– Immagino vogliate vedere gli alieni adesso – disse Marvin. –
Volete che mi metta a sedere in un angolo a far la ruggine, o che mi disattivi stando in piedi?
– Dài, falla corta e portali qua, Marvin – disse una voce. Arthur guardò Ford e si stupì molto di vedere che rideva. – Ma cosa…?
– Shhh! – disse Ford. – Su, andiamo.
Entrarono sul ponte di comando.
Arthur si trovò, sbalordito, davanti a un uomo che stava stravaccato in una sedia, teneva i piedi su una consolle, e con la mano sinistra si stuzzicava i denti della testa che teneva appoggiata sulla mano destra. L'altra testa invece aveva dipinto in faccia un gran sorriso disteso e disinvolto. Ancora una volta, Arthur si trovò davanti all'incredibile. Per un po' rimase letteralmente a bocca spalancata. Il singolare individuo salutò pigramente con la mano Ford, ostentando disinvoltura, e disse: – Ciao, Ford, come va? Sono contento che tu sia venuto a farmi visita. Ford rispose, con altrettanta distaccata disinvoltura: – Zaphod, che bello rivederti! Hai un'ottima cera, e il braccio supplementare ti dona. Che bella nave hai rubato!
Arthur guardò Ford strabuzzando gli occhi. – Vuoi dire che conosci questo tizio? – disse, agitando l'indice in direzione di Zaphod.
– Conoscerlo? – disse Ford.
– È… – S'interruppe e decise di fare le presentazioni. Si rivolse a Zaphod. – Zaphod – disse – questo è un mio amico, Arthur Dent. L'ho salvato quando il suo pianeta è saltato in aria. – Oh, bene – disse Zaphod – ciao, Arthur. Sono contento che hai salvato la pelle. – La testa appoggiata sulla mano destra si girò un attimo a dire ciao, poi tornò a farsi stuzzicare i denti dalla mano sinistra.
– Arthur – continuò Ford – questo qui è un mio semi–cugino, Zaphod Beeb…
– Ci siamo già conosciuti – disse brusco Arthur. Vi è mai capitato di trovarvi in autostrada nella corsia più veloce, di sorpassare con gran facilità delle macchine, di sentirvi alquanto soddisfatti di voi stessi e di fare subito dopo una bufala tremenda, passando dalla quarta in prima, anziché in terza, e dando così una grattata della madonna? La sensazione che avrete avuto se vi è capitato qualcosa del genere è la stessa sensazione che provò Ford nel sentire la frase di Arthur.
– Ehm… cosa? – disse.
– Ho detto che ci siamo già conosciuti – ribadì Arthur.

Zaphod sobbalzò dalla sorpresa, e con lo stuzzicadenti si fece male
a una gengiva.
– Eh? Davvero? Ehi, ma io non…
Ford posò su Arthur occhi fiammeggianti di rabbia. Adesso che si sentiva di nuovo a casa sua cominciava a pentirsi di essersi tirato dietro quel primitivo ignorante, che della Galassia ne sapeva quanto ne sapeva della vita a Pechino una zanzara nata e cresciuta a Ilford. – Come sarebbe a dire? – disse. – Lui è Zaphod Beeblebrox di Betelgeuse Cinque, non un fottuto Martin Smith di Croydon. – E allora? – disse gelido Arthur. – Ci siamo conosciuti, vero, Zaphod Beeblebrox? O dovrei chiamarti Phil? – Cosa?! – urlò Ford.
– Dovrai cercare di rinfrescarmi la memoria – disse Zaphod. – Mi basta una traccia. Ricordo bene se mi si danno le tracce. – È stato a una festa – disse Arthur.
– Sì? Be', ne dubito – disse Zaphod.
– Vedi? Lascia perdere, dài, Arthur! – lo esortò Ford. Arthur non batté ciglio. – Una festa di sei mesi fa. Sulla Terra. In Inghilterra.
Zaphod scosse la testa e fece un sorriso stretto. – Londra – insistette Arthur – Islington. – Ah! – disse Zaphod, con aria colpevole. – Quella festa. No, non era giusto, pensò Ford. Guardò prima Arthur, poi Zaphod, e ripeté l'operazione più volte. Alla fine disse, rivolto a Zaphod: – Ehi, non mi dirai mica che sei stato anche tu su quel miserabile pianetucolo?
– No, no – disse Zaphod garrulo. – Sai, sono solo andato a fare una capatina, capisci? Ero diretto da altre parti, e… – Ma io sono rimasto infognato là quindici anni! – Ma io mica lo sapevo, no?
– Ma cosa ci facevi tu sulla Terra?
– Sai, giracchiavo un po'…
– È andato a una festa senza essere invitato – disse Arthur, tremando di rabbia. – Una festa mascherata… – Doveva esserlo per forza, no? – disse Ford. – A quella festa – disse Arthur – c'era una ragazza… Oh be', non che abbia importanza, ormai. Tutto il pianeta si è dissolto in una nuvola di fumo…
– E smettila di piangere la fine di quel maledetto pianeta! – disse Ford. – Chi era la ragazza?
– Oh, una. A dir la verità non è che avessi combinato molto con lei. Era tutta la sera che ci provavo. Cavoli, lei mica era una qualsiasi, però, eh. Era bella, affascinante, spaventosamente intelligente;

finalmente ero riuscito a stare con lei un pochino e me la stavo
lavorando con un po' di discorsi, quando ti arriva questo tipo qui e dice: Ehi bambola, questo tizio non ti sta seccando? Perché invece non parli con me? Io vengo da un altro pianeta. Non la rividi mai più.
– Zaphod? – disse Ford.
– Sì – disse Arthur, guardando torvo Zaphod. – Era proprio lui, anche se aveva solo due braccia e un'unica testa. Si faceva chiamare Phil…
– Ma devi ammettere che era vero che veniva da un altro pianeta – disse Trillian, comparendo dall'altro lato del ponte. Offrì ad Arthur un amabile sorriso, che per lui fu come una pioggia di mattoni in testa, poi tornò a rivolgere l'attenzione ai comandi della nave. Ci fu un silenzio di alcuni secondi, quindi Arthur riuscì a riprendersi un po' dalla pioggia di mattoni che gli aveva momentaneamente sconquassato il cervello. – Tricia McMillan? – disse. – Cosa ci fai qui? – Quello che ci fai tu – disse lei. – Ho chiesto un passaggio. Dopotutto, con una laurea in matematica e un'altra in astrofisica cos'altro potevo fare? O quello, o tornare a fare la fila il lunedì all'Ufficio Collocamento.
– Infinito meno uno – chioccolò il computer. – Somma d'Improbabilità completa.
Zaphod guardò Ford, poi Arthur, poi Trillian. – Trillian – disse – credi che questo tipo di cose si verificherà ogni volta che useremo la Propulsione d'Improbabilità? – Temo che sia molto probabile, sì – disse lei.

Il Cuore d'Oro volava silenzioso nella notte spaziale, spinto ora dalla normale propulsione fotonica. Le quattro persone che vi si trovavano a bordo si sentivano abbastanza inquiete, adesso che sapevano di essersi trovate insieme non di loro propria volontà, o per semplice coincidenza, ma per qualche incomprensibile bizzarria della fisica, quasi che i rapporti fra le persone fossero soggetti alle stesse leggi che governano i rapporti tra gli atomi e le molecole. Quando scese la notte artificiale dell'astronave, tutti furono molto contenti di ritirarsi in cabine separate, a cercare di organizzare razionalmente il turbinio dei pensieri.
Trillian non riuscì ad addormentarsi subito. Rimase seduta su un divano a fissare la gabbietta che conteneva il suo ultimo e unico legame con la Terra: due topolini bianchi che aveva assolutamente voluto portare con sé. Aveva sempre pensato che non avrebbe mai più rivisto il suo pianeta, ma adesso era turbata di vedere che non gliene importava niente che fosse stato distrutto. Le sembrava cosi lontano e irreale il ricordo della Terra, che non sapeva proprio come commemorarla col pensiero. Osservò i topolini correre furiosamente per la gabbia, e alla fine si concentrò completamente su di essi. Poi si riscosse dal suo torpore e andò sul ponte di comando a studiare sullo schermo i dati luminosi, che definivano la rotta della nave nello spazio. Le sarebbe piaciuto sapere quale pensiero inconscio le impedisse di addormentarsi.
Anche Zaphod non riusciva a dormire, e anche lui aveva qualche pensiero inconscio che lo teneva sveglio. Avrebbe voluto sapere qual era. A quanto si ricordava, da quando era sul Cuore d'Oro aveva avuto un'unica sensazione fastidiosa: la sensazione di non essere interamente sull'astronave. Per lo più era riuscito a rimuoverla e a non preoccuparsene, ma era affiorata di nuovo all'arrivo (inspiegabile) di Ford Prefect e Arthur Dent. Dietro la stranezza di quell'avvenimento pareva esserci un invisibile disegno.
Nemmeno Ford riusciva a dormire. Era troppo eccitato dal fatto di sentirsi di nuovo in viaggio. Proprio quando aveva cominciato ad abbandonare ogni speranza, i quindici anni di prigionia erano finiti.

Girovagare per un po' con Zaphod era una prospettiva allettante, anche
se c'era qualcosa d'indefinibilmente strano nella storia del suo semicugino. Per esempio il fatto che fosse diventato presidente della Galassia era francamente sorprendente, così com'era sorprendente il modo in cui lui aveva abbandonato la carica. C'era forse una ragione dietro quelle stranezze? Non avrebbe avuto senso chiederlo a Zaphod, perché Zaphod non aveva mai dato l'impressione di avere delle motivazioni per il suo comportamento: aveva fatto dell'insondabile un'arte. Lui la vita l'aggrediva con un misto di ingenua incompetenza e di eccezionale talento, e spesso era difficile capire dove finisse l'una e cominciasse l'altro.
Arthur si addormentò subito: era stanco morto. Qualcuno toccò la porta della cabina di Zaphod, che si aprì subito. – Zaphod…?
– Sì?
Era Trillian. La sua figura si stagliava contro l'ovale di luce della porta.
– Credo che abbiamo appena trovato quello che cercavi. – Ehi, davvero?
Ford rinunciò all'idea di dormire. In un angolo della sua cabina c'erano lo schermo e la tastiera di un piccolo computer. Si mise seduto lì davanti per un po' e cercò di comporre una nuova registrazione per la Guida, sull'argomento vogon. Ma non riuscì a escogitare niente di abbastanza caustico, così rinunciò anche a quello, s'infilò una vestaglia e andò a fare una passeggiata sul ponte di comando. Appena arrivato lì, fu sorpreso di vedere Trillian e Zaphod chini sugli strumenti e visibilmente eccitati. – Vedi? La nave sta per entrare in orbita – stava dicendo Trillian. – C'è un pianeta, là. Si trova esattamente sulle coordinate che avevi detto tu.
Zaphod sentì un rumore e alzò gli occhi. – Ford! – esclamò. – Dai, vieni a guardare anche tu! Ford andò a dare un'occhiata. Sullo schermo tremolava una serie di cifre.
– Riconosci queste coordinate galattiche? – disse Zaphod. – No.
– Aspetta che ti do un indizio. Computer! – Salve, gente! – garrì il computer. – C'è un'aria di festa qua, vero? – Chiudi il becco – disse Zaphod – e metti in evidenza gli schermi. La luce si affievolì, sul ponte di comando. Puntini luminosi giocarono sulle consolle riflettendosi negli occhi dei quattro, che guardavano i monitor esterni.

Sui monitor non c'era proprio niente. Niente che potesse dare un
indizio.
– La riconosci? – sussurrò Zaphod.
– Ehm, no – disse Ford.
– Cosa vedi?
– Niente.
– La riconosci?
– Ma di cosa parli?
– Siamo nella Nebulosa Testa di Cavallo. Una grande nube nera. – E avrei dovuto riconoscerla da uno schermo nero? – Quando si è dentro una nebulosa nera, si è nell'unico posto della Galassia in cui lo schermo ci appare nero. – Ah, perfetto!
Zaphod rise. Era visibilmente eccitato, e sembrava provare una gioia infantile.
– Pensa, è davvero terribile!
– Cosa c'è di così terribile nell'essere in mezzo a una nuvola di polvere? – disse Ford.
– Cosa penseresti di trovare qui? – lo incalzò Zaphod. – Niente.
– Niente stelle? Né pianeti?
– No.
– Computer! – gridò Zaphod. – Ruota l'angolo visuale di centottanta gradi, e non discutere!
Per un attimo sembrò non succedere niente, poi sull'orlo dell'enorme schermo apparve un bagliore. In mezzo a esso c'era una stella rossa grande come un piattino: vicino ce n'era un'altra. Un sistema binario. Poi apparve, nell'angolo dello schermo, una grande mezzaluna rossastra che a poco a poco sfumava nel nero, il nero dell'altro emisfero immerso nella notte. – L'ho trovato! – gridò Zaphod, battendo le mani sulla consolle. – L'ho trovato!
Ford lo fissò, sbalordito.
– Cosa? – disse.
– Quello – disse Zaphod – è il pianeta più improbabile che sia mai esistito.

(Brano tratto dalla Guida Galattica per gli Autostoppisti, pagina 634784, Sezione 5a. Registrazione: Magrathea.) Anticamente, nelle nebbie del tempi più remoti, nei grandi giorni
gloriosi dell'ex Impero Galattico, la vita era selvaggia, aspra e forte,
e in gran parte esentasse.
Possenti astronavi navigavano tra soli esotici, cercando avventura
e fortuna tra i più lontani meandri dello spazio galattico. In quei
tempi gloriosi gli animi erano coraggiosi, le poste erano alte, gli
uomini erano veri uomini, le donne erano vere donne, e le piccole
creature pelose di Alpha Centauri erano vere piccole creature pelose
di Alpha Centauri. E tutti osavano affrontare ignoti orrori, compiere
grandiose imprese, azzardare a testa alta anacoluti che nessuno aveva
mai azzardato prima: fu così che fu foggiato l'Impero.
Molti uomini naturalmente diventarono ricchissimi, ma questo era
perfettamente naturale e non c'era affatto da vergognarsene, anche
perché nessuno era veramente povero, o almeno, nessuno degno di un
minimo di considerazione. E per tutti i commercianti più ricchi e più
arrivati, la vita cominciò, inevitabilmente, a diventare noiosa e
scipita. Essi pensarono a un certo punto che la colpa fosse dei mondi
che avevano conquistato: nessuno era del tutto soddisfacente. O il
clima non era tanto buono nel tardo pomeriggio, o la giornata era di
mezz'ora troppo lunga, o il mare aveva la sfumatura di rosa sbagliata.
E così si crearono le condizioni per inaugurare un nuovo,
sconcertante tipo d'industria specializzata: la fabbricazione su
ordinazione di pianeti di lusso. La sede di tale industria era il pianeta
Magrathea, dove gl'ingegneri iperspaziali succhiavano materia
attraverso i buchi bianchi dello spazio e le davano la forma di pianeti
di sogno: pianeti d'oro, pianeti di platino, pianeti di soffice gomma
con un sacco di terremoti. Pianeti costruiti con cura e con amore
perché rispondessero alle aspettative degli uomini più ricchi della
Galassia, che erano abbastanza esigenti.
Questa speculazione fu così riuscita, che ben presto Magrathea
divenne il pianeta più ricco di tutti i tempi, e il resto della Galassia si

ridusse in squallida povertà. E così il sistema crollò, l'Impero andò in
sfacelo, e su più di un miliardo di mondi affamati calò un cupo
silenzio, disturbato soltanto dal lieve rumore delle penne degli
studiosi che di notte faticavano su piccoli mediocri trattati di
economia politica programmata.
Magrathea stessa scomparve e il suo ricordo passò presto nelle
tenebre della leggenda.
Ora, in questi tempi illuminati, nessuno più, ovviamente, crede a
un briciolo di quella leggenda.

Arthur si svegliò al rumore della discussione e andò sul ponte di comando. Ford stava gesticolando con foga. – Sei pazzo, Zaphod – stava dicendo – Magrathea è un mito, una favola, è quello che i genitori raccontano ai bambini quando vogliono farli diventare da grandi degli economisti, è… – È anche il pianeta intorno al quale stiamo orbitando – insistette Zaphod.
– Oh, Zaphod, che tu orbiti intorno a qualcosa può anche darsi, io non posso impedirtelo – disse Ford – ma questa nave… – Computer! – urlò Zaphod.
– Oh, no…
– Salve, gente! Sono Eddie, il computer di bordo, e mi sento in forma pazzesca, ragazzi, e so che qualunque cosa mi chiederete fra poco, mi divertirò un sacco a rispondere. Arthur guardò Trillian con aria interrogativa. Lei gli fece segno di venire avanti, ma di stare zitto.
– Computer – disse Zaphod – ripetici qual è la nostra attuale traiettoria.
– Con vero piacere, amico – gorgogliò il computer. – Attualmente siamo in orbita a un'altezza di quattrocentottantamila chilometri. Il pianeta attorno a cui orbitiamo è il leggendario pianeta Magrathea. – Questo non dimostra niente – disse Ford. – Non darei credito a quel computer nemmeno nel caso mi dicesse una cosa semplice come il mio peso.
– Posso calcolare il vostro peso, certo – garrì il computer, vomitando altro nastro. – Posso risolvere perfino i vostri problemi psicologici calcolando i decimali fino alla sesta cifra, se vi può servire.
Trillian intervenne.
– Zaphod – disse – da un momento all'altro passeremo sopra l'emisfero attualmente diurno del pianeta… – Dopo un attimo aggiunse: – Qualunque pianeta sia.
– Ehi, come sarebbe a dire? Il pianeta è o non è dove io avevo detto che doveva essere?

– Sì, so che c'è un pianeta, la. Non è che voglia discutere, ma so
solo che non potrei mai distinguere Magrathea da un qualsiasi altro ammasso di roccia fredda. Se la vuoi vedere, ormai c'è l'alba. – Va bene, va bene – borbottò Zaphod – lasciamo almeno che gli occhi abbiano la loro parte. Computer!
– Ehilà, salve! Cosa posso…
– Basta che tu stia zitto e ci dia di nuovo una panoramica del pianeta.
Ancora una volta sullo schermo apparve una scura massa informe: la massa del mondo che ruotava sotto di loro. Guardarono per un attimo in silenzio, ma Zaphod era troppo eccitato per starsene tranquillo.
– Stiamo attraversando l'emisfero notturno… – disse a voce bassa. – La superficie del pianeta si trova ora quattrocentottantamila chilometri sotto di noi… – Cercava così di dare enfasi al momento, a quel momento che per lui era così grande. Magrathea! Era piccato con Ford per la reazione scettica che aveva avuto. Magrathea! – Fra pochi secondi – continuò – dovremmo vedere… ecco! Il momento era arrivato. Anche il più scafato barbone delle stelle non può esimersi dal rabbrividire davanti alla spettacolarità di un'alba vista dallo spazio; ma un'alba binaria è una delle meraviglie della Galassia.
La totale oscurità fu d'un tratto ferita da un punto di una luminosità accecante. Il punto aumentò sempre più, per gradi, fino a diventare la sottile lama di una mezzaluna: di lì a pochi secondi apparvero i due soli, formati di luce, a bruciare col loro fuoco bianco il nero limite dell'orizzonte. Sotto di essi, fieri dardi di colore venarono la sottile atmosfera.
– I fuochi dell'alba…! – sussurrò Zaphod, – I soli gemelli Soulianis e Rahm…!
– O quel cavolo che in realtà sono – disse Ford. – Soulianis e Rahm! – ribadì Zaphod.
I soli fiammeggiarono nell'alto dello spazio, e una sommessa musica spettrale si diffuse per il ponte di comando: Marvin stava ronzando ironicamente, perché non poteva soffrire gli umani. Guardando lo spettacolo creato dalla luce, Ford si sentì invadere dall'entusiasmo, l'entusiasmo di vedere un nuovo, strano pianeta. Gli bastava sapere che era un nuovo, strano pianeta, e lo irritava un po' che Zaphod volesse imporre per sua personale soddisfazione un'interpretazione bizzarra e ridicola della scena. Tutte quelle sciocchezze su Magrathea erano infantilismi. Non è sufficiente godere della bellezza di un giardino? Che bisogno c'è di credere che nasconda delle fate?

