– Immagino vogliate vedere gli alieni adesso –
disse Marvin. –
Volete che mi metta a sedere in un angolo a far la ruggine, o che
mi disattivi stando in piedi?
– Dài, falla corta e portali qua, Marvin – disse una voce. Arthur
guardò Ford e si stupì molto di vedere che rideva. – Ma cosa…?
– Shhh! – disse Ford. – Su, andiamo.
Entrarono sul ponte di comando.
Arthur si trovò, sbalordito, davanti a un uomo che stava
stravaccato in una sedia, teneva i piedi su una consolle, e con la
mano sinistra si stuzzicava i denti della testa che teneva
appoggiata sulla mano destra. L'altra testa invece aveva
dipinto in faccia un gran sorriso disteso e disinvolto. Ancora una
volta, Arthur si trovò davanti all'incredibile. Per un po' rimase
letteralmente a bocca spalancata. Il singolare individuo salutò
pigramente con la mano Ford, ostentando disinvoltura, e disse: –
Ciao, Ford, come va? Sono contento che tu sia venuto a farmi
visita. Ford rispose, con altrettanta distaccata disinvoltura: –
Zaphod, che bello rivederti! Hai un'ottima cera, e il braccio
supplementare ti dona. Che bella nave hai rubato!
Arthur guardò Ford strabuzzando gli occhi. – Vuoi dire che conosci
questo tizio? – disse, agitando l'indice in direzione di
Zaphod.
– Conoscerlo? – disse Ford.
– È… – S'interruppe e decise di fare le presentazioni. Si rivolse a
Zaphod. – Zaphod – disse – questo è un mio amico, Arthur Dent. L'ho
salvato quando il suo pianeta è saltato in aria. – Oh, bene – disse
Zaphod – ciao, Arthur. Sono contento che hai salvato la pelle. – La
testa appoggiata sulla mano destra si girò un attimo a dire
ciao, poi tornò a farsi stuzzicare i denti dalla mano
sinistra.
– Arthur – continuò Ford – questo qui è un mio semi–cugino, Zaphod
Beeb…
– Ci siamo già conosciuti – disse brusco Arthur. Vi è mai capitato
di trovarvi in autostrada nella corsia più veloce, di sorpassare
con gran facilità delle macchine, di sentirvi alquanto soddisfatti
di voi stessi e di fare subito dopo una bufala tremenda, passando
dalla quarta in prima, anziché in terza, e dando così una grattata
della madonna? La sensazione che avrete avuto se vi è capitato
qualcosa del genere è la stessa sensazione che provò Ford nel
sentire la frase di Arthur.
– Ehm… cosa? – disse.
– Ho detto che ci siamo già conosciuti – ribadì Arthur.
Zaphod sobbalzò dalla sorpresa, e con
lo stuzzicadenti si fece male
a una gengiva.
– Eh? Davvero? Ehi, ma io non…
Ford posò su Arthur occhi fiammeggianti di rabbia. Adesso che si
sentiva di nuovo a casa sua cominciava a pentirsi di essersi tirato
dietro quel primitivo ignorante, che della Galassia ne sapeva
quanto ne sapeva della vita a Pechino una zanzara nata e cresciuta
a Ilford. – Come sarebbe a dire? – disse. – Lui è Zaphod Beeblebrox
di Betelgeuse Cinque, non un fottuto Martin Smith di Croydon. – E
allora? – disse gelido Arthur. – Ci siamo conosciuti, vero, Zaphod
Beeblebrox? O dovrei chiamarti Phil? – Cosa?! – urlò Ford.
– Dovrai cercare di rinfrescarmi la memoria – disse Zaphod. – Mi
basta una traccia. Ricordo bene se mi si danno le tracce. – È stato
a una festa – disse Arthur.
– Sì? Be', ne dubito – disse Zaphod.
– Vedi? Lascia perdere, dài, Arthur! – lo esortò Ford. Arthur non
batté ciglio. – Una festa di sei mesi fa. Sulla Terra. In
Inghilterra.
Zaphod scosse la testa e fece un sorriso stretto. – Londra –
insistette Arthur – Islington. – Ah! – disse Zaphod, con aria
colpevole. – Quella festa. No, non era giusto, pensò Ford.
Guardò prima Arthur, poi Zaphod, e ripeté l'operazione più volte.
Alla fine disse, rivolto a Zaphod: – Ehi, non mi dirai mica che sei
stato anche tu su quel miserabile pianetucolo?
– No, no – disse Zaphod garrulo. – Sai, sono solo andato a fare una
capatina, capisci? Ero diretto da altre parti, e… – Ma io sono
rimasto infognato là quindici anni! – Ma io mica lo sapevo, no?
– Ma cosa ci facevi tu sulla Terra?
– Sai, giracchiavo un po'…
– È andato a una festa senza essere invitato – disse Arthur,
tremando di rabbia. – Una festa mascherata… – Doveva esserlo per
forza, no? – disse Ford. – A quella festa – disse Arthur – c'era
una ragazza… Oh be', non che abbia importanza, ormai. Tutto il
pianeta si è dissolto in una nuvola di fumo…
– E smettila di piangere la fine di quel maledetto pianeta! – disse
Ford. – Chi era la ragazza?
– Oh, una. A dir la verità non è che avessi combinato molto con
lei. Era tutta la sera che ci provavo. Cavoli, lei mica era una
qualsiasi, però, eh. Era bella, affascinante, spaventosamente
intelligente;
finalmente ero riuscito a stare con lei
un pochino e me la stavo
lavorando con un po' di discorsi, quando ti arriva questo tipo qui
e dice: Ehi bambola, questo tizio non ti sta seccando? Perché
invece non parli con me? Io vengo da un altro pianeta.
Non la rividi mai più.
– Zaphod? – disse Ford.
– Sì – disse Arthur, guardando torvo Zaphod. – Era proprio lui,
anche se aveva solo due braccia e un'unica testa. Si faceva
chiamare Phil…
– Ma devi ammettere che era vero che veniva da un altro pianeta –
disse Trillian, comparendo dall'altro lato del ponte. Offrì ad
Arthur un amabile sorriso, che per lui fu come una pioggia di
mattoni in testa, poi tornò a rivolgere l'attenzione ai comandi
della nave. Ci fu un silenzio di alcuni secondi, quindi Arthur
riuscì a riprendersi un po' dalla pioggia di mattoni che gli aveva
momentaneamente sconquassato il cervello. – Tricia McMillan? –
disse. – Cosa ci fai qui? – Quello che ci fai tu – disse lei. – Ho
chiesto un passaggio. Dopotutto, con una laurea in matematica e
un'altra in astrofisica cos'altro potevo fare? O quello, o tornare
a fare la fila il lunedì all'Ufficio Collocamento.
– Infinito meno uno – chioccolò il computer. – Somma
d'Improbabilità completa.
Zaphod guardò Ford, poi Arthur, poi Trillian. – Trillian – disse –
credi che questo tipo di cose si verificherà ogni volta che useremo
la Propulsione d'Improbabilità? – Temo che sia molto probabile, sì
– disse lei.
Il Cuore d'Oro volava silenzioso nella
notte spaziale, spinto ora dalla normale propulsione fotonica. Le
quattro persone che vi si trovavano a bordo si sentivano abbastanza
inquiete, adesso che sapevano di essersi trovate insieme non di
loro propria volontà, o per semplice coincidenza, ma per qualche
incomprensibile bizzarria della fisica, quasi che i rapporti fra le
persone fossero soggetti alle stesse leggi che governano i rapporti
tra gli atomi e le molecole. Quando scese la notte artificiale
dell'astronave, tutti furono molto contenti di ritirarsi in cabine
separate, a cercare di organizzare razionalmente il turbinio dei
pensieri.
Trillian non riuscì ad addormentarsi subito. Rimase seduta su un
divano a fissare la gabbietta che conteneva il suo ultimo e unico
legame con la Terra: due topolini bianchi che aveva assolutamente
voluto portare con sé. Aveva sempre pensato che non avrebbe mai più
rivisto il suo pianeta, ma adesso era turbata di vedere che non
gliene importava niente che fosse stato distrutto. Le sembrava cosi
lontano e irreale il ricordo della Terra, che non sapeva proprio
come commemorarla col pensiero. Osservò i topolini correre
furiosamente per la gabbia, e alla fine si concentrò completamente
su di essi. Poi si riscosse dal suo torpore e andò sul ponte di
comando a studiare sullo schermo i dati luminosi, che definivano la
rotta della nave nello spazio. Le sarebbe piaciuto sapere quale
pensiero inconscio le impedisse di addormentarsi.
Anche Zaphod non riusciva a dormire, e anche lui aveva qualche
pensiero inconscio che lo teneva sveglio. Avrebbe voluto sapere
qual era. A quanto si ricordava, da quando era sul Cuore d'Oro
aveva avuto un'unica sensazione fastidiosa: la sensazione di non
essere interamente sull'astronave. Per lo più era riuscito a
rimuoverla e a non preoccuparsene, ma era affiorata di nuovo
all'arrivo (inspiegabile) di Ford Prefect e Arthur Dent. Dietro la
stranezza di quell'avvenimento pareva esserci un invisibile
disegno.
Nemmeno Ford riusciva a dormire. Era troppo eccitato dal fatto di
sentirsi di nuovo in viaggio. Proprio quando aveva cominciato ad
abbandonare ogni speranza, i quindici anni di prigionia erano
finiti.
Girovagare per un po' con Zaphod era
una prospettiva allettante, anche
se c'era qualcosa d'indefinibilmente strano nella storia del suo
semicugino. Per esempio il fatto che fosse diventato presidente
della Galassia era francamente sorprendente, così com'era
sorprendente il modo in cui lui aveva abbandonato la carica. C'era
forse una ragione dietro quelle stranezze? Non avrebbe avuto senso
chiederlo a Zaphod, perché Zaphod non aveva mai dato l'impressione
di avere delle motivazioni per il suo comportamento: aveva fatto
dell'insondabile un'arte. Lui la vita l'aggrediva con un misto di
ingenua incompetenza e di eccezionale talento, e spesso era
difficile capire dove finisse l'una e cominciasse l'altro.
Arthur si addormentò subito: era stanco morto. Qualcuno toccò la
porta della cabina di Zaphod, che si aprì subito. – Zaphod…?
– Sì?
Era Trillian. La sua figura si stagliava contro l'ovale di luce
della porta.
– Credo che abbiamo appena trovato quello che cercavi. – Ehi,
davvero?
Ford rinunciò all'idea di dormire. In un angolo della sua cabina
c'erano lo schermo e la tastiera di un piccolo computer. Si mise
seduto lì davanti per un po' e cercò di comporre una nuova
registrazione per la Guida, sull'argomento vogon. Ma non
riuscì a escogitare niente di abbastanza caustico, così rinunciò
anche a quello, s'infilò una vestaglia e andò a fare una
passeggiata sul ponte di comando. Appena arrivato lì, fu sorpreso
di vedere Trillian e Zaphod chini sugli strumenti e visibilmente
eccitati. – Vedi? La nave sta per entrare in orbita – stava dicendo
Trillian. – C'è un pianeta, là. Si trova esattamente sulle
coordinate che avevi detto tu.
Zaphod sentì un rumore e alzò gli occhi. – Ford! – esclamò. – Dai,
vieni a guardare anche tu! Ford andò a dare un'occhiata. Sullo
schermo tremolava una serie di cifre.
– Riconosci queste coordinate galattiche? – disse Zaphod. – No.
– Aspetta che ti do un indizio. Computer! – Salve, gente! – garrì
il computer. – C'è un'aria di festa qua, vero? – Chiudi il becco –
disse Zaphod – e metti in evidenza gli schermi. La luce si
affievolì, sul ponte di comando. Puntini luminosi giocarono sulle
consolle riflettendosi negli occhi dei quattro, che guardavano i
monitor esterni.
Sui monitor non c'era proprio niente.
Niente che potesse dare un
indizio.
– La riconosci? – sussurrò Zaphod.
– Ehm, no – disse Ford.
– Cosa vedi?
– Niente.
– La riconosci?
– Ma di cosa parli?
– Siamo nella Nebulosa Testa di Cavallo. Una grande nube nera. – E
avrei dovuto riconoscerla da uno schermo nero? – Quando si è dentro
una nebulosa nera, si è nell'unico posto della Galassia in cui lo
schermo ci appare nero. – Ah, perfetto!
Zaphod rise. Era visibilmente eccitato, e sembrava provare una
gioia infantile.
– Pensa, è davvero terribile!
– Cosa c'è di così terribile nell'essere in mezzo a una nuvola di
polvere? – disse Ford.
– Cosa penseresti di trovare qui? – lo incalzò Zaphod. –
Niente.
– Niente stelle? Né pianeti?
– No.
– Computer! – gridò Zaphod. – Ruota l'angolo visuale di centottanta
gradi, e non discutere!
Per un attimo sembrò non succedere niente, poi sull'orlo
dell'enorme schermo apparve un bagliore. In mezzo a esso c'era una
stella rossa grande come un piattino: vicino ce n'era un'altra. Un
sistema binario. Poi apparve, nell'angolo dello schermo, una grande
mezzaluna rossastra che a poco a poco sfumava nel nero, il nero
dell'altro emisfero immerso nella notte. – L'ho trovato! – gridò
Zaphod, battendo le mani sulla consolle. – L'ho trovato!
Ford lo fissò, sbalordito.
– Cosa? – disse.
– Quello – disse Zaphod – è il pianeta più improbabile che sia mai
esistito.
(Brano tratto dalla Guida Galattica
per gli Autostoppisti, pagina 634784, Sezione 5a.
Registrazione: Magrathea.) Anticamente, nelle nebbie del tempi
più remoti, nei grandi giorni
gloriosi dell'ex Impero Galattico, la vita era selvaggia, aspra
e forte,
e in gran parte esentasse.
Possenti astronavi navigavano tra soli esotici, cercando
avventura
e fortuna tra i più lontani meandri dello spazio galattico. In
quei
tempi gloriosi gli animi erano coraggiosi, le poste erano alte,
gli
uomini erano veri uomini, le donne erano vere donne, e le
piccole
creature pelose di Alpha Centauri erano vere piccole creature
pelose
di Alpha Centauri. E tutti osavano affrontare ignoti orrori,
compiere
grandiose imprese, azzardare a testa alta anacoluti che nessuno
aveva
mai azzardato prima: fu così che fu foggiato l'Impero.
Molti uomini naturalmente diventarono ricchissimi, ma questo
era
perfettamente naturale e non c'era affatto da vergognarsene,
anche
perché nessuno era veramente povero, o almeno, nessuno degno di
un
minimo di considerazione. E per tutti i commercianti più ricchi
e più
arrivati, la vita cominciò, inevitabilmente, a diventare noiosa
e
scipita. Essi pensarono a un certo punto che la colpa fosse dei
mondi
che avevano conquistato: nessuno era del tutto soddisfacente. O
il
clima non era tanto buono nel tardo pomeriggio, o la giornata
era di
mezz'ora troppo lunga, o il mare aveva la sfumatura di rosa
sbagliata.
E così si crearono le condizioni per inaugurare un
nuovo,
sconcertante tipo d'industria specializzata: la fabbricazione
su
ordinazione di pianeti di lusso. La sede di tale industria era
il pianeta
Magrathea, dove gl'ingegneri iperspaziali succhiavano
materia
attraverso i buchi bianchi dello spazio e le davano la forma di
pianeti
di sogno: pianeti d'oro, pianeti di platino, pianeti di soffice
gomma
con un sacco di terremoti. Pianeti costruiti con cura e con
amore
perché rispondessero alle aspettative degli uomini più ricchi
della
Galassia, che erano abbastanza esigenti.
Questa speculazione fu così riuscita, che ben presto
Magrathea
divenne il pianeta più ricco di tutti i tempi, e il resto della
Galassia si
ridusse in squallida povertà. E così
il sistema crollò, l'Impero andò in
sfacelo, e su più di un miliardo di mondi affamati calò un
cupo
silenzio, disturbato soltanto dal lieve rumore delle penne
degli
studiosi che di notte faticavano su piccoli mediocri trattati
di
economia politica programmata.
Magrathea stessa scomparve e il suo ricordo passò presto
nelle
tenebre della leggenda.
Ora, in questi tempi illuminati, nessuno più, ovviamente, crede
a
un briciolo di quella leggenda.
Arthur si svegliò al rumore della
discussione e andò sul ponte di comando. Ford stava gesticolando
con foga. – Sei pazzo, Zaphod – stava dicendo – Magrathea è un
mito, una favola, è quello che i genitori raccontano ai bambini
quando vogliono farli diventare da grandi degli economisti, è… – È
anche il pianeta intorno al quale stiamo orbitando – insistette
Zaphod.
– Oh, Zaphod, che tu orbiti intorno a qualcosa può anche darsi, io
non posso impedirtelo – disse Ford – ma questa nave… – Computer! –
urlò Zaphod.
– Oh, no…
– Salve, gente! Sono Eddie, il computer di bordo, e mi sento in
forma pazzesca, ragazzi, e so che qualunque cosa mi chiederete fra
poco, mi divertirò un sacco a rispondere. Arthur guardò Trillian
con aria interrogativa. Lei gli fece segno di venire avanti, ma di
stare zitto.
– Computer – disse Zaphod – ripetici qual è la nostra attuale
traiettoria.
– Con vero piacere, amico – gorgogliò il computer. – Attualmente
siamo in orbita a un'altezza di quattrocentottantamila chilometri.
Il pianeta attorno a cui orbitiamo è il leggendario pianeta
Magrathea. – Questo non dimostra niente – disse Ford. – Non darei
credito a quel computer nemmeno nel caso mi dicesse una cosa
semplice come il mio peso.
– Posso calcolare il vostro peso, certo – garrì il computer,
vomitando altro nastro. – Posso risolvere perfino i vostri problemi
psicologici calcolando i decimali fino alla sesta cifra, se vi può
servire.
Trillian intervenne.
– Zaphod – disse – da un momento all'altro passeremo sopra
l'emisfero attualmente diurno del pianeta… – Dopo un attimo
aggiunse: – Qualunque pianeta sia.
– Ehi, come sarebbe a dire? Il pianeta è o non è dove io avevo
detto che doveva essere?
– Sì, so che c'è un pianeta, la. Non è
che voglia discutere, ma so
solo che non potrei mai distinguere Magrathea da un qualsiasi altro
ammasso di roccia fredda. Se la vuoi vedere, ormai c'è l'alba. – Va
bene, va bene – borbottò Zaphod – lasciamo almeno che gli occhi
abbiano la loro parte. Computer!
– Ehilà, salve! Cosa posso…
– Basta che tu stia zitto e ci dia di nuovo una panoramica del
pianeta.
Ancora una volta sullo schermo apparve una scura massa informe: la
massa del mondo che ruotava sotto di loro. Guardarono per un attimo
in silenzio, ma Zaphod era troppo eccitato per starsene
tranquillo.
– Stiamo attraversando l'emisfero notturno… – disse a voce bassa. –
La superficie del pianeta si trova ora quattrocentottantamila
chilometri sotto di noi… – Cercava così di dare enfasi al momento,
a quel momento che per lui era così grande. Magrathea! Era piccato
con Ford per la reazione scettica che aveva avuto. Magrathea! – Fra
pochi secondi – continuò – dovremmo vedere… ecco! Il momento era
arrivato. Anche il più scafato barbone delle stelle non può
esimersi dal rabbrividire davanti alla spettacolarità di un'alba
vista dallo spazio; ma un'alba binaria è una delle meraviglie della
Galassia.
La totale oscurità fu d'un tratto ferita da un punto di una
luminosità accecante. Il punto aumentò sempre più, per gradi, fino
a diventare la sottile lama di una mezzaluna: di lì a pochi secondi
apparvero i due soli, formati di luce, a bruciare col loro fuoco
bianco il nero limite dell'orizzonte. Sotto di essi, fieri dardi di
colore venarono la sottile atmosfera.
– I fuochi dell'alba…! – sussurrò Zaphod, – I soli gemelli
Soulianis e Rahm…!
