LA LENTA NEVICATA DEI GIORNI
Sempre
Non passa, non passa, non passa per nessuno di noi Prima li contarono.
Poi spuntarono i nomi.
Poi li contarono di nuovo perché non erano piú dei nomi, soltanto dei numeri.
Poi andarono a prenderli, casa per casa.
Poi li rastrellarono, casa per casa.
Poi li radunarono da qualche parte.
Poi fecero l'appello, ed ebbero un numero anche i bambini in braccio alle madri, i neonati attaccati al seno, i vecchi morenti.
Poi li caricarono sui camion.
Poi li caricarono sui treni.
Poi frustarono e spararono e gridarono e usarono il calcio dei fucili per spingerli e rompere le ossa e usarono gli stivali per fare male, incitare, spingere, insultare, offendere, ferire, uccidere non di rado.
Poi li stiparono sui vagoni merci. Talvolta per terra c'era qualche filo di paglia, piú spesso niente: solo legno freddo e buio e sporco e puzza e odore di morte.
Poi i treni viaggiarono lungo i binari di tutta Europa, avanti carichi indietro vuoti, e l'Europa divenne un reticolo di binari dove i treni partivano pieni e tornavano vuoti; e quando erano pieni era silenzio di paura, corpi stretti e buio, e quando erano vuoti erano silenzio di morte, buio. E tutta l'Europa era piena di treni che andavano pieni e venivano vuoti ma era vuota di domande, e tutta l'Europa era piena di quel silenzio dentro che era silenzio di paura e fuori chissà che silenzio era, perché noi che eravamo dentro sentivamo solo quello, il silenzio fuori non arrivava perché il vagone era piombato e buio.
Poi i treni arrivavano alla fine del binario e alla fine del binario c'era una rampa, no, ce n'erano mille e piú, di rampe, ma era sempre buio pesto, solo un faro che ti abbagliava quando scendevi perché tu venivi dal buio e il faro negli occhi accecava, invece di illuminare.
Poi i corpi scendevano dal treno e toccavano terra sulla rampa, ed erano corpi stanchi e anchilosati e atterriti e non c'era niente da capire, niente da capire.
Poi c'erano i lunghi e lenti serpenti di corpi che andavano in una direzione, e nessuno aveva piú nulla in mano perché tutto ti avevano portato via: in mano c'era la mano di un figlio, tante volte, in braccio c'era il corpicino morbido e caldo di un figlio, tante volte.
E faceva freddo. Sempre. Tanto freddo.
Poi c'erano le baracche dove dovevi spogliarti anche se faceva sempre tanto freddo. E mani che spogliavano i figli, i vecchi.
Poi c'erano le docce che docce non erano, maledette docce che docce non erano.
Poi c'era il gas che usciva dalle docce, il respiro che mancava, le bocche che si spalancavano, gli occhi che uscivano dalle orbite per l'aria che mancava e la paura che spalancava i cuori, le viscere, la mente, i ricordi, i rimpianti, lo strazio, la paura, la paura, lo strazio, il dolore, il petto che scoppiava, la gola che si chiudeva, la bocca che si apriva, gli occhi che si sbarravano.
Poi c'erano i carretti su cui si ammassavano i corpi che la morte aveva spalancato e chiuso.
Poi c'erano le bocche dei crematori, quelle per noi erano sempre aperte e cosi sono rimaste, da allora.
Sempre aperte.
Un bagliore di fuoco là in fondo, dove la pala ci scaraventa, uno dopo l'altro, uno dopo l'altro.
Poi?
Poi c'è la ciminiera del forno, alta e scura eppure nel buio della notte, nella luce del giorno, si distingue da vicino e da lontano. Anche da tremendamente lontano, si vede la ciminiera.
Poi?
Poi dalla ciminiera esce un fumo scuro, piú scuro della notte e piú scuro dei giorni, allora come adesso.
Il fumo sale alto perché è leggero come la morte.
Il fumo sale fin dove non si vede piú, si perde nella volta del cielo azzurro e lo tinge di grigio ma non è piú fumo, è diventato il colore del cielo.
E poi?
E poi comincia a scendere una neve grigia come quel fumo. Una neve grigia e lenta e pesante che neve non è ma è come carta bruciata, erosa dal fuoco, impalpabile perché quando la sfiori o ti sfiora s'annienta nell'aria, muore dispersa nel niente, eppure se non la sfiori o non ti sfiora prima o poi cade per terra e lascia una specie di cenere che cenere non è ma neve di ciminiera, neve di forno crematorio, neve di camera a gas, neve di corpi spogliati nudi, neve di rampa di Auschwitz, neve di vagoni piombati che partivano pieni e tornavano vuoti, neve di appelli per nome e per numero, neve di rastrellamenti casa per casa, neve di bambini in braccio alle madri, di neonati attaccati al seno, di vecchi morenti, neve di disperazione e paura, neve di tutto quel che è stato ed è ancora e non passa, non passa, non passa per nessuno di noi.
Poi
Il Buon Ritorno
(1944-1946)
Alla fine della guerra, tornarono a casa.
Era una bella giornata di sole, non troppo calda, con una brezza che rischiarava il cielo e lucidava il mare laggiú, sempre piú lontano.
André e Fernande camminavano lungo la strada, verso la stazione addossata alla collina. La guerra non era finita dappertutto, ma soltanto nel tratto di costa dove avevano vissuto in quegli ultimi venti mesi, lunghi come un'eternità. Fernande si muoveva lenta dietro ad André, gli occhi quasi sempre fermi sulle sue spalle un poco curve, come di vecchio. Ogni tanto si voltava a guardare il mare, che era sempre piú piccolo e lontano, nascosto fra le case e gli alberi infoltiti dalla stagione gentile che era venuta, incurante della guerra.
Davanti alla stazione c'era una folla scomposta, mucchietti di gente sparpagliata, qualche carretto, molte valigie. Tanti sguardi sperduti, che si alzavano spesso verso il cielo fatato di quella giornata. Ma dentro, nel piccolo atrio che non aveva piú porte perché qualche bombardamento lontano le aveva sfondate tempo prima, c'era il caos. Una massa informe di anime che si muovevano, stavano ferme, correvano qua e là fra i binari. André entrò per primo, fece due passi e poi si girò per cercarla. Si guardarono un momento negli occhi, lui le porse un braccio, lei lo afferrò. Le girava la testa e non solo quella. Lo stomaco, il cuore, la pancia.
– Sto male, André.
– Lo so. Aggrappati a me, – sorrise. – Dopo tanto tempo, ti fa paura la gente. Il mondo. Vieni, tesoro.
Fernande appoggiò la testa contro la sua spalla, cercò un nido in quell'incavo caldo e morbido mentre con la coda dell'occhio riprovava a guardarsi intorno. C'era odore di umanità smarrita che non sapeva dove andare perché non c'era piú nessuna destinazione che sapesse anche solo vagamente di casa. Eppure partivano ugualmente, come se muoversi fosse l'unico modo per riprendersi la vita.
Fernande conosceva quell'odore, l'aveva già sentito e proprio in quel luogo, ma André non poteva immaginare che lei avesse piú paura del passato che del presente, molta di piú, e che il capogiro fosse un dejà-vu preciso come uno specchio appena lustrato, lo sgomento di un ritorno in quel luogo, in quel momento, in quella stessa situazione. Solo che ora era dentro, precipitata nella vita, mentre allora era capitata li per caso.
Dopo molto tempo, André prese la valigia in una mano e Fernande nell'altra. S'incamminarono verso il binario 2, quello dove la palina indicava NICE. André si augurò che la guerra non avesse capovolto anche l'orientamento, ma non chiese informazioni a nessuno. Avanzavano facendosi strada fra la gente, sembrava impossibile riuscire a percorrere quei pochi metri. Fernande si teneva stretta alla mano di André, ma era scivolosa di sudore e ogni tanto le sfuggiva e allora lei si spingeva in avanti, si tuffava verso di lui per non perderlo. Avanzavano uno dietro all'altra, come una lama fra la folla.
Il treno arrivò poco dopo. André lo vide che sbuffava ancora in lontananza, si voltò verso Fernande e le sorrise, come a dirle: vedi che siamo fortunati! vedi che tutto ricomincia, che forse la buona stella è tornata, che non devi avere paura… Il treno si avvicinò lentamente, si sgranò lungo il binario sempre piú piano, vagone dopo vagone: sembrava non dovesse fermarsi piú, condannando la gente ad aspettarlo invano, a vederlo passare adagio adagio, vagone dopo vagone e poi piú niente. Era carico di un'altra folla, ammassata negli scompartimenti, affacciata ai finestrini per respirare, per vedere. A un certo punto André – senza mai lasciare la mano di Fernande – s'incamminò velocemente in senso inverso, cercando di rincorrere la coda di quel treno che non finiva mai. Sgomitò e si scontrò con qualche spalla: sperava che laggiú in fondo sarebbe stato piú facile salire a bordo.
Il treno non era ancora fermo del tutto, che André spinse Fernande su per gli scalini di ferro dell'ultimo vagone. La porta non c'era piú, come se la guerra si fosse divertita a scardinare le barriere. Fernande passò fra due persone che ostruivano il passaggio sgusciando fra una e l'altra senza vederle, poi si voltò. Ma André non stava salendo.
– Vai avanti, trova un posto! – urlò da fuori. – Provo a passarti la valigia dalla finestra, che da qui non ci riesco di sicuro!
Fernande fece no con la testa ma André non se ne accorse: la faccia di lei era quasi sparita dietro la massa di gente stipata nel vagone. Allora attraversò lo stretto corridoio, dirigendosi verso la testa del treno: scavalcò bambini e fagotti, qualche valigia ogni tanto. Giunta al terzo scompartimento, un po' meno pieno dei primi due, si tuffò dentro, quasi cascando addosso a un signore con un cappotto pesante, malgrado l'inizio d'estate. Chiese scusa e s'affacciò al finestrino per ritrovarlo.
– André!
Era un poco piú in là, si voltò.
In quell'istante, il treno si mosse. Ancora non avanzò: produsse uno scossone accompagnato da un cigolio sordo e lungo. Poi sbuffò, s'incamminò ma frenò subito, facendo sobbalzare persone e cose, scivolò indietro di qualche metro, qualcuno fischiò e il treno parti.
Fernande lanciò un grido che non era neanche piú «André!», ma solo sgomento.
Non lo vedeva piú, in mezzo alla folla rimasta a terra che si sbracciava e gridava delusa. E si senti morire, di una morte lenta e torturante, infinitamente piú lenta dei venti mesi trascorsi nel nascondiglio, ad aspettare che la guerra finisse e che i tedeschi la smettessero di dare la caccia agli ebrei. Era impietrita, in piedi, accanto al finestrino abbassato, stretta fra corpi e gambe, sul collo il fiato caldo di un bambino in braccio a sua madre, che piagnucolava piano, per non disturbare.
Non lo rivedrò mai piú.
Che sarà di me.
Dove sto andando.
Moriva di paura e smarrimento, abbandonata da André rimasto sul binario con la valigia, stupido che era stato a lasciarla salire da sola. Moriva eppure sentiva qualcosa d'altro, in fondo a se stessa: una vertigine tutta diversa, come di una finestra che si apre e dietro ci sono spazi sconfinati di libertà, di possibilità, chissà dove e quando. Moriva proprio nello strano momento in cui tornava a sentirsi padrona di se stessa, e provava a tirare un respiro profondo per riempire i polmoni, anche se l'aria era quella impestata del vagone sovraccarico.
Quando ebbe la certezza che non l'avrebbe mai piú rivisto, che sarebbe morta li cosi, in piedi su quel treno, alzò lo sguardo e lo vide davanti a sé. Aveva la disperazione negli occhi e quattro enormi gocce di sudore che, partite dalle tempie, scendevano verso il mento. Poco prima della fossetta in punta al mento che a Fernande faceva un po' ribrezzo perché era profonda e frastagliata come una cicatrice, le gocce si staccarono dalla pelle e cascarono sul bavero della giacca.
In quel momento André disse: «Fernande», che non era neanche una parola ma un gemito d'agonia, e lei pensò che se uno di loro due doveva morire, in quel terribile momento, quello era lui.
Non poté abbracciarla perché c'era un muro di persone che li separavano. La fissò a lungo, in silenzio. Poi tirò a fatica un braccio, al quale era attaccata la maledetta valigia. Era riuscito a salire per il rotto della cuffia, con il treno che già si muoveva e per fortuna aveva le porte sventrate dalla guerra. Con la forza della disperazione si era trascinato dietro la valigia per colpa della quale avevano rischiato di non trovarsi piú.
– Stavo per perderti, – disse Fernande con un tono pacato, come se tutto riguardasse qualcun altro.
– Anch'io, – disse André da dietro il muro di gente, prima di voltarsi e appoggiare la schiena alla parete di legno dello scompartimento.
– Pensa se ti avessi perso, – disse lei, a un tono abbastanza alto da farsi sentire attraverso la parete. Aveva solo lui al mondo. Intanto il treno aveva abbandonato il paese, ora andava lento sempre piú vicino al mare, lungo un interminabile filare di palme.
André chinò il capo verso il pavimento, non disse nulla.
Quante volte, in futuro, Fernande sarebbe tornata a quello strano momento fatto di due emozioni contrarie e inconciliabili: odio e amore, mancanza di vita e sua pienezza. Quante volte avrebbe sognato quel viaggio in treno senza di lui, verso chissà dove.
– Che paura, Fernande. Che paura, – disse André dopo un bel po'.
Poi il treno si fermò, ma non in una delle tante stazioni che costellavano la linea, alcune abbandonate e altre piene di gente che si accalcava con una frenesia disperata, cercando di salire a bordo. Si fermò in un tratto di costa, in una zona dove la ferrovia correva, e ancora corre perché tutto è rimasto come allora, quasi sulla battigia, là dove la stretta striscia di spiaggia finisce e comincia il mare.
In quel punto si apre una baia larga e protetta da due uncini di costa che chiudono il paesaggio con delle macchie di bosco disabitate, perché lassú in punta al Capo è quasi impossibile costruire una casa: la riva è scoscesa, il suolo tutto da dissodare. In fondo alla baia, c'è invece un'acqua cristallina e calma, il mare lambisce la spiaggia di sassi e impregna di salmastro i salici che crescono li dietro, c'è anche qualche cipresso e accanto alla ferrovia il muro di una vecchia casa, forse disabitata, tutto coperto da una buganvillea viola, sempre in fiore. Non un'anima viva. Tre gabbiani bianchi vanno sempre a riposarsi sulla spiaggia, scacciando la tribu di colombi che abita li. Un giorno ne hanno ucciso uno, per gioco, mentre volava. Precipitando ha lanciato un grido acuto, che si è interrotto con il tonfo del piccolo corpo contro la pietra.
Il treno si fermò li. Doveva lasciarne passare un altro che veniva dalla direzione opposta, ed era carico di soldati che non sapevano piú da che parte della guerra stavano.
Fernande aveva trovato un angolo dove potersi sedere – il signore con il cappotto era andato a cercare un altro posto anche se non l'avrebbe trovato e lo sapeva –, si alzò per affacciarsi al finestrino, respirare l'aria di mare. Era calda e mite. Il sole stava li, già alto. Esattamente nel punto in cui venti mesi prima, doppiato il Capo dopo un tempo interminabile, si erano trovati davanti la baia e lei aveva pensato che fossero quasi arrivati, invece era appena l'inizio della loro fuga.
Si sporse ancora di piú, forse per ritrovare quel giorno lontanissimo. – C'è il Capo, – disse. – Ti ricordi?
Ma André non senti. Si era appisolato in piedi, la valigia stretta fra i polpacci. E poi, quasi piegata in due attraverso il finestrino aperto, Fernande stava parlando non a lui ma all'aria, al cielo, al mare.
– Laggiú, – puntò tutto il braccio verso destra, rivolta a se stessa. – Il Capo, – ripeté dopo un po', mentre qualcuno sbuffava chissà se di caldo, di noia o di paura, perché il treno aveva fatto un passo, uno soltanto, piú un sussulto che una partenza. Poi era scivolato indietro con un cigolio lunghissimo, prima di fermarsi di nuovo bruscamente.
André si svegliò, udí la voce di lei e lentamente, con fatica, mentre urtava un passeggero, alzò lo sguardo verso lo scompartimento.
– Il Capo, – insistette lei. – Ti ricordi?
La donna che teneva in grembo il bambino, ora addormentato con la testa sulla sua spalla, si voltò a fissare André. Fernande invece continuava a guardare fuori, con il viso e il braccio protesi verso il mare.
– Mi ricordo, si. E la casa, la casa del sogno, la casa del Buon Ritorno… Sta di là, dall'altra parte… Ma mi sembra di vederla anche di qui. Ce l'ho davanti agli occhi, André, come quel giorno che siamo scappati con la barca. Ti ricordi?
André fece si con la testa, come poteva non ricordare, si sedette sulla valigia, provò a poggiare i gomiti sulle ginocchia ma non c'era spazio abbastanza.
Poi di colpo tutto scomparve dietro il treno pieno di soldati che passò cancellando il mare con un fischio lungo e lento. Poco dopo ripartirono.
Furono giorni e giorni di viaggio. Treni su treni. Una corriera scassata. A piedi qualche volta, André davanti con la valigia e lei qualche passo indietro, gli occhi quasi sempre fissi sulle spalle un poco curve di lui. Finché un giorno, chissà come, si ritrovarono fuori dalla Gare d'Orsay, a Parigi.
Attraversando a piedi il pont de l'Alma Fernande e André si fermarono a guardare la Senna. Era una giornata opaca che sapeva già di autunno e umidità, dal fiume s'alzavano volute di fumo bianco, piatto, come un sudore denso. André estrasse di tasca il fagotto con i gioielli e la chiave di casa. In rue Freycinet, dove comincia la salita verso place des Etats-Unis e s'intravedono già gli alberi, si fermarono di nuovo. Eppure non vedevano l'ora di tornare, di trovare.
– Dai Fernande, siamo quasi arrivati.
– Un momento. Non ce la faccio –. Si appoggiò contro un muro basso. Di fronte, un cameriere con un grembiale pieno di macchie stava disponendo dei tavolini fuori da un locale. Li guardò e accennò un vago, anonimo saluto, ma Fernande nutri l'illusione che li avesse riconosciuti, anche se poco dopo, fermandosi davanti alla grande specchiera nell'ingresso di casa per piangerne il danno, vi avrebbe trovato una donna mai vista prima. Era davvero lei, dopo quel tempo infinito, braccata dal sogno nero. Liberata, ma per cosa?
Per le strade non c'era nessuno. Parigi era molto piú deserta di quanto si aspettassero. Il giardino incolto, in compenso, era pieno di gatti. Attraversarono place des Etats-Unis, la casa era poco oltre. C'era ancora. Il portone di legno doveva essersi gonfiato, ci volle un bel po' prima di riuscire a scostarlo appena per passare, uno alla volta.
Dentro, chissà quando, era venuto qualcuno.
Tutto era stato violato, molto portato via. Toccò ricucire le cose nella mente, ripensarle. Fernande non poteva dimenticarle ma non poteva nemmeno reinventare tutto daccapo, perché qualcosa era comunque rimasto.
I tedeschi erano venuti a cercare loro, non le cose. Avevano rubato molti oggetti, soprattutto di valore, ma senza darsi pena di svuotare le stanze.
Un pugno d'ore dopo che loro avevano lasciato Parigi, tanto tempo prima, il signor Dubois era arrivato insieme ai tedeschi. Pensava che fossero ancora in casa, non voleva perdersi lo spettacolo di André Wertheimer e della sua giovane sposa portati via. Ma non voleva neanche esporsi troppo, il signor Dubois. Era rimasto nel giardino, al riparo dagli sguardi. Forse un'ora piú tardi, aveva visto tornare i tedeschi: le due vetture erano cariche di bottino ma non del suo titolare ebreo e della giovane, bellissima moglie, esile come un giunco. Dubois aveva promesso caccia grossa e non erano rimasti delusi, perché André era piuttosto ricco, anche se dopo la guerra lo sarebbe diventato molto, molto di piú. La casa, l'hôtel particulier dove abitava la coppia, era rimasta cosi per tutto quel tempo: stuprata, viva solo per la polvere.
Qualche giorno dopo il loro ritorno a Parigi, André andò a cercarlo per fare il punto della società. Era uno dei suoi contabili, il piú anziano, quasi uno di famiglia. Aveva affidato tutto nelle sue mani quando erano cominciati i tempi bui.
Il signor Dubois era a casa, sua moglie anche. Lei apri la porta e si mise una mano sulla bocca. Poi fece un lungo passo indietro, chissà se per lasciarlo entrare o per evitare di toccarlo. Non riusci neanche ad annunciarlo al marito.
– Signor Wertheimer! – strillò invece lui saltando in piedi. E poi lo ripeté, quasi che quel nome fosse una formula magica capace di farlo scomparire cosi come era arrivato.
Dubois era rimasto uguale. Era di quelle persone che nella loro insignificanza non paiono mai toccate dal tempo.
– Buongiorno signor Dubois. Sono qui. Abbiamo alcune cose da dirci, quando possiamo parlare con calma?
– Accomodatevi, – rispose l'altro indicandogli una delle quattro sedie intorno al tavolo.
– Avete qualcosa per me, vero? Le chiavi della cassetta, i libri contabili, il passaggio di proprietà controfirmato… – André andò subito al dunque. Lo stupore che la sua apparizione aveva destato in quei due l'aveva insospettito, e presto quel presentimento sarebbe diventato una certezza amara. I tedeschi lo avevano perseguitato perché quell'infame lo aveva tradito.
Dovette usare un vecchio segreto del signor Dubois, un vizio tenace quanto sporadico, per ottenere le chiavi della cassetta di sicurezza e i documenti della società con l'attestato di proprietà e la rinuncia del prestanome. Dovette minacciare con parole ambigue e stancanti, perché Dubois ci provò, a far finta di nulla, a scuotere il capo, alzando gli occhi verso il soffitto macchiato di muffa. André rimase a lungo in silenzio, perfettamente immobile, lo sguardo profondo e affilato fisso sull'altro. Poi gli bastò una frase sottovoce, un manciata di parole sibilate, che quello si alzò e usci dalla stanza.
Neanche un'ora piú tardi André tornò a casa con un fascio di carte e un sottile sorriso trionfale sulle labbra.
Fernande gli disse che non capiva come avesse potuto mettere in cima alla lista delle priorità, ora che la vita era tutta da ricominciare, quella rivendicazione di beni. Era cosi presto, con la casa devastata e le assenze da contare e tutto quello che avevano passato… André non aveva piú avuto notizie delle sue sorelle, che erano rimaste a Colmar. Fernande aveva soltanto il padre, laggiú in Brasile.
– Come puoi pensare a queste cose adesso? – gli domandò.
Lui non reagí, si chiuse nello studio. E nei giorni seguenti badò soltanto a tornare in possesso di ciò che era suo, con un affanno che sembrava spazzar via tutto il resto – gli affetti, il mondo intorno a loro, persino lei. Doveva farlo subito e con quella specie di furia avida, rivendicativa, perché il tempo avrebbe complicato le cose, ma soprattutto perché aveva bisogno di riprendere le misure di se stesso, scrollarsi di dosso la guerra, non pensare a tutto quello che era andato perso.
Gli anni in cui erano stati prede di caccia, subumani buoni soltanto per essere sterminati, André li rimosse come se non lo riguardassero. Quando qualcuno domandava dov'era stato durante la guerra, lui rispondeva soltanto: «Al Sud». E troncava il discorso perché quelle due parole avevano al fondo un punto drastico, un muro oltre il quale c'era solo mutismo. Intanto, mentre altrove la guerra continuava, lui si riprendeva la sua vita.
Nel giardino di place des Etats-Unis le foglie degli alberi caddero quasi tutte, stendendo un tappeto umido e scivoloso, spogliando i rami grigi. Fernande non si ricordava piú che fosse cosi, l'autunno di Parigi: carico di malinconia, di vita che muore. Passava ore alla finestra del piano nobile, quella d'angolo da cui s'intravedevano uno scorcio di piazza e a ben guardare anche due ippocastani. A un certo punto del tardo pomeriggio, quando la luce era agli sgoccioli, scorgeva André che tornava dopo la sua misteriosa giornata nell'ufficio ancora quasi deserto – i tedeschi avevano saccheggiato anche quello.
– Non me la immaginavo cosi, – disse una sera che scesero a fare quattro passi. Era la fine di un ottobre strano, tiepido e nitido.
– Che cosa, non t'immaginavi?
– La fine della guerra. Pensavo che se ci fossimo arrivati, avremmo saltato di gioia per un anno intero.
– Io sono contento. Quasi felice. Di essere vivo, di poter pensare a quello che verrà… Un figlio, ad esempio. Non credi che sarebbe ora di pensare anche a un figlio, Fernande?
Lei lo prese a braccetto e gli strinse il gomito, come per sorreggersi. – Non lo so. Sono confusa… Non so da che parte prendere le mie giornate –. Le dava una strana sicurezza, la sua vicinanza: una sicurezza effimera. Il naso gli si era smagrito, poco sotto l'attaccatura formava uno spigolo ossuto.
