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GERONIMA, NON GERONIMO

Intanto, all’interno della camera di sicurezza di Villa Eco, Myles e Beckett Fowl sperimentavano un’emozione condivisa: erano confusi. La confusione non era una novità per nessuno dei due ragazzi, ma quella era la prima volta che la provavano simultaneamente.

Per meglio chiarire: poiché i gemelli erano così dissimili in tutto tranne che per la fisionomia, non era insolito che le azioni dell’uno confondessero la mente dell’altro. Myles aveva perso il conto delle volte in cui i tentativi di conversazione animale di Beckett avevano scosso la sua mente logica, e Beckett, dal canto suo, era continuamente sconcertato dai pistolotti scientifici di suo fratello.

Per cui, solitamente, un gemello era lucido mentre l’altro era confuso; in quell’occasione, però, erano congiuntamente perplessi.

«Che sta succedendo, Myles?» chiese Beckett.

Myles non rispose alla domanda, riluttante ad ammettere che non riusciva a capire con esattezza cosa stesse succedendo.

«Un attimo soltanto, fratello» disse. «Sto elaborando.»

Myles stava elaborando eccome, rapido quasi quanto i processori della camera di sicurezza. L’incarnazione gelatinosa di TATA era una pozza liquida sul pavimento, ma la sua Intelligenza Artificiale era al sicuro, all’interno dei sistemi protetti di Villa Eco, e in quel momento era intenta a riscorrere le immagini riprese da una rete di telecamere sospese a un pallone sonda. Quelle telecamere erano al di fuori della gabbia di Faraday e, sfortunatamente, erano cadute vittima del GEM; tuttavia, prima di spegnersi, erano riuscite a trasmettere il video al server dei Fowl. TATA aveva evidenziato due punti di interesse. Per prima cosa, l’IA aveva individuato una traccia termica in dissolvenza e l’aveva seguita fin sulla terraferma, scoprendo che c’era un cecchino nascosto laggiù: un tizio villoso con un antico fucile Mosin-Nagant di produzione russa, il quale, se TATA non andava errata, doveva avere più di ottant’anni.

«Ecco il colpevole» disse da un altoparlante incassato nel muro. «Un infido cecchino vicino al porto.»

Non era però quella la fonte di confusione per Myles, visto che il boom sonico doveva pur avere una sua origine e che, dopotutto, la famiglia Fowl aveva ancora molti nemici dai cupi tempi andati. Il fatto che uno di questi nemici facesse ricorso a un’arma antica poteva riferirsi a una vendetta vecchia di qualche decennio dovuta a chissà quale antenato dei gemelli – molto probabilmente Artemis Senior, che una volta aveva tentato di inserirsi a forza sulla piazza di Murmansk, controllata dalla mafia russa. Quel cecchino poteva semplicemente essere lì per una qualche vendetta, e quale modo migliore per ferire un padre se non colpendone i figli?

Il secondo punto interessante, e la causa dello sconcerto di Myles, era un altro personaggio, più piccolo, le cui immagini erano state catturate da una telecamera. La creatura minuta era comparsa dal nulla, si era messa a pedalare nel vuoto per mantenersi a mezz’aria, ed era poi precipitata nel silo delle alghe.

La confusione di Beckett era di tipo più generale, ma mentre osservavano le riprese ricevute dalla sonda gli sovvenne una domanda. «Una creatura fatata che pedala» disse. «Ma la sua bici dov’è?»

Myles non era incline a rispondergli; ma a dissentire, quello sì. «Non c’è nessuna bici, fratello mio» sbottò. «E si dà il caso che io non creda alle creature fatate, né agli stregoni, né ai semidei, né ai vampiri. Deve trattarsi di un fotomontaggio o di un’interferenza da un qualche sistema satellitare.»

Rimandò indietro il video e mise in pausa la figura sospesa a mezz’aria, avvicinandosi allo schermo per osservarla meglio, a occhi socchiusi.

«Ingrandire» disse ai suoi occhiali, che aveva migliorato con varie lenti prese dal laboratorio sigillato del fratello maggiore. Artemis aveva impostato un codice di sicurezza a ventidue cifre sulla porta, senza rendersi conto che quello stesso codice era stata una suggestione subliminale di Myles, che glielo aveva sussurrato all’orecchio ogni notte, nel sonno. Ad aggiungere ulteriore scorno, i numeri che Myles aveva scelto potevano essere decodificati tramite l’uso di un apposito cifrario alfanumerico, dando come risultato l’assurda frase latina Stultus Diana Ephesiorum, che poteva essere sintetizzata in “Diana di Efeso è uno stupido”; ed essendo Diana la versione romana della dea greca Artemide, da cui Artemis prendeva il nome… Era una burla decisamente complicata e arzigogolata: il genere migliore, per come la vedeva Myles.

«Già» disse Beckett. «Ingrandire.»

Il gemello biondo attivò lo zoom facendo un semplice passo verso lo schermo; una soluzione, a dire il vero, perfino più elegante ed efficace.

Myles esaminò il piccolo essere in sospensione. Era chiaro che c’era perlomeno una possibilità che non fosse umano.