– O quel cavolo che in realtà sono – disse Ford. – Soulianis e
Rahm! – ribadì Zaphod.
I soli fiammeggiarono nell'alto dello spazio, e una sommessa musica
spettrale si diffuse per il ponte di comando: Marvin stava ronzando
ironicamente, perché non poteva soffrire gli umani. Guardando lo
spettacolo creato dalla luce, Ford si sentì invadere
dall'entusiasmo, l'entusiasmo di vedere un nuovo, strano pianeta.
Gli bastava sapere che era un nuovo, strano pianeta, e lo irritava
un po' che Zaphod volesse imporre per sua personale soddisfazione
un'interpretazione bizzarra e ridicola della scena. Tutte quelle
sciocchezze su Magrathea erano infantilismi. Non è sufficiente
godere della bellezza di un giardino? Che bisogno c'è di credere
che nasconda delle fate?
Tutta quella storia di Magrathea
appariva del tutto incomprensibile
ad Arthur. Perciò Arthur si avvicinò a Trillian e le chiese cosa
stava succedendo.
– So soltanto quel che mi ha detto Zaphod – sussurrò lei. – Pare
che quella di Magrathea sia una specie di leggenda del passato in
cui nessuno crede davvero. Un po' come la storia di Atlantide per
noi terrestri, solo che la leggenda dice che i magratheani
fabbricavano pianeti.
Arthur guardò gli schermi e sbatté le palpebre: d'un tratto gli
parve di sentire la mancanza di qualcosa d'importante. Ma cosa?
Dopo qualche attimo, capì cos'era che gli mancava. – Lo fanno il tè
su questa astronave? – chiese. Man mano che il Cuore d'Oro
procedeva lungo l'orbita del pianeta, questo si rivelava sempre più
ai loro occhi. I soli adesso erano alti nel cielo nero, i fuochi
pirotecnici dell'alba erano cessati, e la superficie del pianeta
appariva desolata e poco invitante alla comune luce del giorno: era
grigia, polverosa, fosca. Sembrava un pianeta morto e freddo come
una cripta. Ogni tanto apparivano del contorni più promettenti, sul
lontano orizzonte: gole, forse montagne, forse perfino città… Ma
appena si avvicinavano, anche quei contorni si sfumavano in una
macchia anonima da cui non trapelava niente. La superficie del
pianeta era resa indistinta dal movimento lento dell'aria sottile e
stagnante, che vi scivolava sopra da secoli e secoli. Era
chiaramente un mondo vecchio, vecchissimo. Ford fu preso da un
momento di dubbio, mentre guardava il paesaggio grigio scorrere
sotto l'astronave. L'immensità del tempo lo turbava: quasi ne
sentiva tangibilmente la presenza. Si schiarì la voce. – Anche
supponendo che lo sia…
– Lo è – disse Zaphod.
– Non lo è, invece – disse Ford. – E poi in ogni caso cosa ti
verrebbe in tasca da un pianeta come questo? Non c'è niente lì. –
Non sulla superficie – disse Zaphod.
– D'accordo, supponiamo pure che ci sia qualcosa, immagino bene che
tu non sia venuto fin qui per gustare soltanto l'archeologia
industriale del luogo. Cos'è che cerchi? Una delle due teste di
Zaphod distolse lo sguardo. L'altra si girò a vedere cosa stesse
guardando la prima, ma la prima non è che stesse guardando niente
di particolare.
– Be' – disse Zaphod con brio – in parte sono venuto fin qui per
curiosità, in parte per senso dell'avventura, ma soprattutto credo
per la fama e il denaro…
Ford gli diede un'occhiata pungente. Aveva la netta impressione che
Zaphod non avesse la minima idea del perché era andato fin lì.
– Sai, non mi piace affatto l'aspetto
di questo pianeta – disse
Trillian, rabbrividendo.
– Fai finta di niente – le disse Zaphod. – Sai, con metà delle
ricchezze dell'ex Impero Galattico accumulate lì da qualche parte,
è un pianeta che si può anche permettere un'aria squallida. Che
menate, pensò Ford. Anche supponendo che quella fosse la sede di
un'antica civiltà ormai scomparsa, anche supponendo un mucchio di
cose estremamente improbabili, era del tutto impossibile che
inestimabili tesori fossero immagazzinati su quel mondo in una
qualsiasi forma capace di avere ancora un significato. Ford si
strinse nelle spalle.
– Io credo che sia soltanto un pianeta morto – disse. – Questa
suspense mi uccide – disse Arthur, irritate. Lo stress e la
tensione nervosa sono oggi seri problemi sociali in tutte le parti
della Galassia, ed è perché questa situazione non s'inasprisca che
i fatti successivi verranno rivelati in anticipo. Il pianeta in
questione è effettivamente il leggendario Magrathea. Il
mortale lancio di missili verificatosi poco dopo i fatti narrati a
opera di un antico sistema automatico di difesa si risolverà
soltanto nella rottura di tre tazze di caffè e di una gabbia per
topi, nella contusione del braccio di una delle persone a bordo
dell'astronave, e nella prematura creazione e improvvisa morte di
un vaso di petunie e di un innocente capodoglio.
Perché permanga ancora un po' di senso del mistero, non verrà
rivelato per il momento di chi sia il braccio contuso. Questo
particolare è atto infatti a creare una suspense non nociva al
sistema nervoso, dato che non ha la benché minima importanza.
Dopo un inizio di giornata abbastanza
brusco, la mente di Arthur si stava a poco a poco riprendendo dai
traumi del giorno prima. Arthur aveva trovato una macchina
nutrimatica che gli aveva servito in una tazzina di plastica un
liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi
completamente diverso dal tè. Il funzionamento della nutrimatica
era interessante. Quando veniva premuto il bottone Bevande, la
macchina esaminava sull'istante, ma molto dettagliatamente, la
potenziale gamma dei gusti del soggetto: faceva un'analisi
spettroscopica del metabolismo di questo, e poi spediva minuscoli
segnali sperimentali attraverso il sistema nervoso fino ai centri
del gusto del cervello, per vedere che cosa aveva maggiori
probabilità di essere ben digerito e apprezzato. Tuttavia, era
impossibile capire il perché di tutte queste operazioni, perché la
macchina serviva immancabilmente in tutti i casi una tazza di
liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi
completamente diverso dal tè. La nutrimatica era progettata e
fabbricata dalla Società Cibernetica Sirio, il cui reparto reclami
copre ormai gran parte della terraferma dei primi tre pianeti del
sistema della Stella Tau di Sirio. Arthur bevve il liquido e lo
trovò corroborante. Tornò a guardare gli schermi e vide scorrervi
altre immagini di squallido grigiore. D'un tratto pensò di fare la
domanda che ormai stava covando da un po'. – È un posto sicuro? –
disse.
– Magrathea è un pianeta morto da cinque milioni di anni – disse
Zaphod – è logico che sia sicuro. Ormai perfino i fantasmi si
saranno calmati e avranno messo su famiglia!
In quella si diffuse per il ponte di comando un suono strano e
inspiegabile. Sembrava come il rumore di una lontanissima fanfara:
era cupo, stridulo, irreale. Fu seguito dal suono di una voce
altrettanto cupa, stridula, irreale. La voce disse: – Siate i
benvenuti… Qualcuno stava parlando loro dal pianeta morto! –
Computer! – gridò Zaphod.
– Ehilà, salve!
– Cosa cavolo è?
– Oh, è solo una registrazione vecchia
di cinque milioni di anni,
che ci viene trasmessa automaticamente.
– Una registrazione?
– Zitto! – disse Ford. – Sta continuando. Era una voce di persona
vecchia cortese e quasi affascinante, Ma aveva anche un tono
d'inconfondibile minaccia. – Questo è un annuncio registrato
– disse la voce – perché purtroppo siamo tutti assenti in
questo momento. Il consiglio
commerciale di Magrathea vi ringrazia per la vostra gradita
visita…
(– Una voce dall'antica Magrathea! – gridò Zaphod. – Ma sì, ma sì –
disse Ford.)
– …ma annuncia con rincrescimento che l'intero pianeta è
temporaneamente chiuso al pubblico. Grazie. Se volete lasciare
il
nome e l'indirizzo del pianeta dove eventualmente vi si
possa
contattare, parlate per cortesia appena sentite l'apposito
segnale.
Seguì un breve ronzio, poi il silenzio.
– Vogliono liberarsi di noi – disse nervosa Trillian. – Cosa
facciamo?
– È solo una registrazione –disse Zaphod. – Continuiamo a scendere.
Capito, computer?
– Capito – disse il computer e aumentò la velocità della nave.
Aspettarono.
Dopo un secondo o giù di lì si sentì di nuovo la fanfara, e subito
dopo la voce.
– Ci teniamo ad assicurarvi che appena riprenderemo l'attività,
lo annunceremo su tutte le riviste alla moda e su tutti i
supplementi a
colori. Questo avverrà quando i nostri clienti saranno ancora
una
volta in grado di scegliere il meglio nell'ambito della
geografia
contemporanea. – Il tono di minaccia della voce si fece
più
accentuato. – Nel frattempo ringraziamo i nostri clienti per
l'interesse dimostrato e li invitiamo ad andarsene
immediatamente.
Arthur guardò le facce nervose dei suoi compagni. – Credo che
faremo meglio ad andarcene, no? – disse. – Shh! – disse Zaphod. –
Non c'è assolutamente niente di cui preoccuparsi.
– E allora come mai avete tutti la faccia così tesa? – Non è
tensione, ma interesse! – gridò Zaphod. – Computer, comincia a far
scendere la nave nell'atmosfera e preparala per l'atterraggio.
Questa volta la fanfara suonò molto frettolosamente. La voce fu
gelida e disse:
– È assai piacevole vedere che il vostro entusiasmo per il
nostro pianeta continua inalterato, per cui ci teniamo ad
assicurarvi che i
missili telecomandati che in questo
momento si stanno dirigendo
verso la vostra nave sono parte integrante dell'accoglienza
speciale
che riserviamo ai nostri clienti più entusiasti, e che le
testate nucleari
dei detti missili ci sono ovviamente solo a titolo di cortesia.
Non
vediamo l'ora che diventiate nostri clienti nella vita futura…
Grazie.
La voce tacque.
– Oh! – disse Trillian.
– Ehm… – disse Arthur.
– Allora? – disse Ford.
– Sentite – disse Zaphod – volete ficcarvelo in testa? È solo un
messaggio registrato! È un messaggio che ha milioni di anni, non è
rivolto a noi, capite?
– E i missili?! – disse Trillian, pacata. – I missili?! Ma non
farmi ridere!
Ford toccò Zaphod sulla spalla e gl'indicò lo schermo di dietro. In
lontananza si vedevano distintamente due missili argentei salire
attraverso l'atmosfera nella loro direzione. Opportunamente
ingranditi, apparvero per quello che erano: due veri razzi di
notevole potenza, che solcavano inesorabilmente il cielo. Era una
visione scioccante. – Credo che stiano facendo del loro meglio per
dirigersi su di noi – disse Ford.
Zaphod guardò esterrefatto i missili.
– Ma è terribile! – disse. – Qualcuno laggiù vuole ucciderci! –
Terribile – disse Arthur.
– Ma non capite cosa significa?
– Sì. Che moriremo.
– Sì, ma a parte quello…
– A parte quello?
– Significa che siamo sulle tracce di qualcosa! – Allora bisogna
che riusciamo a perderle al più presto! Di secondo in secondo i
missili sullo schermo apparivano sempre più grandi. Adesso
seguivano una linea retta che li portava dritti contro la nave, per
cui si vedevano soltanto le testate, frontalmente. – Così per
saperlo – disse Trillian – cosa intendiamo fare? – Dobbiamo
semplicemente mantenerci calmi – disse Zaphod. – Tutto qui? – gridò
Arthur.
– No, bisogna anche che adottiamo… ehm… una strategia di fuga! –
disse Zaphod in un tardivo accesso di panico. – Computer, che
strategia di fuga possiamo adottare?
– Ehm, temo nessuna, ragazzi – disse il computer. – … qualcosa di
simile, allora – disse Zaphod. – Sembra che qualcosa abbia
inceppato i miei sistemi di pilotaggio – spiegò con brio il
computer. – Meno quarantacinque secondi
all'impatto. Vi prego di chiamarmi
Eddie, se la cosa vi può aiutare a
rilassarvi.
Zaphod sembrò un attimo voler correre in dieci diverse direzioni
contemporaneamente, poi disse: – Bene! Ehm… bisogna che prendiamo
il comando manuale della nave. – Tu la sai pilotare? – chiese Ford,
con tono ironico. – No, e tu?
– No.
– Trillian, tu?
– No.
– Bene – disse Zaphod, contentò. – Proveremo a farlo tutti
insieme.
– Nemmeno io lo so fare – disse Arthur, ritenendo che fosse ora di
affermare un po' la sua personalità.
– L'avevo immaginato – disse Zaphod. – Bene, computer, voglio il
comando manuale.
– L'avete – disse il computer.
Davanti a loro comparve una fila di consolle mai usate prima,
sgusciate automaticamente dalle casse da imballaggio di polistirolo
e dai rivestimenti di cellofane.
Zaphod le guardò con occhi spiritati.
– Bene, Ford – disse – marcia indietro a tutta birra e poi dieci
gradi a dritta.
– Buona fortuna, ragazzi – cinguettò il computer. – Meno trenta
secondi all'impatto…
Ford si precipitò ai comandi: fra essi, soltanto alcuni gli
sembravano avere un'aria vagamente familiare, per cui manovrò
questi. La nave vibrò e stridette furiosamente mentre i jet
direzionali cercavano di sospingerla su cento rotte
contemporaneamente. Ford lasciò andare metà dei comandi, e la nave
giro vorticosamente, percorrendo uno stretto arco e tornando da
dove era venuta, ovvero dirigendosi direttamente contro i missili
in arrivo, Tutti furono scagliati contro le paratie, dove intanto
si erano immediatamente gonfiati, per l'emergenza, i cuscinetti ad
aria. Per alcuni secondi la forza d'inerzia costrinse i quattro
all'immobilità. Boccheggiando, Zaphod lottò disperatamente per
riuscire a raggiungere una piccola leva, alla quale finalmente,
dopo innumerevoli sforzi, riuscì a mollare un calcio. Il calcio fu
così violento che la leva si staccò. La nave fece un brusco scarto
e si capovolse. La Guida Galattica per gli Autostoppisti di
Ford andò a sbattere contro una consolle dei comandi: il risultato
fu che la guida cominciò a spiegare agli eventuali interessati i
modi migliori per esportare di contrabbando da Antares le ghiandole
dei
parrocchetti antariani (le ghiandole di
parrocchetto antariano
conficcate su uno stecchino sono una ributtante, ma ricercatissima
squisitezza da cocktail, e spesso ricchissimi idioti pagano cifre
favolose per comprarle, al solo fine di fare colpo su altri
ricchissimi idioti), e che nel contempo la nave cominciò a
precipitare come una pietra.
Fu più o meno a questo punto che uno dei quattro componenti
l'equipaggio riportò una brutta contusione al braccio. Il
particolare va sottolineato perché, come è già stato rivelato, per
il resto tutto andò bene: i quattro si salvarono e i missili
mortali non colpirono la nave. – Meno venti secondi all'impatto,
ragazzi… – disse il computer. – E allora riaccendi quei maledetti
motori! – urlò Zaphod. – Oh, certo, ragazzi – disse il computer.
Con un lieve rombo i motori si riaccesero, la nave smise di
precipitare e riprese la sua rotta, dirigendosi verso i
missili.
Il computer si mise a cantare.
– Passeggiando nella tempesta… – cantilenò con voce nasale –
tieni alta la testa…
Zaphod gli urlò di tacere, ma la sua voce si perse nel generale
fracasso dell'imminente disastro.
– E non… avere paura.. del buio! – latrò Eddie. La nave
aveva ripreso si a volare, ma capovolta, per cui adesso il suo
equipaggio si trovava tutto sul soffitto e non poteva in alcun modo
sperare di raggiungere i comandi.
– Passata è la tempesta… – gracidò, sentimentale, Eddie. I
due missili giganteggiavano sugli schermi, nella loro traiettoria
mortale.
– …gli uccelli fanno festa…
Ma, per un caso straordinariamente fortunato, essi non avevano
corretto del tutto la loro traiettoria, adeguandola all'attuale
rotta ondeggiante della nave, e così la mancarono, passandole sotto
di pochi centimetri.
– E il dolce canto dell'allodola… Correggo: quindici secondi
all'impatto, ragazzi… Cammina nel vento… I missili virarono
e tornarono indietro, puntando sull'astronave. – Ci siamo – disse
Arthur, guardandoli. – Ormai è chiaro che stiamo per morire,
vero?
– Vorrei che la smettessi di dirlo! – urlò Ford. – Ma stiamo per
morire, no?
– Sì.
– Cammina sotto la pioggia… – cantò Eddie. Ad Arthur d'un
tratto venne un'idea. Si alzò faticosamente in piedi.
– Perché nessuno ha attivato la
Propulsione d'Improbabilità? –
disse. – È l'unico comando che forse potremmo riuscire a
raggiungere di qui.
– Cosa sei, pazzo? – disse Zaphod. – Ci vuole un'appropriata
programmazione, altrimenti potrebbe succedere di tutto. – Be', a
questo punto che importanza ha? – urlò Arthur. – Anche se i tuoi
sogni sono frustrati e annientati… – cantò Eddie. Arthur si
arrampicò sull'oggetto che segnava il punto d'incontro tra la
paratia curva e il soffitto.
– Continua a camminare, continua a camminare con la speranza
in cuore…
– Sapete spiegarmi perché Arthur non dovrebbe attivare
la
Propulsione d'Improbabilità? – gridò Trillian. – E non
camminerai mai solo… Cinque secondi all'impatto. È stato bello
conoscervi, ragazzi. Dio vi benedica… Non cammine… rai…
mai… solo!
– Ho detto – strillò Trillian – perché Arthur non… Subito dopo ci
fu un'apocalittica esplosione di luce e rumore.
E subito dopo l'esplosione, il Cuore
d'Oro continuò a procedere normalmente sulla sua rotta: l'unica
differenza fu che il suo interno subì un cambiamento piuttosto
affascinante. Appariva infatti un po' più ampio, ed era dominato da
delicate sfumature pastello verdazzurre. Al centro, una scala a
chiocciola che non portava in nessun posto particolare sorgeva in
mezzo a una macchia di felci e di fiori gialli: lì accanto, una
meridiana di pietra ospitava il terminale del computer centrale.
Luci e specchi messi ad arte davano l'illusione di trovarsi in una
serra affacciata su un giardino perfettamente curato. Tutt'intorno
al perimetro della serra c'erano tavoli di marmo dalle gambe di
ferro battuto. Se si fissava a lungo la superficie lucida del
marmo, si distinguevano dopo un po' le forme degli strumenti di
bordo, e se le si toccavano, gli strumenti si materializzavano
immediatamente. Se si guardavano dal giusto angolo visuale, gli
specchi riflettevano tutti i dati richiesti, benché non fosse
affatto chiaro come facessero a rifletterli. La visione d'insieme
era straordinariamente bella.
Seduto tranquillo su una poltrona di vimini, Zaphod Beeblebrox
disse: – Cosa diavolo è successo?
– Stavo appunto dicendo – disse Arthur, gironzolando vicino a una
piccola vasca dei pesci – che lì c'è il pulsante della Propulsione
d'Improbabilità… – Indicò il punto dove un tempo c'era il pulsante.
Adesso al suo posto c'era una pianta in vaso. – Ma dove siamo? –
disse Ford, che era seduto sulla scala a chiocciola con un bel
Gotto Esplosivo Pangalattico in mano. – Esattamente dov'eravamo,
credo… – disse Trillian. D'un tratto, gli specchi mostrarono
l'immagine dello squallido paesaggio di Magrathea che scorreva
sotto di loro.