Tutta quella storia di Magrathea appariva del tutto incomprensibile
ad Arthur. Perciò Arthur si avvicinò a Trillian e le chiese cosa stava succedendo.
– So soltanto quel che mi ha detto Zaphod – sussurrò lei. – Pare che quella di Magrathea sia una specie di leggenda del passato in cui nessuno crede davvero. Un po' come la storia di Atlantide per noi terrestri, solo che la leggenda dice che i magratheani fabbricavano pianeti.
Arthur guardò gli schermi e sbatté le palpebre: d'un tratto gli parve di sentire la mancanza di qualcosa d'importante. Ma cosa? Dopo qualche attimo, capì cos'era che gli mancava. – Lo fanno il tè su questa astronave? – chiese. Man mano che il Cuore d'Oro procedeva lungo l'orbita del pianeta, questo si rivelava sempre più ai loro occhi. I soli adesso erano alti nel cielo nero, i fuochi pirotecnici dell'alba erano cessati, e la superficie del pianeta appariva desolata e poco invitante alla comune luce del giorno: era grigia, polverosa, fosca. Sembrava un pianeta morto e freddo come una cripta. Ogni tanto apparivano del contorni più promettenti, sul lontano orizzonte: gole, forse montagne, forse perfino città… Ma appena si avvicinavano, anche quei contorni si sfumavano in una macchia anonima da cui non trapelava niente. La superficie del pianeta era resa indistinta dal movimento lento dell'aria sottile e stagnante, che vi scivolava sopra da secoli e secoli. Era chiaramente un mondo vecchio, vecchissimo. Ford fu preso da un momento di dubbio, mentre guardava il paesaggio grigio scorrere sotto l'astronave. L'immensità del tempo lo turbava: quasi ne sentiva tangibilmente la presenza. Si schiarì la voce. – Anche supponendo che lo sia…
– Lo è – disse Zaphod.
– Non lo è, invece – disse Ford. – E poi in ogni caso cosa ti verrebbe in tasca da un pianeta come questo? Non c'è niente lì. – Non sulla superficie – disse Zaphod.
– D'accordo, supponiamo pure che ci sia qualcosa, immagino bene che tu non sia venuto fin qui per gustare soltanto l'archeologia industriale del luogo. Cos'è che cerchi? Una delle due teste di Zaphod distolse lo sguardo. L'altra si girò a vedere cosa stesse guardando la prima, ma la prima non è che stesse guardando niente di particolare.
– Be' – disse Zaphod con brio – in parte sono venuto fin qui per curiosità, in parte per senso dell'avventura, ma soprattutto credo per la fama e il denaro…
Ford gli diede un'occhiata pungente. Aveva la netta impressione che Zaphod non avesse la minima idea del perché era andato fin lì.

– Sai, non mi piace affatto l'aspetto di questo pianeta – disse
Trillian, rabbrividendo.
– Fai finta di niente – le disse Zaphod. – Sai, con metà delle ricchezze dell'ex Impero Galattico accumulate lì da qualche parte, è un pianeta che si può anche permettere un'aria squallida. Che menate, pensò Ford. Anche supponendo che quella fosse la sede di un'antica civiltà ormai scomparsa, anche supponendo un mucchio di cose estremamente improbabili, era del tutto impossibile che inestimabili tesori fossero immagazzinati su quel mondo in una qualsiasi forma capace di avere ancora un significato. Ford si strinse nelle spalle.
– Io credo che sia soltanto un pianeta morto – disse. – Questa suspense mi uccide – disse Arthur, irritate. Lo stress e la tensione nervosa sono oggi seri problemi sociali in tutte le parti della Galassia, ed è perché questa situazione non s'inasprisca che i fatti successivi verranno rivelati in anticipo. Il pianeta in questione è effettivamente il leggendario Magrathea. Il mortale lancio di missili verificatosi poco dopo i fatti narrati a opera di un antico sistema automatico di difesa si risolverà soltanto nella rottura di tre tazze di caffè e di una gabbia per topi, nella contusione del braccio di una delle persone a bordo dell'astronave, e nella prematura creazione e improvvisa morte di un vaso di petunie e di un innocente capodoglio.
Perché permanga ancora un po' di senso del mistero, non verrà rivelato per il momento di chi sia il braccio contuso. Questo particolare è atto infatti a creare una suspense non nociva al sistema nervoso, dato che non ha la benché minima importanza.

Dopo un inizio di giornata abbastanza brusco, la mente di Arthur si stava a poco a poco riprendendo dai traumi del giorno prima. Arthur aveva trovato una macchina nutrimatica che gli aveva servito in una tazzina di plastica un liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente diverso dal tè. Il funzionamento della nutrimatica era interessante. Quando veniva premuto il bottone Bevande, la macchina esaminava sull'istante, ma molto dettagliatamente, la potenziale gamma dei gusti del soggetto: faceva un'analisi spettroscopica del metabolismo di questo, e poi spediva minuscoli segnali sperimentali attraverso il sistema nervoso fino ai centri del gusto del cervello, per vedere che cosa aveva maggiori probabilità di essere ben digerito e apprezzato. Tuttavia, era impossibile capire il perché di tutte queste operazioni, perché la macchina serviva immancabilmente in tutti i casi una tazza di liquido che, anche se non proprio del tutto, era quasi completamente diverso dal tè. La nutrimatica era progettata e fabbricata dalla Società Cibernetica Sirio, il cui reparto reclami copre ormai gran parte della terraferma dei primi tre pianeti del sistema della Stella Tau di Sirio. Arthur bevve il liquido e lo trovò corroborante. Tornò a guardare gli schermi e vide scorrervi altre immagini di squallido grigiore. D'un tratto pensò di fare la domanda che ormai stava covando da un po'. – È un posto sicuro? – disse.
– Magrathea è un pianeta morto da cinque milioni di anni – disse Zaphod – è logico che sia sicuro. Ormai perfino i fantasmi si saranno calmati e avranno messo su famiglia!
In quella si diffuse per il ponte di comando un suono strano e inspiegabile. Sembrava come il rumore di una lontanissima fanfara: era cupo, stridulo, irreale. Fu seguito dal suono di una voce altrettanto cupa, stridula, irreale. La voce disse: – Siate i benvenuti… Qualcuno stava parlando loro dal pianeta morto! – Computer! – gridò Zaphod.
– Ehilà, salve!
– Cosa cavolo è?

– Oh, è solo una registrazione vecchia di cinque milioni di anni,
che ci viene trasmessa automaticamente.
– Una registrazione?
– Zitto! – disse Ford. – Sta continuando. Era una voce di persona vecchia cortese e quasi affascinante, Ma aveva anche un tono d'inconfondibile minaccia. – Questo è un annuncio registrato – disse la voce – perché purtroppo siamo tutti assenti in questo momento. Il consiglio
commerciale di Magrathea vi ringrazia per la vostra gradita visita…
(– Una voce dall'antica Magrathea! – gridò Zaphod. – Ma sì, ma sì – disse Ford.)
…ma annuncia con rincrescimento che l'intero pianeta è temporaneamente chiuso al pubblico. Grazie. Se volete lasciare il
nome e l'indirizzo del pianeta dove eventualmente vi si possa
contattare, parlate per cortesia appena sentite l'apposito segnale.
Seguì un breve ronzio, poi il silenzio.
– Vogliono liberarsi di noi – disse nervosa Trillian. – Cosa facciamo?
– È solo una registrazione –disse Zaphod. – Continuiamo a scendere. Capito, computer?
– Capito – disse il computer e aumentò la velocità della nave. Aspettarono.
Dopo un secondo o giù di lì si sentì di nuovo la fanfara, e subito dopo la voce.
Ci teniamo ad assicurarvi che appena riprenderemo l'attività, lo annunceremo su tutte le riviste alla moda e su tutti i supplementi a
colori. Questo avverrà quando i nostri clienti saranno ancora una
volta in grado di scegliere il meglio nell'ambito della geografia
contemporanea. – Il tono di minaccia della voce si fece più
accentuato. – Nel frattempo ringraziamo i nostri clienti per l'interesse dimostrato e li invitiamo ad andarsene immediatamente.
Arthur guardò le facce nervose dei suoi compagni. – Credo che faremo meglio ad andarcene, no? – disse. – Shh! – disse Zaphod. – Non c'è assolutamente niente di cui preoccuparsi.
– E allora come mai avete tutti la faccia così tesa? – Non è tensione, ma interesse! – gridò Zaphod. – Computer, comincia a far scendere la nave nell'atmosfera e preparala per l'atterraggio.
Questa volta la fanfara suonò molto frettolosamente. La voce fu gelida e disse:
È assai piacevole vedere che il vostro entusiasmo per il nostro pianeta continua inalterato, per cui ci teniamo ad assicurarvi che i

missili telecomandati che in questo momento si stanno dirigendo
verso la vostra nave sono parte integrante dell'accoglienza speciale
che riserviamo ai nostri clienti più entusiasti, e che le testate nucleari
dei detti missili ci sono ovviamente solo a titolo di cortesia. Non
vediamo l'ora che diventiate nostri clienti nella vita futura… Grazie.
La voce tacque.
– Oh! – disse Trillian.
– Ehm… – disse Arthur.
– Allora? – disse Ford.
– Sentite – disse Zaphod – volete ficcarvelo in testa? È solo un messaggio registrato! È un messaggio che ha milioni di anni, non è rivolto a noi, capite?
– E i missili?! – disse Trillian, pacata. – I missili?! Ma non farmi ridere!
Ford toccò Zaphod sulla spalla e gl'indicò lo schermo di dietro. In lontananza si vedevano distintamente due missili argentei salire attraverso l'atmosfera nella loro direzione. Opportunamente ingranditi, apparvero per quello che erano: due veri razzi di notevole potenza, che solcavano inesorabilmente il cielo. Era una visione scioccante. – Credo che stiano facendo del loro meglio per dirigersi su di noi – disse Ford.
Zaphod guardò esterrefatto i missili.
– Ma è terribile! – disse. – Qualcuno laggiù vuole ucciderci! – Terribile – disse Arthur.
– Ma non capite cosa significa?
– Sì. Che moriremo.
– Sì, ma a parte quello…
A parte quello?
– Significa che siamo sulle tracce di qualcosa! – Allora bisogna che riusciamo a perderle al più presto! Di secondo in secondo i missili sullo schermo apparivano sempre più grandi. Adesso seguivano una linea retta che li portava dritti contro la nave, per cui si vedevano soltanto le testate, frontalmente. – Così per saperlo – disse Trillian – cosa intendiamo fare? – Dobbiamo semplicemente mantenerci calmi – disse Zaphod. – Tutto qui? – gridò Arthur.
– No, bisogna anche che adottiamo… ehm… una strategia di fuga! – disse Zaphod in un tardivo accesso di panico. – Computer, che strategia di fuga possiamo adottare?
– Ehm, temo nessuna, ragazzi – disse il computer. – … qualcosa di simile, allora – disse Zaphod. – Sembra che qualcosa abbia inceppato i miei sistemi di pilotaggio – spiegò con brio il computer. – Meno quarantacinque secondi

all'impatto. Vi prego di chiamarmi Eddie, se la cosa vi può aiutare a
rilassarvi.
Zaphod sembrò un attimo voler correre in dieci diverse direzioni contemporaneamente, poi disse: – Bene! Ehm… bisogna che prendiamo il comando manuale della nave. – Tu la sai pilotare? – chiese Ford, con tono ironico. – No, e tu?
– No.
– Trillian, tu?
– No.
– Bene – disse Zaphod, contentò. – Proveremo a farlo tutti insieme.
– Nemmeno io lo so fare – disse Arthur, ritenendo che fosse ora di affermare un po' la sua personalità.
– L'avevo immaginato – disse Zaphod. – Bene, computer, voglio il comando manuale.
– L'avete – disse il computer.
Davanti a loro comparve una fila di consolle mai usate prima, sgusciate automaticamente dalle casse da imballaggio di polistirolo e dai rivestimenti di cellofane.
Zaphod le guardò con occhi spiritati.
– Bene, Ford – disse – marcia indietro a tutta birra e poi dieci gradi a dritta.
– Buona fortuna, ragazzi – cinguettò il computer. – Meno trenta secondi all'impatto…
Ford si precipitò ai comandi: fra essi, soltanto alcuni gli sembravano avere un'aria vagamente familiare, per cui manovrò questi. La nave vibrò e stridette furiosamente mentre i jet direzionali cercavano di sospingerla su cento rotte contemporaneamente. Ford lasciò andare metà dei comandi, e la nave giro vorticosamente, percorrendo uno stretto arco e tornando da dove era venuta, ovvero dirigendosi direttamente contro i missili in arrivo, Tutti furono scagliati contro le paratie, dove intanto si erano immediatamente gonfiati, per l'emergenza, i cuscinetti ad aria. Per alcuni secondi la forza d'inerzia costrinse i quattro all'immobilità. Boccheggiando, Zaphod lottò disperatamente per riuscire a raggiungere una piccola leva, alla quale finalmente, dopo innumerevoli sforzi, riuscì a mollare un calcio. Il calcio fu così violento che la leva si staccò. La nave fece un brusco scarto e si capovolse. La Guida Galattica per gli Autostoppisti di Ford andò a sbattere contro una consolle dei comandi: il risultato fu che la guida cominciò a spiegare agli eventuali interessati i modi migliori per esportare di contrabbando da Antares le ghiandole dei

parrocchetti antariani (le ghiandole di parrocchetto antariano
conficcate su uno stecchino sono una ributtante, ma ricercatissima squisitezza da cocktail, e spesso ricchissimi idioti pagano cifre favolose per comprarle, al solo fine di fare colpo su altri ricchissimi idioti), e che nel contempo la nave cominciò a precipitare come una pietra.
Fu più o meno a questo punto che uno dei quattro componenti l'equipaggio riportò una brutta contusione al braccio. Il particolare va sottolineato perché, come è già stato rivelato, per il resto tutto andò bene: i quattro si salvarono e i missili mortali non colpirono la nave. – Meno venti secondi all'impatto, ragazzi… – disse il computer. – E allora riaccendi quei maledetti motori! – urlò Zaphod. – Oh, certo, ragazzi – disse il computer. Con un lieve rombo i motori si riaccesero, la nave smise di precipitare e riprese la sua rotta, dirigendosi verso i missili.
Il computer si mise a cantare.
Passeggiando nella tempesta… – cantilenò con voce nasale – tieni alta la testa…
Zaphod gli urlò di tacere, ma la sua voce si perse nel generale fracasso dell'imminente disastro.
E non… avere paura.. del buio! – latrò Eddie. La nave aveva ripreso si a volare, ma capovolta, per cui adesso il suo equipaggio si trovava tutto sul soffitto e non poteva in alcun modo sperare di raggiungere i comandi.
Passata è la tempesta… – gracidò, sentimentale, Eddie. I due missili giganteggiavano sugli schermi, nella loro traiettoria mortale.
…gli uccelli fanno festa…
Ma, per un caso straordinariamente fortunato, essi non avevano corretto del tutto la loro traiettoria, adeguandola all'attuale rotta ondeggiante della nave, e così la mancarono, passandole sotto di pochi centimetri.
E il dolce canto dell'allodola… Correggo: quindici secondi all'impatto, ragazzi… Cammina nel vento… I missili virarono e tornarono indietro, puntando sull'astronave. – Ci siamo – disse Arthur, guardandoli. – Ormai è chiaro che stiamo per morire, vero?
– Vorrei che la smettessi di dirlo! – urlò Ford. – Ma stiamo per morire, no?
– Sì.
Cammina sotto la pioggia… – cantò Eddie. Ad Arthur d'un tratto venne un'idea. Si alzò faticosamente in piedi.

– Perché nessuno ha attivato la Propulsione d'Improbabilità? –
disse. – È l'unico comando che forse potremmo riuscire a raggiungere di qui.
– Cosa sei, pazzo? – disse Zaphod. – Ci vuole un'appropriata programmazione, altrimenti potrebbe succedere di tutto. – Be', a questo punto che importanza ha? – urlò Arthur. – Anche se i tuoi sogni sono frustrati e annientati… – cantò Eddie. Arthur si arrampicò sull'oggetto che segnava il punto d'incontro tra la paratia curva e il soffitto.
Continua a camminare, continua a camminare con la speranza in cuore…
Sapete spiegarmi perché Arthur non dovrebbe attivare la
Propulsione d'Improbabilità? – gridò Trillian. – E non camminerai mai solo… Cinque secondi all'impatto. È stato bello conoscervi, ragazzi. Dio vi benedica… Non cammine… rai… mai… solo!
– Ho detto – strillò Trillian – perché Arthur non… Subito dopo ci fu un'apocalittica esplosione di luce e rumore.