Beckett puntò il dito sullo schermo, impiastrandolo con lo sporco che in quel momento gli copriva la mano.

«Myles, è una creatura fatata in sella a un eliciclo. Sono sicuro al milione per cento.»

«Non ci sono animali del genere e non esiste il milione per cento, Beck» replicò Myles, sovrappensiero. «E comunque, perché ne saresti così sicuro?»

«Ti ricordi le storie di Artemis?» gli chiese Beckett. «Ci ha raccontato tutto, su quelle creature.»

Quello era vero. Il fratellone aveva spesso rimboccato le coperte ai gemelli mentre raccontava loro le storie del Popolo Fatato che viveva nelle profondità della terra. Le storie finivano sempre con le stesse parole:

Gli elfi scavano in profondità e resistono, ma se mai avessero bisogno di una boccata di aria fresca o di rimirar la luna, sanno che manterremo il loro segreto, giacché i Fowl sono sempre stati amici del Popolo. Fowl e Popolo, Popolo e Fowl, amici per sempre.

«Erano soltanto storie» disse Myles. «Come puoi essere certo che contengano anche soltanto un briciolo di verità?»

«Lo sono e basta» disse Beckett; era una frase che usava spesso e non mancava di scatenare in Myles un parossismo di furiosa indignazione.

«Lo sei e basta? Lo sei e basta?!» squittì. «Non è un’argomentazione valida!»

«Hai la voce stridula» gli fece notare Beckett. «Come un porcello al macello.»

«Questo perché sono furioso» disse Myles. «E sono furioso perché stai presentando la tua opinione come se fosse un fatto, fratello. Come vuoi che risolviamo questo mistero, se continui a blaterare scempiaggini?»

Beckett si frugò nelle tasche dei pantaloncini e ne estrasse un pezzo di caramella gommosa.

«Tieni» disse, agitando il vermetto gelatinoso in direzione di Myles come se fosse vivo. «Questa gomma è rossa, e a te serve un po’ di rosso. Hai la faccia tutta bianca.»

«Ho la faccia bianca perché si è attivata la mia reazione istintiva di attacco o fuga» disse Myles, lieto di trovarsi nella posizione di poter spiegare qualcosa. «I globuli rossi sono stati precettati verso i miei arti perché a breve dovrò scegliere se combattere o fuggire.»

«Mooolto interessante» disse Beckett, facendo l’occhiolino a suo fratello per assicurarsi che percepisse il sarcasmo.

«Quindi, l’ultima cosa che farò è mangiare quella caramella gommosa» dichiarò Myles. «Uno di noi dev’essere un undicenne adulto, e come al solito toccherà a me. Per cui, qualsiasi cosa io farò nel futuro immediato, non avrà niente a che fare con le caramelle gommose. Mi sono spiegato, fratello?»

Prima ancora di finire la frase, Myles si era già ficcato la caramella in bocca e aveva cominciato a succhiarla rumorosamente.

Aveva sempre avuto un debole per le caramelle gommose. Gli era impossibile resistere.

Beckett gli lasciò qualche secondo per calmarsi, poi chiese: «Meglio?».

«Sì» ammise Myles. «Molto meglio.»

Già. Perché, nonostante fosse un genio acclarato, Myles era anche ansioso per natura e tendeva ad agitarsi per ogni minima contrarietà.

Beckett sorrise. «Bene, perché un genio stridulo è un genio stupido. Una volta l’ho sognato.»

«È un’affermazione grossolana ma accurata, Beck» disse Myles. «Quando il registro vocale di una persona si acuisce di più di un’ottava, solitamente è per via del panico, e il panico conduce a una certa sconsideratezza nell’agire, così atipica di suddetta persona.»

A quel punto, però, Myles stava più o meno parlando da solo, perché Beckett si era allontanato, come spesso capitava durante le filippiche di suo fratello, ed era intento a scrutare attraverso il visore periscopico della camera di sicurezza.

«Molto bene, Myles. Ma faresti meglio a smetterla di spiegare cose che non m’interessano.»

«E perché dovrei?» chiese Myles, vagamente contrariato.

«Perché…» disse Beckett. «Elicottero.»

«Lo so, Beck» disse Myles, addolcendosi. «Elicottero.»

Era vero che Beckett dava l’impressione di non sapere o di non interessarsi a molte cose, ma c’erano alcuni argomenti su cui era molto ferrato, tra cui gli insetti. E anche gli elicotteri. Beckett adorava gli elicotteri. Quand’era particolarmente sotto stress gli capitava di nominare le sue cose preferite, ma i suoi vaneggiamenti sugli elicotteri avevano ben poco senso pratico, a meno che non aggiungesse il modello specifico.

«Elicottero» insisté Beckett, lasciando il visore a suo fratello. «Modello militare Agusta Westland AW139.»

Sarà il caso di dargli retta, pensò Myles.

Si alzò gli occhiali sulla fronte e guardò nel periscopio per un breve istante, onde avere la conferma che un elicottero stava davvero giungendo dalla terraferma. L’elicottero portava le insegne dell’Esercito Irlandese e non avrebbe quindi avuto bisogno di mandato per atterrare sull’isola, se tale fosse stata l’intenzione dell’esercito.

