Douglas Adams

 

GUIDA GALATTICA PER GLI

 

AUTOSTOPPISTI

 

(The Hitch–Hikers Guide To The Galaxy)

© 1979 Douglas Adams
© 1980 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Traduzione di Laura Serra
URANIA n. 843 – 6 luglio

Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche
dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo
e insignificante sole giallo.
A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove
milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta
azzurro–verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono
così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da
polso digitali siano un’ottima invenzione.
Questo pianeta ha, o meglio aveva, un fondamentale problema: la
maggior parte dei suoi abitanti erano infatti afflitti da una quasi
costante infelicità. Per risolvere il problema di questa infelicità
furono suggerite varie proposte, ma queste per lo più concernevano lo
scambio continuo di pezzetti di carta verde, un fatto indubbiamente
strano, visto che ad essere infelici non erano i pezzetti di carta verde,
ma gli abitanti del pianeta.
E così il problema restava inalterato: quasi tutti si sentivano tristi
e infelici, perfino quelli che avevano gli orologi digitali.
Erano sempre di più quelli che pensavano che fosse stato un
grosso errore smettere di essere scimmie e abbandonare gli alberi. E
c’erano alcuni che arrivavano a pensare che fosse stato un errore
perfino emigrare nella foresta, e che in realtà gli antenati sarebbero
dovuti rimanere negli oceani.
E poi, un certo giovedì, quasi duemila anni dopo che un uomo era
stato inchiodato a un palo per avere detto che sarebbe stato molto
bello cambiare il modo di vivere e cominciare a volersi bene gli uni
con gli altri, una ragazza seduta da sola a un piccolo caffè di
Rickmansworth capì d’un tratto cos’era che per tutto quel tempo non
era andato per il verso giusto, e finalmente comprese in che modo il
mondo sarebbe potuto diventare un luogo di felicità. Questa volta la
soluzione era quella giusta, non poteva non funzionare, e nessuno
sarebbe stato inchiodato ad alcunché.
Purtroppo però, prima che la ragazza riuscisse a raggiungere un
telefono per comunicare a qualcuno la sua idea, successe una stupida
quanto terribile catastrofe, e di quell’idea non si seppe mai più nulla.

Questa non è la storia della ragazza.
È la storia di quella stupida quanto terribile catastrofe, e di alcune
delle sue conseguenze.
È anche la storia di un libro, un libro intitolato Guida Galattica
per gli Autostoppisti, un libro non terrestre e mai pubblicato sulla Terra, e che, fino al momento della terribile catastrofe, era
completamente ignorato dai terrestri.
Tuttavia, si trattava di un libro notevolissimo.
In effetti, era probabilmente il libro più notevole che fosse mai
stato stampato dalla grande casa editrice dell’Orsa Minore, della
quale pure nessun terrestre aveva mai sentito parlare.
Ma non è soltanto un libro notevolissimo, è anche un libro di
enorme successo, più popolare di Costruitevi la seconda casa in Cielo,
più venduto di Altre 53 cose da fare a Gravità Zero, e più controverso
della trilogia filosofico–sensazionale di Oolon Colluphid, Anche Dio
può sbagliare, Altri grossi sbagli di Dio e Ma questo Dio, insomma, chi è?.
In molte delle civiltà meno formaliste dell’Orlo Esterno Est della
Galassia, la Guida Galattica per gli Autostoppisti ha già soppiantato
la grande Enciclopedia Galattica, diventando la depositaria di tutto il
sapere e di tutta la scienza, perché, nonostante presenti molte lacune
e contenga molte notizie spurie, o se non altro alquanto imprecise, ha
due importanti vantaggi rispetto alla più vecchia e più accademica
Enciclopedia.
Uno, costa un po’ meno; due, ha stampate un copertina, a grandi
caratteri che ispirano fiducia, le parole NON FATEVI PRENDERE DAL
PANICO.
Ma la storia di quel terribile, stupido giovedì, la storia delle sue
straordinarie conseguenze, e la storia di come quelle conseguenze
siano indissolubilmente legate al detto libro, comincia in modo molto
semplice.
Comincia da una certa casa.