Zaphod si alzò di scatto dalla poltrona. – Allora cos'è successo ai
missili? – disse. Gli specchi mostrarono una nuova e sorprendente
immagine. – Sembrerebbe – disse dubbioso Ford – che si siano
trasformati in un vaso di petunie e in una balena dall'aria molto
stupita…
– A un Fattore d'Improbabilità –
intervenne Eddie, che non era
affatto cambiato – di otto milioni
settecentosessantasettemilacento- ventotto contro uno.
Zaphod fissò Arthur.
– Sei tu che ci hai pensato, terrestre? – chiese. – Insomma – disse
Arthur – ho solo…
– Hai pensato proprio bene, sai? Attivare la Propulsione
d'Improbabilità per un secondo senza prima attivare gli schermi a
prova d'improbabilità. Ehi, ragazzo, lo sai che ci hai salvato la
vita? – Oh – disse Arthur – non è stato nulla, davvero… – Ah no? –
disse Zaphod. – Bene, allora dimentichiamo tutta la faccenda.
Computer, facci atterrare.
– Ma…
– Ho detto dimentichiamo la faccenda.
Un'altra cosa che era stata dimenticata era che, contro tutte le
probabilità, un capodoglio era stato d'un tratto portato in vita
molte miglia sopra la superficie di un pianeta alieno. E poiché
quella di stare sospese in aria non è una peculiarità delle balene,
la povera creatura innocente ebbe ben poco tempo di riflettere
sulla propria identità di balena, prima di accettare il fatto di
non essere che un'ex-balena.
Qui di seguito riportiamo i suoi pensieri dal momento in cui la sua
vita cominciò fino al momento in cui finì. Ah…! Cosa succede?
Ehm, scusate, chi sono?
Ehi?
Perché sono qui? Qual è lo scopo della mia vita? Cosa intendo dire
con chi sono?
Calmati ora, controllati… oh! questa è una sensazione interessante…
cos'è? È una specie di… di formicolio nel… nel… be', immagino sia
meglio cominciare a dare dei nomi alle cose, se voglio far
progressi in quello che chiamerò mondo… Allora dirò che il
formicolio è nello stomaco.
Bene. Ohhh, si sta facendo molto forte. E, ehi, cos'è questo
fischio che mi passa accanto a quella che chiamerò subito testa? Lo
chiamerò… lo chiamerò vento! Che sia un nome adatto? Ma sì, per il
momento può andare, poi gli troverò un nome migliore quando capirò
a cosa serve. Dev'essere molto importante, questo vento, perché mi
pare che ce ne sia un casino, qua. Ehi! Cos'è questa? Questa… la
chiamerò coda, sì, coda. Ehi! La posso agitare in qua e in la! Wow!
Wow! Che bello! Non mi pare che si ottenga gran che agitandola, ma
scoprirò poi a cosa serve.
Dunque… a questo punto sono riuscita a
farmi una
rappresentazione coerente delle cose, o no? No.
Non importa, in fondo è eccitante dover scoprire tante cose, non
vedo l'ora di scoprire altre cose, ah! sono stordita dalla voglia
di scoprire…
O dal vento?
Ce n'è davvero moltissimo di vento, vero? E wow! Ehi! Cos'è quella
cosa che mi viene incontro a tutta velocità? È così grande,
uniforme, rotondeggiante che ha bisogno di un bel nome sonante
come… come… come terra! Sì! Che bel nome, terra!
Di', saremo amici, terra?
E il resto, dopo una botta tremenda, fu silenzio. Curiosamente,
l'unica cosa che pensò il vaso di petunie cadendo fu Oh no, non
un'altra volta! Molte persone hanno riflettuto che se noi
sapessimo esattamente perché il vaso di petunie pensò così,
sapremmo molte più cose sulla natura dell'universo di quante non ne
sappiamo attualmente.
– Dobbiamo portarci dietro quel robot?
– disse Ford, guardando con disgusto Marvin, che stava in piedi
tutto curvo in un angolo, sotto una piccola palma.
Zaphod distolse lo sguardo dagli specchi, che mostravano una
visione panoramica dello squallido paesaggio di Magrathea, dove
finalmente il Cuore d'Oro era atterrato. – Quell'androide
paranoico? – disse. – Ma sì, portiamolo. – Ma cosa ce ne facciamo
di un robot maniaco-depressivo? – Voi pensate di avere dei problemi
– disse Marvin con un tono come se si rivolgesse a una bara
occupata di fresco da un cadavere – ma cosa ve ne fareste di voi
stessi se foste voi dei robot maniaci depressivi? No, non
scomodatevi a rispondere: io sono cinquantamila volte più
intelligente di voi, e tuttavia non so la risposta. Mi da il mal di
testa solo cercare di scendere a pensare al vostro livello.
Trillian arrivò di corsa, proveniente dalla sua cabina. – I miei
topolini bianchi sono scappati! – disse. Un'espressione di profondo
sbigottimento e preoccupazione mancò d'apparire sulle due facce di
Zaphod.
– Chi se ne frega dei tuoi topolini bianchi! – disse Zaphod.
Trillian, turbata, lo guardò male e tornò via. Forse il suo
annuncio avrebbe sortito più effetto se a tutti fosse stato noto
che gli esseri umani non sono al secondo posto nella scala degli
esseri più intelligenti della Terra, ma solo al terzo. – Salve,
ragazzi.
La voce era stranamente familiare, eppure stranamente diversa.
Aveva un'impronta matriarcale. I quattro erano vicini al portello
del compartimento stagno, e si accingevano a scendere sulla
superficie del pianeta.
Si guardarono in faccia l'un l'altro, stupiti. – È il computer –
spiegò Zaphod. – Ho scoperto che aveva una personalità di riserva
per i casi di emergenza, e ho pensato che questa potesse essere più
adatta alle circostanze.
– Questa sarà la vostra prima
giornata su un pianeta nuovo e strano
– continuò la seconda voce di Eddie – perciò desidero che vi
copriate bene, in modo da stare caldi, e che non vi mettiate a
giocare con nessun cattivo mostro dagli occhi d'insetto. Zaphod
tamburellò con le dita sul portello, spazientito. – Mi spiace –
disse – ma più che vestirci molto pensò che ci serva un regolo
calcolatore.
– Ah sì, eh? – ringhiò il computer. – Chi ha detto questo? – Vuoi
aprire il portello e farci uscire per favore, computer? – disse
Zaphod cercando di non arrabbiarsi. – Non finché chiunque abbia
detto quella frase non abbia confessato – disse il computer, con
sferragliare di circuiti. – Oddio – mormorò Ford. Si appoggiò a una
paratia e cominciò a contare fino a dieci. Era terrorizzato al
pensiero che un giorno le forme di vita senzienti potessero
dimenticare come si fa di conto. Solo facendo di conto gli umani
possono dimostrare la loro indipendenza dai computer.
– Forza – disse severo Eddie.
– Computer… – disse Zaphod.
– Sto aspettando – lo interruppe Eddie. – Posso aspettare tutto il
giorno, se necessario…
– Computer… – disse ancora Zaphod, che nel frattempo aveva cercato
di pensare a qualche fine ragionamento con cui intrappolare il
computer e aveva deciso di rinunciarvi, ritenendo non fosse il caso
di competere con lui sul suo stesso terreno. – Computer, se non
apri questo portello immediatamente distruggerò le tue banche dei
dati e ti riprogrammerò con una bella ascia, capito? Eddie,
scioccato, tacque e ci pensò su.
Ford continuò a contare. Contare è la cosa più aggressiva che si
possa fare a un computer, è l'equivalente del guardare un essere
umano con aria minacciosa dicendo Sangue… sangue… sangue…
sangue…
Alla fine Eddie disse, tutto dolce: – Credo che dobbiamo far di
tutto per mantenere dei buoni rapporti fra noi – e il portello si
aprì. Furono investiti da un vento gelido: contraendo i muscoli dal
freddo, scesero la scaletta e misero piede sul suolo desolato di
Magrathea.
– Finirà tutto in pianto, lo so – gridò Eddie, e richiuse il
portello. Qualche minuto dopo lo riaprì e richiuse ancora, in
risposta a un comando che lo prese completamente in
contropiede.
Cinque figure s'avventurarono lente
sull'impervio terreno. Questo era in parte grigio, in parte
marrone, in parte d'un colore ancora più brutto. Era come una
palude disseccata, priva di qualsiasi vegetazione e ricoperta di
uno strato di polvere spesso dai due ai tre centimetri. E
freddissima.
Zaphod era visibilmente depresso. Si allontanò a grandi passi dagli
altri e si perse dietro un lieve rialzo del terreno. Il vento
feriva gli occhi e gli orecchi di Arthur, e l'aria stantia e fine
gli soffocava la gola. Tuttavia, la cosa non era sufficiente a
smorzare il suo entusiasmo.
– È fantastico! – disse, e la sua stessa voce gli rintronò negli
orecchi. Il suono viaggiava male, in quell'atmosfera sottile. – Mi
sembra un postaccio desolato – disse Ford – mi divertirei di più in
un cacatoio per gatti. – Si sentiva sempre più irritato. Di tutti i
pianeti di tutti i sistemi solari della Galassia, tanti dei quali
erano brulicanti di vita e molto affascinanti, doveva scegliere
proprio quello, Zaphod? Dopo quindici anni di galera sulla Terra,
gli toccava, pensava Ford, finire in una pattumiera come quella!
Non c'era nemmeno la bancarella degli hot-dog! Si chinò e raccolse
una zolla di terra, ma sotto non c'era proprio niente da guardare.
Niente che ricompensasse lo sforzo d'avere attraversato migliaia di
anni luce. – No – insistette Arthur – non capisci, questa è la
prima volta che io metto piede sulla superficie di un altro
pianeta… di un intero mondo alieno! Peccato però che sia una simile
fogna. Trillian stava tutta rattrappita, tremava e aveva la fronte
corrugata. Con la coda dell'occhio le parve di vedere un attimo un
movimento strano, ma quando guardò bene, voltandosi indietro, vide
soltanto la nave, immobile e silenziosa, un centinaio di metri
dietro di loro. Fu contenta di vedere, qualche secondo dopo, Zaphod
riapparire in cima al rialzo e agitare la mano invitandoli a
raggiungerlo. Pareva eccitato, ma non riuscirono a capire bene cosa
dicesse per via del vento e dell'atmosfera sottile.
Mentre si avvicinavano al rialzo, si accorsero che era circolare:
si trattava in realtà di un cratere dell'ampiezza di una
cinquantina di
metri. La parte esterna dell'orlo, là
dove il terreno declinava, era
cosparsa di strani grumi neri e rossi. Si fermarono a guardarli.
Erano umidi e gommosi.
D'un tratto, si accorsero con orrore che si trattava di carne
fresca di balena.
Raggiunsero Zaphod sull'orlo del cratere. – Guardate – disse lui,
indicando l'abisso. Nel centro del cratere c'era la carcassa
spappolata di un capodoglio che non era vissuto abbastanza a lungo
da potersi lamentare del proprio destino.
Il silenzio fu disturbato solo dagli involontari conati di
Trillian. – Immagino sia inutile cercare di seppellirla, vero? –
mormorò Arthur, e si pentì subito dopo di averlo detto. – Venite –
disse Zaphod, e s'incamminò giù per il cratere. – Cosa? Laggiù?! –
disse Trillian, con profondo disgusto. – Sì – disse Zaphod. –
Venite, voglio farvi vedere una cosa. – Ma la si vede già da qui –
disse Trillian. – No, non la balena – disse Zaphod. – Un'altra
cosa. Forza! Gli altri esitarono.
– Forza! – insistette Zaphod. – Ho trovato il modo di entrare
dentro.
– Dentro? – disse Arthur, inorridito. – Nell'interno del
pianeta! C'è un passaggio sotterraneo. La balena l'ha aperto
precipitando, così adesso si può entrare. Pensate! Sentieri che
nessuno percorre più da cinque milioni di anni! Penetreremo nelle
viscere stesse del tempo…
Marvin ricominciò a fare i suoi ronzii sarcastici. Zaphod gli diede
una botta, mettendolo a tacere. Con un fremito di disgusto, tutti
seguirono Zaphod giù per il cratere, sforzandosi di non guardare la
disgraziata balena che l'aveva create.
– La vita – disse Marvin malinconicamente – che tu la detesti o che
la sopporti facendo finta di niente, non ti potrà mai piacere. Il
terreno era franato la dove la balena lo aveva colpito, e rivelava
adesso una ragnatela di gallerie e passaggi in buona parte ostruiti
da detriti e pietrisco. Zaphod era riuscito a sgomberare un po'
l'entrata di uno dei passaggi, ma Marvin la liberò completamente in
fretta e bene. Dai bui recessi si diffusero zaffate d'aria umida, e
quando Zaphod fece luce con una torcia elettrica, non si distinse
quasi niente nell'oscurità polverosa.
– Secondo la leggenda – disse – i magratheani vivevano per lo più
sottoterra.
– Perché? – disse Arthur. – La
superficie era forse troppo inquinata
o sovrappopolata?
– No, credo di no – disse Zaphod. – Penso semplicemente che ai
magratheani non piacesse molto.
– Sei sicuro di sapere quello che fai? – disse Trillian, scrutando
nervosamente nelle tenebre. – Siamo già stati attaccati una volta,
no? – Senti, bimba, ti assicuro che la popolazione di questo
pianeta è composta esclusivamente di quattro persone: noi. Su,
forza, allora, entriamo. Ehm, ehi tu, terrestre…
– Arthur – disse Arthur.
– Sì, potresti tenere quel robot con te e stare di sentinella
all'entrata?
– Di sentinella? – disse Arthur. – Ma quali pericoli ci sono? Non
hai appena detto che non c'è nessuno, qui? – Be', sì, ma giusto per
sicurezza, eh? – disse Zaphod. – La sicurezza di ehi? Tua o
mia?
– Allora bravo, tu fai la sentinella. Su, andiamo, noi. Zaphod
s'avventurò dentro al passaggio, seguito da Trillian e da Ford.
– Bene, spero che ve la passiate tutti malissimo – disse Arthur,
indispettito.
– Non ti preoccupare – lo assicuro Marvin – se la passeranno male
sicuro.
Dopo pochi secondi, erano tutti scomparsi dalla vista. Arthur si
mise a passeggiare su e giù, furioso, poi dopo un po' pensò che la
tomba di una balena non era affatto il posto più adatto a quel tipo
di passeggiata infuriata.
Marvin gli diede una veloce occhiata cattiva, quindi si disattivò.
Zaphod scendeva lungo il tunnel: era nervosissimo, ma cercava di
nasconderlo camminando con determinazione. Diresse la torcia a
destra e a sinistra. Le pareti erano rivestite di mattonelle scure,
ed erano fredde al tatto. L'aria era greve e sapeva di muffa. –
Ecco, vedete, cosa vi avevo detto? – disse Zaphod. – È un pianeta
disabitato. – E proseguì in mezzo alla sporcizia e ai detriti che
ingombravano il pavimento di piastrelle. A Trillian venne
inevitabilmente in mente la metropolitana di Londra, anche se
questa era un po' meno abominevolmente squallida. Ogni tanto sulle
pareti al posto delle piastrelle c'erano dei grandi mosaici con
disegni geometrici dai vivaci colori. Trillian si fermò a studiarne
uno, ma non riuscì assolutamente a capire cosa volesse dire. – Ehi
– gridò a Zaphod – hai idea di cosa siano queste strane figure?
– Saranno semplicemente strane figure
di qualche tipo – disse
Zaphod, senza girarsi a guardare.
Trillian alzò le spalle e riprese in fretta il cammino. Ogni tanto
c'erano porte che davano accesso a piccole stanze piene di
attrezzature elettroniche abbandonate. Fu Ford a scoprirle e a
chiamare Zaphod perché ci desse un'occhiata. Trillian li seguì. –
Guarda – disse Ford – e credi che questa sia Magrathea…? – Sì –
disse Zaphod – abbiamo udito anche la voce, non ti ricordi? – E va
be', ammettiamo anche che sia Magrathea… per il momento. Quello che
non ci hai ancora detto è come hai fatto a scovarla. Certo non ti
sarai limitato a guardare l'atlante stellare, vero? – Ho fatto
delle ricerche. Negli archivi statali. Un lavoro da detective. Ho
avuto qualche intuizione felice. È stato facile. – E poi hai rubato
il Cuore d'Oro per venire a cercarla? – L'ho rubato per cercare un
sacco di cose. – Un sacco di cose? – disse Ford, stupito. – Come
cosa, ad esempio?
– Non lo so.
– Come?
– Non so cosa sto cercando.
– Come mai non lo sai?
– Perché… perché… Perché credo che se lo sapessi non sarei più
capace di cercare quello che cerco.
– Cosa? Sei pazzo?
– È una possibilità che non ho ancora escluso – disse tranquillo
Zaphod. – Di me stesso so solo quel tanto che riesco a capire nelle
mie attuali condizioni mentali. E le mie attuali condizioni mentali
non sono buone.
Per un bel po' nessuno disse niente. Ford fissò a lungo Zaphod; si
sentiva d'un tratto molto preoccupato.
– Senti, amico mio – disse alla fine – se vuoi… – No, un attimo, ti
dirò una cosa – disse Zaphod. – Io sono un tipo che pensa a ruota
libera. Mi viene l'idea di fare una cosa e mi dico, be', perché no.
E la faccio. Mi viene in mente di diventare presidente della
Galassia, e lo divento subito, facilmente. Decido di rubare questa
nave e lo faccio. Decido di cercare Magrathea, e lo faccio. Sì,
calcolo sempre il modo migliore per riuscire a ottenere quello che
mi propongo, ma riesco immancabilmente ad avere successo. È come
avere una carta di credito Galattica che continua a essere valida
anche se non firmi mai gli assegni. Poi, tutte le volte che mi
fermo a pensare al perché ho fatto una cosa, al come sono riuscito
a escogitare il modo di farla, mi viene soltanto il terribile
desiderio di smettere di pensarci.
Come adesso, per esempio. Per me è un
grande sforzo parlare della
cosa.
Zaphod fece una pausa. Per un po' ci fu silenzio. – Ieri notte –
riprese poi Zaphod, aggrottando la fronte – stavo di nuovo
riflettendo sulla faccenda. Sul fatto cioè che una parte della mia
mente non sembra funzionare a dovere. E ho fatto un'ipotesi: che
qualcun altro stia usando la mia mente per sfruttare le idee buone
che elabora, e che faccia questo di nascosto, senza dirmelo. Così
ho pensato che questo qualcuno possa avermi chiuso a chiave, per
cosi dire, una parte della mente per perseguire questo suo scopo, e
che sia questa la ragione per cui non posso usarla. Mi sono chiesto
se ci fosse il modo di verificare la mia ipotesi.
"Sono andato all'infermeria della nave e mi sono collegato allo
schermo encefalografico. Ho fatto tutti i test possibili alle mie
due teste, tutti i test cui sono stato sottoposto prima che la mia
candidatura alla presidenza fosse ratificata. Non c'è stato nessun
risultato che non mi aspettassi. È venuto fuori che sono abile,
immaginoso, irresponsabile, indegno di fiducia, estroverso, insomma
niente che non fosse già prevedibile. E non è risultata nessuna
anomalia. Così mi sono messo a inventare ulteriori test,
completamente a casaccio. Niente. Allora ho provato a sovrapporre i
risultati dei test di una testa ai risultati dei test dell'altra.
Ancora niente. Alla fine mi sono sentito sciocco, ho ritenuto di
essermi fatto prendere da un attacco di paranoia. Ma ho fatto
un'ultima cosa, prima di rinunciare: ho preso l'immagine
sovrapposta ottenuta dall'unione dei risultati dei test e l'ho
guardata attraverso un filtro verde. Ricordi, Ford, che quando ero
ragazzo ero superstizioso, a proposito del colore verde? Ti ricordi
che dicevo di voler pilotare una delle navi degli esploratori
commerciali?" Ford annuì.
– E allora – disse Zaphod – ho visto la cosa chiara come la luce
del giorno: ho visto un'intera sezione, al centro di entrambi i
cervelli, completamente isolata da quello che la circonda. Sono due
sezioni che hanno relazione soltanto fra di loro: qualche bastardo
ha cauterizzato tutte le sinapsi e traumatizzato elettronicamente i
due cervelletti. Ford lo fissò inorridito. Trillian sbiancò in
viso. – Qualcuno ti ha fatto una cosa simile? – sussurrò
Ford. – Sì.