– Ringrazia il cielo che siamo vivi, – replicò lui. – Gli ebrei che sono rimasti qui li hanno portati via tutti, e dicono che non torneranno. Dicono… – André sorrise guardando davanti: un gruppo di soldati americani stava venendo verso di loro. Ce n'erano tanti in giro, e Fernande era terribilmente stufa di vedere divise intorno a sé. – Ma non ho voglia di parlare di questo. Lunedí tornerà Claudette in ufficio, di lei mi fido. Ma soprattutto spero di riavere presto la linea del telefono, cosi si ricomincia davvero: ci sarà tanto da fare, per tutti… Non mi hai risposto, – disse senza guardarla.
Lei tacque. Non sapeva davvero che dire. Un figlio? Era il tempo giusto. Ma cosa c'era ancora fra loro, a parte quel pezzo di vita vissuta? Parigi aveva restituito una certa intimità, ma non quella che serve per fare un figlio. Lei sentiva André come un padre, un surrogato del padre che aveva perduto, che era tornato in Brasile senza quasi lasciare traccia dietro di sé. Qualche lettera che ci metteva un'infinità di tempo ad attraversare l'oceano, e basta. Come si fa a fare un figlio con una specie di padre? Fernande si strinse a lui e lo spinse quasi verso il centro della strada, per far passare i soldati senza rischiare di sfiorarli. Si guardarono. André le fece una carezza.
No, non lo voleva, un figlio.
No, non lo voglio, un figlio. Non ne sarei capace. Non sono fatta per essere madre. No, no… Mi dispiace, André, ripeté a se stessa davanti allo specchio, durante un'insolita ora di veglia notturna. C'era appena stato un temporale tardivo, pieno di tuoni sordi simili a bombe: l'avevano svegliata adagio, e alla fine era stata costretta a trascinarsi alla finestra. Gli alberi s'inchinavano nel vento che veniva a sprazzi, con lunghi momenti di pausa immobile. I lampi squarciavano l'angolo di orizzonte oltre le case e la Senna. Uno dopo l'altro, muti. Il tuono arrivava molto dopo e non finiva piú. Fernande non vedeva altro che la propria ombra nel vetro della finestra.
– Non lo voglio, un figlio, André… Mi sono persa, – disse ad alta voce, parlando all'ultimo tuono. Appoggiò la fronte al vetro, chiuse gli occhi. Tornò per un momento laggiú in Brasile, dov'era nata e stata bambina, prima che il piroscafo la portasse in Europa insieme al segreto brutto di sua madre. Gliel'aveva bisbigliato nell'orecchio una mattina, sul ponte, incollando le labbra alla sua pelle profumata d'infanzia: forse la madre temeva che le parole si perdessero nel vento, nel sole, nell'orizzonte rotondo dell'alto mare.
– Non posso, non posso… Perdonami, – ripeté lungo tutto il corridoio, tenendo un lembo della camicia da notte, mentre con l'altra mano slacciava la fila di minuscoli bottoni. La lasciò cadere sulla soglia della stanza, guardò a lungo André che dormiva con un braccio piegato sul volto, come per nascondersi. E invece di tornare a letto e accavallare una gamba su di lui, o di infilare la testa nell'incavo della sua nuca cercando di solleticargli il sonno per farlo girare verso di sé, si lasciò cadere ai piedi del letto, sul pavimento di legno. Pianse per un bel po'. In silenzio, perché non voleva svegliarlo.
Giunsero i primi spiragli dell'alba. Il temporale era passato, la luce annunciava una giornata tersa. Fernande si arrampicò nel letto e dormi sino a mezzogiorno passato, senza sogni. Ogni tanto singhiozzava e una specie di tremito la scrollava dalla testa ai piedi, sulla curva del fianco nudo si disegnava un accenno di pelle d'oca, finché André non si alzò, la vide cosi, le fece una carezza sui capelli e la copri, uscendo in punta di piedi dalla stanza.
La casa del sogno
Dopo quella notte di tuoni tardivi, Fernande scese lentamente in un pozzo di silenzio. Mentre André usciva dal letargo della guerra, preso dalla vita piú che mai, Fernande cominciò a dormire giorno e notte. Qualcosa dentro di lei aveva deciso che l'unica salvezza stava nel dimenticare. Ma era impossibile, e nel profondo del cuore lei lo sapeva.
– Non so piú che fare con te, – le disse lui rientrando in casa un pomeriggio di novembre.
Fernande lo guardò sgranando gli occhi, lasciando cadere la testa contro la vecchia poltrona su cui passava buona parte delle giornate.
– Svegliati, torna alla vita. Esci. Siamo sopravvissuti. Non ti basta? – ripeté André per l'ennesima volta. In quel periodo ogni tanto ce l'aveva con lei, che gli destava una rabbia furiosa, quasi violenta. Piú spesso, però, gli ispirava una tenerezza insopportabile.
– Non so. Sono stanca… Tanto, André. Stanca. Stanca.
E chiuse gli occhi.
Ma la casa del Buon Ritorno si ripresentava. Bianca e nitida, ravvivata dal sole del Sud. La notte, per lo piú, in quello stato a mezza strada fra la veglia e il sonno che le dava un sollievo passeggero, un'illusione di serenità. Vi tornava con tenacia, a intervalli quasi regolari, talvolta come vista dal mare, a qualche colpo di remo dal molo di Villefranche. Talaltra dall'alto, come se lei fosse appostata in cima al faro. Respinti dalla coscienza, i ricordi s'erano rifugiati nei sogni, ma di quei sogni Fernande non tratteneva nulla, nella veglia: venivano e si scioglievano con le prime pallide luci del giorno parigino.
Una sera, venti mesi dopo il ritorno – lo stesso tempo che avevano trascorso in Riviera nascosti dalla guerra e dai tedeschi –, Fernande trovò sul cuscino un mazzo di mughetti tenuti insieme da un nastro celeste. Legate in fondo c'erano due piccole chiavi: le appoggiò sul palmo della mano sinistra. Una era un poco piú lunga dell'altra, entrambe arrugginite in punta, opache. Le guardò un momento, prima di lasciarle sul comodino da notte, accanto alla cornice con la fotografia di sua madre e suo padre nello sbiadito giorno delle loro nozze, chissà dove e quando. Un lembo di nastro scivolò giú dal piano e rimase a penzolare per tutta la notte, di quando in quando fremeva leggermente al sospiro addormentato di Fernande, la curva della schiena protesa verso il fianco di André che quasi non chiuse occhio, lo sguardo fisso e muto contro il muto e buio soffitto.
La mattina successiva, dopo aver bevuto il primo caffè di cicoria della giornata, a momenti André rovesciò la caraffa con il latte. Insieme a qualche posata e un grande piatto era uno dei pochi pezzi d'argento che era riuscito a recuperare, dissotterrandolo da un cumulo di stracci in soffitta. Fu abbastanza pronto da fermare la caduta con una mano; nell'altra teneva una busta che a forza di stringerla s'era stropicciata. Fece un passo verso Fernande, appoggiò la mano libera sul tavolo come per sostenersi, quasi la caraffa gli avesse trasmesso la propria fragile instabilità, e le porse la busta.
– Qui c'è la mappa.
Lei alzò il capo e gli mostrò un sorriso esangue che sembrava costarle una fatica tremenda: – Cos'è, una caccia al tesoro?
Nell'impasto di depressione e nostalgia dentro il quale aveva continuato a vivere da quando la guerra era finita, Fernande sembrava essersi dimenticata l'esistenza di quella casa che aveva tanto sognato.
L'aveva vista lei per prima, la volta in cui un pescatore senza nome, in cambio di una manciata di banconote, li aveva traghettati da Villefranche sino alla faraonica villa di Roquebrune dovre avrebbero trovato rifugio per tutto il tempo necessario.
Erano partiti la mattina presto. A remi. Poco dopo il porticciolo, addossata al Capo, sotto l'enorme faro bianco, c'era la casa.
«Guarda, André! – Fernande aveva steso un braccio con un movimento cosi brusco che a momenti la barchetta dava il giro. – Guarda che bella! Torneremo qui alla fine della guerra, me lo prometti? E quella casa laggiú, la vedi, sarà la nostra. Quando tutto sarà finito. Se finirà…» Lui non aveva detto nulla. Forse non l'aveva neppure sentita, perché forse quella casa sotto il faro era il frutto dolce e al tempo stesso amaro di un sogno, una chimera di mare.
Ora André alzò la mano dal tavolo, incrociò le braccia, le liberò subito dopo, si piegò verso sua moglie. – Ma come, Fernande. La casa del sogno –. Le fece una carezza sul capo come si fa a un bambino mortificato, per consolarlo. – La casa dei tuoi sogni. L'ho comprata l'altroieri dal vecchio proprietario, un albergatore di Antibes. Non sai quanto ci ho messo a scovarlo… Ricordi quando ti dicevo che andavo a Bordeaux per affari?
Fernande lo fissò in silenzio. Poi si alzò, respingendo inavvertitamente la sua mano. – Grazie, – disse.
Aveva lasciato la busta sul tavolo.
André usci di casa sbattendo la porta. Tornò soltanto due giorni piú tardi, e Fernande non gli chiese nulla e non l'avrebbe fatto neanche in seguito, quando ormai al posto dell'amore sarebbe arrivata quella solida pacificazione fatta di intimità condivisa. Un'amicizia complice.
La busta con la mappa era ancora chiusa. Stava sulla cassettiera, sopra il vuotatasche di peltro che Fernande usava per i pezzetti di carta su cui annotava le cose piú disparate: la lista delle compere, uno stato d'animo, una scena spiata alla finestra dell'appartamento di fronte. Sulla mappa c'era solo il promontorio del Capo, come sospeso sopra un mondo tutto fatto di mare. André aveva disegnato qua e là qualche piccola onda. In cima al Capo c'era il grande faro bianco che sembrava un fungo smilzo con un unico occhio in punta, sorridente Polifemo. Accucciata ai piedi del faro, la casa. L'aveva appena abbozzata, una porta indicata da una freccia: all'altra estremità della freccia c'era il mazzolino con le chiavi.
Fernande apri la busta solo qualche settimana piú tardi, quando i ricordi cominciarono a tornare, senza che lei li avesse chiamati. Si sedette sul letto, tirò fuori dal cassetto del comodino le chiavi – erano rimaste li da allora – impugnò il tagliacarte, lo puntò dentro l'angolo della busta che André non aveva incollato di proposito, e poi tirò forte come per strappare.
– Mi ricordo, – disse dispiegando il foglio.
André si abbassò sulle ginocchia, arrivando con la testa all'altezza del grembo di lei. L'accarezzò. Fernande lo guardò e pensò che avrebbe dovuto nutrire un po' di compassione per lui, invece niente. Solo un'eco lontana, qualcosa cui non sarebbe stata capace di dare un nome.
– Mi ricordo, André… Come aveva fatto a sparirmi cosi dalla memoria?
– Hai sofferto troppo. Abbiamo sofferto insieme. Ed è ancora tutto da capire. Ma la casa…
– Si, la casa –. E non riusci piú a dire nulla, e tutto rimase sospeso cosi, fra la memoria e la loro vita che riprendeva.
– Sei magra, Fernande. Lo eri meno, prima… Durante la guerra, intendo.
– Lo so.
– Perché?
– Perché cosa?
– Perché soffri in questo modo? Non ti basto? Non ti basta questa vita?
– Si che mi basta.
– E allora?
– Allora non so.
– Non puoi fare cosi. Vuoi andartene? Non mi vuoi piú?
– Si.
– Si cosa, Fernande? Non faccio altro che cercare di ricomporre i pezzi, le cose non vanno male. Ma tu…
– Io.
Lo guardò con aria stupita, ma non interrogativa. Gli occhi troppo grandi nell'ovale smagrito, la fronte alta scoperta, il mento affilato. Era davvero un'ombra, Fernande, in quella prima stagione del dopoguerra: senza quasi piú carne indosso, il biondo degli splendidi capelli tristemente sbiadito, le mani affusolate, grandi nodi sulle dita al posto delle nocche. Era ancora bella, certo. E giovane. Perfette le proporzioni del corpo, l'equilibrio fra concavo e convesso, splendide le caviglie sottili che amava tenere scoperte il piú possibile, mostrare, sconcertante il sorriso che veniva sempre quando meno lo si aspettava ed era sempre troppo dolce. Ma c'era in lei come una voglia di spegnersi a poco piú di vent'anni, di lasciare che le cose passassero in quella stagione frenetica, incerta eppure speranzosa di cui André stava cogliendo tutto il meglio, con l'intelligenza e la prontezza di cui era capace.
– Tu mi stai torturando, Fernande. Ogni giorno di piú. Cosa posso fare?
– Niente.
– E invece faccio. Lo vedi –. Con la coda dell'occhio indicò la busta aperta.
Fernande gli prese la mano. No. Stava per farlo e invece venne un altro gesto, strano: gli afferrò il polso e lo strinse forte fra il pollice e il medio, come per auscultarlo, come per fargli capire che anche lei era viva, a modo suo.
– Quello che mi è stato portato via, – disse poi sottovoce, – nessuno me lo potrà mai restituire. Né tu e nemmeno io. Non so dove sia, cosa sia. Non so che cosa cercare.
– Incomincia da questa casa, allora, – disse lui slacciandole la presa dal polso.
Fernande si accese una sigaretta. Aveva cominciato a fumare da poco, si accaniva. Spesso ne fumava due di seguito, una dietro all'altra. Poi tossiva con gli occhi chiusi.
Solo il settembre successivo, una stagione e mezza dopo i mughetti sul cuscino, Fernande trovò la forza di scendere al Sud per vedere la casa. Ma senza di lui.
Qualche mese dopo la visita a casa Dubois, André aveva avuto bisogno di una nuova sede, le due stanze al piano terra non bastavano piú: nei vuoti lasciati dalla guerra la società cresceva a velocità vertiginosa. E un anno dopo avrebbe dovuto di nuovo cambiare indirizzo, perché gli sarebbero serviti uffici piú grandi.
Quello di Fernande fu un viaggio lungo e tortuoso, iniziato con la macchina che André aveva appena comprato. Alla guida c'era Constant, il vecchio autista di prima della guerra che avevano riassunto da poco. Ma la parte piú lunga fu in treno e in corriera, passando per Clermont-Ferrand, Montelimar, Avignone. Si fermò due giorni a Marsiglia senza sapere bene il perché. Si sedeva su una panchina di ferro battuto, rigida e scomoda, davanti al porto. Guardava il lento viavai delle navi, il traffico sul molo. Guardava il mare al di là della diga foranea: se ne vedeva uno scorcio appena, piú irreale che vero. Erano giornate stupende, ogni cosa pareva pacificata con il mondo intero.
Fernande inalava lentamente quell'aria, la lasciava dentro i polmoni il piú possibile, e a ogni respiro si sentiva meglio. Sognava di saltare su una qualsiasi nave in partenza, sedersi sul ponte e aspettare il momento in cui la terra sarebbe sparita da ogni orizzonte, solo mare tutt'intorno, in un cerchio perfetto e luminoso.
Riparti durante un'alba precoce, aveva in tasca la mappa di André. La corriera la lasciò alla fermata del Capo quasi al tramonto: il sole stava sospeso sopra la baia di Nizza, non troppo al largo, come fa in quella stagione di fine estate. Fernande non lo vedeva, dietro la vegetazione sempre piú fitta man mano che s'inoltrava lungo il sentiero sterrato. Passò la borsa da una spalla all'altra, pesava. Si fermò in un punto in cui il mare si frangeva contro un breve strapiombo grigio e spoglio. Ma tutto era quieto, quasi immobile.
La casa era vuota, ovviamente. Deserta. Di piú: era una desolazione assoluta, che in quel momento le sembrò inguaribile. Solo muri e porte aperte, intonaco scrostato dall'umidità racchiusa per troppo tempo, un'unica tenda dimenticata a una finestra. Per il resto, spazio vuoto, libero. Fu un sollievo enorme sentire il sangue scorrere nelle vene, dalle tempie alle ginocchia, capire di essere arrivata nel posto giusto.
Tirò fuori un taccuino. Numero delle stanze, posizione: annotò tutto. Esplorava senza sapere che cosa avrebbe trovato, André non le aveva detto nulla di com'era fatta la casa. Dopo un bel po' si accorse della scala che portava al piano di sotto, nascosta dietro una porta piú bassa delle altre. Era ripida, con il soffitto che disegnava un arco acuto, dove un giorno – Fernande ancora non poteva immaginarlo – il Poeta avrebbe dipinto il suo angelo. Sotto c'erano altre tre stanze, affacciate su un giardino incolto. E oltre il muretto, sterpaglia, un pino tutto storto, due agavi morenti, chine quasi fin sulla roccia. Piú in basso, il sentiero che costeggiava la ripa.
Fernande scelse la stanza con la vetrata piú ampia. La tapparella era rotta, malamente avvolta nel rullo: li aveva continuato a entrare la luce, ostinata. Si fermò in un angolo a osservare il mare, e riusci a scorgere – o, almeno, volle convincersene – il punto esatto da cui aveva visto la casa per la prima volta, un'immensità di giorni prima, giorni grigi di solitudine e sofferenza, caduti lenti e indifferenti al suolo insieme a quella neve fatta di cenere che continuava a scendere senza che nessuno la fermasse. Quasi si vide, ancora li, seduta sulla barca che ondeggiava malgrado la bonaccia, con un domani incerto come la scommessa piú azzardata. Liberò un pianto muto, singhiozzando con il petto. Poi guardò il pavimento, per poter ritrovare in futuro quell'angolo della stanza, fra la parete e la vetrata: riconobbe una macchia scura sulla listella del palchetto, se la segnò nella mente.
Passò un gabbiano enorme.
La sera tardi, quando ormai le poche luci del Capo erano spente (solo il faro spediva in alto mare il suo fascio intermittente), Fernande trovò una camera in una minuscola pensione all'incrocio con la litoranea. Abbandonò la borsa sul letto e scese al piano terra. In fondo al piccolo corridoio, addossato a un muro cieco, c'era un apparecchio telefonico.
– Parigi 7548 per favore.
– Attenda, – rispose imperiosa la voce stridula all'altro capo della cornetta.
André aveva voluto il telefono in casa con un'urgenza incomprensibile. «Che ce ne facciamo? Siamo rimasti soli noi due». «È importante, invece. Cosi non ci perderemo piú». Fernande aveva capito.
– André, sono io.
– Lo so.
Silenzio.
– È bella, la casa. Ci sono stata oggi.
– Bene.
– Ti amo, André.
Silenzio.
Possibile che ci sia sempre questo muro fra noi, pensò Fernande mentre cercava le parole che avrebbe voluto sentirsi dire da lui.
– Quando torni? – chiese André dopo una lunga pausa.
– Non lo so. Voglio occuparmi della casa, adesso… C'è tanto da fare.
– Come stai? – incalzò lui con un tono ansioso.
– Bene. Mi ha fatto bene tornare. Non pensavo. Dovevo farlo prima… Bene. Ho pianto. Guardato. È proprio tutta uguale al sogno, la casa. Tutta uguale a quel giorno, sulla barca. Ti ricordi?
– Certo che mi ricordo. Quando torni, Fernande?
– Devo… devo…
Fece tutto da sola.
Trovò un imbianchino poco piú che adolescente per una rinfrescata ai muri, due muratori appena tornati dalla guerra per i lavori dentro casa e in giardino, una domestica che per la prima pulizia grande arrivò con la figlia ritardata – lei lesta, quasi frenetica, la ragazza di una lentezza e precisione esasperanti, mezz'ora buona per ogni maniglia da lucidare.
Mentre la casa tornava stupefatta a nuova vita dopo un lungo abbandono, Fernande girava per i rigattieri. C'era ben poco da scegliere, ma a Nizza arrivavano merci sin dalla sponda opposta del Mediterraneo, dove la guerra era stata un'eco. Dura, ma eco soltanto. E cosi, che lei lo volesse o no, la casa prese da subito un aspetto quasi esotico, di mondi lontani piú sognati che visti, piú fantasiosi che reali. Fernande trovò un impagliatore a cui ordinò una serie di mobili, e un giorno s'innamorò di due maschere etniche scure e oblunghe, dall'aria molto sofferta. Una aveva un gran ciuffo vegetale sulla testa, scaglie di albero di cocco, forse. Nessuno sapeva da dove venissero: Giava? l'Africa nera? Chissà. Le appese a una parete del salotto ancora vuoto. Scelse anche delle strane stuoie per i pavimenti, ruvide e alte.
Il primo giorno in cui dormi in casa, anziché coricarsi sul pagliericcio ancora spoglio, senza il testile di ferro battuto che sarebbe arrivato qualche tempo dopo, ci camminò sopra avanti e indietro a lungo, con i piedi nudi. A ogni passo tornava qualcosa e lei ricacciava indietro il dolore, o almeno ci provava: il contatto ruvido le strigliava i ricordi. Fra quelle pareti non la tormentava piú il pensiero di quello che sarebbe stato di lei in futuro. E nemmeno la domanda su che cosa ancora provava per André, che aveva tenuto in letargo, sopita sotto la triste abulia degli ultimi tempi.
Era amore, come aveva detto al telefono?
Repulsione?
Indifferenza?
Oppure forza dell'abitudine?
Ma anche un senso indelebile di confidenza, la sicurezza di essere capita.
La mattina seguente usci molto presto. Il sole ancora nascosto dietro l'ultima propaggine di terra a oriente, e nel cielo trasparente una frescura impregnata di sale, frulli d'ali sul pelo dell'acqua. Prima di arrivare in paese, là dove il Capo si slarga e forma una specie di radura – oggi c'è il parcheggio ombreggiato di un grande albergo –, Fernande si fermò a guardare il mare. Una barchetta ondeggiava pigramente al largo, ma non troppo. Passò un motoscafo, tozzo e corto, che lasciò nell'aria un lungo rumore e increspò l'acqua immobile. La barchetta si piegò cinque volte, due da una parte e tre dall'altra, poi tutto tornò come prima.
Giunta in paese, entrò nella panetteria. Era un piccolo antro buio e caldo, dietro il bancone c'era una vecchia che masticava a vuoto.
– Buongiorno! – esclamò Fernande. Appoggiò una mano sul vetro sporco cercando di sporgersi per vedere il retro, dove un ragazzino con una lunga pala stava infornando qualcosa.
La vecchia rimase in silenzio, la fissava masticando con tenacia.
Fernande sorrise e, con un'indulgenza che non era da lei, comprò due filoni di pane. Poi scese al porto, percorrendo una rampa di scale stretta e ripida che s'insinuava fra le case in mezzo alla fitta vegetazione, seguiva il terreno producendo curve a gomito, ogni tanto s'interrompeva per qualche metro lasciando spazio alla terra, qualche coccio, macerie di un edificio crollato chissà quanto tempo prima.
– Bella signora, volete qualcosa? – chiamò qualcuno da una barca, sotto un grande cappello ammaccato. – Ho del buon pesce, appena pescato! – Stava piegando una rete, sul molo aveva posato un secchiello celeste con la misera raccolta del giorno: qualche bavosa, tre occhiate striminzite, un pugno di pescetti senza nome. Fernande stava per tirare dritto, ma quando il pescatore alzò lo sguardo, si tolse il cappello per salutarla e mostrò le spalle che prima erano curve sulla rete, lei ebbe un sussulto.
– No, grazie… non mi serve…
Sarà lui? No, non è possibile.
Se fosse stato davvero lui, significava che il tempo era andato all'indietro invece che avanti. Quello di allora era un uomo maturo, corpacciuto. Non un ragazzo un po' sfacciato e bello da spaventare, come questo che adesso la fissava senza ritegno con una fame buona negli occhi, e sorrideva mostrando una chiostra di denti perfetta, invitante in un modo quasi sconcio.
– Quanti pescatori siete, qui in paese? – domandò Fernande.
– Pochi… Non so. Dieci, quindici. Una volta ce n'erano tanti di piú, poi la guerra, sa… Ma cercate qualcuno?
– No, no, – fece lei sbrigativa. – Nessuno…
– Allora vi serve qualcosa, signora? – domandò ancora quello, facendo due passi sicuri dentro la pancia della barchetta e appoggiando gli avambracci sul legno del molo per guardarla piú da vicino. In quel momento il sole gli picchiò sulle sopracciglia, che brillarono di una tinta dorata e scura. Aveva del sale nei capelli.
Lei scosse la testa: – Abbiamo appena comprato la casa sotto il faro, mio marito e io… Sto imparando a conoscere il posto. Non mi serve nulla, ma casomai avessi bisogno di pesce, o magari di qualcuno per un lavoro di fatica… Scenderò ancora qui al porto, va bene?
– Certo signora, mi trovate sempre qui. A vostra disposizione… Ma siete sicura che è tutto a posto?
Fernande si guardava intorno, pareva inquieta. Tutt'a un tratto senti la testa pesante e un fastidio in mezzo al petto, non troppo ingombrante e nemmeno doloroso. Vagò con gli occhi sulle barche aggrappate alle bitte con le loro corde sporche e sfilacciate, ma l'unica anima viva era quel ragazzo che aspettava in silenzio una risposta.
– Si, grazie – . E solo dopo un'altra lunga pausa, troppo lunga per essere ignorata, abbassò lo sguardo e lo fissò dritto negli occhi: – A presto, – disse mentre già s'incamminava verso il paese, le spalle al mare.
Tornò a Parigi giusto in tempo per il Capodanno. In quei mesi aveva sentito André al telefono, qualche volta, ma solo quando lo chiamava lei. Lui non aveva piú fatto domande. Si limitava ad ascoltarla, senza frugare nei silenzi. Quella lontananza creò dal nulla un sentimento nuovo piú duraturo dell'amore, che li avrebbe accompagnati fino alla fine: qualcosa che sembrava alimentarsi piú delle mancate condivisioni che della comunanza.