La casa sorgeva su un lieve rialzo, proprio all’estremo limite del villaggio. Era isolata, e dava su un’ampia distesa coltivata di campagna. Era una casa di nessun conto: aveva circa trent’anni, era di mattoni, quadrata, bassa, con quattro finestre sul davanti la cui grandezza e proporzione non erano proprio studiate per piacere all’occhio.
L’unica persona che considerava speciale quella casa era Arthur Dent, e per un semplice motivo: che per caso quella era la casa in cui abitava. Vi abitava da circa tre anni, fin da quando, cioè, si era trasferito lì da Londra, città che lo rendeva nervoso e irritabile. Anche lui, come la casa, aveva trent’anni: era alto, aveva i capelli neri, ed era sempre irrequieto. Quello che lo irritava di più era il fatto che la gente era solita chiedergli sempre per quale ragione era così irritato. Arthur Dent lavorava per una radio locale che, come lui diceva sempre ai suoi amici, era molto più interessante di quanto essi probabilmente pensassero. E lo era, in effetti (visto che la maggior parte dei suoi amici lavoravano in pubblicità).
La notte del mercoledì aveva piovuto molto forte e il viottolo era pieno d’acqua e fangoso, ma il giovedì mattina il sole splendette chiaro e vivido sulla casa di Arthur Dent. Splendette per quella che era destinata a essere l’ultima volta.
Arthur infatti aveva appena saputo che il consiglio comunale aveva deciso di abbattere la sua casa per costruirvi al suo posto una tangenziale.
Alle otto di mattina di giovedì Arthur non si sentiva molto bene. Si svegliò e, tutto intontito, si alzò e si mise a vagare per la camera da letto: aprì la finestra, vide un bulldozer, infilò le ciabatte e con passo pesante andò in bagno a lavarsi.
Mise il dentifricio sullo spazzolino, si lavò, eccetera eccetera. Lo specchio che usava per farsi la barba era fuori posto e rifletteva il soffitto. Arthur lo risistemò, e nel farlo vi vide riflesso per un attimo un secondo bulldozer, che era visibile di là dalla finestra del bagno.

Sistemato lo specchio, Arthur si fece la barba, poi si sciacquò e andò
in cucina a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Riempì la cuccuma d’acqua, aprì il frigorifero, prese il latte, il caffè, e sbadigliò.
La parola bulldozer vagò nella sua mente per un attimo, alla ricerca di eventuali collegamenti.
Il bulldozer che si vedeva dalla cucina era particolarmente grande. Arthur lo fissò.
– Giallo – pensò, e tornò in camera da letto, per vestirsi.
Passando dal bagno si fermò a bere due bei bicchieri d’acqua. Cominciò a sospettare di stare smaltendo una sbornia. Ma come mai…? Si era ubriacato, la notte prima? Evidentemente sì, pensò. Si guardò allo specchio. – Giallo – pensò, e andò in camera da letto. Si fermò un attimo a riflettere. Gli venne in mente il pub. Oh sì, proprio il pub. Vagamente, si ricordò di essersi arrabbiato, arrabbiato per una faccenda che doveva essere importante. Ne aveva parlato con la gente, ne aveva parlato a ruota libera, con la gente che stava al pub, gli parve di ricordare: gli tornarono in mente gli sguardi vitrei delle altre persone. La faccenda riguardava una tangenziale. Ed era una faccenda che lui aveva appena scoperto. Nei canali d’informazione più riservati era nota già da mesi, anche se sembrava che nessuno ne fosse mai stato informato. Ridicolo. Ma si sarebbe risolta da sola, pensò Arthur: nessuno voleva quella tangenziale, e il consiglio non aveva niente cui appigliarsi per far passare la cosa. Sì, la questione si sarebbe risolta da sola.
Dio, ma che terribile sbornia si era preso! Arthur si guardò allo specchio dell’armadio, e tirò fuori la lingua. – Gialla – pensò. La parola giallo continuò come prima a vagare nella sua mente, in cerca di eventuali collegamenti.
Quindici secondi dopo Arthur uscì di casa e si sdraiò davanti al grosso bulldozer giallo che stava avanzando lungo il viottolo del suo giardino.
Il signor L. Prosser era, come si suol dire, soltanto umano. In altre parole era una forma di vita bipede a base carbonio, discendente da una scimmia. In particolare, il signor Prosser aveva quarant’anni, era grasso e scalcagnato e lavorava per il locale consiglio. Abbastanza curiosamente era, anche se non lo sapeva, un diretto discendente, in linea paterna, di Gengis Khan. Ma miscugli razziali intervenuti in successive generazioni avevano talmente alterato i suoi geni, che non si riscontravano più in lui le caratteristiche del mongolo, e che le uniche tracce della sua augusta ascendenza erano una gran pancia e una particolare predilezione per i cappelli di pelo.

