammifero.

Rimasero di nuovo in silenzio. Berté iniziava a sentire una grande stanchezza e il desiderio di abbandonarsi al sonno, ma lei gli prese la mano, stringendola forte.

«Dov’è questa casa così... speciale, visto che ti ha spinto a propormi di viverci con te e cambiare vita?» gli chiese con una lacrima fra le ciglia.

«È in via Modigliani... una villetta antica, simile alla tua pensione, così sentirai meno il distacco. Appeno esco di qui ti ci porto. Ti piacerà, ne sono certo. E insieme scopriremo il segreto di Lacostone...»

Non ce la faceva proprio a restare serio, e l’anestesia gli aveva tolto ogni freno inibitorio, quindi diceva tutto quello che gli passava per la mente.

La Marzia lo guardò interrogativa.

«Di chi?»

«Un tizio che continua a passare per via Modigliani, sempre in scooter e sempre in Lacoste.»

Questa volta la Marzia scoppiò a ridere.

«Ma quale mistero? Il dottor Turrini, un bravissimo medico condotto, ha lo studio in fondo a via Modigliani, ma è sempre in giro a visitare malati.»

Berté restò un po’ deluso.

Anche per questo ‘caso’ la soluzione era banale.

E lui che ci aveva visto dietro un mistero!

«Ascolta, Luigi», disse dolcemente la Marzia cambiando discorso, «dovrò scegliere il momento adatto per parlare a Marco, ma... ci vengo nella casa gialla! Non vedo l’ora di vederla.»

Berté chiuse gli occhi, sentendosi stanco come mai si era sentito dai tempi di una devastante varicella fatta a quindici anni, ma anche beato, nonostante la nausea causata dall’anestesia e il dolore che iniziava a farsi risentire.

Il Pestarino si era spappolato un piede?

Va bene, pazienza.

Sarebbe rimasto anche lievemente claudicante?

Va bene, pazienza.

L’importante era che lei accettasse di lasciarlo e di andare a vivere con lui. Al comandante ci avrebbero pensato dopo.

«Nella casa gialla ti farò impazzire d’amore», biascicò cadendo in una specie di dormiveglia, mentre lei gli accarezzava la fronte e gli sistemava la coda arruffata sul cuscino.

Pochi attimi e si risvegliò.

Avrebbe tanto voluto dormire come un sasso, ma le troppe emozioni glielo impedivano.

Non riusciva a lasciarsi andare al sonno e a tratti apriva gli occhi controllando che la Marzia fosse ancora accanto a lui.

C’era, seduta su una sedia, e lo guardava con inequivocabile amore.

Per addormentarsi pensò allora di usare un vecchio espediente che usava da bambino: raccontarsi a mente le fiabe preferite. Spesso non arrivava al finale.

C’era una storia che non aveva avuto il tempo di concludere: il racconto inventato in preda alla rabbia degli ammazzati... un racconto che, come quello del ‘libro salvavita’, poteva aiutarlo in quel frangente.

E così, in attesa di scriverlo nei lunghi tempi della convalescenza, provò a impapocchiarne a mente il finale.

Quello almeno poteva farlo.

Erba miseria

Alle dieci del mattino Loretta suonò decisa il campanello di Amilcare de’ Rossi.

Dopo qualche secondo la porta si aprì e lui comparve, reggendo in mano una tazza di caffè.

Loretta lo osservò con un tremito d’emozione.

«Sono la dottoressa Loy» disse «e vengo a nome della casa editrice IDEM.»

Lo stupore si dipinse sul viso asciutto del de’ Rossi.

«Prego, entri!» la invitò con un gesto della mano.

Loretta varcò la soglia e si diresse verso il piccolo salotto che l’uomo le indicava.

«Si accomodi. Stavo bevendo un caffè, ne vuole uno?» le chiese con una nota di cordialità che infastidì Loretta.

Crudele e falso, pensò.

«No, no, la ringrazio», rispose con altrettanta cortesia.

«Ah! Che piacere la sua visita, signorina Loy! Quindi lei è qui per...»

«Per il suo manoscritto.»

Le pupille del de Rossi si accesero di interesse.

«Sono molto sorpreso, non glielo nascondo. Questo è il sesto plico che spedisco, del mio ultimo libro intendo... ma nella mia vita ho spedito decine di dattiloscritti. Molti non mi hanno nemmeno risposto, pochi l’hanno fatto con un rifiuto, nessuno mi ha mai pubblicato. Anni di lavoro, notti insonni, centinaia di fogli e toner consumati, lampadine fulminate... Per niente. Lei è la prima incaricata di una casa editrice che desidera parlarmi: mi permetta di chiederle come mai.»

Mio Dio, pensò Loretta, che gli rispondo?

«Il nostro editore ha letto il suo manoscritto e gli è piaciuto molto», buttò fuori poco convinta.

L’uomo la fissò per qualche istante, poi scoppiò a ridere scuotendo la testa.

«Lei non sa mentire.»

«Perché dovrei mentirle?»

«Questo lo ignoro, ma sono certo che il suo editore non ha nemmeno sfogliato il mio faldone... perché è morto prima di poterlo fare.»

Loretta si trovò senza parole.

«E anche se l’avesse aperto», proseguì sarcastico il De Rossi, «questa volta avrebbe trovato solo fogli bianchi: trecentoventi fogli perfettamente intonsi.»

Loretta sentì una stretta allo stomaco.

«Mi sembra una follia», mormorò senza fissarlo negli occhi.

«No, signorina, non dal mio punto di vista. Si tratta della piccola vendetta di chi non ha mai visto pubblicati i propri libri.»

«Se non sono stati pubblicati significa che non valevano!»