E subito dopo l'esplosione, il Cuore d'Oro continuò a procedere normalmente sulla sua rotta: l'unica differenza fu che il suo interno subì un cambiamento piuttosto affascinante. Appariva infatti un po' più ampio, ed era dominato da delicate sfumature pastello verdazzurre. Al centro, una scala a chiocciola che non portava in nessun posto particolare sorgeva in mezzo a una macchia di felci e di fiori gialli: lì accanto, una meridiana di pietra ospitava il terminale del computer centrale. Luci e specchi messi ad arte davano l'illusione di trovarsi in una serra affacciata su un giardino perfettamente curato. Tutt'intorno al perimetro della serra c'erano tavoli di marmo dalle gambe di ferro battuto. Se si fissava a lungo la superficie lucida del marmo, si distinguevano dopo un po' le forme degli strumenti di bordo, e se le si toccavano, gli strumenti si materializzavano immediatamente. Se si guardavano dal giusto angolo visuale, gli specchi riflettevano tutti i dati richiesti, benché non fosse affatto chiaro come facessero a rifletterli. La visione d'insieme era straordinariamente bella.
Seduto tranquillo su una poltrona di vimini, Zaphod Beeblebrox disse: – Cosa diavolo è successo?
– Stavo appunto dicendo – disse Arthur, gironzolando vicino a una piccola vasca dei pesci – che lì c'è il pulsante della Propulsione d'Improbabilità… – Indicò il punto dove un tempo c'era il pulsante. Adesso al suo posto c'era una pianta in vaso. – Ma dove siamo? – disse Ford, che era seduto sulla scala a chiocciola con un bel Gotto Esplosivo Pangalattico in mano. – Esattamente dov'eravamo, credo… – disse Trillian. D'un tratto, gli specchi mostrarono l'immagine dello squallido paesaggio di Magrathea che scorreva sotto di loro.
Zaphod si alzò di scatto dalla poltrona. – Allora cos'è successo ai missili? – disse. Gli specchi mostrarono una nuova e sorprendente immagine. – Sembrerebbe – disse dubbioso Ford – che si siano trasformati in un vaso di petunie e in una balena dall'aria molto stupita…

– A un Fattore d'Improbabilità – intervenne Eddie, che non era
affatto cambiato – di otto milioni settecentosessantasettemilacento- ventotto contro uno.
Zaphod fissò Arthur.
– Sei tu che ci hai pensato, terrestre? – chiese. – Insomma – disse Arthur – ho solo…
– Hai pensato proprio bene, sai? Attivare la Propulsione d'Improbabilità per un secondo senza prima attivare gli schermi a prova d'improbabilità. Ehi, ragazzo, lo sai che ci hai salvato la vita? – Oh – disse Arthur – non è stato nulla, davvero… – Ah no? – disse Zaphod. – Bene, allora dimentichiamo tutta la faccenda. Computer, facci atterrare.
– Ma…
– Ho detto dimentichiamo la faccenda.
Un'altra cosa che era stata dimenticata era che, contro tutte le probabilità, un capodoglio era stato d'un tratto portato in vita molte miglia sopra la superficie di un pianeta alieno. E poiché quella di stare sospese in aria non è una peculiarità delle balene, la povera creatura innocente ebbe ben poco tempo di riflettere sulla propria identità di balena, prima di accettare il fatto di non essere che un'ex-balena.
Qui di seguito riportiamo i suoi pensieri dal momento in cui la sua vita cominciò fino al momento in cui finì. Ah…! Cosa succede?
Ehm, scusate, chi sono?
Ehi?
Perché sono qui? Qual è lo scopo della mia vita? Cosa intendo dire con chi sono?
Calmati ora, controllati… oh! questa è una sensazione interessante… cos'è? È una specie di… di formicolio nel… nel… be', immagino sia meglio cominciare a dare dei nomi alle cose, se voglio far progressi in quello che chiamerò mondo… Allora dirò che il formicolio è nello stomaco.
Bene. Ohhh, si sta facendo molto forte. E, ehi, cos'è questo fischio che mi passa accanto a quella che chiamerò subito testa? Lo chiamerò… lo chiamerò vento! Che sia un nome adatto? Ma sì, per il momento può andare, poi gli troverò un nome migliore quando capirò a cosa serve. Dev'essere molto importante, questo vento, perché mi pare che ce ne sia un casino, qua. Ehi! Cos'è questa? Questa… la chiamerò coda, sì, coda. Ehi! La posso agitare in qua e in la! Wow! Wow! Che bello! Non mi pare che si ottenga gran che agitandola, ma scoprirò poi a cosa serve.

Dunque… a questo punto sono riuscita a farmi una
rappresentazione coerente delle cose, o no? No.
Non importa, in fondo è eccitante dover scoprire tante cose, non vedo l'ora di scoprire altre cose, ah! sono stordita dalla voglia di scoprire…
O dal vento?
Ce n'è davvero moltissimo di vento, vero? E wow! Ehi! Cos'è quella cosa che mi viene incontro a tutta velocità? È così grande, uniforme, rotondeggiante che ha bisogno di un bel nome sonante come… come… come terra! Sì! Che bel nome, terra!
Di', saremo amici, terra?
E il resto, dopo una botta tremenda, fu silenzio. Curiosamente, l'unica cosa che pensò il vaso di petunie cadendo fu Oh no, non un'altra volta! Molte persone hanno riflettuto che se noi
sapessimo esattamente perché il vaso di petunie pensò così, sapremmo molte più cose sulla natura dell'universo di quante non ne sappiamo attualmente.

– Dobbiamo portarci dietro quel robot? – disse Ford, guardando con disgusto Marvin, che stava in piedi tutto curvo in un angolo, sotto una piccola palma.
Zaphod distolse lo sguardo dagli specchi, che mostravano una visione panoramica dello squallido paesaggio di Magrathea, dove finalmente il Cuore d'Oro era atterrato. – Quell'androide paranoico? – disse. – Ma sì, portiamolo. – Ma cosa ce ne facciamo di un robot maniaco-depressivo? – Voi pensate di avere dei problemi – disse Marvin con un tono come se si rivolgesse a una bara occupata di fresco da un cadavere – ma cosa ve ne fareste di voi stessi se foste voi dei robot maniaci depressivi? No, non scomodatevi a rispondere: io sono cinquantamila volte più intelligente di voi, e tuttavia non so la risposta. Mi da il mal di testa solo cercare di scendere a pensare al vostro livello. Trillian arrivò di corsa, proveniente dalla sua cabina. – I miei topolini bianchi sono scappati! – disse. Un'espressione di profondo sbigottimento e preoccupazione mancò d'apparire sulle due facce di Zaphod.
– Chi se ne frega dei tuoi topolini bianchi! – disse Zaphod. Trillian, turbata, lo guardò male e tornò via. Forse il suo annuncio avrebbe sortito più effetto se a tutti fosse stato noto che gli esseri umani non sono al secondo posto nella scala degli esseri più intelligenti della Terra, ma solo al terzo. – Salve, ragazzi.
La voce era stranamente familiare, eppure stranamente diversa. Aveva un'impronta matriarcale. I quattro erano vicini al portello del compartimento stagno, e si accingevano a scendere sulla superficie del pianeta.
Si guardarono in faccia l'un l'altro, stupiti. – È il computer – spiegò Zaphod. – Ho scoperto che aveva una personalità di riserva per i casi di emergenza, e ho pensato che questa potesse essere più adatta alle circostanze.

– Questa sarà la vostra prima giornata su un pianeta nuovo e strano
– continuò la seconda voce di Eddie – perciò desidero che vi copriate bene, in modo da stare caldi, e che non vi mettiate a giocare con nessun cattivo mostro dagli occhi d'insetto. Zaphod tamburellò con le dita sul portello, spazientito. – Mi spiace – disse – ma più che vestirci molto pensò che ci serva un regolo calcolatore.
– Ah sì, eh? – ringhiò il computer. – Chi ha detto questo? – Vuoi aprire il portello e farci uscire per favore, computer? – disse Zaphod cercando di non arrabbiarsi. – Non finché chiunque abbia detto quella frase non abbia confessato – disse il computer, con sferragliare di circuiti. – Oddio – mormorò Ford. Si appoggiò a una paratia e cominciò a contare fino a dieci. Era terrorizzato al pensiero che un giorno le forme di vita senzienti potessero dimenticare come si fa di conto. Solo facendo di conto gli umani possono dimostrare la loro indipendenza dai computer.
– Forza – disse severo Eddie.
– Computer… – disse Zaphod.
– Sto aspettando – lo interruppe Eddie. – Posso aspettare tutto il giorno, se necessario…
– Computer… – disse ancora Zaphod, che nel frattempo aveva cercato di pensare a qualche fine ragionamento con cui intrappolare il computer e aveva deciso di rinunciarvi, ritenendo non fosse il caso di competere con lui sul suo stesso terreno. – Computer, se non apri questo portello immediatamente distruggerò le tue banche dei dati e ti riprogrammerò con una bella ascia, capito? Eddie, scioccato, tacque e ci pensò su.
Ford continuò a contare. Contare è la cosa più aggressiva che si possa fare a un computer, è l'equivalente del guardare un essere umano con aria minacciosa dicendo Sangue… sangue… sangue… sangue…
Alla fine Eddie disse, tutto dolce: – Credo che dobbiamo far di tutto per mantenere dei buoni rapporti fra noi – e il portello si aprì. Furono investiti da un vento gelido: contraendo i muscoli dal freddo, scesero la scaletta e misero piede sul suolo desolato di Magrathea.
– Finirà tutto in pianto, lo so – gridò Eddie, e richiuse il portello. Qualche minuto dopo lo riaprì e richiuse ancora, in risposta a un comando che lo prese completamente in contropiede.

Cinque figure s'avventurarono lente sull'impervio terreno. Questo era in parte grigio, in parte marrone, in parte d'un colore ancora più brutto. Era come una palude disseccata, priva di qualsiasi vegetazione e ricoperta di uno strato di polvere spesso dai due ai tre centimetri. E freddissima.
Zaphod era visibilmente depresso. Si allontanò a grandi passi dagli altri e si perse dietro un lieve rialzo del terreno. Il vento feriva gli occhi e gli orecchi di Arthur, e l'aria stantia e fine gli soffocava la gola. Tuttavia, la cosa non era sufficiente a smorzare il suo entusiasmo.
– È fantastico! – disse, e la sua stessa voce gli rintronò negli orecchi. Il suono viaggiava male, in quell'atmosfera sottile. – Mi sembra un postaccio desolato – disse Ford – mi divertirei di più in un cacatoio per gatti. – Si sentiva sempre più irritato. Di tutti i pianeti di tutti i sistemi solari della Galassia, tanti dei quali erano brulicanti di vita e molto affascinanti, doveva scegliere proprio quello, Zaphod? Dopo quindici anni di galera sulla Terra, gli toccava, pensava Ford, finire in una pattumiera come quella! Non c'era nemmeno la bancarella degli hot-dog! Si chinò e raccolse una zolla di terra, ma sotto non c'era proprio niente da guardare. Niente che ricompensasse lo sforzo d'avere attraversato migliaia di anni luce. – No – insistette Arthur – non capisci, questa è la prima volta che io metto piede sulla superficie di un altro pianeta… di un intero mondo alieno! Peccato però che sia una simile fogna. Trillian stava tutta rattrappita, tremava e aveva la fronte corrugata. Con la coda dell'occhio le parve di vedere un attimo un movimento strano, ma quando guardò bene, voltandosi indietro, vide soltanto la nave, immobile e silenziosa, un centinaio di metri dietro di loro. Fu contenta di vedere, qualche secondo dopo, Zaphod riapparire in cima al rialzo e agitare la mano invitandoli a raggiungerlo. Pareva eccitato, ma non riuscirono a capire bene cosa dicesse per via del vento e dell'atmosfera sottile.
Mentre si avvicinavano al rialzo, si accorsero che era circolare: si trattava in realtà di un cratere dell'ampiezza di una cinquantina di

metri. La parte esterna dell'orlo, là dove il terreno declinava, era
cosparsa di strani grumi neri e rossi. Si fermarono a guardarli. Erano umidi e gommosi.
D'un tratto, si accorsero con orrore che si trattava di carne fresca di balena.
Raggiunsero Zaphod sull'orlo del cratere. – Guardate – disse lui, indicando l'abisso. Nel centro del cratere c'era la carcassa spappolata di un capodoglio che non era vissuto abbastanza a lungo da potersi lamentare del proprio destino.
Il silenzio fu disturbato solo dagli involontari conati di Trillian. – Immagino sia inutile cercare di seppellirla, vero? – mormorò Arthur, e si pentì subito dopo di averlo detto. – Venite – disse Zaphod, e s'incamminò giù per il cratere. – Cosa? Laggiù?! – disse Trillian, con profondo disgusto. – Sì – disse Zaphod. – Venite, voglio farvi vedere una cosa. – Ma la si vede già da qui – disse Trillian. – No, non la balena – disse Zaphod. – Un'altra cosa. Forza! Gli altri esitarono.
– Forza! – insistette Zaphod. – Ho trovato il modo di entrare dentro.
Dentro? – disse Arthur, inorridito. – Nell'interno del pianeta! C'è un passaggio sotterraneo. La balena l'ha aperto precipitando, così adesso si può entrare. Pensate! Sentieri che nessuno percorre più da cinque milioni di anni! Penetreremo nelle viscere stesse del tempo…
Marvin ricominciò a fare i suoi ronzii sarcastici. Zaphod gli diede una botta, mettendolo a tacere. Con un fremito di disgusto, tutti seguirono Zaphod giù per il cratere, sforzandosi di non guardare la disgraziata balena che l'aveva create.
– La vita – disse Marvin malinconicamente – che tu la detesti o che la sopporti facendo finta di niente, non ti potrà mai piacere. Il terreno era franato la dove la balena lo aveva colpito, e rivelava adesso una ragnatela di gallerie e passaggi in buona parte ostruiti da detriti e pietrisco. Zaphod era riuscito a sgomberare un po' l'entrata di uno dei passaggi, ma Marvin la liberò completamente in fretta e bene. Dai bui recessi si diffusero zaffate d'aria umida, e quando Zaphod fece luce con una torcia elettrica, non si distinse quasi niente nell'oscurità polverosa.
– Secondo la leggenda – disse – i magratheani vivevano per lo più sottoterra.

– Perché? – disse Arthur. – La superficie era forse troppo inquinata
o sovrappopolata?
– No, credo di no – disse Zaphod. – Penso semplicemente che ai magratheani non piacesse molto.
– Sei sicuro di sapere quello che fai? – disse Trillian, scrutando nervosamente nelle tenebre. – Siamo già stati attaccati una volta, no? – Senti, bimba, ti assicuro che la popolazione di questo pianeta è composta esclusivamente di quattro persone: noi. Su, forza, allora, entriamo. Ehm, ehi tu, terrestre…
– Arthur – disse Arthur.
– Sì, potresti tenere quel robot con te e stare di sentinella all'entrata?
– Di sentinella? – disse Arthur. – Ma quali pericoli ci sono? Non hai appena detto che non c'è nessuno, qui? – Be', sì, ma giusto per sicurezza, eh? – disse Zaphod. – La sicurezza di ehi? Tua o mia?
– Allora bravo, tu fai la sentinella. Su, andiamo, noi. Zaphod s'avventurò dentro al passaggio, seguito da Trillian e da Ford.
– Bene, spero che ve la passiate tutti malissimo – disse Arthur, indispettito.
– Non ti preoccupare – lo assicuro Marvin – se la passeranno male sicuro.
Dopo pochi secondi, erano tutti scomparsi dalla vista. Arthur si mise a passeggiare su e giù, furioso, poi dopo un po' pensò che la tomba di una balena non era affatto il posto più adatto a quel tipo di passeggiata infuriata.
Marvin gli diede una veloce occhiata cattiva, quindi si disattivò. Zaphod scendeva lungo il tunnel: era nervosissimo, ma cercava di nasconderlo camminando con determinazione. Diresse la torcia a destra e a sinistra. Le pareti erano rivestite di mattonelle scure, ed erano fredde al tatto. L'aria era greve e sapeva di muffa. – Ecco, vedete, cosa vi avevo detto? – disse Zaphod. – È un pianeta disabitato. – E proseguì in mezzo alla sporcizia e ai detriti che ingombravano il pavimento di piastrelle. A Trillian venne inevitabilmente in mente la metropolitana di Londra, anche se questa era un po' meno abominevolmente squallida. Ogni tanto sulle pareti al posto delle piastrelle c'erano dei grandi mosaici con disegni geometrici dai vivaci colori. Trillian si fermò a studiarne uno, ma non riuscì assolutamente a capire cosa volesse dire. – Ehi – gridò a Zaphod – hai idea di cosa siano queste strane figure?

– Saranno semplicemente strane figure di qualche tipo – disse
Zaphod, senza girarsi a guardare.
Trillian alzò le spalle e riprese in fretta il cammino. Ogni tanto c'erano porte che davano accesso a piccole stanze piene di attrezzature elettroniche abbandonate. Fu Ford a scoprirle e a chiamare Zaphod perché ci desse un'occhiata. Trillian li seguì. – Guarda – disse Ford – e credi che questa sia Magrathea…? – Sì – disse Zaphod – abbiamo udito anche la voce, non ti ricordi? – E va be', ammettiamo anche che sia Magrathea… per il momento. Quello che non ci hai ancora detto è come hai fatto a scovarla. Certo non ti sarai limitato a guardare l'atlante stellare, vero? – Ho fatto delle ricerche. Negli archivi statali. Un lavoro da detective. Ho avuto qualche intuizione felice. È stato facile. – E poi hai rubato il Cuore d'Oro per venire a cercarla? – L'ho rubato per cercare un sacco di cose. – Un sacco di cose? – disse Ford, stupito. – Come cosa, ad esempio?
– Non lo so.
– Come?
– Non so cosa sto cercando.
– Come mai non lo sai?
– Perché… perché… Perché credo che se lo sapessi non sarei più capace di cercare quello che cerco.
– Cosa? Sei pazzo?
– È una possibilità che non ho ancora escluso – disse tranquillo Zaphod. – Di me stesso so solo quel tanto che riesco a capire nelle mie attuali condizioni mentali. E le mie attuali condizioni mentali non sono buone.
Per un bel po' nessuno disse niente. Ford fissò a lungo Zaphod; si sentiva d'un tratto molto preoccupato.
– Senti, amico mio – disse alla fine – se vuoi… – No, un attimo, ti dirò una cosa – disse Zaphod. – Io sono un tipo che pensa a ruota libera. Mi viene l'idea di fare una cosa e mi dico, be', perché no. E la faccio. Mi viene in mente di diventare presidente della Galassia, e lo divento subito, facilmente. Decido di rubare questa nave e lo faccio. Decido di cercare Magrathea, e lo faccio. Sì, calcolo sempre il modo migliore per riuscire a ottenere quello che mi propongo, ma riesco immancabilmente ad avere successo. È come avere una carta di credito Galattica che continua a essere valida anche se non firmi mai gli assegni. Poi, tutte le volte che mi fermo a pensare al perché ho fatto una cosa, al come sono riuscito a escogitare il modo di farla, mi viene soltanto il terribile desiderio di smettere di pensarci.

Come adesso, per esempio. Per me è un grande sforzo parlare della
cosa.
Zaphod fece una pausa. Per un po' ci fu silenzio. – Ieri notte – riprese poi Zaphod, aggrottando la fronte – stavo di nuovo riflettendo sulla faccenda. Sul fatto cioè che una parte della mia mente non sembra funzionare a dovere. E ho fatto un'ipotesi: che qualcun altro stia usando la mia mente per sfruttare le idee buone che elabora, e che faccia questo di nascosto, senza dirmelo. Così ho pensato che questo qualcuno possa avermi chiuso a chiave, per cosi dire, una parte della mente per perseguire questo suo scopo, e che sia questa la ragione per cui non posso usarla. Mi sono chiesto se ci fosse il modo di verificare la mia ipotesi.
"Sono andato all'infermeria della nave e mi sono collegato allo schermo encefalografico. Ho fatto tutti i test possibili alle mie due teste, tutti i test cui sono stato sottoposto prima che la mia candidatura alla presidenza fosse ratificata. Non c'è stato nessun risultato che non mi aspettassi. È venuto fuori che sono abile, immaginoso, irresponsabile, indegno di fiducia, estroverso, insomma niente che non fosse già prevedibile. E non è risultata nessuna anomalia. Così mi sono messo a inventare ulteriori test, completamente a casaccio. Niente. Allora ho provato a sovrapporre i risultati dei test di una testa ai risultati dei test dell'altra. Ancora niente. Alla fine mi sono sentito sciocco, ho ritenuto di essermi fatto prendere da un attacco di paranoia. Ma ho fatto un'ultima cosa, prima di rinunciare: ho preso l'immagine sovrapposta ottenuta dall'unione dei risultati dei test e l'ho guardata attraverso un filtro verde. Ricordi, Ford, che quando ero ragazzo ero superstizioso, a proposito del colore verde? Ti ricordi che dicevo di voler pilotare una delle navi degli esploratori commerciali?" Ford annuì.
– E allora – disse Zaphod – ho visto la cosa chiara come la luce del giorno: ho visto un'intera sezione, al centro di entrambi i cervelli, completamente isolata da quello che la circonda. Sono due sezioni che hanno relazione soltanto fra di loro: qualche bastardo ha cauterizzato tutte le sinapsi e traumatizzato elettronicamente i due cervelletti. Ford lo fissò inorridito. Trillian sbiancò in viso. – Qualcuno ti ha fatto una cosa simile? – sussurrò Ford. – Sì.
– Ma hai la minima idea di chi sia stato? O del perché l'abbia fatto?
– Il perché lo posso solo immaginare. Ma so bene chi è stato il bastardo.
– Lo sai? Come fai a saperlo?