Prosser non aveva assolutamente la tempra del grande guerriero:
era invece un uomo nervoso e preoccupato. Quel giorno era particolarmente nervoso e preoccupato, perché gli era andata malissimo una questione che riguardava il suo lavoro (il suo lavoro era far sì che la casa di Arthur Dent fosse demolita prima del tramonto).
– Su, piantatela, signor Dent – disse – non potete farcela e lo sapete. Non potete stare sdraiato davanti al bulldozer all’infinito. – Cercò di guardare Arthur Dent con severi occhi fiammeggianti, ma non ci riuscì.
Arthur batté le mani nel fango in cui era steso, producendo un ciac ciac.– Io sono pronto a resistere – disse. – Vedremo chi si arrenderà per
primo.
– Ho paura che dovrete accettare per forza la cosa – disse il signor Prosser rigirandosi nervosamente il cappello di pelo in testa. – La tangenziale va fatta, e sarà fatta!
– È la prima volta che lo sento dire – disse Arthur. – Perché mai andrebbe fatta?
Il signor Prosser agitò criticamente il dito contro Dent, poi si pentì e smise.
– Come perché mai andrebbe fatta? – disse. – È una tangenziale. E le circonvallazioni sono necessarie.
Le tangenziali sono soluzioni che permettono a certuni di sfrecciare molto rapidamente da un punto A a un punto B, nel mentre certi altri sfrecciano molto rapidamente dal punto B al punto A. La gente che abita nel punto C, a metà strada tra A e B, spesso si chiede cosa ci sia di così importante nel punto A da indurre tanta gente a correrci spostandosi da B, e cosa ci sia di così importante nel punto B, da indurre tanta gente a correrci spostandosi da A. Così, le gente del punto C finisce per augurarsi che tutti quei corridori si decidano una buona volta a scegliere una dannata dimora definitiva. Il signor Prosser avrebbe voluto trovarsi nel punto D. Cioè, molto semplicemente, in un qualsiasi punto opportunamente lontano dai punti A, B e C. Avrebbe voluto abitare in una bella casetta nel punto D e passare piacevolmente buana parte del tempo nel punto E, che doveva coincidere col pub più vicino al punto D. Sopra la porta avrebbe messo delle asce, anche se sua moglie avrebbe insistito per le rose rampicanti. Non sapeva perché, ma le asce gli piacevano moltissimo.
D’un tratto, Prosser arrossì violentemente, rendendosi conto delle risate di scherno degli altri guidatori di bulldozer. Spostò il peso prima su un piede, poi sull’altro, ma si sentì a disagio su entrambi. Era