Non posso e non voglio aprire il fuoco su un elicottero dell’esercito irlandese, pensò Myles, benché paresse inevitabile che l’esercito fosse lì per prendere i gemelli in custodia. Per la maggior parte della gente quel pensiero sarebbe stata fonte di grande conforto, ma, storicamente, la reclusione non finiva mai bene per i membri della famiglia Fowl; motivo per cui il padre aveva sempre ammonito Myles di ricorrere ad alcune specifiche precauzioni, qualora l’arresto o anche soltanto la custodia cautelare apparisse inevitabile.

“Dotati sempre di una via d’uscita, figliolo” diceva Artemis Senior. “Sei un gemello, ricordi?”

Myles prendeva sempre molto sul serio ciò che gli diceva suo padre, e così aggiornava regolarmente la sua cartella Vie d’Uscita dalla Reclusione.

Qui c’è bisogno di un classico, pensò, e disse a suo fratello: «Beck, devo dirti una cosa».

«È l’ora delle favole?» chiese Beckett, illuminandosi.

«Sì» disse Myles. «Proprio così. L’ora delle favole.»

«È una delle avventure di Artemis? L’incidente artico, o Il codice Eternity

Myles scosse la testa. «No, fratello. È una storia molto importante, per cui dovrai concentrarti. Riesci a raggiungere un alto livello di concentrazione?»

Beckett era un po’ dubbioso, dal momento che Myles dava spesso grande importanza a cose che lui invece considerava come marginali, tutt’al più.

Per esempio, fra le molte cose che Myles considerava importanti c’erano:

  1. La scienza;
  2. Le invenzioni;
  3. La letteratura;
  4. L’economia globale.

Ed ecco le cose che Beckett considerava estremamente importanti, se non addirittura vitali:

  1. Gloop;
  2. Parlare con gli animali;
  3. Il burro di arachidi;
  4. Espellere gas, in qualsiasi maniera fosse necessaria, prima di andare a dormire.

Le due liste si sovrapponevano molto raramente.

«È importante anche per me, o soltanto per Myles il cervellone?» chiese Beckett con notevole diffidenza. Quella era una giornata terribilmente eccitante, e sarebbe stato tipico di Myles cercare di rovinarla con il buon senso.

«Per entrambi. Giuro.»

«Giuri battipolso?»

«Giuro battipolso» disse Myles, alzando il dorso della mano.

Si diedero un colpetto e Beckett, con la certezza che un giuramento battipolso non potesse mai essere infranto, si stravaccò sul pouf gigante.

«Prima che inizi il racconto» esordì Myles «dobbiamo diventare veicoli umani per alcuni passeggeri molto speciali.»

«Che passeggeri?» chiese Beckett. «Dovrebbero essere proprio piccolini, se dobbiamo fare da veicoli.»

«Sono piccolini» disse Myles, non del tutto a suo agio nell’usare un’unità di misura così soggettiva come il “piccolino”, ma doveva tenere a bada Beckett. Aprì il coperchio di plexiglass della casetta per gli insetti e tirò su una manciata di piccole creature saltellanti. «Mi spingerei financo a dire super piccolini.»

«Pensavo che non dovessimo toccarli» obiettò Beckett.

«Non dovremmo, infatti» disse Myles, condividendo la sua manciata di insetti. «Tranne che in un’emergenza. E questa è decisamente tale.»

Myles impiegò appena due minuti a raccontare la sua storia, che in realtà era un piano di fuga, e altri sei minuti a ricapitolarla tre volte, per dar modo a Beckett di assorbirne tutti i particolari.

Quando Beckett ebbe ripetuto tutti i dettagli, Myles lo convinse a indossare almeno una maglietta – bianca, con la scritta UH-OH!, espressione usata da Beckett quando rompeva qualcosa di costoso, e da coloro che conoscevano Beckett quando lo vedevano arrivare. Myles ebbe perfino il tempo di disabilitare gli apparati di difesa più aggressivi della villa, che avrebbero potuto prendere l’iniziativa di polverizzare l’elicottero in cielo con un missile terra aria prima ancora che qualcuno potesse bussare alla porta.

Ora arriva la cavalleria, pensò Myles.

Ecco un raro caso in cui Myles si sbagliava. La donna alla porta non sarebbe mai potuta passare per un ufficiale di cavalleria.

Era, difatti, una suora.

«È una suora» disse Beckett, controllando il videocitofono.

Myles ne ebbe conferma con un’occhiata allo schermo. Era davvero una suora, e sembrava che fosse stata calata dall’elicottero in un cesto.

Magari se non facciamo niente se ne va, pensò Myles. Dopotutto, è possibile che questa persona non sappia nemmeno che siamo qui.

Myles avrebbe dovuto esprimere a voce alta quel pensiero, invece di limitarsi a pensarlo, perché, rapido come un lampo, Beckett premette il pulsante di comunicazione e disse: «Buongiorno, suora misteriosa. Sono Myles Fowl, uno dei gemelli Fowl. Qui con me c’è anche mio fratello Beckett, e siamo da soli in casa. Ti raggiungiamo tra un istante, siamo giù nella camera di sicurezza per via del boom sonico. Sono felice che il GEM non abbia abbattuto il vostro elicottero».