– Perché mi hanno lasciato le loro iniziali, cauterizzandomi le
sinapsi. Le hanno lasciate perché io le vedessi. Ford lo fissò in preda all'orrore, con la pelle tutta accapponata. – Le iniziali? Disegnate cauterizzandoti le sinapsi? – Sì.
– Ma per amor del cielo, che iniziali, si può sapere? Zaphod lo guardò un attimo in silenzio. Poi distolse lo sguardo. – Z.B. – disse.
In quella una porta d'acciaio sbatté violentemente dietro di loro, e nella camera cominciò a diffondersi del gas. – Vi dirò poi… – arrivò a dire Zaphod, ansimando, prima di svenire assieme agli altri due.

Arthur intanto vagava malinconicamente senza meta sulla superficie di Magrathea.
Ford aveva pensato bene di lasciargli la sua copia della Guida Galattica per gli Autostoppisti, perché passasse il tempo durante
l'attesa. Arthur premette alcuni bottoni a caso. La Guida Galattica per gli Autostoppisti è un libro un po'
discontinuo, essendo stato curato da varie e diverse persone. Perciò
vari brani ci sono solo perché all'epoca in cui furono redatti
apparvero interessanti ai loro curatori.
Uno di questi brani (quello che capitò di leggere ad Arthur)
concerne, a quanta sembra, le vicende della vita di un certo Veet
Voojagig, un giovane e tranquillo studente dell'università di
Maximegalon, che intraprese una brillante carriera accademica
studiando filologia antica, etica trasformazionale e la teoria della
percezione storica dell'onda armonica, dopo di che, avendo passato
una notte a bere Gotto Esplosivo Pangalattico assieme a Zaphod
Beeblebrox, cominciò a pensare ossessivamente al problema di cosa
fosse successo a tutte le biro che aveva comprato negli ultimi anni.
Seguì un periodo di coscienziosa ricerca, durante il quale visitò
tutti i maggiori centri di perdite di biro della galassia: alla fine tirò
fuori una bizzarra teoria che all'epoca fece colpo sull'immaginazione
della gente. Da qualche parte nel cosmo, disse Voojagig, insieme a
tutti i pianeti abitati da umanoidi, rettiloidi, pescioidi, alberoidi
ambulanti e sfumature super-intelligenti del colore azzurro, c'era
anche un pianeta interamente consacrato alla forma di vita biroide.
Era proprio quel pianeta la meta delle biro trascurate, le quali,
attraverso forellini nel tempo, vi si recavano certe di poter finalmente
fruire di uno stile di vita unicamente biroide, che rispondesse a stimoli
altamente biro-orientati, e che in generale garantisse l'equivalente
biresco di una vita felice.
Finché si trattò di teorie, tutto andò benissimo, ma quando Veet
Voojagig si mise di punto in bianco ad affermare di avere trovato
questo pianeta, e di avere lavorato lì per un po' come autista di
limousine al servizio di una famiglia di biro verdi a scatto, di tipo

economico, fu immediatamente portato via e rinchiuso. Voojagig in
seguito scrisse un libro e poi alla fine fu mandate in esilio tassato:
l'esilio tassato è infatti il destino riservato a coloro che sono decisi a
dare spettacolo di sé in pubblico.
Quando un giorno fu mandata una spedizione nel luogo
rispondente alle coordinate indicate da Voojagig per il suo pianeta, fu
scoperto solo un piccolo asteroide abitato unicamente da un vecchio
che affermava ostinatamente che non era vero niente, anche se in
seguito si scoprì che mentiva.
Rimane però aperta la questione del misteriosi sessantamila
dollari altairiani versati annualmente sul suo conto presso una banca
brantisvogana, e rimane altresì aperta la questione dell'assai
redditizio commercio di biro usate di Zaphod Beeblebrox…
Arthur, letto il brano, mise giù il libro e guardò il robot, che sedeva ancora immobile nel punto di prima, completamente inerte. Si alzò e andò sull'orlo del cratere. Vi girò intorno e guardò poi i due soli tramontare splendidamente su Magrathea. Quindi tornò nel cratere, davanti all'entrata del passaggio. E svegliò il robot, perché è meglio parlare perfino con un robot maniaco-depressivo che non parlare con nessuno. – Cala la notte – disse. – Guarda, robot, stanno spuntando le stelle. Quando ci si trova nel cuore di una nebulosa nera si riescono a vedere pochissime stelle, e quelle che si vedono sono molto indistinte. Ma si vedono.
Il robot, obbediente, le guardò, poi distolse lo sguardo. – Sì – disse. – Che stelle sfigate, eh?
– Ma quel tramonto! Non ho mai visto niente di simile nemmeno nei miei sogni più pazzi… I due soli! Erano come montagne di fuoco che ribollivano nello spazio!
– Ho visto – disse Marvin. – Uno schifo. – Noi avevamo solo un sole – insistette Arthur. – Sai, io vengo da un pianeta chiamato Terra.
– Lo so – disse Marvin – non fai altro che parlarne. A quanto ho capito era un pianeta orrendo.
– Oh, no! Era un bel posto.
– Aveva oceani?
– Oh, sì – disse Arthur con un sospiro – vastissimi oceani azzurri…
– Non posso soffrire gli oceani – disse Marvin. – Di' un po' – chiese Arthur – in che rapporti sei con gli altri robot? – Li odio – disse Marvin. – Dove vai?

Arthur stava salendo di nuovo sull'orlo. Ormai non resisteva più,
lì.
– Farò un'altra passeggiatina – disse.
– Non ti biasimo – disse Marvin, e contò cinquecentonovantasette- mila milioni di pecore prima di addormentarsi, un secondo dopo. Arthur si circondò il corpo con le braccia per cercare di conciliare un po' la circolazione del sangue col lavoro ingrato che Zaphod lo aveva costretto a fare. Fu con molta fatica che riuscì a riguadagnare la cima del cratere.
A causa dell'atmosfera così sottile e dell'assenza di luna, il tramonto era molto breve, e ormai era già buio pesto. Fu per questo che Arthur andò a inciampare nel corpo dell'uomo.

L'uomo era in piedi con le spalle rivolte ad Arthur. Guardava gli ultimissimi barlumi di luce sprofondare nel buio, dietro l'orizzonte. Era abbastanza alto, vecchio e indossava una sorta di tunica grigia. Non reagì all'esclamazione di sorpresa di Arthur, e non si voltò affatto.
Si degnò di girarsi solo quando gli ultimi raggi di sole furono completamente scomparsi. Aveva un viso affilato, da persona distinta, un viso segnato dalle preoccupazioni, ma non duro. Un tipo di faccia atto a ispirare fiducia. Arthur si chiese come mai quella faccia fosse illuminata nonostante il buio completo. Si guardò intorno e vide che a qualche metro da loro c'era un piccolo apparecchio, qualcosa come un hovercraft. Era da questo che veniva proiettato un vago cerchio di luce.L'uomo parve guardare Arthur con tristezza. – Avete scelto una notte fredda per visitare il nostro pianeta morto – disse.
– Chi… chi siete? – farfugliò Arthur.
L'uomo distolse lo sguardo. La tristezza gli velò ancora una volta gli occhi.
– Il mio nome non ha importanza – disse. Sembrava pensare a qualcosa. Era chiaro che non moriva dalla voglia di continuare la conversazione.
Arthur si sentì imbarazzato.
– Io… ehm… voi… mi avete spaventato – balbettò. L'uomo si girò di nuovo verso di lui e alzò leggermente le sopracciglia.
– Eh? – disse.
– Ho detto che mi avete spaventato.
– Oh, non abbiate paura. Non vi farò niente di male. Arthur aggrottò la fronte. – Ma ci avete sparato! E dei missili, per di più! – disse.
L'uomo guardò l'interno del cratere. Il lieve bagliore degli occhi di Marvin proiettava ombre rosse appena visibili sull'enorme carcassa della balena.

L'uomo ridacchiò.
– Un sistema automatico – disse, e fece un piccolo sospiro. – Antichissimi computer che si trovano nelle viscere del pianeta segnano l'oscuro trascorrere dei millenni, e il tempo passa lentamente sulle loro impolverate banche dei dati. Credo che di tanto in tanto si esercitino nel tiro al bersaglio per rompere la monotonia. Guardò Arthur con aria grave e disse: – Io amo molto la scienza, sapete?
– Ah, ehm, davvero? – disse Arthur, che trovava imbarazzanti i modi strani e tuttavia affabili del vecchio. – Eh, sì – disse il vecchio, e tacque.
– Ah – disse Arthur – ehm… – Aveva la strana impressione di essere nella situazione di un adultero sorpreso dal marito di una donna che, entrato nella stanza del peccato, si cambiasse i pantaloni, facesse alcune oziose osservazioni sul tempo e poi se ne andasse via. – Sembrate a disagio – disse il vecchio, con cortese preoccupazione.
– Ehm, no… cioè, sì. Vedete, in realtà non credevamo di trovare proprio nessuno su questo pianeta. Io mi ero fatto l'idea che foste tutti morti, o qualcosa del genere…
– Morti? – disse il vecchio. – Perbacco, no! Abbiamo solo dormito.
– Dormito? – disse Arthur, incredulo.
– Sì, durante la recessione economica – disse il vecchio, che chiaramente non si preoccupava affatto di sapere se Arthur capisse o meno di che cosa stava parlando.
Arthur dovette chiedergli ancora delucidazioni. – Ehm, recessione economica?
– Sì. Cinque milioni di anni fa l'economia della Galassia ebbe un crollo tremendo, e capendo che prodotti di lusso come i pianeti fatti su ordinazione non…
S'interruppe e guardò Arthur.
– Sapete che costruivamo pianeti, vero? – chiese con solennità. – Oh, sì – disse Arthur – mi sono fatto un po' un'idea… – Una bella industria era, la nostra – disse il vecchio, con un'espressione malinconica. – Fabbricare le linee costiere era la mia passione. Mi divertivo immensamente a fare tutti quei fiordi frastagliati… – Fece una breve pausa, cercando di nuovo il filo del discorso, e riprese: – Ma, dicevo, venne la recessione e decidemmo che ci saremmo risparmiati una bella noia se ci fossimo messi a dormire per tutto il tempo della sua durata. Così programmammo i computer in modo che ci rianimassero appena la recessione fosse finita.

L'uomo soffocò uno sbadiglio e continuò.
– I computer avevano gl'indici collegati coi prezzi di mercato delle varie materie prime della Galassia, in modo che noi venissimo rianimati quando tutti gli altri avessero ricostruito l'economia quel tanto da rendere di nuovo possibile la nostra produzione di pianeti di lusso.
Arthur, che quand'era sulla Terra leggeva regolarmente il Guardian, rimase profondamente scioccato.
– È un modo di comportarsi abbastanza antipatico, no? – Davvero? – disse il vecchio, tutto gentile. – Mi dispiace, è che è da tanto che non ho più contatti con la gente… Indicò l'interno del cratere.
– È vostro quel robot? – chiese.
– No – disse una sottile voce metallica proveniente dal cratere. – Io sono mio.
– Se si può chiamare robot – borbottò Arthur. – Più che altro è una macchina elettronica del broncio.
– Fatelo venire qui – disse il vecchio. Arthur si stupì moltissimo di sentire all'improvviso un tono di decisione nella sua voce. Chiamò Marvin, che si arrampicò su per il pendio zoppicando (benché non avesse nessuna ragione di zoppicare).
– No, ci ho ripensato – disse il vecchio. – Lasciatelo qui. Voi dovete venire con me. Stanno avvenendo grandi cose. – Si girò verso il suo apparecchio che, pur in assenza di qualsiasi segnale da parte del vecchio, cominciò ad avvicinarsi piano piano a loro.
Arthur guardò Marvin fare dietro front e scendere faticosamente e teatralmente giù nel cratere, borbottando e imprecando amaramente fra sé.
– Venite – disse il vecchio.
– Venite adesso, o dopo sarà troppo tardi. – Tardi? – disse Arthur. – Tardi per che cosa? – Come vi chiamate, umano?
– Dent. Arthur Dent – disse Arthur.
– Tardi, come nel tardo Dentarthurdent – disse il vecchio, con severità. – È una specie di minaccia, capite? – Ancora una volta nei suoi occhi stanchi apparve un'espressione malinconica. – Io non sono mai stato bravo a farle, ma a quanto mi dicono possono essere molto efficaci.
Arthur lo guardò di sottecchi.
– Che persona straordinaria! – mormorò fra sé. – Come dite? – chiese il vecchio.

– Oh, niente, niente – disse Arthur, imbarazzato. – Bene, dove
andiamo?
– Sulla mia aeromobile – disse il vecchio, invitando con un gesto Arthur a salire sull'apparecchio, che nel frattempo si era fermato accanto a loro. – Andremo nelle viscere del pianeta, dove in questo momento la mia razza viene rianimata dal suo sonno di cinque milioni di anni. Magrathea si risveglia.
Arthur rabbrividì involontariamente, mettendosi a sedere vicino al vecchio. Era turbato dalla stranezza della situazione, dal silenzioso sobbalzare dell'apparecchio, che veleggiava alto nella notte. Guardò il vecchio, il cui viso era illuminato dal debole bagliore delle lucine del quadro comandi.
– Scusate – gli disse – qual è il vostro nome? – Il mio nome? – disse il vecchio, con gli occhi velati di tristezza. – Il mio nome – disse dopo una breve pausa – è Slartibartfast. Ad Arthur andò di traverse la saliva. – Come avete detto? farfugliò.
– Slartibartfast – ripeté tranquillo il vecchio. – Slartibartfast?
Il vecchio lo guardò con aria grave. – Vi avevo detto che non era importante – disse.
L'aeromobile continuò a veleggiare nella notte.

È importante e risaputo che le cose non sempre sono ciò che appaiono. Per esempio sul pianeta Terra gli uomini hanno sempre ritenuto di essere più intelligenti dei delfini. Sostenevano infatti che mentre loro avevano inventato un sacco di cose, come la ruota, New York, le guerre, ecc., i delfini non avevano fatto altro che sguazzare nell'acqua divertendosi. Al contrario invece, i delfini sapevano da tempo dell'imminente distruzione della Terra e avevano tentato più volte di avvertire l'umanità dell'incombente pericolo; ma i loro messaggi erano stati fraintesi e interpretati come divertenti tentativi di dare calci a palle da football o di fischiare per avere bocconcini prelibati. Così alla fine i delfini rinunciarono e se ne andarono dalla Terra coi propri mezzi, poco prima che arrivassero i vogon. L'ultimissimo messaggio lanciato dai delfini fu interpretato come un tentativo estremamente raffinato di fare un doppio salto mortale all'indietro dentro un cerchio, fischiettando nel contempo La bandiera a stelle e strisce: in realtà invece, il messaggio diceva Addio e grazie
per tutti quei pesci.
In effetti, c'era una sola specie, sul pianeta, più intelligente della specie dei delfini: era una specie che passava la maggior parte del tempo nei laboratori di ricerca sul comportamento, a correre in tondo dentro delle ruote e a condurre esperimenti estremamente fini e complessi sull'uomo. Il fatto che ancora una volta l'uomo dimostrasse di fraintendere completamente il rapporto con un'altra specie era pienamente in conformità coi piani degli esseri più intelligenti della Terra.

L'aeromobile veleggiava silenziosa nella fredda oscurità, unico debole bagliore nella notte di Magrathea. Andava a tutta velocità. Il vecchio sembrava immerso nei suoi pensieri e quando, in un paio di occasioni, Arthur cercò di riavviare un'altra conversazione, lui si limitò a chiedergli se si sentiva abbastanza a suo agio, evitando di farsi coinvolgere in chiacchiere.
Arthur cercò di calcolare a che velocità stessero viaggiando, ma fuori era buio pesto e mancavano i punti di riferimento. Il senso di movimento era così lieve e impercettibile che sembrava quasi che l'apparecchio non si muovesse affatto.
Poi apparve in lontananza un minuscolo bagliore; nel giro di pochi secondi diventò talmente grande, che Arthur capì che stava viaggiando incontro a loro a velocità eccezionale. Cercò di indovinare che tipo di apparecchio fosse: lo scrutò a lungo, ma non riuscì a distinguere una forma netta. Poi, di colpo, boccheggiò dalla paura vedendo che l'aeromobile si tuffava in picchiata in quella che appariva chiaramente come una rotta di collisione. Le velocità relative dei due apparecchi sembravano incredibili: e Arthur ebbe appena il tempo di tirare il respiro che era già tutto finito. Finite in un qualcosa di argenteo che li circondò completamente. Arthur si giro a guardare indietro e vide un puntolino nero che rimpiccioliva sempre più, allontanandosi da loro. Gli ci vollero parecchi secondi per capire cosa fosse successo. Avevano infilato a tutta velocità un tunnel nel terreno. Il bagliore che Arthur aveva visto ingigantire sempre più era in realtà fermo: era l'imboccatura del tunnel. Il qualcosa di argenteo che li circondava era la parete circolare del tunnel, lungo il quale correvano a una velocità che doveva essere di parecchie centinaia di miglia all'ora. Arthur chiuse gli occhi, terrorizzato.
Dopo un lasso di tempo che non cercò di valutare, intuì che la macchina stava lievemente rallentando: dopo poco, la sentì rallentare ancora di più.
Riaprì gli occhi.
Erano ancora nel tunnel argenteo e si facevano strada in un dedalo di corridoi convergenti. Quando finalmente si fermarono si

ritrovarono in una piccola stanza dalle curve pareti di acciaio. Molti
tunnel sfociavano lì; in fondo alla stanza, Arthur vide un grande cerchio di luce fioca ma irritante. Era irritante perché giocava strani scherzi agli occhi: non la si riusciva a distinguere bene, né si riusciva a capirne la distanza. Arthur pensò (ma si sbagliava completamente) che fosse una luce ultravioletta.
Slartibartfast si girò a guardare Arthur con i suoi occhi gravi e solenni.
– Terrestre – disse – ora siamo nelle viscere di Magrathea. – Come sapete che sono terrestre? – chiese Arthur. – Capirete queste cose in seguito – disse il vecchio garbatamente. – O almeno – aggiunse, con una lieve sfumatura di dubbio nella voce – le capirete più di quanto non le capiate adesso. Continuò: – Devo avvertirvi che la stanza in cui stiamo per passare non esiste veramente nel nostro pianeta. È un po' troppo… grande. In realtà stiamo per passare, attraverso una sorta di cancello, in un vasto tratto d'iperspazio. La cosa potrà disturbarvi. Arthur emise alcuni borbottii di nervosismo. Slartibartfast toccò un bottone e aggiunse, in tono non proprio rassicurante: – A me fa una paura da matti. Tenetevi forte. L'aeromobile parti dritta incontro al cerchio di luce, e d'un tratto Arthur ebbe un'idea abbastanza chiara di come apparisse l'infinito. In realtà non era l'infinito. L'infinito in sé è piatto e poco interessante. Guardare un cielo notturno è guardare l'infinito: le distanze incommensurabili sono incomprensibili e quindi senza senso. Invece la stanza in cui penetrò l'aeromacchina dava il senso dell'infinito molto più dell'infinito vero e proprio, perché era solo grande, enormemente grande.
Arthur si sentì sconvolgere tutt'e cinque i sensi, mentre l'aeromacchina viaggiava a velocità immensa: salirono su, sempre più su, lasciandosi alle spalle la porta attraverso la quale erano passati, una porta che adesso non era che un puntolino invisibile nel luccicante muro dietro di loro.
Il muro.
Il muro sfidava l'immaginazione, la seduceva e la vinceva. Il muro era così inconcepibilmente vasto e perpendicolare che la sua cima, la sua base e i suoi lati scivolavano via dalla vista. Sarebbe bastato l'immenso senso di vertigine che dava per uccidere un uomo. Il muro appariva perfettamente liscio, piatto. Ci sarebbero voluti i più perfezionati strumenti laser per capire che mentre saliva come verso l'infinito, che mentre si dilatava vertiginosamente, nel contempo si curvava. Si ricongiunse infatti con se stesso dopo tredici secondi