chiaro che qualcuno si era dimostrato spaventosamente incapace.
C’era da sperare che quel qualcuno non fosse lui stesso. Disse: – Avevate tutto il diritto di fare eventuali rimostranze o di dare eventuali suggerimenti quand’era il momento, non vi pare? – E quand’era, questo momento? – strillò Dent. – Il momento! La prima volta che ho sentito parlare di tutta questa faccenda è stato ieri, quando un operaio è venuto a casa mia. Gli ho chiesto se era venuto per pulire i vetri delle finestre e lui mi ha detto che no, era venuto per demolire la casa. Ma naturalmente non me l’ha detto subito. Oh, no. Prima mi ha pulito un paio di vetri e mi ha chiesto cinque sterline di
compenso. Poi me l’ha detto.
– Ma signor Dent, è da nove mesi che i piani del progetto sono disponibili al pubblico, nel locale ufficio Viabilità e Traffico. – Oh sì, sì! Be’, appena ho saputo la cosa sono corso a vederli, ieri pomeriggio. Non è che vi siate sforzati molto di richiamare l’attenzione su quel progetto, vero? Vi siete ben guardati dal parlarne con chicchessia.
– Ma i piani erano visibili al pubblico… – Visibili?! Sono dovuto scendere nello scantinato per vederli! – Ma è quello l’ufficio di consultazione per il pubblico! – E si deve consultare con la torcia elettrica? – Oh già, si vede che le lampade si erano fulminate. – Ma non mancava solo la luce. Mancava anche la scala! – Insomma, avete trovato i piani?
– Sì – disse Arthur – sì. Erano in fondo a un casellario chiuso a chiave che si trovava in un gabinetto inservibile sulla cui porta era stato affisso il cartello Attenti al leopardo. In cielo passò una nube, che proiettò la sua ombra su Arthur, che stava sdraiato nel fango, col torso eretto, puntellandosi sui gomiti. La nube proiettò la sua ombra anche sulla casa di Arthur. Il signor Prosser guardò questa aggrottando la fronte. – Non è mica tanto bella, la vostra casa – disse. – Si dà il caso però che a me piaccia – disse Arthur. – La tangenziale vi piacerà ancora di più, ne sono certo. – Ma smettetela! – disse Arthur. – Smettetela e andatevene, e portatevi dietro la vostra maledetta tangenziale! Non avete niente di concreto cui appigliarvi, lo sapete benissimo! Il signor Prosser aprì e chiuse la bocca un paio di volte senza riuscire a dire nulla: nella sua mente, per un attimo, si susseguirono immagini stranissime, ma terribilmente attraenti. Immagini della casa di Arthur Dent consumata da un furioso incendio, e di Arthur Dent urlante e in fuga dalle rovine fiammeggianti, con tre pesanti lance conficcate nella schiena. Il signor Prosser era spesso turbato da

immagini del genere, che lo innervosivano alquanto. Balbettò
confusamente qualcosa, poi riprese il controllo di sé. – Signor Dent – disse.
– Eh? Sì? – disse Arthur.
– Lasciate che vi dia qualche dato concreto. Avete la minima idea di che danno verrebbe a quel bulldozer se semplicemente ve lo facessi passare sopra?
– Che danno? – disse Arthur.
– Nessunissimo! – disse il signor Prosser, e si allontanò infuriato, chiedendosi perché mai sentisse in testa uno scalpiccio come di mille cavalli tartari.
Per una curiosa coincidenza, nessunissimo era anche la parola che, posta davanti a sospetto, definiva quanto poco il discendente–di– scimmia Arthur Dent immaginasse che il suo più intimo amico, lungi dal discendere a sua volta da una scimmia, proveniva in realtà da un piccolo pianeta nelle vicinanze di Betelgeuse e non, come sosteneva, da Guildford.
Arthur Dent, appunto, non aveva mai minimamente sospettato la cosa.
Questo suo amico era arrivato sulla Terra circa quindici anni terrestri prima, e aveva fatto di tutto per integrarsi nella società terrestre. E, bisogna ammettere, con un certo successo. Per esempio aveva passato quei quindici anni fingendo di essere un attore disoccupato, il che era abbastanza plausibile. Aveva fatto però un grosso errore di disattenzione, perché aveva sorvolato un po’ troppo sul necessario lavoro di ricerca. Le informazioni poco accurate che aveva raccolto lo avevano così indotto a scegliere, come nome che passasse inosservato, quello di “Ford Prefect”.
Ford Prefect non era particolarmente alto, aveva lineamenti che colpivano, ma che non erano particolarmente belli. Aveva capelli rossicci, ispidi e spazzolati all’indietro. Anche la pelle sembrava spazzolata, o meglio tirata, all’indietro. C’era qualcosa di lievemente strano in Ford, ma era difficile dire cosa. Forse si trattava del fatto che Ford non sbatteva le palpebre con la stessa frequenza del resto dell’umanità, per cui, quando si parlava con lui, a un certo punto succedeva che si cominciava a lacrimare, per sopperire a quello che sarebbe dovuto essere il suo bisogno di lacrimare. O forse si trattava del fatto che Ford aveva un sorriso un pochino troppo aperto, che dava alle persone la snervante impressione di potere essere morsicate sul collo da un momento all’altro.