Le parole di Beckett contenevano praticamente ogni singola informazione che Myles avrebbe voluto mantenere segreta.

«Gracias» disse l’inattesa suora. «Vi aspetto.»

Beckett non stava più nella pelle per l’eccitazione. «Myles, una suora in elicottero! Quando mai si è vista una cosa del genere? Questo è l’inizio della nostra prima vera avventura. Dev’essere così… me lo sento nei gomiti.»

Beckett sentiva spesso le cose nei gomiti, che sosteneva avessero poteri psichici. A volte li puntava verso i barattoli di biscotti per capire se fossero pieni, cosa che Myles non aveva mai considerato probante, visto che una delle braccia robotiche di TATA riforniva i contenitori della cucina non appena i suoi sensori informavano la rete che erano vuoti.

«Beck, con tutto il rispetto per i tuoi gomiti sensitivi» disse Myles, «che ne dici di mantenere la calma e di attenerci al piano? Se possiamo restare, restiamo; ma se andiamo, ricordati la storia.»

Beckett si picchiettò la fronte. «È tutto qui dentro, fratello. Criceto furioso nella dimensione del fuoco

«No, Beck!» sbottò Myles. «Non quella storia!»

«Ha!» esclamò Beckett. «Ti sono saltati i nervi. Ho vinto.»

Myles contò i numeri primi fino a novantasette per calmarsi. Uno dei piaceri nella vita di Beckett era provocare suo fratello finché non gli saltavano i nervi. Era davvero ingiusto, perché era molto difficile distinguere tra un Beckett realmente ignaro e un Beckett che si fingeva tale.

«Ah, ah» disse Myles, senza la minima allegria. «Me l’hai fatta. Sei proprio un grande attore, e io un somaro zuccone. A mia discolpa, però, c’è da dire che sto cercando di tenerci entrambi in vita e fuori da un carcere militare.»

Beckett s’intenerì e abbracciò il fratello. «E va bene, Myles. Per questa volta te la do vinta, visto che quando sei sotto stress non hai il minimo senso dell’umorismo. Andiamo su e potrai fare la predica alla suora.»

Myles doveva ammettere che quella prospettiva era meravigliosa.

Una nuova persona a cui fare la predica!

Per quanto Myles fosse ansioso di dibattere, discutere e propinare il proprio monologo alla misteriosa suora, però, era determinato ad arrivare al portone d’ingresso con tutta la calma del mondo. Sapeva che è sempre una buona idea far aspettare un potenziale nemico poiché, se impaziente, è più probabile che disveli la sua vera natura. Beckett non conosceva quella tattica, per cui Myles dovette letteralmente trattenerlo, aggrappandosi ai passanti degli short. E così Beckett trascinò suo fratello sull’onda del suo entusiasmo come fa un mulo con il carretto.

Oltrepassarono la porta blindata d’acciaio e risalirono la stretta rampa di scale in cemento cerato fino alla zona giorno, un quadrilatero a pianta aperta delimitato su tre lati da pareti in vetro intessuto con una fibra conduttiva, che aveva lo scopo duplice di conservare l’integrità della gabbia di Faraday e di rinforzare le vetrate. I pavimenti in legno di recupero erano coperti da tappeti il cui posizionamento poteva sembrare casuale a un occhio inesperto, ma che in verità erano attentamente disposti in accordo con la scuola Ba Zhi del feng shui. Lo spazio era dominato da un tavolo ricavato da legname alla deriva e da un focolare in pietra grezza che bruciava pellet riciclato. L’asso nella manica della villa, però, era la vista panoramica sulla Baia di Dublino che garantiva agli occupanti. Myles ricordava quando aveva visitato l’isola insieme a suo padre, prima che iniziassero i lavori di costruzione.

«I geni criminali sono sempre attratti dalle isole» aveva detto Artemis Fowl senior. «Tutti i più grandi ne hanno una. Il Colonnello Hootencamp aveva l’isola di Flint. Hans Hørteknut aveva l’Isola del Ragno, che immagino si possa definire più che altro un ghiacciaio. Ishi Myishi, il malvagio inventore, possiede un’isola nell’arcipelago giapponese. E ora noi abbiamo l’isola di Dalkey.»

Al che Myles aveva chiesto: «Siamo geni criminali, padre?».

Suo padre non aveva dato risposta per quasi mezzo minuto, e Myles aveva avuto l’impressione che stesse scegliendo con grande cura le parole.

«No, figliolo» aveva detto alla fine. «Ma talvolta bisogna combattere il fuoco con il fuoco.»

Myles sapeva che era una metafora e, in quanto scienziato, si sentiva obbligato a esaminarla puntigliosamente.

«Il fuoco sarebbe un’analogia per il crimine» aveva commentato. «Quindi, se ho ben interpretato le tue parole, stai dicendo che, occasionalmente, l’unico modo per sconfiggere un criminale è usare i suoi stessi metodi contro di lui.»

Artemis senior era scoppiato a ridere e aveva scompigliato i capelli del figlio.

«Stavo solo riflettendo a voce alta, figliolo. I Fowl sono fuori da quel giro. Allora, che ne dici se ci dimentichiamo che io abbia mai parlato di geni del crimine e ci godiamo la vista?»

