1.
Ma in questo libro, tengo subito a precisarlo, Itaca non è una metafora. È un luogo reale, una piccola comunità greca che sta dandosi le strutture fondamentali di quella che verrà chiamata un'organizzazione politica. O meglio: è il prototipo di una delle tante comunità di questo tipo realmente esistite in terra greca in un momento che non può essere successivo all'viii secolo a.
C. (dirò poi le ragioni di questa collocazione nel tempo). Una città con i suoi abitanti, le sue case, il suo porto, le sue navi, con il suo re traduco così, per ora, il termine basileus -, con la sua piazza (agoré), dove si riunisce l'assemblea del popolo. Il prototipo, insomma, di una comunità che si appresta a diventare una polis, l'organizzazione politica di cui Atene resterà il modello insuperato, o quantomeno più conosciuto, e di cui Itaca presenta già chiaramente in embrione gli elementi caratterizzanti. In questo libro, insomma, l'Odissea non è vista come Bild-ungsroman. Come è giusto, quell'Odissea resta territorio di letterati e filosofi. E non è neppure vista, secondo un'altra interpretazione cara ai letterati, come ripetizione di episodi che raccontano sempre, senza fine, la stessa esperienza del protagonista. 2. Vero è, certamente, che le avventure di Ulisse non finiscono con il suo ritorno a Itaca. A dircelo è Ulisse stesso, nell'Odissea. Tornato finalmente alla sua isola, dopo aver ucciso i pretendenti della moglie e punito i servitori che lo avevano tradito (il capraio Melanzio, le dodici ancelle infedeli), Ulisse si appresta a godere con la moglie del "sonno soave", da lui più che meritato e dalla povera Penelope tanto lungamente atteso. Ma prima di concederselo, si sente in dovere di avvertire la moglie che a Itaca egli resterà solo per qualche tempo: nell'Ade, l'indovino Tiresia gli ha predetto che le sue prove non termineranno con il ritorno in patria (Od., 11, 119-137).
Penelope, a riprova delle sue virtù, si guarda bene dal recriminare: io sarò sempre qui ad attenderti, promette al marito, nel letto che sarà sempre pronto per te, ogni volta che "lo vorrai nel cuore". Ma una domanda, una sola, Penelope vuole farla: quale sarà la meta del prossimo viaggio? 3 E Ulisse racconta la profezia: egli dovrà navigare sino a giungere presso genti che non conoscono il mare, non mangiano cibi conditi con sale, non sanno le navi dalle guance di minio, né i maneggevoli remi, che son ali alle navi. (Od., 23, 269272) Un'altra Odissea lo attende, insomma: sui dettagli della quale, peraltro, vi sono non poche incertezze. Nella profezia di Tiresia, egli viaggerà, portando un remo sulla spalla, fino a quando un altro viandante gli dirà che regge sulla spalla un ventilabro 4: in altre parole, sino a che non giungerà presso gente che non conosce la navigazione. Solo allora, dopo aver piantato in terra il remo e aver sacrificato a Poseidone, Ulisse potrà finalmente tornare a casa, e restarvi sino a quando
"morte dal mare" gli verrà, molto dolce, cogliendolo "vinto da serena vecchiezza" e circondato da "popoli beati" (Od., 23, 267-284, che riprende 11, 121-137). Ma le fonti diverse da Omero, pur confermando la notizia, di questi viaggi danno versioni differenti. Oltre a informarci sull'itinerario, questi racconti parlano di incontri femminili, che attestano quel che del resto risulta già chiaro dall'Odissea: a differenza di quella proverbiale della moglie (sulla quale peraltro torneremo), la fedeltà di Ulisse è quantomeno discutibile. Secondo l'Epitome di Apollodoro, infatti, attraversato l'Epiro, Ulisse sarebbe giunto presso i Tesproti, sui quali avrebbe regnato dopo averne sposato la regina, Callidice, che gli avrebbe dato un figlio di nome Polipete. E secondo Pausania solo alla morte di Callidice egli sarebbe tornato a Itaca, ove nel frattempo Penelope gli aveva dato un secondo figlio, di nome Poliporte. Ma i suoi ultimi giorni a Itaca non sarebbero stati felici come gli aveva predetto Tiresia. Ulisse infatti sarebbe stato ucciso nel corso di una rissa da Telegono, il figlio avuto da Circe, che sbarcato sull'isola alla ricerca del padre sarebbe stato da questi scambiato per un ladro. Infine, dopo l'uccisione del padre, Telegono avrebbe sposato Penelope. 5. Le notizie insomma sono molte e contraddittorie; la morte per mano di Telegono, infatti, non si concilia con il verso omerico sopra citato, che parla di "morte dal mare". Ma l'espressione greca ivi tradotta è ex alos, che può anche significare "lontano dal mare": donde un tentativo in verità non poco forzato di conciliare le opposte versioni: Ulisse muore per il veleno di una razza, usata come punta della sua lancia da Telegono, il figlio "nato lontano". 6 Su tutto questo torneremo: come che sia, il viaggio verso Itaca non è l'ultimo viaggio di Ulisse. E, di nuovo, le interpretazioni delle ragioni che lo inducono a riprendere le vie del mare sono molte. Secondo quella forse più scontata, il viaggio, inteso come meta da raggiungere e prove da superare, è il senso stesso della vita di Ulisse. Così lo intende, accanto a molti filologi di professione, anche Giovanni Pascoli 7: dieci anni sono passati dal momento del ritorno in patria (dieci è ovviamente numero topico nella storia di Ulisse: dieci anni sotto le mura di Troia, dieci in mare, sulla via del ritorno, dieci a Itaca, prima di reimbarcarsi). Ulisse, vecchio e canuto, non trova più ragioni per vivere. Gli anni trascorsi a Itaca, senza motivazioni e senza obiettivi, hanno trasformato la sua vita in un'anticamera della morte. Sinché, un giorno, quasi ridestandosi da un lungo sonno mentre Penelope dorme, senza svegliarla Ulisse si reca sulla riva del mare, dove da dieci anni, appunto, lo attendono i compagni, e riprende il suo viaggio a ritroso, quasi alla ricerca di un passato nel quale ha vissuto momenti che forse rimpiange, in cui ha compiuto scelte di cui forse non comprende più il senso, di cui non sa più valutare a fondo le ragioni. Eccolo dunque dirigere la prua verso l'isola di Circe, verso la terra dei Lotofagi, verso la dimora delle Sirene: quelle Sirene di cui, un tempo, non aveva voluto ascoltare il canto, ma che ora interroga, per sapere che senso ha la sua vita mortale. Ma le Sirene, quasi a punirlo per non averle ascoltate quando volevano rivelargli le verità che esse sole conoscevano, restano chiuse in un ostinato mutismo: come, in una bella pagina di Kafka, avrebbero peraltro già fatto nel corso del primo incontro. 8 E Ulisse continua il suo viaggio, giungendo finalmente da Calipso, la ninfa che gli aveva offerto l'immortalità, e muore tra le braccia di lei, avvolto nei suoi capelli. Forse, chissà, rimpiangendo di aver scelto la sorte dei mortali. Ma tante altre, e diverse, possono essere le interpretazioni dei viaggi di Ulisse, di quei viaggi che quando sembrano giunti al termine ricominciano, senza fine: in genere perché un dio è stato offeso, ma a volte anche senza una ragione (come, appunto, nel caso dell'ultimo viaggio). Sotto questo profilo, è difficile allontanare l'immagine di un'Odissea serial, racconto a puntate antesignano dei Dallas televisivi, a loro volta caratterizzati, oltre che dalla ripetitività della trama, dalla tipizzazione dei personaggi, televisivamente ottenuta dall'abbigliamento, dal sorriso, dalla pettinatura o altri elementi che immediatamente segnalano il tipo sociale e psicologico, il loro carattere, il loro ruolo. Pensiamo alla forma più elementare della tipizzazione omerica, i famosi "epiteti", che costantemente accompagnano il riferimento ai diversi personaggi, fino a diventare quasi parte del loro nome: Achille "piè veloce", Ulisse "dalle molte astuzie", Penelope "saggia", Era "dalle bianche braccia", e via dicendo: la tipizzazione dei personaggi televisivi attraverso gli elementi visivi, come è stato osservato, appare in qualche modo l'equivalente degli epiteti omerici. 9.
Senonché, mentre l'interpretazione letterario-filosofica di questo "serial" (se così lo si vuole leggere) pone l'accento sulla ripetitività senza fine delle esperienze del protagonista, la nostra indagine privilegia un'ottica diversa. Della nostra storia, Ulisse è il deuteragonista: la protagonista è Itaca, la meta del viaggio. Itaca con i suoi abitanti, le sue istituzioni, la sua storia. E la storia di Itaca non è ripetizione di eventi: è la vita in divenire di una comunità dove uomini e donne si confrontano e si affrontano, dando vita a un tessuto di relazioni sociali governate, fondamentalmente, dai meccanismi tipici di una "cultura di vergogna": di una cultura, come vedremo meglio più avanti, in cui il rispetto delle regole è assicurato dal timore di perdere "l'immagine" (o, come si dice oggi, la faccia). Ma nel momento in cui il re finalmente ritorna, dopo un periodo di rottura delle convenzioni dovuto alla sua assenza e alla tracotanza dei pretendenti di sua moglie, qualcosa di molto importante accade, nell'isola. Il ritorno di Ulisse non segna solo il ristabilimento dell'ordine precostituito. Esso preannunzia la nascita di un ordine nuovo. Una volta eliminate le turbative, Itaca si riorganizza in un sistema nel quale è possibile cogliere le tracce delle prime regole giuridiche del mondo occidentale.
Itaca e la nascita del diritto, insomma: questa è la storia che vogliamo raccontare. Una storia che, intrecciandosi ovviamente con quella di Ulisse e del suo ritorno in patria, sarà composta di tre parti. La prima parte sarà dedicata a Itaca in assenza di Ulisse: una comunità in cui vige la legge del più forte, nella fattispecie la hybris, la tracotanza senza misura dei pretendenti di Penelope; una città in cui il tempo sembra sospeso in attesa del ripristino di un ordine senza il quale non è neppur pensabile una vita civile. La seconda parte sarà dedicata alle avventure di Ulisse lungo la via del ritorno, o quantomeno ad alcune di esse; al significato che queste hanno, ai fini della comprensione dei valori eroici e del discrimine tra la civiltà, che Ulisse rappresenta, e la barbarie, nella quale si imbatte e sulla quale ha il sopravvento. Ma non è solo la barbarie il pericolo che Ulisse deve scongiurare. Non meno pericolosa, anche per i valori civici, è la seduzione, rappresentata nell'Odissea certamente non a caso da figure femminili più o meno mitiche. Le avventure di Ulisse con questi personaggi femminili insegnano tra l'altro che esiste una divisione netta e invalicabile tra due categorie di donne, che hanno ruoli e, più avanti nel tempo, uno status giuridico diverso. Una distinzione presente, nella mentalità greca, ben prima del momento in cui la polis la codificherà nelle sue leggi 10: da un lato le donne oneste (le mogli e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del capo della casa); dall'altro le seduttrici, donne libere, autonome al punto da vivere sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose. Infine, esaminate sia singolarmente, sia nel loro complesso, le avventure di Ulisse sulla via del ritorno si rivelano, in più di un'occasione, come le gesta di un soggetto contrariamente a quanto spesso si afferma già "intero" e compatto, capace di autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte addirittura contro la volontà degli dèi. 11. La terza parte, quella conclusiva, sarà dedicata a Itaca dopo il ritorno di Ulisse. Essa sarà la storia della sua riconquista del potere familiare e politico. Due poteri diversi, che Ulisse riafferma all'interno di due logiche diverse. Il potere domestico: potere di un capo assoluto, su dipendenti che potremmo definire sudditi viene riaffermato infliggendo castighi, a volte feroci, ma che tengono conto tuttavia di concetti etici come volontarietà o involontarietà dell'azione, presenza o assenza della colpevolezza e responsabilità dell'agente.
La riconquista del potere politico, invece, si svolge nella logica inesorabile della vendetta, retribuzione pura che non può tener conto di stati soggettivi, di gradazioni della volontarietà e di misurazioni della colpa. Ma anche all'interno di questa logica, non nel caso dei proci, ma nel corso di altre vendette è possibile cogliere l'emergere di nuove regole, che segnalano la trasformazione della forza fisica da strumento di riaffermazione dell'onore individuale e familiare in strumento per il mantenimento di un ordine comunitario, garantito da alcune norme di comportamento che la comunità considera imprescindibili. E sempre all'interno di questa logica, è anche possibile individuare i metodi predisposti dalla nascente polis per imporre l'osservanza di queste norme. In altre parole, come abbiamo già detto, è possibile cogliere un momento fondamentale nella storia dell'Occidente: quello nel quale, in Grecia, nacquero le prime regole che oggi definiamo giuridiche. Come ho già fatto in altre occasioni, ho pensato, anche questa volta, di organizzare il libro in modo che si presti a una duplice lettura. La prima si basa sul solo testo ed è dedicata ai lettori che non hanno competenze specialistiche in materia. La seconda prevede la lettura delle note, ed è destinata agli specialisti e agli studenti. Oltre alla bibliografia, nelle note si trovano le diverse interpretazioni dei testi e i dibattiti dottrinari relativi alle questioni via via trattate. Introduzione storica.
Introduzione storica. 1. Capire Itaca.
Capire Itaca: la sua organizzazione sociale, la mentalità dei suoi abitanti, le loro credenze religiose, il loro mondo. Un progetto affascinante, pensabile solo a partire da una convinzione: che la società di Itaca sia realmente esistita. Il che non significa necessariamente credere nella storicità degli eventi narrati da Omero. Come osservò a suo tempo Moses J. Finley, grande studioso della società itacese, e più in generale del mondo omerico, nei poemi nulla ha una dimensione storica. Come nelle favole, tutto accade once upon a time, tutto è fuori del tempo.
Anche i personaggi sono fuori del tempo: ritrovandosi, a distanza di vent'anni, Ulisse e Penelope sono immutati sia nel fisico sia nei sentimenti. 1 Credere nella storicità del mondo di Itaca, dunque, non significa credere che sia realmente esistito un re chiamato Ulisse, che questi avesse una moglie di nome Penelope e un figlio chiamato Telemaco. E non significa neppure credere che la guerra di Troia sia stata realmente combattuta: argomento, quest'ultimo, tuttora aperto, e oggetto di un dibattito mai sopito. 2 Per quanto mi riguarda, io credo che i personaggi immaginati messi in scena nei poemi omerici vengano fatti agire nel quadro di una guerra realmente combattuta: ma anche chi non crede alla storicità di questa guerra può credere nella storicità di Itaca. Tutto sta, evidentemente, nell'intendersi sul significato da attribuire alla parola storia. Per me, credere nella storicità dell'epos omerico significa credere che l'Odissea, descrivendo la vita di Itaca e dei personaggi che la popolano, descriva i lineamenti dell'organizzazione sociale che i Greci si diedero in un determinato momento della loro storia.
Significa credere che la poesia epica descriva, di quel momento, la cultura nel senso più ampio del termine: le credenze magiche e religiose, le regole etiche e sociali, la mentalità, i valori, la psicologia, il modo in cui venivano vissute le emozioni. Significa, in altre parole, credere che Omero trasmetta nella sua globalità la memoria del patrimonio culturale di un popolo. 3 In questa prospettiva, dunque, la poesia epica è ben più importante di qualsiasi documento che, trasmettendo avvenimenti di indubbia storicità, ma individuati e selezionati, non fornisca la totalità di informazioni che i poemi omerici invece trasmettono. E oggi si può ben dire che attorno a una storicità così intesa dei poemi si sia creato un notevole consenso. Non sono molti, ormai, quelli che escludono che Omero possa essere considerato un documento storico perché, essendo poeta, evoca eventi proiettati in un passato così irreale che, come scrisse Marrou, in esso "persino le bestie parlano" (il riferimento, va da sé, è al celebre passo dell'Iliade in cui i cavalli di Achille a testa reclina, le criniere che toccano terra-piangono, "angosciati nel cuore", la morte di Patroclo; Il., 23, 283-284). Molti sono i fattori che hanno contribuito a determinare questo cambiamento di prospettiva, troppi perché sia possibile ricordarli tutti: ma quantomeno su uno di essi qualche parola va spesa. Alludo agli studi che negli ultimi decenni hanno messo in luce le caratteristiche e il ruolo della poesia nelle civiltà orali.
2. Poesia e comunicazione: la trasmissione della cultura nelle società orali.
Vengono definite "orali", come è ben noto (e talvolta "preletterate": ma come vedremo possono avere aspetti di oralità anche culture postletterate), quelle civiltà in cui la scrittura non esiste; o in cui, pur esistendo, non svolge la funzione di strumento di trasmissione della cultura, che rimane affidato alla parola parlata. 4 E tale fu la Grecia, appunto, per alcuni, importanti secoli della sua storia. Più precisamente, durante i lunghi secoli nei quali generazioni di poeti, detti aedi o rapsodi, percorsero la Grecia, 5 intrattenendo il loro uditorio con storie di dèi e di eroi, di mostri, di maghe, di ninfe e di guerre, e al termine di queste di lunghi, infiniti ritorni (nostoi): come quello di Ulisse, appunto, costretto a vagare sui mari per dieci anni, prima di rivedere la sua "petrosa Itaca". 6 Nel far questo, nel raccontare queste storie, questi poeti non si limitavano a intrattenere i loro ascoltatori. Essi trasmettevano di generazione in generazione l'insieme di un patrimonio culturale che il pubblico, ascoltando, imparava a custodire e rispettare.
Ascoltando i poeti, si imparava quali fossero i valori ai quali bisognava credere e ai quali bisognava ispirare le proprie azioni; quali fossero i modelli fisici ed etici del successo che si doveva perseguire; quali i personaggi da ammirare, su cui modellare le proprie aspirazioni, e quali invece i personaggi da disprezzare e deridere. Un discorso importante, quello sul ruolo della poesia nelle società orali, che vale non solo per le società che sono o sono state interamente tali, come la Grecia omerica, ma anche per quelle che hanno usato o usano la scrittura solo eccezionalmente o solo in parte: come accadeva nella società micenea, ad esempio, ove, come vedremo, la scrittura serviva solo a registrare operazioni contabili o amministrative. O come accadeva nell'Europa del primo Medioevo, quando monaci e chierici scrivevano in latino le loro cronache, riservate a una minoranza di persone colte, mentre i cantori epici (giullari), diffondevano parallelamente, tra la massa illetterata della popolazione ma anche tra la nobiltà una cultura orale, alla quale, appunto, era affidato il compito di trasmettere i valori fondamentali della società. E come gli aedi e i rapsodi, anche i giullari trasmettevano questi valori raccontando gesta eroiche. Nella Francia meridionale, più specificamente, i cantori epici, usando una lingua parlata che nei paesi di antica tradizione romana si stava poco a poco sviluppando dall'incontro del latino con le lingue germaniche, intrattenevano il loro uditorio raccontando le storie di Roland per noi Orlando morto in uno scontro avvenuto il 15 agosto 778, quando la retroguardia dell'esercito di Carlo Magno era stata sorpresa da una banda di saraceni. 7 Poco alla volta, nei racconti che i giullari facevano di piazza in piazza e di castello in castello, il modestissimo scontro era diventato una guerra, e Roland era diventato quello che Achille era stato per i Greci, l'eroe per eccellenza. Nella versione medievale, un uomo non solo coraggioso, ma leale al suo signore sino alla morte, difensore eroico della fede contro gli "infedeli" musulmani; al quale si contrapponeva, come antieroe, il perfido Gano di Maganza, traditore del suo signore e della sua fede. 8 Il modello e la sua antitesi, dunque: come era accaduto in Grecia per Achille, Agamennone, Aiace, Ulisse e altri (in campo troiano, per Ettore), ai quali erano contrapposti Tersite, il popolano rozzo e codardo, e Paride, il nobile bellimbusto troiano; o come era accaduto, sempre in Grecia per passare ai modelli femminili per la virtuosa Penelope da una parte, dall'altra parte per Clitennestra, l'adultera assassina. Discorso complesso e delicato, insomma, quello del rapporto tra poesia e trasmissione culturale. E tutt'altro che privo di rilevanza attuale: con le dovute cautele, esso potrebbe essere esteso al mondo odierno, e al mezzo di comunicazione che può per diversi aspetti essere considerato l'equivalente della poesia epica, vale a dire vi abbiamo già accennato la televisione. In un mondo che per molti aspetti torna ad avere alcune caratteristiche di una "civiltà orale" (ne vedremo le ragioni quando parleremo delle "culture di vergogna") la televisione svolge il ruolo di intrattenimento e di trasmissione culturale che per secoli, in Grecia, venne svolto da aedi e rapsodi. I cantori epici, insomma, erano i "mezzi di comunicazione di massa" del tempo. Con una differenza, peraltro non da poco: per quanto potenti, i mezzi di comunicazione di massa odierni subiscono la concorrenza di quelli scritti e di un sistema educativo basato sulla scrittura. La poesia cantata dei Greci, invece, era (o quantomeno fu per secoli) il mezzo esclusivo della comunicazione e della acculturazione. Con le conseguenze che di seguito vedremo.
Omero "educatore dell'Ellade".
In una civiltà orale, la poesia ha caratteristiche completamente diverse da quelle che ha in una civiltà "della scrittura". In primo luogo, una poesia che, come dice Platone, 9 è fatta per l'udito deve conquistare e trattenere l'attenzione dell'uditorio con una serie di espedienti, quali ad esempio il ricorso alla figurazione paratattica anziché a quella ipotattica. 10 Per consentire allo spettatore di entrare come protagonista nella sua rappresentazione, il poeta deve dar vita a uno spettacolo di carattere mimetico-mimico: per rappresentare efficacemente gli stati d'animo, ad esempio, egli usa descriverli come rapporto fra il dio e l'eroe o fra l'eroe e i suoi organi. 11 Ma quel che a noi interessa ancor di più, forse, è il discorso sopra accennato della funzione sociale dell'epos, che come abbiamo ricordato non è solo ricreativa. La prima funzione dell'epos è quella di trasmissione della cultura. Secondo qualcuno, che spinge all'estremo e forse oltre i limiti del possibile queste considerazioni, a livello addirittura istituzionale. 12 Penso, in questo momento, alla celebre teoria avanzata negli anni sessanta da Eric A. Havelock. 13 Perché mai, si chiese Havelock, Platone, nella Repubblica, condannò la poesia in generale, e in particolare Omero? Perché la Repubblica era un attacco al sistema educativo greco: la condanna dei poeti, dunque, si spiega in questa chiave, vale a dire si spiega considerando il ruolo fondamentale che essi avevano in quel sistema. "Quando tu incontri gente che loda Omero e sostiene che questo poeta ha educato l'Ellade e che merita di essere preso e studiato per amministrare ed educare il mondo umano, e che secondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta la propria vita," 14 scrive Platone, cosa puoi aspettarti da queste persone? Che là dove governeranno, regneranno le emozioni, il piacere e il dolore; non la ragione e la legge. 15 In effetti, per Platone, erano i filosofi coloro ai quali doveva essere affidato il compito di educare la città.
Non i poeti, il cui ruolo pedagogico andava per questa ragione non per altre violentemente contestato. Sul punto Havelock ha certamente ragione. Partendo da queste considerazioni, egli giunge tuttavia a prospettare una tesi che a molti è sembrata eccessiva. Omero, dice Havelock, era un mezzo di educazione "istituzionale", che non si limitava a trasmettere valori e regole generali di comportamento. Accanto a questi, trasmetteva un intero patrimonio di informazioni tecniche, che andavano dalla descrizione delle regole per l'arrivo e la partenza delle navi in porto a quelle per la costruzione di una zattera; dalle prescrizioni per la celebrazione dei riti nuziali alle formule dei giuramenti; dalle norme per compiere i sacrifici alla divinità a quelle per l'amministrazione della giustizia. 16 Due esempi, fra i tanti possibili: la descrizione della zattera costruita da Ulisse per lasciare l'isola di Calipso, che occupa circa trenta versi (Od., 5, 233-261), e quella del sacrificio offerto da Nestore ad Atena, che ne occupa trenta esatti (Od., 3, 417-446). Nel primo caso, viene giustamente fatta osservare la precisione delle indicazioni sul tipo di legname da scegliere, sul modo in cui tagliarlo e legarlo insieme, su come coprire l'imbarcazione, e via dicendo; nel secondo, colpisce la minuzia dei dettagli sul modo di scegliere gli animali per il sacrificio, sul modo di prepararli, sulle modalità dell'esecuzione. In questa prospettiva, in effetti, acquista un significato del tutto particolare la celebre affermazione di Aristofane secondo cui Omero avrebbe conseguito onori e fama dall'"aver insegnato cose utili, come lo schierarsi in campo, il valore guerresco e l'armamento degli eroi".
17 Ma per considerare Omero un testo pedagogico di fondamentale importanza non c'è bisogno di accettare questa tesi estrema. In ogni caso, una civiltà che ignora i documenti scritti non può educare, non può infondere il senso dell'identità collettiva e la percezione dell'appartenenza se non attraverso la poesia. E di una simile civiltà, la poesia è, senza rivali, fonte preziosissima di conoscenza. Quel che sappiamo della Grecia omerica ci viene da Omero (oltre ovviamente che dai resti archeologici). Alla luce di tutto questo, possiamo ben ricordare quanto scriveva Giovanbattista Vico: Omero è il "primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità". 18
Ma nulla riesce a indicare il valore storico dei poemi meglio di alcuni versi di Hòlderlin, poco importa se scritti in altro contesto e con altro significato: was bleibet aber, stiften die Dichter,
"ma quel che resta, è dono dei poeti". 19.
Belli e vincenti. L'etica del successo e le qualità per raggiungerlo: forza, parola e bellezza.
Era attraverso la poesia, dunque, che i Greci venivano educati a quei valori che secondo Werner Jaeger si possono riassumere, essenzialmente, nel concetto di areté. 20 Era la poesia che insegnava e ribadiva incessantemente quali erano le qualità che facevano di un uomo un agathos, un uomo forte e nobile, e insegnava a disprezzare chi non aveva queste qualità. Era la poesia che incitava ad "essere tra gli altri il migliore e il più bravo", secondo l'insegnamento dato da Peleo al figlio Achille, prima della partenza per Troia (Il., 11, 784) e dal re dei Lici Ippoloco al figlio Glauco (Il., 11, 628). 21 Ma cosa voleva dire, esattamente, essere "il migliore e più bravo"? In quale orizzonte culturale si iscrivevano queste virtù? In quale contesto sociale?
Ovviamente, il mondo omerico era profondamente diverso da quello odierno. Era un mondo in cui valori come collaborazione, pietà e giustizia non avevano ancora fatto la loro comparsa. Le virtù necessarie per godere della considerazione sociale erano virtù per vincere, virtù per sopraffare. 22 Non vi è personaggio che non si vanti, in primo luogo, di essere fisicamente forte. Agamennone in primo luogo, 23 che gloriandosi della sua forza rispecchia il modello del re degli dèi. È sul piano della forza, infatti, che Zeus, quando sospetta che la sua posizione venga messa in discussione, sfida gli altri dèi a contrastarlo: Ma su, provate, o numi, e così tutti vedrete: una catena d'oro facendo pendere giù dal cielo, attaccatevi tutti, o dèi, e voi, o dee, tutte: non potrete tirare dal cielo sulla terra Zeus signore supremo, neppure molto sudando; tanto al disopra dei numi, al disopra degli uomini io sono. (Il., 8, 18-27) 24 La forza fisica (bie), insomma, era la prima virtù dell'agathos: era alla forza che questi doveva, in definitiva, il suo onore (time), e di conseguenza il suo status sociale. Ma la forza non bastava: accanto a questa egli doveva possedere il coraggio, e non temere la morte. La sola cosa di cui doveva avere paura era la morte senza onore, lontano dal campo di battaglia: e l'epos ripete all'infinito questo insegnamento, non solo a chi in guerra deve cadere, ma anche alle donne, che dovranno piangere solo i caduti senza gloria. Penelope assurta a imperituro e angosciante modello di virtù femminile quando si tormenta pensando che il figlio Telemaco potrebbe essere ucciso dagli spietati pretendenti alla sua mano, non si rammarica, come farebbe una madre moderna, di perderlo per sempre, di vederne stroncata la giovane vita. Quel che Penelope teme è che Telemaco muoia "senza fama" prima di compiere gesta per cui i posteri possano ricordarlo come un eroe (Od., 4, 728). Forza fisica e coraggio, dunque. Ma non solo. L'agathos non doveva affermarsi solo in guerra, ma anche nella vita civica: egli doveva saper convincere i concittadini, far accettare le sue proposte, imporre le sue opinioni. Di conseguenza, doveva possedere un'ulteriore virtù: la parola. Doveva essere "buon parlatore". 25 A Ulisse, che non a caso è il migliore fra tutti i mortali "per consiglio e parola" (Od., 13, 297-298), Eurialo ricorda, nella terra dei Feaci, che quando un dio "incorona di bellezza" le parole di un uomo ... tutti lo guardano affascinati: egli parla sicuro, con garbo soave; brilla nelle adunanze, e quando gira per la città, come un dio lo contemplano. (Od., 8, 170-173) 26. E per finire, chi è agathos è inevitabilmente bello. Secondo un modello che resterà nel mondo greco, la bellezza era legata al valore, nel binomio inscindibile del kalos kagathos (bello e valoroso). E come l'eroe era bello, così il vile era brutto, disgustoso a vedersi, anche fisicamente ridicolo. Come Tersite, che era ... l'uomo più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso e zoppo d'un piede, le spalle eran torte, curve e rientranti nel petto; il cranio aguzzo in cima, e rado il pelo fioriva. Era odiosissimo ... (Il., 2, 216-220) 27. Ma attenzione, forza e bellezza non dovevano separarsi: la bellezza doveva essere il volto del valore. Donde l'inutilità della bellezza di Paride: gli Achei, dice Ettore parlando del fratello, bello ma imbelle, "credevan che fosse gagliardo il capo, perché bellezza è nell'aspetto, ma forza in cuore non c'è, non valore" (Il., 3, 44-45). Non accompagnata dal valore, la bellezza di Paride diventa un demerito. Egli non è altro che un
"bellimbusto, donnaiuolo, seduttore". Così, più volte, lo apostrofa Ettore (Il., 3, 39): tanto più spregevole, quanto più, essendo bello, induce in errore, facendo credere di essere un eroe. È la sua bellezza ingannevole che ha sedotto Elena, che l'ha indotta a lasciare patria e famiglia per seguirlo a Troia. Queste, dunque, le qualità culturalmente valutate e socialmente premiate nel mondo omerico: la capacità di imporsi con la forza fisica, con il coraggio, con la parola.