– Ma hai la minima idea di chi sia stato? O del perché l'abbia
fatto?
– Il perché lo posso solo immaginare. Ma so bene chi è stato il
bastardo.
– Lo sai? Come fai a saperlo?
– Perché mi hanno lasciato le loro
iniziali, cauterizzandomi le
sinapsi. Le hanno lasciate perché io le vedessi. Ford lo fissò in
preda all'orrore, con la pelle tutta accapponata. – Le iniziali?
Disegnate cauterizzandoti le sinapsi? – Sì.
– Ma per amor del cielo, che iniziali, si può sapere? Zaphod lo
guardò un attimo in silenzio. Poi distolse lo sguardo. – Z.B. –
disse.
In quella una porta d'acciaio sbatté violentemente dietro di loro,
e nella camera cominciò a diffondersi del gas. – Vi dirò poi… –
arrivò a dire Zaphod, ansimando, prima di svenire assieme agli
altri due.
Arthur intanto vagava
malinconicamente senza meta sulla superficie di Magrathea.
Ford aveva pensato bene di lasciargli la sua copia della
Guida Galattica per gli Autostoppisti, perché
passasse il tempo durante
l'attesa. Arthur premette alcuni bottoni a caso. La Guida
Galattica per gli Autostoppisti è un libro un po'
discontinuo, essendo stato curato da varie e diverse persone.
Perciò
vari brani ci sono solo perché all'epoca in cui furono
redatti
apparvero interessanti ai loro curatori.
Uno di questi brani (quello che capitò di leggere ad
Arthur)
concerne, a quanta sembra, le vicende della vita di un certo
Veet
Voojagig, un giovane e tranquillo studente dell'università
di
Maximegalon, che intraprese una brillante carriera
accademica
studiando filologia antica, etica trasformazionale e la teoria
della
percezione storica dell'onda armonica, dopo di che, avendo
passato
una notte a bere Gotto Esplosivo Pangalattico assieme a
Zaphod
Beeblebrox, cominciò a pensare ossessivamente al problema di
cosa
fosse successo a tutte le biro che aveva comprato negli ultimi
anni.
Seguì un periodo di coscienziosa ricerca, durante il quale
visitò
tutti i maggiori centri di perdite di biro della galassia: alla
fine tirò
fuori una bizzarra teoria che all'epoca fece colpo
sull'immaginazione
della gente. Da qualche parte nel cosmo, disse Voojagig, insieme
a
tutti i pianeti abitati da umanoidi, rettiloidi, pescioidi,
alberoidi
ambulanti e sfumature super-intelligenti del colore azzurro,
c'era
anche un pianeta interamente consacrato alla forma di vita
biroide.
Era proprio quel pianeta la meta delle biro trascurate, le
quali,
attraverso forellini nel tempo, vi si recavano certe di poter
finalmente
fruire di uno stile di vita unicamente biroide, che rispondesse
a stimoli
altamente biro-orientati, e che in generale garantisse
l'equivalente
biresco di una vita felice.
Finché si trattò di teorie, tutto andò benissimo, ma quando
Veet
Voojagig si mise di punto in bianco ad affermare di avere
trovato
questo pianeta, e di avere lavorato lì per un po' come autista
di
limousine al servizio di una famiglia di biro verdi a scatto, di
tipo
economico, fu immediatamente
portato via e rinchiuso. Voojagig in
seguito scrisse un libro e poi alla fine fu mandate in esilio
tassato:
l'esilio tassato è infatti il destino riservato a coloro che
sono decisi a
dare spettacolo di sé in pubblico.
Quando un giorno fu mandata una spedizione nel luogo
rispondente alle coordinate indicate da Voojagig per il suo
pianeta, fu
scoperto solo un piccolo asteroide abitato unicamente da un
vecchio
che affermava ostinatamente che non era vero niente, anche se
in
seguito si scoprì che mentiva.
Rimane però aperta la questione del misteriosi
sessantamila
dollari altairiani versati annualmente sul suo conto presso una
banca
brantisvogana, e rimane altresì aperta la questione
dell'assai
redditizio commercio di biro usate di Zaphod Beeblebrox…
Arthur, letto il brano, mise giù il libro e guardò il robot, che
sedeva ancora immobile nel punto di prima, completamente inerte. Si
alzò e andò sull'orlo del cratere. Vi girò intorno e guardò poi i
due soli tramontare splendidamente su Magrathea. Quindi tornò nel
cratere, davanti all'entrata del passaggio. E svegliò il robot,
perché è meglio parlare perfino con un robot maniaco-depressivo che
non parlare con nessuno. – Cala la notte – disse. – Guarda, robot,
stanno spuntando le stelle. Quando ci si trova nel cuore di una
nebulosa nera si riescono a vedere pochissime stelle, e quelle che
si vedono sono molto indistinte. Ma si vedono.
Il robot, obbediente, le guardò, poi distolse lo sguardo. – Sì –
disse. – Che stelle sfigate, eh?
– Ma quel tramonto! Non ho mai visto niente di simile nemmeno nei
miei sogni più pazzi… I due soli! Erano come montagne di fuoco che
ribollivano nello spazio!
– Ho visto – disse Marvin. – Uno schifo. – Noi avevamo solo un sole
– insistette Arthur. – Sai, io vengo da un pianeta chiamato
Terra.
– Lo so – disse Marvin – non fai altro che parlarne. A quanto ho
capito era un pianeta orrendo.
– Oh, no! Era un bel posto.
– Aveva oceani?
– Oh, sì – disse Arthur con un sospiro – vastissimi oceani
azzurri…
– Non posso soffrire gli oceani – disse Marvin. – Di' un po' –
chiese Arthur – in che rapporti sei con gli altri robot? – Li odio
– disse Marvin. – Dove vai?
Arthur stava salendo di nuovo
sull'orlo. Ormai non resisteva più,
lì.
– Farò un'altra passeggiatina – disse.
– Non ti biasimo – disse Marvin, e contò cinquecentonovantasette-
mila milioni di pecore prima di addormentarsi, un secondo dopo.
Arthur si circondò il corpo con le braccia per cercare di
conciliare un po' la circolazione del sangue col lavoro ingrato che
Zaphod lo aveva costretto a fare. Fu con molta fatica che riuscì a
riguadagnare la cima del cratere.
A causa dell'atmosfera così sottile e dell'assenza di luna, il
tramonto era molto breve, e ormai era già buio pesto. Fu per questo
che Arthur andò a inciampare nel corpo dell'uomo.
L'uomo era in piedi con le spalle
rivolte ad Arthur. Guardava gli ultimissimi barlumi di luce
sprofondare nel buio, dietro l'orizzonte. Era abbastanza alto,
vecchio e indossava una sorta di tunica grigia. Non reagì
all'esclamazione di sorpresa di Arthur, e non si voltò affatto.
Si degnò di girarsi solo quando gli ultimi raggi di sole furono
completamente scomparsi. Aveva un viso affilato, da persona
distinta, un viso segnato dalle preoccupazioni, ma non duro. Un
tipo di faccia atto a ispirare fiducia. Arthur si chiese come mai
quella faccia fosse illuminata nonostante il buio completo. Si
guardò intorno e vide che a qualche metro da loro c'era un piccolo
apparecchio, qualcosa come un hovercraft. Era da questo che veniva
proiettato un vago cerchio di luce.L'uomo parve guardare Arthur con
tristezza. – Avete scelto una notte fredda per visitare il nostro
pianeta morto – disse.
– Chi… chi siete? – farfugliò Arthur.
L'uomo distolse lo sguardo. La tristezza gli velò ancora una volta
gli occhi.
– Il mio nome non ha importanza – disse. Sembrava pensare a
qualcosa. Era chiaro che non moriva dalla voglia di continuare la
conversazione.
Arthur si sentì imbarazzato.
– Io… ehm… voi… mi avete spaventato – balbettò. L'uomo si girò di
nuovo verso di lui e alzò leggermente le sopracciglia.
– Eh? – disse.
– Ho detto che mi avete spaventato.
– Oh, non abbiate paura. Non vi farò niente di male. Arthur
aggrottò la fronte. – Ma ci avete sparato! E dei missili, per di
più! – disse.
L'uomo guardò l'interno del cratere. Il lieve bagliore degli occhi
di Marvin proiettava ombre rosse appena visibili sull'enorme
carcassa della balena.
L'uomo ridacchiò.
– Un sistema automatico – disse, e fece un piccolo sospiro. –
Antichissimi computer che si trovano nelle viscere del pianeta
segnano l'oscuro trascorrere dei millenni, e il tempo passa
lentamente sulle loro impolverate banche dei dati. Credo che di
tanto in tanto si esercitino nel tiro al bersaglio per rompere la
monotonia. Guardò Arthur con aria grave e disse: – Io amo molto la
scienza, sapete?
– Ah, ehm, davvero? – disse Arthur, che trovava imbarazzanti i modi
strani e tuttavia affabili del vecchio. – Eh, sì – disse il
vecchio, e tacque.
– Ah – disse Arthur – ehm… – Aveva la strana impressione di essere
nella situazione di un adultero sorpreso dal marito di una donna
che, entrato nella stanza del peccato, si cambiasse i pantaloni,
facesse alcune oziose osservazioni sul tempo e poi se ne andasse
via. – Sembrate a disagio – disse il vecchio, con cortese
preoccupazione.
– Ehm, no… cioè, sì. Vedete, in realtà non credevamo di trovare
proprio nessuno su questo pianeta. Io mi ero fatto l'idea che foste
tutti morti, o qualcosa del genere…
– Morti? – disse il vecchio. – Perbacco, no! Abbiamo solo
dormito.
– Dormito? – disse Arthur, incredulo.
– Sì, durante la recessione economica – disse il vecchio, che
chiaramente non si preoccupava affatto di sapere se Arthur capisse
o meno di che cosa stava parlando.
Arthur dovette chiedergli ancora delucidazioni. – Ehm, recessione
economica?
– Sì. Cinque milioni di anni fa l'economia della Galassia ebbe un
crollo tremendo, e capendo che prodotti di lusso come i pianeti
fatti su ordinazione non…
S'interruppe e guardò Arthur.
– Sapete che costruivamo pianeti, vero? – chiese con solennità. –
Oh, sì – disse Arthur – mi sono fatto un po' un'idea… – Una bella
industria era, la nostra – disse il vecchio, con un'espressione
malinconica. – Fabbricare le linee costiere era la mia passione. Mi
divertivo immensamente a fare tutti quei fiordi frastagliati… –
Fece una breve pausa, cercando di nuovo il filo del discorso, e
riprese: – Ma, dicevo, venne la recessione e decidemmo che ci
saremmo risparmiati una bella noia se ci fossimo messi a dormire
per tutto il tempo della sua durata. Così programmammo i computer
in modo che ci rianimassero appena la recessione fosse finita.
L'uomo soffocò uno sbadiglio e
continuò.
– I computer avevano gl'indici collegati coi prezzi di mercato
delle varie materie prime della Galassia, in modo che noi venissimo
rianimati quando tutti gli altri avessero ricostruito l'economia
quel tanto da rendere di nuovo possibile la nostra produzione di
pianeti di lusso.
Arthur, che quand'era sulla Terra leggeva regolarmente il
Guardian, rimase profondamente scioccato.
– È un modo di comportarsi abbastanza antipatico, no? – Davvero? –
disse il vecchio, tutto gentile. – Mi dispiace, è che è da tanto
che non ho più contatti con la gente… Indicò l'interno del
cratere.
– È vostro quel robot? – chiese.
– No – disse una sottile voce metallica proveniente dal cratere. –
Io sono mio.
– Se si può chiamare robot – borbottò Arthur. – Più che altro è una
macchina elettronica del broncio.
– Fatelo venire qui – disse il vecchio. Arthur si stupì moltissimo
di sentire all'improvviso un tono di decisione nella sua voce.
Chiamò Marvin, che si arrampicò su per il pendio zoppicando (benché
non avesse nessuna ragione di zoppicare).
– No, ci ho ripensato – disse il vecchio. – Lasciatelo qui. Voi
dovete venire con me. Stanno avvenendo grandi cose. – Si girò verso
il suo apparecchio che, pur in assenza di qualsiasi segnale da
parte del vecchio, cominciò ad avvicinarsi piano piano a loro.
Arthur guardò Marvin fare dietro front e scendere faticosamente e
teatralmente giù nel cratere, borbottando e imprecando amaramente
fra sé.
– Venite – disse il vecchio.
– Venite adesso, o dopo sarà troppo tardi. – Tardi? – disse Arthur.
– Tardi per che cosa? – Come vi chiamate, umano?
– Dent. Arthur Dent – disse Arthur.
– Tardi, come nel tardo Dentarthurdent – disse il vecchio, con
severità. – È una specie di minaccia, capite? – Ancora una volta
nei suoi occhi stanchi apparve un'espressione malinconica. – Io non
sono mai stato bravo a farle, ma a quanto mi dicono possono essere
molto efficaci.
Arthur lo guardò di sottecchi.
– Che persona straordinaria! – mormorò fra sé. – Come dite? –
chiese il vecchio.
– Oh, niente, niente – disse Arthur,
imbarazzato. – Bene, dove
andiamo?
– Sulla mia aeromobile – disse il vecchio, invitando con un gesto
Arthur a salire sull'apparecchio, che nel frattempo si era fermato
accanto a loro. – Andremo nelle viscere del pianeta, dove in questo
momento la mia razza viene rianimata dal suo sonno di cinque
milioni di anni. Magrathea si risveglia.
Arthur rabbrividì involontariamente, mettendosi a sedere vicino al
vecchio. Era turbato dalla stranezza della situazione, dal
silenzioso sobbalzare dell'apparecchio, che veleggiava alto nella
notte. Guardò il vecchio, il cui viso era illuminato dal debole
bagliore delle lucine del quadro comandi.
– Scusate – gli disse – qual è il vostro nome? – Il mio nome? –
disse il vecchio, con gli occhi velati di tristezza. – Il mio nome
– disse dopo una breve pausa – è Slartibartfast. Ad Arthur andò di
traverse la saliva. – Come avete detto? farfugliò.
– Slartibartfast – ripeté tranquillo il vecchio. –
Slartibartfast?
Il vecchio lo guardò con aria grave. – Vi avevo detto che non era
importante – disse.
L'aeromobile continuò a veleggiare nella notte.
È importante e risaputo che le cose
non sempre sono ciò che appaiono. Per esempio sul pianeta Terra gli
uomini hanno sempre ritenuto di essere più intelligenti dei
delfini. Sostenevano infatti che mentre loro avevano inventato un
sacco di cose, come la ruota, New York, le guerre, ecc., i delfini
non avevano fatto altro che sguazzare nell'acqua divertendosi. Al
contrario invece, i delfini sapevano da tempo dell'imminente
distruzione della Terra e avevano tentato più volte di avvertire
l'umanità dell'incombente pericolo; ma i loro messaggi erano stati
fraintesi e interpretati come divertenti tentativi di dare calci a
palle da football o di fischiare per avere bocconcini prelibati.
Così alla fine i delfini rinunciarono e se ne andarono dalla Terra
coi propri mezzi, poco prima che arrivassero i vogon. L'ultimissimo
messaggio lanciato dai delfini fu interpretato come un tentativo
estremamente raffinato di fare un doppio salto mortale all'indietro
dentro un cerchio, fischiettando nel contempo La bandiera
a stelle e strisce: in realtà invece, il messaggio diceva
Addio e grazie
per tutti quei pesci.
In effetti, c'era una sola specie, sul pianeta, più intelligente
della specie dei delfini: era una specie che passava la maggior
parte del tempo nei laboratori di ricerca sul comportamento, a
correre in tondo dentro delle ruote e a condurre esperimenti
estremamente fini e complessi sull'uomo. Il fatto che ancora una
volta l'uomo dimostrasse di fraintendere completamente il rapporto
con un'altra specie era pienamente in conformità coi piani degli
esseri più intelligenti della Terra.
L'aeromobile veleggiava silenziosa
nella fredda oscurità, unico debole bagliore nella notte di
Magrathea. Andava a tutta velocità. Il vecchio sembrava immerso nei
suoi pensieri e quando, in un paio di occasioni, Arthur cercò di
riavviare un'altra conversazione, lui si limitò a chiedergli se si
sentiva abbastanza a suo agio, evitando di farsi coinvolgere in
chiacchiere.
Arthur cercò di calcolare a che velocità stessero viaggiando, ma
fuori era buio pesto e mancavano i punti di riferimento. Il senso
di movimento era così lieve e impercettibile che sembrava quasi che
l'apparecchio non si muovesse affatto.
Poi apparve in lontananza un minuscolo bagliore; nel giro di pochi
secondi diventò talmente grande, che Arthur capì che stava
viaggiando incontro a loro a velocità eccezionale. Cercò di
indovinare che tipo di apparecchio fosse: lo scrutò a lungo, ma non
riuscì a distinguere una forma netta. Poi, di colpo, boccheggiò
dalla paura vedendo che l'aeromobile si tuffava in picchiata in
quella che appariva chiaramente come una rotta di collisione. Le
velocità relative dei due apparecchi sembravano incredibili: e
Arthur ebbe appena il tempo di tirare il respiro che era già tutto
finito. Finite in un qualcosa di argenteo che li circondò
completamente. Arthur si giro a guardare indietro e vide un
puntolino nero che rimpiccioliva sempre più, allontanandosi da
loro. Gli ci vollero parecchi secondi per capire cosa fosse
successo. Avevano infilato a tutta velocità un tunnel nel terreno.
Il bagliore che Arthur aveva visto ingigantire sempre più era in
realtà fermo: era l'imboccatura del tunnel. Il qualcosa di argenteo
che li circondava era la parete circolare del tunnel, lungo il
quale correvano a una velocità che doveva essere di parecchie
centinaia di miglia all'ora. Arthur chiuse gli occhi,
terrorizzato.
Dopo un lasso di tempo che non cercò di valutare, intuì che la
macchina stava lievemente rallentando: dopo poco, la sentì
rallentare ancora di più.
Riaprì gli occhi.
Erano ancora nel tunnel argenteo e si facevano strada in un dedalo
di corridoi convergenti. Quando finalmente si fermarono si
ritrovarono in una piccola stanza
dalle curve pareti di acciaio. Molti
tunnel sfociavano lì; in fondo alla stanza, Arthur vide un grande
cerchio di luce fioca ma irritante. Era irritante perché giocava
strani scherzi agli occhi: non la si riusciva a distinguere bene,
né si riusciva a capirne la distanza. Arthur pensò (ma si sbagliava
completamente) che fosse una luce ultravioletta.
Slartibartfast si girò a guardare Arthur con i suoi occhi gravi e
solenni.
– Terrestre – disse – ora siamo nelle viscere di Magrathea. – Come
sapete che sono terrestre? – chiese Arthur. – Capirete queste cose
in seguito – disse il vecchio garbatamente. – O almeno – aggiunse,
con una lieve sfumatura di dubbio nella voce – le capirete più di
quanto non le capiate adesso. Continuò: – Devo avvertirvi che la
stanza in cui stiamo per passare non esiste veramente nel nostro
pianeta. È un po' troppo… grande. In realtà stiamo per passare,
attraverso una sorta di cancello, in un vasto tratto d'iperspazio.
La cosa potrà disturbarvi. Arthur emise alcuni borbottii di
nervosismo. Slartibartfast toccò un bottone e aggiunse, in tono non
proprio rassicurante: – A me fa una paura da matti. Tenetevi forte.
L'aeromobile parti dritta incontro al cerchio di luce, e d'un
tratto Arthur ebbe un'idea abbastanza chiara di come apparisse
l'infinito. In realtà non era l'infinito. L'infinito in sé è piatto
e poco interessante. Guardare un cielo notturno è guardare
l'infinito: le distanze incommensurabili sono incomprensibili e
quindi senza senso. Invece la stanza in cui penetrò l'aeromacchina
dava il senso dell'infinito molto più dell'infinito vero e proprio,
perché era solo grande, enormemente grande.