Una vista che Myles in quel momento era costretto a ignorare, impegnato com’era a tentare di rallentare l’energico incedere del fratello verso la porta di casa. Confidava nel fatto che sarebbe riuscito a cavillare via citofono con la suora in attesa fuori fino alle calende greche– o perlomeno finché non fossero riusciti a informare i loro genitori della situazione. Il problema sarebbe stato riuscire a contenere Beckett.

Problema che, però, non si concretizzò. Quando ci arrivarono, la porta d’ingresso era già aperta. La suora era scesa dal cesto di soccorso e stava richiudendo le dita su un attrezzo delle dimensioni di un disco da hockey, che teneva legato al palmo.

«Eccovi qua, chicos» disse la suora. «La porta si è aperta da sola. Increíble, no?»

Incredibile davvero, pensò Myles. Questa suora potrebbe non essere virtuosa come suggerisce l’abito.

La donna giunta sulla soglia di Villa Eco era senz’altro una suora, ma il suo abito era un po’ più alla moda di quanto ci si aspetterebbe solitamente dai vari ordini religiosi. Indossava una semplice tunica di lino nero, che poteva essere un indice di quanto le piacessero i film di Guerre Stellari, o che avesse appena scoperto un giovane stilista promettente. Il camice era cinto in vita da un’ampia fascia di raso che strizzava l’occhio alla cultura giapponese antica. I capelli erano troppo dorati per essere naturali ed erano acconciati secondo quello stile vaporoso noto negli anni Ottanta come Telegiornalistico, dal quale faceva capolino una veletta in poliestere nero fermata da uno spillone tempestato di strass.

«Buenas tardes, chicos» disse. «Sono sorella Geronima Gonzalez-Ramos de Zárate, di Bilbao.»

Beckett non udì nient’altro oltre il primo nome.

«Geronimooo!» gridò entusiasta, alzando le braccia al cielo.

«No, niño» disse con pazienza la suora. «Geronima, non Geronimo.»

Beckett alterò il suo grido in maniera appropriata – «Geronimaaa!» – e proseguì a ruota con un paio di domande inopportune: «Sorella, perché è rossa? E perché ha questo odore strano?».

Geronima sorrise, indulgente. Quelle erano le domande che la maggior parte delle persone avrebbe voluto farle ma non osava. «Vedi, chico, la mia pelle ha questa tinta delicata per via del mio ordine: le Sorelle della Rosa. Ci coloriamo la pelle di rosso con una soluzione anilinica non tossica per dimostrare la nostra devozione a Maria, la rosa senza spine. E l’odore proviene dalla tintura. Somiglia al profumo delle mandorle, no?»

«Sì, somiglia alle mandorle!» disse Beckett. «Mi piace. Posso tingermi la pelle, Myles?»

«No, fratello» rispose Myles, sorridendo. «Non prima dei diciott’anni.»

Myles era meno sorridente quando si rivolse alla suora.

«Sorella Geronima» disse. «A quanto pare, lei ha fatto irruzione in casa nostra.»

Geronima unì le mani come in preghiera. «Sono una suora. Non farei mai una cosa del genere. Come mi pare di aver già detto, la porta era aperta. Può darsi che il vostro GEM abbia fatto interferenza con le serrature, no?»

Myles era felice che la suora rosa avesse mentito. Perlomeno adesso sapeva come stavano le cose.

«Come minimo questa è una violazione di domicilio» replicò.

Geronima scacciò l’osservazione come se fosse una zanzara molesta. «Non obbedisco alle estúpidas leyes del vostro paese.»

«Capisco» disse Myles. «Immagino che obbedisca a un potere superiore.»

«Claro que sí, assolutamente, se vogliamo.»

«Un potere superiore che è nell’elicottero?» chiese Beckett.

Geronima sorrise a labbra strette. «Non esattamente, niño. Limitiamoci a dire che non sono vincolata dalle regole del vostro governo.»

«È tutto molto bello» disse Myles. «Ma oggi non facciamo donazioni. Le spiace richiamare quando i nostri genitori saranno in casa?»

«Non sono qui a chiedere l’elemosina, Myles Fowl» disse Geronima. «Sono qui per salvarvi.»

Myles finse sorpresa. «Salvarci, dice, sorella? Ma se ci troviamo nel luogo più sicuro del mondo! A dire il vero, nel parlare con lei sto disobbedendo alle istruzioni dei miei genitori. Per cui, se non le spiace…»

Provò a richiudere la porta, ma fu bloccato nell’intento dallo stivale in pelle alto fino al ginocchio della suora, che quest’ultima aveva incastrato tra la porta e il telaio.

« che mi spiace, niño» replicò lei, riaprendo la porta con una spinta. «Siete due minori non accompagnati sotto l’attacco di un assalitore sconosciuto. È mio dovere scortarvi in un luogo sicuro.»

«Mi piacerebbe farmi scortare in elicottero, Myles» disse Beckett. «Possiamo andare? Possiamo, per favore?»

«Sì, Myles» gli fece eco Geronima. «Possiamo andare, por favor? Fa’ felice tuo fratello.»