Capacità che consentivano, a chi le possedeva, di comportarsi secondo i canoni eroici. E i canoni eroici imponevano, in primo luogo, di non tollerare le offese. La vendetta: l'atto che da la gloria e che "da gioia al cuore". Nelle culture allo stato tribale, a ogni atto offensivo si risponde con una vendetta. Là dove, in assenza di un potere sovraordinato, l'equilibrio sociale è basato sull'equilibrio fra gruppi, la vendetta è una necessità alla quale non si sfugge. Pensiamo al comportamento offensivo più grave, l'omicidio. La vendetta consente in primo luogo di ristabilire un equilibrio numerico, che l'omicidio ha alterato. Nel diritto assiro, ad esempio, una regola stabiliva che se un uomo percuoteva una donna incinta provocandone l'aborto, il marito di questa donna poteva provocare l'aborto della moglie incinta dell'aggressore. 28 Per passare ad altre zone e altre epoche: sino a tempi recenti presso i beduini del Sinai vigeva la regola secondo cui la moglie, la figlia o la sorella dell'assassino erano costrette a sposare il parente più stretto del defunto, per procreargli un figlio che sostituisse il morto. 29 E in Grecia? Che un'esigenza di questo tipo stesse alla base della vendetta anche in Grecia non è certo da escludere. Forse, una traccia di questa funzione numericamente compensativa potrebbe essere letta nella descrizione omerica della guerra come serie di vendette tra i combattenti nelle opposte schiere. Per ogni commilitone ucciso, un soldato greco deve uccidere un troiano (e viceversa). In Omero, comunque, la situazione è già più "evoluta". La cultura eroica ha rivestito di motivazioni etiche le necessità materiali, inserendo la vendetta nell'ottica dell'onore. Ogni oltraggio subito diminuisce la time, lede la considerazione sociale della vittima e del suo gruppo. Solo facendo vendetta chi ha subito un torto dimostra di essere più forte e più valoroso dell'offensore. E l'epica non si stanca di incitare alla vendetta, insistendo senza sosta su questa prospettiva. Nel terzo canto dell'Odissea Telemaco è a Pilo, alla corte di Nestore. Al racconto dei soprusi dei pretendenti di Penelope, Nestore lo esorta a non subire le loro prepotenze.
Pensa a Oreste, gli dice, non dimenticare Oreste, che uccidendo Egisto vendicò l'assassinio di suo padre Agamennone. Non essere da meno, "sii forte, che ci sia chi ti lodi ancora tra i tardi nipoti" (Od., 3, 200). Un'esortazione, del resto, che Telemaco aveva già ricevuto da Atena: Non senti che gloria s'è fatta Oreste divino fra gli uomini tutti, uccidendo l'assassino del padre, Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise? (Od., 1 298-300) Così gli aveva detto la dea: solo uccidendo i pretendenti della madre, che dilapidavano i suoi beni e offendevano il suo onore, Telemaco avrebbe meritato la gloria. E per converso, chi non era in grado di vendicarsi, chi non sentiva il dovere di farlo, era un vigliacco. Come Paride, di cui abbiamo già parlato: quando Paride, alla prova della guerra, si rivela pavido, timoroso, non motivato a combattere, Elena rimpiange, sconsolata, di non avere accanto a sé un uomo diverso, "sensibile alla vendetta, ai molti affronti degli uomini" (Il., 6, 351-353). Questo è quello che una donna vuole dal suo uomo: chi non sa vendicarsi, non è degno di essere amato. Ma le ragioni che spingono a vendicarsi non si iscrivono solo nell'ottica dell'onore. La vendetta ha anche una funzione di tipo psicologico, essa allevia il dolore della vittima e degli appartenenti al suo gruppo. Quando un personaggio compie una vendetta, accade spesso che dichiari esplicitamente di averlo fatto per consolare il defunto e "dargli gioia in cuore". Questo è quel che dice Deifobo, ad esempio, nel momento in cui uccide un soldato acheo: Asio, uno dei suoi commilitoni, è stato ucciso.
Deifobo, nell'ottica della guerra come sequela di vendette, deve colpire un nemico. E nel mettere a segno un colpo mortale pensa che ... Asio non è più invendicato, ma [...] andando giù nella casa d'Ade il forte, dalle porte serrate, ha gioia in cuore, perché gli ho dato un compagno.
(Il., 13, 414-416) La stessa cosa pensa Automedonte, dopo aver ucciso Areto, nel corso della battaglia che infuria attorno al cadavere di Patroclo: Certo che un poco almeno del Meneziade morto ho sollevato il cuore, anche uccidendo un dappoco. (Il., 17, 538-539) In questo caso, la vendetta non è compiuta sino in fondo. Il troiano ucciso non aveva time pari a quella di Patroclo: ma Patroclo può trovare "un poco almeno" sollievo al suo dolore. Se è vero infatti che, una volta giunta nell'Ade, la sua psyche, vale a dire la sua anima (nel senso che specificheremo, quando parleremo della visita di Ulisse nel regno dei morti), non proverà più né dolore né gioia, è anche vero che, nel momento in cui lascia il corpo, essa soffre "piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore" (Il., 16, 855-857). E mentre allevia il dolore della vittima, la vendetta lenisce quello dei suoi parenti, dei suoi amici, degli appartenenti al suo gruppo: gioiscono "il cuore e l'animo altero" di Menelao, ad esempio, quando pensa che Oreste possa aver vendicato la morte di Agamennone (Od., 4, 548). Il figlio del troiano Tantoo e di sua moglie Frontide rimpiange di non poter uccidere Menelao, che ha ucciso suo fratello.
Se potessi farlo, egli pensa, ... sollievo dal pianto io sarei agli infelici se la tua testa e l'armi potessi portare e mettere in mano a Pantoo, alla divina Frontide. (Il., 17, 38-40). L'esibizione della testa dell'uccisore (che a volte, infissa su un palo, viene esposta pubblicamente, e non solo mostrata ai parenti della vittima) ha dunque anch'essa una funzione sia sociale sia psicologica: prova della vendetta e prezzo del dolore. 30 Due funzioni, a ben vedere, interdipendenti tra loro: a lenire il dolore contribuisce anche sapere che l'equilibrio sociale è stato ristabilito.
Antropologia dell'eroe.
Non è difficile, alla luce di quanto sin qui visto, capire perché fiumi di inchiostro, letteralmente, sono stati versati sugli eroi omerici, e sulle loro caratteristiche che, come è evidente, non è affatto detto corrispondano a quelle di altri eroi, non meno degni di questo nome. Achille, per limitarci a un esempio, ha ben poco in comune con Giovanna d'Arco, Robin Hood o Re Artù. Un tempo, il modello dell'eroe tendeva a essere transculturale, immutabile, insensibile al corso della storia. Così erano, tipicamente, i famosissimi "Eroi" di Thomas Carlyle. Oggi, è dato acquisito che il modello eroico cambi nel tempo e nella varietà delle culture, così come si sente dire l'atteggiamento della società nei confronti dell'eroismo. Nel mondo antico, al nome dell'eroe erano legati, nel mito, gli atti di fondazione delle città, a lui erano dedicate epopee e canzoni, al suo comportamento dovevano ispirarsi i cittadini, se volevano meritare stima e onori. Nel mondo moderno, in particolare in quello attuale, l'ideale eroico sembra invece aver perso il fascino e la funzione di un tempo. Usando un termine alla moda (e come tale fortunatamente destinato a un rapido tramonto) si è detto che l'ideale eroico è stato "decostruito". 31 Del che, sinceramente, pare lecito dubitare. L'ideale eroico, piuttosto, sembra essere stato dislocato, a seguito e come inevitabile conseguenza di un radicale mutamento di valori. Ma lasciamo l'analisi dell'eroismo odierno a chi ha competenza in materia: sociologi, critici letterari, filosofi. Veniamo ai nostri eroi, quelli omerici. Diversi, diversissimi, a loro volta, non solo da quelli moderni, ma anche da quelli Greci classici: Leonida, per fare un esempio, il generale che nel 480 a. C, con i suoi trecento soldati spartani, riuscì a bloccare per tre giorni l'immane esercito dei Persiani al passo delle Termopili; e infine, accerchiato, rifiutò di arrendersi, sacrificando la vita e conquistando a sé e ai suoi un posto nella leggenda. 32 L'eroe classico come Leonida, appunto sacrifica la vita per la patria, muore per il bene comune, pone l'interesse della propria città (o dell'intero mondo greco, nel caso di Leonida) al di sopra del suo interesse personale, dei suoi affetti, della vita stessa. Cosa, questa, che l'eroe omerico non si sarebbe mai sognato di fare: per lui, quel che contava era l'interesse proprio, specifico, privato, non di rado brutalmente egoista. Se non credo sia giusto dire come è stato detto che l'eroe omerico era essenzialmente asociale, 33 è certamente vero che, fondamentalmente, egli accettava di morire per la Grecia, in quanto, così facendo, "gloria di lui sarebbe giunta ai tardi nipoti". L'eroe omerico, in definitiva, moriva per se stesso, perché il proprio nome non fosse dimenticato. Prescindiamo pure da Achille, esponente di un modello eroico estremo, nel proprio solipsismo e nel proprio totale isolamento. 34 Alla base delle azioni di tutti gli eroi, da Agamennone ad Aiace a Ulisse (al di là delle peculiarità del carattere di questi, su cui torneremo), alla base delle loro reazioni, delle loro ire, dei loro dolori stanno motivazioni che oggi definiremmo meschine, e che in ultima analisi si risolvono nel desiderio di soddisfare un amor proprio narcisisticamente coltivato e quasi idolatrato. Scriveva a questo proposito Giovanbattista Vico, nel III libro della Scienza Nuova dedicato a La discoverta del vero Omero, che i "costumi [degli eroi] rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi non possono essere che d'uomini per debolezza di mente quasi fanciulli, per robustezza di fantasie come di femmine, per bollori di passioni come di violentissimi giovani". 35 Ma è evidente ed è quasi superfluo dire, a questo punto, che, se inserito nel complesso della cultura di cui sono esponenti, il comportamento degli eroi omerici appare in una luce radicalmente diversa. Il loro carattere "rozzo, villano, feroce" (nelle parole di Vico) diventa una necessità. Chi non è forte, prepotente e talvolta arrogante è solamente un vigliacco. All'eroe non è consentita comprensione e pietà. Ma gli sono consentite le lacrime. Apriamo una parentesi: singolarmente, ai nostri occhi, gli eroi omerici piangono spesso e volentieri, si direbbe oggi come delle donne (anni fa non molti si sarebbe detto "come delle donnette").
Virilità e lacrime: per un'archeologia del pianto.
Giusto o sbagliato che sia, oggi, nel mondo occidentale si ritiene che piangere o quantomeno non nascondere le lacrime -sia comportamento tipicamente femminile. E che sia virile, invece, controllare le manifestazioni del dolore. 36 Sbagliava Benedetto Croce, quando scriveva che
"la diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini, l'amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo". 37 Se è vero che tutti piangono, è anche vero che il pianto ha una sua storia e una sua antropologia: ciascuno piange nei modi e nei momenti previsti dalla cultura cui appartiene. 38 E la cultura omerica non solo non vietava agli uomini di dare sfogo al dolore, ma imponeva loro di farlo in modo enfatico, esagerato, per non dire esibizionista. 39 Versando fiumi di lacrime, gli eroi omerici sono squassati dai singhiozzi, si strappano i capelli, si rotolano per terra. Achille, il più forte, è forse non a caso quello che manifesta il proprio dolore nel modo più plateale 40: ... ma Achille piangeva ricordando il suo amico, non lo vinceva il sonno che tutto doma, si rivoltava di qua e di là, rimpiangendo la forza di Patroclo e la nobile furia e quanti dolori aveva con lui dipanato e patito attraverso le guerre degli uomini e l'onde pericolose: questo pensando, lacrime grosse lasciava colare, ora steso sul fianco, altre volte supino, altre prono: e ogni tanto, levandosi s'aggirava errabondo lungo la spiaggia del mare ... (Il., 24, 3-12) 41. Piange Achille, piange a calde lacrime. E come lui gli altri eroi. Agamennone (non senza ragione, bisogna dire) piange "forte, nell'Ade, versando a fiotti le lacrime" nel raccontare a Ulisse la trama ordita per ucciderlo da sua moglie Clitennestra e dall'amante di lei Egisto (Od., 4, 522). Menelao non si da pace,"sino a che non è sazio di rotolarsi e di piangere" ascoltando il racconto della morte del fratello (Od. 4, 538-541).
Ulisse, trattenuto sull'isola Ogigia dalla ninfa Calipso, che avrebbe voluto fare di lui il suo sposo, pensando alla patria lontana "piangeva con gemiti, lacrime e pene straziandosi il cuore, e al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime" (Od. 5, 82-84, cfr. 8, 157-158).
Piangono molto, insomma, questi eroi. Non solo per vicende private e in privato: piangono in pubblico, davanti all'intera popolazione, nel corso delle riunioni dell'assemblea. 42
Agamennone si alza per parlare all'esercito panacheo ... versando pianto, come una fonte acqua bruna, che versa l'acqua scura da una rupe scoscesa. (Il., 9, 14-15) Piange a dirotto, il capo supremo degli Achei, creando qualche imbarazzo nei traduttori e nei commentatori. Nel tentativo di salvare l'onore eroico, nel 1715, Alexander Pope, traducendo l'Iliade, commentava che "non c'è debolezza negli eroi che piangono. [...] Le sue [nella specie, parla di Achille] sono lacrime di rabbia e di sdegno". 43 La virilità degli eroi è salva: la rabbia è indiscutibilmente virtù eroica. Non è forse la menis di Achille, non è forse la sua collera, appunto, la causa che, nella traduzione montiana, "infiniti addusse lutti agli Achei"? Achille, eroe tra gli eroi, è tale anche e forse soprattutto a causa della sua "ira funesta". Ma a volte gli eroi piangono anche per paura. Nell'Iliade, i più valorosi tra i giovani eroi, di fronte alla furia dell'attacco troiano
"stillavano lacrime sotto le ciglia: / non speravano più di fuggire il malanno"(Il., 13, 88-89). E
questo nulla toglie al loro valore. Il fatto è che le lacrime, nella poesia epica, non sono ancora appannaggio femminile. A Scheria, l'isola dei Feaci, Ulisse piange, ascoltando Demodoco che racconta la conquista di Troia "come donna, su lui gettandosi, piange lo sposo / che cadde davanti alla città" (Od., 8, 523524). 44 Il paragone con una donna, in altri casi intollerabilmente offensivo, in questo caso è accettabile. 45 Le lacrime diventeranno debolezza femminile solo più tardi, nel mondo delle poleis. Di questa dislocazione culturale del pianto, nessun esempio è più significativo, forse, del racconto platonico della morte di Socrate. Quando Socrate, nel Fedone, beve compostamente e serenamente la cicuta, i suoi discepoli, dopo aver disperatamente combattuto con se stessi, cedono alle lacrime. E il maestro li rimprovera: "Ho mandato via le donne proprio perché non si comportassero in questo modo". 46 30 31 Ma torniamo agli eroi omerici: le lacrime rientrano perfettamente nelle manifestazioni di un carattere violento, collerico, sregolato nelle manifestazioni di qualunque emozione. "Infantile e irresponsabile" nella definizione vichiana. Ma Vico stesso, dopo aver rilevato come le manifestazioni del carattere eroico appaiano tanto "sconvenevoli in questa nostra umana civil natura", osserva che essi erano "decorosissimi, in rapporto alla natura eroica de' puntigliosi".
47 Valutando in tutta la sua importanza il peso delle variabili culturali, egli anticipava di alcuni secoli i risultati dei moderni studi sulla "cultura omerica". 48 Nel mondo omerico, gli eroi non potevano essere che come ci vengono descritti.
Comunicazione e controllo sociale: il ruolo dell'opinione pubblica nella costruzione dell'identità.
La classificazione delle culture nei due tipi ideali detti rispettivamente shame e guilt culture divenne famosa, tra gli antropologi e gli psicologi sociali americani, quando Ruth Benedict, nel 1946, la utilizzò per spiegare le caratteristiche della società giapponese. 49 Ma il merito di averla diffusa tra i classicisti spetta incontestabilmente a Erich Dodds che, nel 1951, in un saggio ormai classico, la applicò al mondo greco. 50 Cosa gli antropologi e i sociologi intendessero e intendano con queste espressioni, è cosa ben nota. Essi definiscono shame culture o "cultura di vergogna", quella in cui l'adeguamento alle regole non è ottenuto attraverso l'imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento: e nella quale coloro che non si adeguano ai modelli incorrono nel biasimo sociale, e in una conseguente sensazione di "vergogna". Per guilt culture o "cultura di colpa", invece, intendono una società in cui i comportamenti vengono determinati attraverso l'imposizione di divieti, e in cui chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di angoscia, di colpa e di rimorso, approssimativamente espresso dal termine guilt.
Le culture di vergogna e quelle di colpa, dunque, hanno caratteristiche di fondo che le contrappongono e quasi le oppongono l'una all'altra, e rispondono a concezioni di vita, valori e aspetti psicologici e sociali collettivi non solo diversi, ma spesso addirittura antitetici. Ma attenzione: si tratta di modelli "ideali" di cultura. Nessuna società è totalmente "di vergogna" o totalmente "di colpa". A seconda dei casi, piuttosto, nelle diverse realtà prevalgono caratterizzandole gli elementi dell'una o quelli dell'altra. E anche se la contrapposizione dei due modelli è stata criticata (forse giustamente, per alcuni aspetti), questo non toglie che essa consenta di cogliere, nelle grandi linee, la differenza fondamentale che intercorre tra alcune culture in cui la reputazione è tutto, e altre, in cui prevalgono emozioni e valori come il pentimento e il perdono. 51 Con specifico riferimento al mondo greco, poi, la contrapposizione shame e guilt culture è lo strumento che ha consentito di comprendere e continua a illuminare alcune caratteristiche altrimenti oscure del mondo arcaico, e in particolare omerico.
Cominciamo con un esempio: gli eroi omerici, d'abitudine, attribuiscono la responsabilità delle loro azioni (sempre che si tratti di azioni riprovevoli) a forze esterne, quali la divinità o il fato (moira). Ebbene: a spiegare le ragioni di questo atteggiamento contribuisce, e non poco, la considerazione che, trasferendo su forze esterne e superiori la responsabilità di comportamenti inadeguati al modello eroico che essi condividono e al quale si ispirano gli eroi evitano la
"vergogna" che altrimenti li schiaccerebbe. Con una specie di transfert, insomma, eliminano la sanzione psichica, altrimenti inevitabile, che creerebbe loro problemi, se non insuperabili, quantomeno molto seri. 52 Ma la vergogna non consiste solo nella sensazione interna di inadeguatezza. Essa viene anche dall'esterno, è la riprovazione sociale, il biasimo della collettività, il disprezzo dell'opinione pubblica, espresso dalla "voce popolare" (demu phemis) che può offuscare l'immagine dell'individuo. Quell'immagine nella quale, in una cultura di vergogna, l'individuo identifica totalmente se stesso.
Immagine ed emozioni. Quel che conta è la fama: non "essere", ma "essere detti".
In Omero se appena vi si pone attenzione un uomo non "è" un eroe, "è detto" tale. Una donna non "è" virtuosa, "è detta" tale, così come "è detta" bella o fedele: "essere detti" equivale a essere. Quel che conta è la fama: le virtù, in sé, le azioni lodevoli, se sconosciute, non hanno importanza, si potrebbe dire che non hanno esistenza. Come scriverà Pindaro, sintetizzando un'etica che è anche e ancora la sua, "è una regola, per gli uomini, che un'impresa, quando è stata compiuta, non resti nascosta nel silenzio. Quel che le serve, è la melodia divina dei versi di lode" (Nemee, 9, 13-17). Quel che conta è che di una persona si parli, che le sue gesta siano note, le sue virtù riconosciute. In mancanza, ogni eroismo è inutile, la virtù non ha valore: semplicemente, non esiste. Se di Penelope non si dice che è fedele, a nulla le vale resistere ai proci. Se di Achille non si dice che è il più forte, egli non è tale. Il canto, dunque, è lo strumento potentissimo che, diffondendo la fama di chi è all'altezza dei modelli, getta al tempo stesso il discredito su chi non riesce ad adeguarvisi. E contemporaneamente ingenera in chi sa di venir riprovato dagli altri quel senso di vergogna che, come sappiamo, è la sanzione interna della sua inadeguatezza. Così come è la fabbrica della gloria, insomma, il canto è anche la fabbrica della vergogna, di quel duplice, terribile meccanismo sanzionatorio rivelato ed espresso da due parole chiave per la comprensione della psicologia omerica: aidos ed elencheie. Aidos è la sanzione interna, quella che fa vergognare di sé chi non è all'altezza delle sue e delle altrui aspettative; elencheie è la sanzione sociale, quella che, attraverso la "voce popolare" colpisce dall'esterno l'atto che, in chi lo ha compiuto, ha provocato aidos. 53 Agendo insieme, esse danno vita a un potentissimo, quasi invincibile meccanismo di coercizione psichica. 54 Ettore, ad esempio, ha un momento di cedimento, vorrebbe quasi abbandonare le armi, teme di non riuscire a condurre l'esercito alla vittoria. In questa situazione che cosa lo angoscia? La vergogna, nelle sue due vesti: Ora che ho rovinato l'esercito col mio folle errore, ho vergogna [aideomai] dei Teucri e delle Troiane lunghi pepli; non abbia a dire qualcuno più vile di me: "Ettore ha rovinato l'esercito, fidando nelle sue forze". (Il., 22, 104-107) Ettore sente aidos, e teme la riprovazione popolare, la demu phemis che riverserebbe elencheie su di lui (Il.
22, 100). Persino Achille, il più forte degli Achei, la teme. Egli non può cedere alla pretesa di Agamennone, non vuol dargli Briseide, la sua schiava di guerra, il suo dono (gheras): se lo facesse, potrebbe "essere detto" un uomo dappoco (deilos), un uomo senza valore: Davvero vigliacco e dappoco dovrei esser chiamato, se ti cedessi tutto, qualunque parola tu dica... . (Il., 1, 293-294) L'adeguamento alle regole del codice eroico è a tal punto garantito dal timore della duplice vergogna da non avere bisogno di costrizioni fisiche. Ma sarebbe sbagliato parlare, come a volte si fa, di adeguamento spontaneo. In un sistema come quello omerico la coazione psicologica e sociale è tale da lasciare ben poco spazio alla devianza. Non a caso il riferimento ad aidos e a elencheie, spesso congiunto, incita gli agathoi alla battaglia, ricordando a chi non mostrerà il dovuto coraggio il duplice livello della sanzione che colpirà la sua viltà. 55 E come la "vergogna", più forte della stessa paura della morte, impedisce all'eroe di fuggire in guerra, allo stesso modo, in ogni momento della vita, essa fa sì che l'uomo omerico si impegni con tutte le sue forze per raggiungere i suoi obiettivi. Ogni fallimento, in un mondo ispirato all'etica del successo, è sanzionato dalla "vergogna". Di nuovo, gli esempi abbondano: Eurimaco, che non è riuscito a tendere l'arco, sa che ne avrà elencheie, che anche i posteri sapranno (Od., 21, 255). Se Antimaco cadesse dal carro, nei giochi funebri per Patroclo, gli altri gioirebbero, ma egli subirebbe elencheie (Il., 23, 342). 56 Ma attenzione, "per l'uomo in bisogno non è buono aidos" (Od., 17, 347 e 352, cfr. anche 17, 578). La sanzione psichica colpisce solo chi è agathos: chi non è tale non sente e non deve sentire "vergogna". L'insegnamento non è certo privo di una funzione. Non sentendo vergogna l'epica gli insegna che non è tenuto a sentirla -
chi non è agathos non sarà mai spinto a emulare i più forti e a entrare nel numero di questi.
Insegnando l'aretè agli agathoi, l'epica è lo strumento del loro privilegio. E insegnando ai poveri che il mondo eroico non è il loro, né nelle cose, né nelle emozioni, è lo strumento della sottomissione dei derelitti. Specchio della società e strumento di perpetuazione dei valori, l'aedo, cantando nelle corti e nelle piazze, per i potenti e per gli umili, realizza così, fondendoli, il momento della diffusione dei valori eroici e quello del controllo, promuovendo il meccanismo psicologico e sociale che induceva all'osservanza delle regole. 57.
La punizione divina.
Nessuna società lo abbiamo detto è solo ed esclusivamente una "cultura di vergogna". Anche là dove il meccanismo della proposizione dei modelli domina sull'imposizione dei divieti, esistono sempre, con diversi livelli di diffusione, anche delle imposizioni negative. 58 E
dunque anche nella società omerica esistono divieti e minacce di punizioni, propagandate e diffuse, così come i modelli positivi, dalla poesia epica. Divieti e punizioni che, nella specie, sono collegati all'intervento divino. Gli dèi infatti, come è ovvio, non tollerano offese. E non a caso ritengono offensivi i comportamenti che mettono in discussione la loro superiorità. Le regole del rapporto uomo-dio rafforzano il principio base dei rapporti tra i mortali, ribadendo la necessità di rispettare l'altrui status sociale. Gli dèi dunque puniscono chi non offre i sacrifici e le eca 34 35 tombi che, come dice Zeus, sono il loro "premio" (gheras), il riconoscimento del loro onore (Il., 4, 48-49): così come per gli uomini è riconoscimento dell'onore l'attribuzione del gheras nel corso della distribuzione del bottino. Gli Achei non hanno sacrificato prima di erigere un muro? Gli dèi lo distruggono, scatenando le forze della natura.
Menelao non ha fatto ecatombi? Gli dèi lo trattengono in Egitto, impedendogli la via del ritorno. 59 Ovviamente offensivo e ugualmente punito è il comportamento di chi non rispetta i sacerdoti: le conseguenze dell'offesa fatta a Crise, sacerdote di Apollo, sono troppo note perché sia necessario soffermarvisi. Imperdonabile, inutile a dirsi, affrontare un dio in battaglia come fosse un uomo (Il., 5, 407-409; 6, 128-141), e più in generale pretendere di "aver mente pari agli dèi", dimenticando che "non è uguale la stirpe / dei numi eterni, e degli uomini, che camminano in terra" (Il., 5, 441442). Niobe osò "farsi uguale " a Latona: Apollo e Artemide, figli di quest'ultima, uccisero i suoi dodici figli (Il., 24, 605-609). Tamiri, l'aedo, si vantò di cantare meglio delle Muse: queste gli tolsero il canto (Il., 2, 594-600). Aiace disse "superba parola", sostenendo di essere sfuggito alle insidie del mare malgrado il volere divino, e di essere quindi più forte di Poseidone: il dio del mare, che lo aveva udito, ... afferrando il tridente con mano gagliarda colpì la rupe Ghirea e la spezzò in due. Una parte rimase al suo posto, l'altra cadde nel mare, quella su cui trovandosi Aiace fu tanto cieco, e lo travolse con sé nel mare ondoso, infinito. (Od., 4, 506-510) Infine, gli dèi puniscono, ovviamente, chi non rispetta il loro volere: come fecero i Feaci, ad esempio, quando trasportarono Ulisse a Itaca (Od., 13, 146-152 e 172-177). E puniscono chi non rispetta i giuramenti, fatti nel nome di Zeus. 60 Ma la punizione divina non cade solo su chi commette colpe che potremmo chiamare religiose: a volte, essa cade anche su chi infrange le regole sociali 61: Telemaco non osa costringere la madre a riprendere marito controvoglia perché, oltre alla "voce popolare", teme la reazione degli dèi (Od., 2, 134-137). Quando tenta di convincere gli Itacesi ad aiutarlo a liberarsi dei proci, senza peraltro riuscirvi, egli ricorda loro che, se non lo faranno, dovranno vergognarsi dei popoli vicini e temere lo sdegno degli dèi (Od., 2, 64-79). La credenza nella punizione divina, insomma, ha una evidente funzione deterrente che, sommandosi a quella
"promozionale" della proposizione dei modelli (sia pur con un ruolo minore rispetto a questa), contribuisce a mantenere la devianza entro limiti che garantiscono al complesso normativo un grado di accettazione, che determina la sua effettività.