Mentre attraversava Parigi, e poi anche quando raggiunse il giardino di place des Etats-Unis, Fernande lanciava occhiate intorno come se fosse arrivata in un posto nuovo. Poi mise piede in casa e trovò la grande specchiera, la stessa che l'aveva accolta dopo la guerra. Si guardò a lungo, di fronte e di profilo, con il capo leggermente piegato verso destra, e sorrise. Prima a se stessa, poi ad André.
– Mi trovi bella?
– Molto.
– Io no! – esclamò lei, e fu la prima vera risata dopo tanto tempo.
Il Poeta
(1950 - ultimo terzo degli anni Sessanta)
– È così tremendamente sprovveduta, quella ragazza. Che quasi mi fa paura, sai… Pierre, ci sei?
Valeria Modiano brandiva un paio di enormi cesoie. Sarebbe risultata anche minacciosa, non fosse stato per l'ampio cappello di paglia con il nastro rosa che cadeva di sbieco verso la nuca.
– Mi ascolti si o no?
Con tutto il suo ragguardevole peso, si girò lentamente verso il marito allungato sulla sedia a sdraio, il giornale aperto sulla faccia. Pierre Modiano sollevò di scatto i due piedi da terra, e mentre la sua pancia sussultava diede uno schiaffo al giornale facendolo volare via. Risvegliato di soprassalto dal primo quarto del sonnellino conquistato a fatica, riusci a dire soltanto: – Che? – cercando a tentoni un vago orientamento nel mondo.
– Che, cosa? Uffa, non mi ascolti! Dicevo di Fernande. Sembra cosi sprovveduta, incapace di stare al mondo…Eppure ha anche un'aria vissuta, di una che ne ha viste di cotte e di crude. Con quel corpicino minuto, quasi trasparente. Mah…
– Fernande chi, scusa?
– Ma come chi? Quella del villino sotto il faro! Possibile che non ti ricordi mai i nomi?
– …
– È venuta l'altroieri a trovarci, Pierre. Ci ha chiesto se conoscevamo della brava gente dei dintorni perché sta cercando un guardiano… Come fai a non ricordartela?
Valeria Modiano si voltò nuovamente verso le ortensie, ma prima di rimettersi all'opera con le cesoie drizzò il cappello di paglia facendolo ruotare con una mano in cima al capo.
Era soltanto una luminosa, inoltrata primavera, ma il sole batteva già di calura, impregnava tutto di quella spossatezza fiduciosa che di solito è presagio di fine estate, quando l'aria diventa piú trasparente, il mare piú lucido. Riprese a tagliare la selva di foglie e rami. Era già la seconda potatura dell'anno, ma le sue ortensie ricrescevano quasi a vista d'occhio producendo foglie sempre piú grandi e fiori sempre piú fitti, in un'inesauribile gamma di sfumature che andavano dall'arancione al viola scuro.
Pierre Modiano alzò faticosamente lo schienale della sdraio piegando la testa per guardare i sottili braccioli in legno da sotto: aveva sempre paura di restare pizzicato. Mentre si appoggiava al telo della sedia fece mente locale: Francine o Fidèle o Fernande – come si chiamava? – gli comparve davanti cosi come l'aveva incantato due giorni prima. Non tanto per le linee sottili del viso, il naso affilato, lo spazio scuro fra gli incisivi superiori che dava ombra anche al piú radioso dei suoi sorrisi, non per quel vitino che si stringeva con due mani, ma per gli occhi accesi d'azzurro, liquidi e terribilmente sensuali. Terribilmente. Sospirò.
– Dici? – domandò in tono scanzonato a sua moglie, con l'aria di uno che sta conversando da due ore filate.
– Dico si, – fece lei continuando a potare. A ogni colpo si produceva una tremula ondulazione dei larghi fianchi. – È parigina in tutto e per tutto, con quella spocchia che hanno solo loro quando scendono qui al Sud. Ma secondo me c'è qualcosa sotto… Sembra avere bisogno di qualcuno, qualcosa. Sprovveduta, no? Disorientata, ecco.
– Se lo dici tu, – rispose Pierre sollevando da terra il giornale scomposto.
Fernande. Si era seduta proprio li su quella sedia, accavallando le gambe aveva scoperto una caviglia bellissima con la pelle bianca ma non diafana, luminosa anzi, e viva. A un certo punto, Pierre non ricordava cosa ci fosse di tanto buffo, era scoppiata a ridere buttando il capo indietro, con gli occhi sgranati al cielo, le lunghe fasce del collo tese. Nello slancio di quel gesto aveva fatto sobbalzare i seni, non cosi piccoli come sembravano, in quel corpo esile. Pierre aveva visto i capezzoli farglisi contro, e gli si era seccata la gola all'improvviso. Come adesso.
– Anche quando è venuta da noi, ti ricordi? – prosegui Valeria. – Si è seduta prima qua e poi là, si è accesa una sigaretta, ha chiesto scusa, l'ha subito spenta… Però ha un sorriso magnifico, non trovi?
– Eccome, – rispose lui schiarendosi la voce.
– Non so, mi sento quasi in dovere di aiutarla, di darle una mano. Una bella donna, vero? Secondo te quanti anni avrà?
Pierre ci pensò troppo a lungo, prima di rispondere. Sua moglie lo incalzò: – Allora? Secondo te è piú giovane di Manú?
Pierre sussultò di nuovo. Il pensiero di accostare quella snella e bionda visitatrice alla loro corpacciuta figlia unica (sposata con uno spagnolo di San Sebastian, vivevano a Beziers con i bambini), gli sembrava assurdo.
– Secondo me è piú vecchia, – commentò.
– Mica tanto, credo. Non avrà piú di venticinque anni, quella Fernande. Un marito ce l'avrà, no? – domandò ancora la signora Modiano, ma questa volta a se stessa.
E il discorso fini li, come capitava il piú delle volte nella villetta con i mattoni rossi e i davanzali sempre fioriti, all'ombra di due enormi pini marittimi, nel piccolo giardino in mezzo al Capo da cui neanche si vedeva il mare, e per loro due era quasi un vanto.
Tre giorni dopo, Fernande ricomparve alla loro porta. Non volle entrare: «Per non disturbare», disse. Poi spiegò che aveva trovato il personale che cercava. Sorrise di nuovo, mostrando i denti troppo grandi e quello spazio fra gli incisivi che dava una tonalità quasi infantile alla sua bocca. Era stato Pierre a percorrere il breve sentiero di opus incertum e aprire il portoncino che dava sulla strada. Non osava guardarla negli occhi, per paura di farla ridere e vederla capovolgere di nuovo il capo, puntando lo sguardo al cielo e i seni verso di lui. Indossava una dolcevita gialla smanicata, troppo aderente per non turbarlo. E aveva la gonna, ma fino alle ginocchia. Sotto, le gambe nude e lisce. Pierre incrociò le braccia sulla pancia rotonda, e quando senti alle spalle il respiro di sua moglie si voltò un istante. Tornò con lo sguardo su Fernande, ma il sorriso se n'era già andato. Peccato, pensò.
Lei li salutò entrambi, ringraziandoli e invitandoli a vedere casa sua quando volevano, i lavori non erano finiti del tutto ma il grosso ormai era fatto, la casa abitabile, il giardino non piú selvatico: la siepe aveva attecchito, c'era un muretto e c'era il sentiero fra i pini.
Quattro anni e due stagioni piú tardi, arrivò il Poeta e riempi quella casa per sempre. La riempi di qualcosa che non era ciò di cui andavano in cerca gli occhi di Fernande, ma forse si. Certamente la colmò della sua tempestosità e di quella solitudine che lo accompagnava sempre, ovunque andasse.
– Ho un mal di testa terribile. Vado a vedere se riesco a riposare –. Fernande stava per dire «dimenticare» ma si fermò in tempo: un po' perché non capiva lei per prima il significato di quel bisogno, un po' perché non avrebbe avuto alcun senso comunicarlo ad Arlette.
– Vi preparo subito acqua e limone, signora –. Arlette (la moglie del guardiano a pieno servizio come cameriera in casa) non domandava mai, comandava sempre, se stessa e Fernande. Aveva soltanto qualche anno piú di lei, ma la trattava come una bambina da educare, inselvatichita dall'abbandono.
– Non voglio nessuna acqua e limone. Vado a cercare di riposare, sperando che mi passi.
Autunno. Mare arrabbiato, giú oltre il sentiero, contro le rocce che il cielo basso scuriva, lucidava. Fernande si alzò dalla poltrona di vimini che aveva girato verso il mare, e si fermò dietro la vetrata, a guardare nel vuoto. Lei non vedeva il vuoto ma un fastello di immagini accavallate sul tempo: André sempre piú distante, André durante la guerra, quel giorno ch'erano partiti da Villefranche, la barchetta che li aveva trasportati a Roquebrune ma che per lei era rimasta ferma in mezzo alla baia, un miraggio di memoria. Non riusciva a trovare il coraggio di tornare a Parigi, malgrado l'autunno. Ogni volta che guardava il mare di li, tutto tornava ma non dal passato, dentro un presente continuo. Dove scendeva sempre una neve grigia e impalpabile, lenta lenta, indifferente a tutto, anche al suolo su cui si depositava senza lasciare traccia.
Il campanello la riportò dov'era. L'aveva fatto mettere da poco, era un suono dolce e lento, quasi di flauto.
Un istante prima che la porta venisse aperta il Poeta abbassò lo sguardo, notò le cinque tessere celesti che mancavano nel mosaico all'ingresso, ed entrò in punta di piedi. Non in atteggiamento di rispetto, non per impostare un passo lieve e silenzioso: entrò in punta di piedi per davvero, chissà se per non sporcare il pavimento di marmo chiaro con le suole inzuppate di fango o per passare inosservato o per dimostrare che non era venuto per disturbare. In punta di piedi sembrava ancora piú allampanato, un lungo palo con in cima una testa riccia e grigia e l'immancabile sciarpa bianca che aveva sempre addosso, come un talismano.
– Mia bella signora buongiorno. Felice di rivedervi, – disse come se fosse stato atteso. E invece a Fernande risultava un perfetto sconosciuto. Ma lei non fece in tempo a dire nulla, riusci soltanto a fare un passo, forse due, in direzione della porta che separava il salotto dallo stretto ingresso. Il Poeta la raggiunse troppo velocemente, e con uno slancio spiazzante le raccolse la mano destra abbandonata lungo il fianco e la baciò sul dorso, anzi forse per sbaglio arrivò sulle nocche aguzze.
Fernande assecondò quel gesto con una mollezza eccessiva, come se la mano e il braccio non fossero roba sua: tutto il resto del suo essere stava cercando di capire la ragione di quella presenza. Non ricordava di aver mai visto quell'uomo che per età poteva esserle padre e per aspetto non le diceva assolutamente nulla. Solo gli occhi, quando rialzò la testa dal bacio, solo gli occhi erano accesi di una luce speciale, calda, invitante, gentile. E anche dolce.
– Ero in giro per la Riviera e mi sono detto: perché non fare un salto a trovare la mia bella Fernande, – spiegò senza il punto interrogativo alla fine della frase.
Sorrise, imbarazzata. Poi disse: – Prego, accomodatevi, – e gli indicò il divano accanto al camino. Lei prese posto sull'altra poltrona, quella che non aveva voltato verso la grande porta a vetri. Il mare ora era una lontananza indefinibile, rischiarata da una passeggera lama di luce a occidente.
Il Poeta la stava fissando con uno sguardo intenso, carico di concentrazione.
Aveva avuto l'incarico di affrescare una piccola cappella non lontano dal Capo, ma nell'entroterra. Si trovava all'interno di una vasta proprietà privata, spiegò, in un bosco di faggi e pini marittimi fitto di sentieri, piccole radure, un laghetto con sei oche selvatiche e qualche germano che andava e veniva. Un luogo meraviglioso, ma senza il mare all'orizzonte, senza neanche un sentore salmastro. Il Poeta aveva quasi finito, di getto, la cappella: una Madonna velata teneva il bambino fra le braccia e lo fissava con due occhi sapienti, vissuti. Quel giorno, però, spinto dal desiderio del mare, aveva preso l'auto ed era sceso sulla costa. Ora pareva ipnotizzato dal panorama.
Anni dopo, rievocando il tumultuoso eppure discreto ingresso del Poeta nella sua vita, Fernande avrebbe continuato a giurare di non averlo mai visto né conosciuto prima di quel giorno d'autunno, lui avrebbe continuato a giurare che si erano incontrati qualche mese avanti, a Parigi, una sera a teatro. Avevano avuto occasione di conversare a lungo, tanto che lui aveva saputo della casa del sogno, altrimenti come ci sarebbe arrivato? Ma Fernande non sarebbe mai riuscita a cacciare via del tutto il sospetto che quella fosse una bugia, che il Poeta fosse capitato li spinto dal caso. Il nome di lei, che aveva scandito immediatamente, poteva anche averlo udito dalla cameriera che gli aveva aperto la porta. E se un po' teatrante lo fu sempre, lo era allora piú che mai.
Il Poeta avrebbe tenuto fede fino all'ultimo a quella sua versione dei fatti, sulla giornata in cui comparve a casa di Fernande, ammaliato dalla luce e dalla spaesata malinconia di lei, chiese di vedere le stanze, la segui fra una soglia e l'altra e poi giú per la stretta scala, verso il piano inferiore dove scelse la propria camera senza un attimo di esitazione. Senza piú un barlume di buone maniere.
– Perfetta, – disse arrivando al centro della stanza dove c'erano soltanto un grande letto matrimoniale spoglio, un comodino e una lampada di carta con un paralume sproporzionato. – Questa sarà perfetta. Vediamo la finestra.
Fernande tacque. Era rimasta sulla soglia.
La finestra era piccina, orientata verso la costa. Della curva che la baia disegna, lenta e larga e stanca, si vedeva soltanto un pezzetto, seminascosto dal giardino. La vegetazione era fitta e ricoperta di un'umidità viva, che faceva sembrare ogni cosa quasi a portata di mano. Il Poeta si avvicinò alla finestra, la apri, si affacciò con tutta la testa. Aveva un gesto, involontario, un movimento leggero ma nervoso delle narici che era come un fremito animalesco, ma non da predatore che fiuta il suo pasto nell'aria densa, no, come di timore. Di inquietudine.
– Perfetta, – ripeté. – La mia stanza è perfetta.
Fernande piegò il capo verso la spalla, pareva un cagnolino che aguzza l'udito per sentire un rumore lontano, quasi inafferrabile.
– Spero di poter godere della vostra ospitalità per qualche giorno, a partire da domani l'altro. Ho bisogno di tranquillità e ispirazione, questo posto sarebbe l'ideale, – spiegò in tono piú conciliante. – Non sarò di nessun disturbo, vi dimenticherete di me. E non mangio quasi, credetemi.
Lei sorrise. Era da incoscienti dirgli di si. Però si dichiarava un artista, anzi un poeta (la prima e unica cosa che aveva detto di sé). E proprio per questo lei l'avrebbe fatto, anche se in quel momento si limitò a un sorriso e a un cenno del capo che il Poeta non colse perché era ancora girato verso la finestra: ora lo sguardo spaziava in cerca dell'orizzonte nascosto, all'estremo occidente.
Due giorni dopo, puntualissimo, si presentò con una minuscola valigia di cartone, da profugo, e una grande cartella chiusa da un nastro di tela azzurra. La chioma spettinata e la barba di qualche giorno che creava delle chiazze opache sulle guance e sul mento. Sembrava invecchiato di colpo. Doveva essere arrivato col trenino blu sino alla stazione di Villefranche e di li era venuto a piedi. Faceva caldo, quel giorno.
Il Poeta entrò e si sfilò di scatto la sciarpa bianca, la buttò sul divano del salotto sbuffando. Poi si avvicinò al mobile bar e riempi due bicchieri di gin. Ne porse uno a Fernande e si sedette sul divano. Senza una parola. Però quando alzò gli occhi verso di lei, che era rimasta in piedi, aveva uno sguardo dolce, quasi paterno, e Fernande s'intenerí.
– Grazie, – disse.
Piú tardi scese nella sua stanza, vi si chiuse dentro e ne riemerse quando il sole era tramontato. Risali lentamente la stretta rampa di scale con lo sguardo basso, arrivato in cima si voltò e alzò gli occhi verso la volta del soffitto che fissò a lungo. Arlette, alle sue spalle con un vassoio in mano, non lo interruppe. Il Poeta si diresse verso il salotto, ma Fernande non c'era. Si guardò intorno, si stiracchiò, fece un paio di sbadigli. Aveva dormito per tutto il giorno. Faceva sempre cosi, alternando sonno e veglia a suo modo, magari tre giorni filati in piedi e due in letargo o viceversa. Solo allora notò la porta finestra socchiusa, e usci in giardino.
Da qualche tempo Fernande s'era messa a disegnare fiori. Usava del carboncino e dei colori in polvere che spandeva con l'indice di piatto, senza far quasi pressione. Disegnava a memoria, spesso rose e mughetti. Era una sera tiepida, calata presto perché la stagione era ormai inoltrata, ma lei – seduta sulla sua sedia, assorta – non s'era quasi accorta del tramonto, non aveva seguito il lento cammino delle ombre sugli alberi, sulla lastra immobile del mare, sul foglio. Il Poeta si avvicinò, le strappò il foglio di mano, lo guardò a lungo, poi glielo restituí in corrucciato silenzio. Le fece una carezza lenta e collosa, che parti dalla tempia, solleticò l'attaccatura dei capelli, segui la linea del collo divaricando pollice e indice per poterlo sentire meglio, si fermò nell'incavo della scollatura e li passò piú volte su e giú con il pollice, come per saggiare la consistenza della pelle. Fernande non si mosse, lo fissò con gli occhi sgranati, umidi, sbatté le ciglia una volta.
Prese la matita a carboncino dalla cassetta posata sull'erba, brillante per le prime gocce di umidità, e tornò in casa. Lei invece rimase in giardino.
Sulla parete del salotto sopra il mobile bar, nel punto nascosto dalla tenda che spostò con delicatezza, con due dita appena, il Poeta abbozzò qualche tratto. A volte piegava la testa verso la finestra per sbirciare fuori, con uno scatto secco da uccello notturno appostato su un albero. Disegnò Fernande ai quattro angoli della stanza, ogni volta in una posa impercettibilmente diversa, sempre di profilo, con il naso affilato, il mento un poco sfuggente, lo sguardo perso in quella lontananza di mare che era anche il suo inguaribile passato: dopo appena mezza giornata trascorsa a dormire sotto lo stesso tetto, il Poeta l'aveva già capito. Ogni tanto lasciava il muro, usciva fuori, la guardava da vicino, la toccava qua e là: una spalla, la linea della vita, le gambe sotto i pantaloni aderenti, la curva del fondoschiena, tutto senza mai farla alzare dalla sedia. Due o tre volte la annusò dietro il collo, fra i capelli.
– Vi ho messo uno specchio in sala, mia cara Fernande. Cosi potrete vedervi ogni volta che volete, – le disse prendendola per mano quando ebbe finito. – E poi fa freddo, qui fuori –. Per mano la condusse alle quattro se stessa create dal nulla con pochi tratti neri, spessi, mai spigolosi. La bocca, soprattutto: piena e ricca come lei non l'aveva – aveva labbra sottili, nervose –, eppure era la sua, la sua nel riflesso dei desideri mancati, nelle smorfie di dolore appena accennate, nella piega di un pianto trattenuto.
Fernande spalancò la bocca in un grande O, poi guardò il Poeta come se lo vedesse per la prima volta, si alzò sulla punta dei piedi e gli diede un bacio in fronte.
La mattina dopo, sul tardi, lui chiese ad Arlette uno straccio bagnato e cancellò tutto.
– Da quanto tempo disegnate, Fernande? – le domandò a colazione.
– Non so… Poco. Ho ancora tutto da imparare, – disse sorridendo.
– Continuate, – la incoraggiò. – Continuate con i fiori, io vi guardo.
– Perché?
– Perché mi piace immensamente guardarvi. E disegnarvi. Lo farò ancora, lo farò ancora… Ah, domani arriverà Paul. Spero che non vi dispiaccia.
– Chi?
– Paul. Il mio figlioccio… per modo di dire. Siamo quasi sempre inseparabili. Tranne quando ci giuriamo odio eterno e vendetta e morte violenta, – scoppiò in una risata. – Tranne in quei frequenti momenti, ci vogliamo un mondo di bene. Quanto a Paul, sono sicuro che vi piacerà… È un bel ragazzo, educato, servizievole. A volte un po' cocciuto, forse. Ma ha ancora tutto da imparare. Glielo insegneremo insieme, vero Fernande?
Simone
(1957, inverno)
Li stava aspettando fuori. Ogni tanto si spingeva nervosamente fino al giardino di place des Etats-Unis, nella speranza di vederli scendere, una buona volta. Poi però tornava indietro quasi subito, piú infuriato di prima.
Era la solita storia: il Poeta puntuale, preciso, sempre in affanno e quasi sempre in anticipo. E quei due sempre in ritardo, irragionevolmente in ritardo per via dell'ozio, della deliberata volontà di farlo aspettare, di spazientirlo. Due o tre volte il Poeta urlò persino un nome, di lei o di lui poco importava, contro il portone chiuso e le mute finestre del primo piano. Alla fine, senza piú un'ombra di pazienza, con tutte le fibre del corpo tese come molle pronte a scattare, si piazzò davanti al portone di legno intarsiato, dando le spalle alla strada.
Era una grigia giornata d'inverno, quando fa troppo caldo per essere inverno e Parigi s'impregna di umidità. Il Poeta indossò i guanti scuri, tirò forte i lembi per farli aderire alle dita, poi infilò le mani nelle tasche del cappotto: erano già sudate.
In quel momento Fernande gettò un'occhiata all'orologio a muro, sorrise fra sé e sé e disse a Paul che forse era tardi. Forse.
– Aspetterà, tanto è abituato. Provati ancora questo –. Si avvicinò allo specchio ovale davanti al quale lei era seduta, le arrivò dietro le spalle e le depose lentamente addosso una collana fredda, metallica eppure morbida. Era oro bianco, con una costellazione di piccoli smeraldi che scendeva giú giú, fin quasi ai seni. Paul non l'allacciò, continuò a tenere il collier con due dita per mano mentre si chinava verso di lei per vederla nello specchio.
– No, è troppo… Non è sera.
– Perché no? Magari farai colpo e ti daranno una parte. La principale. Diventerai una star… – Le sorrise. – Mettiti questo.
Fernande alzò gli occhi al cielo, cioè al soffitto del suo boudoir carico di oggetti personali, intimi, dove si rifugiava spesso da sola e dove trascorreva ore anche con Paul, a parlare o tacere insieme, passando in rassegna gioielli e borsette. Il Poeta detestava quella stanza, la trovava di cattivo gusto, e poi le tinte dominanti, rosa e argento, gli insultavano gli occhi. Lui era per l'essenziale, quasi rustico. Tanto nel minuscolo appartamento che divideva con Paul quel poco che stavano a Parigi, quanto nella loro casa di campagna, sul fiume, tutta di legno. «Non è da lei, quella stanza, – aveva detto qualche giorno prima a Paul mentre tornavano a casa. – Non so come fai a sopportare quel profumo di tuberose che stagna giusto all'altezza delle mie povere narici».
Paul e Fernande si erano rintanati nel boudoir e ne erano riemersi dopo tre ore, a mezzanotte passata: parevano quasi un po' brilli. Per un attimo d'incalcolabile brevità – eppure intenso e fulminante – il Poeta se li era immaginati avvinti in un intrico di arti, pieghe, lingue. L'immagine si era dissolta come il fascio di una stella cadente che non concede neanche d'imbastirlo, un pensiero. Il Poeta aveva sorriso, quasi compiaciuto dall'essersi spinto tanto avanti con la fantasia. Lui aveva passato la serata nello studio di André, a fumare sigari e tirare fuori una parola ogni tanto, una lui e una l'altro – il Poeta diventava sempre piú taciturno, André lo era sempre stato: si volevano bene.
– Mettiti questo, – ripeté Paul.
Fernande portò le mani dietro alla nuca per allacciare il collier. Aveva vinto Paul, come sempre. C'era un che di carnale, nel modo in cui gli si arrendeva. Non era lo sbandamento di una vocazione materna mancata, perché lui aveva solo due anni meno di lei e una tale presenza di corpo (nitida e scura, di una bellezza matura, completa), che era incapace di esercitare un'attrazione innocente. Fernande sapeva di lui cose che nessun altro, neanche il Poeta – che pure era suo padre, amante, padrone e servo – era in grado di vedere con la chiarezza con cui invece si presentavano ormai davanti a lei: la disponibilità di Paul a cedere a qualunque tipo di attrazione, maschile o femminile che fosse. E a dominarla, l'attrazione, con una fisicità naturale, spontanea, sempre pronta. Anche quando si appisolava nudo sotto il sole sul prato, senza neanche un asciugamano fra la pelle e l'erba, mentre Fernande e il Poeta fumavano seduti sulle sdraio.
Fernande si alzò e si avvicinò al grande tavolo basso con il piano di vetro. Aveva una collezione di scatoline, tutte minuscole e tutte preziose, d'argento e di cristallo e di pietre dure. Ne pescò una, solo apparentemente a caso, e ne estrasse un paio di piccoli orecchini d'oro bianco, con due perle a goccia in fondo. Paul fece una smorfia: – Stanno male con il collier, – disse seccamente, ma Fernande fece finta di non averlo sentito, si applicò le clips ai lobi senza neanche bisogno dello specchio.