Per la maggior parte degli amici che si era fatto sulla Terra, Ford
Prefect era un eccentrico: un eccentrico innocuo, un indisciplinato ubriacone dalle abitudini alquanto bizzarre. Spesso partecipava, per esempio, non invitato, a feste universitarie, si ubriacava come un carrettiere e si metteva a prendere per i fondelli tutti gli astrofisici che gli capitavano sotto tiro, finché alla fine si faceva cacciare fuori. A volte lo si scopriva a fissare stranamente il cielo, come se fosse ipnotizzato, e quando capitava che qualcuno gli chiedesse cosa stava facendo, sussultava con aria colpevole: poi, dopo un attimo, si calmava e sorrideva.
– Oh, cerco solo i dischi volanti – rispondeva scherzando, e allora tutti ridevano e gli chiedevano che tipo di dischi volanti cercasse. – Quelli verdi! – diceva lui con un sorriso malizioso. Poi finiva per sganasciarsi dal ridere e quindi, all’improvviso, concludeva precipitandosi al più vicino bar, dove ordinava un’enorme quantità di bevande alcoliche.
Di solito, serate del genere finivano male. Ford, carico di whisky, partiva per la tangente, si rintanava in un angolo con una ragazza e le spiegava con frasi sconnesse che a dire il vero il colore dei dischi volanti non aveva poi così importanza.
Dopo di che, barcollando come un semiparalitico per le strade, chiedeva a qualche poliziotto di passaggio se sapesse la strada per Betelgeuse. Il poliziotto di solito rispondeva qualcosa come: – Non credete che sia ora di tornare a casa, signore? – Ma è quello che sto cercando di fare, amico! È proprio quello che sto cercando di fare! – rispondeva immancabilmente Ford in simili occasioni.
In effetti, quando guardava fisso ilo cielo, Ford cercava davvero un qualsiasi tipo di disco volante. La ragione per cui diceva che cercava quelli verdi era che il verde era il colore della divisa spaziale degli esploratori commerciali di Betelgeuse.
Ford Prefect disperava ormai di vedere arrivare presto un qualsiasi disco volante, perché quindici anni erano parecchi per rimanere arenati da qualsiasi parte, e in particolare in un posto insopportabilmente noioso come la Terra. Ford sperava ardentemente che arrivasse presto un disco volante perché sapeva come farlo scendere e chiedere un passaggio. E sapeva anche come vedere le Meraviglie dell’Universo spendendo meno di trenta dollari altairiani al giorno.
Perché Ford Prefect era un ricercatore itinerante per conto di quel notevolissimo libro che è la Guida Galattica per gli Autostoppisti.

Gli esseri umani si adattano moltissimo e così, per l’ora di pranzo,
la vita intorno alla casa di Arthur si era già stabilizzata in un tran tran di routine. Il ruolo indiscusso di Arthur era di stare sdraiato a sguazzare nel fango e di chiedere ogni tanto a gran voce di vedere il proprio avvocato, o la mamma, o un bel libro; il ruolo indiscusso del signor Prosser era di corteggiare Arthur con abili discorsi, come il discorso Per Il Bene Della Comunità, il discorso Per L’Avanzata Del Progresso, il discorso Anche A Me Hanno Buttato Giù La Casa Una Volta, Sapete?, E Io Non Ho Arrestato L’Avanzata Del Progresso, e vari altri ammonimenti–minacce–lusinghe; il ruolo indiscusso dei guidatori di bulldozer era di stare seduti in cerchio a bere caffè e a elucubrare se ci fossero regole sindacali tali da permettere loro di sfruttare la situazione per ottenere dei vantaggi economici. La Terra si muoveva lentamente, nel suo percorso diurno. Il sole a poco a poco cominciò a disseccare il fango in cui Arthur era sdraiato.
E ancora una volta, un’ombra si disegnò sopra Arthur. – Salve, Arthur – disse il possessore dell’ombra. Arthur alzò gli occhi, li sbatté per via della luce del sole, e fu meravigliato di vedere Ford Prefect.
– Ford! Salve, come stai?
– Bene – disse Ford. – Senti, hai da fare? – Se ho da fare?! – esclamò Arthur. – Non vedi? Mi tocca stare sdraiato qui sennò tutti quei bulldozer hanno via libera e mi buttano giù la casa, ma a parte questo… no, non ho niente di speciale da fare, perché?
Su Betelgeuse il sarcasmo non usa, per cui Ford Prefect non lo notava mai, a meno che non facesse un estremo sforzo di concentrazione. Disse: – Bene, allora, c’è un posto tranquillo dove possiamo parlare?
– Cosa? – disse Arthur Dent.
Per qualche secondo Ford apparve completamente distratto, e fissò il cielo come un coniglio che cercasse di farsi investire da una macchina. Poi di colpo s’accovacciò accanto ad Arthur. – Dobbiamo parlare – disse, incalzante.
– Bene – disse Arthur. – Parla.
– E bere – disse Ford. – È di vitale importanza che parliamo e beviamo. Subito. Andremo al pub del paese. Guardò ancora il cielo, con aria ansiosa e nervosa. – Senti, ma non capisci? – gridò Arthur. Indicò Prosser. – Quell’uomo vuole buttare giù la mia casa! Ford guardò Prosser perplesso.
– Be’, lo può fare benissimo quando tu non ci sei, ti pare? – disse.