3. Itaca: quando?.
Il problema non è da poco. Abbiamo cercato, sin qui, di descrivere la società omerica: una società fantastica, nella quale agiscono personaggi immaginari, che tuttavia riflette e rappresenta il modello sociale delle organizzazioni realmente esistite in Grecia, in un momento come abbiamo detto che non può essere successivo all'VIII secolo. E ora specifichiamo: in un momento a cavallo tra il X e l'VIII secolo a. C. Ma per capire le ragioni di questa datazione bisogna raccontare una lunga storia.
La scoperta della civiltà micenea.
Fino a circa la metà del secolo appena terminato non esisteva alcun dubbio: le origini della civiltà greca andavano cercate a partire dal momento in cui, attorno al 1000, i Dori, la popolazione giunta dal nord, si era stanziata in terra greca. Ma oggi sappiamo con certezza che, prima di quella data, era già fiorita e tramontata un'altra civiltà greca: quella tradizionalmente chiamata, dal suo centro maggiore, civiltà micenea, e negli ultimi anni, forse più correttamente, civiltà "achea" (dal termine con il quale i poemi omerici chiamano abitualmente i Greci).
L'avventurosa storia della scoperta della civiltà, che seguendo la tradizione continueremo a chiamare micenea, prende le mosse dalle avventure, notissime, di Heinrich Schliemann, il mercante tedesco che scoprì le rovine di Troia. Schliemann era, se mai ve ne fu uno, un autodidatta e un dilettante. Aveva imparato il greco da solo, a cinquant'anni, leggendo Omero, e si era convinto che i poemi non potevano aver raccontato delle favole: la guerra di Troia era esistita, e doveva avere lasciato delle tracce. Nel 1870, quando si mise alla ricerca della città distrutta dagli Achei nella località di Hissarlik, nel nord dell'Anatolia, l'intero mondo dell'antichistica sorrise: ma Schliemann, Omero alla mano, individuò il luogo della città di Priamo. Anche se, in realtà, l'installazione da lui individuata era molto più antica di quella omerica, egli aveva dato inizio a una ricerca che avrebbe portato alla luce ben nove successive installazioni, rivelando che, in effetti, in quel luogo era esistita, era stata più volte distrutta e ricostruita, una grande città. E gli scavi condotti dopo la sua morte rivelarono che la città omerica era quella attualmente indicata dagli archeologi come Troia VII A. 62 Confortato dall'incredibile successo, nel 1874 Schliemann iniziò gli scavi a Micene, la capitale del regno di Agamennone, e nel 1876 trovò il famoso cerchio di tombe nel quale, tra gli altri tesori, stava una maschera funeraria in oro (ora conservata al Museo Nazionale di Atene), che senza alcuna esitazione identificò come quella di Agamennone: e al re di Grecia, quindi, inviò un celebre telegramma in cui comunicava di aver visto il volto del re di Micene. Di nuovo, gli antichisti sorrisero: ma anche se sarebbe stata ridimensionata dai critici (e anche se egli stesso la ridimensionò), 63 la fede di Schliemann in Omero aveva dato i suoi frutti. E altri ne avrebbe dati negli anni a venire. Dopo aver visto i ritrovamenti di Schliemann a "Micene la ricca d'oro", come giustamente la chiamava Omero, Arthur Evans (il secondo tra gli studiosi la cui vicenda segnò una tappa fondamentale nella scoperta della civiltà greco-micenea) si convinse che una società che produceva simili gioielli e nella quale, quindi, esisteva una ben precisa e altissima specializzazione del lavoro doveva necessariamente conoscere la scrittura. E nonostante a Micene non fosse stata trovata traccia alcuna di scritture scomparse, con fede non inferiore a quella che aveva mosso Schliemann, Evans partì per Creta: tra le gemme raccolte nelle botteghe d'antiquario di Atene, infatti, ne aveva rinvenute alcune incise, che a suo giudizio provenivano dall'isola. E ivi recatosi, insieme a John Myres, ritrovò subito le stesse gemme, che le donne locali portavano per favorire l'allattamento, e che venivano dette "pietre del latte".
Ma Creta allora si trovava sotto il dominio turco. Per dare inizio agli scavi Evans dovette attendere la liberazione dell'isola, nel 1900, anno in cui iniziò le ricerche a Cnosso, trovando immediatamente, dopo solo una settimana, il giorno 30 marzo, delle tavolette d'argilla sulle quali era incisa una scrittura sconosciuta. 64 E ulteriori scoperte mostrarono che sull'isola erano stati usati tre diversi tipi di scrittura. Il primo tipo, risalente al periodo più antico (all'incirca tra il 2000 e il 1600 a. C), venne chiamato da Evans "geroglifico cretese". Il secondo, la cui comparsa è collocabile attorno al 1750, venne rinvenuto su tavolette provenienti in gran parte da Hagia Triada, vicino a Festo, e venne identificato, sempre da Evans, come
"lineare A": esso è caratterizzato dal fatto che i segni pittografici a quanto pare, una semplificazione dei "geroglifici cretesi" sono ridotti a semplici contorni. Il terzo tipo infine trovato dapprima a Creta sulle tavolette di Cnosso e successivamente nella Grecia peninsulare, in particolare a Pilo appare come una ulteriore evoluzione della "lineare A". 65 Esso fece la sua apparizione in un'epoca sulla quale ancora si discute, e scomparve con la fine della civiltà micenea. Questo terzo tipo di scrittura, di tipo sillabico, venne chiamato "lineare B". 66 Ma invano Evans tentò di decifrare queste scritture. Nel 1941, quando morì all'età di novant'anni, era riuscito a scoprire solo il sistema metrico decimale. Eppure, sarebbe stato per il suo tramite, in qualche modo, che di lì a circa un decennio l'enigma della lineare B sarebbe stato risolto.
La decifrazione della scrittura "lineare B".
Nel 1936, Evans aveva illustrato le sue scoperte a un pubblico, tra il quale sedeva, attentissimo, un quattordicenne inglese, Michael Ventris. Affascinato dal racconto di Evans, il ragazzo decise che, un giorno, avrebbe decifrato la scrittura misteriosa. E sedici anni dopo, a soli trent'anni e solo quattro anni prima di perdere la vita in un incidente d'auto quel ragazzo annunciò al mondo che la "lineare B" nascondeva una lingua greca. Tra le parole già decifrate ne indicò quattro, chiaramente greche: poimen (pastore), kerameus (ceramista), khalkeus (lavoratore del bronzo) e khrusoworgos (orefice). I signori di Cnosso, Pilo, Tirinto e Micene dunque erano Greci: la civiltà che si era sostituita alla civiltà minoica, prendendo a prestito la scrittura di questa per adattarla alla propria lingua, era civiltà greca. E, come sappiamo, dal suo maggior centro politico venne chiamata "civiltà micenea". L'inizio della storia greca andava spostato indietro di alcuni secoli. Ma a quale periodo risalivano, esattamente, le tavolette scritte in "lineare B"? Sulla base della stratigrafia di Evans, sembrava si dovesse concludere che i Greci avevano dominato Creta nel XV secolo a. C. (più precisamente tra il 1450 e il 1400). Ma Leonard R. Palmer, rivedendo gli appunti di scavo, mosse a Evans una clamorosa accusa di falso: le tavolette, egli disse, erano state trovate a un livello di venti metri superiore a quello indicato da Evans, come chiaramente segnalava il giornale di scavo dell'assistente di questi, Duncan Mackenzie. 67 Esse andavano dunque datate all'incirca al 1250-1200 a. C. Una data, peraltro, a sua volta successivamente contestata, e alla quale si è preferita quella proposta dall'inglese Popham, vale a dire il periodo tra il 1370 e il 1340. 68 Ma oltre alla datazione, restano altri punti oscuri. Attorno al 1200 (si parla, più precisamente, del 1230) anche i maggiori centri micenei continentali furono distrutti. Quale fu la causa di questa catastrofe?
Cnosso, secondo l'ipotesi più credibile, era stata distrutta da una spedizione proveniente dal continente (Micene, Tebe, Tirinto e Pilo). 69 Senonché, a questo punto, qualcuno distrusse i palazzi degli invasori. Chi? Secondo la tesi tradizionale, i Dori. Ma attualmente si tende a pensare che forse, nel momento in cui questa popolazione di Greci del nord-ovest giunse al sud, i palazzi micenei erano già stati distrutti. 70 Di nuovo, da chi? Le ipotesi sono molte, le polemiche altrettante. Nel XIII secolo, sostiene ad esempio Carpenter, una terribile carestia colpì il Mediterraneo, e gli abitanti delle città e dei villaggi micenei, per sopravvivere, furono costretti a lasciare le loro terre. Ma prima di allontanarsi, la popolazione prese d'assalto per fame e incendiò i Palazzi, nei quali si trovavano i magazzini con le provviste alimentari. 71 La civiltà micenea, dunque, non sarebbe stata distrutta dalla calata dei Dori. Quando questi sarebbero scesi al sud, insieme ai Micenei che al termine della carestia tornavano in patria, la fine del mondo miceneo era già stata segnata dalla diaspora. Ma dimentichiamo le polemiche, che peraltro non accennano a spegnersi. Cerchiamo piuttosto di tratteggiare i contorni della società micenea, che nel corso di ormai mezzo secolo la lettura delle tavolette in lineare B ha consentito di delineare. Un quadro che, ovviamente, resta aperto a continui aggiornamenti, a precisazioni e non di rado a correzioni: ma che, tuttavia, ha ormai assunto contorni ben definiti, che consentono una ricostruzione abbastanza chiara quantomeno nelle grandi linee dell'organizzazione politica, militare, economica e sociale dei diversi regni.
Il mondo miceneo: struttura politica, organizzazione economica e sociale.
I regni micenei erano retti da un sovrano assoluto chiamato wanax. Accanto al wanax stava un lawagetas, capo del lawos, vale a dire dell'aristocrazia combattente, che, nella gerarchia sociale, sembra fosse secondo soltanto al sovrano. Secondo alcuni, il lawagetassarebbe stato l'erede del trono, secondo altri (ma l'ipotesi è assai poco accreditata) il comandante in capo dell'esercito, e secondo altri ancora, trattandosi di qualifiche che non sono mutuamente esclusive, sarebbe stato contemporaneamente l'una e l'altra cosa. 72 Anche sull'esatta composizione del lawos vi è incertezza: di certo, si sa che ne facevano parte gli hekwetai e, forse, i te-re-ta. Gli hekwetai, letteralmente "compagni", "seguaci", gli omerici hetailroi, secondo Palmer dignitari del Palazzo reale, sembra fossero preposti al comando delle unità militari (o-ka = orkhai) dislocate lungo la linea costiera e, disponendo di un carro da guerra munito di ruote di un tipo particolare, vale a dire del mezzo di locomozione più rapido allora conosciuto, fungevano probabilmente da collegamento fra queste unità militari e il Palazzo. 73
Quanto ai te-re-ta, si tratta dei personaggi forse più discussi di tutta la complessa struttura sociale micenea. Secondo alcuni, sarebbero stati dei sacerdoti, secondo altri (che propongono un'interpretazione "feudale" della società micenea) dei vassalli del wanax, secondo altri ancora, una parte dei concessionari della ktoina ktimena (vale a dire della terra concessa in proprietà privata, ma su questo torneremo): più precisamente, i concessionari tenuti a certi oneri per ragioni di culto. 74 Vi era poi la massa del popolo: lavoratori della terra e artigiani specializzati, panettieri, fabbri, carpentieri, vasai, operai, costruttori di navi, tessitori, e così via, per giungere sino a lavoratori altamente specializzati quali, ad esempio, il fabbricante di archi.
E alcuni di questi artigiani (che operavano a volte in proprio, a volte riuniti in corporazioni) lavoravano al servizio esclusivo del wanax e del lawagetas; come risulta dalle tavolette che parlano di un poimen, cioè di un pastore del lawagetas, e di un knapheus, cioè di un tintore del wanax. 75 Infine, nel Palazzo stavano gli scribi, alla cui attività dobbiamo tutto quello che oggi sappiamo della civiltà micenea, della quale essi registravano per conto del sovrano tutte le operazioni finanziarie, le assegnazioni di terre, gli spostamenti di truppe: tutti i dati, insomma, che riguardavano la vita amministrativa e finanziaria del regno. Ma il mondo miceneo non si risolveva nel Palazzo: attorno a questo, nella circostante campagna, stavano i damoi, le comunità di villaggio: e, nei villaggi, stavano dei gwasilewes (basileis), vale a dire, secondo l'opinione che sembra preferibile, e sulla quale torneremo, i capi dei gruppi gentilizi (peraltro estranei, sembra, alla struttura politico-militare del regno), nonché una gheronsia (gherusia), vale a dire il consiglio degli anziani. La terra infine (ktoina: letteralmente, particella di terreno) era divisa in due tipi: la ktoina ke-ke-me-na e la ktoina ktimena. La ktoina ke-ke-me-na sembra fosse la terra in proprietà della collettività, che veniva assegnata ai privati secondo forme di concessione diverse (la più diffusa delle quali era detta o-na-to), in forza delle quali i concessionari erano tenuti a determinati servizi o prestazioni in natura, una parte delle quali andava al Palazzo; e che, comunque, non davano mai luogo a un diritto di proprietà. 76 Al wanax e al lawagetas, invece, spettava la disponibilità piena e assoluta (in questo caso, si può ben dire la proprietà) di un appezzamento di terra chiamato temenos. Ma si trattava di situazioni eccezionali, così come erano eccezionali (non solo in linea di principio ma anche quantitativamente) le situazioni che nascevano dalle concessioni di lotti di ktoina ktimena (forse, la terra coltivata) a persone appartenenti alla classe sacerdotale. 77 La regola, nei regni micenei, era dunque, a quanto sembra, quella dell'inesistenza della proprietà privata. Le concessioni che conferivano poteri più ampi di quelli spettanti ai concessionari di terre in onato (vale a dire le concessioni di terre in e-to-ni-jo, secondo un modello che non prevedeva alcuna controprestazione da parte del beneficiario) erano infatti legate a una particolare posizione della persona alla quale erano fatte: erano, quindi, dei privilegi che, per la loro eccezionalità, non solo non escludono, ma sembrano confermare l'ipotesi dell'inesistenza, in via generale, della proprietà privata. 78 Altro punto qualificante della società micenea, infine, era la natura delle condizioni di dipendenza e di limitazione della libertà. Le forme di dipendenza riscontrabili nei regni micenei, infatti, sono diverse dalla schiavitù, intesa come appartenenza di un individuo a un altro individuo, a una comunità o allo stato, nel senso che il termine avrà nel mondo greco classico e nel mondo romano. Il valore del termine doelos (successivamente dulos, "schiavo"), con il quale si indicava appunto la relazione di dipendenza, va infatti individuato in opposizione al termine ereuteros (successivamente eleutheros, "libero"). E con ereutero(s) si indicava la persona privilegiata, libera dalla necessità imposta alla massa della popolazione di prestare servizi e di portare tributi al Palazzo. Il Palazzo, infatti, viveva grazie alle prestazioni degli appartenenti al damos, con le quali la popolazione ripagava l'autorità centrale dei servizi che questa gli rendeva, vale a dire la difesa militare e le opere e i servizi di pubblica utilità. 79 Il mondo miceneo, insomma, era un mondo assai simile a quello feudale, con la sua contrapposizione tra la società di corte e quella contadina, con la rigidità delle sue divisioni sociali e con le sue corvées. Un mondo, dunque, molto diverso da quello che sorgerà alcuni secoli dopo la sua fine nelle stesse terre ove esso era fiorito. Assai diverso, in altre parole, dal mondo di Omero e da quello delle prime poleis.
Il rapporto Micene-Omero.
L'effetto della decifrazione della lineare B sugli studi omerici fu molto importante. La scoperta che la civiltà micenea era greca imponeva che a Omero si guardasse in una prospettiva nuova: se nel suo racconto c'era qualcosa di vero, se il mondo da lui descritto era reale, questo mondo doveva essere quello nel quale erano ambientati gli eventi narrati: quello miceneo, dunque. Ma il confronto tra la realtà sociale descritta da Omero e quella che man mano emergeva dalla lettura delle tavolette micenee cominciò ben presto a creare problemi. Tra il mondo che queste andavano delineando e quello omerico le distanze apparivano sempre più incolmabili. Come mise subito in luce Moses Finley, l'Itaca di Ulisse aveva poco, per non dire nulla a che vedere con un regno miceneo. Il mondo omerico, per cominciare, ignora completamente le registrazioni, sulle quali si basava tutta la struttura dello stato miceneo. Era un mondo nel quale, scrive Finley, le operazioni erano in misura troppo esigua e troppo semplici di struttura per essere collegate sia con gli inventali, sia con le operazioni annotate sulle tavolette: i signori di Micene, come avevamo già potuto indovinare dai soli resti archeologici, possedevano terre più estese, bestiame, schiavi (maschi e femmine) in numero maggiore degli eroi di Omero che combatterono davanti a Troia. E sulle loro proprietà organizzarono il lavoro attraverso un'elaborata gerarchia burocratica di uomini e di operazioni che esigevano inventari e promemoria, nonché sorveglianza direttiva. Eumeo invece, il fedele capraio di Ulisse, poteva serbare a memoria l'inventario del bestiame del suo padrone. Circa cento diverse occupazioni sono state a quanto pare identificate dalle tavolette, ciascuna col proprio nome, e Omero invece ne conosce appena una dozzina. Non soltanto il poeta non ha alcuna occasione di accennare ad altre occupazioni, ma in quella società non vi era posto per esse, come non vi era posto per gli affittuari o i sorveglianti o gli scrivani. La differenza fra le due società sta nella struttura, non semplicemente nella misura e nelle dimensioni. 80 Nella stessa direzione, nel 1961 Palmer scriveva: "Nessun rendiconto della civiltà micenea basato su Omero rassomiglia alla organizzazione templare del re sacerdote, che a poco a poco ha preso forma dal paziente studio delle tavolette in lineare B". 81 Page confermò, a sua volta, che le tavolette avevano messo in luce quanto poco della realtà micenea fosse conservato nei poemi omerici. 82 Significa forse, tutto questo, che tra il mondo miceneo e quello omerico non vi è alcuna continuità, alcun confronto possibile? Lo si è affermato. Ma le osservazioni al tempo stesso più equilibrate e determinanti, al riguardo, sono quelle di JeanPierre Vernant: Da Micene a Omero il vocabolario dei titoli, dei gradi, delle funzioni civili e militari, della tenuta del suolo, crolla pressoché completamente. Una volta distrutto l'antico sistema, i pochi termini che sussistono, come basileus o temenos, non conservano più lo stesso valore. Tuttavia il quadro di un piccolo regno come Itaca, col suo basileus, la sua assemblea, i suoi nobili turbolenti, il suo demossilenzioso sullo sfondo, prolunga e illustra manifestamente certi aspetti della realtà micenea. Aspetti provinciali, certo, e che restano ai margini del Palazzo. Ma proprio la scomparsa del wanax sembra aver lasciato sussistere fianco a fianco le due forze sociali con cui il suo potere aveva dovuto patteggiare: da una parte le comunità di villaggio, dall'altra un'aristocrazia guerriera le cui più alte famiglie detengono, come privilegio del genos, certi monopoli religiosi. 83 Ai fini di una corretta soluzione del problema Micene/Omero, insomma, una volta constatate le differenze, non bisogna dimenticare (ed è cosa sulla quale mette l'accento anche un altro sostenitore della fondamentale diversità fra i due mondi, qual è Pierre Vidal-Naquet) 84 che tra di essi sono emerse anche molte continuità, con riferimento non solo alla cultura materiale (architettura, pittura e scultura), ma anche alla mitologia e forse (ma su questo torneremo) alle istituzioni politiche. 85 Il mondo di Olisse non è miceneo, ma è legato a quello miceneo da qualche non irrilevante filo di continuità.
La natura dell'epos omerico, la teoria formulare di Milman Parry e il problema dell'epos preomerico.
Dopo quanto abbiamo sin qui visto, è evidente l'importanza che ai nostri fini riveste il celebre e dibattuto problema della formazione della poesia epica. Anche lo storico, insomma, in qualche misura, si trova inevitabilmente di fronte, in tutta la sua enorme complessità, il problema omerico: sia pure, ovviamente, sotto un'angolazione particolare. Come abbiamo già detto, la reale esistenza storica di una persona chiamata Omero (al di là delle polemiche sul significato di questo nome) se è importante per il letterato, interessa assai meno lo storico. 86 Per lo storico è importantissimo, invece, non solo il dibattito sul momento nel quale i poemi vennero fissati per iscritto (sul quale torneremo), ma anche, e forse ancor più, la questione della possibile esistenza di un epos preomerico, tramandato per via orale e secondo alcuni riconducibile addirittura, senza soluzione di continuità, a una poesia epica micenea. 87 Qualora si accetti questa tesi, come è evidente, i riferimenti omerici al mondo eroico si presentano in una luce diversa, di cui chi tenta di dare ai poemi una collocazione storica deve inevitabilmente tenere conto. 88 E dunque, a questo punto, si rende necessario o meglio, indispensabile riassumere sia pur brevemente gli sviluppi più recenti nello studio della composizione del testo omerico: per comprendere i quali è necessario, ancor oggi, prendere le mosse dalla ben nota teoria così detta "formulare", prospettata nel 1928 da Milman Parry. 89 Stimolato, in parte, dagli studi sulla poesia popolare serba dello slavista Mathias Murko, conosciuto frequentando a Parigi il circolo di Arnout Meillet, Parry diede ai propri studi sull'epica greca un'impostazione si può ben dire rivoluzionaria. 90 Alla base dell'epica omerica, egli disse, sta un sistema di espressioni (che, con termine ormai classico, chiamò "formule") regolarmente usate, nelle stesse condizioni metriche, per esprimere determinate idee essenziali: queste formule, che gli aedi imparavano e ripetevano a memoria, tramandandole di generazione in generazione, erano insomma un elemento base del poema epico, la cui tecnica compositiva consisteva, appunto, nella ripetizione mnemonica di questi e di altri più complessi elementi
"formulari". 91 Alle ricerche teoriche Parry affiancò una vasta indagine sul campo, registrando i racconti dei bardi iugoslavi, dei quali constatò le incredibili capacità mnemoniche, e soprattutto l'uso delle tecniche compositive "formulari". La sua teoria venne così confortata da una serie di argomenti analogici di grande interesse, successivamente confermati dalle ricerche di Albert B. Lord. 92 E se, questo, in un primo momento, provocò reazioni non solo critiche, ma violentemente negative, con il tempo conquistò tanti adepti da divenire, nel giro di pochi decenni, la premessa imprescindibile di ogni indagine sui poemi omerici. E tuttora è tale: anche se, certamente, viene oggi intesa con maggior elasticità. 93 Lord, infatti, dopo aver dedicato ben trent'anni allo studio dell'eposslavo, comparandolo con quello greco arcaico, se da un canto è giunto a una conferma della tesi parriana, dall'altro l'ha in un certo senso ridimensionata. I bardi, egli ha infatti osservato, pur riprendendo temi tradizionali, non riproducono meccanicamente una storia immutabile, ma la trasformano continuamente, modificando gli episodi, tagliandoli, invertendo l'ordine degli elementi che la compongono, adattando il racconto alle esigenze del pubblico e alla sua sensibilità: così che, a vent'anni di distanza, lo stesso episodio presenta notevoli trasformazioni. La tradizione orale, insomma, non è riproduzione meccanica. Ed è su questa linea più "morbida" (si parla infatti, a questo proposito, di "soft-Parrysts") 94 che si muove la letteratura più recente. Oggi, insomma, si tende ad attribuire un'importanza minore all'uso dei prototipi formulari, osservando che le formule, comunque, non erano schemi rigidi e immutabili. Il poeta, all'interno dei versi, era libero di spezzarle, di modificarle e di spostarle come meglio credeva, a seconda delle sue esigenze creative, dando libero sfogo alla sua fantasia poetica. Che conseguenze ha tutto questo sul nostro problema? A questo punto, non è difficile intuire quale sarebbe la rilevanza dell'eventuale esistenza di una tradizione poetica ininterrotta risalente fino al periodo miceneo (e documentata, secondo chi la sostiene, da un affresco trovato a Pilo, che raffigura un personaggio che suona la lira). 95 La polemica in proposito è in verità assai vivace. Secondo alcuni, infatti, il formulario omerico non sarebbe traducibile nella lingua greca scritta in lineare B. 96 Altri, invece, giungono a conclusioni esattamente opposte: l'esametro omerico potrebbe senza eccessiva difficoltà essere tradotto nella lingua micenea, e le tavolette in lineare B in esametri. 97 Ma non è in questi termini che il problema ha rilevanza ai nostri effetti. Anche ammesso, infatti, che sia dimostrata l'inesistenza di una tradizione epica espressa in esametri risalente senza soluzione di continuità al periodo miceneo, ciò non porta necessariamente a escludere l'esistenza di una tradizione annalistica o popolare risalente allo stesso periodo. 98 E, per noi, una tradizione annalistica o popolare non avrebbe minor valore di una tradizione espressa in esametri. Tanto nell'uno come nell'altro caso, questo confermerebbe l'ipotesi che i poemi non possono essere "appiattiti " in un'unica dimensione storica. Come, recentemente, molti tendono a fare. Ma sull'argomento torneremo più avanti, dopo aver affrontato un ulteriore problema: quello del passaggio dall'oralità alla scrittura.
Dall'oralità alla scrittura: poesia epica e Omero.
Il problema non è da poco: qual è il rapporto tra l'epica orale e i poemi redatti in forma scritta, giunti a noi sotto il nome di Omero? Il problema si pone, ovviamente, a partire dalla considerazione che colui o coloro che misero per iscritto: quasi 26000 versi di cui si compongono Iliade e Odissea (12310 solo quest'ultima) non crearono dal nulla la loro grande opera. In questa confluirono canzoni ripetute a memoria per secoli da aedi e rapsodi, sulle quali essi agirono poeticamente, apportando innovazioni e modifiche. Anche se, come è ovvio, è assai difficile dire in che misura. Così come è difficile conoscere con esattezza le circostanze nelle quali nacque la redazione scritta. 99 Per risolvere questi problemi, infatti (o quantomeno per tentare di proporvi una soluzione), è necessario in primo luogo dare una risposta al dibattuto problema relativo all'introduzione della scrittura alfabetica, e in secondo luogo cercare di capire quali furono i tempi della sua diffusione. Cominciamo dal primo problema: nel 1953 venne trovata a Pitecusa (Ischia) una coppa, recante un'iscrizione in tre righe nell'alfabeto di Calcide e datata generalmente attorno al 732-720. Secondo gli studiosi si tratterebbe del secondo più antico e completo esempio di iscrizione alfabetica greca. 100
Composta da un verso giambico e da due esametri, l'iscrizione fa riferimento a una coppa di Nestore: e di una coppa di Nestore parla anche l'Iliade (Il., 632-635), come è ben noto composta, come l'Odissea, di esametri. La citazione, dunque, non può che essere dall'Iliade.