Myles alzò un dito irrigidito e gridò: «Non così in fretta!».

Era innegabile che fosse un tantino melodrammatico, ma Myles si sentiva giustificato nel cedere a quella sua debolezza: in fondo, la suora alla sua porta si era calata da un elicottero. «Come fa a sapere che siamo sotto attacco, sorella Geronima?»

«La mia organizzazione ha occhi dappertutto» replicò lei, con quella che Myles avrebbe imparato a considerare la sua solita elusività.

«La cosa sembra vagamente illegale, sorella» disse Myles, pensando di trattenerla ancora per diversi minuti mentre le estorceva altre informazioni su questa misteriosa “organizzazione” a cui lui e Beckett avrebbero dovuto consegnarsi così, come se niente fosse. «Sembra che lei stia violando i miei diritti, il che è piuttosto insolito per una donna di chiesa.»

Geronima incrociò le braccia. «Io sono una donna di chiesa insolita. Sono anche un’infermiera di campo, e un tempo lanciavo coltelli al circo. Ma non è importante cosa sono io. Tu sei importante, ed è proprio vero quel che dicono di te, chico. Tu sei quello sveglio.»

«Invece io sono quello che sa arrampicarsi!» disse Beckett, mandando a gambe all’aria il piano di suo fratello per prendere tempo balzando nel cesto di soccorso dell’elicottero e arrampicandosi su per il cavo di raccordo più in fretta di un macaco su un albero da frutto.

«E lui è quello che si sa arrampicare» concordò sorella Geronima. «Anche piuttosto in fretta, direi.» Fece un passo indietro e aprì lo sportello del cesto. «Vogliamo seguirlo, chico

A Myles rimaneva ben poca scelta, ora che Beckett era partito in quarta.

«Immagino che sia meglio» disse, un po’ irritato che la sua missione investigativa fosse stata bruscamente interrotta. «Ma solo se la smette con questi sdilinquimenti fasulli. Chico, e via discorrendo. Ho undici anni e non sono certo un bambino.»

«Molto bene, Myles Fowl» disse sorella Geronima. «D’ora in avanti sarai giudicato come un adulto.»

Lo sportello era già chiuso alle spalle di Myles quando fu sorpreso da quelle parole. «Giudicato? Ci sarà un processo?»

Geronima finse una risatina. «Oh, chiedo venia, è stato solo – com’è che dite, voi? – un qui pro quo. Ovviamente intendevo trattato. Sarai trattato come un adulto.»

«Mmm» mugugnò Myles, poco convinto. Doveva esserci un qualche processo all’orizzonte, ne era certo.

Geronima fece un movimento circolare con l’indice e l’argano si attivò. Mentre il cesto risaliva nel cielo della sera, Myles guardò giù e ammirò la veduta aerea di Villa Eco, che, così dall’alto, aveva la forma di una F maiuscola.

F, come Fowl.

Ti è rimasto dentro ancora un po’ di genio criminale, eh, papà?, pensò, e si chiese quanta parte di quel genio avesse ereditato.

Quanta ne servirà per essere in grado di tenere Beckett al sicuro, decise.

Picchiettò il lato degli occhiali e attivò il filtro a infrarossi integrato nelle lenti, notando che, dall’altra parte della baia, il cecchino stava mettendo via l’attrezzatura.

Non eravamo noi il bersaglio, si rese conto. Perfino un cecchino con un occhio solo avrebbe facilmente potuto colpirci, in spiaggia. E allora, a cosa stavi dando la caccia, signor Barbuto?

Affidò quell’enigma al suo subconscio, che lo risolvesse in sottofondo mentre lui se la vedeva con sorella Geronima e l’altro misterioso personaggio della loro storia. Un personaggio che stava emergendo proprio in quel momento dal silo delle alghe – e nessuno avrebbe potuto notarlo, a parte Myles, visto che la creatura, di qualsiasi cosa si trattasse con esattezza, era più o meno invisibile.

Invisibile, pensò il piccolo Fowl. Che mistero.

E, come spesso diceva suo padre: “Un mistero è semplicemente un enigma avanzato. Un tempo, il tuono era un mistero. Un uomo saggio impara dall’ignoto, rendendolo noto”.

E così fa un ragazzo saggio, padre, pensò Myles. Ingrandì la visuale della creatura dal silo e vide che una sola parte del corpo era visibile, anche senza il visore a infrarossi: l’orecchio destro, che era a punta. Da qualche parte, nel cervello di Myles, si accese una lampadina.

Un orecchio a punta.

Poi la creatura dalle orecchie a punta cominciò a pedalare e si sollevò appresso al cesto di soccorso che si librava per aria.

Beck aveva ragione, pensò Myles, con un’occhiata verso suo fratello, che stava già salendo a bordo dell’elicottero.

Era davvero un elfo in bicicletta.

«D’Arvit» borbottò, sconvolto nello scoprire che quelle di Artemis erano storie vere e non di fantasia.

Sorella Geronima confuse il borbottio con uno starnuto. «Salute, chico» disse. «L’aria della sera è fresca.»

Myles non si prese la briga di correggerla; sarebbe stato difficile spiegare che la parola D’Arvit era un’imprecazione elfica, secondo le favole di Artemis.