– Ma io non voglio che lo faccia!
– Ah!
– Senti, Ford, cos’hai? – disse Arthur.
– Niente, non ho niente. Ascolta, devo dirti una cosa che non potresti mai immaginarti. Devo dirtela adesso, subito, e al pub Horse and Groom.
– Ma perché me la devi dire proprio al pub? – Perché avrai bisogno di una bella bevuta. Ford fissò Arthur e Arthur, sbalordito, si accorse che la propria volontà si stava indebolendo. Non capì che questo gli succedeva per via di un vecchio gioco delle bevute che Ford aveva imparato a fare nei porti iperspaziali che servivano la zona delle miniere di madranite, nel sistema solare di Orione Beta.
Il gioco non era molto diverso dal gioco inglese detto Lotta Indiana, e si faceva così:
I due contendenti si sedevano ai lati opposti di un tavolo, con un bicchiere davanti.
Tra i due veniva posta una bottiglia di Liquore Janx (il liquore immortalato in quella vecchia canzone dei minatori di Orione, che dice: Oh, non datemi più quel Vecchio Liquore Janx / No, non datemi più il Vecchio Janx / Altrimenti la testa mi vola via, / la lingua dice
solo una bugia, / gli occhi mi si mettono a bollire, / e va a finire che
mi tocca morire / Su dunque, riempitemi un altro bicchiere, / che il
turpe Janx voglio bere).
Ciascuno dei due contendenti concentrava allora tutta la sua volontà sulla bottiglia, sforzandosi di far sì che si rovesciasse e che il liquore venisse versato nel bicchiere dell’avversario, che avrebbe dovuto poi scolarlo fino in fondo.
Dopo, la bottiglia veniva riempita di nuovo. E si giocava ancora. E poi ancora.
Una volta che si cominciava a perdere si avevano molte probabilità di continuare a perdere, perché uno degli effetti del liquore Janx era di ridurre l’energia telepsichica.
Perdeva chi arrivava a consumare una determinata quantità di liquore, già stabilita in partenza. Il perdente allora doveva pagare il pegno, che di solito era oscenamente biologico. Ford Prefect di solito giocava per perdere. Ford fissò Arthur che cominciò a pensare che poi, dopotutto, non era mica una cattiva idea quella di andare all’Horse and Groom. – Ma, e la mia casa…? – disse, querulo.
Ford diede un’occhiata al signor Prosser, e d’un tratto gli venne un’idea diabolica.