– Possiamo scendere, ora.
Chiamò Nana per farsi portare il cappotto con il collo di visone chiaro e il cappello, Paul glielo mise addosso come faceva sempre, con la disinvoltura di chi conosceva perfettamente i gesti di lei, quel modo tutto suo di inarcare la schiena e piegare un braccio per volta.
– Siete in ritardo, – osservò il Poeta.
Fernande e Paul si guardarono e sorrisero. Dopo qualche istante arrivò la Bentley che ormai aveva i suoi anni. L'aveva voluta André a ogni costo quando tutto, dopo la guerra, era ancora incerto, in rapido e imprevedibile movimento. Quel macchinone segnava ormai il tempo, anche se l'aspettava ancora una vita lunga decenni. Come al solito il Poeta si sedette davanti a fianco di Constant, il taciturno autista, mentre Fernande e Paul stavano dietro.
– Poeta, come sto? – chiese lei bussandogli sulla spalla.
Lui si girò e perse di colpo tutta la rabbia, tutta l'impazienza: – Sei incantevole. Ti tratterranno sul set e noi ti diremo addio per sempre: dovremo andare al cinematografo, per rivederti… E tu ti dimenticherai di noi e avrai mille amanti diversi, uno per sera.
Paul le fece l'occhiolino. Fernande pensò che non le sarebbe spiaciuto fare l'attrice, anzi, in fondo lo era già: recitava per gran parte del suo tempo, con quei due, con André, con se stessa quando scacciava via i ricordi, ignorava le nostalgie, colmava le assenze con delle illusioni.
In quel grigio pomeriggio d'inverno il Poeta aveva deciso che sarebbero andati tutti e tre sul set: un promettente regista quasi sconosciuto voleva fare un film da un suo vecchio racconto uscito durante la guerra. L'aveva pregato in ginocchio di venirlo a vedere mentre ultimava le riprese di un altro suo lavoro, chissà se per convincerlo a collaborare o per quello sconfinato narcisismo di cui avrebbe ben presto dato prova – e che il Poeta avrebbe trovato intollerabile, tanto da mandarlo a quel paese e finire col diventare (ma molti anni dopo) regista di se stesso.
– Arriveremo che hanno già terminato, – borbottò il Poeta, rivolto piú all'autista che ai passeggeri. Attraversarono in volata il pont de l'Alma, imboccarono il Quai d'Orsay: la Senna era cupa e spumosa. Fernande s'incollò al finestrino e mentre il suo fiato caldo formava una piccola nuvola sul vetro lei sognò di essere a casa, al Buon Ritorno. Aveva nostalgia del mare e del verde che laggiú non moriva mai, anzi, d'inverno diventava piú intenso e profondo.
– Dove stiamo andando? – chiese dopo un po', mentre l'auto s'immetteva in boulevard Saint-Germain, là dove comincia. Ancora non lo sapeva, Fernande.
– All'Hotel Lutetia. Stanno girando in una stanza, li… Un film. O stavano girando se, come credo, arriveremo troppo tardi.
Per qualche ragione, o forse solo perché era distratto, l'autista non svoltò in boulevard Raspail, prosegui dritto finché, accortosi dell'errore, frenò all'improvviso e con un colpo di volante s'infilò a gomito in rue du Dragon.
Fernande si aggrappò alla maniglia e la strinse cosi forte da conficcare le unghie nel punto piú basso del palmo, appena sopra il polso. Appiccicò nuovamente il naso al finestrino, mentre passavano adagio davanti al portone di quella che un tempo, in un'altra vita, era stata la sua casa. Era chiuso, cosi come le persiane dell'appartamento al secondo piano da dove il Sarto l'aveva cacciata per darle una minima probabilità di salvezza e perderla per sempre.
«Dovete andarvene, tu e André. Prendono gli ebrei e li portano via. Nei campi di lavoro, all'Est… dicono. Presto verranno a prendervi… Andatevene, finché siete in tempo».
«E tu?»
Il Sarto si era voltato verso la piccola finestra con il basso davanzale. «Io? Io non ho da temere. Io resto qui».
«E noi?»
«Noi chi, Fernande? Tu sei sua, ormai… Non sei piú mia. Vai con lui, io sopravviverò comunque».
Poi era andato nell'altra stanza, e aveva buttato i suoi pochi vestiti nella valigia spalancata sul letto.
Seduta in auto accanto a Paul, Fernande sentiva un groppo in gola che andava su e giú, fra il petto e il palato. Solo allora comprese che di quel tempo non si sarebbe mai liberata, tutt'al piú le sarebbe stato concesso qualche periodo di amnesia fittizia, un sollievo superficiale e passeggero. Serrò i denti. Pensò che era stupido farsi prendere in quel modo dall'angoscia solo passando in una via della città, ma intanto erano arrivati davanti all'Hotel Lutetia.
Il Poeta usci dall'auto precipitosamente, sistemandosi il nodo della cravatta. Le portava di maglina leggera, sempre in tinta unita, e faceva un nodo stretto, quasi uno strozzo che gli incollava la camicia bianca al pomo d'Adamo. Dopo di lui scese l'autista, che apri la portiera dalla parte di Fernande. Lei ebbe un sussulto, come se qualcuno l'avesse svegliata in malo modo, e prima di uscire dall'auto levò uno sguardo sconfortato, quasi implorante, verso la facciata in stile Art deco.
– Che fai? Sbrigati! – le gridò il Poeta senza voltarsi, mentre attraversava l'ingresso. Il tono che si era dato sino a quel momento era sparito dietro un'agitazione incontrollabile. Era molto insicuro, nonostante l'età e la fama consolidatasi negli ultimi tempi: era stato persino eletto membro dell'Academie Française e la cosa, per quanto ne andasse fiero, lo faceva sorridere.
Paul invece l'aspettò, in paziente silenzio. Per qualche strana ragione, Fernande esitava a venire fuori dallo spazio protetto dell'automobile e respirare l'aria aperta. Qualcosa le paralizzava le gambe e lo sguardo. Paul si avvicinò e, sempre in silenzio, le porse una mano, per farla alzare e sorreggerla. La hall dell'albergo non era imponente ma calda, immersa in un'atmosfera di intimità, quasi. Lei però aveva tanta voglia di tornare a casa.
Il set era in una grande stanza del quinto piano in fondo al lungo corridoio di marmo bianco attraversato da una passatoia rossa. La storia era ambientata agli inizi degli anni Venti, li doveva svolgersi una scena d'amore, anzi di tradimento. Sul letto, coperta ma non troppo da un lenzuolo di seta opalescente, c'era una giovane donna che singhiozzava circondata da una decina di persone contemplanti. Il regista era in piedi sulla soglia, le braccia conserte. Fissava la donna con uno sguardo soddisfatto, concupiscente. Era alto, piú giovane di quanto Fernande si aspettasse, con un paio di baffi neri cosi sottili che parevano disegnati con la matita.
Quando vide il Poeta, si drizzò di colpo e disse: – Stop!
La donna smise immediatamente di singhiozzare ma rimase in quella posizione reclinata, il gomito destro sul cuscino e il viso appoggiato sul palmo della mano, una gamba fuori dal lenzuolo fin quasi all'inguine. Sorrideva, non si capiva se al muto pubblico da cui proveniva ora un brusio composto, al regista o allo sconosciuto magro e attempato col quale l'altro si stava prodigando in saluti e complimenti. L'attrice era piuttosto miope e fuori dal set portava degli occhiali vistosi, ma il copione non li ammetteva. Se li avesse avuti addosso avrebbe certo riconosciuto il Poeta, un artista poliedrico ed eccentrico, dicevano di lui, noto tanto per i suoi scritti quanto per la sua pittura, prodotti entrambi di un'arte che sfuggiva a qualunque tentativo di categorizzazione. Non c'era modo di inscriverlo in nessun movimento o corrente: il Poeta non era né simbolico né espressionista, né astratto né realista. Era il Poeta e basta. La donna sul letto lo conosceva, lo amava tanto come scrittore quanto come pittore. Ma da quella distanza non sarebbe mai riuscita a identificarlo, se a un certo punto il regista non l'avesse chiamata: – Simone, vieni qui. Voglio farti conoscere una persona.
Il Poeta le baciò la mano e la guardò benevolmente. Notò che era ancora piú giovane, vista da vicino. Non era nella sua indole accorgersi di quanto fosse bella. Toccò a Fernande, che era rimasta in disparte insieme a Paul (quasi per non intaccare il suo momento di gloria), toccò a lei guardare attentamente Simone, seguire con un occhio la dolce piega della fronte, il naso aggraziato, le labbra piene e lucide, come animate di vita propria; e con l'altro occhio seguire le onde dei capelli fino al corpo rimasto seminudo, la pelle chiara e luminosa – Chissà se l'hanno incipriata dalla testa ai piedi, pensò Fernande –, l'ombra appena accennata delle curve: tutto ispirava un desiderio, non tanto di possesso quanto di immedesimazione, di trovarsi dentro quel corpo, sotto quella pelle. E poi, la giovinezza sfacciata, quell'età per la quale Fernande già covava un vago rimpianto.
Il Poeta presentò Paul come il suo assistente e Fernande come la sua unica e gelosa musa. Fernande però non sorrise affatto. Qualcuno portò tre sedie, che vennero sistemate in prima fila, a poca distanza dal letto sfatto dove la donna si riaccomodò nella stessa identica posizione in cui si trovava quando il regista aveva decretato la pausa. Poi riprese a singhiozzare, gli occhi s'inumidirono e a poco a poco lasciarono colare grandi lucciconi. Ora si voltò di scatto, mostrando alla macchina da presa e al suo pubblico una schiena candida, sinuosa e morbida che neanche sembrava vera: veniva voglia di allungare la mano per sentirla. Fernande s'incantò, il Poeta sfoderò un sorriso largo, quasi ebete.
Le riprese finirono, quella scena breve e solitaria rimase sospesa da qualche parte negli anni Venti, nel vuoto di una trama sconosciuta. Fernande lanciò uno sguardo interrogativo verso Paul, che però era distratto. Il regista, invece, si buttò sul Poeta, gli chiese che cosa ne pensava, lo invitò nella stanza di fronte (la 153, che fungeva da spogliatoio) per parlargli del nuovo progetto. Moriva dalla voglia di convincerlo, e forse ci sarebbe riuscito: il Poeta sembrava un bambino di fronte a un giocattolo nuovo e sfavillante, sprizzava una felicità incontenibile. – Mi piace, mi piace questa cosa! – sussurrò nell'orecchio di Fernande prima di seguire il regista.
Lei e Paul rimasero sul set, a osservare l'andirivieni di gente, fili elettrici, spostamenti di mobili, tessuti e persone. Qualcuno porse una vestaglia verde smeraldo alla giovane donna, che la infilò sovrappensiero, accendendosi una sigaretta. Mentre legava la cintura in vita la sigaretta le rimase appesa fra le labbra strette, e una nuvola di fumo usci dalle narici. Fernande non riusciva a smettere di guardarla, cercando di decifrare il mistero dell'età: sembrava poco piú che adolescente, la sgomentava il pensiero che avrebbe quasi potuto essere sua figlia, se… quasi. Ma qualcosa – non soltanto nei gesti calibrati, in quella sua lentezza un po' scostante e un po' sensuale, qualcosa che stava anche nella consistenza della pelle, nella profondità delle curve – rendeva quella ragazza molto piú vecchia, molto piú consapevole di quanto non apparisse a prima vista.
– Fernande! – udí la voce di André che la chiamava, da molto vicino. Si scosse, come al brusco risveglio da un sogno che non capirai mai se era brutto o bello.
– Che ci fai qui? – domandò lei sorpresa.
– Il Poeta me l'aveva detto, l'altra sera, che sareste venuti al Lutetia.
Non si stupí del fatto che André sapesse come al solito piú di lei, dalla bocca del Poeta. Che amava tenerla all'oscuro, ma non per farle delle sorprese, come ai bambini, piuttosto per marcare la propria sovranità. Lei lo accettava. Cosi come del Poeta accettava certe sue ostentazioni, certi gesti osceni verso Paul, certi ammiccamenti fastidiosi capaci di rendere imbarazzanti intere serate. Il loro legame era fatto anche, forse soprattutto, di sospesi gratuiti, di piccole torture che lui le infliggeva e lei ogni tanto ricambiava. Ma tutto era sempre imprevedibile e capitava anche che il Poeta mostrasse solo e soltanto il proprio lato nobile, una raffinatezza sorprendente, nelle parole e nel modo di fare. Era fatto cosi, prendere o lasciare.
– Chi è? – domandò André alzando il mento verso la donna con la vestaglia. Senza preamboli, senza ritegno.
– Una giovane, anzi giovanissima attrice, – s'intromise Paul, mettendo una mano sulla spalla di Fernande. – Si chiama Simone. Simone Gottlieb… Pare sia mezza italiana. Non si vede? Pare anche che sia molto brava. L'ha scoperta il nostro regista che diventerà famoso grazie al Poeta.
Chissà come faceva Paul a sapere tante cose su quella donna, che ora stava continuando a fumare, seduta sul letto. Qualcuno le si avvicinò con un bicchiere d'acqua e un fazzoletto. Lei si alzò di colpo, il bicchiere in mano, e attraversò la stanza evitando con i piedi nudi i fili per terra. Passò di fianco ad André e Fernande, mostrò un sorriso distratto e li salutò con un cenno del capo, lieve. Fernande ricambiò, André no. La segui con lo sguardo finché non fu fuori dalla stanza.
– Si, mi ha convinto, – disse il Poeta in tono esultante. Stavano uscendo tutti e quattro dall'Hotel Lutetia, un'ora dopo. Era calato il buio, il cielo doveva essersi ripulito della cappa grigia che l'aveva oscurato durante il giorno, e malgrado le luci della città – sul viale alberato si affacciavano vetrine accese e fiacchi lampioni – s'intravedeva qualche fredda stella. Ma Fernande sentiva addosso, sulle spalle e fra i capelli, una neve secca, impalpabile eppure quasi tagliente: un pulviscolo denso e grigio che intorbidiva la notte. Chinò il capo, chissà se per proteggersi o esporre anche il tratto di collo nudo a quella precipitazione fredda: era reale o stava soltanto nei suoi ricordi, in quelli piú tenaci degli altri, piú prepotenti?
– Fa freddo, Fernande, – sussurrò Paul mentre attraversavano la strada per raggiungere l'auto che li stava aspettando. – Perché non ti metti il cappello?
Ne aveva tanti di cappelli, il Sarto, sparpagliati per terra e
appesi a cinque grossi chiodi infissi nel muro sopra il letto. Quel
giorno lui ne aveva preso uno di feltro grigio, da uomo, e l'aveva
schiacciato dentro la valigia, subito prima di chiuderla.
Appena l'autista ebbe accennato la svolta, Fernande si sporse precipitosamente verso il posto di guida: – Non di qua, Constant, passa da boulevard Raspail –. L'auto stava per tornare verso la chiesa di Saint-Germain, ma lei non voleva essere di nuovo costretta a sfilare davanti alla casa di rue du Dragon. Non voleva piú masticare quel passato.
Ora era André a essere seduto davanti. Si voltò e cambiò discorso: – Allora, Poeta, prenderai Fernande come attrice principale?
– Non spetta a me decidere, – rispose sornione.
– E a chi?
– Al regista. A lei.
– Sono troppo vecchia, ormai, – disse Fernande.
– Vecchia? – il Poeta si girò platealmente verso di lei, la guardò troppo a lungo. Paul gli premette la mano, come a dirgli di fermarsi.
L'intimità che il Poeta aveva con Fernande era fatta anche di gioco degli opposti, di umori contrastanti: quando lei si esaltava, lui era meditabondo; quando lui era allegro, lei malinconica. Ma adesso qualcosa stonava, come se fossero dentro uno stupido equivoco.
Pochi giorni piú tardi il Poeta acconsenti a fare il film.
Si era acceso di un entusiasmo infantile, senza compromessi: aveva scoperto il cinema. Avrebbe scritto lui la sceneggiatura, e presto sarebbero cominciate le riprese. Il promettente ma non ancora affermato regista l'aveva conquistato, ma forse l'avevano conquistato soprattutto la magia del cinema, lo spettacolo del suo farsi, la finzione della scena quando è ancora viva, animata.
Paul scuoteva il capo, e ogni volta che si appartavano ripeteva a Fernande che non sarebbe durato, lui il Poeta lo conosceva bene. Glielo diceva sottovoce per paura che il Poeta sentisse anche se era lontano, che gli riconoscesse sulle labbra quelle parole sottili, preoccupate. Paul temeva per lui la delusione ancor piú della rabbia, sapeva che la sua volatilità era tanto fonte di ispirazione quanto radice d'angoscia perenne, anche quando il Poeta conosceva uno spicchio di felicità. Paul era geloso, si. Ed era certo di capirlo come nessun altro, neanche Fernande.
Aveva ragione.
Neppure un mese dopo, quando André e Simone erano già amanti, lui la invitò a cena a casa.
Voleva mettere tutti alla prova: Fernande, il Poeta, persino Paul. Nella sempre piú breve stagione dell'anno che Fernande trascorreva a Parigi, il Poeta e Paul – pur abitando ufficialmente nel loro piccolo appartamento – consumavano i pasti a casa Wertheimer: il tavolo veniva apparecchiato sempre per quattro, e nei rari casi in cui i due non c'erano si toglievano i coperti in piú all'ultimo momento, quando il pranzo era ormai pronto. Quella parvenza di famiglia restava in forze anche se c'erano ospiti. Spesso era Paul che faceva gli onori di casa, serviva da bere destreggiandosi fra bottiglie, shaker e bicchieri dell'immenso mobile bar. Non ci si poteva sbagliare, sull'abbinamento di quelle coppie, ma gli scambi di occhiate, le intese reciproche, il loro modo di portarsi davanti agli altri non mancavano di intrigare, lasciando immaginare casuali intrecci temporanei. A Fernande quel gioco piaceva molto, agli altri tre un po' meno.
André aveva invitato Simone forse anche per sfidare quel mobile equilibrio, per smettere di fare la parte del taciturno comprimario. A volte era assente da Parigi per motivi di lavoro e la lontananza gli procurava una specie di soddisfazione. Si domandava come facessero quei tre, senza di lui che pure era una presenza sommessa, quasi marginale. Non se lo chiedeva mai, invece, quando Fernande, il Poeta e Paul erano giú in Riviera, al Buon Ritorno: come se la casa o il mare o forse la storia stessa che stava dietro quel luogo sostituisse la sua presenza.
Voleva provocare. Ma voleva anche ostentare Simone.
– Ho invitato l'attrice per domani sera, – disse infilando la testa in camera di Fernande, la mattina presto. Non pronunciò il nome di Simone né diede alcuna spiegazione. Sapeva che lei sapeva. Era stato Paul a dirglielo: a lui l'aveva rivelato il regista, quando si erano rivisti per fare il punto sul film: «Sapete che la mia piccola Simone è diventata l'amante del signor Wertheimer? – si era fatto una risata, compiaciuto. – Se son rose fioriranno…»
A differenza delle altre volte in cui si era dato a qualche scappatella, André aveva cercato discrezione. Si vedeva con Simone nell'accogliente mansarda di un palazzo nella zona dell'Odeon, evitando di comparire in pubblico, come aveva fatto regolarmente durante brevi e inconcludenti avventure fatte apposta per essere sbandierate.
L'attrice arrivò a casa loro in anticipo di un quarto d'ora, a bordo di un taxi. Era vestita con una semplicità disarmante, quasi fuori luogo. Con gli occhiali sembrava ancora piú giovane che quel giorno sul set. Era ombrosa, pareva anche un po' stizzita. Non degnò André di uno sguardo per tutta la sera, quasi non gli rivolse la parola anche se da allora l'avrebbe amato per tutta la vita, sino alla fine e anche dopo, chissà.
Fernande era sollevata, persino divertita, perché quella sera non c'era nessuna possibilità di scambiare Simone per sua figlia, non per questione d'età ma perché erano troppo diverse, due facce opposte della stessa luna. Solo il Poeta continuava a guardarla con un'aria paterna quasi sincera, non come quella che spacciava in pubblico per Paul, quando lo riteneva opportuno: «È il mio figlioccio, il mio braccio destro», diceva di solito, mettendogli una mano sulla spalla e pizzicando fra pollice e indice un punto preciso della schiena.
Al di là della barriera di ipocrisie, le due donne sentirono un'imperscrutabile affinità, come di due complici loro malgrado. Fernande perché era spiazzata da quell'intrusione femminile dentro il suo piccolo mondo di uomini, Simone perché da sempre aveva un intuito che andava al di là della ragione, e forse comprese già quella sera che qualcosa di profondo la legava alla moglie del suo amante.
Nonostante quell'aria seccata sulle prime, a tavola Simone si dimostrò affabile, desiderosa di raccontare e raccontarsi: – Mia madre mi ha abbandonata all'inizio della guerra. Di fatto, non l'ho mai conosciuta. Mio padre era molto anziano, stanco… Mi ha tirato su una vecchia zia: sono cresciuta con lei, in Italia. In piena campagna, quasi fra i monti… Fa molto freddo da quelle parti, d'inverno, sapete, – disse come per scusarsi.
– Dev'essere triste, crescere senza una madre.
– È capitato anche a me, Paul, – disse Fernande. – Si sopravvive.
– Vi hanno mai detto perché se n'è andata? – incalzò lui, ignorando l'osservazione di Fernande. – Per quale ragione, se c'era? – chiese timidamente.
– Un mistero assoluto. Un bel giorno è uscita di casa e non è mai piú tornata. Io non ho nessun ricordo di lei, anche questo è strano, no? In fondo avevo un'età in cui qualcosa ti resta già nella mente, dentro la memoria… E invece niente, come se non fosse mai esistita. Era straniera. Pare venisse da Praga… Mio padre è l'ultimo erede di un'antica famiglia nobile, è sempre stato fragile ma quell'abbandono l'ha spezzato per sempre. Ha continuato per anni a chiamarla, mia madre. Giorno e notte.
Questa era la storia che Simone s'era costruita piano piano, ancora sui banchi delle elementari, poco dopo la fine della guerra. Ma le sarebbe bastato scostare con la mano un lembo di memoria per ritrovare la storia vera. Un gesto lieve, quasi noncurante. Le sarebbe bastato affacciarsi su qualche trasparente ricordo, per rivedere nitidamente sua madre, tale e quale era. Simone tornava spesso a lei, di giorno quando atteggiava quello sguardo trasognato che l'avrebbe resa famosa di li a poco, di notte nei sogni che affollavano il suo letto quando dormiva da sola, senza un uomo accanto che si aggrappasse al suo corpo e lo accarezzasse a lungo. La madre c'era eccome, dentro i ricordi di Simone, ma quello era il suo modo di vendicarsi, di vincere l'inguaribile solitudine di bambina accerchiata dalla vecchiaia. A Torino, non in campagna, dove raccontava di essere cresciuta. Ma anche la città l'aveva cacciata via, perché era stato li – lungo un corso affacciato sul fiume – che sua madre l'aveva abbandonata.
– Ma Gottlieb non è un nome italiano, – osservò il Poeta.
– Il mio vero nome è Cordero. Ma non va bene per fare l'attrice qui in Francia, no?
– E Gottlieb da dove viene? Come l'avete scovato?
– Come l'ho scovato? – sorrise. – Per caso, non ricordo piú nemmeno se l'ho letto da qualche parte o sentito pronunciare… Mi è piaciuto e l'ho preso. Non vi piace, Maestro?
Simone chiamava «Maestro» il Poeta. Nessuno l'aveva mai fatto, nessuno gliel'aveva suggerito. Lui sorrideva grato, senza smentirla. Quanto al proprio nome d'arte, Simone fingeva di dimenticarsi che era quello di sua madre: l'aveva sepolto da qualche parte, insieme a lei. E forse era proprio a questo tenace esercizio di doppiezza che doveva la vocazione di attrice: era brava, oltre che bella, e di una bellezza strana, spiazzante. Incantava e al tempo stesso ti domandavi il perché. Che cosa aveva di cosi bello? Era tutta una questione di equilibrio, di passeggiata sul filo delle proporzioni, dei gesti, del modo in cui riempiva lo spazio con il suo corpo.
Nel corso della serata André era sempre meno divertito e piú inquieto. Non per timore d'essere scoperto, perché tutti lo sapevano già. Non c'era piú gelosia fra lui e Fernande, forse non c'era mai stata: comunque, André aveva sempre dovuto spartirla con qualcun altro. Prima il Sarto, poi quei due. Aveva voglia di Simone e sapeva che quella sera non l'avrebbe avuta, e a ogni minuto che passava il desiderio diventava piú grande e prepotente. A un certo punto si alzò e andò in bagno, per lavarsi la faccia con l'acqua gelata.
– Il soufflé è straordinario, Fernande. Il Grand Marnier gli dà carattere, sai che di solito detesto questa roba spugnosa e inconsistente, – disse il Poeta.
– Non è stata un'idea mia, però –. Fernande non aveva quasi toccato cibo, come suo solito. Assaggiava. Spesso dal piatto di André, anche se il suo era pieno della stessa pietanza. Quando André aveva finito, lei sostituiva il vuoto con il pieno e lui ricominciava, quasi senza rendersene conto. Fernande mangiava pochissimo, di solito fuori dai pasti, mescolando dolce e salato con assoluta indifferenza ai sapori.