Dal che si è dedotto da un lato che l'introduzione della scrittura risale probabilmente a non molti anni prima di questo documento e dall'altro che l'Iliade era rapidamente diventata, come scrive Joachim Latacz, una sorta di best-seller. 101 Non molto diversa l'opinione di Richard Janko, seguito da Ian Morris, secondo cui i poemi avrebbero raggiunto la forma attuale prima della composizione delle opere di Esiodo e degli Inni omerici, più precisamente in una data tra il 750 e il 725 per l'Iliade, e tra il 743 e il 713 per l'Odissea. 102 Ma è davvero possibile che, una volta introdotta, la scrittura sia stata subito utilizzata con tale rapidità, per la registrazione di opere quali l'Iliade e l'Odissea? Si ritiene da alcuni (e sembra ipotesi convincente) che questo sia molto difficile, per non dire impossibile. 103 E sembra estremamente interessante, in proposito, ricordare che secondo Gregory Nagy sarebbe in sostanza impossibile proporre una datazione esatta. 104 La fissazione di una data precisa, dice Nagy, presuppone l'accettazione della ben nota teoria del dettato (dictation theory) formulata da Lord, 105 e ancora recentemente riproposta, secondo la quale appunto i poemi a un certo punto sarebbero stati dettati. 106 Ma questa teoria è difficilmente conciliabile con la constatazione che già nell'ultimo quarto del VII secolo a. C. l'Iliade e l'Odissea erano diffuse su ambedue le sponde dell'Egeo. Data la limitazione fisica dei materiali scritti, è difficile collegare questa diffusione a una inimmaginabile moltiplicazione di manoscritti. Alla teoria del "dettato" dunque, meglio contrapporre il modello "evoluzionistico": lo sviluppo della tradizione epica, dice Nagy, si spiega solo valutando, accanto agli elementi della composizione e della rappresentazione, anche quello della diffusione (diffusion) del testo, che avrebbe condotto progressivamente l'epica a uno statussempre più stabile nei suoi modelli di ricomposizione, sino a raggiungere una fase "relativamente statica", che potrebbe essere durata dall'ultima parte dell'VIII secolo fino alla metà del VI, quando i poemi potrebbero aver raggiunto uno stato quasi testuale (neartextual), nel contesto delle performances dei rapsodi al festival panellenico delle Panatenaiche, ad Atene. 107 L'ipotesi di un venir meno progressivo (e non istantaneo) delle modifiche al testo, dunque, si contrappone non solo a quella del "dettato", ma più in genere a tutte quelle che prospettano la fissazione per iscritto come un evento verificatosi quasi ex abrupto. E se, come a me pare, questa teoria si basa su solidi fondamenti, essa può avere una qualche rilevanza anche ai fini che qui specificamente interessano. Se la forma attuale dei poemi non è il prodotto di un evento collocabile in una specifica data, ma il frutto di un processo più fluido di fissazione, aumentano le probabilità che essi non rispecchino una società unica, anche istituzionalmente monolitica, ma un quadro più composito, nel quale compaiono scene collocabili in momenti istituzionalmente diversi e anche lontani, che possono comprendere anche alcuni riferimenti al mondo miceneo. 108 Ma questo, per le ragioni che di seguito vedremo, non impedisce e non turba in alcun modo il nostro proposito di raccontare Itaca.
Ipotesi su Itaca.
Di fronte ai problemi sopra indicati, non può certo sorprendere che le ipotesi sul mondo omerico e sulla sua collocazione nel tempo siano molte. Molte e molto diverse, come è facile rendersi conto ove appena si ripercorra sia pur brevemente la lunga storia del dibattito. Negli anni sessanta, in un libro ormai classico, osservando che il mondo omerico era governato da valori competitivi e strutturato in oikoi in lotta perenne tra loro, Arthur Adkinssostenne che esso non poteva essere che quello dei secoli più antichi del cosiddetto Medioevo ellenico (attorno al X secolo a. C, dunque). 109 A conclusioni analoghe giunse Moses J. Finley, secondo cui Itaca, in particolare, rappresenterebbe una comunità del X-IX secolo a. C: il mondo di Ulisse, infatti, se da un canto non era il mondo miceneo al di là dell'atmosfera da "c'era una volta" che i bardi tendono a creare -, dall'altro neppure coincideva con il periodo in cui i poemi furono scritti: in Omero, osserva tra l'altro Finley, manca la scrittura, non si fa riferimento alle armi di ferro, è sconosciuto l'uso della cavalleria in battaglia, e non v'è alcuna menzione della colonizzazione e dei commerci dei Greci. 110 Negli ultimi anni, a questa ipotesi se ne è contrapposta un'altra, che oggi gode di maggiori consensi: i poemi, secondo questa ipotesi, rifletterebbero la società del momento in cui furono scritti, vale a dire, secondo i sostenitori di questa teoria, l'VIII secolo a. C. Secondo Morris, in particolare, gli argomenti con cui Finley a suo tempo escluse la contemporaneità tra il momento della scrittura dei poemi e la società in essi descritta non sarebbero determinanti: molti degli oggetti la cui assenza ha fatto escludere a Finley l'ipotesi dell'VIII secolo esistevano già nel X o nel IX secolo. La loro assenza, dunque, potrebbe essere un volontario anacronismo, volto a raggiungere quell'effetto che J. M. Redfield ha chiamato "distanza epica", 111 vale a dire l'inserzione nella narrazione di elementi fantastici (ad esempio, i cavalli che parlano), per collocare gli eventi narrati in un mondo arcaicizzante, diverso da quello in cui gli ascoltatori vivevano. 112 Per finire, negli ultimi anni l'ipotesi che la società omerica sia quella dell'VIII secolo è stata sostenuta tra gli altri da Stephen Scully, con riferimento alla società di Troia, 113 e da Williamm. Sale, 114 con riferimento al governo di questa città 115: ma solo con riferimento a questo specifico elemento di un insieme, che nel complesso Sale ritiene assai più composito. Il governo di Troia appare quello di una città del secolo VIII, egli sostiene, ma i poemi riflettono anche altri momenti storici e "sistemi politici diversi": il sistema acheo descritto nell'Iliade, infatti, è in parte fantastico e in parte miceneo.
Sale, insomma, ha contestato la tesi "isocronica", riproponendo l'ipotesi che i poemi contengano anche informazioni riferibili a un'epoca precedente a quella della redazione scritta.
Con specifico riferimento al problema dell'amministrazione della giustizia, descritta nell'Iliade sullo scudo di Achille, collocandola addirittura in età micenea, accetta un'ipotesi di questo tipo anche Raymond Westbrook, 116 seguito da Nagy. 117 E (pur non credendo che la giustizia dello scudo sia micenea, come cercherò di dimostrare più avanti) io credo che la possibilità di collocare alcuni dati in epoca diversa da quella della redazione scritta dei poemi sia da tenere in attenta considerazione, anche per quanto riguarda l'individuazione di alcune tracce micenee.
118 Ma non solo. Accanto alla memoria micenea, infatti, forse con maggior peso, si pone quella dei secoli successivi alla diaspora. Gli aedi e i rapsodi, inevitabilmente, mentre recitavano i temi tradizionali, facevano descrizioni, considerazioni, davano giudizi che riflettevano la cultura del momento e dell'ambiente in cui agivano. E per finire i poemi sono testimonianza di quel momento fondamentale che fu, nella storia greca, l'VIII secolo a. C. il momento in cui, come dice Vidal-Naquet, agli exploits individuali dei semidei e degli eroi si sostituirono gli exploits della falange di opliti 119; e in cui, secondo l'opinione dominante, nacque la polis. Il momento nel quale, infine, per chi crede alla possibilità di fissare una data, va ricondotta la stesura definitiva dei poemi; e per chi non crede in questa possibilità, il momento in cui, comunque, gli aedi cessarono sostanzialmente di apportare modifiche, o quantomeno di apportare modifiche storicamente rilevanti. Ed eccoci, se tutto questo è vero, a un problema fondamentale. Come distinguere i dati riconducibili a epoche diverse, come collocarli nel tempo? Alcuni autori hanno pazientemente e meritoriamente redatto elenchi di
"pratiche" e oggetti micenei, distinti da quelli del periodo protogeometrico e geometrico.
Secondo Geoffrey S. Kirk, 120 ad esempio, al periodo miceneo andrebbero ricondotti l'armatura di Aiace, Ettore e Perifete; la spada con le borchie d'argento, in uso sia nel XV che nel VII secolo, ma che nei poemi sembra una reminiscenza; l'elmo di cuoio dato da Merione a Ulisse, fornito di cinghie interne, decorato con zanne di verro e foderato di feltro (Il., 10, 261-265); la coppa di Nestore, a due piedi, coperta di borchie d'oro, con quattro manici, attorno a ciascuno dei quali stavano due colombe d'oro (Il., 632-635); la tecnica di intarsio dei metalli, descritta nel XVIII libro dell'Iliade; i riferimenti al bronzo come materiale per armi e strumenti da taglio; il riferimento alla ricchezza e alle cento grandi porte di Tebe d'Egitto (Il., 9, 381-384); la geografia micenea, e in particolare quella del catalogo degli Achei; e, infine, l'intero background della guerra di Troia, che sarebbe stata combattuta nel tardo periodo miceneo. 121
Al periodo protogeometrico, invece, andrebbero ricondotti i riferimenti all'usanza di cremare i morti (Od., 11, 216 sgg.); i giavellotti leggeri; il cesto d'argento su ruote donato a Elena da Alcandre di Tebe d'Egitto (Od., 4, 131-132); infine, ricondurrebbe al protogeometrico l'assenza di ogni riferimento agli scribi e alla scrittura. 122 Il tempio separato e la tattica oplitica (alla quale Kirk individua tre sicuri riferimenti in Il., 12, 105; 13, 130 e 16, 211-217) andrebbero ricondotti, invece, al periodo geometrico. Lavoro paziente e meritorio, dicevamo: ma oggi superato o da un totale e assoluto scetticismo, o dal tentativo di introdurre criteri metodologici, che individuino diverse categorie di dati, e criteri di datazione validi per ciascuna di queste categorie. Tra gli esempi di scetticismo, se non totale certamente molto forte, citiamo le considerazioni di Sale: essendo il mondo epico, egli dice, un miscuglio di oggetti, eventi e istituzioni che possono appartenere a una qualunque epoca (dal miceneo all'VIII secolo, appunto), noi non possiamo considerare un riferimento come "storico" senza una qualche additional evidence, che lo collochi nel mondo al di fuori del testo. 123 Tuttavia, sebbene la fondamentale importanza dei riscontri esterni sia indiscutibile, io non credo che la loro mancanza impedisca ogni discorso. Il riscontro esterno, questo è ovvio, da maggior sicurezza.
Ma le supposizioni sono lecite anche in sua mancanza. Alcuni aspetti della società descritta dai poemi sono perfettamente illuminati dal testo omerico in se stesso: ad esempio, il mondo dei valori eroici e il sistema delle regole di comportamento che questi impongono. Io penso, insomma, che si possa prestar fede a Omero anche in mancanza di riscontri esterni; e credo anche che, per orientarci nella complessa realtà che esso svela, sia possibile far ricorso a criteri metodologici, se non perfetti, certamente affidabili, nel complesso, e di non trascurabile utilità.
Come, ad esempio, quello proposto da Fausto Codino. 124 I dati dovrebbero essere raggruppati in tre categorie, dice Codino: le testimonianze concernenti gli oggetti materiali; quelle relative ad atti o costumi isolati della vita sociale e, infine, rapporti sociali nel loro insieme. Le testimonianze materiali, essendo il linguaggio epico in questo campo facilmente conservatore, potrebbero rispecchiare epoche remotissime (ne abbiamo visti sopra alcuni esempi). Ma attenzione: il fatto che un oggetto materiale sia miceneo non comporta necessariamente che la situazione, all'interno della quale l'oggetto è descritto, sia riconducibile alla stessa epoca. Gli atti e costumi della vita sociale, infatti, possono appartenere a epoche successive. O quantomeno alcuni di essi. Ma non sempre: la descrizione di atti isolati (consuetudini matrimoniali, ad esempio, riti, cerimonie funebri ecc.) può anch'essa essersi fissata in descrizioni che i poeti continuavano a ripetere, anche quando questi atti erano stati abbandonati o modificati. L'insieme dei rapporti sociali in atto, invece, così come il funzionamento degli istituti pubblici e le corrispondenti concezioni morali, non possono che riflettere la vita contemporanea: una volta superati, infatti, essi non lasciano tracce visibili, né memorie sicure. 125 A questo punto, è evidente perché abbiamo citato questo modello metodologico: se questo criterio è accettabile (e io credo che nelle grandi linee lo sia), le istituzioni pubbliche e i rapporti sociali itacesi sono quelli che regolano i rapporti tra i membri di una comunità vissuta tra il X e l'VIII secolo a. C. E dico tra il X e l'VIII e non solo nell’VIII secolo, come oggi si tende a ritenere in quanto non credo sia possibile distinguere le istituzioni politiche e sociali dell'VIII da quelle dei due secoli precedenti. Solo di alcune istituzioni, eccezionalmente, abbiamo l'atto di nascita: ad esempio, quello della falange oplitica. Per il resto, se un'istituzione esiste nell’VIII secolo, non possiamo sapere se è nata in quel secolo, se esisteva già in quello precedente, o due secoli prima. Seguire le vicende sociali e istituzionali di Itaca, dunque, vuol dire assistere alla nascita di una polis. I. Itaca senza Ulisse. 1. Itaca: l'isola e la città. Geograficamente, Itaca è solo una tra le tante isole disseminate nel mare che circonda da tre lati la terra greca. Un'isola come tante: ma nel racconto omerico, è su quest'isola, non su altre, che un piccolo gruppo di stirpe greca in un momento che, lo abbiamo detto, non può essere posteriore all'VIII secolo a. C. vive dapprima un periodo di crisi sociale e politica, dovuta all'assenza del suo re (traduciamo così, per ora, il termine basileus, salvo precisarne più avanti il significato), e al ritorno di questi riorganizza la propria vita collettiva, restaurando un ordine all'interno del quale cominciano a trovare spazio nuovi modelli di vita, nuovi ideali e nuove regole a questi ispirati. Oltre che meta del viaggio senza fine di Ulisse, dunque, Itaca è il luogo ove agiscono dei personaggi, le cui vicende e il cui comportamento ci consentono di ricostruire queste regole, cogliendo il momento di transizione da un sistema di controllo sociale pregiuridico a un sistema in cui alcune di queste regole assumono il carattere della giuridicità. Itaca insomma è il teatro della rappresentazione che ci proponiamo di seguire.
Donde inevitabile il desiderio di avere un'idea della scenografia. Com'era Itaca? Che aspetto aveva? A descriverla, solo pochi versi, disseminati nell'Odissea, ma sufficienti a darcene un'immagine vivida e chiara, anche nei dettagli. 1 Cominciamo dalla collocazione geografica: a darci le informazioni più dettagliate è lo stesso Ulisse. Sbarcato a Scheria e accolto alla corte del re Alcinoo, viene da questi interrogato sulla sua identità, la sua provenienza e la sua storia.
E così risponde: Sono Ulisse di Laerte, che per tutte le astuzie son conosciuto tra gli uomini, e la mia fama va al cielo. Abito Itaca aprica: un monte c'è in essa, il Nèrito sussurro di fronde, bellissimo: intorno s'affollano isole molte, vicine una all'altra, Dulìchio, Samo e la selvosa Zacinto. Ma essa è bassa, l'ultima là, in fondo al mare verso la notte: l'altre più avanti verso l'aurora e il sole. Aspra, ma buona nutrice di giovani e io nulla più dolce di quella terra potrò mai vedere. (Od. 9, 19-28) Itaca, l'estremo lembo occidentale della terra greca, è un'isola povera, dunque, non possiede le distese necessarie ad allevare cavalli, all'epoca elemento importante della ricchezza. È così aspra, così povera di prati, che Telemaco, a Sparta, quando si vede offrire in dono da Menelao "tre cavalli e un lucido cocchio", è costretto a rifiutare: Il dono che mi vuoi dare sia un oggetto: i cavalli non potrei portarmeli in Itaca: a te, dunque, li lascerò, a grande onore: tu regni sulla pianura larga, dove il trifoglio, il cìpero è molto, la biada e la spelta e l'orzo bianco, che cresce abbondante. Ma in Itaca non strade larghe, non prati: capre alleva, e pure è più cara di terra che nutra cavalli. (Od., 4, 600606) Sono pochi gli animali che possono essere allevati a Itaca: sostanzialmente, capre e qualche bovino. Quando Ulisse, finalmente tornato in patria, giunge alla capanna di Eumeo, il suo fedele porcaio, questi gli racconta con orgoglio, senza riconoscerlo, che il suo re (Ulisse, appunto) ... aveva beni infiniti; nessuno tanti ne aveva fra gli altri principi, non quelli del continente bruno, e non quelli d'Itaca; nemmeno venti principi insieme hanno tanta ricchezza... (Od., 14, 96-100) Ma quando procede a elencare i "beni infiniti" del suo re, il porcaio svela suo malgrado che si tratta di ben poca cosa: ... dodici mandrie sul continente e altrettante greggi di pecore, tanti branchi di porci, tanti vasti branchi di capre gli pascono o gli ospiti suoi o i pastori al suo soldo. (Od. , 14, 100-102) Una ricchezza, in verità, tutt'altro che infinita per un re, e anche per chi re non fosse.
Gran parte della quale, inoltre (pecore e porci), non si trova neppure sull'isola, ma nel continente. Sull'isola, dice Eumeo, vivono solo capre: Qui vasti branchi di capre, undici in tutto, in fondo all'isola vivono, le guardano uomini fidi. (Od., 14, 103-104) Ma quando a descrivere Itaca è Atena, il quadro cambia. L'isola è sempre "aspra", "non adatta a cavalli", ma in essa ... c'è grano infinito, c'è vino e sempre pioggia la bagna e guazza abbondante. È buona nutrice di capre e bovi: e una selva c'è, d'ogni specie di piante: pozzi perenni vi sono. (Od. 13, 244-247) Nonostante la sua asperità, insomma, Itaca non è desolata. Al contrario, è ricca d'acqua e di alberi, movimentata lo abbiamo visto da un alto monte boscoso, il Nèrito "sussurro di fronde". Tra i boschi, nel verde, c'è una grotta, ove gli Itacesi si recano per fare offerte alle Naiadi, le ninfe che vivono nelle acque (Od., 13, 347-350). Vi è una fonte murata, "acque belle", dove i cittadini si recavano ad attingere acqua: e intorno c'era un boschetto di pioppi, che si nutrono d'acqua tutto rotondo in giro; gelida scorreva l'acqua da un'alta roccia; un'ara là sopra era stata murata, sacra alle Ninfe, dove tutti compivano offerte i passanti... (Od., 17, 208-211) Infine, ovviamente, c'è un porto, sul cui capo sta un "olivo frondoso": il porto di Forchis, il vecchio del mare, nel quale, sembra di poter dire, transitano molte navi (Od., 13, 345-346).
Perché Itaca, dice Atena, ... la sanno moltissimi, sia quanti stanno verso l'aurora e il sole, sia quanti vivono in fondo verso l'ombra nebbiosa. (Od., 13, 239-241) Infine c'è una collina sacra a Hermes, ai piedi della quale sorge la polis (Od., 16, 471). Parola celebre, tradotta e traducibile sia con "città" sia con "città-stato". Nel primo caso indica un aggregato urbano, nel secondo un'organizzazione "politica" (termine, quest'ultimo, che come è ben noto deriva appunto da polis). Ma che cos'è esattamente una polis, intesa come organizzazione politica? La domanda è antica: TI potè estin e polis? Cos'è la polis? chiedeva Aristotele, nella Politica. E dopo aver aggiunto che in proposito molto si discuteva, rispondeva che la polis è una pluralità, una moltitudine di cittadini (Politica, 1274 b, 32-41). Partiamo da questo dato, per cominciare a capire la polis: è composta di cittadini, il che equivale a dire che è un'organizzazione autonoma, radicalmente diversa dagli aggregati urbani che, nel vicino Oriente, dipendevano dalla capitale di un regno assoluto, governato da un sovrano che dominava una massa di sudditi. Le città nate in Grecia invece per questo dette città-stato -non dipendono che da se stesse. Esse sono governate da uno o più magistrati: ad Atene, per esempio, originariamente da un magistrato unico, chiamato basileus, successivamente sostituito dagli arconti; a Roma (per molti secoli una città-stato), originariamente da un magistrato unico chiamato rex, in età repubblicana sostituito dai consoli. Ma uno o più che fossero, poco importava i magistrati di una città-stato non erano, comunque, sovrani assoluti. Nella loro attività di governo, per cominciare, essi erano affiancati da un'assemblea allargata dei cittadini. Allargata, si badi, non plenaria: oltre ovviamente agli schiavi, per definizione non cittadini, all'assemblea non partecipavano né le donne, né in misura diversa a seconda dei momenti e dei luoghi la parte economicamente più debole della popolazione. Infine, accanto ai magistrati e all'assemblea, esisteva in ogni città stato un consiglio ristretto, composto dagli "anziani". 2 Nell'impossibilità di dilungarci oltre sulle strutture della polis, accontentiamoci di questi cenni, che, delineandone le caratteristiche essenziali, ci consentono di inquadrare il nostro problema. Omero definisce Itaca polis: in quale di questi due significati? Che valore ha questo termine nella poesia epica?
Quello di città o di città-stato? All'interno dei nuclei sociali omerici sono o non sono individuabili, anche se solo in embrione, gli elementi caratterizzanti delle città-stato? A risolvere il problema può contribuire, accanto all'analisi delle strutture itacesi, anche quella dell'organizzazione di Troia, la polis nemica; forse, anche il confronto con la vita e le istituzioni di Scheria, la città dei Feaci. 3 Inoltre, interessanti considerazioni possono essere fatte a partire dall'esame delle scene di vita "cittadina" scolpite sullo scudo di Achille, nel diciottesimo canto dell'Iliade. Ma nonostante la relativa ricchezza di dati, le risposte, oggi come ieri, sono assai diverse tra loro, e coprono un arco estesissimo di possibilità. Alcuni, da un canto, escludono che i poemi contengano tracce dell'esistenza di una polis, quanto meno nel senso classico del termine 4; altri, sul versante opposto, ritengono la polis già presente in ambedue i poemi 5; altri, ancora, ritengono che queste tracce siano presenti nell'Odissea, 6 ma non nell'Iliade 7. E per finire non manca chi afferma che nell'area mediterranea esistevano comunità politiche sin da un'epoca ben più antica di quella descritta dai poemi, e più precisamente sin dall'epoca minoica. 8 Le divergenze di opinioni sono tali, insomma, da rendere inevitabile dedicare qualche spazio alla questione. Cosa che faremo su un duplice versante: da un canto e in via preliminare seguendo le vicende itacesi, le storie personali dei loro protagonisti, e cercando di cogliere gli aspetti istituzionali di queste storie; dall'altro, sul versante semantico, procedendo all'analisi del termine polis e del suo significato nei poemi. 9.
2. Penelope. Cominciamo dalla regina, Penelope, la figlia bellissima di Icario, madre di Telemaco, rimasta a Itaca ad attendere il marito, apparentemente senza problemi se non quello della lontananza di questi più o meno per una quindicina di anni. Ma negli ultimi anni dell'attesa (gli ultimi tre o quattro, all'incirca) si era trovata a dover fronteggiare un problema non da poco: la sua casa era letteralmente assediata da una torma di aspiranti alla sua mano, quei giovani baldanzosi e determinatissimi che Omero chiama mnesteres (da mnesteuo, corteggiare) ma che dal latino precor, l'equivalente di mnesteuo sono a noi più noti come
"proci". Divenuta leggendaria per la sua fedele attesa del marito, Penelope è, in realtà, personaggio complesso, che merita più attenzione di quanto non si sia soliti tributarle: se non altro ma non solo per questo per capire le ragioni del suo fascino, che, come vedremo, attira sull'isola un numero incredibile di pretendenti.
Penelope a prima vista.
Bellissima. Così ci appare Penelope, la prima volta in cui, nell'Odissea, scende dalle sue stanze per raggiungere la sala del banchetto, dove i pretendenti alla sua mano stanno ascoltando i racconti di Femio, l'aedo che dopo aver per anni servito Ulisse, ora è costretto a cantare per i proci: Per essi [i pretendenti] il cantore famoso cantava: e in silenzio quelli sedevano, intenti; cantava il ritorno degli Achei, che penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena. Dalle stanze di sopra intese quel canto divino la figlia d'Icario, la saggia Penelope, e l'alta scala del suo palazzo discese, non sola, con lei andavano anche due ancelle. Come fra i pretendenti fu la donna bellissima, si fermò in piedi accanto a un pilastro del solido tetto, davanti alle guance tirando i veli lucenti: da un lato e dall'altro le stava un'ancella fedele. (Od., 1, 325-335).
Bellissima, ma piangente: come, del resto, in quasi tutte le sue successive apparizioni.
Sentendo che Femio sta cantando il ritorno degli Achei dalla guerra di Troia, infatti, Penelope lo invita a cambiare soggetto: Femio, molti altri canti tu sai, [...] smetti questo cantare straziante, che sempre in petto il mio cuore spezza ... (Od., 1, 337-342). È con il cuore spezzato, provando "pazzo dolore", dunque, che Penelope scende tra i suoi spasimanti: centootto, per la precisione. Tanti erano quelli che aspiravano alla mano della moglie, presunta vedova del re, assente ormai da vent'anni. Un numero spropositato. Ma di loro parleremo più avanti. Ora ci interessa Penelope, l'oggetto di tanto desiderio. Che vi fosse chi desiderava sposarla era più che comprensibile. Tutte le virtù che si richiedevano alle donne, Penelope le possedeva al massimo grado. 10. Più desiderabile di lei, sotto il profilo estetico, vi era, forse, in tutto il mondo greco, solamente Elena, bella come una dea immortale, bella al punto che secondo i vecchi troiani seduti presso le porte Scee a guardare la battaglia che infuriava nella pianura, "Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti, [...] soffrano a lungo dolori" (Il., 3, 156-157). Ma al di fuori di Elena, Penelope "divina" (dia) non temeva rivali. Quando scendeva dai suoi appartamenti, gli effetti che produceva sui proci erano devastanti. Ai pretendenti "si scioglieva il cuore nel petto al vederla", "si scioglievano le membra". Oltre a intenerire il cuore, la sua visione accendeva il desiderio sessuale. Lo "scioglimento delle membra" è l'effetto tipico del desiderio, non solo nel linguaggio omerico: "Eros che scioglie le membra (lusimeles) ancora mi squassa, / dolceamara invincibile fiera," scrive Saffo. 11 Una sola volta, nell'Odissea, si dice che Penelope, pur piena di ogni virtù, deve temere il confronto estetico con alcune rivali.
Più specificamente, con la ninfa Calipso. E, singolarmente, colui che fa questa affermazione è suo marito: ma, bisogna ammetterlo, in una situazione molto particolare. Nel congedarsi da Calipso, con la quale come vedremo ha passato ben sette anni d'amore (Od., 7, 259), ma dalle cui attenzioni vuole ora liberarsi perché "sospira il ritorno" (Od., 5, 153), Ulisse concede alla ninfa che, quanto a bellezza, tra lei e Penelope non esiste possibilità di confronto: ... a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla ... (Od., 5, 216-217) La dichiarazione, in verità, non è molto elegante. Ma come poteva Ulisse esimersi dal concedere a Calipso almeno questa soddisfazione? La ninfa voleva sposarlo, e pur di trattenerlo con sé, nell'isola Ogigia, era arrivata a promettergli l'immortalità. Ma ormai, Ulisse voleva tornare a Itaca. L'avventura extraconiugale è finita, il congedo dall'amante inevitabile: ma Ulisse vuol farlo con delicatezza, vuole mitigare l'offesa del rifiuto. Penelope è mortale egli dice alla ninfa tu sei immortale "e non ti tocca vecchiezza" (Od., 5, 218): l'unico accenno, nell'Odissea, agli effetti dell'età su Penelope, abitualmente (come il marito, del resto, ma a differenza di Telemaco) immutata nell'aspetto, fissata in un'età senza tempo. Ma detto questo, quasi a voler cancellare la mancanza di lealtà verso la sposa fedele, Ulisse allude a una virtù di Penelope, di cui Calipso è priva, o quantomeno che non le viene riconosciuta: Penelope è
"saggia" (periphron) 12 E alla saggezza unisce un'altra virtù femminile, l'eccellenza nella tessitura, simbolo delle opere domestiche. Come è ben noto, per ritardare il momento in cui avrebbe dovuto decidere quale tra i pretendenti scegliere come marito, Penelope aveva inventato il trucco della tela: prima di risposarsi, avrebbe tessuto un sudario per Laerte, il suocero vecchio e stanco, ritiratosi a vivere in campagna. Se, ai nostri occhi, tessere un sudario non è esattamente un dono augurale, nell'ottica eroica il proposito di Penelope è doppiamente meritorio: da un canto è prova della sua devozione filiale, dall'altro, appunto, della sua abilità di tessitrice. Anche se, quasi inevitabilmente, appare anche un'ulteriore, ennesima manifestazione della propensione di Penelope a una sorta di compiacimento del dolore, ai pensieri di sventura, a un lacrimoso pessimismo che appare una, anche se non la sola, delle sue caratteristiche più tipiche. Ma su questo torneremo. Penelope, dunque, è bella, saggia, lavoratrice. È silenziosa, obbediente e rispettosa dell'autorità maschile. 13 In assenza del marito, segue senza discutere gli ordini del figlio, che non esita a rivolgergliene di perentori.