luce. In altre parole, il muro costituiva l'interno di una sfera cava, una
sfera del diametro di più di cinque milioni di chilometri, inondata di una luce inimmaginabile.
– Benvenuto – disse Slartibartfast, mentre quel puntolino che era l'aeromobile, che viaggiava ora a una velocità tre volte maggiore di quella del suono nello spazio follemente grande, procedeva senza quasi fare avvertire il movimento. – Benvenuto nella sede della nostra fabbrica.
Arthur si guardò intorno con un senso di meraviglia e di spavento. In fila davanti a loro, a una distanza che era inimmaginabile calcolare, c'erano strane cose sospese, delicate strutture di metallo e luce attaccate a irreali forme sferiche che si libravano nello spazio. – È qui – disse Slartibartfast – che fabbrichiamo quasi tutti i nostri pianeti, .
– Volete dire – balbettò Arthur – che intendete riprendere la vostra attività?
– No, perbacco, no – disse il vecchio. – No, la Galassia non è così ricca: è che siamo stati svegliati solo per eseguire un lavoro molto particolare per conto di… di clienti molto speciali di un'altra dimensione. Forse v'interesserà… Guardate là lontano, davanti a noi. Arthur guardò nella direzione indicatagli dal vecchio finché riuscì a distinguere la struttura sospesa di cui parlava. In effetti, era l'unica che rivelasse la presenza di un minimo di attività, anche se tale attività era più intuibile che immediatamente individuabile. Proprio in quel momento un lampo di luce attraversò la struttura, rivelando le forme e i disegni che la caratterizzavano. Forme e disegni che Arthur conosceva, ombre di colore che gli erano familiari come le parole della sua lingua, ombre che facevano parte del patrimonio della sua mente. Per alcuni secondi rimase in attonito silenzio a fissare le immagini e a cercare di decifrarle.
Nella sua mente c'era qualcosa che gli diceva cos'erano quelle immagini, ma c'era anche qualcos'altro che si rifiutava di accettare quella risposta, che si rifiutava perfino di pensare che fosse possibile una simile risposta.
Il lampo di luce riapparve, e questa volta non vi poterono essere dubbi.
– La Terra… – sussurrò Arthur.
– Be', in realtà la Terra Numero Due – disse allegro Slartibartfast. – Stiamo facendo una copia basandoci sulle ciano dell'originale. Ci fu un breve silenzio.
– State per caso dicendomi – disse Arthur, scandendo le parole e cercando di mantenere la calma – che voi a suo tempo avete… fabbricato la Terra?

– Oh, sì! – disse Slartibartfast. – Siete mai stato in un posto… in
un posto che credo fosse chiamato Norvegia? – No – disse Arthur. – No, non ci sono mai stato. – Peccato – disse Slartibartfast – era una delle mie creazioni. Sapete, mi ha fatto vincere anche un premio. Ah, che belle coste frastagliate avevo fatto! Sono rimasto davvero sconvolto quando ho saputo della distruzione del pianeta.
– Figuratevi come sono rimasto io! Già. Fosse accaduto cinque minuti più tardi, non avrebbe poi
avuto tanta importanza. È stato un bel casino, invece, così. – Eh? – disse Arthur.
– Sì. I topi erano furiosi.
– I topi erano furiosi?
– Eh, sì – disse il vecchio.
– Ah be' sì, immagino che lo fossero anche i cani e i gatti e gli ornitorinchi, ma…
– Ma mica avevano pagato e fatto l'ordinazione, loro… – Sentite – disse Arthur – non vi risparmierei forse un mucchio di tempo se semplicemente lasciassi perdere e impazzissi subito? Per un po' l'aeromobile volò in un silenzio imbarazzato. Poi il vecchio cercò con pazienza di dare delle spiegazioni. – Terrestre, il pianeta su cui voi abitavate era stato ordinato e pagato dai topi, che lo gestivano. Fu distrutto cinque minuti prima che fosse compiuto lo scopo per il quale era stato costruito, per cui adesso ne dobbiamo costruire una copia.
Una sola parola urlava la sua assurdità nella mente di Arthur. – Topi?
– Sì, terrestre.
– Scusate, ma stiamo parlando di quei cosini bianchi e pelosi che vanno matti per il formaggio e che nei fumetti dei primi anni Sessanta spaventavano le donne, facendole urlare e saltare sul tavolo? Slartibartfast si schiarì la voce.
– Terrestre – disse – a volte è difficile seguire i vostri discorsi. Ricordatevi che io ho dormito per cinque milioni di anni nelle viscere di Magrathea, e che so ben poco di quei fumetti dei primi anni Sessanta di cui parlate. Le creature che chiamate topi non sono affatto ciò che appaiono, capite? Sono soltanto l'estensione nella nostra dimensione di esseri pandimensionali eccezionalmente intelligenti. Tutta la storia del formaggio e degli squittii è solo una facciata. Il vecchio fece una pausa, aggrottò la fronte con aria comprensiva e continuò.
– Ho paura che abbiano fatto esperimenti su di voi. Arthur meditò un attimo su quell'affermazione, poi s'illuminò.

– Ah! – disse. – Adesso ho capito! Si tratta di un qui pro quo.
Vedete, le cose non stanno come dite. In realtà, eravamo noi a fare esperimenti su di loro. Erano spesso usati per lavori di ricerca sul comportamento, cose tipo i riflessi di Pavlov e quella roba là. Succedeva così che i topi venivano sottoposti ai più svariati test, come imparare a suonare dei campanelli, percorrere dei labirinti, eccetera: tutte cose che servivano all'uomo per capire a fondo la natura del processo d'apprendimento. Osservando il loro comportamento, noi riuscivamo a sapere moltissime cose sul nostro… Arthur s'interruppe. – Che ingegnosità… – disse Slartibartfast. – Non si può fare a meno di ammirarli.
– Cosa? – disse Arthur.
– Quale modo migliore per mascherare la loro vera natura, e quale modo migliore per dirigere il vostro pensiero? Correre per un labirinto scegliendo la strada sbagliata, mangiare il pezzo di formaggio sbagliato, crepare inaspettatamente di mixomatosi… Se tutto questo è calcolato assai ingegnosamente, l'effetto cumulativo è enorme. E così è stato.
Fece una breve pausa.
– Sapete, terrestre, i topi sono davvero degli esseri pandimensionali particolarmente furbi ed estremamente intelligenti. Il vostro pianeta e la vostra gente costituivano la matrice di un computer organico con un programma di ricerca della durata di dieci milioni di anni… Lasciate che vi racconti tutta la storia. Non ci vorrà molto tempo.
– Il tempo – disse con un filo di voce Arthur – in questo momento non è per me uno dei problemi più importanti.

Ci sono ovviamente molti problemi che la vita ci pone: alcuni dei più noti sono rappresentati da domande quali Perché noi uomini nasciamo? Perché moriamo? Perché passiamo tanta parte del tempo
concessoci a portare orologi da polso digitali?
Molti, molti milioni di anni fa una razza di esseri iperintelligenti e pandimensionali (il cui aspetto fisico nel loro proprio universo pandimensionale non era diverso dal nostro) ne ebbero così le tasche piene che il continuo bisticciare a proposito del significato della vita continuasse a interrompere il loro passatempo preferito (che era l'Ultra-cricket Fottazzo, uno strano gioco che consisteva nel colpire all'improvviso le persone senza nessun motivo, e poi scappare via), che decisero di mettersi a tavolino per risolvere una volta per tutte i loro problemi.
Finirono per costruire un immenso super computer così straordinariamente intelligente che ancor prima che le sue banche dati fossero collegate, aveva già cominciato a dire Penso, dunque sono, era passato a dedurre quindi l'esistenza del budino di riso e delle imposte sul reddito, finché qualcuno alla fine non era riuscito a spegnerlo. Era grande come una cittadina.
La sua consolle principale fu installata in un ufficio da executive progettato all'uopo, e fu montata su un'enorme scrivania da executive, una scrivania del più fine ultramogano, ricoperta di lussuosa pelle ultrarossa. La moquette era abbastanza sontuosa: intorno alla stanza, facevano sfoggio di sé vasi di piante esotiche e fini incisioni rappresentanti i principali programmatori del computer con le loro famiglie. Solenni finestre davano su una pubblica piazza contornata di alberi.
Il giorno della Grande Attivazione due programmatori vestiti in modo sobrio arrivarono con le loro borse sobrie e furono fatti entrare con circospezione nell'ufficio. Erano consci che quel giorno avrebbero rappresentato l'intera razza umana nel momento culminante della sua storia, e si comportarono con estrema calma e senso di responsabilità: si sedettero rispettosamente davanti alla scrivania, aprirono le loro borse e tirarono fuori i loro notes in pelle.

I due programmatori si chiamavano Lunkwill e Fook.
Restarono seduti alcuni attimi in perfetto e deferente silenzio, poi, dopo avere scambiato una tranquilla occhiata con Fook, Lunkwill si protese in avanti e toccò un piccolo pannello nero. Un acuto ronzio indicò che l'immenso computer era attivato. Dopo un breve silenzio, questo parlò loro con voce sonora e profonda. Disse: – Qual è il grande compito per il quale io, Pensiero Profondo, il secondo più grande computer dell'Universo del Tempo e dello Spazio, sono stato chiamato in vita? Lunkwill e Fook si guardarono l'un l'altro sbigottiti. – Il tuo compito, o Computer… – attaccò Fook. – No, un attimo, c'è un errore – volle puntualizzare Lunkwill, preoccupato. – Noi abbiamo inteso progettare il computer più grande che sia mai esistito, e non il secondo più grande. Pensiero Profondo – e qui Lunkwill si rivolse direttamente al computer – non sei dunque come noi abbiamo inteso farti, ovvero il più grande e potente computer di tutti i tempi?
– Mi sono descritto come il secondo più grande – disse Pensiero Profondo – e tale sono.
I due programmatori si scambiarono un'altra occhiata preoccupata. Lunkwill si schiarì la voce.
– Ci dev'essere un errore – disse. – Non sei forse un computer più grande del Gargantucervello Miliardo di Maximegalon, che può contare tutti gli atomi di una stella in un millisecondo? – Il Gargantucervello Miliardo? – disse Pensiero Profondo con palese disprezzo. – È solo un pallottoliere. Non menzionatelo nemmeno!
– E non sei forse – disse Fook, protendendosi ansiosamente in avanti – un analista più grande del Pensatore della Stella Googlepex, nella Settima Galassia di Luce e Ingegnosità, il quale sa calcolare la traiettoria di ogni singola particella di polvere per tutta la durata delle tempeste di sabbia di Dangrabad Beta, che si prolungano per cinque settimane?
– Cosa volete che sia una tempesta di sabbia che dura cinque settimane? – disse Pensiero Profondo, altezzoso. – Chiedete una cosa del genere a me, che ho contemplate addirittura i vettori degli atomi dello stesso Big Bang? Non seccatemi con queste robette da calcolatori tascabili!
I due programmatori rimasero per un attimo immersi in un imbarazzato silenzio. Poi Lunkwill si sporse di nuovo in avanti. – Non sei forse – disse – un dialettico più diabolico del Grande Attaccabrighe Neutronico Iperbolico Onni-analogico di Ciceronico 12, detto anche il Magico e l'Infaticabile?

– Il Grande Attaccabrighe Neutronico Iperbolico Onnianalogico –
disse Pensiero Profondo scandendo le parole – potrebbe a furia di parlare far perdere le zampe a un Mega-asino di Arturo, ma solo io potrei poi persuadere questo a camminare, dopo. – Allora dov'è il problema? – chiese Fook. – Non c'è nessun problema – disse Pensiero Profondo, con voce squillante. – Semplicemente, io sono il secondo più grande computer dell'Universo dello Spazio e del Tempo.
– Ma perché il secondo? – insistette Lunkwill. – Perché continui a dire il secondo? Non penserai mica al Macinatore Titanico Perspicutron Multicorticoide, vero? O al Meditomatic? O al… Lampi di disprezzo balenarono sulla consolle del computer. – Ma non fatemi sprecare unità di pensiero per parlare di questi imbecilloni cibernetici! – tuonò Pensiero Profondo. – Quando parlo del primo computer, parlo di quello che dovrà venire dopo di me! Fook stava perdendo la pazienza. Spinse da parte il notes e borbottò: – Mi pare che questo computer faccia un po' troppo il messianico.
– Voi non sapete nulla del tempo future – disse Pensiero Profondo – eppure io, coi miei circuiti brulicanti d'intelligenza, riesco a governare la rotta delle infinite correnti delta delle probabilità future, e a capire che un giorno verrà un computer i cui soli parametri operativi io non sarò degno di calcolare: un computer però che sarà mio destino alla fine progettare.
Fook fece un gran sospiro e guardò Lunkwill. – Possiamo andare avanti e farti le domande previste? – disse. Lunkwill gli fece segno con la mano di aspettare un attimo. – Che computer è questo di cui parli? – chiese. – Ho già detto abbastanza su di esso, per il momento – rispose Pensiero Profondo. – Ora chiedetemi quello che volevate chiedermi. I due programmatori si diedero un'occhiata, stringendosi nelle spalle. Fook assunse un'aria di grande compostezza. – O Computer Pensiero Profondo – disse – il compito per il quale ti abbiamo progettato è questo. Vogliamo che tu ci dia la Risposta! – La Risposta? – disse Pensiero Profondo. – La Risposta a cosa? – Alla vita! – esclamò Fook.
– All'Universo! – disse Lunkwill.
– A tutto! – esclamarono all'unisono.
Pensiero Profondo fece una pausa per riflettere. – Difficile – disse alla fine.
– Ma ce la puoi fare?
Il computer fece un'altra pausa significativa. – Sì – disse. – Ce la posso fare.

– C'è una risposta? – chiese Fook col fiato sospeso.
– Una risposta semplice? – puntualizzò Lunkwill. – Sì – disse Pensiero Profondo. – La Vita, l'Universo, e Tutto. Sì, c'è una risposta. Ma devo rifletterci su. D'un tratto, la solennità del momento fu disturbata: la porta si spalancò e due uomini incazzati, che indossavano la rozza toga azzurro–scolorito e la cintura dell'Università Neracroce irruppero nella stanza spingendo di lato i portieri, che inutilmente tentarono di sbarrare loro la strada.
– Chiediamo di essere ammessi! – urlò il più giovane dei due, dando una gomitata in gola a una segretaria giovane e carina. – Su – urlò quello più vecchio – non potete tenerci fuori! – Spinse via un giovane programmatore che era accorso sentendo il baccano. – Chiediamo che non ci teniate più fuori! – strillò l'universitario più giovane, benché fosse già dentro la stanza e benché nessuno tentasse più di fermarlo.
– Chi siete? – disse Lunkwill, scattando in piedi tutto arrabbiato. – Cosa volete?
– Io sono Majikthise! – annunciò il più vecchio. – E io chiedo di essere Vroomfondel! – urlò il più giovane. Majikthise si giro verso Vroomfondel. – Ehi – disse, arrabbiato – quello non hai mica bisogno di chiederlo! – D'accordo! – strillò Vroomfondel, picchiando col pugno sulla vicina scrivania. – Io sono Vroomfondel, e questa non è una richiesta, ma un fatto concreto! Quello che noi chiediamo sono fatti concreti! – No invece! – esclamò irritato Majikthise. – È quello invece che non chiediamo affatto!
Quasi senza nemmeno prendere il respiro, Vroomfondel gridò: – Noi non chiediamo fatti concreti! Chiediamo invece una totale assenza di fatti concreti! Chiedo di poter essere o non essere
Vroomfondel!
– Ma chi diavolo siete? – chiese Fook, indignato. – Noi – disse Majikthise – siamo Filosofi. – Anche se possiamo non esserlo – disse Vroomfondel menando un minaccioso indice contro i due programmatori. – Sì, lo siamo – insistette Majikthise. – Siamo qui in qualità di rappresentanti dell'Unione Amalgamata dei Filosofi, Saggi, Luminari e Altre Persone Pensanti, e pretendiamo che questa macchina venga disattivata, e disattivata immediatamente! Perché? Qual è il problema? – disse Lunkwill.
– Ve lo dico io qual è il problema, amico – disse Majikthise. – La demarcazione, ecco qual è il problema!

"Le macchine devono solo far di conto – proseguì minaccioso
Majikthise. – Sta invece a noi occuparci delle verità eterne! Avete bisogno di dare una regolata alla vostra posizione legale, vecchi miei. Secondo la legge, la Ricerca delle Verità Ultime è chiaramente prerogativa inalienabile degli operatori del pensiero. Non vorrete mica che una qualsiasi fottuta macchina trovi lei le risposte e ci lasci senza lavoro, eh? Voglio dire, a cosa serve che noi stiamo alzati fino a notte fonda discutendo sulla possibilità dell'esistenza di un Dio, se poi questa macchina qui è capace senza il minimo sforzo di darvi la mattina dopo il fottuto numero di telefono di Dio in persona?" – Esatto! – urlò Vroomfondel. – Esigiamo aree di dubbio e d'incertezza rigidamente definite!
D'un tratto una voce stentorea rimbombò nella stanza. – Potrei fare io un'osservazione, a questo punto? – chiese Pensiero Profondo.
– Ci metteremo in sciopero! – urlò Vroomfondel. – Sì! – disse Majikthise. – Dovrete affrontare uno sciopero nazionale dei Filosofi!
Il ronzio che si sentiva nella stanza crebbe d'un tratto d'intensità, perché varie unità ausiliarie, montate in cassette–altoparlanti dignitosamente intagliate e verniciate, intervennero per dare alla voce di Pensiero Profondo maggiore potenza.
– Volevo solo dire – urlò il computer – che i miei circuiti sono adesso irrevocabilmente impegnati a calcolare la risposta alla Domanda Fondamentale sulla Vita, l'Universo e Tutto. – Fece una pausa per sincerarsi di avere l'attenzione di tutti su di sé, poi continuò, in tono più pacato: – Ma mi ci vorrà un po' di tempo per elaborare la risposta.
Fook guardò con impazienza il suo orologio. – Quanto? – disse.
– Sette milioni e mezzo di anni – disse Pensiero Profondo. Lunkwill e Fook si guardarono increduli. – Sette milioni e mezzo di anni…! – esclamarono in coro. – Sì – disse enfatico Pensiero Profondo. – Vi avevo detto che ci avrei dovuto riflettere su, no? E mi viene in mente che varare un programma come questo creerà per forza un'immensa pubblicità a tutto il campo della filosofia in generale. Tutti si faranno le loro teorie sulla possibile risposta che io darò alla fine, e chi meglio di voi filosofi potrà sfruttare a suo vantaggio il giro di fantastiliardi dei mass media? Finché continuerete a beccarvi l'un con l'altro e a lanciarvi reciproci insulti dalle pagine dei giornali ad alta tiratura, e finché avrete agenti abili, potrete spassarvela senza fare un cacchio per tutta la vita. Cosa ne pensate?