Myles si ripromise di non usarla più, perlomeno non finché non ne avesse scoperto l’esatto significato.

Lord Teddy Sang-Uisuga fu sorpreso nel notare che il suo umore stava, chissà come, migliorando. La notizia sarebbe stata clamorosa per chiunque lo conosceva, dal momento che il duca era ben noto per dare in escandescenze quando le cose non andavano come voleva lui. Era sempre stato emotivamente instabile fin da piccolo, quando tirava i suoi giocattoli dal passeggino se gli si rifiutava un dolcetto. Durante le riunioni di famiglia, suo padre lo metteva spesso in imbarazzo con la storia di come un Teddy di soli cinque anni aveva scaraventato giù per la scogliera di St. George il suo cavalluccio di legno perché la tata gli aveva servito una limonata tiepida. E di come alla stessa età aveva dimostrato un comportamento talmente antisociale che era stato necessario iscriverlo subito al collegio di Charterhouse, anziché a sette anni, com’era tradizione tra le famiglie dell’alta società. Ora, un secolo e mezzo dopo, l’umore generale del duca non era migliorato granché, benché avesse sviluppato la tendenza a sfogare ogni frustrazione sulle altrui proprietà piuttosto che sulle sue, evitando così che l’irritazione gli inasprisse gli acidi gastrici. Come rimanere sempre in forma.

E così, Lord Teddy si sorprese a fischiettare mentre metteva via l’attrezzatura.

Fischietti, vecchio mio? Di certo dovresti ripiombare nel tuo solito umor nero.

E invece no, era al limite dell’esuberanza.

E perché mai?

Perché, Teddy, vecchio mio, c’è qualcosa di strano nell’aria.

Un solo sparo e, tutt’a un tratto, l’esercito si presenta per un’estrazione? I Fowl erano una famiglia importante, ma non così importante.

Era ovvio che una qualche agenzia di servizi avesse messo sotto sorveglianza l’isola.

Questo conferma la mia crescente certezza che la pista di fratello Colman era solida.

Ora Teddy si trovava di fronte a una scelta: poteva continuare a tenere d’assedio l’isola in attesa di un altro troll, o poteva seguire i gemelli Fowl e trovare quello che aveva incellofanato poco prima.

Lord Sang-Uisuga sapeva che la scelta logica sarebbe stata tenere d’occhio l’isola, che stava per restare incustodita, ma il suo istinto gli diceva: Segui i Fowl.

Il duca si fidava del suo istinto; l’aveva tenuto in vita sin lì.

Oltretutto, sarebbe stato un gioco da ragazzi seguire quel troll, dato che ogni proiettile Myishi CV era dotato di un codice radioattivo e Teddy aveva programmato i codici di ognuno di essi nel suo meraviglioso orologio da polso Myishi Uisuga, equipaggiato con più di mille funzioni, tra cui un allarme notiziario geolocalizzato e perfino un’effettiva indicazione oraria. La serie Uisuga era lo standard d’eccellenza per le applicazioni criminali. Includeva orologi, macchinari per gli esercizi, una splendida pistola di porcellana, una linea di abbigliamento antiproiettile a peso ridotto, un velivolo leggero e una serie di dispositivi per la comunicazione. Ogni articolo recava incisa una copia del famoso ritratto a linea continua che Modigliani aveva fatto al duca nel 1915. In cambio di quella sponsorizzazione, a Teddy veniva riconosciuto un credito annuale di cinque milioni di dollari presso la compagnia e il cinquanta per cento di sconto su qualsiasi articolo una volta esaurito il credito. Lo slogan per la serie Uisuga era Sii Uisuga in ogni situazione, con Myishi. Era stato un ottimo accordo per entrambe le parti. E anzi, a dire il vero, Lord Teddy sarebbe stato da tempo in bancarotta se non fosse stato per il contratto di sponsorizzazione con la Myishi Corporation. Dal canto suo, Ishi Myishi disponeva così dell’approvazione certificata di uno tra i più rispettati geni del crimine-scienziati pazzi dell’intera comunità, il che movimentava l’inventario più di quanto non servisse a ripagare il credito del duca.

Buon vecchio Myishi, pensò Lord Teddy, con i suoi meravigliosi gadget.

Il duca e Ishi Myishi erano stati in affari sin da quando quest’ultimo era un bambino. O, per la precisione, da quando Myishi era un bambino che aveva mentito sulla propria età per farsi reclutare nell’esercito giapponese e Teddy Sang-Uisuga era un ufficiale dell’esercito britannico. Il duca aveva pizzicato il giovane Myishi mentre evadeva da un casotto di detenzione in Birmania, difendendosi con un fucile che il ragazzo aveva assemblato da sé mettendo insieme la rete e le molle della branda. Teddy sapeva riconoscere il talento quando lo vedeva e, invece di riconsegnare il fuggitivo, aveva fatto sì che andasse a studiare ingegneria a Cambridge. Il resto, come si dice, era storia – per quanto segreta. A detta dello stesso Teddy, Myishi aveva già ampiamente ripagato il suo debito.