Durante il banchetto (Od., 1, 325-342), quando Penelope, non sopportando di ascoltare Femio che racconta il ritorno dei guerrieri da Troia, chiede all'aedo di cambiare argomento, Telemaco, indispettito, le ricorda bruscamente che dell'uomo e solo dell'uomo è il comando in casa. E le ingiunge, perentoriamente: Su, torna alle tue stanze e pensa all'opere tue, telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro; al canto pensino gli uomini tutti, e io sopra tutti: mio qui in casa è il comando. (Od., 1. 356-359) 14. Penelope non pensa neppure a ribellarsi. Tornata nelle sue stanze, "la prudente parola del figlio si tenne in cuore". Ma le sue virtù non finiscono qui. Ovviamente è pudica, al punto da vergognarsi ad andar sola fra gli uomini. E a queste virtù, tutte tipicamente femminili, unica tra le donne omeriche, aggiunge l'astuzia, la celebre metis, che caratterizza suo marito: l'intelligenza astuta, una forma di intelligenza, sia ben chiaro, inferiore al celebre logos, non a caso esclusivamente maschile. Un'intelligenza che (come vedremo meglio quando incontreremo Ulisse) sapeva usare trucchi e inganni, sapeva agire per vie traverse, raggiungeva gli obiettivi per strade oblique. Un'intelligenza "bassa", frutto dell'esperienza e della riflessione, utilizzata per raggiungere obiettivi concreti, spesso materiali. Come Nestore ricorda ad Antiloco prima della gara dei carri, nel ventitreesimo canto dell'Iliade, poco prima che questi si incontri con concorrenti dai cavalli più veloci dei suoi, Per metis più che per forza il boscaiolo eccelle, con metis il pilota sul livido mare regge la rapida nave, squassata dai venti, per metis l'auriga può superare l'auriga. (Il., 23, 315-318) L'astuzia è dunque qualità usata in genere nell'esercizio delle tecniche. Nel caso di Antiloco, in particolare, dovrà esprimersi nel girare molto stretto alla meta (Il., 23, 344-345). E va usata secondo regole precise: più in particolare, non deve violare le regole del gioco. Se le viola, da virtù diventa dolo, vale a dire grave scorrettezza, riprovata in quanto consente di "ingannare i più forti "(Il., 23, 605). Ma se non degenera in dolo, e purché sia efficace (anche qui, come nel campo della forza, l'etica omerica è quella del successo) la metis è qualità che suscita ammirazione e rispetto, al pari anche se su un altro piano della forza fisica e del coraggio: come dimostra, senza possibilità di dubbi, e rendendo inutile il ricorso ad altri esempi, il rispetto generale per l'astuzia di Ulisse, superiore come vedremo a quella di qualunque altro eroe (Od., 3, 120-123).
Al pari del marito, dunque si direbbe quasi a sua imitazione anche Penelope è astuta. La metis è qualità di cui è fiera, di cui spesso si vanta, e che la voce popolare le riconosce. La regina, dice il popolo, possiede le arti ... che somme le donò Atena, fatti a sapersi bellissimi e pensieri sapienti e astuzie, come nessuna sentimmo, neppure delle antiche, di quelle che un tempo vissero, Achee trecce belle, e Tiro e Alcmena, e Micene corona graziosa; nessuna di quelle seppe pensieri come Penelope ... (Od. , 2, 116-121) 15. Senonché, sul piano dell'astuzia, a ben vedere, le prove di Penelope sono non poco deludenti. L'inutile intelligenza femminile. In alcune occasioni Penelope viene rappresentata, in qualche modo, come l'equivalente femminile di suo marito, "l'astuto" per definizione e antonomasia. Come Ulisse, anche Penelope ricorre alla metis per raggiungere i suoi scopi. Per cominciare lo sappiamo quando escogita lo stratagemma della tela, con cui riesce a ritardare il momento in cui dovrà scegliere quale sposare tra i suoi pretendenti. E, di nuovo, ella ricorre alla metis alla fine del poema, nel ventitreesimo canto, quando vuole essere certa che lo sconosciuto che sostiene di essere suo marito sia veramente Ulisse, e non un impostore: a Euriclea, la nutrice, ordina di preparare per lui il letto, "il suo morbido letto [...], fuori dalla solida stanza, quello che fabbricò di sua mano"
(Od., 23, 177-178). Ma come è ben noto quel letto Ulisse lo ha costruito dal tronco di un ulivo, successivamente "murandolo nella stanza", così che, egli ribatte indignato, "Tra gli uomini, no, nessun vivente, neanche in pieno vigore, / senza fatica lo sposterebbe". 16 Grazie all'astuzia, dunque, Penelope ha finalmente la certezza che lo straniero misteriosamente sbarcato a Itaca è proprio Ulisse. In questo caso la sua metis raggiunge lo scopo prefisso. Come è stato rilevato, in questa circostanza ella appare addirittura più astuta di Ulisse. Questi infatti non capisce che la moglie vuole soltanto metterlo alla prova, e cade nell'inganno, arrivando a sospettare che veramente qualcuno abbia spostato il suo letto (metaforicamente, che Penelope lo abbia tradito). Senonché, a ben vedere, "l'intelligenza astuta" di Penelope si rivela del tutto fallimentare, là dove viene usata per raggiungere quello che, all'interno della sua storia, è il suo obiettivo fondamentale, vale a dire il rifiuto del nuovo matrimonio. Il trucco della tela, infatti, le consente di allontanare per qualche tempo il momento della scelta: ma solo per qualche tempo. Per colpa di un'ancella traditrice lo stratagemma viene scoperto e non raggiunge il suo scopo. In un mondo in cui il metro di giudizio di un atto è il suo successo, la metis di Penelope è inesistente. Strana contraddizione in verità, l'insistenza del poeta su una virtù operativa incapace di produrre i suoi effetti. Per risolvere la contraddizione, si è ipotizzato che una tradizione più antica presentasse Penelope come un personaggio caratterizzato da un'astuzia efficace. E forse è così: forse, fu solo in un secondo momento, che ella cominciò ad assumere l'abito della fedeltà che non le sarebbe più stato tolto: probabilmente nell'Odissea, ove si può pensare che la sua astuzia abbia perso efficacia per lasciar spazio alla figura di Ulisse, e la caratterizzazione del suo personaggio si sia orientata verso il prototipo della moglie fedele. 17
Tutto questo è certamente possibile: ma quale che fosse la situazione precedente, l'astuzia di Penelope, nei poemi, sembra improduttiva anche per un'altra ragione. A ben vedere, la metis è l'unica virtù comune a uomini e donne. Negli uomini poteva ben essere (nel caso di Ulisse era, con grande efficacia) una virtù strumentale, che affiancando la forza fisica, il coraggio e la parola, poteva contribuire a ottenere quel successo senza il quale un uomo non era un agathos.
Ma che senso aveva, che funzione poteva avere la metis nel quadro dei valori e delle virtù femminili? Non era con l'astuzia che si poteva essere belle, obbedienti, fedeli. L'astuzia era estranea al mondo femminile, o quantomeno, al mondo delle donne per bene: nel mondo di quelle che tali non erano, "le altre", vedremo invece che poteva avere un ruolo, e anche un'efficacia. Senonché, quand'anche legate a modelli di comportamento diversi da quelli maschili, tutte le donne anche quelle oneste, soprattutto quelle oneste dovevano ammirare le qualità virili. Al punto da tentare di possederle, ove possibile. E poiché certamente non potevano aspirare a essere forti, si sforzavano di possedere l'unica virtù maschile che non fosse incompatibile con il loro ruolo. Ma inevitabilmente e quasi automaticamente, in loro l'astuzia diventava inefficace. A meno, appunto, che non appartenessero a quella categoria di donne che non possedeva le virtù femminili: "le altre", le donne poco oneste. Sul che peraltro, come accennavo, torneremo più avanti. Alla luce di queste considerazioni, cominciano a sorgere dubbi sulla ricorrente affermazione che le figure femminili, in particolare quelle dell'Odissea, presentino l'immagine di una donna saggia, consigliera, protettrice e guida dell'uomo. 18 Per non parlare, poi, dell'idea dell'Odissea poema "delle donne", formulata sulla fine del secolo scorso da Samuel Butler, famoso traduttore inglese di Omero. 19 Partendo dalla considerazione della maggior attenzione prestata nell'Odissea (rispetto all'Iliade) alle figure e ai temi femminili, alla casa e all'analisi psicologica dei personaggi, Butler arrivò a dire che il poema era stato scritto da una donna. Più precisamente, nonché incredibilmente, da una nobildonna di Trapani, il cui personaggio sarebbe descritto autobiograficamente in quello di Nausicaa.
L'ipotesi, ricordata come divertente curiosità, non merita evidentemente gran discussione.
Mentre merita certamente di essere valutata anche se, a questo punto, unita a qualche perplessità l'idea, che periodicamente ritorna, di un'Odissea dominata da figure femminili di grande rilievo, ove giocherebbe un ruolo di primaria importanza e godrebbe di grande dignità sociale una Penelope dotata di intelligenza, capacità di iniziativa e formidabile costanza: nell'isola dove i suoi sudditi avevano dimenticato il loro re, solo Penelope infatti avrebbe tenuto viva la sua memoria. 20 L'idea di una Penelope le cui qualità, per usare le parole di Nicole Loraux, consentirebbero di scoprire "il femminile come l'oggetto più desiderato dai Greci". 21 Un'idea seducente, non c'è che dire. Ma che, a ben vedere, si scontra con non pochi ostacoli, di cui la considerazione dell'inefficacia dell'astuzia di Penelope non è che l'inizio.
Penelope tra pianti e ambiguità. Spogliata della sua veste "astuta", Penelope, si potrà dire, resta pur sempre virtuosa. Ma ne siamo proprio sicuri? Per quanto possa apparire sorprendente, la pudicizia e soprattutto la fedeltà di Penelope sono tutt'altro che al di fuori di ogni sospetto.
Più di una volta, Penelope appare diversa dalla sua plurisecolare, consolidata, inossidabile immagine di moglie incorruttibilmente fedele. 22 Nelle sue stanze, di giorno e di notte, questo è vero, Penelope piange. Piange per la lontananza del marito, piange per l'incertezza della sua sorte, si dispera all'idea di nuove nozze. Ma ai pianti alterna momenti di ripensamento, durante i quali sembra prendere in considerazione l'ipotesi di prendere nuovamente marito. Sin qui, come non comprenderla? Restare sola, per una donna, era semplicemente impensabile. E i pretendenti premevano, forzavano la mano alla regina, in realtà priva di qualunque potere. Non sto parlando, qui, di potere politico. Questo era per definizione maschile. Parlo di potere di decidere della propria vita. Di autonomia. Penelope, come le altre donne (salvo alcune figure che vedremo, peraltro del tutto anomale) di autonomia ne aveva poca: anche se, in verità, né suo padre Icario né suo figlio Telemaco intervengono nelle sue decisioni, o quantomeno non vi intervengono pesantemente. Telemaco, questo è vero, esasperato dai soprusi dei proci, sul finire del poema spinge la madre a risposarsi. Ma non la forza. Senonché (qui cominciano le sorprese) a quanto pare Penelope non ha gran bisogno di incoraggiamenti, per decidere di riprendere marito. Come dicono i pretendenti, ella si comporta non poco stranamente.
L'insospettabile Penelope fa il doppio gioco. Da un canto rinvia le nozze fingendo di tessere il sudario per Laerte; dall'altro, da anni, illude i suoi pretendenti, facendo nascostamente promesse a ciascuno di loro. Dice Antinoo: È già il terzo anno, e vien presto il quarto, che [Penelope]
illude il cuore nel petto agli Achei, e tutti induce a sperare, fa promesse a ciascuno mandando messaggi... (Od., 2, 89-92). Ovviamente, Antinoo è parte in causa. Forse non è del tutto obiettivo. Ma Atena, a Scheria, nell'esortare Ulisse a tornare in patria e a vendicarsi dei
"pretendenti sfrontati" che da anni spadroneggiano in casa sua, non esita a dirgli che sua moglie
"tutti li illude e fa promesse a ciascuno, mandando messaggi" (Od., 13, 380-381). Ad alimentare i dubbi contribuisce il fatto che, dice Omero, Anfinomo "luminoso" (uno dei suoi tanti spasimanti) ... e molto a Penelope piaceva pei suoi discorsi: aveva buon sentimento. (Od., 16, 397-398). Strano comportamento, in verità, quello di Penelope. Non doppio, ma triplo gioco. Messaggi segreti, promesse... Non a un solo pretendente. A tutti. Del resto, che Penelope fosse tentata dal pensiero di riprendere marito è cosa che Telemaco dichiara esplicitamente: "l'animo nel suo petto è indeciso", egli dice, ella non sa se qui con me rimarrà a curare la casa, avendo riguardo al letto nuziale e alla voce del popolo, e se ormai seguirà chi tra gli Achei è più nobile e la corteggia in palazzo, offrendo doni infiniti. (Od., 16, 74-77).
Sorprende, in verità, il riferimento ai "doni infiniti" dei pretendenti. Offrire doni alla sposa era quel che richiedeva l'etichetta del corteggiamento: ma i pretendenti di Penelope sono costantemente accusati di non rispettare la regola, sovvertendola e impoverendo il patrimonio di Ulisse. A ben vedere, più che una contraddizione, il riferimento di Telemaco ai "doni" appare come un'anticipazione. Nel diciottesimo canto, infatti, Penelope, senza ragione apparente (un altro dei suoi momenti di ambiguità), decide di scendere fra i pretendenti che banchettano, e si indigna di fronte al modo inurbano e rozzo con cui questi trattano Ulisse, che, sbarcato a Itaca, ha assunto per intervento di Atena l'aspetto di un mendicante. Duramente, Penelope li rimprovera per la loro tracotanza, ma concludendo il discorso non dimentica di aggiungere che, ormai, si avvicina il giorno in cui dovrà consentire alle nozze: e a questo proposito lamenta che un tempo i corteggiatori usavano portare doni, "bovi e floride pecore, pranzo per la famiglia della giovane chiesta". I suoi pretendenti, invece, divorano i beni di Ulisse. Ed ecco i pretendenti accogliere l'invito e, a gara, offrirle pepli, fibbie d'oro, collane, pendenti di perle
"grosse come le more", che Penelope si guarda bene dal rifiutare. Al contrario, subito dopo averli ricevuti si ritira nelle sue stanze seguita dalle ancelle, e mette i "doni bellissimi" al sicuro (Od., 18, 290-303). Penelope insomma sta seriamente meditando di risposarsi: come ella stessa dichiara a Ulisse, nel corso di un interessante colloquio, sul quale vale la pena soffermarsi.
Siamo nel diciannovesimo canto: in veste di mendicante, Ulisse, rientrato dopo vent'anni nella sua casa, trova i proci che la fanno da padroni, che si fanno beffe di lui, lo svillaneggiano, arrivano a percuoterlo. Penelope, nelle sue stanze, viene a sapere dell'accaduto e si sdegna: anche un mendicante è un ospite, come tale va trattato. E poi, questo mendicante viene da lontano, da chi sa dove: potrebbe aver notizie di Ulisse. Penelope vuole parlargli, raccontargli le sue sofferenze. Il suo cuore, ella gli confessa quando egli viene ammesso alla sua presenza, ...
con moti opposti s'agita di qua e là, se restare col figlio e serbare fedelmente ogni cosa, la mia ricchezza, gli schiavi, il palazzo alto e grande, avendo riguardo al letto nuziale e alla voce del popolo; oppure ormai seguire tra gli Achei chi è più nobile, e mi corteggia in palazzo offrendo doni infiniti. (Od., 19, 524-529). Insomma: se è possibile che i pretendenti calunnino la regina, quando dicono che invia loro messaggi e che li illude facendo pensare a ciascuno di essere il prescelto, è anche possibile che essi dicano la verità. Penelope a ben vedere. La fedeltà a oltranza, insomma, è solo una delle vesti della regina di Itaca: della quale, nei poemi, è possibile cogliere anche un'altra, diversa immagine. 23 In realtà desiderosa di risposarsi, Penelope non prende decisioni solo perché, come esplicitamente dichiara, teme grandemente la demu phemis, la riprovazione popolare (Od., 19, 524-529; 16, 73-77). Più volte, senza necessità, si reca fra i pretendenti, 24 ben sapendo l'effetto che la sua apparizione provoca sui loro bramosi e incontrollabili spiriti. Alla vista della regina, nel diciottesimo canto, Le gambe di quelli si sciolsero subito, incanto d'amore li vinse, e bramarono tutti di stendersi in letto con lei. (Od., 18, 212-213). Penelope sembra conoscere e voler sfruttare l'effetto della sua bellezza.
Sembra quasi voler provocare i pretendenti. Ma quel che più sorprende è la sua decisione di organizzare la gara dell'arco, per scegliere il nuovo marito. Alla decisione, che dice farla tanto soffrire, Penelope giunge, infatti, proprio nel momento in cui è venuta a sapere che Ulisse è non solo vivo, ma sta per tornare. Telemaco le ha detto di aver saputo che Ulisse non è ancora arrivato a Itaca solo perché trattenuto da Calipso (Od., 17, 142-146). Teoclimeno, l'indovino, ha predetto la morte dei proci (Od., 20, 351-357). E Ulisse stesso, in veste di mendicante, ha interpretato un sogno di Penelope, sul quale vale la pena soffermarsi. Torniamo, dunque, al colloquio serale tra Penelope e Ulisse-mendicante. Dopo tanti anni, racconta Penelope, ella non ha più modo di resistere alle pressioni dei pretendenti. Persino il figlio, ormai cresciuto, vuole che si decida a riprendere marito. Ma dall'ospite vuole un parere. Vuole che interpreti un sogno, che è venuto a turbarla durante la notte: venti oche qui in casa mi beccano il grano, uscendo dall'acqua, e io mi diverto a vederle. Piombando dal monte un'aquila grande, becco adunco, a tutte spezzò il collo e le uccise; riverse giacevano in casa, in un mucchio; poi l'aquila al cielo luminoso s'alzò. E io piangevo e singhiozzavo nel sogno, e intorno mi si stringevano le Achive bei riccioli, perché triste piangevo che l'aquila m'avesse ucciso le oche. A un tratto, tornando, s'appollaiava sull'orlo del tetto, e con parola umana mi tratteneva, mi disse:
"Coraggio, figlia del glorioso Icario; non sogno, questa è visione reale, che si avvererà: l'oche i tuoi pretendenti, e io t'ero aquila prima, ma ora torno e sono il tuo sposo legittimo, e ai pretendenti tutti darò morte ignobile". (Od., 19, 536-550). L'interpretazione del sogno non è difficile, in verità: fatto salvo il numero delle oche assai minore di quello dei proci il suo senso è evidente. E Ulisse-mendicante si affretta a spiegarlo: Penelope può stare tranquilla, l'aquila è suo marito, che sta per tornare. Come le oche, tutti i pretendenti saranno da lui sterminati. 25
Ebbene: a questo punto, sorprendentemente, incomprensibilmente, Penelope comunica all'ospite che ha deciso di organizzare una gara, e che si concederà in moglie al vincitore: sposerà quello tra i proci che riuscirà a tendere l'arco di Ulisse, e a scagliare con esso una freccia che attraverserà gli anelli di dodici scuri, che Ulisse aveva piantato nel palazzo, come sostegno di chiglie. Ulisse-mendicante ovviamente la incoraggia a farlo: quale occasione migliore per compiere la sua vendetta? Ma Penelope non può conoscere il suo piano. E allora, perché dopo tanta resistenza decide di risposarsi proprio quando le è stato detto, da più parti, che il ritorno di Ulisse è questione di giorni, se non di ore? L'episodio, bisogna dire, ha messo a dura prova anche i più accaniti sostenitori della fedeltà di Penelope, costretti a ricorrere a spiegazioni fantasiose, come quella secondo la quale, sapendo già del ritorno di Ulisse, ella avrebbe organizzato con lui la gara, per uccidere i pretendenti. 26 In verità, una volta di più, il comportamento della regina è molto strano. 27 Donna ambigua, questa Penelope. Al punto che, a più riprese, diversi personaggi avanzano dubbi sulla paternità di Telemaco. Atena, per cominciare. Nientedimeno che Atena. Nell'esortare Telemaco ad andare a Pilo per avere notizie del padre, la dea si dice sicura del successo del viaggio: ma solo nel caso che egli sia veramente figlio di Ulisse. "Se invece non fossi figlio di lui e di Penelope, allora non spero che compirai quanto mediti" (Od., 2, 274-275). Lo stesso dubbio esprime, senza remore, il vecchio Nestore: tuo padre, egli dice a Telemaco, superava tutti negli inganni "se davvero sei figlio di lui" (Od., 3, 122-123). Telemaco stesso appare incerto sulla propria ascendenza. Interrogato da Atena che, in veste di ospite, gli chiede se è veramente figlio di Ulisse, prudentemente le risponde che "... di lui mi dice la madre, ma io non lo so. Nessuno da solo può sapere il suo seme" (Od., 1, 215-216). Come se non bastasse, persino Ulisse sembra coltivare qualche dubbio: vai al palazzo, dice a Telemaco dopo essersi fatto riconoscere da lui, ma non parlare con nessuno del mio ritorno "se davvero sei mio, se sei del mio sangue" (Od., 16, 300). Il dubbio sulla paternità esiste sempre, questo è vero. Ma quelli avanzati su Penelope, in verità, sono troppi. E se dall'Odissea si passa ad altre fonti, i dubbi si consolidano. Nella Epitome della Biblioteca di Apollodoro (7, 38), per cominciare, leggiamo che secondo alcuni Ulisse, tornato a Itaca, rimandò Penelope dal padre Icario, perché si era fatta sedurre da Antinoo (secondo altri, invece, Ulisse l'avrebbe uccisa perché si era fatta sedurre da Anfinomo).
Seguendo la tradizione di Mantinea, riportata da Pausania (8, 12, 5 sgg.), Penelope, dopo il ritorno di Ulisse, sarebbe stata bandita da Itaca per infedeltà, e dopo un lungo esilio, dapprima a Sparta e quindi a Mantinea, sarebbe morta in quella città, ove si troverebbe la sua tomba.
Cicerone (La natura degli dèi, 3, 22, 56) ricorda la tradizione secondo cui, unitasi a Ermes, Penelope avrebbe generato Pan, e gli scolii di Tzetze all'Alessandra di Licofrone (v. 772) arrivano significativamente a considerare Pan come generato da tutti i pretendenti. Dubitare delle celebrate virtù di Penelope, insomma, sembra più che lecito. Eppure la critica, saldamente ancorata al mito della sua fedeltà, ha cercato in tutti i modi di evitare ogni sospetto, facendo ricorso, di volta in volta, a complicate spiegazioni psicologiche, e, quando queste non bastavano, al deus ex machina delle interpolazioni, o all'ipotesi della sovrapposizione di leggende diverse e mal amalgamate. 28 Le contraddizioni rimangono, tuttavia. Veramente strana, questa Penelope. E molto poco affidabile. Di lei diffidano proprio le persone che più dovrebbero stimarla, il figlio e il marito. Le lodi sperticate di cui Ulisse ricopre la moglie, infatti, sono solo parole. L'ammirazione verbale non gli impedisce, rientrato a Itaca, di svelare la propria identità dapprima a Telemaco (Od., 16, 188-189), quindi a Euriclea (ma solo dopo che questa lo aveva riconosciuto grazie a una cicatrice: Od., 19, 466-467), successivamente a Eumeo (Od., 21, 207-208) e solo da ultimo a Penelope, quando la vendetta è stata compiuta e i proci sterminati. 29 Perché un simile atteggiamento? La risposta è semplice: Penelope è una donna. E delle donne, tutte, bisogna sempre diffidare. Regola generale di comportamento che tutti conoscevano, ma che, comunque, Agamennone, nell'Ade, esorta Ulisse a non dimenticare:
... anche tu con la donna non esser mai dolce, non confidarle ogni parola che sai, ma di' una cosa e lascia un'altra nascosta. (Od., 11, 441-443) Agamennone, questo è vero, aveva le sue buone ragioni per non fidarsi delle donne. Ma la consapevolezza che Penelope era diversa da Clitennestra non gli impedisce di raccomandare a Ulisse: Altro ti voglio dire e tu mettilo in cuore: nascosta, non palese, alla terra dei padri fa' approdare la nave: è un essere infido la donna. (Od., 11, 454-456) E Ulisse non solo si guarda bene dal contraddirlo ma, tornato a Itaca, segue alla lettera il consiglio. Penelope è l'ultima a conoscere la sua vera identità. Per quanto carica di virtù, è pur sempre una donna. E quindi inaffidabile 30: così inaffidabile che Atena, apparsa in sogno a Telemaco, quando questi si trova a Sparta alla ricerca di notizie del padre, lo esorta a tornare subito a casa. Il padre e i fratelli di Penelope insistono perché sua madre sposi Eurimaco: ... quello che supera tutti i pretendenti coi doni, e sempre aumenta la dote. (Od., 15, 17-18). Torna a casa, dunque, dice Atena a Telemaco: Bada che [Penelope] non si porti via tuo malgrado qualche tesoro. Sai com'è il cuore nel petto di donna: vuol favorire la casa di colui che la sposa, e dei figli di prima e del caro marito morto non si ricorda più, né li cerca. Dunque, tornato a casa, affida di tua mano ogni cosa a quell'ancella che si mostra migliore, fino a che i numi t'insegnino una nobile sposa. (Od., 15, 19-26). Preoccupatissimo all'idea che la madre sottragga i beni familiari, Telemaco, svegliatosi nel cuor della notte, progetta una partenza a dir poco precipitosa: "[...] e i cavalli unghia solida / aggioga, spingendoli sotto il carro: affrettiamo il cammino" egli ordina, svegliandolo, al figlio di Nestore, Pisistrato, che lo ha seguito nel suo viaggio (Od., 15, 46-47). Pisistrato è costretto a ricordargli che sarebbe grave scortesia abbandonare Sparta senza consentire a Menelao, che li ha ospitati, di portar loro i doni che è consuetudine e dovere sociale fondamentale offrire agli stranieri ospitati. Telemaco è costretto ad ascoltarlo, ma solo dietro molte insistenze accetta di aspettare l'aurora. Egli sembra considerare non solo possibile, ma quasi inevitabile che la madre, passando a nuove nozze, gli sottragga "qualche tesoro". Infedele, volubile, interessata.
Al di là delle parole formali di elogio e delle espressioni verbali di affetto e di stima, ecco com'è, per l'uomo omerico, anche la migliore delle donne. Forse, alla luce di queste considerazioni, si possono comprendere meglio le ambiguità di Penelope. Forse, quantomeno in parte, queste ambiguità sono dovute alla contraddizione tra la funzione didattica della poesia epica e la mentalità di chi l'ascoltava (e dell'aedo stesso). Data la sua funzione di formazione culturale, la poesia doveva rappresentare una donna che simbolizzasse tutte le virtù femminili.
A Penelope toccò in sorte di essere quella donna. Ma il mondo in cui la poesia svolgeva questa funzione diffidava profondamente delle donne. Penelope, nei suoi diversi aspetti, nelle sue diverse manifestazioni e contraddizioni sembra riflettere tale contraddizione. Da un canto (prevalentemente) Penelope era il modello; dall'altro (di quando in quando: ma con una certa frequenza) era una donna, con tutti i caratteri e i difetti che gli uomini omerici pensavano che le donne avessero. 3. I pretendenti. Perché tanti pretendenti alla mano di Penelope? Quali sono le ragioni che spingono a un simile, inedito corteggiamento di massa? Cento otto pretendenti e uno strano corteggiamento Cento otto. Questo il numero dei proci indicato da Omero, che specifica: dodici Itacesi, cinquantadue da Dulichio, ventiquattro da Samo, venti da Zacinto. Ma in altre fonti il loro numero è ancora superiore. In Apollodoro sono centotrentasei: cinquantasette da Dulichio, ventitré da Samo, quarantaquattro da Zacinto e dodici sono di Itaca. HEpitome della Biblioteca (7, 26-30) fornisce un elenco completo dei nomi. Il solo numero invariato è quello dei pretendenti itacesi, dodici in tutte le fonti: Antinoo, Pronoo, Liode, Eurinomo, Anfimaco, Anfialo, Promaco, Anfimedonte, Aristrato, Eleno, Dulicheo e Ctesippo. Cosa spingeva tutti questi uomini a volere a ogni costo Penelope in moglie? La sua pur celebrata bellezza non basta a spiegare il corteggiamento di massa. Così come non bastano le sue altre virtù: se agli occhi della popolazione Penelope rappresenta e tiene molto a rappresentare l'immagine di una moglie perfetta, che ha aspettato con granitica fedeltà il marito assente, i pretendenti sanno benissimo che la realtà è diversa, che Penelope è ambigua e indecisa, astuta e ingannatrice. Quel tipo di donna, insomma, che un Greco non avrebbe mai voluto come moglie. Le ragioni che inducevano i proci a corteggiare Penelope vanno evidentemente cercate altrove. Ma prima di cercare di individuarle, è opportuno guardare un po'
più da vicino a questo, in verità, stranissimo corteggiamento: strano non solo e non tanto perché di massa, quanto per le sue modalità. A voler usare un eufemismo, il modo in cui i proci corteggiano Penelope è estremamente determinato. Per ottenerla in moglie sembrano pronti a tutto. Al corteggiamento si dedicano, tutti, a pieno tempo: il che, per quelli che venivano da fuori (come sappiamo, la grande maggioranza) comportava la necessità di trasferirsi a Itaca, ove soggiornavano, praticamente bivaccando, nella reggia di Ulisse. I dettagli della situazione non sono molto chiari. Come si sono organizzati, quelli che vengono dalle altre isole? Si sono trasferiti armi e bagagli sull'isola? Il fatto che alcuni di essi abbiano portato con sé i propri servi indurrebbe a pensarlo. Ma Omero, una volta, dice che terminato il banchetto i pretendenti tornano alle loro case. Forse allude solo agli Itacesi. Ma non è questo il punto. Quel che importa è che, in ogni caso, all'ora della cena sono tutti lì, nella reggia, a spadroneggiare, a dare ordini alla servitù, a pretendere pasti abbondanti e ricchissimi. Esigono che l'aedo Femio suoni per loro, chiedono alle ancelle i favori sessuali che spettano ai padroni. I proci, insomma, sono la personificazione stessa della tracotanza. Se il carattere degli altri personaggi odisseici è stato oggetto di discussioni e interpretazioni divergenti, quello dei pretendenti non ha mai creato problemi. Il loro comportamento e la loro psicologia sono così rozzi, così inarticolati da non consentire dubbi. La loro regola è la prepotenza, la loro misura inesistente, la loro legge la prevaricazione. Sono maleducati, avidi di cibo e di vino, maltrattano i più deboli, per raggiungere i loro scopi non esitano a uccidere con l'inganno (o quantomeno cercano, invano, con l'inganno, di uccidere Telemaco): e se uccidere apertamente, lealmente, non è certo biasimato nel mondo greco, uccidere con l'inganno è disdicevole, contravviene al codice eroico. 31 Inoltre sono disorganizzati, agiscono in modo disordinato, senza un piano preciso.