I due filosofi erano rimasti a bocca aperta.
– Perdio! – disse Majikthise. – Questo sì che si chiama aver la testa! Ehi, Vroomfondel, perché non ci abbiamo mai pensato prima? – Non lo so – disse Vroomfondel, sgomento. – Forse i nostri cervelli sono troppo specializzati, Majikthise. Così dicendo, i due girarono sui tacchi e uscirono dalla stanza, pregustando una vita molto più bella di quella che avessero mai osato di sognare anche nei loro sogni più pazzi.

– Una storia molto edificante – disse Arthur, quando Slartibartfast ebbe finite di fare il suo resoconto per sommi capi – ma non capisco cos'abbia a che vedere tutto questo con la Terra, i topi e il resto. – Questa non è che la prima parte della storia, terrestre – disse il vecchio, – Se v'interessa sapere cosa successe sette milioni e mezzo di anni dopo, il grande giorno della Risposta, permettetemi d'invitarvi nel mio studio, dove potrete rivivere personalmente gli avvenimenti grazie alle registrazioni del nostro sens–o–tape. A meno che non ci teniate a fare una passeggiatina sulla superficie della Nuova Terra. Purtroppo i lavori sono ancora a metà: non abbiamo ancora finito di seppellire nella crosta gli scheletri di dinosauri artificiali, poi dobbiamo costruire il periodo terziario e quaternario dell'era cenozoica, e…
– No, grazie – disse Arthur – non sarebbe assolutamente la stessa cosa.
– No – disse Slartibartfast – non lo sarebbe – e girò l'aeromobile dirigendola verso il folle muro dal quale erano venuti.

Lo studio di Slartibartfast era talmente incasinato, che sembrava una biblioteca pubblica in cui fosse stata buttata una bomba. Il vecchio aggrottò la fronte, entrando.
– Una terribile sfortuna – disse. – È saltato un diodo in uno dei computer. Quando abbiamo provato a rianimare lo staff della manutenzione abbiamo scoperto che tutti i suoi membri erano morti da circa trentamila anni. Mi chiedo come si farà adesso a togliere di mezzo i corpi, chi se ne occuperà. Sentite, perché non vi sedete là e non lasciate che vi colleghi?
Indicò una sedia che aveva l'aria di essere fatta di costole di stegosauro.
– È stata fatta con costole di stegosauro – spiegò il vecchio, mentre si gingillava con pezzi di filo che tirava fuori da sotto pile traballanti di carte e di strumenti da disegno. – Ecco – disse – tenete questi – e passò ad Arthur un paio di fili.
Nel momento in cui lui li prese, si sentì attraversare come da una scarica.
Subito dopo si ritrovò sospeso a mezz'aria: era invisibile, anche a se stesso. Sotto di lui c'era una piazza contornata di alberi: intorno alla piazza, fin dove l'occhio si poteva spingere, si vedevano edifici bianchi di cemento, dalla linea delicata ma dall'aria un po' cadente, perché erano pieni di fessure e di macchie d'umidità. La giornata era bella: splendeva il sole, una brezza fresca spirava lieve fra gli alberi, e l'impressione che tutti gli edifici stessero ronzando derivava probabilmente dal fatto che tutte le strade intorno alla piazza erano gremite di gente allegra ed eccitata.
Arthur si sentì spaventosamente solo, lì in aria, senza nemmeno un corpo, ma prima di avere il tempo di rimuginare sulla cosa sentì risonare una voce nella piazza, una voce che attirò l'attenzione di tutti. Su un palco addobbato vivacemente c'era un uomo, che si rivolgeva alla folla parlando al microfono. Il palco si trovava davanti all'edificio più grande, quello che dominava la piazza. – O voi che aspettate all'ombra di Pensiero Profondo! – gridò l'uomo. – Onorevoli Discendenti di Vroomfondel e Majikthise, i più

Grandi e più Veracemente Interessanti Pandit che l'Universo abbia
mai conosciuto… Il Tempo dell'Attesa è finito! La folla esplose in grida di gioia, lanciando fischi e alzando bandiere e pennoni. Le strade più strette sembravano, tant'erano affollate, dei cento piedi rovesciati sul dorso che agitassero freneticamente in aria le zampe.
– Sette milioni e mezzo di anni ha aspettato la nostra razza questo grande giorno, il Giorno della Speranza e dell'Illuminazione! – gridò l'allegro leader. – Il Giorno della Risposta! La folla entusiasta levò un coro di urrà. – Mai più – gridò l'uomo – mai più ci sveglieremo la mattina pensando Chi sono io? Qual è lo scopo della mia vita? Dal punto di vista cosmico ha veramente importanza se non mi alzo per andare a lavorare? Non avremo più questi problemi perché oggi finalmente sapremo una volta per tutte la chiara, semplice risposta a tutte le seccanti domande sulla Vita, l'Universo e Tutto! Mentre la folla esplodeva un'altra volta in un coro di evviva, Arthur si ritrovò a volare nell'aria in direzione di una delle solenni finestre del primo piano dell'edificio che stava dietro al palco dell'oratore.
Arthur entrò nella stanza: nessuno ebbe niente da ridire, il che non era strano, visto che nessuno lo poteva vedere. Era chiaro infatti, a quel punto, che ciò che Arthur stava vivendo non era che una proiezione a sei piste e settanta millimetri, che ti stracciava tanto da ridurti a un niente.
La stanza era quasi come Slartibartfast l'aveva descritta. In questi sette milioni e mezzo di anni era stata abbastanza ben curata, e pulita regolarmente circa una volta al secolo. La scrivania di ultramogano aveva gli angoli consunti, la moquette era un po' scolorita, ma il grande terminale del computer era sempre glorioso e scintillante, lì sulla ricopertura di pelle rossa della scrivania. Era bello lustro, come se fosse stato costruito il giorno prima. Due uomini vestiti in modo austero sedevano rispettosamente davanti al terminale, e aspettavano. – È quasi ora – disse uno dei due, e Arthur vide con stupore che nell'aria, vicino al collo dell'uomo, si stava materializzando una parola. La parola era LOONQUAWL: lampeggiò un paio di volte, poi scomparve. Dopo un attimo si mise a parlare l'altro uomo, e vicino al suo collo apparve la parola PHOUCHG.
– Settantacinquemila generazioni fa, i nostri antenati avviarono questo programma – disse il secondo uomo – e dopo tutto questo tempo, saremo noi i primi a sentir parlare il computer!

– Una prospettiva che incute timore e riverenza, Phouchg – disse il
primo uomo, e Arthur d'un tratto capì che stava guardando una specie di film con sottotitoli.
– Siamo coloro che udranno la risposta alla grande domanda sulla Vita…! – disse – Phouchg.
– E sull'Universo…! – disse Loonquawl.
– E su Tutto…!
– Shh! – disse Loonquawl. – Credo che Pensiero Profondo si prepari a parlare!
Ci furono alcuni attimi di ansiosa attesa, mentre i pannelli sul davanti della consolle si animavano a poco a poco. Le spie luminose si accesero e spensero, per poi stabilizzarsi. Dal canale di comunicazione provenne un basso e sommesso ronzio.
– Buongiorno – disse finalmente Pensiero Profondo. – Ehm… Buongiorno, o Pensiero Profondo – disse nervoso Loonquawl. – Hai… ehm, cioè…
– Una risposta per voi? – disse solenne Pensiero Profondo. – Sì. Ce l'ho.
I due uomini rabbrividirono. La lunghissima attesa non era dunque stata vana.
– C'è davvero una risposta? – sussurrò Phouchg. – C'è davvero una risposta – confermò Pensiero Profondo. – A Tutto? Alla grande Domanda sulla Vita, l'Universo e Tutto? – Sì.
Sia Loonquawl sia Phouchg si erano preparati per tutta la vita a quel momento, erano stati selezionati fin dalla nascita come persone più adatte ad assistere a quel memorabile avvenimento, e tuttavia si ritrovarono a boccheggiare e a stare sulle spine come bambini eccitati. – E sei pronto a darci la Risposta? – disse ansioso Loonquawl. – Sì.
– Adesso?
– Adesso – disse Pensiero Profondo.
I due s'umettarono le labbra.
– Anche se penso che non vi piacerà – disse Pensiero Profondo. – Non importa! – disse Phouchg. – Dobbiamo saperla! Adesso! – Adesso? – chiese Pensiero Profondo.
– Sì! Adesso…
– Va bene – disse il computer, e tacque. I due uomini si misero a giocherellare con le dita. La tensione era insopportabile. – Non vi piacerà davvero – disse dopo un attimo Pensiero Profondo.
– Diccela!

– D'accordo – disse Pensiero Profondo. – La Risposta alla Grande
Domanda…
– Su..?
– Sulla Vita, l'Universo e Tutto… – disse Pensiero Profondo. – Sì…?
– È… – disse Pensiero Profondo, e fece una pausa. – Sì…?
– È…
– Sì…???
– Quarantadue – disse Pensiero Profondo, con infinita calma e solennità.

Passò molto tempo prima che qualcuno parlasse. Con la coda dell'occhio Phouchg vedeva giù in piazza la marea di facce in ansiosa attesa.
– Saremo linciati, vero? – sussurrò.
– È stato un duro compito – disse pacato Pensiero Profondo. – Quarantadue! – urlò Loonquawl. – È tutto quello che hai da dirci dopo sette milioni e mezzo di anni di lavoro? – Ho controllato con grande minuziosità – disse il computer – e questa è la risposta veramente definitiva. Credo che, se devo essere franco, il problema stia nel fatto che voi non avete mai realmente saputo quale fosse la domanda.
– Ma era la Grande Domanda! La Domanda Fondamentale sulla Vita, l'Universo e Tutto! – urlò Loonquawl. – Sì – disse Pensiero Profondo col tono di voce di uno che sopporti a cuor leggero gli sciocchi – ma qual era in definitiva questa domanda?
Un silenzio pieno di sgomento calò sui due uomini, che, dopo avere fissato sbalorditi il computer, si guardarono tra loro. – Be', insomma, la domanda è semplicemente Tutto… Tutto… – disse Phouchg, prostrato.
– Esattamente! – disse Pensiero Profondo. – Per questo è necessario che scegliate in mezzo al tutto qual è in realtà la domanda: solo così potrete capire cosa significa la risposta. – Dio, ma è terribile! – mormorò Phouchg gettando in un canto il notes e asciugandosi una minuscola lacrima. – E va be', d'accordo – disse Loonquawl. – Puoi allora semplicemente dirci qual è la domanda la cui risposta è quarantadue? – La Domanda Fondamentale?
– Sì!
– Sulla Vita, l'Universo e Tutto?
– Sì!
Pensiero Profondo rifletté un attimo. – Difficile – disse. – Ma ce la puoi fare? – gridò Loonquawl. Pensiero Profondo ci pensò su un altro lungo momento.

Alla fine disse, secco: – No.
I due uomini si abbandonarono sulla sedia, in preda alla disperazione.
– Ma vi posso dire chi ce la può fare – disse Pensiero Profondo. I due gli diedero un'occhiata penetrante. – Chi? Diccelo!
Arthur si sentì trasportare piano ma inesorabilmente in avanti, verso la consolle, ma poi capì che si trattava solo di un drammatico zoom dell'operatore che aveva ripreso la scena a suo tempo. – Parlo di nient'altri che il computer che dovrà venire dopo di me – disse Pensiero Profondo, tornando ad assumere i toni declamatori che lo caratterizzavano. – Un computer i cui semplici parametri operativi io non sono nemmeno degno di calcolare, e tuttavia un computer che sarò io a progettare per voi. Un computer che potrà calcolare la Domanda alla Risposta Fondamentale, un computer di tale infinita e raffinata complessità che la stessa vita organica farà parte della sua matrice operativa. E voi, voi in persona assumerete nuove forme e scenderete nel computer per dirigere il suo programma, un programma che durerà dieci milioni di anni! Sì! Progetterò questo computer per voi. E per voi gli darò anche un nome. Esso sarà chiamato… Terra. Phouchg guardò a bocca aperta Pensiero Profondo. – Che nome insulso! – disse, e in quella dei grandi tagli gli apparvero in tutto il corpo. E immediatamente anche Loonquawl fu devastate da altrettanti tagli, che non si capiva da cosa fossero prodotti. La consolle del Computer si macchiò e si ruppe, le pareti tremarono e si sgretolarono, e la stanza rovinò in su, verso il soffitto… Slartibartfast era in piedi davanti ad Arthur, e teneva i due fili. – Fine della registrazione – spiegò.

– Zaphod! Svegliati!
– Mmmmmmmwwwrrrr?
– Su, dài, svegliati!
– Lasciatemi fare l'unica cosa che so fare bene, capito? – borbottò Zaphod rimettendosi a dormire.
– Vuoi che ti prenda a calci? – disse Ford. – Perché, ti piacerebbe molto? – disse Zaphod, tutto assonnato. – No.
– Nemmeno a me. E allora perché dovresti farlo? Smettila di rompere. – Zaphod si raggomitolò per dormire. – S'è beccato una doppia dose di gas – disse Trillian guardando Zaphod. – Ha due trachee.
– E piantatela di parlare! – disse Zaphod. – È già abbastanza difficile cercare di dormire, con questo pavimento freddo e duro. Che cavolo di pavimento è?
– È d'oro – disse Ford.
Con una repentina e straordinaria piroetta, Zaphod si alzò in piedi e scrutò l'orizzonte, perché il pavimento si estendeva, liscio e solido, in tutte le direzioni fino all'orizzonte. Brillava come… Era impossibile dire a cosa somigliasse il suo splendore, perché non c'è niente nell'Universo che splenda nello stesso modo in cui splende un pianeta d'oro massiccio.
– Chi ha messo tutto quest'oro qua? – strillò Zaphod, strabuzzando gli occhi.
– Non sovreccitarti – disse Ford. – È soltanto un catalogo. – Un cosa?
– Un catalogo – disse Trillian – un'illusione. – Come fai a dirlo? – urlò Zaphod, buttandosi carponi a guardare il suolo. Lo saggiò, colpendolo. Era molto solido, ma lo si poteva sfregiare con un'unghia. Era giallo giallo e molto luccicante: Zaphod ci alitò sopra, e il modo di appannarsi che rivelò si dimostrò identico a quello dell'oro massiccio.
– Trillian e io siamo rinvenuti già da un po' – disse Ford. – Abbiamo urlato e strillato finché non è venuto qualcuno. Abbiamo

continuato a urlare e strillare finché non ci hanno dato da mangiare e
non ci hanno messo in questo catalogo di pianeti, dove ci terranno finche non saranno pronti a parlare con noi. Questo è tutto sens–o– tape.Zaphod gli diede un'occhiata pungente. – Merda! – disse. – Mi svegliate dal mio delizioso sogno per mostrarmi il sogno di un altro! – Si mise a sedere, tutto incazzato. – Cos'è quella serie di valli laggiù? – disse. – Il marchio di garanzia – disse Ford. – Ci abbiamo dato un'occhiata.
– Non ti abbiamo voluto svegliare prima – disse Trillian. – Il pianeta prima di questo era tutto pieno di pesci. I pesci ti arrivavano alle ginocchia.
– Pesci?
– Gente veramente strana.
– E prima di quello – disse Ford – abbiamo avuto un pianeta di platino. Era un po' insulso. Abbiamo pensato che ti piacesse di più questo qui.
Dovunque guardassero, il mare di luce gialla dell'oro mandava bagliori.
– Ah, è bellissimo – disse Zaphod, sempre imbronciato. Nel cielo apparve un enorme numero verde, un numero di catalogo. Tremolo e cambiò, e quando i tre si guardarono intorno, il paesaggio era cambiato anch'esso. Dissero in coro: – Ulp! Il mare era color porpora. La spiaggia sulla quale si trovavano era composta di sassolini gialli e verdi, probabilmente pietre preziosissime. Le montagne in lontananza apparivano smussate, e avevano cime rosse. Vicino ai tre c'era un tavolo da spiaggia di argento massiccio, dentro il quale era inserito un ombrellone color malva, con frange d'argento.
In cielo apparve un enorme cartellone, che sostituì il numero di catalogo. Sopra vi era scritto: Quali che siano i vostri gusti, Magrathea può soddisfarli. Non è per vantarci.
E dal cielo scesero col paracadute cinquecento donne completamente nude.
Dopo un attimo la scena scomparve: i tre si ritrovarono in un prato pieno di mucche sotto un cielo di primavera. – Oh! – disse Zaphod. – I miei cervelli! – Vuoi che parliamo un po' della cosa? – disse Ford. – Sì – disse Zaphod, e tutt'e tre si sedettero, senza più badare alle scene che si susseguivano intorno a loro. – Io mi sono fatto quest'idea – disse Zaphod – che qualunque cosa sia successa alla mia mente, l'artefice sia stato io. Secondo me ho agito

in modo da impedire che i test scoprissero niente. E che nemmeno io
scoprissi niente. Abbastanza folle, vi pare? Gli altri due annuirono. – E allora mi dico, cosa c'è di così segreto? Così segreto che nemmeno io, a parte il governo e tutti gli altri, posso saperlo. E la risposta è che non lo so. Ovviamente. Ma cerco di mettere insieme un po' di elementi e comincio a fare ipotesi. Quando decisi di candidarmi alla presidenza? Poco dopo la morte del presidente Yooden Vranx. Te Io ricordi Yooden, Ford?
– Sì – disse Ford. – Era quel tizio che conoscemmo da bambini, quel comandante di Arturo. Era un tipo notevole. Ci diede dei marroni quando tu irrompesti nella sua meganave. Disse che eri il bambino più sorprendente che avesse mai conosciuto.
– Di cosa parlate? – disse Trillian.
– È una vecchia storia – disse Ford – di quando eravamo bambini insieme, su Betelgeuse. Le meganavi merci di Arturo erano grosse navi da carico che facevano la spola tra il Centro Galattico e le regioni più lontane. Di solito gli esploratori commerciali di Betelgeuse scoprivano i mercati, e gli arturiani li rifornivano. C'erano sempre parecchi guai coi pirati dello spazio, prima che questi fossero annientati durante le guerre di Dordellis, e le meganavi dovevano munirsi dei più fantastici schermi protettivi che la scienza della Galassia fosse in grado di produrre. Erano dei veri bestioni, queste navi: erano immense. Quando orbitavano intorno a un pianeta, oscuravano il sole.
"Un giorno Zaphod, che era un ragazzino, decise di fare un'incursione su una di queste navi. Su uno scooter a tre jet progettato per funzionare solo nella stratosfera. Cosa dico, era meno di un ragazzino, era un bambino, Zaphod. Ma già allora era matto da legare. Io andai con lui perché avevo scommesso una bella somma, sicuro che non ce l'avrebbe fatta, e non volevo che mi tornasse indietro con delle prove fasulle. Be', per farla corta, saliamo su questo scooter, uno scooter truccato, con prestazioni molto superiori a quelle di un normale scooter a tre jet, percorriamo tre parsec in poche settimane, facciamo irruzione in una meganave non so ancora in che modo, piombiamo sul ponte di comando brandendo pistole giocattolo, e infine chiediamo che ci vengano consegnati dei marroni. Robe da pazzi. Io persi così la scommessa e ci rimisi un anno di spillatico. Per che cosa poi? Per dei marroni!"
– Il comandante era davvero un tipo notevole – disse Zaphod. – Ci diede cibo, liquore, cose che venivano dalle parti più strane della Galassia, e naturalmente un sacco di marroni. E noi passammo un'esperienza incredibile, davvero. Poi Yooden Vranx ci teleportò indietro. Nel braccio più severamente vigilato delle prigioni di stato di

Betelgeuse. Era un tipo in gamba, Yooden. Arrivò a diventare
presidente della Galassia.
Zaphod fece una pausa.
La scena intorno a loro era tetra, adesso. Fosche nebbie turbinavano dappertutto, e forme sgraziate sbirciavano di tra le ombre. L'aria ogni tanto era lacerata dalle urla di esseri illusori che venivano assassinati da esseri altrettanto illusori. Evidentemente le persone che apprezzavano questo tipo di scene erano state abbastanza da far trasformare il desiderio in progetto concreto di fabbricazione di un pianeta ad hoc.
– Ford – disse Zaphod, pacatamente.
– Sì?
– Poco prima di morire Yooden venne a trovarmi. – Cosa? Non me l'avevi mai detto.
– No.
– Cosa ti disse? Perché ti venne a trovare? – Mi parlò del Cuore d'Oro. Fu lui a darmi l'idea di rubarlo. – Lui?
– Sì – disse Zaphod – e l'unico modo per rubarlo era di trovarsi alla cerimonia del lancio.
Ford lo guardò un attimo a bocca aperta, sbalordito, poi scoppiò in una fragorosa risata.
– Stai per caso dicendomi – disse – che hai deciso di diventare presidente della Galassia solo per rubare l'astronave? – È così – disse Zaphod, con uno di quei ghigni folli che da soli basterebbero a far rinchiudere una persona in una stanza dalle pareti imbottite.
– Ma perché? – disse Ford. – Perché era così importante avere il Cuore d'Oro?
– Non lo so – disse Zaphod. – Credo che se avessi saputo consciamente perché era così importante e perché avevo bisogno dell'astronave, la cosa sarebbe risultata nei test e non avrei mai potuto passarla liscia. Penso che Yooden mi abbia detto un mucchio di cose che sono tuttora cancellate dalla mia memoria. – Sicché sei convinto di essere andato a rovistare nei tuoi cervelli perché Yooden ti aveva detto certe cose? – Yooden aveva un'abilità oratoria diabolica. – Sì, ma, Zaphod, vecchio mio, bisognerà pure che tu abbia un minimo di responsabilità verso te stesso, no? Zaphod alzò le spalle.
– Voglio dire, non sospetti almeno minimamente quali siano le ragioni di tutto questo?
Zaphod ci pensò su parecchio, dubbioso.