– Mangia, Fernande. Almeno il dolce, – la implorò Paul lasciandole una carezza veloce sul capo. Simone guardò sorpresa prima lui e poi lei. André non l'aveva preavvertita dell'insolito ménage che avrebbe trovato in casa, le aveva detto soltanto che sarebbe stata una cena informale, in famiglia…
– Durante la guerra eravate una bambina piccola, vero Simone? Non ricordate proprio nulla di quegli anni tremendi? C'erano i tedeschi anche da voi, no?
– Si, ma io come vi dicevo ero in campagna, sfollata con la zia… Ho visto poco e nulla, praticamente non ho ricordi.
– Siete dei nostri, vero? – incalzò Fernande. Aveva avvertito un vago, remoto barlume di reminiscenza della guerra, di quando erano nascosti nella villa del Senatore. Come se la storia di Simone fosse già entrata una volta nella sua vita, come se l'avesse già sfiorata.
Prima di rispondere, Simone cercò lo sguardo di André: – Alla lontana, si.
– Già, immaginavo –. Fernande fissò suo marito, un po' per rivendicare, un po' perché si sentiva in colpa ad aver usato quel «nostri» che includeva tutti e tre e teneva fuori chiunque altro.
– Il soufflé per me resta un fascinoso mistero. Una magia della chimica, anzi un'alchimia, – continuò il Poeta. – Mangialo anche tu, Fernande, ti prego… Lei allungò il cucchiaino verso il piatto di André, dove erano rimaste rade macerie di impasto giallo chiaro. Ne prese una punta e se la portò alla bocca. Il suo era ancora li, tutto intero e gonfio. Lo passò con il piatto al Poeta, questa volta: – Tieni. È aria –. E scoppiò a ridere.
Fuori stava cominciando a nevicare. Una neve sottile, asciutta e fitta, ma quasi invisibile dentro il buio della notte precoce, una neve che non era bianca ma pallida e grigia, indifferente. Invece di bagnare il suolo lo copri subito di una polvere pesante, immobile.
Simone si voltò verso la finestra a guardare, anche se la neve non faceva alcun rumore. Senti freddo, sul collo e in fondo alla schiena. Guardò André e pensò che era folle pensare di legarsi a un uomo prigioniero nelle maglie di quegli strani affetti.
– Nevica, – disse Paul.
Il viaggio
(prima metà degli anni Sessanta, circa: tarda estate) Era stata una stagione greve, impregnata di una calura umida, con un lontano sentore di Tropici. Il mare sempre immobile, cupo. Le piante del giardino, vinte da quella cappa tenace, s'erano afflosciate pian piano, e avevano perso foglie e colori. Mattine uguali a se stesse, con una promessa d'aria fresca appena sorgeva il sole dietro il Capo estremo, dove era già Italia. Ma ben presto tutto tornava spossato dall'afa, dall'assenza di moto.
Fernande restava a letto fino a tardi, respirando quella precoce e illusoria frescura. Si svegliava, chiamava due caffè uno dietro all'altro, fumava cinque o sei sigarette di fila, accendendosene una con il mozzicone dell'altra, e poi cercava un altro po' del sonno notturno. Le imposte restavano chiuse tutto il giorno, l'aria nella stanza era impestata di tabacco e noia e una malinconia nuova. Verso mezzogiorno il Poeta faceva capolino, sbadigliando.
– Sei sveglia?
– No.
– Come no.
– Non sono sveglia, e neanche dormo…
– Non ti alzi?
– Fra un po', Poeta. Tu intanto vivi… Anche senza di me.
– Ma lo sai che senza di te vivo a metà.
– Non ci credo. Mi prendi in giro.
– Ho bisogno di te. Almeno per il telefono… Alzati, Fernande, ti prego.
Il Poeta provava per quell'apparecchio una diffidenza mista a paura. La prima la confessava, la seconda no. Per lui la voce all'altro capo del filo restava sospesa in un limbo irreale: il fatto che potesse coincidere con l'evidenza di una persona che chiamava per venirlo a trovare e poi compariva puntualmente sulla soglia di casa la considerava un'assurda combinazione di eventi. Fernande invece adorava il telefono, chiacchierava per ore dentro la cornetta, e soprattutto faceva da tramite per lui.
– È suonato già tante volte, oggi –. Il Poeta non rispondeva mai, e non lo faceva neanche il personale. Era un'esclusiva di Fernande.
– Richiameranno, non preoccuparti. Io non aspetto nessuno. Fra un momento mi alzo, lasciami ancora un po' qui…
– Come vuoi tu. Però è tardi.
– Ho sognato che nevicava. Era una neve grigia e secca, neanche fredda… pareva carta che vola nel fuoco quando brucia –. Fernande sbadigliò. – Fa caldo?
– Come al solito.
– Paul?
– È uscito in barca. Come al solito.
Paul andava a pescare con un marinaio di Villefranche quasi tutti i giorni. Partiva la mattina prima dell'alba, quando per le strade non c'era nessuno, e raggiungeva il porto a piedi, la canna che ondeggiava sulla spalla. Il marinaio lo aspettava già al molo: si allontanavano in barca senza scambiare una parola, dopo un po' doppiavano il Capo e s'infilavano in una minuscola caletta racchiusa fra scoscese pareti di roccia. Un vecchio pino obliquo faceva ombra allo specchio d'acqua, mentre un rottame non identificato giaceva impigliato fra due spunzoni di pietra. Il marinaio si fermava, allungava le gambe, piegava la testa, si posava sulla faccia il berretto blu e se ne stava cosi per ore, a dormire. Paul gettava l'amo in acqua, incrociava le gambe in una posa da antico indiano, si sceglieva un punto preciso dell'orizzonte e lo fissava, in attesa che qualcosa si muovesse. Ma capitava di rado. Il piú delle volte, quando il sole aveva attraversato una larga fetta di cielo, Paul tornava al porto a mani vuote, la pelle abbronzata, irruvidita dal sale in sospensione nell'aria. A neanche quarant'anni aveva già i primi capelli bianchi, distribuiti in modo arbitrario sulle tempie e la nuca: il sole donava a Paul una tonalità di paglia che gli accendeva anche lo sguardo. Se Fernande fosse riuscita a vederlo in assenza di gravità sentimentale – senza tutto il detto e soprattutto il non detto che c'era fra loro tre, senza la gelosia in perenne ondulazione, fra lei il Poeta e Paul, Paul lei e il Poeta, il Poeta lei e Paul –, se fosse riuscita una volta soltanto a vederlo per quello che era, sarebbe impazzita per lui.
– Allora, è finita con quello li? – domandava il Poeta quasi sempre a cena, riferendosi a uno dei suoi anonimi amanti.
– Si, – rispondeva Fernande. – Perché?
– Perché mi piaceva ancora meno di quello di prima –. E quella sera aggiunse: – Con quei baffi da siciliano, poi…
– Che fastidio ti danno, i baffi?
– A me? Molto, – rispose il Poeta.
Paul si alzò, e andò ad aprire la vetrata per fare entrare l'aria della sera. – Ho voglia di fare un viaggio, – disse rivolto al mare immobile.
A differenza del Poeta, lui non entrava mai in camera di Fernande. Cosi, in quell'estate umida Paul la vide poco: Fernande usciva dalla stanza solo a tarda sera, quando non di rado lui dormiva già. Il Poeta l'aspettava in salotto, le serviva un whisky senza che lei glielo chiedesse, a volte tacevano fino alle ore piccole della notte, a volte lei parlava, gli raccontava i propri sogni. Ogni tanto lo baciava sulla bocca: baci lunghi con le labbra serrate, baci asciutti e insensati che il Poeta riceveva con passività rassegnata.
Poi lui prendeva un blocco di carta, tirava fuori dal taschino della camicia la matita e cominciava a disegnarle i sogni: una stenografia animata di quelle visioni monotone, cupe. Riguardando i fogli, il Poeta era giunto alla conclusione che quei sogni dovevano essere ricordi di qualcun altro, frutto di un equivoco dell'inconscio.
André non metteva piede al Buon Ritorno da molti anni: era stato un distacco naturale, venuto insieme alla lenta conquista di una nuova intimità con Fernande. La loro era un'intesa che nessuno avrebbe mai piú potuto cancellare, neanche un amore duraturo come quello che ormai da tempo lo legava a Simone, neanche quella specie di famiglia che s'era costruita fra lei, il Poeta e Paul.
Lui e Fernande si erano lasciati alle spalle l'attrazione, la gelosia, tutto quello che esige possesso, la ricca collezione di rimorsi che avevano in comune. Nei mesi che lei trascorreva al Sud si scrivevano lunghe lettere che non parlavano mai del presente. A Parigi, dove Fernande viveva sempre meno, condividevano il letto, i pasti, la mondanità. Qualche volta c'era anche Simone: André le aveva messo a disposizione l'ultimo piano di casa, ma ognuno di loro aveva il proprio ménage. Era stata Fernande, anni prima, a suggerire ad André di farla abitare sotto il loro stesso tetto, per rendere piú viva quell'enorme casa quasi vuota. La sua presenza, chissà perché, la rassicurava.
André aveva chiesto piú volte un figlio a Simone, ricevendo sempre e soltanto un muto gesto del capo. Anche lei, come Fernande, sognava spesso quella neve grigia e pesante. Anche lei, come Fernande, viveva in bilico sopra un abisso nero di ricordi negati, di momenti perduti.
Una sera, dopo cena, André le disse: – Devo andare in Italia, Simone. Tu verrai con me. Torino –. Stava entrando nel settore dei ricambi per le auto. Il mercato era in espansione e lui, come al solito, l'aveva capito prima di tutti.
– Perché, – disse lei accavallando le gambe. Poi cambiò posizione, si tolse le scarpe con la punta del piede opposto, piegò le ginocchia e raccolse le caviglie sotto il sedere. André la prese come un'effusione, le cinse le spalle con un braccio e le diede un bacio veloce sulla testa. Ma Simone si riportò con la schiena dritta contro il divano.
– Perché lo voglio, – rispose lui. – E mi sarai utile, con il tuo italiano.
Lei non poté opporre resistenza e forse neanche lo voleva. Era in un periodo di pausa dal lavoro: l'ultimo film era al montaggio, che di norma durava sempre molte settimane. Aveva tre copioni da leggere, ma con tutta calma. Da un po' di tempo era stanca.
Cinque giorni piú tardi erano sull'aereo, senza che lei avesse avuto il tempo di pensare a quell'imprevedibile ritorno. Man mano che s'avvicinavano alla destinazione il cielo si faceva piú limpido, la lontananza dal suolo pura illusione. Simone stava attaccata al finestrino, cercando di cogliere un angolo di visuale piú largo possibile, André le accarezzò i capelli per quasi tutto il viaggio. «Che vuoi che provi, non ricordo quasi nulla di Torino, è come se non ci fossi mai stata… – ripeteva come per convincere se stessa. – Mio padre è un'ombra dentro di me, mia madre nulla. Di lei non ricordo nulla, del resto mi ha abbandonata che ero piccola, come potrei ricordarmela?»
Quando s'intravidero le Alpi tutto divenne ancora piú vicino: bastava un salto per atterrare su quelle nevi bianchissime e luccicanti, dove arrivava soltanto il sole. Poco dopo le montagne cominciarono ad aprirsi in vallate ampie, e la neve scomparve all'improvviso, come cancellata da un colpo di spugna calda. Sull'ultimo filare di creste l'aeroplano fece una brusca virata, si piegò su un fianco e cominciò la discesa, disegnando un cerchio quasi completo sopra la città. Simone vide dapprima le montagne sulla destra, l'imbocco della valle di Susa con la Sacra di San Michele che da quella lontananza pareva un immenso rudere precipitato lassú chissà come, corso Francia che tagliava la piana urbana e scorreva lento fra gli abitati e la campagna coltivata. Poi l'ala girò e lei ebbe la visuale opposta: le colline erano folte e scure come una foresta tropicale. Di tanto in tanto spuntava un tetto, una parvenza di casa. E il fiume, immobile.
L'aereo era ormai sul corridoio d'atterraggio, sotto di loro i colori si definivano a vista d'occhio, ed erano quelli di una fine estate radiosa, quando le foglie sugli alberi vanno incontro ciascuna al proprio destino. Quegli infiniti toni di colore stordivano la vista, e procurarono a Simone un improvviso giramento di testa. Se la prese fra le mani, chinò il capo verso le ginocchia come per attutire il colpo. André la guardò preoccupato, le bisbigliò all'orecchio qualcosa di incomprensibile.
– Sto bene, va tutto bene, – disse lei rialzando lo sguardo, ma con gli occhi ancora chiusi.
– Dove andiamo? – chiese Fernande poco dopo ch'erano partiti. Forse lo sapeva e scherzava, forse no. Aveva organizzato tutto il Poeta nel giro di qualche giorno, incrociando itinerari e conferenze a cui era stato invitato e a cui solitamente non si prendeva il disturbo di rispondere. Lei era rimasta quasi segregata nella sua stanza fino al momento di dare istruzioni per i bagagli, chiamare il giardiniere per i lavori da fare in loro assenza.
– In Italia, – rispose Paul voltandosi verso di loro dal sedile davanti, dove di solito si sistemava il Poeta.
Abbandonato il Capo, presero la strada piú bassa, quasi sul lungomare. Attraversando Eze diventava un viale alberato con enormi ficus grigi di siccità estiva, le fronde ancora lucide. C'erano dei bagnanti sulla spiaggia addossata alla ferrovia. Passarono per Montecarlo.
A Saint-Roman Fernande si drizzò sul sedile, diede uno sguardo fuori e scattò verso le spalle di Constant. – Non proseguire di qua, sali.
Aggirarono Roquebrune e Mentone dall'alto, evitando la riva del mare, ma appena dopo il confine si era formata una coda di automobili.
– Che succede? – disse il Poeta, che poco prima si era appisolato lasciando ciondolare la testa.
– Che succede? – ripeté l'autista a un passante sul ciglio della strada in un italiano quasi perfetto, solo impastato di vocali troppo lunghe.
– La processione! – esclamò quello.
– Dove?
– A Ventimiglia.
Loro tre si guardarono. Non c'era bisogno di aggiungere altro. Fernande sorrise per la prima volta da quando era salita in macchina, Paul fu il primo a scendere, poi si affacciò da fuori verso Constant e gli disse: – Tu aspettaci davanti alla stazione.
Fernande si spostò con il sedere verso il Poeta, per invitarlo a uscire. E di fretta. Temeva che la processione finisse prima del loro arrivo.
Indossava una gonna scampanata verde e una camicetta bianca con uno stretto scollo a V che finiva in una larga cintura gialla sulla vita sottilissima. Con quelle ballerine ai piedi sembrava una bambina. Era piú magra che mai, l'estate l'aveva consumata, resa quasi trasparente. Trottava davanti agli altri due, ogni tanto si voltava e sorrideva. Anche su verso la città vecchia, una ripida scalata fra gradini per lo piú sconnessi e instabili, Fernande procedeva lesta, incurante del dislivello che costò invece al Poeta varie soste per riprendere fiato.
– Dai, che diventa tardi!
Man mano che salivano l'animazione aumentava. Fernande si faceva strada fra la gente in una specie di gimcana fra corpi, gambe e teste di estranei. Poi si girava, guardava verso il basso, li ritrovava, sorrideva e riprendeva il suo cammino.
Venne un arco basso, seguito da una stradina stretta dove la luce quasi non arrivava. Arroccata su un instabile e goffo promontorio di roccia, la parte antica di Ventimiglia aveva una fatiscenza maestosa. In piazza della Cattedrale l'edificio nascondeva il colore originale della facciata dietro una secolare patina di polvere e sporcizia. Lo sfondo grigio e opaco delle case, il cielo perfetto ma troppo alto per essere vero: tutto sembrava pensato per far risaltare i colori della processione. Per accendere gli stendardi, la Madonnina in cima a un carretto pallida e compunta, con lo sguardo basso, le mani giunte e la postura storta, i fiori delle corone portate da gruppi di bambini, la stola porpora del vescovo dalla folta chioma bianchissima su cui i raggi del sole disperdevano sprazzi di luce iridescente.
Tornarono dopo due ore buone, sudati e contenti.
Fernande prese il Poeta sottobraccio, si alzò sulla punta dei piedi e gli bisbigliò nell'orecchio: – Adesso sono felice. Quasi.
Proseguirono il viaggio come in fuga, con una precipitazione allegra ma inquieta.
A Venezia si fermarono per una settimana. Il Poeta era sempre impegnato in lezioni sull'arte, interviste, letture dai classici francesi, mentre Fernande e Paul giravano per le calli senza meta: uscivano la mattina molto tardi dall'albergo, decisi ad andare incontro alle ore piú calde della giornata, quando i canali emanavano un fetore pesante, tremendamente malinconico.
– Chissà che cosa fa il Poeta, quando noi non lo vediamo, – disse Fernande guardando davanti a sé, oltre il ponte delle Guglie.
– Fa quello che dice. Non è capace di tenere i segreti. E nemmeno di mentire, nelle cose piccole. In quelle grandi si.
– A me mente comunque. Sempre. È per questo che gli voglio bene, – replicò Fernande. E dopo un attimo di silenzio aggiunse: – Se ti dicessi che non gli voglio bene ma lo amo, che faresti? Sei geloso?
– No, – rispose Paul sorridendo. Conosceva il Poeta. Conosceva la sua capacità di tramutare i sentimenti del prossimo verso di lui in qualcosa di riflessivo: non vedeva mai quello che gli altri provavano per lui, ma lo specchio delle proprie emozioni. Paul si era arreso molto tempo prima, quand'era ventenne. L'aveva lasciato fare, era diventato di una materia morbida e duttile nelle mani del Poeta. Non per amore, non ancora. Ma nemmeno per calcolo. Era stata una scelta di vita, ed era finita per diventare la sua vita.
– Neanch'io sono gelosa di te, Paul. È strano, ma è cosi. Del resto nemmeno di Simone sono gelosa, eppure dovrei… – Pensò che forse Paul e Simone erano i figli che non aveva avuto. Una madre non poteva essere gelosa, una madre doveva voler bene e basta. – Io a voi due voglio bene anche se mi avete rubato tanto.
– Veramente io non ti ho rubato nulla, Fernande. Sono arrivato prima di te.
– Ma non importa, che differenza fa, – disse pensosa. – Chissà il Poeta dov'è adesso, e come sta. Stamattina aveva molto mal di testa, speriamo non sia una di quelle sue emicranie che vanno avanti giorni e giorni… Prendiamo un caffè?
Si sedettero al tavolino di un piccolo bar all'angolo. Davanti c'era il teatro della Fenice, deserto.
– Pensi che gli altri capiscano quello che c'è fra di noi? – chiese lei dopo un bel po', quando non c'era piú caffè nella tazza e il calice di vino bianco secco era soltanto un'ombra acidula dentro lo stomaco vuoto di Paul.
– Non credo. Perché dovrebbero darsi questa pena.
– Per curiosità. A me verrebbe una gran voglia di capire chi siamo l'uno per l'altro, vedendoci per strada, o a teatro… A proposito, domani sera siamo a teatro, lo sai?
– Si, lo so.
Paul detestava tutte quelle mondanità cui il Poeta lo costringeva in modo incostante, sospinto dall'ispirazione del momento. Amava molto il cinema però, perché gli permetteva il distacco giusto, da entrambe le parti della cinepresa: come spettatore e come attore. Recitava da qualche anno ma saltuariamente, con estrema parsimonia di sé, non tanto per pigrizia quanto per convinzione.
– Sai, Fernande, in fondo fra noi non c'è amore. Fra nessuno di noi tre, per nessuno di noi tre –. Si portò il bicchiere vuoto al naso, per solleticare le narici. – Ci sono soltanto continue, sfiancanti prove d'amore. Ma amore e basta, quello no.
– E tu come fai a saperlo?
– Guarda quei gabbiani, come volano alti, – disse lui capovolgendo la testa per seguirli nel cielo torbido di un'afosa giornata in laguna. E per quella volta non ne parlarono piú.
Il viaggio continuò, lungo, interminabile.
A Firenze congedarono l'autista e decisero di proseguire con il treno. Fernande riservò un vagone intero, per tranquillità.
A Roma Fernande comprò: tre cappelli identici (diversi soltanto nel colore) a larghe falde leggere che al primo soffio d'aria sventolavano rumorosamente come ali di gabbiano; un imprecisato numero di pantaloni alla caprese, perché il Poeta le aveva ribadito che se c'era una cosa di lei che andava mostrata erano le caviglie; una cassa piena di guanti che le costò un pomeriggio intero in un minuscolo negozio in piazza di Spagna; un baule per spedire tutto a Parigi.
Un giorno, dal loro hotel in via Veneto, lei scrisse una lettera ad André in cui diceva che stava bene come non accadeva da molto tempo, che per il Poeta il tour era un continuo bagno di folla entusiasta, mentre lei e Paul oziavano amabilmente (a voce, con loro due ammise di avere un poco esagerato), che Venezia l'aveva stufata, Firenze lasciata tutto sommato indifferente. Concluse dicendo che Roma non era piú la stessa, anche se sempre cadente. La lunga lettera arrivò a Parigi, approdò sul piatto d'argento all'ingresso, di li qualcuno la prelevò e la infilò in una grande busta, insieme a tutta la corrispondenza degli ultimi quindici giorni.
A Napoli s'imbarcarono. Paul era felice. Cinque giorni interi di navigazione prima di arrivare a Maiorca. La sera precedente era piovuto, il primo temporale della stagione che aveva lasciato una lenta onda lunga e un cielo distillato.
– Fernande, voglio portarti alla corrida. Bisogna vederla prima di morire, – disse il Poeta. – Non è vero che è una battaglia impari: il toro e il suo carnefice si guardano, si capiscono. È una danza… Della morte, ma pur sempre una danza. E poi i toreri sono bellissimi, femminei, sensuali… Vero Paul?
Paul annui e si alzò. Sul ponte cominciava a fare freddo, il sole era a un passo dall'orizzonte, laggiú dritto davanti alla prua della nave.
– Io non sopporto la vista del sangue, – replicò lei.
– Ma il sangue della corrida è etereo, sublimato… Fa soffrire, ma soprattutto lo spettatore, è un antidoto alle sue paure. Vedrai.
Il Poeta fece svolazzare la sua sciarpa bianca fin dietro le spalle, tirò fuori il taccuino dalla tasca interna dell'impermeabile e cominciò a disegnare. Doveva tenere il bordo stretto fra pollice e indice per non consegnarlo al vento. Fece un toro curvo con un unico tratto di matita, come la buccia di una mela che forma una lenta spirale assecondando la lama del coltello. Il torero invece era un profilo nervoso di brevi tocchi neri, lo sguardo nero anch'esso, una gamba piantata sull'invisibile suolo bianco del foglio e l'altra quasi inginocchiata.
Il torero, quello vero che entrò trionfalmente nella pomposa arena di Ronda, sotto un caldo soffocante, era basso e tozzo: nulla a che vedere con il sogno che il Poeta aveva posato sul foglio quel giorno. L'arena era muta, un silenzio abissale, ma al primo affondo del toro, che si buttò sul telo e per un soffio non incorno quella minuscola e buffa figuretta, Fernande lanciò un grido acuto dal palco, e svenne.
– Non sopporto la violenza, te l'avevo detto, – ripeté quella sera, distesa nella stanza d'albergo, mentre la cameriera stava facendo i suoi bagagli con la valigia spalancata per terra come una fauce enorme.
Il Poeta era seduto sul bordo del letto, piú rabbioso che mortificato. – Ma non è violenza, è rituale. A cena vieni o rimani qui?
– Se rivedessi il torero mi sentirei di nuovo male. No. Resto in camera.
– Peccato, è un uomo molto interessante. Ha chiesto lui di conoscermi quando ha saputo che ero in città per l'inaugurazione della mostra… Fra l'altro quel loro artista è un imbrattatele, non vale nulla, poveraccio.
A Minorca Fernande cominciò a sentire la nostalgia. Davanti a quel mare serafico che entrava negli anfratti di roccia bassa, formava fiordi di un'acqua verde cupo, specchio del bosco che arrivava fin sulle rive, senti nascere dentro di sé una voglia prepotente di tornare a casa.
Paul e il Poeta, invece, sperimentarono un'inedita luna di miele fatta di brevi effusioni sulla terrazza e bagni notturni in piscina, mentre Fernande stava male. Di notte restava sveglia e il giorno lo trascorreva dentro un falso sonno agitato, pieno di scosse e urla che si teneva dentro. Non era piú depressione, ma uno sgomento sortito da chissà dove, che solo il ritorno a casa, di questo era sicura, avrebbe soffocato. Non guarito, quello no.
Mentre il Poeta trattava l'acquisto di una minuscola casa colonica nell'entroterra dell'isola («È questo che voglio, – ripeteva, – non vedere il mare»), Fernande s'imbarcò per Barcellona: di li con un aereo avrebbe raggiunto Nizza. Sull'aereo si addormentò appena ebbero decollato: sognò se stessa quel giorno per mare, verso Roquebrune. Nel sogno si teneva la pancia con il palmo di una mano, come per proteggere qualcosa.