Arthur si sentì sconvolgere tutt'e cinque i sensi, mentre
l'aeromacchina viaggiava a velocità immensa: salirono su, sempre
più su, lasciandosi alle spalle la porta attraverso la quale erano
passati, una porta che adesso non era che un puntolino invisibile
nel luccicante muro dietro di loro.
Il muro.
Il muro sfidava l'immaginazione, la seduceva e la vinceva. Il muro
era così inconcepibilmente vasto e perpendicolare che la sua cima,
la sua base e i suoi lati scivolavano via dalla vista. Sarebbe
bastato l'immenso senso di vertigine che dava per uccidere un uomo.
Il muro appariva perfettamente liscio, piatto. Ci sarebbero voluti
i più perfezionati strumenti laser per capire che mentre saliva
come verso l'infinito, che mentre si dilatava vertiginosamente, nel
contempo si curvava. Si ricongiunse infatti con se stesso dopo
tredici secondi
luce. In altre parole, il muro
costituiva l'interno di una sfera cava, una
sfera del diametro di più di cinque milioni di chilometri, inondata
di una luce inimmaginabile.
– Benvenuto – disse Slartibartfast, mentre quel puntolino che era
l'aeromobile, che viaggiava ora a una velocità tre volte maggiore
di quella del suono nello spazio follemente grande, procedeva senza
quasi fare avvertire il movimento. – Benvenuto nella sede della
nostra fabbrica.
Arthur si guardò intorno con un senso di meraviglia e di spavento.
In fila davanti a loro, a una distanza che era inimmaginabile
calcolare, c'erano strane cose sospese, delicate strutture di
metallo e luce attaccate a irreali forme sferiche che si libravano
nello spazio. – È qui – disse Slartibartfast – che fabbrichiamo
quasi tutti i nostri pianeti, .
– Volete dire – balbettò Arthur – che intendete riprendere la
vostra attività?
– No, perbacco, no – disse il vecchio. – No, la Galassia non è così
ricca: è che siamo stati svegliati solo per eseguire un lavoro
molto particolare per conto di… di clienti molto speciali di
un'altra dimensione. Forse v'interesserà… Guardate là lontano,
davanti a noi. Arthur guardò nella direzione indicatagli dal
vecchio finché riuscì a distinguere la struttura sospesa di cui
parlava. In effetti, era l'unica che rivelasse la presenza di un
minimo di attività, anche se tale attività era più intuibile che
immediatamente individuabile. Proprio in quel momento un lampo di
luce attraversò la struttura, rivelando le forme e i disegni che la
caratterizzavano. Forme e disegni che Arthur conosceva, ombre di
colore che gli erano familiari come le parole della sua lingua,
ombre che facevano parte del patrimonio della sua mente. Per alcuni
secondi rimase in attonito silenzio a fissare le immagini e a
cercare di decifrarle.
Nella sua mente c'era qualcosa che gli diceva cos'erano quelle
immagini, ma c'era anche qualcos'altro che si rifiutava di
accettare quella risposta, che si rifiutava perfino di pensare che
fosse possibile una simile risposta.
Il lampo di luce riapparve, e questa volta non vi poterono essere
dubbi.
– La Terra… – sussurrò Arthur.
– Be', in realtà la Terra Numero Due – disse allegro
Slartibartfast. – Stiamo facendo una copia basandoci sulle ciano
dell'originale. Ci fu un breve silenzio.
– State per caso dicendomi – disse Arthur, scandendo le parole e
cercando di mantenere la calma – che voi a suo tempo avete…
fabbricato la Terra?
– Oh, sì! – disse Slartibartfast. –
Siete mai stato in un posto… in
un posto che credo fosse chiamato Norvegia? – No – disse Arthur. –
No, non ci sono mai stato. – Peccato – disse Slartibartfast – era
una delle mie creazioni. Sapete, mi ha fatto vincere anche un
premio. Ah, che belle coste frastagliate avevo fatto! Sono rimasto
davvero sconvolto quando ho saputo della distruzione del
pianeta.
– Figuratevi come sono rimasto io! – Già. Fosse
accaduto cinque minuti più tardi, non avrebbe poi
avuto tanta importanza. È stato un bel casino, invece, così. – Eh?
– disse Arthur.
– Sì. I topi erano furiosi.
– I topi erano furiosi?
– Eh, sì – disse il vecchio.
– Ah be' sì, immagino che lo fossero anche i cani e i gatti e gli
ornitorinchi, ma…
– Ma mica avevano pagato e fatto l'ordinazione, loro… – Sentite –
disse Arthur – non vi risparmierei forse un mucchio di tempo se
semplicemente lasciassi perdere e impazzissi subito? Per un po'
l'aeromobile volò in un silenzio imbarazzato. Poi il vecchio cercò
con pazienza di dare delle spiegazioni. – Terrestre, il pianeta su
cui voi abitavate era stato ordinato e pagato dai topi, che lo
gestivano. Fu distrutto cinque minuti prima che fosse compiuto lo
scopo per il quale era stato costruito, per cui adesso ne dobbiamo
costruire una copia.
Una sola parola urlava la sua assurdità nella mente di Arthur. –
Topi?
– Sì, terrestre.
– Scusate, ma stiamo parlando di quei cosini bianchi e pelosi che
vanno matti per il formaggio e che nei fumetti dei primi anni
Sessanta spaventavano le donne, facendole urlare e saltare sul
tavolo? Slartibartfast si schiarì la voce.
– Terrestre – disse – a volte è difficile seguire i vostri
discorsi. Ricordatevi che io ho dormito per cinque milioni di anni
nelle viscere di Magrathea, e che so ben poco di quei fumetti dei
primi anni Sessanta di cui parlate. Le creature che chiamate topi
non sono affatto ciò che appaiono, capite? Sono soltanto
l'estensione nella nostra dimensione di esseri pandimensionali
eccezionalmente intelligenti. Tutta la storia del formaggio e degli
squittii è solo una facciata. Il vecchio fece una pausa, aggrottò
la fronte con aria comprensiva e continuò.
– Ho paura che abbiano fatto esperimenti su di voi. Arthur meditò
un attimo su quell'affermazione, poi s'illuminò.
– Ah! – disse. – Adesso ho capito! Si
tratta di un qui pro quo.
Vedete, le cose non stanno come dite. In realtà, eravamo noi
a fare esperimenti su di loro. Erano spesso usati per lavori
di ricerca sul comportamento, cose tipo i riflessi di Pavlov e
quella roba là. Succedeva così che i topi venivano sottoposti ai
più svariati test, come imparare a suonare dei campanelli,
percorrere dei labirinti, eccetera: tutte cose che servivano
all'uomo per capire a fondo la natura del processo d'apprendimento.
Osservando il loro comportamento, noi riuscivamo a sapere
moltissime cose sul nostro… Arthur s'interruppe. – Che ingegnosità…
– disse Slartibartfast. – Non si può fare a meno di ammirarli.
– Cosa? – disse Arthur.
– Quale modo migliore per mascherare la loro vera natura, e quale
modo migliore per dirigere il vostro pensiero? Correre per un
labirinto scegliendo la strada sbagliata, mangiare il pezzo di
formaggio sbagliato, crepare inaspettatamente di mixomatosi… Se
tutto questo è calcolato assai ingegnosamente, l'effetto cumulativo
è enorme. E così è stato.
Fece una breve pausa.
– Sapete, terrestre, i topi sono davvero degli esseri
pandimensionali particolarmente furbi ed estremamente intelligenti.
Il vostro pianeta e la vostra gente costituivano la matrice di un
computer organico con un programma di ricerca della durata di dieci
milioni di anni… Lasciate che vi racconti tutta la storia. Non ci
vorrà molto tempo.
– Il tempo – disse con un filo di voce Arthur – in questo momento
non è per me uno dei problemi più importanti.
Ci sono ovviamente molti problemi
che la vita ci pone: alcuni dei più noti sono rappresentati da
domande quali Perché noi uomini nasciamo? Perché moriamo?
Perché passiamo tanta parte del tempo
concessoci a portare orologi da polso digitali?
Molti, molti milioni di anni fa una razza di esseri
iperintelligenti e pandimensionali (il cui aspetto fisico nel loro
proprio universo pandimensionale non era diverso dal nostro) ne
ebbero così le tasche piene che il continuo bisticciare a proposito
del significato della vita continuasse a interrompere il loro
passatempo preferito (che era l'Ultra-cricket Fottazzo, uno strano
gioco che consisteva nel colpire all'improvviso le persone senza
nessun motivo, e poi scappare via), che decisero di mettersi a
tavolino per risolvere una volta per tutte i loro problemi.
Finirono per costruire un immenso super computer così
straordinariamente intelligente che ancor prima che le sue banche
dati fossero collegate, aveva già cominciato a dire Penso,
dunque sono, era passato a dedurre quindi l'esistenza del
budino di riso e delle imposte sul reddito, finché qualcuno alla
fine non era riuscito a spegnerlo. Era grande come una
cittadina.
La sua consolle principale fu installata in un ufficio da executive
progettato all'uopo, e fu montata su un'enorme scrivania da
executive, una scrivania del più fine ultramogano, ricoperta di
lussuosa pelle ultrarossa. La moquette era abbastanza sontuosa:
intorno alla stanza, facevano sfoggio di sé vasi di piante esotiche
e fini incisioni rappresentanti i principali programmatori del
computer con le loro famiglie. Solenni finestre davano su una
pubblica piazza contornata di alberi.
Il giorno della Grande Attivazione due programmatori vestiti in
modo sobrio arrivarono con le loro borse sobrie e furono fatti
entrare con circospezione nell'ufficio. Erano consci che quel
giorno avrebbero rappresentato l'intera razza umana nel momento
culminante della sua storia, e si comportarono con estrema calma e
senso di responsabilità: si sedettero rispettosamente davanti alla
scrivania, aprirono le loro borse e tirarono fuori i loro notes in
pelle.
I due programmatori si chiamavano
Lunkwill e Fook.
Restarono seduti alcuni attimi in perfetto e deferente silenzio,
poi, dopo avere scambiato una tranquilla occhiata con Fook,
Lunkwill si protese in avanti e toccò un piccolo pannello nero. Un
acuto ronzio indicò che l'immenso computer era attivato. Dopo un
breve silenzio, questo parlò loro con voce sonora e profonda.
Disse: – Qual è il grande compito per il quale io, Pensiero
Profondo, il secondo più grande computer dell'Universo del Tempo e
dello Spazio, sono stato chiamato in vita? Lunkwill e Fook si
guardarono l'un l'altro sbigottiti. – Il tuo compito, o Computer… –
attaccò Fook. – No, un attimo, c'è un errore – volle puntualizzare
Lunkwill, preoccupato. – Noi abbiamo inteso progettare il computer
più grande che sia mai esistito, e non il secondo più grande.
Pensiero Profondo – e qui Lunkwill si rivolse direttamente al
computer – non sei dunque come noi abbiamo inteso farti, ovvero il
più grande e potente computer di tutti i tempi?
– Mi sono descritto come il secondo più grande – disse Pensiero
Profondo – e tale sono.
I due programmatori si scambiarono un'altra occhiata preoccupata.
Lunkwill si schiarì la voce.
– Ci dev'essere un errore – disse. – Non sei forse un computer più
grande del Gargantucervello Miliardo di Maximegalon, che può
contare tutti gli atomi di una stella in un millisecondo? – Il
Gargantucervello Miliardo? – disse Pensiero Profondo con palese
disprezzo. – È solo un pallottoliere. Non menzionatelo nemmeno!
– E non sei forse – disse Fook, protendendosi ansiosamente in
avanti – un analista più grande del Pensatore della Stella
Googlepex, nella Settima Galassia di Luce e Ingegnosità, il quale
sa calcolare la traiettoria di ogni singola particella di polvere
per tutta la durata delle tempeste di sabbia di Dangrabad Beta, che
si prolungano per cinque settimane?
– Cosa volete che sia una tempesta di sabbia che dura cinque
settimane? – disse Pensiero Profondo, altezzoso. – Chiedete una
cosa del genere a me, che ho contemplate addirittura i vettori
degli atomi dello stesso Big Bang? Non seccatemi con queste robette
da calcolatori tascabili!
I due programmatori rimasero per un attimo immersi in un
imbarazzato silenzio. Poi Lunkwill si sporse di nuovo in avanti. –
Non sei forse – disse – un dialettico più diabolico del Grande
Attaccabrighe Neutronico Iperbolico Onni-analogico di Ciceronico
12, detto anche il Magico e l'Infaticabile?
– Il Grande Attaccabrighe Neutronico
Iperbolico Onnianalogico –
disse Pensiero Profondo scandendo le parole – potrebbe a furia di
parlare far perdere le zampe a un Mega-asino di Arturo, ma solo io
potrei poi persuadere questo a camminare, dopo. – Allora dov'è il
problema? – chiese Fook. – Non c'è nessun problema – disse Pensiero
Profondo, con voce squillante. – Semplicemente, io sono il secondo
più grande computer dell'Universo dello Spazio e del Tempo.
– Ma perché il secondo? – insistette Lunkwill. – Perché
continui a dire il secondo? Non penserai mica al Macinatore
Titanico Perspicutron Multicorticoide, vero? O al Meditomatic? O
al… Lampi di disprezzo balenarono sulla consolle del computer. – Ma
non fatemi sprecare unità di pensiero per parlare di questi
imbecilloni cibernetici! – tuonò Pensiero Profondo. – Quando parlo
del primo computer, parlo di quello che dovrà venire dopo di me!
Fook stava perdendo la pazienza. Spinse da parte il notes e
borbottò: – Mi pare che questo computer faccia un po' troppo il
messianico.
– Voi non sapete nulla del tempo future – disse Pensiero Profondo –
eppure io, coi miei circuiti brulicanti d'intelligenza, riesco a
governare la rotta delle infinite correnti delta delle probabilità
future, e a capire che un giorno verrà un computer i cui soli
parametri operativi io non sarò degno di calcolare: un computer
però che sarà mio destino alla fine progettare.
Fook fece un gran sospiro e guardò Lunkwill. – Possiamo andare
avanti e farti le domande previste? – disse. Lunkwill gli fece
segno con la mano di aspettare un attimo. – Che computer è questo
di cui parli? – chiese. – Ho già detto abbastanza su di esso, per
il momento – rispose Pensiero Profondo. – Ora chiedetemi quello che
volevate chiedermi. I due programmatori si diedero un'occhiata,
stringendosi nelle spalle. Fook assunse un'aria di grande
compostezza. – O Computer Pensiero Profondo – disse – il compito
per il quale ti abbiamo progettato è questo. Vogliamo che tu ci dia
la Risposta! – La Risposta? – disse Pensiero Profondo. – La
Risposta a cosa? – Alla vita! – esclamò Fook.
– All'Universo! – disse Lunkwill.
– A tutto! – esclamarono all'unisono.
Pensiero Profondo fece una pausa per riflettere. – Difficile –
disse alla fine.
– Ma ce la puoi fare?
Il computer fece un'altra pausa significativa. – Sì – disse. – Ce
la posso fare.
– C'è una risposta? – chiese Fook col
fiato sospeso.
– Una risposta semplice? – puntualizzò Lunkwill. – Sì – disse
Pensiero Profondo. – La Vita, l'Universo, e Tutto. Sì, c'è una
risposta. Ma devo rifletterci su. D'un tratto, la solennità del
momento fu disturbata: la porta si spalancò e due uomini incazzati,
che indossavano la rozza toga azzurro–scolorito e la cintura
dell'Università Neracroce irruppero nella stanza spingendo di lato
i portieri, che inutilmente tentarono di sbarrare loro la
strada.
– Chiediamo di essere ammessi! – urlò il più giovane dei due, dando
una gomitata in gola a una segretaria giovane e carina. – Su – urlò
quello più vecchio – non potete tenerci fuori! – Spinse via un
giovane programmatore che era accorso sentendo il baccano. –
Chiediamo che non ci teniate più fuori! – strillò l'universitario
più giovane, benché fosse già dentro la stanza e benché nessuno
tentasse più di fermarlo.
– Chi siete? – disse Lunkwill, scattando in piedi tutto arrabbiato.
– Cosa volete?
– Io sono Majikthise! – annunciò il più vecchio. – E io chiedo di
essere Vroomfondel! – urlò il più giovane. Majikthise si giro verso
Vroomfondel. – Ehi – disse, arrabbiato – quello non hai mica
bisogno di chiederlo! – D'accordo! – strillò Vroomfondel,
picchiando col pugno sulla vicina scrivania. – Io sono Vroomfondel,
e questa non è una richiesta, ma un fatto concreto!
Quello che noi chiediamo sono fatti concreti! – No invece! –
esclamò irritato Majikthise. – È quello invece che non chiediamo
affatto!
Quasi senza nemmeno prendere il respiro, Vroomfondel gridò: – Noi
non chiediamo fatti concreti! Chiediamo invece una totale
assenza di fatti concreti! Chiedo di poter essere o non
essere
Vroomfondel!
– Ma chi diavolo siete? – chiese Fook, indignato. – Noi – disse
Majikthise – siamo Filosofi. – Anche se possiamo non esserlo –
disse Vroomfondel menando un minaccioso indice contro i due
programmatori. – Sì, lo siamo – insistette Majikthise. –
Siamo qui in qualità di rappresentanti dell'Unione Amalgamata dei
Filosofi, Saggi, Luminari e Altre Persone Pensanti, e pretendiamo
che questa macchina venga disattivata, e disattivata
immediatamente! – Perché? Qual è il problema? – disse
Lunkwill.
– Ve lo dico io qual è il problema, amico – disse Majikthise. – La
demarcazione, ecco qual è il problema!
"Le macchine devono solo far di conto
– proseguì minaccioso
Majikthise. – Sta invece a noi occuparci delle verità eterne! Avete
bisogno di dare una regolata alla vostra posizione legale, vecchi
miei. Secondo la legge, la Ricerca delle Verità Ultime è
chiaramente prerogativa inalienabile degli operatori del pensiero.
Non vorrete mica che una qualsiasi fottuta macchina trovi
lei le risposte e ci lasci senza lavoro, eh? Voglio dire, a cosa
serve che noi stiamo alzati fino a notte fonda discutendo sulla
possibilità dell'esistenza di un Dio, se poi questa macchina qui è
capace senza il minimo sforzo di darvi la mattina dopo il fottuto
numero di telefono di Dio in persona?" – Esatto! – urlò
Vroomfondel. – Esigiamo aree di dubbio e d'incertezza rigidamente
definite!
D'un tratto una voce stentorea rimbombò nella stanza. – Potrei fare
io un'osservazione, a questo punto? – chiese Pensiero
Profondo.
– Ci metteremo in sciopero! – urlò Vroomfondel. – Sì! – disse
Majikthise. – Dovrete affrontare uno sciopero nazionale dei
Filosofi!
Il ronzio che si sentiva nella stanza crebbe d'un tratto
d'intensità, perché varie unità ausiliarie, montate in
cassette–altoparlanti dignitosamente intagliate e verniciate,
intervennero per dare alla voce di Pensiero Profondo maggiore
potenza.
– Volevo solo dire – urlò il computer – che i miei circuiti sono
adesso irrevocabilmente impegnati a calcolare la risposta alla
Domanda Fondamentale sulla Vita, l'Universo e Tutto. – Fece una
pausa per sincerarsi di avere l'attenzione di tutti su di sé, poi
continuò, in tono più pacato: – Ma mi ci vorrà un po' di tempo per
elaborare la risposta.
Fook guardò con impazienza il suo orologio. – Quanto? – disse.
– Sette milioni e mezzo di anni – disse Pensiero Profondo. Lunkwill
e Fook si guardarono increduli. – Sette milioni e mezzo di anni…! –
esclamarono in coro. – Sì – disse enfatico Pensiero Profondo. – Vi
avevo detto che ci avrei dovuto riflettere su, no? E mi viene in
mente che varare un programma come questo creerà per forza
un'immensa pubblicità a tutto il campo della filosofia in generale.