– No – disse alla fine – mi sembra proprio di non avere permesso a
me stesso di conoscere i miei segreti. – Fece una breve pausa per riflettere ancora, poi aggiunse: – Però devo dire che mi pare una cosa ben comprensibile. Mi fido di me come mi fiderei del diavolo. Un attimo dopo, l'ultimo pianeta del catalogo scomparve, e i tre si trovarono seduti in una sala d'aspetto molto lussuosa, piena di tavoli di vetro e di lastre di perspex, premi per il miglior design. In piedi davanti a loro c'era un alto magratheano. – I topi sono pronti a ricevervi – disse.

– E così ora sapete tutto – disse Slartibartfast, mentre cercava svogliatamente di mettere un po' d'ordine nella spaventosa confusione che regnava nei suo studio. Prese un pezzo di carta che era in cima a una pila, ma poi, non sapendo dove metterlo, tornò a posarlo sulla pila, che crollò. – Pensiero Profondo progettò la Terra, noi la fabbricammo e voi ne siete stati gli abitanti. – E i vogon sono venuti a distruggerla cinque minuti prima che il programma fosse completato – aggiunse Arthur, non senza una punta d'amarezza.
– Sì – disse il vecchio, guardando con sbigottimento l'irrimediabile confusione della sua stanza. – Dieci milioni di anni di programmazione e lavoro sfumati così. Dieci milioni di anni, terrestre… Riuscite anche solo a concepirlo, un simile lasso di tempo? Un'intera civiltà galattica farebbe in tempo a nascere da un'unica larva e a percorrere almeno cinque volte l'intero ciclo della sua evoluzione, in tutto quel tempo! Ed è sfumato tutto… – Fece una pausa. – È successo un po' come con la vostra burocrazia – aggiunse. – Un mucchio di lavoro per niente.
– Sapete – disse pensieroso Arthur – questo spiega un sacco di cose. Per tutta la vita ho avuto la strana e inspiegabile sensazione che stesse succedendo qualcosa nei mondo, qualcosa di grosso, di sinistro, e che nessuno mi avrebbe mai detto di che cosa si trattasse. – No – disse il vecchio – quella è solo normalissima paranoia. Tutti ce l'hanno, nell'Universo.
– Tutti? – disse Arthur. – Ah, se ce l'hanno tutti forse un senso c'è! Forse sappiamo inconsciamente che da qualche parte fuori dell'Universo…
– Può darsi. Ma che importa? – disse Slartibartfast, interrompendo Arthur prima che questi si sovreccitasse. – Forse sono troppo vecchio e stanco – continuò – ma penso sempre che le possibilità di scoprire cosa stia veramente succedendo siano così assurdamente remote, che Tunica cosa da fare sia di dire chi se ne frega e pensare semplicemente a tenersi occupati. Pensate a me per esempio: progetto linee costiere. Ho ricevuto un premio per la Norvegia.

Rovistò attorno a una pila di cianfrusaglie e tiro fuori una lastra di
perspex su cui era modellata la sagoma della Norvegia: sotto c'era il suo nome, Slartibartfast.
– Che senso ha tutto questo? – disse. – Io non sono riuscito a trovargliene nessuno. Per tutta la vita ho progettato fiordi. Per un breve periodo sono stati di moda, e io allora ho ricevuto un grosso premio.
Si rigirò fra le mani la lastra di perspex, poi alzò le spalle e la gettò distrattamente in un angolo, ma non tanto distrattamente da buttarla su qualcosa di duro.
– In questa copia della Terra che stiamo costruendo a me è stata affidata l'Africa, e naturalmente la faccio piena di fiordi, perché si dà il caso che i fiordi mi piacciano molto: sono un tipo abbastanza all'antica da pensare che conferiscano un che di piacevolmente barocco alle coste. Mi hanno fatto osservazione. Mi hanno detto che così l'Africa non è abbastanza equatoriale. Equatoriale! – Slartibartfast fece una cupa risata. – Che importa? La scienza ha raggiunto alcuni risultati meravigliosi, certo, ma io in generale preferirei essere felice che essere esatto e scientifico.
E siete felice?
– No. E qui casca l'asino, naturalmente. – Peccato – disse Arthur, comprensivo. – Sennò il vostro modo di vivere sarebbe stato molto bello, almeno a mio giudizio. Sulla parete lampeggiò una piccola spia luminosa. – Venite – disse Slartibartfast – dovete conoscere i topi. Il vostro arrivo sul pianeta ha provocato una notevole eccitazione. Credo che sia già stato classificato come il terzo avvenimento più improbabile nella storia dell'Universo.
– Quali sono i primi due?
– Oh, probabilmente soltanto coincidenze – disse Slartibartfast, distratto. Aprì la porta e aspettò che Arthur lo seguisse. Arthur si guardò intorno ancora una volta, poi guardò se stesso, gli abiti impregnati di sudore e di fango che indossava dalla mattina di giovedì
– Quanto al mio modo di vivere, sembra che non sia precisamente molto brillante – borbottò fra sé.
– Come avete detto, prego? – disse cortese il vecchio. – Oh niente – disse Arthur. – Stavo solo scherzando.

È naturalmente risaputo che parlare distrattamente può costare la vita, ma non sempre si valuta a fondo la vasta entità del problema. Per esempio, nel momento stesso in cui Arthur disse Quanto al mio modo di vivere, sembra che non sia precisamente molto brillante,
si aprì curiosamente un piccolo foro nella struttura dello spaziotempo, un foro attraverso il quale quelle parole furono trasportate indietro, molto indietro nel tempo, e lontano, molto lontano nello spazio, fino a una remota Galassia dove esseri strani e bellicosi erano sull'orlo di una spaventosa guerra interstellare.
I due leader avversari si fronteggiavano per l'ultima volta al tavolo delle conferenze.
Un orribile silenzio si diffuse intorno quando il comandante dei Vl'Hurg, tutto splendente nei suoi calzoncini da battaglia neri tempestati di gemme, fissò il comandante dei G'Gugvuntt, che gli stava davanti vestito di una nube di vapore verde dall'odore dolciastro, e, forte del suo milione di incrociatori stellari pronto a seminare la morte elettrica a un suo minimo comando, lo sfidò a ritirare quello che aveva detto su sua madre.
Il comandante dei G'Gugvuntt si dimenò nel suo vapore nauseabondo, e proprio in quel momento le parole quanto al mio modo di vivere, sembra che non sia precisamente molto brillante si
riversarono sul tavolo della conferenza. Purtroppo, nella lingua dei Vl'Hurg questo era il più abominevole insulto che si potesse concepire, e non restò altra alternativa che dare inizio a una terribile guerra (che durò secoli e secoli). Alla fine però, dopo che nel giro di alcune migliaia di anni la loro Galassia fu decimata, i due popoli capirono che tutto era nato da un terribile qui pro quo, e unirono le loro flotte per sferrare un attacco congiunto alla nostra Galassia, ormai riconosciuta quale responsabile dell'intollerabile insulto.
Per migliaia di anni ancora le loro possenti navi attraversarono i vuoti deserti dello spazio, finché finalmente non approdarono sul primo pianeta in cui s'imbatterono, che per caso era la Terra. E lì, a

causa di un terribile errore di calcolo nella scala delle grandezze,
l'intera flotta spaziale fu inghiottita da un cagnolino. Quelli che studiano la complessa interazione di cause e effetti nella storia dell'Universo, dicono che questo genere di cose succede continuamente, ma che noi siamo impossibilitati a impedirlo. – Così è la vita – dicono.
Dopo un breve viaggio in aeromobile, Arthur e Slartibartfast si fermarono davanti a una porta. Di lì passarono in una sala d'attesa piena di tavoli di vetro e di lastre di perspex, che erano premi per il miglior design. Quasi subito si accese una spia luminosa sopra la porta che stava dalla parte opposta a quella da dove erano entrati. La porta si aprì, e i due entrarono.
– Arthur! Sei salvo! – gridò una voce.
– Davvero? – disse Arthur, abbastanza meravigliato. – Oh, bene! L'illuminazione era abbastanza fioca, e gli ci voile qualche secondo per distinguere Ford, Trillian e Zaphod: erano seduti intorno a un'ampia tavola, imbandita con piatti esotici, strani dolci e di frutta ancora più strana. I tre si stavano rimpinzando. – Cosa vi è successo? – chiese Arthur.
– Sai – disse Zaphod attaccando un altro manicaretto – i nostri ospiti, qui, ci hanno gasato, ci hanno fatto il lavaggio del cervello, si sono comportati in generale in modo molto strano, e adesso per farsi perdonare ci hanno offerto un pasto piuttosto buono. – Zaphod prese dal tavolo un pezzo di carne puzzolente. – Queste sono costolette di Rinoceronte Veghiano – disse. – Sono squisite, per chi, come me, è un intenditore.
– Ospiti? – disse Arthur. – Quali ospiti? Non vedo nessuno… Una vocina disse: – Benvenuto a pranzo, terrestre. Arthur si guardò intorno e fece uno strillo. – Ugh! – disse. – Ci sono dei topi sul tavolo! Ci fu un silenzio imbarazzato, durante il quale tutti guardarono Arthur severamente.
Arthur stava fissando i due topolini bianchi, che erano seduti dentro due affari che sembravano dei bicchieri da whisky, sul tavolo. Si accorse del silenzio che era calato all'improvviso, e si voltò a guardare gli altri.
– Oh! – disse, capendo l'errore. – Oh, scusate, non ero affatto preparato a…
– Lascia che ti presenti – disse Trillian. – Arthur, questo è il topo Benjy.

– Salve – disse uno dei topi. I suoi baffi sfiorarono quello che
evidentemente era un pannello sensibile al tocco, dentro l'oggetto simile a un bicchiere, e questo si mosse leggermente in avanti. – E questo è il topo Frankie.
L'altro topo disse: – Felice di conoscervi – e spostò anche lui in avanti il bicchiere.
Arthur li guardò a bocca aperta.
– Ma non sono…
– Sì – disse Trillian – sono i topi che mi ero portata dietro io dalla Terra.
Lo guardò negli occhi, e Arthur credette di individuare nel suo sguardo una leggera sfumatura di rassegnazione. – Puoi passarmi quella tazza di mega–asino grattugiato di Arturo? – disse.
Slartibartfast tossicchiò piano.
– Ehm, scusatemi – disse.
– Sì, grazie, Slartibartfast – disse il topo Benjy bruscamente. – Puoi andare.
– Cosa? Oh… ehm, benissimo – disse il vecchio, un po' sconcertato. Allora andrò a progettare qualche altro fiordo. – Ah, a dir la verità non è necessario – disse il topo Frankie. – Ho proprio l'impressione che non avremo più bisogno della Nuova Terra. – Roteò i suoi occhietti rosa. – Non ne abbiamo più bisogno, adesso che abbiamo trovato un nativo del pianeta che vi si trovava sopra fino a tre secondi prima che fosse distrutto. – Cosa? – gridò Slartibartfast, esterrefatto. – Non potete farlo! Ho un migliaio di ghiacciai già in equilibrio, pronti a essere calati sull'Africa!
– Be', così puoi farti una breve vacanza sugli sci, prima di smantellarli – disse Frankie, aspro.
– Una vacanza sugli sci?! – urlò il vecchio. – Quei ghiacciai sono opere d'arte! Hanno contorni finemente scolpiti, altissime guglie di ghiaccio, profondi e maestosi crepacci! Sarebbe un sacrilegio sciare su simili capolavori!
– Grazie, Slartibartfast – disse secco Benjy. – Questo è tutto. – Sì signore – disse il vecchio, gelido. – Grazie. Bene, addio, terrestre – aggiunse rivolgendosi ad Arthur – ti auguro che il tuo modo di vivere migliori.
Fece un breve cenno di saluto al resto della compagnia e si avviò tutto triste verso l'uscita.
Arthur lo guardò andare via senza sapere cosa dire. – E adesso – disse il topo Benjy – veniamo agli affari! Ford e Zaphod fecero cin cin coi loro bicchieri.

– Agli affari! – dissero.
– Prego? – disse Benjy. Ford si guardò intorno. – Scusate, credevo che steste proponendo un brindisi – disse. I due topi passeggiarono su e giù con impazienza dentro ai loro veicoli. Poi ripresero un contegno, e il topo Benjy spostò avanti il bicchiere, rivolgendosi ad Arthur.
– Ora, terrestre – disse – la situazione in pratica è questa. Noi, come tu sai, abbiamo gestito il tuo pianeta per dieci milioni di anni, tutto per riuscire a sapere qual è quella dannata cosa chiamata Domanda Fondamentale.
– Perché? – disse Arthur, brusco.
– No, a quella abbiamo già pensato – disse Frankie – ma non si adatta alla risposta. Perché? Quarantadue… No, non funziona, capisci?
– No – disse Arthur – io intendevo dire perché avete fatto questo? – Ah, capisco – disse Frankie. – In definitiva credo che ormai sia diventata una sorta di abitudine. E questo è più o meno il punto: ormai ne abbiamo fin sopra i denti di tutta questa faccenda, e la prospettiva di dovere ricominciare da capo per colpa di quei maledetti vogon mi fa venire il mal di pancia. È stata una pura e fortunata coincidenza che Benjy e io avessimo finito il nostro lavoro e avessimo deciso di lasciare la Terra per un breve periodo di vacanza… Dopo di allora abbiamo manovrato in modo che i tuoi amici ci riportassero gentilmente su Magrathea.
– Magrathea è un passaggio chiave per entrare nella nostra dimensione – spiegò Benjy.
– Dopo di che – continuò l'altro topo – ci è stato offerto di firmare un contralto favoloso per il ciarlo–show in 5D, nella nostra dimensione, e noi siamo molto propensi ad accettare. – Ah, anch'io accetterei, e tu, Ford? – disse subito Zaphod. – Oh, certo – disse Ford. – Firmerei a occhi chiusi. Arthur li guardò, chiedendosi a cosa portasse quella conversazione.
– Ma dobbiamo potere offrire un buon prodotto, capisci – disse Frankie. – Voglio dire, sotto il profilo ideale abbiamo ancora bisogno della Domanda Fondamentale, in una forma o nell'altra. Zaphod si protese in avanti, verso Arthur. – Capisci – disse – se loro se ne stanno seduti là nello studio tutti belli rilassati, e a un certo punto dicono che conoscono la Risposta alla Vita, l'Universo e Tutto, e poi alla fine sono costretti ad ammettere che questa Risposta è Quarantadue, be', è chiaro che lo show sarebbe con tutta probabilità molto corto. Non ci sarebbe seguito, no? – Dobbiamo avere qualcosa che suoni bene – disse Benjy.

– Qualcosa che suoni bene? – disse Arthur. – Una Domanda
Fondamentale che suoni bene? Fatta da un paio di topi? I topi mostrarono i denti.
– Be', voglio dire, l'idealismo, la dignità della ricerca pura, il desiderio di perseguire la verità in tutte le sue forme, sono tutte cose bellissime, ma arriva un momento prima o poi in cui si comincia a sospettare che se esiste una qualche verità reale, questa verità sia che tutto l'infinito multidimensionale dell'Universo è quasi certamente governato da un branco di pazzi. E se si arriva a dover scegliere fra il passare altri dieci milioni di anni a cercare di scoprire questa semplice verità, e il prendere i soldi e scappare, io personalmente sceglierei quest'ultima alternativa – disse Frankie. – Ma… – disse Arthur, senza capire.
– Ehi, cerca di afferrare il concetto, terrestre – disse Zaphod. – Tu appartieni all'ultima generazione prodotta dalla matrice del computer, no?, e ti trovavi sul pianeta fino al momento in cui questo è stato demolito, vero?
– Ehm…
– Perciò il tuo cervello è parte organica della penultima configurazione del programma del computer – disse Ford, cercando di aggiungere una nota di chiarezza ai discorsi degli altri. – Capito? – disse Zaphod.
– Mah – disse Arthur, dubbioso. Non si era mai sentito parte organica di niente. Gli era sempre parso che questo fosse uno dei suoi tanti problemi…
– In altre parole – disse Benjy, dirigendo il suo strano bicchiere– veicolo verso Arthur – ci sono buone probabilità che la struttura della domanda sia inclusa nella struttura del tuo cervello… Capisci, quindi? Siamo pronti a pagarti bene.
– Mah… volete comprare la domanda? – disse Arthur. – Sì – dissero Ford e Trillian.
– E per un mucchio di soldi! – disse Zaphod. – No, no – disse Frankie – è il cervello che vogliamo comprare! – Cosa?!
– In ogni caso, chi ne sentirebbe mai la mancanza? – osservò Benjy.
– Mi pareva che aveste detto che potevate leggergli semplicemente il cervello elettronicamente – protestò Ford. – Oh, sì – disse Frankie – ma prima bisogna che lo togliamo dal cranio. Deve essere preparato.
– Trattato – disse Benjy.
– Sezionato.