Più che ampiamente, pensò Teddy, visto che uno dei benefici collaterali della sponsorizzazione era un sistema di geolocalizzazione in grado di rimbalzare su diversi satelliti privati. E così, ovunque andasse quel troll, in un raggio di centinaia di chilometri, Teddy avrebbe potuto seguirlo con grande facilità.

I Fowl non si accorgeranno nemmeno del mio arrivo, pensò. E non sentiranno arrivare le pallottole che li uccideranno.

L’elicottero dell’esercito

Lazuli Platz non riusciva a inquadrare il ragazzino coi capelli neri.

Se ne stava lì a sorriderle come se, ai suoi occhi, lei fosse perfettamente visibile. Ma non poteva essere così, visto che gli altri occupanti dell’elicottero la stavano bellamente ignorando. Il secondo ragazzino cercava di comunicare con i gabbiani che volavano accanto a loro, mentre la donna in nero assillava il ragazzo occhialuto con domande che lui ostinatamente ignorava, mantenendo il contatto visivo con Lazuli e un gran ghigno sul viso.

Questo bambino irradia scaltrezza, pensò Lazuli. Già non mi piace. Alla prima occasione recupero il troll e mi allontano il più possibile da questa gente.

A dire il vero, stava cominciando a pentirsi della sua decisione di salire a bordo dell’elicottero. Forse si sarebbe dovuta limitare ad attendere l’arrivo della LEPrecup. Ma ormai la decisione era stata presa e pentirsene non aveva alcun senso. Per di più, il meccanismo a pedali era stato danneggiato nella caduta ed era a malapena riuscita a salire sull’elicottero. Le ali si erano ripiegate nella tuta; un segno che non avrebbe più volato finché quest’ultima non si fosse rigenerata. Per cui, ora doveva concentrarsi sulla mossa seguente.

E la sua tutor le aveva detto: “Nel passato non c’è futuro”.

In altri termini, intestardirsi ad anticipare il risultato delle proprie decisioni era soltanto una perdita di tempo. O perlomeno così l’aveva interpretato lei.

Per cui, pochi minuti prima, Lazuli era strisciata fuori dalle alghe, con la sensazione di essere appena stata pestata come una zampogna per via degli effetti della Filacchiappa, e aveva pedalato fino ad arrivare all’elicottero. Il piano era di aggrapparsi ai pattini di atterraggio, ma c’erano già diversi soldati armati in quella posizione, per cui Lazuli non aveva avuto altra scelta se non intrufolarsi fra le truppe, facendo attenzione a non incespicare nelle armi automatiche (è infatti universalmente noto che a nessun guerriero, di qualsiasi specie, fa piacere che altri tocchino le sue armi). Aveva strisciato sotto il sedile dell’elicotterista, sperando che i filamenti non scivolassero via, rendendola visibile – anche se aveva l’impressione che quelle stringhe mimetiche cromoforiche si fossero fuse con il tessuto della tuta, per non dire della sua pelle blu, e non sarebbero mai più venute via. Il che, al momento, era un bene.

Lazuli si era accovacciata lì sotto, tra le ombre, cercando di fare il punto della situazione.

“Impara più cose che puoi, specializzanda.”

Un altro consiglio della sua tutor.

Un amico mi ha detto che l’oro è potere. Una volta tanto, si sbagliava. L’informazione è potere.

Informazione. Una valuta di cui Lazuli disponeva ben poco.

E, dopo più di un minuto, non ne aveva guadagnata granché altra, se non che il ragazzino occhialuto continuava a fissare dritto verso di lei.

Se mi vede, perché non lo dice a tutti?

Lazuli avrebbe tanto voluto poter fare un po’ di ricerche su quella famiglia prima di imbarcarsi nella sua esercitazione, ma il dossier sui Fowl era chiuso a doppia mandata, più serrato del borsello di un nano.

Il sorriso del ragazzino non è amichevole, si rese conto poi. È il sorriso di uno che ha un segreto.

Quanto al secondo pargolo, in apparenza non era altro che un povero sciocco che faceva versi striduli ai gabbiani mentre l’elicottero passava sopra di loro.

Circa tre minuti dopo, Lazuli era riuscita a cogliere due informazioni potenzialmente utili.

Uno: erano diretti a sudest, verso l’Europa continentale.

Due: in quanto priva di magia, Lazuli era stata costretta a studiare come una matta per riuscire a malapena a superare l’esame di Dono delle lingue, motivo per cui si era resa conto che quel bambino umano che gridava ai gabbiani non era così ingenuo come aveva creduto all’inizio.

I suoi pensieri furono interrotti dal ragazzo con gli occhiali, che si schiarì la gola rumorosamente.

«Ti stai ammalando, chico?» chiese la suora; al che, lui rispose: «Sto benissimo, sorella Geronima. Non c’è alcun bisogno di gridarmi nell’orecchio destro. È qui accanto a lei. Perfettamente visibile

Lazuli impiegò qualche istante prima di capire che quelle parole erano rivolte a lei e non alla suora. Quando le si accese la lampadina, si portò frettolosamente una mano sopra l’orecchio.

D’Arvit, imprecò tra sé, il che vanificava il proposito liberatorio dell’imprecazione. Questo significa che devo un favore al ragazzo umano?