– Ora sono io che ti chiedo un figlio, – disse Simone quella sera a Torino, guardando dalla finestra della stanza: dall'ultimo piano dell'Hotel Ligure si vedeva un pezzo della Mole. Fissava quell'ago blu mentre dal letto André faceva lo stesso con la sua schiena nuda.
– Non posso, e non solo per Fernande… Ho perduto tutti laggiú, sono rimasto io soltanto. Non posso mettere al mondo nessuno, Simone, mi dispiace… L'ho chiesto e sognato tanto, un figlio. A lei, a te. Ma adesso… Non posso, non posso, non posso.
André si prese la testa fra le mani. Aveva già tanti capelli grigi, a quell'epoca.
– Piango, – disse dopo un po'. E lo fece. Simone rimase dov'era, nuda contro la finestra. Quel pomeriggio lei aveva trovato il coraggio di andare a camminare lungo il Po. L'aveva in testa da giorni, quella passeggiata, e non sapeva neanche lei se per ritrovare o perdere per sempre qualcosa. L'ombra di sua madre che aveva respinto in fondo a se stessa, sebbene s'affacciasse continuamente nella sua vita ogni volta che diceva: «Non ho nessun ricordo di lei. Nulla». Tutti avevano fatto a gara per darle una versione accettabile di quella sparizione, l'importante era che fosse il piú falsa possibile.
Ma lei lo sapeva. L'aveva sempre saputo.
Quel pomeriggio di tarda estate lungo il fiume, però non aveva trovato il coraggio sufficiente per attraversare il ponte e tornare proprio li, su quel camminamento dove – a volerle cercare davvero – avrebbe rivisto le loro quattro impronte, la pianta rampicante da cui sua madre aveva strappato un fiore tardivo per infilarlo dietro il suo orecchio di bambina, come una matita. E poi scoppiare in una breve risata fuori luogo.
Ma il fiume era troppo stretto per non rivedere tutto ugualmente, dalla sponda opposta. Nitido il sentiero, e la piattaforma dove pascolavano le anatre con i loro piccoli, e l'argine alto e scosceso, interrotto ogni tanto da qualche gradino di terra che portava su verso il corso alberato.
– Ho pianto anch'io, oggi, André.
– Domani ti porto via. È bella questa tua città, anche se un po' triste. E io non voglio, non posso darti un figlio… – Si fermò, poi riprese a singhiozzare: – Sono rimasto soltanto io. Sfiorato e ammorbato da quella morte che in quegli anni ci ha presi tutti… Simone si sedette sul letto e gli accarezzò i capelli per un tempo interminabile, finché lui non si addormentò.
Poi venne l'alba.
Ed era un'alba che sembrava di allora, di quella scura stagione in cui la neve cadeva ogni giorno disperdendo nell'aria un pulviscolo di cenere che strozzava in gola, fermava il respiro.
Salirono fino al colle di Tenda passando per Borgo San Dalmazzo dove i gelsi, ormai spogli, sembravano mani tese al cielo. Dopo Breil, ancora dentro la gola del torrente, già si sentiva lontana ma presente l'aria di mare. Di quella andavano in cerca entrambi, per spaziare all'infinito con lo sguardo e cacciare via i ricordi.
A Sanremo, in un grande albergo dalla bianca facciata in stile Belle Époque, Simone apri la busta gialla con la corrispondenza degli ultimi quindici giorni appena arrivata da Parigi, e lesse per lui le lunghe lettere che Fernande aveva scritto durante il viaggio.
Quando non c'era ancora il faro
(intorno alla metà degli anni Sessanta) Tanto tempo fa, i pescatori di Villefranche partivano sui loro gusci di noce. Tutti insieme, ciascuno sul suo. Lasciavano il porto in fila con lenti e stonati colpi di remi, diventavano delle chiazze colorate, accese qua e là da un raggio di sole. Prima di sparire rimanevano a lungo immobili sul profilo dell'orizzonte, inerti detriti che il mare non ha fretta di depositare sulla riva.
I pescatori di Villefranche restavano in mare per molti giorni, forse settimane, ma in quell'epoca remota il tempo non era una riga dritta.
I pescatori di Villefranche erano giovani e vecchi, alcuni ragazzi appena fatti. Avevano tutti la pelle scurita dal sole, la fronte solcata da rughe, le braccia muscolose di chi è avvezzo a muovere remi e spostare vele. E manovrare le reti, che raccoglievano a bordo o rilasciavano lentamente dentro l'acqua, come quando si tiene per le mani la treccia folta di una bella donna e quasi non ci si crede, che sia cosi spessa, cosi soffice.
I pescatori di Villefranche, uguali in questo a tutti gli altri pescatori ai quattro angoli del mondo, lasciavano a casa le loro donne. Giovani o vecchie, belle o arcigne, gonfie di parti e fatiche o esili come canne di palude. Le donne dei pescatori, quando loro erano in mare, riparavano le reti con gesti veloci e sapienti. Cucinavano le verdure della stagione, raccoglievano la frutta dagli alberi, figliavano e allattavano, si confidavano dei segreti che spiccavano subito il volo nell'aria tiepida della mattina. Quando pioveva, ed era una pioggia tenace, incattivita, le donne dei pescatori si rintanavano in casa e accendevano il camino. A volte si bruciavano un dito, un gomito, una ciocca di capelli.
Ma in quel remoto passato in cui i giorni non avevano un nome e capitavano in imprevedibile sequenza, vicini o lontani a seconda della stagione, dell'incostante avvicendarsi di luce e buio, in un giorno o in un altro le donne dei pescatori di Villefranche si ritrovavano tutte insieme al porto. Non c'era bisogno di passare di casa in casa per avvertire che era giunto il momento. Loro lo sapevano.
Le donne dei pescatori di Villefranche facevano la conta. Perché non arrivavano tutte insieme, ma alla spicciolata, senza fretta. Quando non mancava piú nessuna, s'incamminavano sorridenti. Non andavano verso l'entroterra, in direzione della strada principale dove a quell'epoca passava qualche carretto ogni tanto, ma imboccavano un sentiero cosi stretto che dovevano disporsi una dietro all'altra, come in un corpo di ballo dove ognuna conosce il proprio ruolo. Il sentiero andava assottigliandosi man mano che s'inoltrava nella boscaglia, ma loro avrebbero potuto seguirlo anche a occhi chiusi. Qualcuna lo faceva. Con lo stesso passo cadenzato e fiducioso camminavano per un'ora, forse due e forse anche tre: camminavano il tempo che ci voleva, né piú né meno. Quando quel tempo era finito, loro erano arrivate in punta al Capo. Tanti anni dopo – anzi, un periodo incalcolabile che potrebbe essere molto o poco o anche niente – arrivavano là dove ora c'è il faro e una volta forse ancora non c'era.
C'erano solo un vecchio pino storto, un masso chiaro, qualche arbusto spinoso né vivo né morto, e dopo piú nulla, soltanto macchia boschiva piegata verso i monti perché quella era la direzione del vento, e lo è ancora – chi ci dice che il tempo non sia altro che una cocciuta illusione. Chiunque, giunto li, sarebbe tornato indietro: il terreno scendeva a precipizio sul mare, la vegetazione s'interrompeva poco piú in basso, dove tre gabbiani scrutavano e forse ancora scrutano l'orizzonte.
Chiunque, ma non le donne dei pescatori di Villefranche, che avevano un segreto e forse ce l'hanno ancora. Non un passaggio, una caverna, una scala nascosta. Forse, piuttosto, delle ali ripiegate sotto le braccia robuste, dietro i fianchi sodi. Come di angeli. In qualche modo che nessuno sa, loro scendevano fin là dove il mare incontra la pietra, dove le onde s'infrangono schiumando o creando piccole pozze immobili in cui pascolano i granchi.
E scendevano al momento giusto, sempre. Forse lo fanno ancora, basterebbe arrendersi alla certezza che viviamo tutti in un eterno e indelebile presente, e loro sarebbero ancora li, comparirebbero alla vista come miraggi concreti, quasi tangibili.
Quando la fila indiana s'era sciolta, appena erano scese tutte su quella riva impervia, l'orizzonte si macchiava di minuscole chiazze: imperfezioni nella filigrana di un foglio. Un po' alla volta, però, non erano piú dei puntini vaghi sul mare, ma diventavano ombre lucide in lento movimento.
Erano i pescatori che tornavano a casa.
Quando le barche erano ridiventate vele e remi e braccia e pescato che ancora si muoveva nelle reti, le donne si alzavano le gonne e saggiavano l'acqua del mare con il piede, cercavano un appiglio. Le piccole prue puntavano verso quell'angolo di rocce e schiuma, piú o meno là dove un giorno sarebbe sorto il faro. Poi, fra mare e roccia, i pescatori mollavano i remi, alzavano lo sguardo e sorridevano. Sorridevano anche le loro donne, ciascuna a modo suo. Senza un grido, un richiamo, un bisbiglio, gli uomini allungavano un braccio alzando di poco il sedere dall'asse di legno. Non si mettevano in piedi per non perdere l'equilibrio: tendevano soltanto una mano nodosa e salmastra verso terra. Abbarbicate alla roccia con un piede nell'acqua e l'altro no, le donne facevano lo stesso, ma con il braccio opposto: in quel momento strano e magico, senza un grido, un richiamo, un bisbiglio, ogni mano si ricongiungeva all'altra, ogni sguardo riconosceva il proprio. E infine ogni piede, prima quello asciutto e poi quello bagnato di mare, saliva sulla barca giusta.
Cosi era il ritorno dei pescatori di Villefranche.
Ed era un buon ritorno perché era come se tutti, uomini e donne, avessero trascorso insieme quell'assenza, come se non si fossero mai mancati a vicenda, come se quell'orizzonte lontano fosse di entrambi. L'ultimo tratto di mare lo percorrevano cosi, in silenzio, guardandosi negli occhi, ritrovandosi anche se non si erano mai perduti.
Il Poeta si alzò faticosamente dalla sdraio: fu cosi tanta la forza impressa sui braccioli di legno che sotto la scorza diafana di sottili macchie scure, le mani diventarono livide e subito dopo biancastre. Prese il cappello e si copri la testa. Sulla chierica che cominciava là dove finiva una corona di capelli bianchi, folti e sempre scomposti, c'era una fioritura di macchie uguale a quella delle mani, che il sole aggrediva senza pietà. Sistemò meglio il cappello, dandogli una leggera inclinazione per riparare gli occhi. Eppure c'era un sole gentile. S'incamminò verso il muretto, senza guardarsi indietro.
Fernande lo stava osservando da dietro la vetrata del salotto, e sorrideva. L'inverno era stato pesante: il Poeta aveva perso la sua incrollabile salute e con essa, almeno cosi pareva, la voglia di vivere; era vecchio, di una vecchiaia ormai innegabile. Ma dopo un lungo periodo trascorso a Parigi – fra consulti, ricoveri e inutili convalescenze nella casa di campagna – ora finalmente erano ritornati a casa, tutti e tre.
Ai primi di marzo capitava ancora di aver bisogno del camino acceso, il tempo era incostante, a giornate di pioggia densa seguiva magari un sole caldo e promettente ma poi il cielo tornava a coprirsi di una cappa torva, invernale. Quella mattina, vista la luce limpida dell'alba, Paul era andato a pescare.
Ma non era lui che il Poeta cercava ora con lo sguardo verso l'orizzonte. Fernande osservò a lungo quella sua immobilità, a tratti interrotta da un fremito del capo che vedeva soltanto lei, perché lo conosceva bene, tanto nei gesti quanto nei moti d'animo. Poi sorrise e fece scorrere la vetrata, producendo un sibilo lungo che sul finale divenne una specie di gracchio. Da chissà quali lontananze, l'inverno portava sempre fin lassú della sabbia grigia, granulosa, che s'infilava negli interstizi dei serramenti, quasi li ostruiva. Bisogna passarci il pennello, pensò Fernande mentre scavalcava la soglia per uscire. Si voltò, vide Maria che passava per il corridoio con uno straccio in mano, ma non disse nulla.
Quasi in punta di piedi, raggiunse il Poeta.
– Che meraviglia, – disse lui senza voltarsi. L'aveva sentita accanto a sé.
– Qui stai meglio che in qualunque altra parte del mondo, lo so. L'ho sempre saputo.
– Non importa come sto io. È quello che sta fuori di me. Guarda la luce, oggi. Guarda.
Teneva lo sguardo fisso in un punto non troppo lontano, verso la baia dove quattro o cinque barche all'ancora sembravano poggiare su una lastra di vetro blu. Tutto era fermo, non per assenza di vento ma perché sembrava dipinto. Il Poeta continuava a fissare quel punto vuoto del mare. Fernande segui il suo sguardo ma non trovò nulla.
– Smettila di vestirti da uomo per me, Fernande –. Le cinse le spalle e si girò, girandola con sé. – Da domani ti voglio sempre e soltanto con quelle gonne ampie che fanno la ruota. Getta via tutti questi pantaloni, riesuma le tue scollature di un tempo… .
Fernande rise buttando indietro la testa. Il cielo era vuoto, ma da qualche parte un gruppo di gabbiani stava sbraitando. Negli ultimi anni, a parte gli abiti da sera, lei aveva indossato quasi soltanto pantaloni. S'era anche fatta fare da un giovane stilista molto promettente una serie di smoking di colori diversi, con il bavero della giacca di un raso meraviglioso. Si sentiva piú se stessa, in quello stile quasi androgino che portava con l'eleganza della sua età matura, con quel corpo filiforme in cui le poche e strette curve stavano sparendo. Era convinta che quel modo di vestire piacesse al Poeta e la rendesse piú adeguata al posto che occupava fra loro due, dentro loro due, in mezzo, accanto.
Piú tardi, durante la cena, il Poeta chiese a Maria di aprire la finestra perché voleva sentire il tepore della notte. Tirò un respiro profondo, prese un'ultima forchettata di pesce con la maionese, piú salsa che la carne bianca e pastosa della rascasse, masticò a lungo, posò la forchetta sul piatto e disse: – Lo dirigo io, il film. Altro che registi. E sarà qui. Al Buon Ritorno. E tu, Fernande, sarai la mia diva. Impara a portare la gonna, mia cara!
Lei e Paul si guardarono.
– Ma come? Non sai neanche da dove si comincia! – disse Paul alzando la voce in tono scherzoso.
– Pensi che non sia capace di imparare? Troverò qualcuno che m'insegni.
– E di cosa tratterebbe, questo film?
– Te lo dirò quando sarai un po' meno sarcastico. Tu, per intanto, avrai un ruolo del tutto secondario. Anzi, no. Niente.
Paul rise.
Anche Fernande.
Il Poeta non ci badò.
– Oggi, guardando il mare, ho ripensato a quella serata dell'anno scorso a Villa Surya, vi ricordate? La noia di quella gente, il cibo orrendo, il tempo che non passava piú… Però stamattina mi è tornata in mente la leggenda. Qualcuno aveva chiesto come mai questa parte del Capo si chiama Buon Ritorno, qualcun altro aveva menzionato una leggenda sulle donne dei pescatori che venivano qui ad aspettarli o piuttosto a chiamarli, a farli tornare a casa.
– È vero, – disse Fernande. – Ricordo anche che mi ero stupita perché non mi ero mai chiesta prima come mai la casa si chiamasse cosi… Per me era sempre stato ovvio, questo nome. Sembrava, anzi, fatto apposta per me e questa casa. Quella sera, scoprii come mai.
– Se è per questo, – disse il Poeta, – quella sera scopristi anche l'intimità della stanza da letto, al piano di sopra. Rientrammo solo io e Paul.
– Già, – disse Paul guardando tre lische rimaste nel piatto.
– Già, – disse Fernande alzandosi per andare a chiudere la finestra. – Fa freddo, non è ancora stagione per spalancare tutto, men che meno la sera.
– Tornasti la mattina dopo, – insistette il Poeta.
– E allora?
– Niente.
– Niente.
Fernande alzò gli occhi e lanciò uno sguardo obliquo in direzione di loro due, un occhio per ciascuno. Stava arrivando Maria con le verdure, e non le andava di mettersi in piazza con la cameriera, ansiosa di lanciare preziosi pettegolezzi su di lei in paese. Del resto, aveva sempre accettato le gelosie e i risentimenti del Poeta, e André continuava a volerle un bene dell'anima, ma era innamorato di Simone. Di piú: era come se lo fosse stato da sempre. E degli amanti passeggeri di sua moglie non gli importava niente.
La mattina successiva, il Poeta si svegliò prima del solito e si fece accompagnare a Nizza per comprare una cinepresa. Era grossa e panciuta, la studiò a lungo, passò molto tempo al telefono, anche se lo detestava. Poi si chiuse nel suo studio al piano di sotto, dove aveva voluto la scrivania di vimini contro il muro per non incontrare distrazioni. E scrisse, scrisse e disegnò per molti giorni, come faceva sempre quando l'ispirazione lo visitava e non bisognava disturbarlo né rivolgergli la parola, a meno che fosse qualcosa di veramente importante. Questa volta, prima di segregarsi – usciva giusto per il bagno e un pasto al giorno –, prese un pennello e dipinse sulla porta, con un tratto spesso e sicuro: Il Poeta sta poetando.
Si liberò da quella clausura una decina di giorni dopo. Era tornata la pioggia, che aveva portato uno stranito odore d'autunno dentro casa. Fernande aveva fatto accendere il camino per scacciare l'umidità, fuori tutto era avvolto da nuvole basse che sembravano fumo risalito dalla terra. Quella notte non aveva chiuso occhio, fra una sigaretta e l'altra credeva di aver sognato, ma da sveglia, un treno in corsa che aveva fischiato troppo a lungo. E la solita neve secca: larghi fiocchi grigi che cadevano pesanti sul suolo deserto. Ora era seduta sul divano del salotto, il tavolo basso ingombro di fogli e cartelline: stava parlando concitatamente al telefono. Dei conti del Poeta, dei suoi contratti, dei diritti d'autore da riscuotere e immancabilmente sollecitare. Paul, del resto, continuava a vivere nel suo limbo dove il denaro non esisteva e su tutto vigeva un principio di equo scambio: lui elargiva affetto, calma, equilibrio, e riceveva in compenso di che vivere. Della casa di campagna non lontano da Parigi però si occupava personalmente, con lo stesso amore pacato che riservava alle persone che gli vivevano accanto, uomini o donne che fossero.
– In questi lunghi e produttivi giorni ho maturato una convinzione, – disse il Poeta senza preamboli, facendo irruzione in salotto.
Fernande disse: – Scusi, – e staccando l'orecchio dalla cornetta incollò la mano sul ricevitore, istintivamente.
Paul alzò gli occhi dal libro, con sincero disinteresse.
– Gli extraterrestri esistono. Non c'è dubbio.
– Tutto qui? – chiese Paul.
– Ho finito la sceneggiatura.
– Cosa c'entrano gli extraterrestri? – domandò Fernande mantenendo saldamente la mano sulla cornetta del telefono.
– Niente. Ma sono sicuro che esistono.
Le riprese del film intitolato Il Buon Ritorno cominciarono due mesi piú tardi, quando l'estate era ormai una certezza. Fu una stagione unica, impagabile, di sole, si, ma anche di desideri comuni, di un entusiasmo lieve, spensierato: Fernande si era rianimata, e recitava con una naturalezza quasi incredula, come se non avesse fatto altro per tutta la propria esistenza, con e senza loro due.
Il film narrava la storia delle donne di Villefranche che aspettano i loro pescatori, anzi che li chiamano a riva come sirene buone: le mani tese verso il mare, lo sguardo che spazia verso invisibili lontananze. Il Poeta era andato di casa in casa ad assoldare le sue comparse. Le filmò nelle loro stanze, con gli abiti di ogni giorno, sgualciti dalle fatiche e dalla povertà. Trascorse giorni interi al porto, insieme al suo «macchinista», come lo chiamava lui, l'operatore con l'enorme cinepresa e i due assistenti. Mattine intere a seguire il viavai delle barche, o meglio il placido ozio del molo dove non succedeva quasi nulla, i mucchi di reti al sole, il greve odore di mare che esalava dall'acqua ferma.
Tre giorni durò la ripresa della camminata dal porto alla punta del Capo, sotto il faro che non si poteva espungere da quel tempo per evocarne un altro. E proprio dal faro, durante un tramonto che non finiva piú e creava cangianti strisce rosa, scese Fernande con la sua gonna larga. Scese cauta, un passo dopo l'altro, mentre il Poeta la filmava, stringeva il campo sui piedi nudi, sulle lunghe braccia, sulla vita sottile e la camicia scollata, sull'esile collo, sul viso radioso come non mai, i capelli troppo corti per sventolare eppure gonfi d'aria e di vita. Poi il campo s'allargava, arrivava sino al faro, ma lo disegnava come un miraggio, un sogno lontano.
Fernande non parlava. Era la muta protagonista della leggenda. Non parlava ma nella lenta dissolvenza che portava lo spettatore verso l'orizzonte del mare, dove c'erano solo deserto d'acqua e la volta limpida di un cielo indifferente, in quella lenta dissolvenza si udiva la sua voce che cantava. Era un brusio senza parole, quasi un disturbo dell'audio – del resto era un film «artigianale», cosi l'avrebbero definito, «un'opera d'arte manuale», cosi l'avrebbe chiamato il Poeta nell'incredibile serie di prime, serate d'onore, riconoscimenti conquistati, interviste: il caso dell'anno! –, eppure era la voce di Fernande che ronzava come la radiazione di fondo dell'universo, e cosi facendo diceva allo spettatore: inutile che cerchi di capire, c'è sempre qualcosa d'inafferrabile dietro, oltre, al di là di te.
Dopo la lenta dissolvenza sul mare, la macchina da presa tornava su di lei. Intanto si cominciava a udire un sommesso vociare di donne, che veniva da un angolo in basso del campo visivo. Fernande sospirava. Prima di rimettersi in cammino, fissava la macchina da presa per un lungo, imbarazzante momento. Durante la ripresa, il Poeta aveva continuato a dirle: «Resta. Resta. Fernande. Cosi. Cosi. Bella che sei. Bella. Resta. Ancora».
Sembravano parole di un uomo al colmo dell'eccitazione. Il Poeta ansimava e fissava Fernande che fissava la macchina da presa.
Lei pareva una bambina, eppure aveva passato i quaranta.
Poi si tirava la gonna fin sopra le ginocchia, con entrambe le mani, e riprendeva a scendere verso il mare, dove erano già arrivate tutte le altre donne.
La scena s'interrompeva e tornava al paese, alle case rimaste vuote. La voce fuori campo del Poeta, calda e lenta come gli usciva a volte, soprattutto dopo il terzo whisky, raccontava il mito del Buon Ritorno addolcendo i contorni della storia, ritmando le parole al movimento dei remi sulle barche. La voce del Poeta diceva che non è bene sapere troppo, perché può fare male. Che spesso è bene vivere senza il peso della delusione che pesa già prima di arrivare, come un brutto presagio che poi s'avvera.
Ritornava Fernande, poco piú in basso, quasi riunita alle altre donne. La macchina da presa prendeva il largo, dove la mano del Poeta, la sua inconfondibile mano in primo piano, tracciava dei baffi di pennello che acquistavano rapidamente forma. Sullo sfondo del mare, quello vero, il Poeta disegnava sopra un vetro perfettamente trasparente, forse una finestra di casa. A poco a poco, su quell'orizzonte schermato dalla tela di vetro, emergevano le barche dei pescatori di Villefranche che tornavano a casa, incatenate ai richiami muti delle donne che scendevano con un piede, uno soltanto, dentro l'acqua.
Fernande faceva lo stesso.
Lo faceva senza abbassare lo sguardo, con una destrezza che stupí tutti, durante le riprese. Continuò a guardare l'orizzonte e cosi facendo indicò al Poeta – appoggiato scomodamente contro la roccia per seguire da vicino la scena – il punto preciso. Lui disegnò il ritorno, dopo ore e ore di immobili riprese dell'orizzonte, in diversi momenti della giornata, sotto soli diversi.
Le donne dei pescatori, vere come il mare e il sole e l'orizzonte, si disperdevano quasi di colpo, in una rapida inquadratura in cui tutte porgevano una mano e saltavano ciascuna nella propria barca. Nello spazio di un concitato momento restavano solo il mare, l'aria densa e salmastra di una mattina qualunque, il sole immobile nel cielo perso, l'orizzonte una linea che si perdeva in una lontananza astratta e irraggiungibile. Anche la voce calda del Poeta taceva improvvisamente, per ascoltare meglio lo sguardo smarrito di Fernande, sola di fronte al vuoto mare.
Lei era la donna che aspettava invano, condannata a seguire ogni volta quella marcia della speranza, sospesa fra mare e terra con un braccio alzato in attesa del nulla. Fernande guardava la macchina da presa, il Poeta guardava lei e tutto durava troppo: dopo un tempo apparentemente interminabile il suo muto personaggio tornava con gli occhi sul faro, come in cerca di uno stormo migratore capace di portare lontano quel suo silenzioso e inutile richiamo. Poi s'incamminava con lo sguardo a terra, e spariva nella macchia, fra l'euforbia e le ginestre basse.
Cosi si chiudeva il film. Una via di mezzo fra il documentario e il dramma, il sogno e l'autobiografia. In tutto una mezz'ora scarsa di visione. Ma malgrado l'inesperienza del regista, malgrado la voluta ristrettezza di mezzi – o forse proprio per questo –, Il Buon Ritorno fece parlare molto di sé. Sorprendente per la tecnica con cui il Poeta aveva usato la macchina da presa, per la sua voce fuori campo che vaticinava piú che raccontare, per quell'accorgimento del disegno sul vetro che dava forma al miraggio. Per la recitazione intensa di Fernande nel primo e unico film della sua vita, in cui non parlava mai. Eppure quel suo sguardo conteneva qualcosa di profondamente vivo e vero, che aveva stupito il suo improvvisato regista e poi tutti coloro che se la ritrovarono davanti sullo schermo.