– Grazie tante! – gridò Arthur, rovesciando la sedia e
allontanandosi dal tavolo, inorridito.
– Potrebbe sempre essere sostituito – disse Benjy – se ritieni che sia importante.
– Sì, da un cervello elettronico – disse Frankie. – Ne basterebbe uno molto semplice.
– Uno molto semplice! – gemette Arthur.
– Sì – disse ad un tratto Zaphod, con un sorrisetto cattivo – basterebbe programmarlo a dire Cosa? e Non capisco e Dov'è il tè? Chi mai potrebbe notare la differenza?
– Cosa? – gridò Arthur, continuando a indietreggiare. – Capisci cosa voglio dire? – disse Zaphod, e urlò di dolore perché in quella Trillian gli fece qualcosa.
– La noterei io, la differenza – disse Arthur. – No – disse il topo Frankie – perché saresti programmato a non notarla.
Ford si precipitò alla porta.
– Cari i miei topi, mi dispiace – disse – ma credo che non concluderemo proprio nessun affare.
– Io invece credo di sì – dissero i due topi in coro, e le loro voci stridule assunsero un tono di minaccia. Con un lieve ronzio i loro bicchieri si sollevarono in aria e si diressero verso Arthur, che indietreggiò ancora, inciampando e finendo terrorizzato in un angolo che non offriva alcuna via d'uscita.
Trillian lo afferrò disperatamente per un braccio, cercando di trascinarlo verso la porta, che intanto Ford e Zaphod cercavano di aprire. Ma Arthur era un peso morto: sembrava ipnotizzato dai roditori che, volando sui loro bicchieri, puntavano dritto contro di lui. Trillian cercò urlando di scuoterlo dal suo torpore, ma lui restò lì inebetito, a fissare a bocca aperta i suoi nemici. Con un ultimo strattone, Ford e Zaphod riuscirono ad aprire la porta. Oltre la soglia c'era un branco di brutti ceffi, evidentemente elementi reclutati dai topi tra la feccia di Magrathea. Non solo erano brutti loro, ma erano molto brutte anche le attrezzature da sala operatoria che portavano. Per di più, si preparavano a caricare. Così Arthur era sul punto di farsi spaccare in due la testa, Trillian non riusciva ad aiutarlo, e Ford e Zaphod stavano per essere attaccati da dei delinquenti molto più forti e molto più armati di loro. Fu una grande fortuna che proprio in quel momento si mettessero a suonare tutti gli allarmi del pianeta, provocando un fracasso infernale.

– Emergenza! Emergenza! – urlavano tutte le sirene di Magrathea. –
Un'astronave ostile è atterrata sul pianeta. Sconosciuti armati hanno
fatto irruzione nel settore 8A. Ai posti di difesa! Ai posti di difesa!
I due topi annusarono stizziti i frammenti dei loro bicchieri, che giacevano sparsi in terra.
– Perdio! – borbottò il topo Frankie. – Quanto casino per un chilo di cervello terrestre! – Girellò qua e la nervosamente, mandando lampi di rabbia dagli occhietti rosa.
– L'unica cosa che possiamo fare, adesso – disse Benjy, accucciandosi e carezzandosi i baffi meditabondo – è di provare a inventare una finta Domanda che suoni plausibile. – Difficile – disse Frankie. Ci pensò su. – Cosa ne dici di Che cosa è giallo e pericoloso?
Benjy ci rifletté su un attimo.
– No, non va bene – disse. – Non si adatta alla risposta. Restarono in silenzio per qualche secondo.
– D'accordo – disse Benjy. – Cosa ottieni moltiplicando sei per sette?
No, no, troppo prosaica come domanda – disse Frankie – non
può suscitare l'interesse del pubblico.
Meditarono ancora.
Alla fine Frankie disse: – Cosa ti pare di questa? Quante strade deve percorrere l'uomo?1
Ah! – disse Benjy. – Ah, questa sì che suona promettente! – Ci
pensò un po' su. – Sì sì – disse. – È fantastica! Sembra molto significativa, e tuttavia non ti lega a nessun significato in particolare. Quante strade deve percorrere l'uomo? Quarantadue. Eccellente,
eccellente! Abboccheranno in pieno! Frankie, amico mio, siamo a cavallo!
Tutti eccitati, eseguirono un'entusiastica danza.

1 Nel testo, How many roads must a man walk down, primo verso della canzone di Bob Dylan "Blowing in the Wind". Il secondo verso dice before you call him a man, "prima che lo si possa chiamare uomo". (N.d.T.)

Vicino a loro, giacevano parecchi brutti ceffi, che erano stati
colpiti alla testa con pesanti lastre di perspex, premi per il miglior design.
Mezzo miglio più in là, quattro persone correvano lungo un corridoio cercando l'uscita. Si ritrovarono in una enorme sala computer e si guardarono intorno disperatamente. – Da che parte credi che sia l'uscita? – disse Ford a Zaphod. , – Così a lume di naso direi per di qua – disse Zaphod, mettendosi a correre tra una consolle e una parete. Proprio mentre gli altri stavano per seguirlo, fu fermato bruscamente da un raggio Morten che, crepitando, bruciacchiò una piccola parte di parete a pochi centimetri da lui.
Una voce all'altoparlante disse: – OK, Beeblebrox, resta lì dove sei. Ti abbiamo sotto tiro.
– Poliziotti! – sibilò Zaphod, e si giro di scatto, accovacciandosi. – Vuoi provare un po' a pensare a una via d'uscita, Ford? – Sì, direi per di qua – disse Ford, e tutt'e quattro corsero lungo uno stretto passaggio fra due consolle.
In fondo al passaggio apparve una figura in tuta spaziale, pesantemente corazzata, che impugnava una minacciosa pistola Morten.
– Non vogliamo spararti, Beeblebrox! – gridò. – Mi fa piacere! – gridò Zaphod, e si buttò di lato, nell'ampio spazio che c'era fra due unità di elaborazione dati. Gli altri lo seguirono.
– Sono in due! – disse Trillian. – Siamo circondati. Si rannicchiarono in un angolo, fra una grande banca dei dati e la parete.
Trattennero il fiato e aspettarono.
I due poliziotti aprirono il fuoco contemporaneamente, e i raggi d'energia sfrigolarono minacciosi nell'aria attorno a loro. – Ehi, ci stanno sparando! – disse Arthur, raggomitolandosi tutto. – Mi sembrava che avessero detto che non volevano farlo! – Sì, anche a me sembrava che avessero detto così – disse Ford. Zaphod alzò un attimo la testa, rischiando forte. – Ehi – disse – mi sembrava che aveste detto che non volevate spararci! – e si accovacciò di nuovo.
Aspettarono.
Dopo un attimo una voce rispose: – Non è mica facile fare i poliziotti!
– Cos'ha detto? – sussurrò sbalordito Ford. – Ha detto che non è mica facile fare i poliziotti. – Affari suoi, no?

– Direi anch'io.
Ford urlò: – Ehi, sentite un po'! Noi abbiamo già abbastanza problemi, visto che voi ci state sparando, perciò cercate di non addossarci anche i vostri, se no qui diventa veramente un casino! Ci fu un'altra pausa, e poi si sentì ancora la voce all'altoparlante. – Vedete, ragazzi – disse la voce – non avete a che fare con dei subnormali mezzecalzette dal grilletto facile, dall'attaccatura dei capelli bassissima, dagli occhi piccoli e porcini e dalla conversazione inesistente! Noi siamo due ragazzi intelligenti e sensibili che probabilmente vi piacerebbe moltissimo conoscere e frequentare! Io vado si in giro a sparare gratuitamente sulla gente, ma dopo mi tormento terribilmente, discutendone per ore con la mia ragazza! – E io scrivo romanzi! – esclamò l'altro poliziotto. – Benché non ne abbia ancora pubblicato nessuno. Perciò è meglio che vi avverta, sono di peeeeeesssssimoooo umore!
Ford strabuzzò gli occhi. – Ma chi sono 'sti tizi? – disse. – Non lo so – disse Zaphod. – comunque li preferivo quando sparavano.
– Allora, avete intenzione di arrendervi senza fare tante storie – urlò uno dei poliziotti – o volete che vi facciamo secchi? – Voi cosa preferite? – gridò Ford.
Un millisecondo dopo l'aria intorno ai quattro ricominciò a friggere: uno dopo l'altro, i raggi Morten si abbattevano crepitando sulla consolle davanti a loro.
La raffica continuò per parecchi secondi, violentissima. Poi tutto tacque, e gli echi degli spari si dispersero. – Siete ancora là? – gridò uno dei poliziotti. – Sì – gridarono loro di rimando.
– Non ci è affatto piaciuto doverlo fare! – urlò l'altro poliziotto. – Ci avremmo giurato – urlò Ford.
– Adesso ascolta bene, Beeblebrox, che è meglio per te! – Perché? – urlò di rimando Zaphod.
– Perché – urlò il poliziotto – quello che ti devo dire è molto intelligente, molto interessante e molto umano! Allora, o vi arrendete tutti quanti immediatamente e vi lasciate picchiare un po', anche se non molto, visto che noi ci opponiamo fermamente alla violenza gratuita, o faremo saltare in aria l'intero pianeta, e magari anche uno o due altri pianeti che abbiamo notato mentre venivamo qui! – Siete pazzi? – urlò Trillian. – Non è vero! Non lo fareste mai! – Oh, sì che lo faremmo – urlò il poliziotto. – Non è vero che lo faremmo? – disse all'altro.
– Oh, certo! Saremmo costretti a farlo! – disse quello. – Ma perché? – chiese Trillian.

– Perché certe cose bisogna farle anche se si è dei poliziotti
democratici e di larghe vedute che sanno essere sensibili e tutto il resto!
– Io non credo proprio a ciò che dicono 'sti tizi – borbottò Ford, scuotendo la testa.
Un poliziotto gridò all'altro: – Gli spariamo ancora un po'? – Sì, perché no?
Seguì una tremenda raffica di raggi Morten. Il calore e il rumore furono assolutamente fantastici. La consolle del computer cominciò a disintegrarsi poco a poco. La parte davanti si era quasi tutta fusa, e densi rivoletti di metallo fuso scivolavano giù, dove i quattro stavano accovacciati,
I quattro si strinsero ancora più insieme e aspettarono la fine.

Ma la fine non venne affatto, o almeno non in quel momento. All'improvviso la raffica cessò, e il silenzio che seguì fu rotto solo da un paio di gorgoglii strozzati e da. alcuni colpi sordi. I quattro si guardarono l'un l'altro.
– Cos'è successo? – disse Arthur.
– Hanno smesso – disse Zaphod con un'alzata di spalle. – Perché?
– Non lo so, vuoi andare a chiederglielo? – No. Aspettarono.
– Ehi? – gridò Ford a un certo punto, Nessuna risposta. – È strano.
– Forse è una trappola.
– Non hanno intelligenza sufficiente.
– Cos'erano quei colpi sordi?
– Non lo so.
Aspettarono ancora qualche secondo.
– Io vado a dare un'occhiata – disse Ford. Guardò gli altri. – C'è nessuno che ha intenzione di dirmi no, non andare tu, lascia che vada io?
Tutti scossero la testa.
– E va bene – disse Ford, alzandosi.
Per un attimo non successe niente.
Poi, dopo uno o due secondi, continuò a non succedere niente. Ford scrutò era il fumo spesso che si levava dal computer bruciato. Con molta cautela, uscì allo scoperto. Continuò a non succedere niente.
A venti metri di distanza scorse vagamente, in mezzo al fumo, la sagoma di uno dei poliziotti. Il poliziotto giaceva a terra, scomposto. A venti metri di distanza, nella direzione opposta, giaceva l'altro. Per il resto, non si vedeva nessuno.
A Ford la cosa parve molto, molto strana. Si avvicinò con molta cautela al primo poliziotto, il cui corpo continuò a restare immobile anche quando lui gli arrivò molto vicino.

Tranquillizzato, Ford mise un piede sulla pistola a raggi Morten, che
giaceva tra le dita flosce del tizio.
Si chinò e la raccolse: non incontrò resistenza. Il poliziotto era chiaramente morto.
Ford lo esaminò in fretta e vide che era di Blagulon Kappa: era una forma di vita che respirava metano, e che per sopravvivere nell'atmosfera di ossigeno di Magrathea aveva bisogno della tuta spaziale.
Il minuscolo computer che gli garantiva la sopravvivenza e che era collocate sulla schiena, assieme alle altre attrezzature, era saltato in aria.
Ford ne esaminò sbalordito i resti. Quei minicomputer da tuta erano direttamente collegati, tramite la sub–Eta, al computer centrale della nave. Un sistema del genere era sicurissimo in qualsiasi circostanza: bisognava proprio che andasse completamente in tilt il feedback, cosa che non si era mai sentito dire che fosse successa. Ford corse a guardare l'altro poliziotto, e vide che anche lui era morto per le stesse incredibili ragioni, probabilmente contemporaneamente al compagno.
Chiamò gli altri, che arrivarono, condivisero il suo sbalordimento, ma non condivisero la sua curiosità.
– Teliamo – disse Zaphod. – Anche ammesso che quello che cerco sia qui, non m'interessa più. – Afferrò la pistola Morten del secondo poliziotto, sparò contro un'innocua consolle e si precipitò nel corridoio, seguito dagli altri. Poco mancò che a furia di spari facesse saltare in aria un'aeromobile che li aspettava a qualche metro di distanza.
L'aeromobile era vuota, e Arthur la riconobbe: era quella di Slartibartfast.
Al pannello comandi era affisso un biglietto. Il biglietto, sul quale era disegnata una freccia che indicava una delle manopole dei comandi, diceva: Questo è probabilmente il bottone migliore da premere.

L'aeromobile parti a razzo e attraversò all'eccessiva velocità di R17 i tunnel d'acciaio che conducevano sulla squallida superficie del pianeta. Il pianeta era stretto adesso nella morsa di un altro cupo tramonto. Una luce grigia e sinistra stava inondando il suolo. R è una misura di velocità definita come velocità conveniente a un viaggio che voglia essere compatibile con la salute del corpo e della mente, e che tolleri diciamo un massimo di cinque minuti di ritardo. R è perciò un numero che varia quasi all'infinito, in corrispondenza delle circostanze, dal momento che i primi due fattori variano non solo con la velocità assunta come un assoluto, ma anche con la consapevolezza del terzo fattore. A meno che non venga gestita con calma, questa equazione può provocare un notevole stress, l'ulcera e a volte perfino la morte.
R17 non è una velocità fissa, ma ha chiaramente una celerità eccessiva.
L'aeromobile si lanciò dunque a una velocità di R17 e più, depositò i quattro vicino al Cuore d'Oro, che stava rigido sul freddo terreno come un candido osso, e poi invertì precipitosamente la marcia e ripartì come un razzo nella direzione da cui era venuta, dove evidentemente l'attendevano importanti affari. Tremanti di freddo, i quattro guardarono la loro astronave. Lì vicino ce n'era un'altra.
Era la lancia della polizia di Blagulon Kappa, un affare bulboso a forma di squalo, color verde ardesia: sui fianchi erano stampate delle lettere nere, che variavano in grandezza e ostilità. Le lettere informavano chiunque le volesse leggere sul luogo d'origine dell'astronave, il reparto di polizia cui apparteneva, e come si faceva per farla partire.
La lancia appariva troppo scura e silenziosa, pur tenendo conto che i suoi due piloti in quel momento giacevano asfissiati in una stanza piena di fumo molte miglia sotto terra. È una cosa curiosa e praticamente impossibile da spiegare, ma si riesce a capire quando una nave è completamente morta.

Ford ebbe la sensazione che la lancia di Blagulon Kappa fosse
appunto morta, e il suo senso di sbalordimento crebbe: una nave e due poliziotti di punto in bianco erano morti così, senza motivo. Di solito le cose non funzionavano a quel modo.
Anche gli altri tre lo capivano, ma capivano ancor di più di avere un freddo cane, perciò si precipitarono dentro al Cuore d'Oro, presi da un attacco acuto di non curiosità.
Ford restò fuori e andò a esaminare la nave di Blagulon. Mentre camminava, quasi inciampò in un'inerte sagoma di acciaio che giaceva a faccia in giù nella fredda polvere.
– Marvin! – esclamò. – Cosa fai qui?
– Non sentirti in dovere di prestarmi un po' di considerazione, ti prego – disse Marvin con un ronzio soffocato. – Ma come stai, robot?
– Sono molto depresso.
– Cosa ti bolle in pentola?
– Non lo so – disse Marvin. – Non uso mai le pentole. Ford, tremando dal freddo, si accovacciò accanto al robot. – Perché stai sdraiato a faccia in giù nella polvere? – disse. – Perché è un ottimo modo per sentirsi ancora più disgraziati di quello che si è. Non far finta di provare desiderio di parlarmi, so che mi odii.
– No che non ti odio.
– Sì invece, tutti mi odiano. Fa parte dell'assetto dell'Universo. Basta che parli con qualcuno, che questo comincia a odiarmi. Perfino i robot mi odiano. Se ti limiti a non badarmi, senza arrivare a odiarmi, penso che riuscirò probabilmente a sollevarmi di qui. Si alzò in piedi e guardò risolutamente nella direzione opposta a Ford.
– Quella nave mi odiava – disse avvilito, indicando la lancia della polizia.
– Quella nave? – disse Ford eccitato. – Cosa le è successo? Lo sai? – Mi odiava perché le ho parlato.
– Tu le hai parlato? – disse Ford. – Cosa intendi dire? – Sai, ero molto annoiato e depresso, così sono andato a collegarmi al suo computer centrale. Ho parlato a lungo col computer, spiegandogli la mia visione dell'Universo. – E cosa è successo? – lo incalzò Ford.
– Si è suicidato – disse Marvin, e s'incamminò a grandi passi verso il Cuore d'Oro.

Quella notte il Cuore d'Oro s'affrettò a mettere qualche bell'anno luce fra sé e la Nebulosa Testa di Cavallo. Al suo interno, Zaphod girellava sotto la piccola palma, sul ponte di comando, e cercava di mettere ordine nei suoi cervelli sorbendo dosi massicce di Gotto Esplosivo Pangalattico, Ford e Trillian sedevano in un angolo discutendo sulla vita e sui suoi annessi e connessi, e Arthur era a letto immerso nella lettura della Guida Galattica per gli Autostoppisti. Dato che ormai era destinato a vivere tra le stelle, aveva pensato che fosse saggio informarsi un po' su usi e costumi della Galassia. S'imbatté in una registrazione che diceva: La storia di tutte le maggiori civiltà galattiche tende ad
attraversare tre fasi distinte e ben riconoscibili, ovvero le fasi della
Sopravvivenza, della Riflessione e della Decadenza, altrimenti dette
fasi del Come, del Perché e del Dove.
La prima fase, per esempio, è caratterizzata dalla domanda Come
facciamo a procurarci da mangiare?, la seconda dalla domanda Perché mangiamo? e la terza dalla domanda In quale ristorante pranziamo oggi?
Arthur interruppe la lettura perché sentì il ronzio dell'intercom. – Ehi, terrestre, non hai fame? – disse la voce di Zaphod. – Ehm, be', sì, ho abbastanza appetito – disse Arthur. – E allora andiamo a mangiare un boccone – disse Zaphod. – Lo snack Ai Confini del Cosmo è giusto da queste parti. FINE