Tutti si faranno le loro teorie sulla possibile risposta che io
darò alla fine, e chi meglio di voi filosofi potrà sfruttare a suo
vantaggio il giro di fantastiliardi dei mass media? Finché
continuerete a beccarvi l'un con l'altro e a lanciarvi reciproci
insulti dalle pagine dei giornali ad alta tiratura, e finché avrete
agenti abili, potrete spassarvela senza fare un cacchio per tutta
la vita. Cosa ne pensate?
I due filosofi erano rimasti a bocca
aperta.
– Perdio! – disse Majikthise. – Questo sì che si chiama aver la
testa! Ehi, Vroomfondel, perché non ci abbiamo mai pensato prima? –
Non lo so – disse Vroomfondel, sgomento. – Forse i nostri cervelli
sono troppo specializzati, Majikthise. Così dicendo, i due girarono
sui tacchi e uscirono dalla stanza, pregustando una vita molto più
bella di quella che avessero mai osato di sognare anche nei loro
sogni più pazzi.
– Una storia molto edificante –
disse Arthur, quando Slartibartfast ebbe finite di fare il suo
resoconto per sommi capi – ma non capisco cos'abbia a che vedere
tutto questo con la Terra, i topi e il resto. – Questa non è che la
prima parte della storia, terrestre – disse il vecchio, – Se
v'interessa sapere cosa successe sette milioni e mezzo di anni
dopo, il grande giorno della Risposta, permettetemi d'invitarvi nel
mio studio, dove potrete rivivere personalmente gli avvenimenti
grazie alle registrazioni del nostro sens–o–tape. A meno che non ci
teniate a fare una passeggiatina sulla superficie della Nuova
Terra. Purtroppo i lavori sono ancora a metà: non abbiamo ancora
finito di seppellire nella crosta gli scheletri di dinosauri
artificiali, poi dobbiamo costruire il periodo terziario e
quaternario dell'era cenozoica, e…
– No, grazie – disse Arthur – non sarebbe assolutamente la stessa
cosa.
– No – disse Slartibartfast – non lo sarebbe – e girò l'aeromobile
dirigendola verso il folle muro dal quale erano venuti.
Lo studio di Slartibartfast era
talmente incasinato, che sembrava una biblioteca pubblica in cui
fosse stata buttata una bomba. Il vecchio aggrottò la fronte,
entrando.
– Una terribile sfortuna – disse. – È saltato un diodo in uno dei
computer. Quando abbiamo provato a rianimare lo staff della
manutenzione abbiamo scoperto che tutti i suoi membri erano morti
da circa trentamila anni. Mi chiedo come si farà adesso a togliere
di mezzo i corpi, chi se ne occuperà. Sentite, perché non vi sedete
là e non lasciate che vi colleghi?
Indicò una sedia che aveva l'aria di essere fatta di costole di
stegosauro.
– È stata fatta con costole di stegosauro – spiegò il vecchio,
mentre si gingillava con pezzi di filo che tirava fuori da sotto
pile traballanti di carte e di strumenti da disegno. – Ecco – disse
– tenete questi – e passò ad Arthur un paio di fili.
Nel momento in cui lui li prese, si sentì attraversare come da una
scarica.
Subito dopo si ritrovò sospeso a mezz'aria: era invisibile, anche a
se stesso. Sotto di lui c'era una piazza contornata di alberi:
intorno alla piazza, fin dove l'occhio si poteva spingere, si
vedevano edifici bianchi di cemento, dalla linea delicata ma
dall'aria un po' cadente, perché erano pieni di fessure e di
macchie d'umidità. La giornata era bella: splendeva il sole, una
brezza fresca spirava lieve fra gli alberi, e l'impressione che
tutti gli edifici stessero ronzando derivava probabilmente dal
fatto che tutte le strade intorno alla piazza erano gremite di
gente allegra ed eccitata.
Arthur si sentì spaventosamente solo, lì in aria, senza nemmeno un
corpo, ma prima di avere il tempo di rimuginare sulla cosa sentì
risonare una voce nella piazza, una voce che attirò l'attenzione di
tutti. Su un palco addobbato vivacemente c'era un uomo, che si
rivolgeva alla folla parlando al microfono. Il palco si trovava
davanti all'edificio più grande, quello che dominava la piazza. – O
voi che aspettate all'ombra di Pensiero Profondo! – gridò l'uomo. –
Onorevoli Discendenti di Vroomfondel e Majikthise, i più
Grandi e più Veracemente Interessanti
Pandit che l'Universo abbia
mai conosciuto… Il Tempo dell'Attesa è finito! La folla esplose in
grida di gioia, lanciando fischi e alzando bandiere e pennoni. Le
strade più strette sembravano, tant'erano affollate, dei cento
piedi rovesciati sul dorso che agitassero freneticamente in aria le
zampe.
– Sette milioni e mezzo di anni ha aspettato la nostra razza questo
grande giorno, il Giorno della Speranza e dell'Illuminazione! –
gridò l'allegro leader. – Il Giorno della Risposta! La folla
entusiasta levò un coro di urrà. – Mai più – gridò l'uomo – mai più
ci sveglieremo la mattina pensando Chi sono io? Qual è lo scopo
della mia vita? Dal punto di vista cosmico ha veramente
importanza se non mi alzo per andare a lavorare? Non avremo
più questi problemi perché oggi finalmente sapremo una volta per
tutte la chiara, semplice risposta a tutte le seccanti domande
sulla Vita, l'Universo e Tutto! Mentre la folla esplodeva un'altra
volta in un coro di evviva, Arthur si ritrovò a volare nell'aria in
direzione di una delle solenni finestre del primo piano
dell'edificio che stava dietro al palco dell'oratore.
Arthur entrò nella stanza: nessuno ebbe niente da ridire, il che
non era strano, visto che nessuno lo poteva vedere. Era chiaro
infatti, a quel punto, che ciò che Arthur stava vivendo non era che
una proiezione a sei piste e settanta millimetri, che ti stracciava
tanto da ridurti a un niente.
La stanza era quasi come Slartibartfast l'aveva descritta. In
questi sette milioni e mezzo di anni era stata abbastanza ben
curata, e pulita regolarmente circa una volta al secolo. La
scrivania di ultramogano aveva gli angoli consunti, la moquette era
un po' scolorita, ma il grande terminale del computer era sempre
glorioso e scintillante, lì sulla ricopertura di pelle rossa della
scrivania. Era bello lustro, come se fosse stato costruito il
giorno prima. Due uomini vestiti in modo austero sedevano
rispettosamente davanti al terminale, e aspettavano. – È quasi ora
– disse uno dei due, e Arthur vide con stupore che nell'aria,
vicino al collo dell'uomo, si stava materializzando una parola. La
parola era LOONQUAWL: lampeggiò un paio di volte, poi scomparve.
Dopo un attimo si mise a parlare l'altro uomo, e vicino al suo
collo apparve la parola PHOUCHG.
– Settantacinquemila generazioni fa, i nostri antenati avviarono
questo programma – disse il secondo uomo – e dopo tutto questo
tempo, saremo noi i primi a sentir parlare il computer!
– Una prospettiva che incute timore e
riverenza, Phouchg – disse il
primo uomo, e Arthur d'un tratto capì che stava guardando una
specie di film con sottotitoli.
– Siamo coloro che udranno la risposta alla grande domanda sulla
Vita…! – disse – Phouchg.
– E sull'Universo…! – disse Loonquawl.
– E su Tutto…!
– Shh! – disse Loonquawl. – Credo che Pensiero Profondo si prepari
a parlare!
Ci furono alcuni attimi di ansiosa attesa, mentre i pannelli sul
davanti della consolle si animavano a poco a poco. Le spie luminose
si accesero e spensero, per poi stabilizzarsi. Dal canale di
comunicazione provenne un basso e sommesso ronzio.
– Buongiorno – disse finalmente Pensiero Profondo. – Ehm…
Buongiorno, o Pensiero Profondo – disse nervoso Loonquawl. – Hai…
ehm, cioè…
– Una risposta per voi? – disse solenne Pensiero Profondo. – Sì. Ce
l'ho.
I due uomini rabbrividirono. La lunghissima attesa non era dunque
stata vana.
– C'è davvero una risposta? – sussurrò Phouchg. – C'è davvero una
risposta – confermò Pensiero Profondo. – A Tutto? Alla grande
Domanda sulla Vita, l'Universo e Tutto? – Sì.
Sia Loonquawl sia Phouchg si erano preparati per tutta la vita a
quel momento, erano stati selezionati fin dalla nascita come
persone più adatte ad assistere a quel memorabile avvenimento, e
tuttavia si ritrovarono a boccheggiare e a stare sulle spine come
bambini eccitati. – E sei pronto a darci la Risposta? – disse
ansioso Loonquawl. – Sì.
– Adesso?
– Adesso – disse Pensiero Profondo.
I due s'umettarono le labbra.
– Anche se penso che non vi piacerà – disse Pensiero Profondo. –
Non importa! – disse Phouchg. – Dobbiamo saperla! Adesso! – Adesso?
– chiese Pensiero Profondo.
– Sì! Adesso…
– Va bene – disse il computer, e tacque. I due uomini si misero a
giocherellare con le dita. La tensione era insopportabile. – Non vi
piacerà davvero – disse dopo un attimo Pensiero Profondo.
– Diccela!
– D'accordo – disse Pensiero
Profondo. – La Risposta alla Grande
Domanda…
– Su..?
– Sulla Vita, l'Universo e Tutto… – disse Pensiero Profondo. –
Sì…?
– È… – disse Pensiero Profondo, e fece una pausa. – Sì…?
– È…
– Sì…???
– Quarantadue – disse Pensiero Profondo, con infinita calma e
solennità.
Passò molto tempo prima che qualcuno
parlasse. Con la coda dell'occhio Phouchg vedeva giù in piazza la
marea di facce in ansiosa attesa.
– Saremo linciati, vero? – sussurrò.
– È stato un duro compito – disse pacato Pensiero Profondo. –
Quarantadue! – urlò Loonquawl. – È tutto quello che hai da dirci
dopo sette milioni e mezzo di anni di lavoro? – Ho controllato con
grande minuziosità – disse il computer – e questa è la risposta
veramente definitiva. Credo che, se devo essere franco, il problema
stia nel fatto che voi non avete mai realmente saputo quale fosse
la domanda.
– Ma era la Grande Domanda! La Domanda Fondamentale sulla Vita,
l'Universo e Tutto! – urlò Loonquawl. – Sì – disse Pensiero
Profondo col tono di voce di uno che sopporti a cuor leggero gli
sciocchi – ma qual era in definitiva questa domanda?
Un silenzio pieno di sgomento calò sui due uomini, che, dopo avere
fissato sbalorditi il computer, si guardarono tra loro. – Be',
insomma, la domanda è semplicemente Tutto… Tutto… – disse Phouchg,
prostrato.
– Esattamente! – disse Pensiero Profondo. – Per questo è necessario
che scegliate in mezzo al tutto qual è in realtà la domanda: solo
così potrete capire cosa significa la risposta. – Dio, ma è
terribile! – mormorò Phouchg gettando in un canto il notes e
asciugandosi una minuscola lacrima. – E va be', d'accordo – disse
Loonquawl. – Puoi allora semplicemente dirci qual è la
domanda la cui risposta è quarantadue? – La Domanda
Fondamentale?
– Sì!
– Sulla Vita, l'Universo e Tutto?
– Sì!
Pensiero Profondo rifletté un attimo. – Difficile – disse. – Ma ce
la puoi fare? – gridò Loonquawl. Pensiero Profondo ci pensò su un
altro lungo momento.
Alla fine disse, secco: – No.
I due uomini si abbandonarono sulla sedia, in preda alla
disperazione.
– Ma vi posso dire chi ce la può fare – disse Pensiero Profondo. I
due gli diedero un'occhiata penetrante. – Chi? Diccelo!
Arthur si sentì trasportare piano ma inesorabilmente in avanti,
verso la consolle, ma poi capì che si trattava solo di un
drammatico zoom dell'operatore che aveva ripreso la scena a suo
tempo. – Parlo di nient'altri che il computer che dovrà venire dopo
di me – disse Pensiero Profondo, tornando ad assumere i toni
declamatori che lo caratterizzavano. – Un computer i cui semplici
parametri operativi io non sono nemmeno degno di calcolare, e
tuttavia un computer che sarò io a progettare per voi. Un computer
che potrà calcolare la Domanda alla Risposta Fondamentale, un
computer di tale infinita e raffinata complessità che la stessa
vita organica farà parte della sua matrice operativa. E voi, voi in
persona assumerete nuove forme e scenderete nel computer per
dirigere il suo programma, un programma che durerà dieci milioni di
anni! Sì! Progetterò questo computer per voi. E per voi gli darò
anche un nome. Esso sarà chiamato… Terra. Phouchg guardò a bocca
aperta Pensiero Profondo. – Che nome insulso! – disse, e in quella
dei grandi tagli gli apparvero in tutto il corpo. E immediatamente
anche Loonquawl fu devastate da altrettanti tagli, che non si
capiva da cosa fossero prodotti. La consolle del Computer si
macchiò e si ruppe, le pareti tremarono e si sgretolarono, e la
stanza rovinò in su, verso il soffitto… Slartibartfast era in piedi
davanti ad Arthur, e teneva i due fili. – Fine della registrazione
– spiegò.
– Zaphod! Svegliati!
– Mmmmmmmwwwrrrr?
– Su, dài, svegliati!
– Lasciatemi fare l'unica cosa che so fare bene, capito? – borbottò
Zaphod rimettendosi a dormire.
– Vuoi che ti prenda a calci? – disse Ford. – Perché, ti piacerebbe
molto? – disse Zaphod, tutto assonnato. – No.
– Nemmeno a me. E allora perché dovresti farlo? Smettila di
rompere. – Zaphod si raggomitolò per dormire. – S'è beccato una
doppia dose di gas – disse Trillian guardando Zaphod. – Ha due
trachee.
– E piantatela di parlare! – disse Zaphod. – È già abbastanza
difficile cercare di dormire, con questo pavimento freddo e duro.
Che cavolo di pavimento è?
– È d'oro – disse Ford.
Con una repentina e straordinaria piroetta, Zaphod si alzò in piedi
e scrutò l'orizzonte, perché il pavimento si estendeva, liscio e
solido, in tutte le direzioni fino all'orizzonte. Brillava come…
Era impossibile dire a cosa somigliasse il suo splendore, perché
non c'è niente nell'Universo che splenda nello stesso modo in cui
splende un pianeta d'oro massiccio.
– Chi ha messo tutto quest'oro qua? – strillò Zaphod, strabuzzando
gli occhi.
– Non sovreccitarti – disse Ford. – È soltanto un catalogo. – Un
cosa?
– Un catalogo – disse Trillian – un'illusione. – Come fai a dirlo?
– urlò Zaphod, buttandosi carponi a guardare il suolo. Lo saggiò,
colpendolo. Era molto solido, ma lo si poteva sfregiare con
un'unghia. Era giallo giallo e molto luccicante: Zaphod ci alitò
sopra, e il modo di appannarsi che rivelò si dimostrò identico a
quello dell'oro massiccio.
– Trillian e io siamo rinvenuti già da un po' – disse Ford. –
Abbiamo urlato e strillato finché non è venuto qualcuno.
Abbiamo
continuato a urlare e strillare
finché non ci hanno dato da mangiare e
non ci hanno messo in questo catalogo di pianeti, dove ci terranno
finche non saranno pronti a parlare con noi. Questo è tutto sens–o–
tape.Zaphod gli diede un'occhiata pungente. – Merda! – disse. – Mi
svegliate dal mio delizioso sogno per mostrarmi il sogno di un
altro! – Si mise a sedere, tutto incazzato. – Cos'è quella serie di
valli laggiù? – disse. – Il marchio di garanzia – disse Ford. – Ci
abbiamo dato un'occhiata.
– Non ti abbiamo voluto svegliare prima – disse Trillian. – Il
pianeta prima di questo era tutto pieno di pesci. I pesci ti
arrivavano alle ginocchia.
– Pesci?
– Gente veramente strana.
– E prima di quello – disse Ford – abbiamo avuto un pianeta di
platino. Era un po' insulso. Abbiamo pensato che ti piacesse di più
questo qui.
Dovunque guardassero, il mare di luce gialla dell'oro mandava
bagliori.
– Ah, è bellissimo – disse Zaphod, sempre imbronciato. Nel cielo
apparve un enorme numero verde, un numero di catalogo. Tremolo e
cambiò, e quando i tre si guardarono intorno, il paesaggio era
cambiato anch'esso. Dissero in coro: – Ulp! Il mare era color
porpora. La spiaggia sulla quale si trovavano era composta di
sassolini gialli e verdi, probabilmente pietre preziosissime. Le
montagne in lontananza apparivano smussate, e avevano cime rosse.
Vicino ai tre c'era un tavolo da spiaggia di argento massiccio,
dentro il quale era inserito un ombrellone color malva, con frange
d'argento.
In cielo apparve un enorme cartellone, che sostituì il numero di
catalogo. Sopra vi era scritto: Quali che siano i vostri
gusti, Magrathea può soddisfarli. Non è per
vantarci.
E dal cielo scesero col paracadute cinquecento donne completamente
nude.
Dopo un attimo la scena scomparve: i tre si ritrovarono in un prato
pieno di mucche sotto un cielo di primavera. – Oh! – disse Zaphod.
– I miei cervelli! – Vuoi che parliamo un po' della cosa? – disse
Ford. – Sì – disse Zaphod, e tutt'e tre si sedettero, senza più
badare alle scene che si susseguivano intorno a loro. – Io mi sono
fatto quest'idea – disse Zaphod – che qualunque cosa sia successa
alla mia mente, l'artefice sia stato io. Secondo me ho agito
in modo da impedire che i test
scoprissero niente. E che nemmeno io
scoprissi niente. Abbastanza folle, vi pare? Gli altri due
annuirono. – E allora mi dico, cosa c'è di così segreto? Così
segreto che nemmeno io, a parte il governo e tutti gli altri, posso
saperlo. E la risposta è che non lo so. Ovviamente. Ma cerco di
mettere insieme un po' di elementi e comincio a fare ipotesi.
Quando decisi di candidarmi alla presidenza? Poco dopo la morte del
presidente Yooden Vranx. Te Io ricordi Yooden, Ford?
– Sì – disse Ford. – Era quel tizio che conoscemmo da bambini, quel
comandante di Arturo. Era un tipo notevole. Ci diede dei marroni
quando tu irrompesti nella sua meganave. Disse che eri il bambino
più sorprendente che avesse mai conosciuto.
– Di cosa parlate? – disse Trillian.
– È una vecchia storia – disse Ford – di quando eravamo bambini
insieme, su Betelgeuse. Le meganavi merci di Arturo erano grosse
navi da carico che facevano la spola tra il Centro Galattico e le
regioni più lontane. Di solito gli esploratori commerciali di
Betelgeuse scoprivano i mercati, e gli arturiani li rifornivano.
C'erano sempre parecchi guai coi pirati dello spazio, prima che
questi fossero annientati durante le guerre di Dordellis, e le
meganavi dovevano munirsi dei più fantastici schermi protettivi che
la scienza della Galassia fosse in grado di produrre. Erano dei
veri bestioni, queste navi: erano immense. Quando orbitavano
intorno a un pianeta, oscuravano il sole.
"Un giorno Zaphod, che era un ragazzino, decise di fare
un'incursione su una di queste navi. Su uno scooter a tre jet
progettato per funzionare solo nella stratosfera. Cosa dico, era
meno di un ragazzino, era un bambino, Zaphod. Ma già allora era
matto da legare. Io andai con lui perché avevo scommesso una bella
somma, sicuro che non ce l'avrebbe fatta, e non volevo che mi
tornasse indietro con delle prove fasulle. Be', per farla corta,
saliamo su questo scooter, uno scooter truccato, con prestazioni
molto superiori a quelle di un normale scooter a tre jet,
percorriamo tre parsec in poche settimane, facciamo irruzione in
una meganave non so ancora in che modo, piombiamo sul ponte di
comando brandendo pistole giocattolo, e infine chiediamo che ci
vengano consegnati dei marroni. Robe da pazzi. Io persi così la
scommessa e ci rimisi un anno di spillatico. Per che cosa poi? Per
dei marroni!"