Insomma, sono l'antitesi dell'eroe: perché l'eroe, è vero, è "il più forte". Ma conosce e rispetta le regole del codice eroico. I proci, invece, le infrangono continuamente. Nel corteggiare Penelope tengono un comportamento e commettono atti contrari non solo alle regole della creanza, ma anche alle norme fondamentali che regolano i rapporti tra appartenenti a gruppi familiari diversi: tra le quali, in primo luogo, le regole della ospitalità (xenie), il cui rispetto era così importante da poter essere definito imprescindibile. I proci e Ulisse: le regole dell'ospitalità e il loro ruolo economico e politico. Nel mondo antico, l'ospitalità non era solo una questione di etichetta, non riguardava solo le buone maniere: al contrario, svolgeva funzioni essenziali alla sopravvivenza fisica dei viaggiatori e a quella politica ed economica dei gruppi familiari. In un mondo nel quale i viaggi erano lunghi e pericolosi per cominciare, ma non solo, se si trattava di viaggi per mare era essenziale sapere che giungendo in un determinato luogo si incontravano amici, si era al riparo da aggressioni e rapine, si veniva rifocillati, rivestiti, ci si ritemprava dalle fatiche, si ricevevano provviste per il seguito del viaggio. In poche parole, si trovavano degli amici. Sui quali, in caso di necessità, si poteva contare anche come alleati. A trasformare un gesto di semplice ospitalità in una relazione duratura, che si trasmetteva di generazione in generazione, provvedeva infatti il meccanismo (meglio sarebbe dire, forse, il rituale) dello scambio dei doni ospitali. Quando uno straniero, dopo aver ricevuto ospitalità, lasciava la terra e la casa che lo aveva accolto, il padrone di casa, al momento del congedo, gli offriva un dono, più o meno ricco a seconda della prosperità della
"casa", che impegnava il ricevente a ricambiare, con doni adeguati, quando colui che lo aveva ospitato o un appartenente alla famiglia di questi fossero giunti, in futuro, alla sua casa. Come dice Laerte a Ulisse, che per mettere alla prova il padre, prima di farsi riconoscere, gli dice di essere alla ricerca del re di Itaca, che afferma di aver ospitato un giorno nella sua casa: Inutili doni facesti, donando le molte cose che dici: se vivo, però, lo trovavi tra il popolo d'Itaca, resi bei doni e cara accoglienza t'avrebbe fatto partire: così è la regola, se uno ha donato per primo.
(Od., 24, 283-286). 32 Dallo scambio dei doni ospitali, dunque, nasceva un legame stabile, che non solo rappresentava la base di future alleanze militari, ma svolgeva anche una essenziale funzione economica. L'economia omerica, infatti, era basata in primo luogo sull'attività domestica, di tipo prevalentemente agricolo pastorale, e in misura minore artigianale: grazie a quest'attività, all'interno del gruppo familiare venivano prodotti, basilarmente, i beni di sussistenza. 33 Ma vi erano alcuni beni che nessun gruppo familiare poteva procurarsi al proprio interno. Tra di essi, in primo luogo (oltre alle donne da sposare) i metalli 34 e la mano d'opera servile. 35 Ma procurarsi beni "all'estero" (prescindiamo qui dalle mogli, pensiamo solo a oggetti e schiavi) significava sottrarli ad altri, sia attraverso le guerre sia attraverso le razzie in territorio straniero, cui gli eroi si abbandonavano spesso e volentieri, e di cui altrettanto spesso e volentieri si vantavano. 36 Menelao, al termine della guerra di Troia, non torna direttamente a Sparta, ma, come egli stesso dice a Telemaco "in quelle regioni molta ricchezza riunendo erravo" (Od., 4, 90-91). Ulisse non è da meno: sempre tornando da Troia (di nuovo, è lui stesso a raccontarlo) giunto alla terra dei Ciconi e alla città di Ismaro "qui io incendiai la città e li dispersi; / dalla città le donne e molte ricchezze rapimmo / e le spartimmo, sicché nessuno fosse privo del giusto" (Od., 9, 40-42). 37 Zeus, parlando di Ulisse, dice che i Feaci lo ricondurranno a Itaca donandogli tanti beni "quanta ricchezza da Troia mai Ulisse avrebbe preso, / se incolume fosse tornato, con la sua parte di preda" (Od., 5, 39-40). La guerra e la pirateria, insomma, procuravano "beni infiniti": beni rari, beni che non era possibile procurarsi in patria. Beni "di prestigio", come si usa definirli. 38 E questi beni circolavano in modo diverso da quello in cui circolavano i beni prodotti all'interno dell'oikos. 39 Mentre i beni di sussistenza venivano ridistribuiti dal capo all'interno del gruppo, 40 i beni di prestigio venivano scambiati, in larga misura, attraverso il meccanismo dei "doni ospitali". 41 74 75
Sempre, rigorosamente, chi riceve un dono lo restituisce, perché, come spesso è detto esplicitamente, restituire è themis, è consuetudine alla quale non si può derogare. 42 Eppure, la prima regola che i proci violano e lo fanno quotidianamente, sistematicamente è proprio quella dell'ospitalità: imponendo la loro presenza nella reggia di Ulisse, essi, anziché portare doni, pretendono che vengano arrostite per loro le carni più pregiate: ogni giorno i pastori che custodiscono gli animali di Ulisse devono portare ai proci un capro, e "io," racconta Eumeo, il porcaio fedele, "queste scrofe gli custodisco e difendo / ma a loro il porco migliore devo mandare, ben scelto" (Od., 14, 107-108). I proci e la hybris. Ma i proci non violano solo le regole dell'ospitalità. Per limitarci agli aspetti più gravi e più visibili del loro comportamento, come già sappiamo, essi corteggiano Penelope in modo inurbano, sono arroganti con Telemaco, che meditano addirittura di uccidere, si uniscono sessualmente alle ancelle di Ulisse, e costringono Femio, il suo aedo, a cantare per loro. Come definire, complessivamente, il loro comportamento? Omero, quando vi allude, usa costantemente una parola: hybris. Un termine notissimo, frequentissimo in tutta la letteratura greca, e in particolare nella tragedia, abitualmente tradotto con "tracotanza", "dismisura". 43 Cosa significa, esattamente? Ipotesi sulla hybris. Secondo l'interpretazione un tempo pressoché unanime la hybris era una tracotanza che faceva dimenticare all'essere umano i limiti della propria natura mortale o, peggio ancora, lo induceva a tentare volontariamente di valicarli. 44 La hybris, in altri termini, era un illecito religioso. Ma già a partire dai primi anni del ventesimo secolo vi è stato chi ha cercato di allontanarsi da questa interpretazione, osservando che in Omero i comportamenti definiti hybris sono di tipo diverso. 45 Più precisamente, sono comportamenti che violano la eunomie: ed eunomie (un hapax, nei poemi: Od., 17, 485-487) è termine che non sta ancora a indicare l'ordine determinato da un sistema di leggi (nomoi), bensì la giusta divisione fra le sfere d'influenza delle stirpi familiari (i ghene), 46 dalla quale dipendeva la convivenza della collettività omerica 47: comportamenti quali il furto, dunque, la sottrazione di beni fra gruppi familiari o l'occupazione di terre del vicino. 48 Per capire la hybris, si cominciò a dire, bisogna guardare alla società dei mortali, non al rapporto con gli dèi. Ma per molto tempo queste idee rimasero praticamente isolate. Solo dopo circa mezzo secolo vi fu chi, nel riprendere l'argomento, mise in luce il lungo equivoco nel quale erano caduti i precedenti interpreti. 49
Solo da allora si è cercato di delineare i contorni del comportamento definito hybris guardando ai rapporti tra i mortali, non ai loro rapporti con gli dèi. E le ipotesi sono state molte. La hybris, si è cominciato col dire, era il comportamento di chi trattava un cittadino come schiavo o come straniero. 50 Una definizione interessante, che coglie certamente uno dei modi nei quali la hybris poteva manifestarsi, ma non ne descrive tutte le possibili manifestazioni. Come capì, del resto, lo stesso autore che l'aveva proposta, ampliando in anni successivi la definizione, sino a includervi il comportamento di chi, spinto dal desiderio di affermare la propria superiorità, o convinto di poter disporre degli altri come di oggetti, commetteva violenza attaccando fisicamente, spingendo, trascinando un'altra persona o limitandone la libertà. 51 Altri ha sostenuto che un comportamento, per essere "hybristico", doveva avere alcune cause e alcune conseguenze caratteristiche. 52 Le cause erano la gioventù, l'eccesso di cibo e di vino e la ricchezza: cause, tutte, che rendendo un individuo "pieno di sé" lo facevano indulgere alla soddisfazione dei propri desideri, senza alcun rispetto di quelli altrui e per gli altrui diritti. I risultati erano azioni nel migliore dei casi inutili e nel peggiore sbagliate: continuare a mangiare e a bere oltre il necessario, un'eccessiva attività sessuale, uccidere, colpire, appropriarsi di cose e privilegi altrui, sbeffeggiare, disobbedire all'autorità, sia divina sia umana. La hybris consisteva nell'avere energia o potere e abusarne in modo egoistico. 53 Ma essa non aveva sempre e necessariamente una vittima: se nella maggioranza dei casi questa esisteva, altre volte era definito hybris un comportamento che non provocava danno a terzi. Per essere hybris, inoltre, un comportamento oltraggioso doveva essere accompagnato da un determinato atteggiamento mentale. Come scrive Aristotele nella Retorica (1378 b, 23, 9), "è causa di piacere per coloro che commettono hybris il pensare che, comportandosi male, essi sono superiori agli altri. Ed è questa la ragione per la quale i giovani e i ricchi sono hybristai.
Essi pensano infatti, commettendo hybris, di essere superiori". 54 Difficile discutere la testimonianza di Aristotele. Ma l'idea che vi potesse essere una hybris senza vittime suscita non pochi dubbi. Limitiamoci alla hybris che ora ci interessa, quella omerica: per verificare se questo comportamento ha o meno una vittima, torniamo al comportamento hybristico per eccellenza, quello dei proci. La hybris dei proci: la "dismisura" nell'affermazione dell'immagine. Due sono i casi citati a dimostrazione del fatto che la hybris non aveva necessariamente una vittima: nel primo canto dell'Odissea i proci banchettano nella casa di Ulisse hybrìzontes (Od., 1, 227); nel quarto canto, essi lanciano il giavellotto dinnanzi alla reggia di Itaca, hybrìn echontes (Od., 4, 625-627). Ma a ben vedere ambedue i passi dimostrano esattamente il contrario: in ambedue, infatti, la vittima esiste, ed è ovviamente Ulisse, nella cui casa i proci spadroneggiano, dilapidano i suoi beni, offendono Telemaco e Penelope, hanno rapporti sessuali con le ancelle. Comportamenti diversi, che hanno tutti un tratto in comune, dal più grave al più lieve (come il giocare a dadi dinanzi alla reggia): offendono l'onore di Ulisse, la sua time. I concetti di time e di hybrìs infatti sono strettamente legati. L'individuo omerico lo abbiamo visto per "essere detto" deve affermare la sua time. E
per farlo, in primo luogo, deve riuscire in quello che si propone. Inevitabilmente, di conseguenza, gli agathoi non sono uguali, al loro interno: alcuni sono più agathoi di altri, hanno più arete e di conseguenza maggiore time. E chi ha maggior time pretende che questa gli venga riconosciuta. La lite fra Achille e Agamennone è paradigmatica: Achille è più forte di Agamennone, gli Achei riconoscono la sua superiorità (Il., 2, 239 e 769). 55 Ma Agamennone approfitta del suo potere di capo dell'esercito per offenderlo, togliendogli Briseide (Il., 16, 53-59). Donde la reazione di Achille. L'equilibrio, nel rapporto fra agathoi, è molto instabile: da un canto, ogni agathos deve mostrare il suo valore, e poiché questo, come ben sappiamo, sta in primo luogo nella forza, è praticamente costretto a esercitarla ed esibirla. Dall'altro, egli deve rispettare la time altrui, a sua volta dipendente dal valore, e quindi dalla forza. La complessità della situazione è evidente. L'equilibrio fra queste due esigenze quasi incompatibili fra loro è delicatissimo. Ed è all'interno di questo difficile rapporto che acquista significato e ragion d'essere il concetto di hybrìs come "dismisura", come superamento di un limite: del limite, appunto, che non bisogna valicare, nel momento pur estremamente competitivo dell'affermazione del proprio onore. Tradizionalmente considerati due concetti autonomi l'uno dall'altro, hybrìs e time sono dunque strettamente legati. Ciò che unifica le diverse ipotesi di hybrìs non è il comportamento materiale, bensì la circostanza che, in tutte, essa "comporta una rottura di status, un insulto o un disonore all'altro". 56 Cosa questa, del resto, detta esplicitamente da Aristotele, a proposito dei rapporti tra Agamennone e Achille: Agamennone, sottraendo Briseide al Pelide, ha offeso la time di questi, e, scrive Aristotele, hybreos de atimia,
"è proprio della hybrìs provocare atimia" (Retorica, 1378 b, 23-25). 57 Questa, a ben vedere, la connotazione fondamentale della hybrìs: come del resto conferma, a livello lessicale, l'intercambiabilità dei verbi hybrìzein e atimazein. Torniamo ancora una volta alla lite fra Agamennone e Achille: l'offesa all'onore di Achille è legata al fatto che Briseide gli era stata assegnata come premio (gheras). In che senso? Per capirlo bisogna pensare alle regole che presiedevano alla divisione del bottino. Al termine della battaglia, tutto quanto era stato sottratto al nemico veniva diviso in due parti: una prima parte che veniva divisa a sorte, in parti uguali, fra tutti i soldati; una seconda parte che il comandante distribuiva come premio fra gli eroi, proporzionalmente al valore dimostrato. Come gheras, appunto: e un gheras, una volta assegnato, non poteva più essere tolto. Ecco perché sottrarre a un eroe il segno tangibile, la misura concreta della sua virtù eroica voleva dire "disonorarlo". Un concetto espresso, indifferentemente, dai verbi atimazein (Il., 1, 356 e 507; 9, 111 e 16, 59) e hybrìzein (IL, 9, 368). L'equivalenza dei due verbi torna con riferimento a tutti i comportamenti in qualche modo riprovati: in primo luogo le violazioni del diritto di una persona a godere in modo esclusivo di determinati beni. In altri termini, le violazioni del diritto di proprietà individuale, che, contrariamente a quanto spesso si afferma, è già riconosciuto non solo sui beni mobili, ma anche sugli immobili. 58 La regola che garantisce rispetto di questo diritto è, appunto, quella del rispetto della time: ogni interferenza nella gestione dei beni altrui è percepita, oltre che come lesione economica, e al di là di questa, come lesione dell'onore. Tra i comportamenti offensivi dei proci anch'essi, indifferentemente, qualificati atimazein o hybrìzein 59. quello sul quale Telemaco insiste maggiormente è proprio il fatto che essi dilapidano i beni di Ulisse. Lo stesso dicasi a proposito dei rapporti fra Paride e Menelao: al di là della violazione dell'ospitalità e del ratto di Elena, tra i torti di Paride sta la sottrazione di "molte ricchezze" (Il., 3, 91 e 458; 7, 350-351 e 13, 626-627). E anche il comportamento di Paride è definito sia atimazein sia hybrìzein. 60. A questo punto, una conclusione si impone: se la caratteristica della hybrìs è modificare uno status-gap è evidente che nessun comportamento è in sé hybristico.
Quel che è hybrìs nel rapporto fra due persone può non esserlo nel rapporto fra altre due. 61.
Con riferimento ai poemi (diversa la situazione in età più avanzata, quando i termini della questione cambiano, con il mutare delle condizioni materiali e dei valori) questo significa che il concetto di hybrìs è esclusivamente aristocratico: solo degli agathoi è l'etica del successo, premiata dal riconoscimento della time. Ricordiamolo: l'uomo in bisogno, il povero, non deve sentire aidos (Od., 17, 347 e 352; 17, 578). La vergogna non gli appartiene, dunque non può né commettere né subire hybris. La storia di Tersite basta a provarlo. Tersite, sostanzialmente, rivolge ad Agamennone gli stessi rimproveri che gli ha mosso Achille: sei sfrontato, "cuore di cervo", sei avido di guadagno, combatti solo per il tuo tornaconto personale. 62 Ma Achille, per aver detto questo, riscuote il plauso degli Achei, che biasimano Agamennone per averlo offeso. Tersite invece viene percosso da Ulisse, che a questo scopo usa lo scettro a mo' di bastone, con grande giubilo dell'esercito, secondo il quale questa è la cosa migliore che il re di Itaca abbia fatto per i Greci (Il., 2, 274-277). Le ragioni della diversa reazione sono ovvie: la logica che presiede ai rapporti fra Achille e Agamennone è quella del rispetto della time: Agamennone ha offeso la time di Achille, e questi non solo può, ma deve reagire, perché subire sarebbe viltà. Tersite invece non è un agathos. Nei rapporti fra lui e Agamennone la logica della time non entra, Agamennone non sente neppure il bisogno di rispondergli. La sola risposta che merita, le percosse di Ulisse, si iscrivono in un'ottica diversa, quella della punizione di chi ha osato ribellarsi al potere. Solo inserita nel quadro dei rapporti fra agathoi la hybris svela la sua importanza e la sua funzione nei poemi. In un mondo nel quale la prevaricazione è non solo consentita, ma in qualche misura necessaria e qualificante per chi la commette, deve pur esservi un criterio che stabilisca il limite, oltre il quale un comportamento è considerato inaccettabile: il concetto di hybris sta, appunto, a segnare questo limite. L'etica del successo considera che esista una sfera, un settore, una certa porzione della time altrui che l'agathos, se vuole affermare la propria time, non solo può, ma in qualche misura deve intaccare; vi è dunque una parte dell'immagine sociale altrui che l'agathos che voglia riconfermare la propria immagine deve inevitabilmente offuscare. Ma esiste un limite oltre il quale non è consentito andare, rappresentato da quel che è necessario e sufficiente per offrire agli altri un'immagine di sé, corrispondente al modello dell'agathos. Superare questo limite, valicare questo confine vuol dire essere animati non più dalla lodevole intenzione di mostrare la propria arete, ma da quella (poco lodevole) di offuscare oltre il necessario e quindi inutilmente l'immagine altrui. Vuol dire strafare, voler stravincere: come conferma l'esame del rapporto tra hybris e bie. I termini hybris e bie infatti sono spesso collegati. Ma il collegamento non sta a indicare un'uguaglianza. L'uso della forza non è hybris. È hybris solo l'uso eccessivo della forza. I proci hanno hybrin te bien "che giunge sino al cielo di ferro" (Od., 17, 565), usano la forza in modo smodato, oltre il necessario. Uno degli aggettivi che torna più di frequente a caratterizzare la hybris è hyperbios: i proci, di nuovo, hanno hyperbion hybrin (Od., 1, 368; 4, 321; 16, 410). Un altro termine che spesso accompagna il riferimento alla hybris è hyperphialos: sono hyperphialoi in quanto hybristai in primo luogo i proci (Od., 1, 227; 1, 134; 2, 310); sono hyperphialoi i Troiani, che condividono la hybris di Paride (Il., 13, 621 e 633; 21, 459); sono hyperphialoi e hybristai i Ciclopi (Od., 9, 175 e 9, 106). Infine, vi è un collegamento fra la hybris e l'avverbio lien ("troppo") a sua volta legato a un'idea di eccesso, di smodatezza, di dismisura (Od., 16, 86). Concludendo: la hybris in Omero è eccesso, smodatezza, dismisura nell'uso della forza, vale a dire nell'esercizio della qualità senza la quale non si è un agathos. È
un uso eccessivo della forza dovuto al desiderio di mostrarsi inutilmente superiori. Un eccesso nei rapporti tra agathoi all'interno del sistema di norme che regolano lo status sociale. 4. I fondamenti del potere. Torniamo alla domanda che ci eravamo posti a proposito del numero dei proci: perché mai un numero così spropositato di baldanzosi giovani aristocratici teneva tanto a impalmare la vedova di Ulisse? Ora che, accanto al loro numero, conosciamo anche la determinazione se così vogliamo chiamarla con la quale corteggiavano Penelope, la curiosità aumenta. Scartata l'ipotesi di un innamoramento di massa, non resta che trovare ragioni più prosaiche, ma certamente più attendibili. Evidentemente, il corteggiamento dei proci è interessato. Oltre che alla mano di Penelope, essi aspiravano a qualche vantaggio più concreto: i beni di Ulisse, forse? Vista da un canto la facilità con cui sperperavano questi beni e, dall'altro, la loro modesta entità, si direbbe di no. Quel che i proci volevano era il potere politico. Sposando Penelope, i proci aspiravano al trono di Itaca. Per qualche ragione, il matrimonio con la vedova del re era considerato un passaporto per la sovranità. Per capire le ragioni di questo collegamento, dunque, dobbiamo delineare le caratteristiche del potere omerico. La regalità omerica Da Itaca a Pilo, da Sparta a Troia, le città omeriche sono governate da un basileus. A Itaca il basileus si chiama Ulisse, a Pilo Nestore, a Sparta Menelao, a Troia Priamo. Ma che il basileus omerico fosse un re e, ammesso che lo fosse, quali fossero i caratteri della sua regalità, è cosa estremamente discussa. Secondo l'ipotesi tradizionale, l'organizzazione politica omerica sarebbe una monarchia ereditaria, sia pur diversa da quella micenea. 63 E a sostegno di questa ipotesi sembrerebbe porsi, a prima vista, la considerazione del ruolo svolto da Telemaco, una volta raggiunta la maturità. Ormai adulto, su consiglio di Atena, Telemaco convoca l'assemblea (Od., 1, 272-273 e 2, 6-7) e nel corso di questa siede sul trono di Ulisse (Od., 2, 14). Gli araldi eseguono i suoi ordini (Od., 2, 6-7).
Prima di prendere la parola, egli impugna lo scettro, simbolo del potere (Od., 2, 37-38). 64
Nell'Ade, ove Ulisse è sceso per interrogare l'indovino Tiresia, il fantasma di sua madre Anticlea gli dice che "Telemaco usa la terra regale (temenos) e banchetta ai pasti comuni, che colui che amministra la giustizia (dikaspolos aner) deve preparare. Infatti tutti lo chiamano"
(Od., 11, 185-187). A prima vista, insomma, Telemaco può apparire un principe ereditario, reggente in assenza del sovrano. 65 Ma a ben vedere non è così. In realtà, dopo la partenza di Ulisse vi è stato, a Itaca, un lungo vuoto di potere: per vent'anni, non sono stati mai riuniti né l'assemblea né il consiglio (Od., 2, 25-27). Naturalmente, si potrebbe imputare tutto questo al fatto che Telemaco, alla partenza del padre per Troia, era ancora un bambino. Ma se fosse stata questa la ragione (se egli fosse stato, vale a dire, un principe ereditario troppo giovane per esercitare le sue funzioni), qualcuno avrebbe esercitato i poteri in sua vece. In realtà, quel che appare dalla situazione itacese è che Telemaco non è istituzionalmente un principe ereditario.
In assenza del re, non esiste alcuna figura istituzionale cui spetti il compito di convocare consiglio e assemblea. Così come, a ben vedere (e contrariamente a quanto si dice) non esistono regole sulla convocazione dell'assemblea, neppure quando il re è presente. Il che non esclude, ovviamente, che di regola sia il re a convocarne la riunione: a Scheria, ad esempio, essa è convocata da Alcinoo. Ma a Itaca Telemaco (come vedremo meglio più avanti) non la convoca come sovrano o come figlio del sovrano, bensì come semplice cittadino. L'ipotesi di un potere esclusivamente regale di convocare l'assemblea sembra quantomeno discutibile. E a confermare questi dubbi interviene il confronto con quanto accade in altre città omeriche. A Troia, nell'ottavo canto dell'Iliade, la riunione plenaria dei cittadini non è convocata da Priamo ma da Ettore, che impartisce ordini agli araldi, tenendo nelle mani un'asta di bronzo cerchiata d'oro. Nel secondo canto, è ancora Ettore a sciogliere un'assemblea, presumibilmente da lui stesso convocata. 66 Le stesse considerazioni, tra l'altro (anche se, ovviamente, la diversità del contesto rende la considerazione meno rilevante), possono essere fatte a proposito della assemblea panellenica. Spesso convocata da Agamennone (Il., 2, 50 sgg. ; 9, 9 sgg.), anche l'assemblea dei combattenti achei viene talora convocata da altri eroi: nel primo canto è voluta da Achille, preoccupato per l'ira di Apollo; nel diciannovesimo canto è di nuovo Achille a convocarla, per comunicare la sua decisione di tornare a combattere (Il., 1, 54 e 19, 34-36); e al termine della riunione, nonostante la presenza di Agamennone, è Achille colui che la scioglie.
L'assemblea appare, insomma, come un momento molto libero di vita associativa che, anche se di regola è convocata dal re, può essere riunita su iniziativa di chiunque lo ritenga opportuno, e può essere sciolta da persona diversa da quella che l'ha convocata. 67 Il fatto che Telemaco convochi l'assemblea, dunque, non significa che egli sia il principe ereditario, e il suo comportamento durante l'assemblea convalida l'ipotesi di un vuoto di potere dopo la partenza di Ulisse. Al popolo riunito egli denuncia con veemenza i soprusi dei proci (Od., 2, 55-59 e 63-64), ma in apertura della seduta dice chiaramente che ciò di cui vuol parlare è una questione privata, non pubblica (Od., 2, 40-49): affermazione quanto meno singolare, se la carica regale fosse stata ereditaria. In questo caso, non di questione privata si sarebbe trattato, ma di un tentativo di usurpazione del potere. Per definizione una questione pubblica. Come se questo non bastasse, Telemaco non riesce a ottenere dagli Itacesi alcun aiuto: quando chiede ai suoi concittadini di aiutarlo a liberarsi dei proci, questi rifiutano di intervenire (Od., 2, 243-252).
Dall'assemblea, Telemaco non ottiene neppure la nave con la quale vuole andare a cercare notizie del padre. Se l'avrà, sarà solo per intervento di Atena (Od., 2, 285-288). La logica della legittimità sembra ignota al popolo di Itaca. L'unica logica che esso sembra conoscere è la forza. Telemaco, inoltre, non rivendica mai, per sé, un ruolo regale. Al contrario, egli appare perfettamente consapevole della precarietà della propria condizione, e deciso, o rassegnato (salvo nel momento finale della gara con l'arco) a non cimentarsi neppure con gli aspiranti al trono. Rispondendo ad Antinoo, uno dei proci, che mette in dubbio le sue possibilità di diventare re, egli dice che Non è un male esser un basileus: la sua casa subito abbonda di beni, ed egli è molto onorato. Ma principi [basileis] achei ce ne sono anche altri, e molti, in Itaca cinta dal mare, giovani e anziani. Qualcuno di loro abbia il regno, se è morto Ulisse luminoso.
Allora della mia casa io sarò finalmente padrone e dei servi, che m'acquistò Ulisse luminoso.