Quante notti ci pensò, lei, nella nebbia dell'insonnia: la parabola che il Poeta s'era inventato era il titolo perfetto della sua vita, quell'attesa consapevolmente disperata e inutile assomigliava al nulla che per lei era venuto dopo la guerra. Nonostante la ricchezza, gli affetti, quella casa che amava con tutta se stessa, il Poeta e Paul e André e anche Simone che erano un accogliente cerchio d'amore. Nonostante tutto questo, il buio di quegli anni e la paura che continuava a braccarla, c'era il deserto. E un'attesa tenace, sapendo che nulla sarebbe mai piú venuto.
A poco piú di quarant'anni, Fernande capi nitidamente che ciò che aveva perduto negli anni della guerra e delle persecuzioni era condannata ad aspettarlo per sempre. E in quel momento in cui fissò la cinepresa, davanti ai suoi occhi passarono, in tremenda accelerazione, tutti i volti e i giorni di quel tempo che si teneva dentro, come se non fosse mai stata laggiú, nel cuore della guerra e della caccia agli ebrei. Tutto le tornò di colpo, in un attimo lucido e terribile dopo il quale la macchina da presa si spense e delle lacrime dense colarono giú in silenzio e caddero nel mare: due cerchi nell'acqua che subito si dispersero cosi come avevano fatto le donne dei pescatori di Villefranche, poco prima.
Fernande non vide mai il film. Non ci fu verso di convincerla. «Mi è bastata la mia parte», diceva sempre con un tono scanzonato. Partecipò con entusiasmo ai viaggi e alle occasioni che vennero a ogni proiezione, ma si rifiutò sempre e categoricamente di vederlo. Il Poeta non protestò, forse aveva capito. Non fece altri film e anzi, quando Il Buon Ritorno si spense nelle sale e nei ricordi, riprese a scrivere dopo molto tempo.
Il Poeta tatua i muri
(ultimo terzo degli anni Sessanta) Il primo giorno d'estate del 1967 il Poeta cominciò a tatuare i muri del Buon Ritorno: fu l'ultima cosa che fece, con grazia e allegria, prima di sparire. Andò a comprare i colori a Vallauris, raccontando a tutti che partiva per far visita a un pittore suo amico: – Non lo vedo da almeno due anni. Vedo le sue tele ovunque, in compenso. Abbiamo tante cose da dirci… Comprati i colori, tornò a casa e li nascose nell'autorimessa. Poi, quella mattina, cominciò. E cominciò da dove aveva smesso tanti anni prima, nel salotto, sulla parete sopra il mobile bar dove aveva subito cancellato senza lasciare traccia. Quel punto esatto ritrovò per riprendere a disegnare, come ripescando il capo di un filo sospeso per aria. Chiese una scala e la ottenne.
– Spostatemi tutti i mobili al centro della stanza. Non voglio sbrodolarci sopra con il pennello.
– Ma…
In quel mentre arrivò Fernande in vestaglia, e con la testa spettinata fece uno stanco cenno di si, come a dire a Maria di non discutere con il Poeta.
Ultimamente Fernande aveva deciso di lasciarsi crescere i capelli, ma i radi fili bianchi, che nel biondo non si percepivano affatto, erano crespi e spessi: le davano un aspetto sempre un po' scomposto che faceva sparire gli altri segni dell'età. Era arrivata da Parigi qualche giorno prima, stanca e arrabbiata. Ritrovare il Buon Ritorno, la mite bellezza di quella stagione cosi passeggera, le aveva procurato piú frustrazione che sollievo. André non era stato bene, Simone era in tournée negli Stati Uniti – aveva scoperto il musical e il musical aveva scoperto lei – e Fernande non se l'era sentita di abbandonarlo.
Paul e il Poeta, invece, erano alla villa dai primi di maggio, a seguire un viavai di ospiti che neanche piú si domandavano come mai la padrona di casa non ci fosse. Per una settimana s'era accampata in giardino una compagnia di artisti di strada, zingari, che veniva dalla Camargue. Il Poeta li aveva chiamati per dipingerli e sentirli suonare. Il maestrale aveva soffiato senza sosta, possente ma muto, capace di scompigliare tutto senza un solo sibilo. Alzava le gonne, scioglieva trecce e mandava gambe all'aria il cavalletto del Poeta, in compenso aveva distillato l'aria dandole una trasparenza provvidenziale. Ne era uscita una serie di trentasei piccole tele che, quando Fernande arrivò, a fine giugno, erano già partite per la galleria di Parigi. Lei non le vide mai, anche se, incastonato in cima ai colli lunghi di tutte quelle giovani zigane dai capelli neri come la pece, sopra i corpetti con le maniche a sbuffo e le lunghe gonne svolazzanti, c'era sempre e soltanto il suo volto. Il Poeta aveva innestato nella loro carnalità sfrontata, istintiva, quella cadenza erotica che lui – a differenza dei suoi amanti che trovavano Fernande quasi sempre disinteressata e fredda a letto – era stato capace di leggere dentro di lei.
– Che fai? – gli chiese ora dalla soglia del salotto, appoggiata contro lo stipite della porta.
– Non indovini? – disse lui senza voltarsi. Stava spostando la scala verso il muro. Per terra c'era una latta piena di una tinta nerissima, vischiosa. – Voglio che tu veda quando è tutto finito. Non venire qui finché non ti chiamerò io.
Fernande sorrise e chiuse lentamente la porta. Il Poeta abbassò le persiane della vetrata: era tanto che nessuno lo faceva e produssero un rumore stridulo.
– Vado a Nizza, al mercato dei fiori! – urlò lei un'ora dopo, pronta per uscire, da dietro la porta chiusa.
Il Poeta non rispose e Fernande pensò che loro tre erano fatti per essere tutti e tre: ma Paul era partito qualche giorno prima per trascorrere un po' di tempo con sua sorella, e quell'assenza spezzava tutto.
Di ritorno nel tardo pomeriggio, con il baule pieno di fiori e pianticine, Fernande volle sedersi davanti, di fianco all'autista, per vedere meglio fuori.
La lunga giornata d'inizio estate pareva infissa in un mezzogiorno perenne e tuttavia mite, con un sole gentile, quasi inerme. A Beausoleil chiese a Constant di fermare la macchina. Una bambina con un cappello di paglia troppo grande calato sopra gli occhi faceva la guardia a un banchetto di frutta e verdura, intanto intrecciava dei piccoli braccialetti fatti di stoppia e pietruzze raccolte sulla spiaggia. Fernande ne comprò due, e comprò anche un cestino di fragole. Disse alla bimba: – Tieni pure il resto, – e quella la guardò torva, quasi offesa.
Il Poeta non la fece entrare in salotto, trascorsero la serata
intorno al tavolo da pranzo, fuori era ancora troppo fresco. Non
parlarono quasi, Fernande fumò tre sigarette, una dietro l'altra,
poi prese il Poeta per mano e lo condusse in camera da
letto.
Si spogliò, rimase completamente nuda. Si distesero adagio nel letto, uno accanto all'altra. Con un gesto trasognato, Fernande prese ad accarezzarsi il corpo con entrambe le mani, scese fino alle ginocchia, si fermò sul pube che da sempre si radeva a zero. Con due dita teneva aperte le labbra e con l'altra mano si toccava nel profondo, sospirando piano a occhi chiusi. Ogni tanto si pizzicava un capezzolo, gemendo di gola. A un certo punto il Poeta le prese una mano e la leccò a lungo, passando da un dito all'altro senza tralasciare gli incavi. Succhiò l'indice con una specie di sete, poi tirò fuori di tasca due piccole pipe e gliene porse una. A un certo punto se le scambiavano sempre, forse per sentire il rispettivo profumo dell'oppio, come in una specie di reciproca, impossibile penetrazione, se non di corpi almeno di pensieri, di sogni.
Mentre fumava, il Poeta cominciò a cantare. Piano, a voce bassa. Lei posò il capo sulla sua spalla e accavallò una gamba su quella di lui. Mentre lui continuava a cantare sottovoce, Fernande gli accarezzava il petto quasi glabro, voleva toccargli il cuore ma anche quello era un sogno.
– È per te, – fu l'ultima cosa che il Poeta disse prima di cadere in un sonno profondo, fetale, che durò sino a mezzogiorno dell'indomani. A Fernande, invece, dopo un'ora di felicità idiota e visioni a colori, l'oppio lasciava uno stato di veglia schizzata in cui neanche sforzando le palpebre riusciva a tenere gli occhi chiusi.
Non sarebbe entrata in salotto e in quella casa ancora per qualche giorno, comunque: il Poeta aveva deciso di continuare il suo tatuaggio lungo la scala, partendo dallo stretto arco verso il piano di sotto, fino alle stanze affacciate sul giardino, compresa quella che aveva scelto e occupato lui sin dall'inizio, tanti anni prima. Sull'arco disegnò un angelo senza volto, due piccole ali tese in avanti, come in preghiera.
Fernande trascorse quelle giornate confuse e strane a Villa Surya, ad aspettare che il Poeta finisse, fra le braccia di quell'amante sporadico che era anche l'unico ricorrente: dal quale andava e veniva ormai da qualche anno, con una solenne indifferenza per tutto quello che non era il suo corpo, quelle mani che la toccavano e l'amavano anche, generosamente. C'era la piscina, e Fernande stava ore in acqua, immobile nella posizione del morto, la cuffia bianca che scintillava sotto il sole, gli occhi chiusi perché di notte non ci riusciva quasi.
Poi finalmente il Poeta apri la porta del salotto.
Era stanco, provato e per nulla entusiasta del lavoro, ma non poté fare a meno di mostrarlo.
Fernande guardò per un momento eterno, immobile.
Poi si girò e guardò per un altro eterno momento.
Senza scostare lo sguardo dai muri, segui la storia che il Poeta vi aveva tatuato sopra e s'avviò verso la scala. La scese come sospesa a qualche centimetro dal marmo e dalla guida celeste. Continuò seguendo il disegno sulla porta e sui muri, prima di ritrovarsi sul prato, oltre la vetrata, alla fine di quella storia. Fini guardando il mare, era il tramonto.
Pianse con la testa fra le mani.
Tornò in salotto un'ora dopo, quando gli arredi erano ormai tutti al loro posto, cosi come le foto incorniciate, i posacenere, il mobile bar, la zanna d'elefante appesa sopra il camino, le maschere etniche che avevano cambiato collocazione almeno dieci volte, i libri del Poeta in bella mostra sullo scaffale basso.
– Ti piace? – domandò lui con una strana nonchalance.
– Se ti dicessi di no?
– Mi tormenterei… è per te –. Sorrise. – No, non ci crederei.
– Mi fa male. Lo sai vero?
– Non ho potuto fare altrimenti. Quella era la storia, non l'ho inventata io… L'ho trovata cosi.
– Ma quella storia sono io. Lo sai.
– Altrimenti non l'avrei dipinta sui tuoi muri, non credi? E adesso sono anche miei.
– Lo erano anche prima… Ma che importa di chi sono i muri, accidenti? – disse scacciando qualcosa di invisibile con la mano. – Perché mi hai dipinto cosi grande, e con questo corpo troppo rotondo, troppo bello? E perché mettermi davanti agli occhi quello che non ho piú, che ho perduto? Sei crudele, Poeta, e lo sai –. Segui un lungo silenzio che nessuno osava spezzare. – È bellissimo, – aggiunse lei.
Il Poeta aveva scritto disegnando, non si capiva se fossero parole o tratti, figure che raccontavano con parole che il disegno lasciava sgorgare, parole che erano immagini, curve di corpo e voci di bocca e gesti di mani e montagne e mari e luoghi lontani e creature fantastiche e incubi notturni. Fiori e foglie, volti. Era la storia del Buon Ritorno e di Fernande condannata ad aspettare ciò che non sarebbe mai piú arrivato, lei che desiderava dimenticare e non poteva. Il Poeta aveva dipinto sui muri gli incubi che la visitavano di notte, i pescatori di Villefranche e la fuga di Fernande durante la guerra, di cui lui nulla sapeva perché lei non ne parlava se non a se stessa. Aveva dipinto Fernande nuda, china verso il passato.
– Le case ti si avvinghiano dentro, ti prendono, ti possiedono… Le case soffrono, si portano dentro il nostro peso. L'ho dipinta per non mancare a questi muri, piú che a te che ti consolerai. Un giorno io non ci sarò piú e questa casa sentirà la mia mancanza, lo so.
– Ma ora sei qui, che motivo hai per pensare che non ci sarai piú? – Fernande afferrò lo stipite della porta, come per sbarrargli la strada.
– Prima o poi. Tutti ci perdiamo, prima o poi… – Si sedette sul divano, accavallando le lunghe gambe. – I luoghi restano, e chiedono aiuto. Questa casa anche. Come farà, un giorno, senza noi tre?
Quei muri erano fantasmi. Non di quello che non c'era piú, ma di quello che avrebbe potuto essere e non era stato. Dentro la curva che la schiena nuda di Fernande disegnava sul muro, lei lesse tutte le paure che metteva a tacere giorno e notte: le parole monche, il figlio che non aveva voluto, la fuga dal mondo, allora come oggi… Lei aspettava qualcosa che non arrivava, e fuggiva. Era fuggita da Parigi, da Antibes, continuava a fuggire da una paura tremenda e sotterranea che la inseguiva ovunque. Nonostante il benessere e l'amore e le stravaganze. Tutto era paura, da allora.
Allungò una mano verso se stessa dipinta.
– Non toccare, Fernande, – la ammoni il Poeta. – Aspetta che asciughi per bene. E poi che bisogno hai di toccare? Anche tu sei qui.
Paul rientrò il giorno dopo, e non fu per nulla sorpreso dei muri tatuati, quasi che se li aspettasse. Ma prima che tutto fosse asciutto, il Poeta se ne sarebbe andato per sempre. E con lui la nostalgia, il rimpianto, i sogni, una certa specie d'amore, fragile e tenace.
Fini con uno stupido bisticcio, talmente stupido che entrambi si resero conto ch'era un pretesto, mentre montavano l'uno addosso alle parole dell'altra, mentre si mangiavano l'aria a vicenda a causa di qualcosa che neanche ricordavano piú, forse una sdraio da spostare, un invito a cena a casa di qualcuno nei paraggi, chissà.
Il Poeta, tutto rosso, si passava continuamente le mani nei capelli: era quasi buffo, un satiro troppo vecchio, troppo smilzo e troppo arrabbiato. Fernande, dal canto suo, era bianca come un cencio.
Volarono rimorsi mai detti prima. Volarono offese imperdonabili, lanciate apposta per non essere perdonate. Paul assistette in silenzio, non era la prima volta ma quel giorno era diverso, c'era un fatalismo che li guidava, un fatalismo consapevole.
Tutti e due salirono di slancio sul carro della guerra, come spinti da una propulsione incontrollabile, necessaria a entrambi.
Paul provò a dire: «Basta!» due volte. Poi se ne andò a pescare, anche se era primo pomeriggio e non la solita alba.
Lo scontro non durò piú di un quarto d'ora, forse venti minuti. Dopo di che il Poeta usci sbattendo la porta.
La sciarpa bianca svolazzò per un breve istante dietro la sua spalla, strascico di una cometa remota, poi palpitò nell'aria come un frullo d'ali trasparenti e infine divenne un fantasma sospeso nel vuoto prima di sparire per sempre.
Il Poeta arrivò al piano di sotto, mise con furia carte e qualche libro nella sua piccola valigia, dove infilò anche una conchiglia raccolta tanto tempo prima, risali quasi alla stessa velocità con cui era sceso, agguantò il proprio mazzo di chiavi dal vassoio d'argento sul tavolino accanto all'ingresso, e se ne usci per sempre. Senza una parola, senza un rimpianto apparente. Forse il mazzo di chiavi del Buon Ritorno – che non avrebbe mai piú utilizzato – era il suo parafulmine, il totem della nostalgia.
Qualche giorno dopo anche Paul se ne andò, ma con la discrezione che, dentro il loro triangolo ormai morto, era stato il tratto fondamentale del suo ruolo. Salutò Fernande con tre baci sulle guance e uno in fronte, prese il suo baule, lo caricò sulla Bentley e si fece accompagnare alla stazione di Nizza, da dove andò direttamente in campagna, ad aspettare fedelmente il Poeta.
Ma il Poeta era già in America.
E neanche di li tornò mai piú, se non dentro una bara di legno chiaro, nella stiva di un aeroplano, otto anni piú tardi.
Fernande lo lesse sul giornale.
Paul la chiamò il giorno dopo al telefono. Tacquero tutti e due a lungo nella cornetta, poi non seppero piú che dirsi.
Fernande riagganciò e abbandonò la testa contro il divano battendo sul punto rigido in cui finiva il cuscino. Si prese una ciocca di capelli con due dita, la portò davanti agli occhi, provò a guardarla ma vide solo un grumo bianco, allora spostò lo sguardo verso il muro di fronte, là dove c'era la curva della sua schiena nuda, e pensò che il nero del tratto non era sbiadito per nulla, dopo tutto quel tempo.
Infine
Nostalgia
(2011)
Non so dove sono nata ma so dove morirò. Qui, in questa casa che non vedo da tanto tempo con questi occhi fiacchi e sempre piú piccoli, come se la vecchiaia volesse dire restituire al nulla il tuo corpo, pezzo per pezzo.
Il cielo è sempre lo stesso. Lo sento piú che vederlo.
– Attenta signora, appoggiati a me.
Insomma, mi reggo ancora in piedi.
– Ecco la chiave, – dico a Rosa, – girala piano nella toppa mi raccomando.
– Si signora.
– Piano che altrimenti la rompi –. Devo guidarle la mano quando la chiave è entrata nel buco incrostato di ruggine e muffa morta: va girata all'inverso, un po' come la mia vita. Tengo la mano su quella della mia badante filippina ventenne che mette da parte tutto lo stipendio per comprarsi un campo di riso, chissà quando. Ma sarà mai possibile tirare il filo di una lontananza cosi, disegnata sulle gobbe delle mie nocche, ossa sclerotiche? Sono mai stata davvero quell'altra?
Prima di scostare il portoncino mi volto e faccio un cenno all'autista. La rimessa è sulla strada, un poco piú in alto, dove finisce il muro di cinta e comincia il terreno intorno al faro… A meno che non l'abbiano buttata giú nel frattempo, lasciando precipitare le macerie sopra la mia vecchia Bentley.
– Piano signora, attenta. Aiuto io.
E invece è tutto ancora al suo posto.
– No piangi signora. Siamo arrivati.
So dove morirò ma non dove sono nata: so che me ne andrò qui, in questa casa che ho voluto, abitato, amato, pensato e sognato e continuato a sognare anche quando era già mia.
Un'ombra risale dal mare. È l'onda di quella volta che la bufera s'era portata via tutto, aveva scolpito le rocce piú basse, travolto persino le barche dentro la baia. Schiumava e non si vedeva piú nulla, solo il boato del mare. Ma tutto era passato in fretta e dopo c'era stata per un po' una luce speciale. Al Poeta non piaceva, quella luce: per tre giorni se n'era rimasto rintanato in camera, a tossire.
Quell'ombra però adesso è Robert.
Si sbraccia, come per farsi riconoscere.
– Signora, signora, signora… – ripete come se una volta non bastasse, – poteva chiamarmi, avrei aperto io! – Gli ultimi passi che ci separano li fa di corsa, trafelato come se arrivasse da chissà dove e non dalla scala che conduce al sentiero sul lungomare e di li sulla riva scoscesa. Appena poco sotto.
Ha perso quasi tutti i capelli, me li ricordo folti e ricci di bambino. Veniva qui con suo padre a potare le piante, rastrellare le foglie secche e i cumuli di aghi: si sedeva sul muretto bianco del terrazzo di prato, e guardava dritto davanti a sé. Non il mare: piú in là, dove l'Esterel chiude l'orizzonte quando c'è bel tempo, d'inverno. Negli ultimi vent'anni Robert si è occupato della casa: ogni tanto veniva qui ad accertarsi che ci fosse ancora, che non fosse precipitata nell'acqua, che non fosse stata inghiottita dalla terra del Capo, che il faro non le fosse crollato addosso. Che non avesse spiccato il volo per venirmi incontro, là dov'ero andata.
Sono nata a San Paolo del Brasile, cosi mi hanno detto, cosi sta scritto. Quartiere del Bom Retiro, li abitavamo. Ma non è vero: «Non crederci, Fernande, – mi ha bisbigliato una sera mia madre nell'orecchio, avrò avuto tre anni, forse quattro e stavamo tornando in Europa. – Tu sei nata in un altro posto, lontano. Io lo so».
La mia memoria comincia con quella confessione durante la traversata, diciassette giorni di mare fra Porto Alegre e Marsiglia. Ricordo il volto impassibile di mia madre, scuro e rotondo. Adorava stupirmi, anzi peggio: spaventarmi per pietire la sua protezione, costringermi ad avere bisogno di lei apposta per centellinarmi il suo amore, versarmelo goccia a goccia sul palmo della mano. Ero bionda e affusolata, non assomigliavo a nessuno di loro due e forse anche per questo non avevano messo al mondo altri figli dopo di me. Chissà, forse intendeva dirmi che mi aveva raccolto da qualche parte, come un fiore… Quanto è lontana la casa, non me la ricordavo cosi lontana.
– Venga, signora, – sussurra Robert. – Ha visto che bello il giardino? Sempre uguale, vero?
– Si.
– Anche lei signora è sempre bella, sempre piú bella, – dice afferrandomi il gomito destro.
– Certo –. Alzo gli occhi e lo fisso un momento. Non ha piú nulla del bambino introverso di un tempo. Peccato.
Siamo arrivati. Che male che fa tornare dopo tanti anni, quante volte ho giurato che non l'avrei mai piú fatto.
Mi siedo sul davanzale della vetrata. No. Non ce la farò mai a entrare. Piuttosto muoio qui.
Rosa e Robert si guardano. Per un lungo attimo sospeso tutto resta fermo cosi e il nodo in gola si scioglie, finisce giú dentro la pancia. Anche i ricordi sono leggeri, qui, volano bassi tutt'intorno a me. Le cinque tessere celesti che mancano dal mosaico di fronte all'ingresso, forse non ci sono mai state. La persiana di legno che sbatte quando c'è vento. I due pini fratelli, anche loro, come me, contorti di vecchiaia.
– Venga signora, andiamo dentro.
Robert mi alza di peso prima afferrandomi un braccio e poi cingendomi il fianco, è un gesto quasi di desiderio: ancora me lo ricordo, il desiderio. Poi la mano di lui si alza fin sulla mia vita, l'altra mi preme il gomito. Dove avrà imparato a tenere cosi una vecchia?
– Josette ha pulito e lustrato tutto, signora. Non deve aver paura di entrare. È tutto come allora, vedrà.
Ma è proprio questo che mi spaventa. Abbasso lo sguardo e cerco accanto a me i piedi di Rosa, ma non ci sono. Mi volto piano, trovo il sole. È una giornata meravigliosa, ma perché? Che bisogno c'era di regalarmi una giornata cosi, per questo ritorno che è solo buio di memorie vaghe, sciolte nel tempo?
– Se la ricorda, Josette? Era una bambina, – mi dice mentre attraversiamo la soglia e io precipito di colpo nel fango dei rimpianti. E mentre entro in casa mi viene incontro il Poeta: sale piano le scale, si ferma un momento sotto l'arco che ha dipinto, picchia con il piede per terra come a dirmi, su, che aspetti. Ma è solo l'ombra densa dell'armadio a muro.
Guardo Robert un po' per cercare di capire che cosa vuole dirmi, un po' per scacciare lo spettro.
– Josette è la figlia di Blanche della panetteria, che era a mezzo servizio a Villa Surya… Se la ricorda? È mia moglie, adesso. Cioè da quindici anni, quasi.
– Oh, si –. Figuriamoci se me la ricordo. Ma questa donna mi ha pulito la casa e ricambio con la fatica di mentire, oltre che con un tanto all'ora. – Blanche della panetteria? – ripeto cercando a tentoni qualcosa dentro la mia memoria, come una luce tremula in fondo a un pozzo secco. Forse… ma certo! Era arrivata qui un bel giorno sbraitando e sventolando un foglio. Doveva essere sbronza, sosteneva di avermi visto uscire da una camera da letto di Villa Surya, e non dico di chi… A Villa Surya ci avrò messo piede si e no due volte in trent'anni, era il genere di casa abitata da personaggi che noi non sopportavamo: vanitosi, spacconi, vuoti.
– Si, proprio lei. È sempre uguale, solo un po' appesantita… Se la vede, sicuro che la riconosce ancora, la mamma della mia Josette.
Scuoto la testa come una marionetta scalcagnata e quasi mi viene da ridere, ma non gli dico niente. Adesso, però, lasciatemi sola con questa casa. Chi mi ha scostato appena la sedia, il mio posto a tavola di sempre?
– Siediti signora, è stanca. Vuole bicchiere di acqua? Corre in cucina, Rosa, ha già imparato la strada.
– Ha fatto bene a tornare, signora Fernande, – incalza Robert. – Vedrà.