– Il comandante era davvero un tipo notevole – disse Zaphod. – Ci
diede cibo, liquore, cose che venivano dalle parti più strane della
Galassia, e naturalmente un sacco di marroni. E noi passammo
un'esperienza incredibile, davvero. Poi Yooden Vranx ci teleportò
indietro. Nel braccio più severamente vigilato delle prigioni di
stato di
Betelgeuse. Era un tipo in gamba,
Yooden. Arrivò a diventare
presidente della Galassia.
Zaphod fece una pausa.
La scena intorno a loro era tetra, adesso. Fosche nebbie
turbinavano dappertutto, e forme sgraziate sbirciavano di tra le
ombre. L'aria ogni tanto era lacerata dalle urla di esseri illusori
che venivano assassinati da esseri altrettanto illusori.
Evidentemente le persone che apprezzavano questo tipo di scene
erano state abbastanza da far trasformare il desiderio in progetto
concreto di fabbricazione di un pianeta ad hoc.
– Ford – disse Zaphod, pacatamente.
– Sì?
– Poco prima di morire Yooden venne a trovarmi. – Cosa? Non me
l'avevi mai detto.
– No.
– Cosa ti disse? Perché ti venne a trovare? – Mi parlò del Cuore
d'Oro. Fu lui a darmi l'idea di rubarlo. – Lui?
– Sì – disse Zaphod – e l'unico modo per rubarlo era di trovarsi
alla cerimonia del lancio.
Ford lo guardò un attimo a bocca aperta, sbalordito, poi scoppiò in
una fragorosa risata.
– Stai per caso dicendomi – disse – che hai deciso di diventare
presidente della Galassia solo per rubare l'astronave? – È così –
disse Zaphod, con uno di quei ghigni folli che da soli basterebbero
a far rinchiudere una persona in una stanza dalle pareti
imbottite.
– Ma perché? – disse Ford. – Perché era così importante avere il
Cuore d'Oro?
– Non lo so – disse Zaphod. – Credo che se avessi saputo
consciamente perché era così importante e perché avevo bisogno
dell'astronave, la cosa sarebbe risultata nei test e non avrei mai
potuto passarla liscia. Penso che Yooden mi abbia detto un mucchio
di cose che sono tuttora cancellate dalla mia memoria. – Sicché sei
convinto di essere andato a rovistare nei tuoi cervelli perché
Yooden ti aveva detto certe cose? – Yooden aveva un'abilità
oratoria diabolica. – Sì, ma, Zaphod, vecchio mio, bisognerà pure
che tu abbia un minimo di responsabilità verso te stesso, no?
Zaphod alzò le spalle.
– Voglio dire, non sospetti almeno minimamente quali siano le
ragioni di tutto questo?
Zaphod ci pensò su parecchio, dubbioso.
– No – disse alla fine – mi sembra
proprio di non avere permesso a
me stesso di conoscere i miei segreti. – Fece una breve pausa per
riflettere ancora, poi aggiunse: – Però devo dire che mi pare una
cosa ben comprensibile. Mi fido di me come mi fiderei del diavolo.
Un attimo dopo, l'ultimo pianeta del catalogo scomparve, e i tre si
trovarono seduti in una sala d'aspetto molto lussuosa, piena di
tavoli di vetro e di lastre di perspex, premi per il miglior
design. In piedi davanti a loro c'era un alto magratheano. – I topi
sono pronti a ricevervi – disse.
– E così ora sapete tutto – disse
Slartibartfast, mentre cercava svogliatamente di mettere un po'
d'ordine nella spaventosa confusione che regnava nei suo studio.
Prese un pezzo di carta che era in cima a una pila, ma poi, non
sapendo dove metterlo, tornò a posarlo sulla pila, che crollò. –
Pensiero Profondo progettò la Terra, noi la fabbricammo e voi ne
siete stati gli abitanti. – E i vogon sono venuti a distruggerla
cinque minuti prima che il programma fosse completato – aggiunse
Arthur, non senza una punta d'amarezza.
– Sì – disse il vecchio, guardando con sbigottimento
l'irrimediabile confusione della sua stanza. – Dieci milioni di
anni di programmazione e lavoro sfumati così. Dieci milioni di
anni, terrestre… Riuscite anche solo a concepirlo, un simile lasso
di tempo? Un'intera civiltà galattica farebbe in tempo a nascere da
un'unica larva e a percorrere almeno cinque volte l'intero ciclo
della sua evoluzione, in tutto quel tempo! Ed è sfumato tutto… –
Fece una pausa. – È successo un po' come con la vostra burocrazia –
aggiunse. – Un mucchio di lavoro per niente.
– Sapete – disse pensieroso Arthur – questo spiega un sacco di
cose. Per tutta la vita ho avuto la strana e inspiegabile
sensazione che stesse succedendo qualcosa nei mondo, qualcosa di
grosso, di sinistro, e che nessuno mi avrebbe mai detto di che cosa
si trattasse. – No – disse il vecchio – quella è solo normalissima
paranoia. Tutti ce l'hanno, nell'Universo.
– Tutti? – disse Arthur. – Ah, se ce l'hanno tutti forse un senso
c'è! Forse sappiamo inconsciamente che da qualche parte fuori
dell'Universo…
– Può darsi. Ma che importa? – disse Slartibartfast, interrompendo
Arthur prima che questi si sovreccitasse. – Forse sono troppo
vecchio e stanco – continuò – ma penso sempre che le possibilità di
scoprire cosa stia veramente succedendo siano così assurdamente
remote, che Tunica cosa da fare sia di dire chi se ne frega
e pensare semplicemente a tenersi occupati. Pensate a me per
esempio: progetto linee costiere. Ho ricevuto un premio per la
Norvegia.
Rovistò attorno a una pila di
cianfrusaglie e tiro fuori una lastra di
perspex su cui era modellata la sagoma della Norvegia: sotto c'era
il suo nome, Slartibartfast.
– Che senso ha tutto questo? – disse. – Io non sono riuscito a
trovargliene nessuno. Per tutta la vita ho progettato fiordi. Per
un breve periodo sono stati di moda, e io allora ho ricevuto un
grosso premio.
Si rigirò fra le mani la lastra di perspex, poi alzò le spalle e la
gettò distrattamente in un angolo, ma non tanto distrattamente da
buttarla su qualcosa di duro.
– In questa copia della Terra che stiamo costruendo a me è stata
affidata l'Africa, e naturalmente la faccio piena di fiordi, perché
si dà il caso che i fiordi mi piacciano molto: sono un tipo
abbastanza all'antica da pensare che conferiscano un che di
piacevolmente barocco alle coste. Mi hanno fatto osservazione. Mi
hanno detto che così l'Africa non è abbastanza equatoriale.
Equatoriale! – Slartibartfast fece una cupa risata. – Che importa?
La scienza ha raggiunto alcuni risultati meravigliosi, certo, ma io
in generale preferirei essere felice che essere esatto e
scientifico.
– E siete felice?
– No. E qui casca l'asino, naturalmente. – Peccato – disse Arthur,
comprensivo. – Sennò il vostro modo di vivere sarebbe stato molto
bello, almeno a mio giudizio. Sulla parete lampeggiò una piccola
spia luminosa. – Venite – disse Slartibartfast – dovete conoscere i
topi. Il vostro arrivo sul pianeta ha provocato una notevole
eccitazione. Credo che sia già stato classificato come il terzo
avvenimento più improbabile nella storia dell'Universo.
– Quali sono i primi due?
– Oh, probabilmente soltanto coincidenze – disse Slartibartfast,
distratto. Aprì la porta e aspettò che Arthur lo seguisse. Arthur
si guardò intorno ancora una volta, poi guardò se stesso, gli abiti
impregnati di sudore e di fango che indossava dalla mattina di
giovedì
– Quanto al mio modo di vivere, sembra che non sia
precisamente molto brillante – borbottò fra sé.
– Come avete detto, prego? – disse cortese il vecchio. – Oh niente
– disse Arthur. – Stavo solo scherzando.
È naturalmente risaputo che parlare
distrattamente può costare la vita, ma non sempre si valuta a fondo
la vasta entità del problema. Per esempio, nel momento stesso in
cui Arthur disse Quanto al mio modo di vivere, sembra che
non sia precisamente molto brillante,
si aprì curiosamente un piccolo foro nella struttura dello
spaziotempo, un foro attraverso il quale quelle parole furono
trasportate indietro, molto indietro nel tempo, e lontano, molto
lontano nello spazio, fino a una remota Galassia dove esseri strani
e bellicosi erano sull'orlo di una spaventosa guerra
interstellare.
I due leader avversari si fronteggiavano per l'ultima volta al
tavolo delle conferenze.
Un orribile silenzio si diffuse intorno quando il comandante dei
Vl'Hurg, tutto splendente nei suoi calzoncini da battaglia neri
tempestati di gemme, fissò il comandante dei G'Gugvuntt, che gli
stava davanti vestito di una nube di vapore verde dall'odore
dolciastro, e, forte del suo milione di incrociatori stellari
pronto a seminare la morte elettrica a un suo minimo comando, lo
sfidò a ritirare quello che aveva detto su sua madre.
Il comandante dei G'Gugvuntt si dimenò nel suo vapore nauseabondo,
e proprio in quel momento le parole quanto al mio modo di
vivere, sembra che non sia precisamente molto brillante si
riversarono sul tavolo della conferenza. Purtroppo, nella lingua
dei Vl'Hurg questo era il più abominevole insulto che si potesse
concepire, e non restò altra alternativa che dare inizio a una
terribile guerra (che durò secoli e secoli). Alla fine però, dopo
che nel giro di alcune migliaia di anni la loro Galassia fu
decimata, i due popoli capirono che tutto era nato da un terribile
qui pro quo, e unirono le loro flotte per sferrare un attacco
congiunto alla nostra Galassia, ormai riconosciuta quale
responsabile dell'intollerabile insulto.
Per migliaia di anni ancora le loro possenti navi attraversarono i
vuoti deserti dello spazio, finché finalmente non approdarono sul
primo pianeta in cui s'imbatterono, che per caso era la Terra. E
lì, a
causa di un terribile errore di
calcolo nella scala delle grandezze,
l'intera flotta spaziale fu inghiottita da un cagnolino. Quelli che
studiano la complessa interazione di cause e effetti nella storia
dell'Universo, dicono che questo genere di cose succede
continuamente, ma che noi siamo impossibilitati a impedirlo. – Così
è la vita – dicono.
Dopo un breve viaggio in aeromobile, Arthur e Slartibartfast si
fermarono davanti a una porta. Di lì passarono in una sala d'attesa
piena di tavoli di vetro e di lastre di perspex, che erano premi
per il miglior design. Quasi subito si accese una spia luminosa
sopra la porta che stava dalla parte opposta a quella da dove erano
entrati. La porta si aprì, e i due entrarono.
– Arthur! Sei salvo! – gridò una voce.
– Davvero? – disse Arthur, abbastanza meravigliato. – Oh, bene!
L'illuminazione era abbastanza fioca, e gli ci voile qualche
secondo per distinguere Ford, Trillian e Zaphod: erano seduti
intorno a un'ampia tavola, imbandita con piatti esotici, strani
dolci e di frutta ancora più strana. I tre si stavano rimpinzando.
– Cosa vi è successo? – chiese Arthur.
– Sai – disse Zaphod attaccando un altro manicaretto – i nostri
ospiti, qui, ci hanno gasato, ci hanno fatto il lavaggio del
cervello, si sono comportati in generale in modo molto strano, e
adesso per farsi perdonare ci hanno offerto un pasto piuttosto
buono. – Zaphod prese dal tavolo un pezzo di carne puzzolente. –
Queste sono costolette di Rinoceronte Veghiano – disse. – Sono
squisite, per chi, come me, è un intenditore.
– Ospiti? – disse Arthur. – Quali ospiti? Non vedo nessuno… Una
vocina disse: – Benvenuto a pranzo, terrestre. Arthur si guardò
intorno e fece uno strillo. – Ugh! – disse. – Ci sono dei topi sul
tavolo! Ci fu un silenzio imbarazzato, durante il quale tutti
guardarono Arthur severamente.
Arthur stava fissando i due topolini bianchi, che erano seduti
dentro due affari che sembravano dei bicchieri da whisky, sul
tavolo. Si accorse del silenzio che era calato all'improvviso, e si
voltò a guardare gli altri.
– Oh! – disse, capendo l'errore. – Oh, scusate, non ero affatto
preparato a…
– Lascia che ti presenti – disse Trillian. – Arthur, questo è il
topo Benjy.
– Salve – disse uno dei topi. I suoi
baffi sfiorarono quello che
evidentemente era un pannello sensibile al tocco, dentro l'oggetto
simile a un bicchiere, e questo si mosse leggermente in avanti. – E
questo è il topo Frankie.
L'altro topo disse: – Felice di conoscervi – e spostò anche lui in
avanti il bicchiere.
Arthur li guardò a bocca aperta.
– Ma non sono…
– Sì – disse Trillian – sono i topi che mi ero portata dietro io
dalla Terra.
Lo guardò negli occhi, e Arthur credette di individuare nel suo
sguardo una leggera sfumatura di rassegnazione. – Puoi passarmi
quella tazza di mega–asino grattugiato di Arturo? – disse.
Slartibartfast tossicchiò piano.
– Ehm, scusatemi – disse.
– Sì, grazie, Slartibartfast – disse il topo Benjy bruscamente. –
Puoi andare.
– Cosa? Oh… ehm, benissimo – disse il vecchio, un po' sconcertato.
Allora andrò a progettare qualche altro fiordo. – Ah, a dir la
verità non è necessario – disse il topo Frankie. – Ho proprio
l'impressione che non avremo più bisogno della Nuova Terra. – Roteò
i suoi occhietti rosa. – Non ne abbiamo più bisogno, adesso che
abbiamo trovato un nativo del pianeta che vi si trovava sopra fino
a tre secondi prima che fosse distrutto. – Cosa? – gridò
Slartibartfast, esterrefatto. – Non potete farlo! Ho un migliaio di
ghiacciai già in equilibrio, pronti a essere calati
sull'Africa!
– Be', così puoi farti una breve vacanza sugli sci, prima di
smantellarli – disse Frankie, aspro.
– Una vacanza sugli sci?! – urlò il vecchio. – Quei ghiacciai sono
opere d'arte! Hanno contorni finemente scolpiti, altissime guglie
di ghiaccio, profondi e maestosi crepacci! Sarebbe un sacrilegio
sciare su simili capolavori!
– Grazie, Slartibartfast – disse secco Benjy. – Questo è tutto. –
Sì signore – disse il vecchio, gelido. – Grazie. Bene, addio,
terrestre – aggiunse rivolgendosi ad Arthur – ti auguro che il tuo
modo di vivere migliori.
Fece un breve cenno di saluto al resto della compagnia e si avviò
tutto triste verso l'uscita.
Arthur lo guardò andare via senza sapere cosa dire. – E adesso –
disse il topo Benjy – veniamo agli affari! Ford e Zaphod fecero cin
cin coi loro bicchieri.
– Agli affari! – dissero.
– Prego? – disse Benjy. Ford si guardò intorno. – Scusate, credevo
che steste proponendo un brindisi – disse. I due topi passeggiarono
su e giù con impazienza dentro ai loro veicoli. Poi ripresero un
contegno, e il topo Benjy spostò avanti il bicchiere, rivolgendosi
ad Arthur.
– Ora, terrestre – disse – la situazione in pratica è questa. Noi,
come tu sai, abbiamo gestito il tuo pianeta per dieci milioni di
anni, tutto per riuscire a sapere qual è quella dannata cosa
chiamata Domanda Fondamentale.
– Perché? – disse Arthur, brusco.
– No, a quella abbiamo già pensato – disse Frankie – ma non si
adatta alla risposta. Perché? Quarantadue… No, non funziona,
capisci?
– No – disse Arthur – io intendevo dire perché avete fatto questo?
– Ah, capisco – disse Frankie. – In definitiva credo che ormai sia
diventata una sorta di abitudine. E questo è più o meno il punto:
ormai ne abbiamo fin sopra i denti di tutta questa faccenda, e la
prospettiva di dovere ricominciare da capo per colpa di quei
maledetti vogon mi fa venire il mal di pancia. È stata una pura e
fortunata coincidenza che Benjy e io avessimo finito il nostro
lavoro e avessimo deciso di lasciare la Terra per un breve periodo
di vacanza… Dopo di allora abbiamo manovrato in modo che i tuoi
amici ci riportassero gentilmente su Magrathea.
– Magrathea è un passaggio chiave per entrare nella nostra
dimensione – spiegò Benjy.
– Dopo di che – continuò l'altro topo – ci è stato offerto di
firmare un contralto favoloso per il ciarlo–show in 5D, nella
nostra dimensione, e noi siamo molto propensi ad accettare. – Ah,
anch'io accetterei, e tu, Ford? – disse subito Zaphod. – Oh, certo
– disse Ford. – Firmerei a occhi chiusi. Arthur li guardò,
chiedendosi a cosa portasse quella conversazione.
– Ma dobbiamo potere offrire un buon prodotto, capisci –
disse Frankie. – Voglio dire, sotto il profilo ideale abbiamo
ancora bisogno della Domanda Fondamentale, in una forma o
nell'altra. Zaphod si protese in avanti, verso Arthur. – Capisci –
disse – se loro se ne stanno seduti là nello studio tutti belli
rilassati, e a un certo punto dicono che conoscono la Risposta alla
Vita, l'Universo e Tutto, e poi alla fine sono costretti ad
ammettere che questa Risposta è Quarantadue, be', è chiaro che lo
show sarebbe con tutta probabilità molto corto. Non ci sarebbe
seguito, no? – Dobbiamo avere qualcosa che suoni bene –
disse Benjy.
– Qualcosa che suoni bene? –
disse Arthur. – Una Domanda
Fondamentale che suoni bene? Fatta da un paio di topi? I
topi mostrarono i denti.
– Be', voglio dire, l'idealismo, la dignità della ricerca pura, il
desiderio di perseguire la verità in tutte le sue forme, sono tutte
cose bellissime, ma arriva un momento prima o poi in cui si
comincia a sospettare che se esiste una qualche verità
reale, questa verità sia che tutto l'infinito
multidimensionale dell'Universo è quasi certamente governato da un
branco di pazzi. E se si arriva a dover scegliere fra il passare
altri dieci milioni di anni a cercare di scoprire questa semplice
verità, e il prendere i soldi e scappare, io personalmente
sceglierei quest'ultima alternativa – disse Frankie. – Ma… – disse
Arthur, senza capire.
– Ehi, cerca di afferrare il concetto, terrestre – disse Zaphod. –
Tu appartieni all'ultima generazione prodotta dalla matrice del
computer, no?, e ti trovavi sul pianeta fino al momento in cui
questo è stato demolito, vero?
– Ehm…
– Perciò il tuo cervello è parte organica della penultima
configurazione del programma del computer – disse Ford, cercando di
aggiungere una nota di chiarezza ai discorsi degli altri. – Capito?
– disse Zaphod.
– Mah – disse Arthur, dubbioso. Non si era mai sentito parte
organica di niente. Gli era sempre parso che questo fosse uno dei
suoi tanti problemi…
– In altre parole – disse Benjy, dirigendo il suo strano bicchiere–
veicolo verso Arthur – ci sono buone probabilità che la struttura
della domanda sia inclusa nella struttura del tuo cervello…
Capisci, quindi? Siamo pronti a pagarti bene.
– Mah… volete comprare la domanda? – disse Arthur. – Sì – dissero
Ford e Trillian.
– E per un mucchio di soldi! – disse Zaphod. – No, no – disse
Frankie – è il cervello che vogliamo comprare! – Cosa?!
– In ogni caso, chi ne sentirebbe mai la mancanza? – osservò
Benjy.