«Forse, ma che mi dice di quelli che invece pubblicate, e vendono solo una manciata di copie? Sono piaciuti a voi, ma non al pubblico. E quelli che pubblicate, ma poi non promuovete? Abbandonati al loro destino, saranno solo nomi che si perderanno nell’oblio.»

«Sono i lettori che decretano il successo, signor Amilcare, non noi. Proprio questo è il mistero, direi il fascino, dei libri. E questo non si inventa a tavolino.»

«I libri però devono arrivare ai lettori!»

«Non si possono pubblicare tutti, signor de’ Rossi! In Italia sono più gli scrittori dei lettori, lo sa?»

«Un luogo comune che ripetete spesso.»

«Non un luogo comune, ma la verità. Noi cerchiamo di scegliere i migliori», affermò Loretta, maledicendosi per la situazione in cui si era cacciata. Cosa pensava di ottenere discutendo con quel pazzo, forse una confessione?

«Il mondo sta cambiando in fretta, cara signorina», affermò il de’ Rossi, «e le nuove tecnologie digitali faranno scomparire gli editori; così gli autori arriveranno al pubblico senza il vostro filtro. Io non ci sarò più, ma in futuro sarà così.»

Loretta sbarrò gli occhi inorridita.

«Ah, adesso capisco! Lei vuole proprio eliminarci!»

«Non sono io a volerlo, è il progresso che lo farà», decretò il de’ Rossi.

«In editoria è necessaria una guida che sappia interpretare i gusti, indirizzare i lettori e distribuisca testi editati e corretti. Si ricordi che se esistono i grandi capolavori della letteratura è merito degli editori che ci hanno creduto e investito, caro signore!»

Il de’ Rossi non ribatté, si limitò a guardarla con un mellifluo sorrisetto sulle labbra che a Loretta sembrò più un ghigno satanico.

«Allora ho ragione!» strillò lei sentendosi travolgere dalla paura. «Lei è un assassino! Le persone che hanno ricevuto il suo maledetto pacco azzurro sono tutte morte! Che veleno usa?»

«Veleno? Non sia ridicola!» Il de’ Rossi scosse la testa. «Ho solo spedito dei fogli bianchi. Non saranno idonei alla pubblicazione, ma non sono pericolosi.»

«E allora che spiegazione mi dà per quelle morti?»

Il de’ Rossi ridacchiò.

«Mah, non lo so. Forse il Dio degli scrittori inascoltati ha fatto giustizia!»

«Non sia ridicolo lei, ora!» esclamò Loretta cercando di recuperare almeno un briciolo di razionalità. Ma il suo corpo tremava e il cuore batteva impazzito.

«Forse valiamo veramente poco, o invece chi ci ha giudicati indegni di una pubblicazione non aveva la competenza per farlo e non ha intuito il nostro valore...», proseguì l’uomo fissandola negli occhi. Poi le puntò l’indice declamando: «Ma noi siamo come l’erba miseria, attecchiamo ovunque ed è impossibile estirparci. Ora ci espanderemo attraverso il web».

«Io la denuncerò! La farò internare!» gridò Loretta.

Amilcare de’ Rossi non si scompose e continuò a fissarla sarcastico.

«Si sbrighi allora... perché ieri ho spedito il pacco anche a lei.»

Loretta sentì la sua sicurezza frantumarsi in una miriade di pezzi: davanti ai suoi occhi non esisteva più niente se non quell’omuncolo dagli occhietti maligni e dai temibili poteri che voleva distruggere il mondo in cui lei credeva.

No, non glielo avrebbe permesso!

Afferrò un fermacarte, una rosa del deserto incollata a un piedistallo trasparente e con quello lo colpì alla testa.

L’uomo, colto di sorpresa, non alzò nemmeno le braccia per difendersi. Cadde a terra di schianto dopo aver battuto una tempia contro lo spigolo della credenza.

Un rivolo di sangue sgorgò dalla ferita. Loretta abbassò la rosa del deserto e respirò a fondo.

«Erba miseria! Vai ad attecchire all’inferno, ora!» esclamò.

Fece due respiri profondi per riprendersi, pensando che doveva uscire in fretta da quel posto asfissiante.

Si guardò intorno: non aveva toccato nulla... salvo la rosa del deserto.

La raccolse da terra dov’era caduta e la infilò nella cartella. Poi aprì la porta prendendo la maniglia con un lembo della giacca.

Nessuno sapeva chi fosse Amilcare de’ Rossi tranne lei, e nessuno avrebbe potuto collegare le loro due esistenze.

Uscì guardinga richiudendo l’uscio dietro di sé. Scese le scale e aprì il portoncino sempre coprendo la maniglia con un lembo della giacca.

Nella via non passava nessuno.

Con un sospiro soddisfatto Loretta attraversò la strada.

Uccidere tutti gli editori e gli autori di successo! Che idea si era messo in mente quel frustrato?

L’editoria non sarebbe mai morta, anche se cercavano di attaccarla in ogni modo.

Gli autori! Quell’insopportabile pletora di presuntuosi, egocentrici e insicuri, avrebbero sempre avuto bisogno di una guida e di un consiglio!

Attraversò la strada distratta dai suoi pensieri e non si accorse della Honda dorata che, uscita all’improvviso dall’incrocio, le piombava addosso con la prepotenza dei suoi 1800 cc.

Il volo che descrisse Loretta sembrava quello di un angelo che anela al cielo.

Si librò leggera con la gonna alzata e i capelli fluttuanti, in un’inutile ascesa.

Quando alla fine precipitò sul selciato nero, la rosa del deserto, uscita dalla sua cartella, volò dritta come un meteorite a conficcarsi nella sua testa.