– Scosta la tenda, per favore. Voglio vedere il mare.
– Eccolo. È sempre uguale.
Macché. Non è vero. Non è lo stesso. Neanche io lo sono piú. Chiudo gli occhi cosi lo vedo com'era e com'è rimasto per me, qui.
– Lasciatemi sola. Per un po'. Per favore –. Li scaccio con un gesto delle mani, senza voltarmi verso la porta. – Sono stanca.
Anche i dolori piú forti e insopportabili diventano ricordi, prima o poi. E le paure, la fuga… Quante volte siamo scappati, tutti noi!
Cosa spinse mio padre a lasciare il Brasile, in quegli anni dorati? A mia madre non ho fatto in tempo a chiederlo, del resto sapevo che qualunque risposta sarebbe stata un tormento per me, come quasi tutto quello che lei mi diceva. Lui invece era troppo distante, distaccato. Aveva sempre un cappello bianco in testa, con un largo nastro nero lucido, un panama bellissimo. Sempre addosso, anche al coperto – come se li sotto nascondesse qualcosa. Forse veniva davvero da un altro pianeta, come me.
Prima della guerra mio padre è tornato in Brasile, non ci siamo mai piú detti nulla da allora e chissà quando è morto. Di lui ho avuto soltanto un pugno di lettere, giunte in Europa mesi dopo ch'erano state scritte, come se lei lo facesse apposta a rallentarne il viaggio, tenderlo all'infinito. Forse l'unica cosa che non ho perduto è questa casa. Parigi non è mai stata mia: ci passavo, giusto il tempo che mi serviva per desiderare di tornare qui. Il Poeta l'ho perduto ma forse non l'ho mai avuto, nemmeno lui. Ho perso la guerra anche se sono sopravvissuta: mi ha lasciato un'altra me stessa. André l'ho avuto, forse. Ma mi è toccato spartirlo con un'altra, per fingere che fosse mio. Adesso ho Rosa, perché le pago lo stipendio e deve finire di comprarsi il suo campo. Non è poco, a ben pensarci.
«Rosa!!» credo di urlare e mi viene fuori solo un gorgoglio con un acuto in fondo.
Arrivano tutti e due. Ma io voglio solo una mano per alzarmi di qui.
Tutt'a un tratto non ce la faccio. Non reggo questo posto, questo soffitto, queste pareti. Toh, le maschere esotiche sono ancora li, piene di polvere, sembrano addirittura sbiadite. Josette se le è dimenticate… Quante volte il Poeta se n'è messa una sulla faccia per spaventarmi: ci riusciva sempre. Quante volte si è presentato alla porta e l'ha aperta cosi. Non mi piacciono le visite, diceva sempre. Stiamo bene noi, siamo completi, unici, inseparabili. Sono geloso di te. Invidio Picasso, detesto Chagall, guai se guardi i loro quadri. Cosi il mondo passava in questa casa ma capiva ben presto che disturbava, che era un intruso. Gli ospiti si lanciavano rapide occhiate, facevano per sedersi sul divano di vimini fuori, sul prato. Arrivavano sino alla siepe di pitosforo, controllavano che il mare fosse ancora li sotto, e se ne andavano. Siamo passati per un saluto. Dobbiamo andare. Il Poeta non diceva nulla. Li guardava. Si ritirava in camera sua.
Torno fuori, all'aria aperta di una giornata splendida, piena di luce.
– Vuoi andare letto, signora? Stanca?
Scuoto la testa, non mi volto nemmeno verso la porta finestra. No, io sto qui, fuori. Al sole.
In questo punto del Capo, prima che costruissero il faro, prima che costruissero qualsiasi cosa, le donne di Villefranche venivano ad aspettare i loro marinai che tornavano. Di qui l'orizzonte si apriva e le donne li vedevano quando erano ancora lontani, o forse immaginavano di vederli. Il Buon Ritorno non era sempre tale. A volte l'attesa finiva in un sospiro di rassegnazione. Per questo sono tornata a morire qui. Il Poeta aveva chiamato mezzo paese a fare da comparse per il suo film, ma aveva scelto solo tre attori di second'ordine, e per una scena brevissima. Il resto eravamo noi due, io muta e lui voce fuori campo. E Paul, naturalmente, appostato dietro l'oleandro rosa, gli occhi che mandavano lampi d'odio fra il fogliame denso di un luglio inoltrato.
– Bisognerà riattivare il telefono, vero signora? Lo vuole? – domanda Robert. – La linea comunque c'è già… Non lo voglio, il telefono. Allora ci passavo delle ore. Con Parigi. I fornitori. Le poche amiche che avevo. Chissà dov'è finito quel povero apparecchio nero. Un giorno il Poeta l'aveva scagliato contro il muro, per poco non mandava in frantumi il vetro della finestra.
– No. Niente telefono. Non mi serve. Ce l'ha Rosa.
Anche il tatuaggio sui muri è rimasto com'era: intenso e forte ed enorme, dilata le pareti, spalanca il soffitto, fa respirare tutto come se i miei polmoni, dentro quella curva della schiena, muovessero il mondo.
Si è fermato in questa casa quindici anni. Quindici e passa anni di vita, vale questo disegno che fa il giro del muro e lambisce il camino. Mi ha portato in casa il suo amante e i suoi attacchi di rabbia, la sua infinita pazienza per me, le frustrazioni, il nostro assurdo desiderio l'uno dell'altra.
Lui mi ha riempito la vita piú di ogni altro uomo. E poi un giorno se n'è andato per sempre sbattendo la porta. Ancora adesso fa cosi, viene e fugge: lo vedo ma si scosta subito, e non riesco piú a tracciarne la figura con gli occhi che ho dentro. È solo un'ombra, esile e affusolata, quasi calva, due lunghe basette e qualche ciuffo bianco di capelli ritto intorno al capo.
Il Poeta.
Di me si bisbigliava in paese, conoscevo le occhiate: ero ricca e generosa, svitata e leggera. La signora del Buon Ritorno aveva un amante al mese. Sempre fuori di casa, perché qui il Poeta non voleva, non me l'avrebbe mai perdonato e forse neanche permesso. E io gli ubbidivo.
Forse dovrei ritirarmi nella mia stanza e non uscirne piú. Il passato mi ferisce per il solo fatto di essere tale, perché non esiste piú: non sono rimpianti, è nostalgia di vivere. Se penso a Parigi, in questa stagione: i contorni di tutto sfumano nel freddo umido, nella foschia che stagna fra cielo e terra e non ci sono piú colori, solo un grigiore intirizzito. Sarà bello morire qui, invece che in rue Galilée, da dove ancora s'intravedono gli alberi di place des Etats-Units.
Rosa mi sta preparando il letto, le lenzuola le ha rinfrescate la figlia della panettiera ubriaca, profumano di lavanda: prima di posare il cuscino Rosa lo annusa un momento, e respira. La vedo da qui.
Voglio affacciarmi sul mare, fargli sapere che sono tornata.
Ho bisogno di un bastone, lo pesco a caso dalla raggera che forma la vecchia collezione: bastoni da passeggio armati, intarsiati, vezzosi.
M'incammino in fondo al terrazzamento, oltre la siepe di pitosforo. Di qui si vede il sentiero, basso quasi sul pelo dell'acqua. C'è un ragazzo che passa di corsa, sudato. In punta al Capo, dove il sentiero fra una curva quasi ad U seguendo il profilo della terra, c'è una panchina dove un tempo abitava una pazza con il suo cane. Trascorreva le giornate a fingere di ricamare con un ago inesistente e un tessuto d'aria, passava il filo che non c'era nella trama impalpabile, strizzava gli occhi, tirava la tela per saggiarne la tenuta. Il cane era vecchio già allora, dormiva quasi sempre, accucciato sotto la panchina.
– Signora, stai attenta! – grida Rosa dalla camera da letto e fa per venirmi incontro. Non mi volto ma la scaccio con un gesto dietro la schiena. Tanto non si offende mai e sa stare al suo posto, se glielo chiedo cosi. Un gabbiano enorme mi sorvola, chissà che cosa si aspetta da me. Sono gli avvoltoi del mare, dicono.
Per prima vedo la rada immobile di Villefranche con il suo specchio d'acqua solida, dove le barche paiono incise invece che galleggiare all'ancora. Piú in là, Antibes e l'Esterel che chiude il tracciato della terra. La lontananza tinge l'ultimo paesaggio di un colore d'ombra indefinito, una goccia di inchiostro blu depositata sul foglio d'acqua.
Quando mi sporgo vedo il mare concreto, qui sotto. Oggi non si frange, non schiuma, dondola soltanto contro le rocce piú basse, asciutte. È tutto di una bellezza che fa male, sempre la stessa bellezza di allora. Cosi sarebbe dovuta andare. In una bella giornata di sole, a farsi cullare dal mare. Cosi non è andata.
«Guarda, André!»
Si era schermato gli occhi per alzare lo sguardo, il sole aveva appena doppiato la lingua di terra e abbagliava tutto: «Guarda che bella! Torneremo qui alla fine della guerra, me lo prometti?»
Io a momenti cascavo in acqua dalla prua della minuscola vela, tesa in avanti com'ero. «E quella casa laggiú, la vedi? Sarà la nostra». Toccarla, dovevo. Sentire che non era un miraggio, un'illusione dei miei occhi e forse dei suoi. «Quando tutto sarà finito. Se finirà…» In quel periodo, la fuga ci aveva catapultati temporaneamente in tante case diverse, a volte bellissime. Stavamo nascosti qualche giorno, ma poi bisognava spostarsi e cambiare ospiti. Quella aveva un'aria modesta. Piú un rifugio che una villa.
«È bellissima, André. Promettimi una cosa».
«Sentiamo», aveva detto lui.
«Promettimi che sarà il nostro sogno».
«Cosa?»
«Quella casa. Promettimi che sarà la casa del sogno».
Cosi doveva andare. Cosi non è andata.
Se i tedeschi non ci prenderanno. Se qualche lattaio o contadino o pescatore o postino non ci tradirà e una mattina, anzi una notte, verranno a prenderci tutti e due e ci porteranno dove c'è la morte che hanno inventato loro, i tedeschi. Davano la caccia agli ebrei per ucciderli: ne ero sicura anche se quasi tutti dicevano che li mandavano a lavorare all'Est. A lavorare. Già, con la morte.
«André, promettimi che se la guerra finirà e noi ci saremo ancora quella casa sarà nostra. È già mia, André. Dimmelo».
«Cosa?»
«Che lo farai per me».
Non mi aveva risposto.
Ma nel giugno del 1946, una sera qualunque, mi aveva lasciato sul cuscino un minuscolo fascio di mughetti freschi tenuto insieme da un nastro celeste che finiva con due chiavi. Una del cancelletto di ferro sulla strada, incastonato in un muro di mattoni e vecchia edera, l'altra della piccola porta d'ingresso alla fine del sentiero. Già mancavano le cinque tessere del mosaico. I sogni non sono mai perfetti. Come questa giornata ora che spunta un grumo bianco nel cielo e si dilata e si distende quasi che qualcuno lo stesse tirando forte ai due estremi dell'orizzonte.
Dietro la curva
(2011, il giorno dopo)
Stamattina non c'è il sole. Me ne accorgo anche se le imposte della stanza sono ancora chiuse e qui dentro stagna il buio pesto della notte.
Ho dormito. Fin troppo. Ero sicura che non avrei chiuso occhio. Alla mia età il sonno è una perdita del poco tempo che resta. Il cuscino ha un vago sentore di muffa, la brava figlia della panettiera non l'ha rinfrescato come avrebbe dovuto. Glielo dirò. E le lenzuola sono piú ruvide di come me le ricordavo, anche se pulite. Sarà la vecchiaia, la consistenza fragile della mia pelle, cartapecora pallida.
– Rosa!! – grido in un cigolio spezzato.
– Si signora, – risponde comparendo nella stanza.
– Aprimi le imposte, per favore. Che tempo fa fuori?
– Piove signora, – dice andando verso la porta finestra.
Lo sapevo. Conosco quest'aria, questa luce.
Sul vetro sono spiaccicate alcune gocce di pioggia, larghe e pesanti. In fondo all'orizzonte, dove c'è l'Esterel, un grumo di nuvole sospeso sul mare sembra in procinto di precipitare. Niente vento.
– Che fare signora oggi se piove?
– Che fare? Quello che farei se non piovesse. Niente.
– Colazione?
– Si, portamela qui.
Rosa arriva dopo un bel po'. Evidentemente in cucina non si orienta ancora. Porta un vassoio di vimini con il bordo sfilacciato, sopra ha messo una di quelle tovagliette che avevo comprato a Vence secoli fa. Il Poeta ci aspettava fuori dalla bottega, nervoso. Io e Paul eravamo rimasti dentro una vita, apposta. Ogni tanto ci lanciavamo un'occhiata fra una pila di asciugamani e l'altra, e ridevamo. «Cosi impara», aveva detto Paul.
Il mio tè, un croissant vuoto, marmellata di limoni, burro morbido, la caraffina bianca con il latte. Non c'è male. Credo di non aver mai bevuto il tè, da questo letto. Litri di caffè nero, allora. Dal mattino alla sera.
– Mettila li, sullo scrittoio. Mi alzo. Non a letto.
Rosa si avvicina, mi porge la mano. È troppo premurosa, troppo presente. Nessun figlio farebbe cosi con una madre.
Poi mi si pianta accanto, impettita.
– Rosa, vai. Ti chiamo quando ho finito.
E se non finissi piú? Se restassi in eterno seduta qui, un sorso di tè ogni tanto, a guardare questo cielo bianco, questo mare che assorbe le gocce di pioggia? Cadono dritte e pesanti, lo macchiano di buchi scuri. Li dentro, sotto il pelo dell'acqua, ci sono tutti i miei ricordi. Mi basta guardare quel mare per sapere che da qualche parte ancora esistono, anche se non ho modo di tirarli fuori. Come fossero ormai sepolti in un cassetto chiuso a chiave, e la chiave non l'ho piú perché è finita in fondo al mare, in quel punto che vedo laggiú oltre la cortina di pioggia e nuvole basse.
Questo qui, di cassetto, invece si apre. Caro mio vecchio scrittoio ridotto a farmi da tavolo della colazione! Toh, il cassetto è pieno. Ma non ho nessuna voglia di passare in rassegna questa accozzaglia di foto ingiallite. Le scaglio per terra, alla rinfusa. C'è anche una busta. Ma guarda tu: questo è il taccuino con i miei appunti, e la mappa della casa, quel giorno in cui ero arrivata qui per la prima volta, da sola… Che emozione. Ora non la sopporterei piú, un'emozione cosi, ne morirei. E qui sotto? Cos'è? Dispiego un foglio, la carta è friabile, leggera come un fiocco di quella neve grigia che sogno troppo spesso, la notte. Non è la mia grafia, quella la riconosco ancora… Ma certo! È la mappa di André. Con il faro, i mughetti… Com'è vero che le cose ci sopravvivono, forse perché non hanno un'anima. O forse perché ce l'hanno piú di noi.
Che male che fanno, i ricordi. Che male che fa questa vecchiaia da sola, senza piú nulla da condividere con nessuno se non la mia nostalgia, la rabbia del tempo che non c'è piú, l'orrore di questo corpo che non voglio piú.
– Uffa, – dico ad alta voce, rivolta al vetro della porta finestra. – Rosa!
– Finito signora? – dice entrando. Era di nuovo dietro la porta.
– No. Aprimi la porta, per favore.
– Ma piove.
– Non importa. Apri.
Piove forte, senza un alito di vento. Una manciata di enormi gabbiani mi passa davanti, indifferente. Laggiú, durante la guerra, alla casa sulla spiaggia di Roquebrune c'era una coppia di oche selvatiche. Invece di continuare a migrare si erano fermate li. Avevano un nido goffo: sterpi e alghe secche ammassati alla bell'e meglio sul letto del canale che moriva in mare. Poi un giorno, un giorno come questo di pioggia insistente e triste, una delle due è morta. Stecchita. È rimasta li, a un passo dal nido, riversa fra i sassi. Ignara della morte, l'altra ha continuato a chiamarla e cercarla. «Io sono qui, tu dove sei», ripeteva, con il corpo dell'altra accanto alle zampe. Ogni tanto si alzava in volo, perlustrava la riva, la casa, la cercava con gli occhi e la voce. Era uno strazio, una pena tremenda. Settimane dopo, se n'è andata: l'abbiamo vista che s'allontanava verso il largo, puntando l'orizzonte assolato. André diceva che quando dimostrano fedeltà, amore, spirito di sacrificio gli animali non sono umani. Siamo noi che nei rari momenti migliori diventiamo animali. Nessuna bestia si accanisce con i suoi simili, ammazza quelli della propria specie… Quanto ancora mi porto dietro la paura di essere uccisa. Quanto ce l'ho dentro gli occhi: la paura abitava in quello splendido rifugio sulla riva del mare, insieme a tutti noi, salvi per errore, per una svista dei tedeschi.
– Rosa, quando arriva Robert digli che voglio uscire con la macchina.
– Signora, piove.
– Lo so. Lo vedo.
– Signora guida?
– No. Non io. Lui.
Piove, ma qui la pioggia non dura a lungo. Scende violenta poi smette di colpo, il sole squarcia una nuvola e un attimo dopo le ha cancellate tutte.
– È sempre una gran macchina, – mi dice soddisfatto Robert mettendo in moto la vecchia Bentley, un'oretta piú tardi. È tirata a lucido, e scommetterei la casa che in questi anni non è rimasta sempre in letargo nella rimessa, a prendere polvere e vecchiaia, come me. Qualcuno l'ha portata in giro di sicuro, ogni tanto, e quel qualcuno si è persino procurato un berretto d'autista d'ordinanza… Il cielo è sereno, in compenso il mare picchia e bolle contro le rocce, qui sotto.
– Robert, per favore, togli quel berretto, mi spezzi la visuale.
– Subito signora.
Dev'essersi offeso, ma faccio finta di niente.
– Andiamo verso Mentone, – gli dico.
– Vuole rivedere i suoi posti, vero signora?
Voglio, si. Ma non mi va di parlare e cosi faccio finta di non aver sentito. Privilegio dell'età. Robert si zittisce.
Eze bassa. Vidi questo posto per la prima volta dal mare, il giorno della traversata. Sbucammo dal Capo che mi pareva di navigare da un'eternità e invece il viaggio era appena cominciato, ma alla vista della striscia sottile di spiaggia, delle poche case immerse nella macchia fitta di salici e cipressi, mi prese una nostalgia terribile. Proprio come adesso.
Dopo Montecarlo, che invece non riconosco piú – case una sull'altra, per fortuna una nuvola di storni ci accompagna ondeggiando nel cielo in perfetta sincronia, prima di posarsi sugli alberi nel giardino davanti al casinò lustro come allora, decadente come allora –, finiamo in coda.
Robert incomincia a bofonchiare, sputa parole sconnesse, credo anche qualche bestemmia.
– Che fretta c'è? – gli dico.
– Ma è strano. Non è ora di traffico.
Siamo fermi, in questo punto la strada si allarga, c'è un parapetto basso, il porto sta alle nostre spalle. Faccio per scendere dall'auto, Robert si volta di scatto, sgomento.
– Non scappo, non preoccuparti. Prendo una boccata d'aria.
– E se ripartiamo?
– Se ripartiamo, risalgo.
Scendo con fatica, mi butto quasi sul parapetto per guardare il mare, le case abbarbicate sul pendio. Qua e là, agavi morenti che puntano oblique verso il cielo. Rientro in auto, Robert si precipita fuori dal posto di guida per chiudermi la portiera.
Avanziamo a passo d'uomo, la strada si piega in una curva stretta, quasi incassata nella roccia. Subito dopo incontriamo un carro attrezzi con due luci gialle che lampeggiano fastidiosamente controsole. Fra una carreggiata e l'altra c'è un motorino riverso, poco piú avanti un'automobile rossa con una pioggia di vetri intorno. Qualcuno s'è improvvisato vigile e fa passare le auto, una da una direzione e una da quella opposta.
Robert allarga le braccia per quello che può dal posto di guida, poi sbuffa e fa ricascare le mani sul volante. Mi scappa un sorriso. Sul marciapiede, fra la stretta striscia d'asfalto e un muretto affacciato verso il mare, c'è disteso un uomo, in tre sono chini su di lui, ora alle nostre spalle avanza una sirena, ma troppo lentamente.
Dopo il blocco Robert accelera di scatto, rabbiosamente. La vecchia Bentley sbuffa, non reagisce. Oltre una curva il panorama si apre, m'incollo allo specchio, poi mi scosto.
S'intravedono un minuscolo scorcio della spiaggia, la punta rocciosa del promontorio, le fronde piú alte dell'immortale eucalipto bianco, e io mi sono scostata perché lo so, lo so cosa c'è dopo… Ordino a Robert di tornare indietro. Passare di li? Non ce la faccio, non me la sento. Una disperazione terribile mi ha preso alla gola. Mi tremano le mani, ma non è per la vecchiaia.
– Signora, ma c'è l'incidente, come facciamo?
– Sali appena puoi, ma non proseguire di qui.
Alla rotonda imbocchiamo la terza uscita, quella che porta alla Moyenne Corniche. Appena l'auto si gira e cambia direzione, il tremore cessa. Ora la baia ce l'ho alle spalle. Meglio cosi. Basta solo non voltarsi indietro. Eppure mi viene la tentazione. Come un'ansia di distruggersi, come la voglia di buttarsi dentro il precipizio per vincere la vertigine.
Appoggio la testa contro lo schienale del sedile, chiudo gli occhi.
E subito torna la spiaggia, il giorno dopo il nostro arrivo. Sembrava cosi diversa, il giorno dopo. Anche il mare non era piú calmo come durante l'interminabile traversata da Villefranche, ma increspato, nervoso. Avevo dormito sul materasso nudo, abbracciata alla borsa, con addosso i vestiti impregnati di sale. Aprendo gli occhi trovai la luce del giorno fatto e André in piedi, alla finestra della nostra nuova stanza: non si era neanche coricato. Quella mattina ero sicura che non ce l'avremmo fatta, che i tedeschi sarebbero presto venuti a prenderci in quella casa dove eravamo appena arrivati.
E allora avevo raccolto il mare, il cielo, la spiaggia e gli alberi, per avere un paesaggio da portare con me, per tenere viva almeno la nostalgia.
Eccola qui, che fa male anche adesso.
Ma da allora me li porto dietro, i tedeschi.
Presto verranno a prenderci, pensai quella mattina guardando il mare grigio, oltre le spalle di André.
«Presto verranno a prendervi». Cosi aveva detto il Sarto, cacciandomi via da Parigi e dalla sua vita.
La notte tornano ancora. Bussano sul cancello di ferro. Non hanno faccia né voce, solo un'arma puntata contro di me.
Non sono SS assetate di sangue, SS che facevano il tiro a segno con i bambini in fasce. Non sono gerarchi impettiti nelle loro uniformi. Non sono come quelli delle fotografie, mostri da far paura. Sono soldati semplici, hanno facce squallide come quella di Adolf Eichmann, dietro le sbarre a Gerusalemme. Ho visto delle foto di lui e li ho ritrovati, quei tedeschi: soldati che mi cercavano per portarmi via e non hanno mai smesso di farlo, da allora. E mi hanno macchiato i ricordi e le speranze, anche le mie giornate piú belle.
Maledetti.
Maledetti.
Maledetti.
Vorrei una curva cieca per ognuno di loro, una curva cieca per ognuno dei miei fantasmi. Una curva cieca per ogni pallottola sparata in testa a un ebreo e magari avevano mancato il colpo però non dovevano sprecarne piú di una per ogni ebreo e cosi li buttavano vivi dentro la fossa aperta. Una curva cieca per ogni granulo di Zyklon B, per ogni sbuffo di fumo uscito dalle ciminiere di Auschwitz, per ogni metro di ferrovia dove passavano quei vagoni, anche qui, qui sotto dove corre il binario che porta ora i trenini locali a due piani e allora passava altro, talvolta. Vagoni chiusi, ottusi, muti, pieni di gente.
Maledetti.
– Torniamo a casa, Robert. Sono stanca.
– Si, signora. Sperando di non trovare altri incidenti…
– Speriamo.
Quando arriviamo a La Turbie chiedo al mio autista di fermarsi un momento nel parcheggio, voglio respirare una boccata d'aria. Qui è quasi montagna, passa una contadina con una cesta coperta da un fazzoletto bianco. Suona la campana della chiesa. Non si vede il mare, e questa lontananza mi salva anche solo per un attimo.
Mando Robert a comprare un mazzo di fiori poco piú avanti, dove sono esposti sulla strada. Gli indico delle gerbere color lilla, ma viste da vicino paiono finte, sono troppo perfette.
Dopo La Turbie la strada prosegue senza incontrare altro che macchia mediterranea per molto tempo, fin quasi giú.
Ho solo voglia di tornare a casa. Ritrovare la vecchia chiazza in un angolo del pavimento, alla destra entrando. Il modo in cui con la pioggia tutto si rabbuia di colpo in sala da pranzo. La porta del mio guardaroba che scricchiola se la apri troppo velocemente. L'angolo di mare che s'intravede da un punto particolare del terrazzo e a ben guardare sta fisso, immobile, come il miraggio di una terra che non è mai esistita. Non c'è, ma appare nelle giornate piú nitide, d'inverno. Forse sta aspettando me, e io tardo.
Allora
Il cunicolo
(tardo autunno, 1943)