(Od., 1, 392-398). Così dice Telemaco, in un momento di disperazione, stanco dei soprusi dei pretendenti: il modo in cui essi si comportano nella sua casa gli appare intollerabile; il fatto che essi aspirino al trono che è stato di Ulisse, invece, sembra apparirgli quasi normale. Ma la cosa più interessante è la parola (sopra tradotta "principi") usata per alludere ai proci: basileis. Vero è che molti dei pretendenti alla mano di Penelope venivano dalle vicine isole, delle quali teoricamente si potrebbe pensare fossero i sovrani: ma è anche vero che altri abitavano la stessa Itaca. A Itaca, dunque, vi erano molti basileis. Proprio come a Scheria, ove pure i membri del consiglio di Alcinoo sono così chiamati. 68 Basileus, insomma, è parola che, oltre al capo della comunità, indica altri personaggi. Evidentemente, i capi dei diversi oikoi, "re" della loro casa, e forniti all'interno di questa di poteri amplissimi, per non dire assoluti, come eloquentemente dimostra la messa a morte dei dipendenti infedeli da parte di Ulisse, della quale ci occuperemo quando, con lui, giungeremo finalmente alla sua isola. 69 Come spiegare questa duplicità di significato? Per capirla è necessario fare un passo indietro, e ripensare, sia pur molto brevemente, a quel che accadde dopo il crollo dei Palazzi micenei. Quando, bruciati in un solo giorno tutti i Palazzi, la civiltà micenea scomparve, la Grecia visse un periodo di caos.
Scomparsa l'organizzazione burocratica centrale, rimasero solo i villaggi. Il tenore della vita materiale, artistica e spirituale inevitabilmente decadde. Le poche testimonianze sulla vita dell'ultimo scorcio del XIII e dell'XI secolo parlano chiaro: poche suppellettili di bronzo (solo a volte di ferro), trovate in genere nelle tombe; l'oro e l'argento completamente scomparsi; insediamenti per lo più poverissimi. Karphi, un villaggio montano cretese, situato sopra la pianura di Lassithi, può ben rappresentarne il paradigma: le abitazioni sono poco più che capanne, costruite di argilla e di fango. Molto raro il ricorso alla pietra locale. La pavimentazione delle strade appare rudimentale. I soli luoghi pubblici di cui rimane traccia sono un recinto, probabilmente destinato a scopi di culto, e uno spiazzo, forse la piazza.
Dreros, Vrokastro, Olous, gli altri villaggi montani dell'isola, erano forse ancora più miseri. 70
Solo le ceramiche, tra i resti della cultura materiale, rivelano una indiscutibile continuità con la tradizione micenea. 71 Ma in questi villaggi, per quanto poveri, la vita continuava: e continuava a esistere un minimo di organizzazione sociale. I capi dei gruppi familiari (detti basileis) governavano ciascuno la propria famiglia, ma uno di essi aveva maggior prestigio, maggior potere, maggior influenza sulle decisioni collettive. Poco alla volta, tra i capi dei diversi oikoi, questo personaggio cominciò ad assumere un ruolo dominante. E questo ruolo dominante, riconosciutogli dalla "voce popolare", con il tempo conferì al basileus una posizione speciale nei confronti degli altri, e il nome di basileus skeptuchos. Il "re" con lo scettro. Difficile dire quando questo accadde, ma, attorno al mille, dal periodo un tempo detto "oscuro" della storia greca cominciano a emergere i segni di una nuova organizzazione di vita collettiva: una vita simile a quella di Itaca, con i suoi basileis e un basileus skeptuchos. Il "re" che, per qualche ragione e in qualche modo, accanto al potere familiare, ha assunto un potere pubblico: ma come, con quale criterio, in base a quale regola, se una regola esisteva? Il ruolo della forza.
Al di fuori di ogni previsione istituzionale, il potere regale a Itaca si fonda su una posizione di forza. Così come, a ben vedere, tutti i rapporti sociali, sia individuali sia collettivi: il rapporto fra Telemaco e i proci, quello fra i proci e gli abitanti di Itaca. L'unica legge alla quale si richiamano gli Itacesi in assemblea, l'unica legge alla quale lo stesso Telemaco fa riferimento è appunto quella della forza. Mai, in tutta la vicenda, un riferimento a una regola diversa. Il che spiega un episodio altrimenti incomprensibile della storia dinastica di Itaca: Ulisse è re nonostante suo padre Laerte sia ancora in vita. Certo, Laerte è vecchio. Ma Nestore, vecchissimo, continua a governare Pilo: nell'Iliade si dice che egli regna già sulla terza generazione (Il., 1, 250-252), nell'Odissea lo troviamo, a Pilo, mentre regna sulla quarta (Od., 3, 245). Anche Priamo è molto vecchio. Eppure, nonostante, come Nestore, abbia dei figli perfettamente in grado di sostituirlo, egli governa ancora, attorniato, come Nestore, dal rispetto che nei poemi circonda la vecchiaia. 72 Perché allora Laerte non è più re? Perché, a differenza di Nestore e di Priamo, egli non ha più la forza per esserlo. Nestore e Priamo sono ancora attivi, fisicamente e psichicamente ancora saldi. Laerte è un vecchio svuotato di ogni energia, riesce a sorvegliare i lavori sul suo terreno solo quando il cuore "glielo consente nel petto"
(Od., 1, 189-193). Il suo potere è passato al figlio perché gli è venuta meno la qualità personale che è fondamento e condizione per l'acquisto e il mantenimento del potere 73: e se suo figlio lo ha sostituito, è perché, come dice Telemaco, era il più forte fra gli Itacesi. Ma altri, se fosse stato più forte di lui, avrebbe potuto essere il nuovo re. Ecco spiegato perché i re lontani dalla patria sono così incerti sulla sorte del loro potere. Ecco perché Ulisse, nell'Ade, chiedendo all'ombra della madre notizie del padre e del figlio abbandonati per seguire Agamennone, domanda: "resta a loro il mio privilegio? o forse già un altro / dei nobili l'ha e non credono più ch'io ritorni?" (Od., 11, 175-176). Partendo, egli ha lasciato in patria un padre vecchio e malato, e un figlio troppo giovane: è più che possibile quindi, e sembra quasi che Ulisse lo ritenga probabile, che qualcuno, più forte, li abbia sostituiti. Ecco perché, sempre nell'Ade, Achille rivolge la stessa domanda a Ulisse: Ma del mio splendido figlio dimmi parola: se in guerra continua a esser capo, o non più. E dimmi se di Peleo perfetto hai notizia: se ancora ha l'onore fra i molti Mirmìdoni o lo disprezzano ormai nell'Ellade e a Ftia, perché l'incatena mani e piedi vecchiezza. (Od., 11, 492-497). Ancor più significativo è il saluto di Ulisse, a Scheda, ai commensali della regina Arete, i principi Feaci, ai quali augura che: ... diano loro gli dèi di viver felici, e possa ciascuno lasciare ai suoi figli le ricchezze di casa e l'onore avuto dal popolo. (Od., 7, 148-150). L'augurio, a un re, che nessuno usurpi il suo potere è non poco singolare. Quantomeno, Ulisse e Achille sono preoccupati per le sorti del loro "regno" perché ne sono lontani. Ma i principi Feaci stanno tranquillamente nella loro terra, nulla minaccia la loro situazione. L'instabilità della condizione regale è evidente. Ed è dovuta alla totale assenza di previsioni istituzionali. Alla luce di questa considerazione, acquistano un significato molto preciso le parole con cui Nausicaa si presenta a Ulisse: e io son la figlia del magnanimo Alcìnoo, che tra i Feaci regge la forza e il potere ... (Od., 6, 196-197). Il collegamento tra potere regale e forza torna con frequenza, del resto: come rileva Finley, il verbo "regnare"
(basileuein) è spesso accompagnato nei poemi dall'avverbio iphi "con la forza" (Il., 6, 478). 74
Se di fatto, come spesso avviene, i figli dei re defunti succedono ai padri, questo accade solo perché, di regola, la famiglia del re è la più forte. Anche al momento della successione, il fondamento del potere sta in una forza che, quanto più è indiscussa, tanto meno ha bisogno di manifestarsi con le armi: e che resta, in questo caso, il fondamento sottinteso della nuova legittimità. Ma nulla vieta che, ove vi siano altri più forti del figlio del re, la successione apra una lotta, il cui esito consacrerà il passaggio dell'autorità in altre mani. Il ruolo del consenso: il matrimonio con Penelope. A questo punto, cominciano a profilarsi le ragioni dell'accanimento con cui i proci perseguono i loro obiettivi matrimoniali. 75 Contrariamente a quanto spesso si dice, questo accanimento non ha alcuna relazione con una presunta regola di successione al trono attraverso il matrimonio con la vedova del re o, più in genere, con una donna appartenente alla famiglia di questi. 76 Ove ci si fermi seriamente a riflettervi, non esistono elementi idonei a sostenere una simile tesi. Prendiamo, ad esempio, la leggenda sulle origini troiane di Roma: Enea, sbarcato nel Lazio, sposa Lavinia, figlia del re Latino, fondando quindi la città di Lavinio e diventandone re. Ma Latino non ha eredi maschi: il matrimonio della figlia con lo straniero è evidentemente una strategia matrimoniale da lui messa in atto per evitare la fine della dinastia. La successione del genero, insomma (così come quella del nuovo marito della vedova regale), non ha carattere sistematico. Essa risponde piuttosto alla necessità di risolvere problemi concreti, di volta in volta diversi: nel caso di Penelope, il fatto che il figlio del re, per sua stessa ammissione, non ha la forza sufficiente per succedergli e gli aspiranti alla successione sono particolarmente numerosi. Il numero di cento otto, certamente esagerato, rispecchia comunque la situazione di una comunità nella quale, con armi pressoché pari, si fronteggiano numerose famiglie di potenti, che ritengono tutte di poter aspirare alla successione. La lotta aperta, in un simile contesto, assumerebbe dimensioni tali da spaventare persino coloro che ne sarebbero i protagonisti. Qui si inserisce e così si spiega l'aspirazione in massa alla mano di Penelope. 77 Se è vero che il potere si basa sulla forza, questo non vuol dire che la forza sia l'unico fondamento del potere: la regalità omerica poggia saldamente le sue basi anche sul consenso popolare. Al di là del momento originario, una volta acquisito, il potere non può basarsi solo e sempre sulla forza. Ha bisogno del consenso, che ne permette il pacifico esercizio e quindi, in definitiva, il mantenimento. 78 Non a caso, dunque, i sovrani e i membri delle famiglie "regali" sono costantemente preoccupati della "voce popolare": Penelope, lo abbiamo visto, è indecisa se risposarsi o "aver riguardo al letto nuziale e alla voce del popolo" (Od., 16, 75; 19, 524-529); Nausica teme a tal punto le chiacchiere dei Feaci, se la vedranno con Ulisse, da non volere entrare con lui nella città (Od., 6, 273-285); Fenice dice di non aver ucciso il padre per timore della "voce del popolo" (Il., 9, 459-461). Telemaco ritiene peraltro sbagliando che gli Itacesi lo aiuteranno a liberarsi dei proci perché amavano suo padre (Od., 2, 71-74). Il matrimonio con la vedova di Ulisse, dunque, in una situazione come quella determinatasi a Itaca, è chiaramente un espediente (probabilmente l'unico) per evitare la guerra.
Sposare Penelope è il mezzo per stabilire tra la vecchia e la nuova carica regale una continuità ideale, destinata a raccogliere attorno al nuovo capo, trasferendolo su di lui, il consenso di cui il vecchio "re " era circondato. 5. Articolazioni del potere. Sin qui, del basileus. Il
"magistrato" omerico, se così vogliamo chiamarlo: quello che sarebbe un magistrato se la città omerica fosse già una polis. Cosa che, per ora, non siamo ancora in grado di dire. Nelle poleis, infatti, accanto al magistrato (o ai magistrati), stavano altri organi istituzionali: un'assemblea allargata, e un consiglio ristretto, composto dagli "anziani". Esistevano questi organi in Omero? La risposta, a prima vista, è molto semplice. A riunioni di questo tipo, infatti, i poemi fanno spesso riferimento, sia quando descrivono la vita delle singole poleis, sia quando parlano dell'esercito panacheo: che inutile a dirsi non è certo una polis. È una comunità temporanea di vita, i cui scopi sono diversi da quelli di una polis: ma per il periodo in cui deve esistere e funzionare, questa comunità sembra organizzata secondo un modello "politico". Pur obbedendo agli ordini di un comandante supremo, dai poteri ben maggiori di quelli di un basileus, i soldati Greci come i cittadini di una polis si riuniscono in un'assemblea allargata, alla quale partecipa persino Tersite; e a volte gli eroi più importanti, in piccolo numero, si riuniscono in consiglio. Pur tenendo presente la diversità della situazione, dunque, per tentare di capire i poteri e il funzionamento di questi organi prenderemo in considerazione anche l'Iliade.
L'assemblea. Cominciamo da Itaca. Sull'isola esistono sia un'assemblea sia un consiglio, ma nei vent'anni di assenza di Ulisse non sono mai stati convocati. E quando Telemaco convoca l'assemblea, sappiamo bene cosa succede. Gli Itacesi sono riottosi, sospettosi, indisciplinati.
Giungono a rifiutare al povero Telemaco persino le navi che egli chiede per andare a cercare notizie del padre. Ma la situazione, lo sappiamo bene, è del tutto particolare. Anche se Omero, a volte, sembra presentarlo come tale o quantomeno, come persona che si comporta come tale Telemaco non è né un basileus né un erede al trono. Per cercare di capire quale fosse il rapporto tra il basileus e l'assemblea bisogna dunque cercare anche altrove. E cercando altrove, in luoghi diversi da Itaca, sembra di poter dire che, diversamente da quanto spesso si afferma, i poteri del basileus erano, quanto meno di fatto, sensibilmente limitati da quelli dell'assemblea. La prima considerazione che si impone, infatti, è che, come abbiamo già visto, il potere di convocare l'assemblea non spettava solo al basileus. Chiunque vi avesse interesse poteva farlo, sia per discutere questioni pubbliche, sia per discutere questioni private. L'assemblea, insomma, non è un organo al servizio del re. È un'istanza autonoma del potere, che ha già raggiunto un certo livello di formalizzazione, quantomeno con riferimento ai modi del suo funzionamento. Lo svolgimento dell'assemblea, infatti, è regolato da norme molto precise. 79 Per cominciare, la convocazione di solito viene fatta dagli araldi "dalla voce sonora" che percorrono la città, invitando a gran voce la popolazione a riunirsi (Od., 2, 6 sgg. ; 8, 8 sgg. ; Il., 9, 9 sgg.). Solo una volta (ma si tratta dell'assemblea panachea) coloro che devono partecipare all'assemblea sono invitati "uno per uno senza gridare", con una convocazione nominale fatta dagli araldi, per ordine di Agamennone (Il., 9, 9 sgg.). Le riunioni iniziano all'alba (Od., 2, 1-8), e si svolgono in un'apposita sede, ove la popolazione prende posto su sedili di pietra, secondo un ordine predeterminato. 80 Tutti, nessuno escluso, hanno il diritto di partecipare all'assemblea e di prendervi la parola. Nell'assemblea panachea neppure a Tersite, il simbolo stesso dell'uomo dappoco, l'antitesi dell'eroe, viene negato questo diritto (71, 2, 212 sgg.). Chi parla, di solito, si alza, 81 spesso recandosi nel mezzo del cerchio composto dagli astanti, 82 con un gesto, che dato il valore simbolico del cerchio e dell'atto di "porre nel centro "(eis meson), inteso come
"mettere in comune" 83 sta forse a indicare, anche simbolicamente, che di ciò di cui si discute (anche se questione privata) viene investita l'intera comunità. Al termine del discorso, chi ha parlato attende la reazione popolare, che si esprime in un'acclamazione. 84 Chi non è d'accordo replica. A sera, se non è finita, la riunione viene interrotta, per essere ripresa all'alba (Il., 9, 65).
Infine, l'assemblea si conclude quando più nessuno "parla in contrario" (Il., 9, 56). Mai, neppure alla fine, si procede a una votazione: l'unica forma di espressione della volontà popolare è l'acclamazione. Eccoci così al punto cruciale. Qual è il valore delle acclamazioni, quale il rapporto fra queste e la volontà del re? Per vedere se possiamo trarne indicazioni che aiutino a chiarire la situazione itacese, pensiamo al rapporto tra Agamennone e l'assemblea panellenica. Che appare, a prima vista, non poco contraddittorio. A volte, infatti, Agamennone sembra attribuire grande importanza al parere dell'esercito: ma, se vi si presta attenzione, ci si accorge subito che questo accade, in realtà, quando il parere dei soldati coincide con il suo. 85
Quando non coincide, il suo atteggiamento cambia radicalmente: come dimostra, senza bisogno di ulteriori commenti, l'episodio di Criseide. Poco importa che i Greci, tutti, lo esortino a non offendere il sacerdote di Apollo, che chiede gli venga restituita la figlia: Agamennone è irremovibile, nessuno può privarlo della bella Criseide, il suo "premio". Con le conseguenze che tutti sanno. Apriamo una breve parentesi: il rapporto fra Agamennone e l'assemblea, bisogna dire, è complesso e contraddittorio come il suo rapporto individuale con gli eroi che lo hanno seguito a Troia. Agamennone è "il più re tra i re" (Il., 9, 69). Ma non dispone di alcun apparato coercitivo sull'esercito. 86 Una situazione quantomeno strana per un capo al quale a parole si attribuisce un potere assoluto. E infatti accade anche che questo potere gli venga contestato: se accetterò di dare Briseide ad Agamennone, dice a un certo punto Achille, non sarà per obbedienza verso di lui, ma per rispetto dell'assemblea che me l'ha data in dono, e alla quale, soltanto, riconosco il diritto di togliermela (Il., 1, 297-299). 87 Il potere del "capo"
insomma, deve fare i conti con quello dell'assemblea, che a volte sembra sovrastarlo. E Itaca?
E le assemblee cittadine? Anche in esse, esattamente come nel campo acheo, la volontà popolare formatasi ed espressa nell'agora sembra avere una notevole rilevanza. L'assemblea di Itaca è detto chiaramente con il peso della sua forza può costringere chi viola le regole fondamentali della convivenza sociale ad abbandonare la patria. Quando i proci vengono a sapere che Telemaco è tornato in patria sono atterriti all'idea che questo racconti al popolo, nell'agora, "in piedi fra tutti" (Od., 16, 378), che essi hanno tentato di ucciderlo. Come dice Antinoo: e il popolo non loderà l'azione malvagia, sentendo; badiamo anzi che non ci conci male e ci scacci dal nostro paese, e in terra d'altri dobbiamo fuggire ... (Od., 16, 380-382) Anche se vi è stato chi ha parlato di potere dell'assemblea di decretare l'esilio, 88 è chiaro che Antinoo non allude a una vera e propria pena. Il potere dell'assemblea consiste nella forza della pubblica opinione che in essa si forma e si esprime, capace di fatto di costringere chi ha tenuto comportamenti inaccettabili ad abbandonare la patria. Un potere molto forte, che sarebbe un errore sottovalutare. In mancanza di un diritto penale e di organi capaci di infliggere delle pene, l'assemblea è un organo in grado di imporre, di fatto, l'osservanza delle regole fondamentali del vivere associato. Il consiglio. Infine, il consiglio ristretto. Le domande sono le stesse: a chi spetta il potere di convocarlo, chi ha il diritto di parteciparvi? Qual è il rapporto fra le deliberazioni di questo consiglio, quelle del consiglio allargato e la volontà del basileus?
Non diversamente che per l'assemblea, l'ipotesi che convocare il consiglio ristretto fosse una prerogativa regale sembra da scartare. A Scheria, per cominciare, non è Alcinoo a convocare il consiglio. Egli vi si reca, dice Omero, convocato dagli altri basileis (Od., 6, 54-55). Quando Priamo si reca nel campo greco, per supplicare di restituirgli il cadavere di Ettore, Achille dopo aver finalmente acconsentito alla richiesta del vecchio re ritiene inopportuno che Priamo dorma nella sua tenda, perché teme che ... qualche acheo consigliere non capiti qui; sempre nella mia tenda tengon consiglio sedendo, come vuol l'uso. (Il., 24, 650-652) Il consiglio, dunque, non si riunisce presso la tenda di Agamennone, ma presso quella di Achille (quantomeno alcune volte: e dal passo, si direbbe, con una certa frequenza): sembra logico pensare che il potere di convocare il consiglio panacheo non sia prerogativa del "più re dei re". A Troia, infine, il consiglio si riunisce sulle mura (Il., 3, 146153): spontaneamente, sembra desumersi dal testo, così come spontaneamente sembra riunirsi la buie panachea presso la tenda di Achille. Ma chi sono coloro che vi si riuniscono? Si dice, abitualmente: gli "anziani". E, in effetti, i consiglieri vengono di regola chiamati gherontes (o, a Troia, demogherontes, anziani del popolo) e il consiglio buie gheronton (Il., 22, 119; 3, 149). Per quanto riguarda il consiglio panacheo, questi
"anziani" sono chiaramente (del resto è detto in modo esplicito) i basileis skeptuchoi alleati contro i troiani (Il., 2, 86 e 2, 404409). Solo eccezionalmente, dietro espresso formale invito, vengono ammesse al consiglio persone che non sono tali. 89 Ma chi sono gli anziani nei consigli interni? Al consiglio di Scheria vengono ammesse, accanto al sovrano, persone a loro volta qualificate come basileis (Od., 8, 390-391). Di nuovo, dobbiamo pensare al duplice significato del termine; in questo caso si tratta dei capi dei diversi oikoi cittadini: nella specie dodici (tanti quanti erano i proci che vivevano a Itaca, governando un oikos). 90 Gheron insomma (sinonimo, in questa accezione, del frequente bulephoros), 91 è termine che accanto a quello di anziano, in senso fisico, ha il senso evidentemente derivato di basileus, consigliere. E
in questo caso prescinde da ogni riferimento all'età: come dimostra chiaramente il fatto che, quando si recano da Achille per chiedergli di tornare a combattere, sono detti gherontes Ulisse e Aiace, due guerrieri nel pieno dell'età e al massimo della loro forza fisica (Il., 9, 165-169). Ed eccoci all'ultimo problema: i poteri del consiglio, che, a ben vedere, sembrano caratterizzati, esattamente come i poteri dell'assemblea allargata, dall'assenza di ogni previsione istituzionale.
Un solo passo, a prima vista, potrebbe far pensare che il consiglio avesse, con le sue deliberazioni, il potere di vincolare in qualche modo la collettività: quello in cui Ettore, prima della battaglia finale con i Greci, riflette, parla con se stesso, chiedendosi ma solo per un momento, subito scartando l'ipotesi cosa accadrebbe se movessi per primo incontro ad Achille perfetto, gli promettessi ch'Elena e le ricchezze con lei, [...] daremo agli Atridi, [...] e ottenessi dai Teucri un giuramento d'anziani di non nascondere nulla ... (11, 22, 113-120) Un giuramento degli anziani, evidentemente, verrebbe considerato dai Greci valida garanzia di adempimento di una promessa dei Troiani: se ne potrebbe dedurre, forse, che vincolerebbe in qualche modo la popolazione. Ma altri passi smentiscono quest'ipotesi. Basterà un esempio: dopo che il consiglio dell'esercito panellenico, nel secondo canto dell'Iliade, ha deliberato di proseguire la guerra, l'assemblea, pur essendo perfettamente a conoscenza di questo (Il., 2, 194), esprime, acclamando, la propria intenzione di abbandonare l'impresa e tornare in patria (Il., 2, 142 sgg.). E come non vincola l'assemblea, il parere del consiglio non limita i poteri del basileus. Come dice chiaramente Nestore ad Agamennone, durante una riunione degli anziani, nel nono canto dell'Iliade: Occorre che tu sopra tutti parli ed ascolti, e dia retta anche ad altri, se il cuore spinge qualcuno a parlar per il meglio ... (Il., 9, 100-102) È bene che il sovrano ascolti il parere degli anziani, insomma: ma non è tenuto a farlo. Del resto, che la decisione del consiglio sia solo un parere è detto esplicitamente al successivo verso 108, nel quale Agamennone viene incolpato di aver preso Briseide contro il noon, vale a dire, appunto, contro l'opinione degli anziani. Il consiglio, concludendo, è solo un momento d'incontro dei membri influenti della comunità, ai quali peraltro è stata riconosciuta anche qualche competenza specifica ed esclusiva: tra di esse, quella di rappresentare la comunità nelle ambascerie internazionali e (come vedremo nel capitolo a ciò dedicato) la competenza giurisdizionale. 92
Ma al di là di questo il consiglio non risulta avere competenze definite e definibili a priori: i suoi poteri variano di volta in volta, in stretta dipendenza dal difficile equilibrio di forze che nelle diverse situazioni si fronteggiano e a volte si scontrano, determinando il quadro effettivo del potere. Come scrive Moses Finley, il quadro istituzionale omerico è caratterizzato ancora da una notevole fluidità. Ma significa veramente, questo, che in Omero non esiste ancora la polis? Personalmente, credo di no. Io credo che la presenza delle fondamentali istituzioni cittadine in Omero autorizzi a dire che, anche se ancora in embrione, anche se "fluide", appunto, le istituzioni politiche erano già presenti: anche a Itaca, al di là dell'anomalia della situazione che ivi si è venuta a verificare. Come mi sembra contribuisca a dimostrare, del resto, la chiarezza della distinzione che in Omero viene continuamente delineata tra il privato e il pubblico, con le conseguenze che ne derivano e che di seguito vedremo. 6. Pubblico e privato nella città omerica. Nella città omerica esiste la chiara consapevolezza della comune appartenenza a un'entità sovraordinata non solo agli individui, ma ai gruppi familiari. Ed è consapevolezza diffusa e condivisa da tutti, al di là delle già esistenti differenziazioni sociali.
93 Chi detiene il potere e chi lo accetta e lo subisce, chi è basileus e chi è semplice membro del demos ha ugualmente ben chiaro il senso della fondamentale distinzione fra ciò che è privato e ciò che è pubblico. L'uso dei termini idioti (privato) e demion (pubblico) per indicare ciò che appartiene all'una o all'altra delle due sfere è molto significativo: ma poiché, evidentemente, il senso di ciò che è pubblico e ciò che è privato varia, nel tempo, ora dobbiamo esaminare più da vicino ciò che i membri delle comunità omeriche ritengono rispettivamente pubblico e privato.
Una prima, netta distinzione in questo senso viene fatta abbiamo già avuto modo di dirlo nel corso dell'assemblea a Itaca. "Ora, chi ci ha raccolti così?" si chiede il vecchio Egizio: ... chi tanto ha bisogno fra i giovani o fra coloro che sono avanti negli anni? Forse ha udito notizia che torna l'esercito, e vuol dirla in pubblico, lui che per primo l'ha avuta? o d'altro pubblico bene vuol parlare e trattare? 2, 28-32) Di regola, sembra di poter dedurre, l'assemblea viene convocata per trattare questioni o per comunicare notizie di pubblico interesse: quale, appunto, la notizia che l'esercito acheo sta tornando da Troia. Ma Telemaco non l'ha convocata per questo: Non ho udito notizia che torna l'esercito, da dirla in pubblico, io che per primo l'ho avuta, non d'altro pubblico bene voglio parlare e trattare, ma della mia angoscia, che doppia sciagura è piombata sulla mia casa... (Od, 2, 42-46) La linea di demarcazione fra pubblico e privato è chiarissima. Ciò che riguarda un oikos appartiene alla sfera del privato. Anche se si tratta dell'oikos del basileus, e se i "mali" che colpiscono quest'oikos potrebbero portare (come nel caso) alla presa del potere regale da parte del capo di un altro oikos. La linea di confine è netta: Telemaco non tenta neppure di presentare il suo problema come diverso da quello che è, vale a dire una questione privata. La distinzione è troppo chiara alla popolazione, ed egli ne condivide sino in fondo la logica. Non appena giunto a Pilo, si preoccupa di dire a Nestore che: Noi veniamo da Itaca, là sotto il Neio, e questo è scopo privato, non pubblico, che sto per dire: cerco, se mai posso udirla, l'ampia fama del padre ... (Od, 3, 81-83) Lo stesso fa a Sparta: quando Menelao, nell'accoglierlo, gli chiede le ragioni del suo viaggio, Telemaco conferma che esso è dovuto a ragioni private (Od., 4, 312 sgg.). La distinzione fra pubblico e privato sembra molto sentita proprio là, dove potrebbe più facilmente confondersi, vale a dire ove è detenuto il potere: il basileus ha una funzione e quindi una figura pubblica che potrebbe facilmente sovrapporsi alla sua figura privata. Ma questo non accade. Anche i beni del basileus sono privati: gli appartengono in quanto patrimonio familiare, e tali restano. La reggia di Ulisse, dice Telemaco "non è pubblica, ma di Ulisse, e per me l'ha acquistata" (Od., 20, 265). In contrapposizione a quella del privato, la sfera del pubblico si viene dunque a delineare chiaramente, in primo luogo, come la sfera delle cose appartenenti alla comunità, e delle cose che hanno una destinazione di comune interesse: è pubblico, in questo senso, il bottino di guerra, che appartiene alla comunità perché guadagnato in comune, e del quale lo abbiamo visto solo la comunità può disporre 94; è pubblica la cassa destinata a sostenere le spese di guerra, composta probabilmente da beni privati destinati a uno scopo comune, per questo divenuti "pubblici". Come esplicitamente dice Menelao, del resto, quando parla dei "capi e guide degli Argivi" che bevono "a pubbliche spese" (Il., 17, 248-251). Infine, rientra nella sfera del pubblico lo svolgimento di attività lavorative considerate di pubblico interesse. Nel mondo omerico, infatti, è già presente una certa divisione del lavoro, e alcune mansioni sono altamente specializzate. Accanto al medico, all'indovino, all'araldo, compaiono l'architetto, il vasaio, il boscaiolo, l'auriga, il pescatore di ostriche, il tagliatore di cuoio, l'artigiano politore del corno, il falegname, le lavoratrici della lana, il traghettatore, il fabbro: lavoratori, questi ultimi, che svolgono la loro attività dietro mercede. 95 E all'interno di questa divisione del lavoro, si è fatta strada una distinzione. Alcuni lavori, considerati di comune interesse, sono "pubblici": o meglio, secondo la terminologia omerica, sono "pubblici lavoratori" (demioergoi) coloro che li svolgono. 96 Quali siano i pubblici lavoratori ci viene detto da Eumeo, quando viene rimproverato da Antinoo per aver condotto Ulisse, in veste di mendicante, alla reggia di Itaca: non è giusto, dice Eumeo, che si invitino a banchetto solo i demioergoi. E quindi li elenca: gli indovini, i medici, i carpentieri e gli aedi (Od., 17, 382-387). A questi si devono aggiungere con sicurezza quanto meno gli araldi, altrove espressamente qualificati come tali (Od., 19, 135). E forse anche altri lavoratori, che svolgevano a loro volta un lavoro di comune utilità: del tutto indipendentemente, va rilevato, dal fatto che questo lavoro sia manuale o intellettuale.