– Mi pareva che aveste detto che potevate leggergli semplicemente
il cervello elettronicamente – protestò Ford. – Oh, sì – disse
Frankie – ma prima bisogna che lo togliamo dal cranio. Deve essere
preparato.
– Trattato – disse Benjy.
– Sezionato.
– Grazie tante! – gridò Arthur,
rovesciando la sedia e
allontanandosi dal tavolo, inorridito.
– Potrebbe sempre essere sostituito – disse Benjy – se ritieni che
sia importante.
– Sì, da un cervello elettronico – disse Frankie. – Ne basterebbe
uno molto semplice.
– Uno molto semplice! – gemette Arthur.
– Sì – disse ad un tratto Zaphod, con un sorrisetto cattivo –
basterebbe programmarlo a dire Cosa? e Non capisco e
Dov'è il tè? Chi mai potrebbe notare la differenza?
– Cosa? – gridò Arthur, continuando a indietreggiare. – Capisci
cosa voglio dire? – disse Zaphod, e urlò di dolore perché in quella
Trillian gli fece qualcosa.
– La noterei io, la differenza – disse Arthur. – No – disse
il topo Frankie – perché saresti programmato a non notarla.
Ford si precipitò alla porta.
– Cari i miei topi, mi dispiace – disse – ma credo che non
concluderemo proprio nessun affare.
– Io invece credo di sì – dissero i due topi in coro, e le loro
voci stridule assunsero un tono di minaccia. Con un lieve ronzio i
loro bicchieri si sollevarono in aria e si diressero verso Arthur,
che indietreggiò ancora, inciampando e finendo terrorizzato in un
angolo che non offriva alcuna via d'uscita.
Trillian lo afferrò disperatamente per un braccio, cercando di
trascinarlo verso la porta, che intanto Ford e Zaphod cercavano di
aprire. Ma Arthur era un peso morto: sembrava ipnotizzato dai
roditori che, volando sui loro bicchieri, puntavano dritto contro
di lui. Trillian cercò urlando di scuoterlo dal suo torpore, ma lui
restò lì inebetito, a fissare a bocca aperta i suoi nemici. Con un
ultimo strattone, Ford e Zaphod riuscirono ad aprire la porta.
Oltre la soglia c'era un branco di brutti ceffi, evidentemente
elementi reclutati dai topi tra la feccia di Magrathea. Non solo
erano brutti loro, ma erano molto brutte anche le attrezzature da
sala operatoria che portavano. Per di più, si preparavano a
caricare. Così Arthur era sul punto di farsi spaccare in due la
testa, Trillian non riusciva ad aiutarlo, e Ford e Zaphod stavano
per essere attaccati da dei delinquenti molto più forti e molto più
armati di loro. Fu una grande fortuna che proprio in quel momento
si mettessero a suonare tutti gli allarmi del pianeta, provocando
un fracasso infernale.
– Emergenza! Emergenza! –
urlavano tutte le sirene di Magrathea. –
Un'astronave ostile è atterrata sul pianeta. Sconosciuti armati
hanno
fatto irruzione nel settore 8A. Ai posti di difesa! Ai posti di
difesa!
I due topi annusarono stizziti i frammenti dei loro bicchieri, che
giacevano sparsi in terra.
– Perdio! – borbottò il topo Frankie. – Quanto casino per un chilo
di cervello terrestre! – Girellò qua e la nervosamente, mandando
lampi di rabbia dagli occhietti rosa.
– L'unica cosa che possiamo fare, adesso – disse Benjy,
accucciandosi e carezzandosi i baffi meditabondo – è di provare a
inventare una finta Domanda che suoni plausibile. – Difficile –
disse Frankie. Ci pensò su. – Cosa ne dici di Che cosa è
giallo e pericoloso?
Benjy ci rifletté su un attimo.
– No, non va bene – disse. – Non si adatta alla risposta. Restarono
in silenzio per qualche secondo.
– D'accordo – disse Benjy. – Cosa ottieni moltiplicando sei
per sette?
– No, no, troppo prosaica come domanda – disse Frankie –
non
può suscitare l'interesse del pubblico.
Meditarono ancora.
Alla fine Frankie disse: – Cosa ti pare di questa? Quante
strade deve percorrere l'uomo?1
– Ah! – disse Benjy. – Ah, questa sì che suona promettente!
– Ci
pensò un po' su. – Sì sì – disse. – È fantastica! Sembra molto
significativa, e tuttavia non ti lega a nessun significato in
particolare. Quante strade deve percorrere l'uomo?
Quarantadue. Eccellente,
eccellente! Abboccheranno in pieno! Frankie, amico mio, siamo a
cavallo!
Tutti eccitati, eseguirono un'entusiastica danza.
1 Nel testo, How many roads must a man walk down, primo verso della canzone di Bob Dylan "Blowing in the Wind". Il secondo verso dice before you call him a man, "prima che lo si possa chiamare uomo". (N.d.T.)
Vicino a loro, giacevano parecchi
brutti ceffi, che erano stati
colpiti alla testa con pesanti lastre di perspex, premi per il
miglior design.
Mezzo miglio più in là, quattro persone correvano lungo un
corridoio cercando l'uscita. Si ritrovarono in una enorme sala
computer e si guardarono intorno disperatamente. – Da che parte
credi che sia l'uscita? – disse Ford a Zaphod. , – Così a lume di
naso direi per di qua – disse Zaphod, mettendosi a correre tra una
consolle e una parete. Proprio mentre gli altri stavano per
seguirlo, fu fermato bruscamente da un raggio Morten che,
crepitando, bruciacchiò una piccola parte di parete a pochi
centimetri da lui.
Una voce all'altoparlante disse: – OK, Beeblebrox, resta lì dove
sei. Ti abbiamo sotto tiro.
– Poliziotti! – sibilò Zaphod, e si giro di scatto,
accovacciandosi. – Vuoi provare un po' a pensare a una via
d'uscita, Ford? – Sì, direi per di qua – disse Ford, e tutt'e
quattro corsero lungo uno stretto passaggio fra due consolle.
In fondo al passaggio apparve una figura in tuta spaziale,
pesantemente corazzata, che impugnava una minacciosa pistola
Morten.
– Non vogliamo spararti, Beeblebrox! – gridò. – Mi fa piacere! –
gridò Zaphod, e si buttò di lato, nell'ampio spazio che c'era fra
due unità di elaborazione dati. Gli altri lo seguirono.
– Sono in due! – disse Trillian. – Siamo circondati. Si
rannicchiarono in un angolo, fra una grande banca dei dati e la
parete.
Trattennero il fiato e aspettarono.
I due poliziotti aprirono il fuoco contemporaneamente, e i raggi
d'energia sfrigolarono minacciosi nell'aria attorno a loro. – Ehi,
ci stanno sparando! – disse Arthur, raggomitolandosi tutto. – Mi
sembrava che avessero detto che non volevano farlo! – Sì, anche a
me sembrava che avessero detto così – disse Ford. Zaphod alzò un
attimo la testa, rischiando forte. – Ehi – disse – mi sembrava che
aveste detto che non volevate spararci! – e si accovacciò di
nuovo.
Aspettarono.
Dopo un attimo una voce rispose: – Non è mica facile fare i
poliziotti!
– Cos'ha detto? – sussurrò sbalordito Ford. – Ha detto che non è
mica facile fare i poliziotti. – Affari suoi, no?
– Direi anch'io.
Ford urlò: – Ehi, sentite un po'! Noi abbiamo già abbastanza
problemi, visto che voi ci state sparando, perciò cercate di non
addossarci anche i vostri, se no qui diventa veramente un casino!
Ci fu un'altra pausa, e poi si sentì ancora la voce
all'altoparlante. – Vedete, ragazzi – disse la voce – non avete a
che fare con dei subnormali mezzecalzette dal grilletto facile,
dall'attaccatura dei capelli bassissima, dagli occhi piccoli e
porcini e dalla conversazione inesistente! Noi siamo due ragazzi
intelligenti e sensibili che probabilmente vi piacerebbe moltissimo
conoscere e frequentare! Io vado si in giro a sparare gratuitamente
sulla gente, ma dopo mi tormento terribilmente, discutendone per
ore con la mia ragazza! – E io scrivo romanzi! – esclamò l'altro
poliziotto. – Benché non ne abbia ancora pubblicato nessuno. Perciò
è meglio che vi avverta, sono di peeeeeesssssimoooo umore!
Ford strabuzzò gli occhi. – Ma chi sono 'sti tizi? – disse. – Non
lo so – disse Zaphod. – comunque li preferivo quando sparavano.
– Allora, avete intenzione di arrendervi senza fare tante storie –
urlò uno dei poliziotti – o volete che vi facciamo secchi? – Voi
cosa preferite? – gridò Ford.
Un millisecondo dopo l'aria intorno ai quattro ricominciò a
friggere: uno dopo l'altro, i raggi Morten si abbattevano
crepitando sulla consolle davanti a loro.
La raffica continuò per parecchi secondi, violentissima. Poi tutto
tacque, e gli echi degli spari si dispersero. – Siete ancora là? –
gridò uno dei poliziotti. – Sì – gridarono loro di rimando.
– Non ci è affatto piaciuto doverlo fare! – urlò l'altro
poliziotto. – Ci avremmo giurato – urlò Ford.
– Adesso ascolta bene, Beeblebrox, che è meglio per te! – Perché? –
urlò di rimando Zaphod.
– Perché – urlò il poliziotto – quello che ti devo dire è molto
intelligente, molto interessante e molto umano! Allora, o vi
arrendete tutti quanti immediatamente e vi lasciate picchiare un
po', anche se non molto, visto che noi ci opponiamo fermamente alla
violenza gratuita, o faremo saltare in aria l'intero pianeta, e
magari anche uno o due altri pianeti che abbiamo notato mentre
venivamo qui! – Siete pazzi? – urlò Trillian. – Non è vero! Non lo
fareste mai! – Oh, sì che lo faremmo – urlò il poliziotto. – Non è
vero che lo faremmo? – disse all'altro.
– Oh, certo! Saremmo costretti a farlo! – disse quello. – Ma
perché? – chiese Trillian.
– Perché certe cose bisogna farle
anche se si è dei poliziotti
democratici e di larghe vedute che sanno essere sensibili e tutto
il resto!
– Io non credo proprio a ciò che dicono 'sti tizi – borbottò Ford,
scuotendo la testa.
Un poliziotto gridò all'altro: – Gli spariamo ancora un po'? – Sì,
perché no?
Seguì una tremenda raffica di raggi Morten. Il calore e il rumore
furono assolutamente fantastici. La consolle del computer cominciò
a disintegrarsi poco a poco. La parte davanti si era quasi tutta
fusa, e densi rivoletti di metallo fuso scivolavano giù, dove i
quattro stavano accovacciati,
I quattro si strinsero ancora più insieme e aspettarono la
fine.
Ma la fine non venne affatto, o
almeno non in quel momento. All'improvviso la raffica cessò, e il
silenzio che seguì fu rotto solo da un paio di gorgoglii strozzati
e da. alcuni colpi sordi. I quattro si guardarono l'un l'altro.
– Cos'è successo? – disse Arthur.
– Hanno smesso – disse Zaphod con un'alzata di spalle. –
Perché?
– Non lo so, vuoi andare a chiederglielo? – No. Aspettarono.
– Ehi? – gridò Ford a un certo punto, Nessuna risposta. – È
strano.
– Forse è una trappola.
– Non hanno intelligenza sufficiente.
– Cos'erano quei colpi sordi?
– Non lo so.
Aspettarono ancora qualche secondo.
– Io vado a dare un'occhiata – disse Ford. Guardò gli altri. – C'è
nessuno che ha intenzione di dirmi no, non andare tu, lascia
che vada io?
Tutti scossero la testa.
– E va bene – disse Ford, alzandosi.
Per un attimo non successe niente.
Poi, dopo uno o due secondi, continuò a non succedere niente. Ford
scrutò era il fumo spesso che si levava dal computer bruciato. Con
molta cautela, uscì allo scoperto. Continuò a non succedere
niente.
A venti metri di distanza scorse vagamente, in mezzo al fumo, la
sagoma di uno dei poliziotti. Il poliziotto giaceva a terra,
scomposto. A venti metri di distanza, nella direzione opposta,
giaceva l'altro. Per il resto, non si vedeva nessuno.
A Ford la cosa parve molto, molto strana. Si avvicinò con molta
cautela al primo poliziotto, il cui corpo continuò a restare
immobile anche quando lui gli arrivò molto vicino.
Tranquillizzato, Ford mise un piede
sulla pistola a raggi Morten, che
giaceva tra le dita flosce del tizio.
Si chinò e la raccolse: non incontrò resistenza. Il poliziotto era
chiaramente morto.
Ford lo esaminò in fretta e vide che era di Blagulon Kappa: era una
forma di vita che respirava metano, e che per sopravvivere
nell'atmosfera di ossigeno di Magrathea aveva bisogno della tuta
spaziale.
Il minuscolo computer che gli garantiva la sopravvivenza e che era
collocate sulla schiena, assieme alle altre attrezzature, era
saltato in aria.
Ford ne esaminò sbalordito i resti. Quei minicomputer da tuta erano
direttamente collegati, tramite la sub–Eta, al computer centrale
della nave. Un sistema del genere era sicurissimo in qualsiasi
circostanza: bisognava proprio che andasse completamente in tilt il
feedback, cosa che non si era mai sentito dire che fosse successa.
Ford corse a guardare l'altro poliziotto, e vide che anche lui era
morto per le stesse incredibili ragioni, probabilmente
contemporaneamente al compagno.
Chiamò gli altri, che arrivarono, condivisero il suo sbalordimento,
ma non condivisero la sua curiosità.
– Teliamo – disse Zaphod. – Anche ammesso che quello che cerco sia
qui, non m'interessa più. – Afferrò la pistola Morten del secondo
poliziotto, sparò contro un'innocua consolle e si precipitò nel
corridoio, seguito dagli altri. Poco mancò che a furia di spari
facesse saltare in aria un'aeromobile che li aspettava a qualche
metro di distanza.
L'aeromobile era vuota, e Arthur la riconobbe: era quella di
Slartibartfast.
Al pannello comandi era affisso un biglietto. Il biglietto, sul
quale era disegnata una freccia che indicava una delle manopole dei
comandi, diceva: Questo è probabilmente il bottone migliore
da premere.
L'aeromobile parti a razzo e
attraversò all'eccessiva velocità di R17 i tunnel d'acciaio che
conducevano sulla squallida superficie del pianeta. Il pianeta era
stretto adesso nella morsa di un altro cupo tramonto. Una luce
grigia e sinistra stava inondando il suolo. R è una misura di
velocità definita come velocità conveniente a un viaggio che voglia
essere compatibile con la salute del corpo e della mente, e che
tolleri diciamo un massimo di cinque minuti di ritardo. R è perciò
un numero che varia quasi all'infinito, in corrispondenza delle
circostanze, dal momento che i primi due fattori variano non solo
con la velocità assunta come un assoluto, ma anche con la
consapevolezza del terzo fattore. A meno che non venga gestita con
calma, questa equazione può provocare un notevole stress, l'ulcera
e a volte perfino la morte.
R17 non è una velocità fissa, ma ha chiaramente una celerità
eccessiva.
L'aeromobile si lanciò dunque a una velocità di R17 e più, depositò
i quattro vicino al Cuore d'Oro, che stava rigido sul freddo
terreno come un candido osso, e poi invertì precipitosamente la
marcia e ripartì come un razzo nella direzione da cui era venuta,
dove evidentemente l'attendevano importanti affari. Tremanti di
freddo, i quattro guardarono la loro astronave. Lì vicino ce n'era
un'altra.
Era la lancia della polizia di Blagulon Kappa, un affare bulboso a
forma di squalo, color verde ardesia: sui fianchi erano stampate
delle lettere nere, che variavano in grandezza e ostilità. Le
lettere informavano chiunque le volesse leggere sul luogo d'origine
dell'astronave, il reparto di polizia cui apparteneva, e come si
faceva per farla partire.
La lancia appariva troppo scura e silenziosa, pur tenendo conto che
i suoi due piloti in quel momento giacevano asfissiati in una
stanza piena di fumo molte miglia sotto terra. È una cosa curiosa e
praticamente impossibile da spiegare, ma si riesce a capire quando
una nave è completamente morta.
Ford ebbe la sensazione che la lancia
di Blagulon Kappa fosse
appunto morta, e il suo senso di sbalordimento crebbe: una nave e
due poliziotti di punto in bianco erano morti così, senza motivo.
Di solito le cose non funzionavano a quel modo.
Anche gli altri tre lo capivano, ma capivano ancor di più di avere
un freddo cane, perciò si precipitarono dentro al Cuore d'Oro,
presi da un attacco acuto di non curiosità.
Ford restò fuori e andò a esaminare la nave di Blagulon. Mentre
camminava, quasi inciampò in un'inerte sagoma di acciaio che
giaceva a faccia in giù nella fredda polvere.
– Marvin! – esclamò. – Cosa fai qui?
– Non sentirti in dovere di prestarmi un po' di considerazione, ti
prego – disse Marvin con un ronzio soffocato. – Ma come stai,
robot?
– Sono molto depresso.
– Cosa ti bolle in pentola?
– Non lo so – disse Marvin. – Non uso mai le pentole. Ford,
tremando dal freddo, si accovacciò accanto al robot. – Perché stai
sdraiato a faccia in giù nella polvere? – disse. – Perché è un
ottimo modo per sentirsi ancora più disgraziati di quello che si è.
Non far finta di provare desiderio di parlarmi, so che mi odii.
– No che non ti odio.
– Sì invece, tutti mi odiano. Fa parte dell'assetto dell'Universo.
Basta che parli con qualcuno, che questo comincia a odiarmi.
Perfino i robot mi odiano. Se ti limiti a non badarmi, senza
arrivare a odiarmi, penso che riuscirò probabilmente a sollevarmi
di qui. Si alzò in piedi e guardò risolutamente nella direzione
opposta a Ford.
– Quella nave mi odiava – disse avvilito, indicando la lancia della
polizia.
– Quella nave? – disse Ford eccitato. – Cosa le è successo? Lo sai?
– Mi odiava perché le ho parlato.
– Tu le hai parlato? – disse Ford. – Cosa intendi dire? –
Sai, ero molto annoiato e depresso, così sono andato a collegarmi
al suo computer centrale. Ho parlato a lungo col computer,
spiegandogli la mia visione dell'Universo. – E cosa è successo? –
lo incalzò Ford.
– Si è suicidato – disse Marvin, e s'incamminò a grandi passi verso
il Cuore d'Oro.
Quella notte il Cuore d'Oro
s'affrettò a mettere qualche bell'anno luce fra sé e la Nebulosa
Testa di Cavallo. Al suo interno, Zaphod girellava sotto la piccola
palma, sul ponte di comando, e cercava di mettere ordine nei suoi
cervelli sorbendo dosi massicce di Gotto Esplosivo Pangalattico,
Ford e Trillian sedevano in un angolo discutendo sulla vita e sui
suoi annessi e connessi, e Arthur era a letto immerso nella lettura
della Guida Galattica per gli Autostoppisti. Dato che ormai
era destinato a vivere tra le stelle, aveva pensato che fosse
saggio informarsi un po' su usi e costumi della Galassia. S'imbatté
in una registrazione che diceva: La storia di tutte le maggiori
civiltà galattiche tende ad
attraversare tre fasi distinte e ben riconoscibili, ovvero le
fasi della
Sopravvivenza, della Riflessione e della Decadenza, altrimenti
dette
fasi del Come, del Perché e del Dove.
La prima fase, per esempio, è caratterizzata dalla domanda
Come
facciamo a procurarci da mangiare?, la seconda dalla domanda
Perché mangiamo? e la terza dalla domanda In quale
ristorante pranziamo oggi?
Arthur interruppe la lettura perché sentì il ronzio dell'intercom.
– Ehi, terrestre, non hai fame? – disse la voce di Zaphod. – Ehm,
be', sì, ho abbastanza appetito – disse Arthur. – E allora andiamo
a mangiare un boccone – disse Zaphod. – Lo snack Ai Confini del
Cosmo è giusto da queste parti. FINE