L'antica concezione della sacralità delle tecniche, infatti, nonostante il processo di desacralizzazione chiaramente in atto, non è ancora del tutto scomparsa in Omero. La distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, con il successivo disprezzo per il lavoro manuale, sono sconosciuti al mondo omerico. I "pubblici lavoratori" godono tutti di considerazione sociale, per il solo fatto, che li accomuna, di svolgere un lavoro, qua le che sia, nell'interesse della collettività. 97 Ripetiamolo: la distinzione fra ciò che è pubblico e ciò che è privato è ben presente ai membri della città omerica. Ed è interessante rilevare, a questo proposito ma su questo torneremo più diffusamente, a suo luogo come la gestione degli interessi privati, sia, in definitiva, molto più autoritaria di quanto non lo sia la gestione degli interessi pubblici. Il capo di ogni oikos infatti ha, all'interno di questo, poteri molto più vasti di quelli del basileus sulla comunità. Non a caso, forse, è definito oikoio anax (Od., 1, 397),
"sovrano della casa", con parola, anax, che viene dal miceneo wanax. L'esame dell'organizzazione familiare omerica non consente dubbi: i membri della famiglia omerica erano sottoposti al potere pressoché illimitato del capo del gruppo. Tornato a Itaca, nella sua veste di capo dell'oikos Ulisse uccide Melanzio, il capraio infedele e le ancelle che avevano tradito. Torneremo su questo. Quel che rileva, ora, è notare che questo potere non trova riscontro nei poteri del capo politico. All'interno della famiglia, inoltre, non risulta esistesse un consiglio dei parenti con funzioni analoghe a quelle del consiglio che affianca il basileus nel momento delle decisioni, sia pure con funzione solo consultiva. Ciò che è pubblico e ciò che è privato, insomma, comunità e famiglia, non sono solo due sfere distinte e rigorosamente incomunicabili: sono due momenti di aggregazione diversi, basati su regole diverse e su diversi moduli organizzativi. In contrapposizione alla casa, luogo del privato, la città è il luogo del pubblico: essa è, insomma, qualcosa di più e di diverso della somma dei gruppi familiari.
Come dimostra l'analisi del significato del termine polis. 7. La polis in Omero. Tanto nell'Iliade quanto nell'Odissea, il termine polis appare con valori diversi. Spesso sta a indicare l'acropoli, la città alta cinta di mura, in opposizione alla città bassa, centro residenziale non fortificato. 98 Ma non di rado ha un valore diverso, più ampio, e significa città abitata, luogo nel quale si svolge la vita quotidiana. 99 In altre parole, indica l'agglomerato urbano, altrove definito asty. 100 E altre volte, ancora, è qualcosa di più e di diverso sia dalla rocca sia dal borgo abitato: in alcuni casi, è la comunità politica. Un esempio particolarmente interessante di questa polisemia si trova in un celebre, lungo brano del diciottesimo canto dell'Iliade: Achille torna a combattere per vendicare la morte di Patroclo, ed Efesto, su richiesta di Teti, madre dell'eroe, prepara per lui nuove armi, tra le quali uno scudo, sul quale scolpisce due poleis: più precisamente "due città di mortali", poleis meropon anthropon (IL, 18, 490). Cosa significa qui la nostra parola? Significa luogo di vita, spazio ove si svolgono le attività del vivere quotidiano. Ma non è sinonimo di asty; non è solamente l'insieme degli spazi e degli edifici destinati all'abitazione e all'espletamento delle attività necessarie alla sopravvivenza. Qui polis indica l'insieme delle persone che, vivendo nell'asty, sono legate da una rete di rapporti che fanno di loro una comunità politica. Come dimostra chiaramente la descrizione delle scene
"cittadine" scolpite sullo scudo. Cominciamo con la prima città: è una città in pace. La vita vi si svolge normalmente, ma gli aspetti di questa vita che Efesto scolpisce sullo scudo non sono momenti della vita quotidiana. Sono cerimonie solenni, atti fondamentali della vita comunitaria, che si svolgono secondo rituali rigorosamente determinati dalla consuetudine. Tra questi, in primo luogo, dei matrimoni 101: un corteo, sotto torce fiammanti, percorre la città al canto di Imeneo, accompagnando le spose che escono dalle camere, e giovani danzatori volteggiano, mentre le altre donne guardano, dalle porte di casa. Il perfezionamento del matrimonio sembra avvenire, nella città dello scudo, nel corso di una festa, unica per tutte le spose di un anno. Rito matrimoniale cittadino, forse? Una supposizione, ma confortata da alcune considerazioni. Nella Grecia arcaica, e ancora in quella classica, non mancano riferimenti all'esistenza di gruppi divisi per classi di età, vale a dire di gruppi di persone che a volte vivevano per un certo periodo di tempo in comunità, altre volte avevano luoghi e momenti periodici di incontro, consuetudinariamente stabiliti, e svolgevano attività comuni.
Per quanto riguarda i maschi, le fonti parlano di questi gruppi a Creta e a Sparta, ove come è ben noto i giovani venivano formati da un'esperienza di vita comunitaria. Per le ragazze, è quasi superfluo citare il celebre thiasos di Saffo, a Lesbo; ma vale la pena ricordare che analoghi gruppi esistevano anche in altre località, da Sparta alle coste della Ionia, 102 e che anche ad Atene, ancora in epoca classica, restava il ricordo di organizzazioni di questo tipo.
Nella Lisistrata di Aristofane (Li. 641-645), il coro delle donne ateniesi, nell'esprimere la sua gratitudine alla città per l'educazione ricevuta, ne ricorda le tappe: "Appena ebbi sette anni, io fui arrefora, poi a dieci ero aletris per ì'archegetis, poi portai il vestito arancio come orsa alle Brauronie, e infine, divenuta una bella fanciulla, fui canefora con la collana di fichi secchi". Sul finire del V secolo quando Aristofane scriveva l'arrefora, l'aletris, l'orsa e la canefora erano cariche onorifiche. Le arrefore erano quattro vergini, ovviamente di nobili natali, alle quali era affidato il compito di tessere il peplo per Atena. Le aletrides erano incaricate di macinare il grano per la focaccia sacra per la dea. Le orse erano sacerdotesse, cui toccava celebrare un rito di espiazione: una volta, infatti, Atene era stata colpita da una carestia, mandata da Artemide, irata per l'uccisione di un'orsa, che si era rifugiata nel suo tempio. E l'oracolo, interpellato, aveva ordinato di sacrificare una fanciulla, la cui uccisione era ricordata dall'orsa. Le canefore, infine, erano le vergini che alle Panatenaiche portavano le ceste con le offerte e gli arredi sacri.
Ma dietro a queste cerimonie ormai puramente simboliche si nascondevano le tracce di un sistema iniziatico, in forza del quale tutte le fanciulle ateniesi destinate a diventare mogli e madri passavano attraverso classi di età, che corrispondevano a stati progressivi della loro preparazione. 103 Dai sette ai dieci anni, quando erano arrefore, le fanciulle apprendevano l'arte della tessitura. Come aletrides imparavano un'altra fondamentale funzione femminile, vale a dire la panificazione. Come orse, infine, al termine della terza fase, celebravano un rito (segnato, come molti riti iniziatici, dalla partecipazione a una festa orgiastica), che simbolizzava la loro morte come fanciulle, e la loro resurrezione come donne pronte al matrimonio. 104 Ebbene: in considerazione di tutto questo, appare possibile che il matrimonio descritto sullo scudo sia un matrimonio unico, cittadino, col quale andavano spose, contemporaneamente, tutte le fanciulle di una certa classe di età. Come accadeva a Creta, ad esempio, ove, secondo Eforo (in Strabone, 10, 482), ogni anno le ragazze della stessa età si sposavano lo stesso giorno. I matrimoni dello scudo, insomma, mentre confermano le supposizioni tratte dalla Lisistrata, trovano conferma in questo della loro natura "cittadina".
Senonché, a questo punto, sembra sorgere un problema. In altri passaggi dell'Iliade abbiamo notizia di riti matrimoniali diversi, di natura familiare, e non cittadina. Nel quarto canto dell'Odissea, a Sparta si festeggia la conclusione di due matrimoni. Uno è quello di Ermione, figlia legittima del re Menelao e di Elena, che durante la guerra di Troia era stata promessa in moglie al figlio di Achille, e che, quando Telemaco giunge a Sparta, nel quarto canto, appunto, sta per essere accompagnata a Ftia, la città dello sposo. Insieme al matrimonio di Ermione, Menelao festeggia quello di Megapente, suo figlio naturale. Come mai i matrimoni celebrati a Sparta sono individuali? Le risposte possibili sono due. La prima è che Ermione e Megapente erano figli (lei legittima, lui naturale) del re. Forse, i matrimoni individuali, celebrati in casa, erano un'usanza aristocratica; quelli collettivi, invece, erano riservati al popolo e celebrati nella città. La seconda è che il matrimonio descritto sullo scudo e quelli celebrati a Sparta risalgano a epoche diverse: quelli spartani, all'epoca delle poleis nascenti; quello dello scudo a un'epoca precedente, in cui i matrimoni erano ancora riti di passaggio collettivi, celebrati una sola volta all'anno, per tutte le ragazze che quell'anno raggiungevano l'età pubere. Ma prescindiamo, per ora, da questo problema: torniamo al problema da cui eravamo partiti. La città nella quale si svolge il rito, descritta nel momento in cui è percorsa dal corteo, viene chiamata asty (IL, 18, 493). Nonpolis. Quando vuole alludere alla città come aggregato urbano, il poeta usa questo termine. Ma nello stesso canto e nello stesso episodio egli chiama poleis le due città scolpite da Efesto. Perché mai? Perché le poleis scolpite non sono aggregati urbani, sono comunità politiche, individuate come tali dalle scene di vita in esse scolpite: una cerimonia nuziale, e una scena processuale, che si svolge sulla piazza della città. Una città, dunque, che si era data un apparato istituzionale, investendo alcune persone (i gherontes) del compito di controllare come vedremo più avanti che venissero rispettate le norme consuetudinarie, che regolavano la vendetta privata (Il., 18, 497-508). 105 Con riferimento alla città in pace, dunque, la parola polis significa, in modo evidente, "comunità sociale e giuridica". E veniamo alla seconda città: una città in guerra, assediata da due eserciti. Gli assedianti sono incerti: distruggere tutto, o impossessarsi del tesoro della città, rinchiuso nella rocca (ptoliethron, Il, 18, 512)? L'uso del termine è significativo: la rocca, la cittadella fortificata, qui, non è definita polis, come altrove.
Perché? Perché, come nelle città in pace polis è qualcosa di diverso da asty, così nella città in guerra è qualcosa di diverso da "rocca": è la comunità dei politai, vale a dire di coloro che in altri passi, sui quali torneremo, difendono in armi la città. Ma c'è di più. Sullo scudo, Efesto scolpisce anche altre scene: in primo luogo, l'aratura di un campo: un "terreno grasso" (la parola per terreno è arura), sul quale molti aratori lavorano, guidando i buoi, confortati nella loro fatica da un uomo, che offre loro una coppa di vino ogni volta che, giunti alla fine del campo, voltano gli aratri (Il., 18, 541-549). A chi appartiene questa terra? Nei versi che seguono si legge che, accanto alla arura, Efesto scolpisce un temenos regale, ove si svolge la mietitura: chi taglia il raccolto con la falce, chi lo lega, chi spigola. Il re, nel mezzo, in silenzio, tenendo lo scettro, "sta sul solco, godendo nel cuore". Gli araldi, sotto una quercia, preparano il pasto, imbandendo le carni di un bue. Le donne versano farina bianca, pranzo per i mietitori (Il., 18, 550-560). L'opposizione arura/temenos (nota anche da altri passi) è qui simboleggiata in modo da emergere in tutta la sua chiarezza. La arura non è dissodata. Gli uomini che vi lavorano tentano, appunto, di renderla coltivabile. Il temenos, invece, è terra già arata e produttiva: chi vi lavora raccoglie le ricche messi. Il temenos appartiene al re. La arura a chi appartiene? A tutti e a nessuno. Essendo terra dura, incolta, difficile, può essere dissodata solo con grande fatica, e chiunque si accolli questa fatica ne diventa proprietario. Così, infatti, era accaduto nel caso di Laerte, quando il vecchio re si era ritirato in campagna, e, dice Omero, aveva acquistato la proprietà di un podere "poiché aveva molto faticato": in altri termini, dissodandolo e coltivandolo. 106 Questa la differenza tra arura e temenos. Come conferma il diverso modo con cui si lavora sulla arura e sul temenos: chi dissoda la arura svolge un'attività tutta privata, individuale, nel suo esclusivo interesse. Il suo è un duro lavoro, rinfrancato solo dall'offerta di una coppa di vino. Chi lavora sul temenos, invece, è al servizio del basileus, che assiste ai lavori con lo scettro tra le mani. Da un canto sta il privilegio regale (un vasto appezzamento di terra, opulenta e fruttifera); dall'altro la terra comune, sulla quale chi vuole pascola le proprie greggi, e di un appezzamento del quale chiunque può diventare proprietario, coltivandolo. Tutto quello che contribuisce a definire un'organizzazione comunitaria, articolata attorno alla consapevolezza che accanto agli interessi privati e sopra di essi sta un interesse collettivo, è descritto nelle città dello scudo: il matrimonio, il processo, la guerra, il lavoro agricolo sul quale si basa la sopravvivenza della collettività. E infine le attività ricreative: accanto alle scene già esaminate, sullo scudo è scolpita una festa, durante la quale, mentre i giovani danzano, gli acrobati rallegrano la folla con le loro evoluzioni. 107 Le città dello scudo sono delle poleis, insomma. Sono organizzazioni in cui esistono persone istituzionalmente abilitate a esercitare la giurisdizione, alle quali, come risulta da altri passi, spetta anche il compito di rappresentare la collettività nei rapporti internazionali. 108 Il che significa che anche nel sistema dei rapporti internazionali esisteva (o quantomeno cominciava a esistere) un complesso di regole i cui soggetti erano le comunità cittadine. Quello che individuava una persona, all'estero, non era più solo l'appartenenza familiare. La formula con la quale lo straniero veniva interrogato dai suoi ospiti ricorre più volte nei poemi: "Qual è la tua polis, quali i tuoi genitori?". Così Telemaco interroga Atena, scesa a Itaca in veste mortale (Od., 1, 170). Così Circe interroga Ulisse, quando questi giunge nella sua isola (Od., 10, 325). Così sia Eumeo sia Laerte interrogano Ulisse, quando giunge alle loro case (Od., 14, 187;24, 298). Così Teoclimeno interroga Telemaco (Od., 15, 264). Allo straniero si chiede in primo luogo la città, e solo successivamente la famiglia di provenienza: l'appartenenza cittadina, ormai, prevale su quella familiare. A questo aggiungasi che alcune poleis vengono individuate attraverso il riferimento a chi vi deteneva il potere: in Siria, il paese di provenienza di Eumeo, vi erano due poleis su cui regnava (embasileue) il padre del porcaio (Od., 15, 412-413). A Creta, dice Ulisse, c'è Cnosso, grande polis ove regnava Minosse (Od., 19, 178-179). Nell'Iliade si parla delle poleis cretesi su cui regnava Idomeneo (Il., 2, 650). Polis, anche qui, significa centro politico.
La circostanza è ulteriormente confermata dai passi nei quali polis è sinonimo di "popolazione"
(demos). Quando Ulisse giunge a Scheria mentre l'eroe riposa stremato sulle coste dell'isola Atena "andò fra il popolo (demos) e la città (polis) dei Feaci". Una polis di cui Omero, nei versi immediatamente successivi, delinea i fondamentali requisiti urbanistici: i Feaci, dice infatti Omero, si erano stabiliti a Scheria al seguito del loro re Nausitoo il padre del re attuale, Alcinoo che "di mura circondò la città, fabbricò case / e fece templi ai numi e divise le terre"
(Od., 6, 9-10). 109 A fare una polis dunque non bastano le case, peraltro ovviamente indispensabili: ci vogliono le mura e i templi. Bisogna inoltre (requisito non più solo urbanistico) che le terre siano divise e assegnate agli abitanti. E per finire ci vuole un luogo d'incontro, in senso sia fisico sia sociale: una piazza nella quale la popolazione possa incontrarsi, per discutere i comuni problemi. Una piazza che forse Nausitoo non costruì immediatamente, al momento dello stanziamento, ma che quando Ulisse giunge all'isola esiste, ed è già stata "pavimentata di blocchi di pietra cavata" (Od., 6, 267). Infine, l'uso del termine cittadini (politeti) è già presente in entrambi i poemi. A Itaca, lo abbiamo visto, esisteva una fonte ove gli abitanti attingevano acqua (Od., 17, 206); e gli abitanti di Scheria attingevano alla locale fonte (Od., 7, 130): in ambedue i casi, gli abitanti sono definiti politai. Il termine appare due volte anche nell'Iliade: la prima, quando Ettore esorta a uccidere i Greci, per evitare che Ilio sia distrutta e i politai uccisi (Il., 15, 558); la seconda, quando Priamo piange Ettore e attorno a lui "piangevano i politai" (Il., 22, 429). 110 Il valore del termine è dunque diverso nei due poemi. Ma la differenza è chiaramente legata al diverso contenuto di essi: nell'Odissea, riferito a comunità in pace, indica coloro che vivono nel borgo; nell'Iliade, a proposito di comunità in guerra, sono politai quelli che difendono in armi la loro città: un significato nel quale è possibile individuare con chiarezza l'origine di quello successivamente assunto, che rispetto all'originario, qui documentato, comporta una sola variante: lo slittamento dal piano dell'effettività a quello della potenzialità. Nell'Iliade sono politai solo coloro che difendono effettivamente, concretamente la polis; nell'Odissea diventano politai tutti coloro che sono in grado di difenderla. Il significato di polis, nei poemi, passa dunque da quello di "rocca" a quello di "città bassa abitata" (sinonimo in questo caso di asty), per giungere a quello di
"gruppo sociale e politico" composto da persone già definite "cittadini". La polis è già quella
"moltitudine di cittadini", in cui Aristotele identifica in primo luogo la sua essenza. Ma è anche qualcosa di più. Sia pur in embrione, è un'organizzazione in cui compaiono già le istanze del potere che diventeranno strutture portanti della polis classica: un "re" che anticipa la figura del magistrato, un'assemblea allargata e un consiglio degli anziani. II. Ulisse verso Itaca.
Lasciamo Itaca, ora. Occupiamoci di Ulisse. Quando Telemaco decide di convocare l'assemblea degli Itacesi, il nostro eroe si trova a Ogigia, l'isola di Calipso, dove la ninfa lo trattiene "a forza", e sulle cui rive, all'inizio dell'Odissea, egli sta piangendo e sospirando il ritorno. Così quantomeno lo descrive Atena, quando chiede al padre Zeus di consentire, finalmente, che egli possa tornare a Itaca (Od., 5, 13-14). Ma numerosi indizi suggeriscono che, nell'isola della ninfa, Ulisse abbia soggiornato non sempre e non completamente contro la sua volontà, e che con lei abbia trascorso alcuni anni tutt'altro che spiacevoli: ben sette, infatti, sono gli anni della sua convivenza con Calipso. Troppi perché li abbia trascorsi tutti lacrimando su uno scoglio.
Ma torneremo poi su questa storia. Quel che ora ci interessa sono le precedenti avventure di Ulisse, quelle vissute nel corso del lungo viaggio che da Troia lo ha portato a Ogigia. Il racconto delle peripezie in cui incorre durante il viaggio, infatti, non è certo irrilevante ai nostri fini: esso ci consente di vederlo in azione in situazioni diverse, nel corso di avventure a volte fantastiche, ma comunque utili per esplorare la mentalità omerica. Il suo comportamento in queste situazioni e il modo in cui risolve i non pochi ostacoli che si frappongono al suo ritorno, da un canto consentono di conoscere meglio le speciali virtù che lo caratterizzano come eroe; dall'altro contribuiscono a delineare con maggior chiarezza il quadro dei valori eroici. E per finire, nonostante la loro fantasiosità, le avventure di Ulisse, nel suo decennale ritorno, sono parte fondamentale della didattica eroica. Ciascuna di esse, infatti, contiene un insegnamento di vita: a volte, si tratta della pericolosità di alcuni personaggi femminili come Calipso, Circe e le Sirene; altre volte si tratta della inciviltà di alcune anche se immaginarie organizzazioni sociali, come quella dei Ciclopi, la cui descrizione serve a illuminare per opposizione la civiltà greca; altre volte ancora, come nel caso della discesa nell'Ade, si tratta di racconti che insegnano a pensare la morte, ad accettarla e a sapere cosa aspettarsi una volta lasciata "la dolce luce del sole". Nel loro complesso, dunque, le avventure di Ulisse nel corso del suo viaggio verso Itaca non sono solo racconti affascinanti: aiutano anche a ricostruire il personaggio di Ulisse e il mondo sociale e morale nel quale egli vive. 1. Ulisse dalle molte astuzie: la metis e il cavallo di Troia. Che Ulisse possegga tutte le virtù "canoniche" è ovvio: è bello, forte e coraggioso.
Come sappiamo, inoltre, accanto al coraggio egli possiede, proverbialmente, un'altra virtù strumentale, alla quale abbiamo già accennato: la metis, l'intelligenza astuta. Una forma di intelligenza sulla quale ora dobbiamo tornare, per aggiungere qualche considerazione che aiuti a capire meglio le sue caratteristiche, e quindi il carattere di Ulisse. E la prima considerazione che ci aiuta a far questo è che, nel mito, Metis è una dea: la prima moglie di Zeus, che questi inghiottì, dobbiamo il racconto a Esiodo quando seppe che, essendo incinta, rischiava di avere un figlio che avrebbe spodestato il padre. 1 Per questo Zeus, avendo mangiato la moglie, possedeva più intelligenza di altri, così come più intelligenza di altri aveva Atena, la figlia di Metis, nata dopo che il padre ne aveva mangiato la madre dalla testa o, secondo altre versioni, dalla coscia del padre. Un mito, ovviamente: che peraltro aiuta a comprendere la particolarità dell'intelligenza detta metis: se la prima a possederla era stata una donna, la metis (lo abbiamo visto parlando di Penelope) era un'intelligenza che anche le donne potevano possedere. E
questo, evidentemente, è tutt'altro che privo di significato. La metis è diversa dal grande logos, la ragione alta e luminosa, appannaggio e prerogativa degli uomini. È un'intelligenza "bassa", che a differenza del logos non è astratta, non classifica, non costruisce categorie. È concreta e si rivolge al caso singolo, al problema specifico. È frutto dell'esperienza e della riflessione, di conoscenze acquisite con la pratica. E non raggiunge mai gli obiettivi in modo lineare: sostanzialmente, essa consiste nella capacità di usare trucchi, stratagemmi, di inventare insidie agendo per vie traverse, oblique, raggiungendo gli obiettivi per strade tortuose. Nulla di sorprendente dunque che la posseggano pure le donne: anche se come sappiamo, sempre grazie a Penelope quando è usata da loro la metis diventa inefficace. Ma questo è un difetto delle donne, non della metis. 2 Quando appartiene a un uomo, la metis è virtù efficacissima. E
quando appartiene a Ulisse è un'arma invincibile. Non a caso, a distanza di millenni, si parla ancora oggi del cavallo di Troia, il trucco che consentì ai Greci di espugnare l'imprendibile città nemica. 3 L'idea era semplice: far credere ai Troiani che i Greci, stremati dai dieci lunghi anni di assedio, avessero deciso di abbandonare l'Asia e di tornare in patria. Fingere di partire, insomma, abbandonando sulla spiaggia un cavallo di legno di stupefacenti dimensioni e di incredibile bellezza, come dono propiziatorio agli dèi. Senonché, come tutti sanno, il cavallo era una trappola mortale. Su consiglio di Ulisse, esso era stato costruito dall'architetto Epeo in modo da poter accogliere al suo interno i più valorosi tra i soldati Greci. Al momento opportuno, questi sarebbero usciti dalla porta costruita sui fianchi del cavallo, sorprendendo e sconfiggendo le difese dei troiani. Questo il piano: ma come portarlo a compimento? Come far penetrare il cavallo nella città nemica? Per dimostrare ai Troiani l'innocuità della statua, accanto a questa viene posta una scritta: "I Greci dedicarono questa offerta ad Atena per il ritorno in patria". Dopodiché, bruciate le tende, l'esercito acheo salpa, abbandonando il cavallo sul lido del mare. La folla dei Troiani, festante, si riversa allora sulla spiaggia, ammirando la statua e discutendo sul da farsi. Qualcuno, sospettoso, vuole trapassare il legno col "bronzo spietato", altri vogliono precipitarlo dall'alto, così che si infranga al suolo. Altri invece vogliono conservarlo come "gran dono agli dèi, propiziatorio incantesimo". E questi ultimi prevalgono.
Invano Cassandra, la figlia di Priamo dotata di capacità divinatorie, scongiura i suoi concittadini di non cadere nella trappola, invano grida piangendo che nel cavallo è nascosto un esercito. I Troiani non le credono, e insieme al cavallo portano in città ben cinquanta guerrieri greci. Questo, quantomeno, uno dei numeri riportati dalle fonti, peraltro discordi: nella Piccola Iliade i guerrieri sono solo tredici, nei codici di Apollodoro sono tremila (con ogni probabilità, un errore dei copisti), in Tzetze ventitré e in Quinto Smirneo trenta. Ma poco importa il numero esatto. Quale che sia il loro numero, i guerrieri nascosti nel cavallo attendono che i festeggiamenti finiscano. Nel frattempo, le navi greche stanno tornando, guidate dai segnali di fuoco accesi presso la tomba di Achille da Sinone, lasciato a terra a questo scopo. E così, quando finalmente i Troiani rientrano nelle loro case, i Greci, usciti dal cavallo, aprono le porte della città ai compagni nel frattempo sopraggiunti, penetrano nelle case e uccidono i nemici nel sonno. Le astuzie di Ulisse, insomma, non sono piccole insidie, banali trabocchetti, normali per quanto abilissimi trucchi. Sono invenzioni (ne vedremo presto un altro celeberrimo esempio) che consentono imprese incredibili, che risolvono situazioni impossibili, e fanno del loro inventore un eroe in qualche modo superiore agli altri. Se Achille è il più forte, Ulisse, con l'astuzia, compie imprese che neppure Achille potrebbe compiere. Ulisse è un eroe speciale: come conferma, su un altro versante, un'altra sua specialissima, rara qualità. La giustizia. 2.
Ulisse eroe moderno: la giustizia e la nascita dei valori collaborativi. Comportarsi secondo giustizia, come è quasi superfluo ripetere, non rientra tra le preoccupazioni di chi condivide i valori di un'etica del successo. 4 L'eventuale ingiustizia di un atto, se quest'atto è necessario per affermare la propria superiorità, non crea all'agathos il benché minimo problema: la pretesa di Agamennone di togliere Briseide ad Achille, espressa in termini di pura forza, può valere come esempio paradigmatico (Il., 1, 184-187). E allo stesso modo la giustizia non è fra le preoccupazioni degli dèi: ire, protezioni, premi e interventi in favore dell'uno o dell'altro eroe non sono ispirati alla considerazione della giustizia o dell'ingiustizia del suo comportamento.