– Vuole buttarti giù la casa?
– Sì, perché vogliono costruire…
– E non riesce a farlo perché tu stai sdraiato davanti al bulldozer? – Sì, e…
– Sono sicuro che riusciremo ad arrivare a un qualche accordo – disse Ford. – Scusate! – urlò, rivolto a Prosser. Il signor Prosser (che stava discutendo con un portavoce dei guidatori di bulldozer sul problema se Arthur Dent costituisse o meno un pericolo per la salute mentale, e a quanto sarebbe ammontato in caso affermativo il risarcimento dovuto ai guidatori) si guardò intorno. Fu con sorpresa, e anche con un po’ di paura, che si accorse che Arthur aveva compagnia.
– Sì? Buongiorno! – gridò. – Allora, è rinsavito il nostro signor Dent?
– Supponiamo che non lo sia affatto – gridò Ford. – Ebbene? – sospirò il signor Prosser.
– E supponiamo anche che abbia intenzione di restare qui tutto il giorno…
– E allora?
– E allora tutti i vostri operai cosa debbono fare, restare qui tutto il giorno senza fare niente?
– Eh, può essere, sì…
– Se siete già rassegnato a tutto questo, non avete realmente bisogno che lui stia qui – disse Ford, paziente. Il signor Prosser rifletté sulla cosa.
– Be’, no, non è esattamente un bisogno… Prosser era preoccupato. Gli sembrava che il discorso di quel tizio non avesse molto senso.
Ford disse: – Dunque se voi vi diceste disposto a dare per scontato che lui sia realmente qui, lui e io potremmo allora sgattaiolare fino al pub e starci una mezz’ora. Cosa vi pare come proposta? Il signor Prosser pensò che gli sembrava assolutamente folle. – Mi pare assolutamente ragionevole… – disse, con un tono di voce rassicurante. Si chiedeva chi stesse cercando di rassicurare. – E se volete anche voi fare una scappata al pub, dopo – disse Ford – possiamo sempre ricambiarvi il favore, coprendovi l’uscita. – Vi ringrazio molto – disse il signor Prosser, che non sapeva più che pesci pigliare – vi ringrazio molto, sì, siete molto gentile… – Aggrottò la fronte, poi sorrise, quindi tentò di fare entrambe le cose in una volta e non ci riuscì: allora afferrò il suo cappello di pelo e cominciò a rigirarselo in testa. Riuscì a pensare soltanto a una cosa: che aveva appena vinto una battaglia.

– Allora – disse Ford Prefect – se non vi spiace, volete venire a
sdraiarvi qui?
– Cosa? – disse il signor Prosser.
– Ah, scusate – disse Ford – forse non mi sono spiegato molto bene. Qualcuno deve pur stare sdraiato davanti ai bulldozer, no? Sennò nessuno più impedirebbe a questi di avanzare e demolire la casa del signor Dent, no?
– Cosa? – ripeté il signor Prosser.
– È semplicissimo – disse Ford. – Il mio cliente, il signor Dent, dice che smetterà di stare sdraiato qui nel fango solo a patto che voi veniate qui a prendere il suo posto.
– Ma cosa stai dicendo? – disse Arthur, ma Ford lo toccò lievemente con un piede per fargli capire di stare zitto. – Volete che io vada a sdraiarmi là… – disse Prosser, cercando di decifrare quel nuovo, inaspettato messaggio. – Sì.
– Davanti al bulldozer?
– Sì.
– Al posto del signor Dent?
– Sì.
– Nel fango?
– Sì, nel, come dite voi, fango.
Appena il signor Prosser si rese conto che dopotutto il perdente era, in sostanza, proprio lui, fu come se un peso gli fosse stato tolto dalle spalle: la situazione adesso gli riusciva più familiare. Sospirò. – E se io mi sdraio lì voi porterete il signor Dent giù al pub con voi?– Esatto – disse Ford. – Proprio così. Il signor Prosser fece qualche nervoso passo avanti, poi si fermò. – Mi promettete che lo farete? – disse.
– Ve lo prometto – disse Ford. Si rivolse ad Arthur. – Su – gli disse. – Alzati e lascia il posto al signore. Arthur si alzò. Gli sembrava di vivere come in un sogno. Ford chiamò con un cenno Prosser che, triste e goffo, si mise a sedere nel fango. A Prosser pareva che la propria vita fosse tutta un sogno e a volte si chiedeva di chi fosse quel sogno, e se a chi lo faceva piacesse. Il fango gli si raccolse intorno al sedere e alle braccia, e gli colò nelle scarpe.
Ford lo guardò severamente.
– E non provatevi a essere così meschino da buttar giù la casa del signor Dent mentre lui è via, chiaro? – disse. – Questo pensiero non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello! – brontolò Prosser, finendo di accomodarsi nel fango.

Vide il rappresentante del sindacato guidatori di bulldozer
avvicinarsi e affondò la testa nel fango, chiudendo gli occhi. Cercò di ordinare le idee, preparandosi a dimostrare di non costituire un pericolo per la salute mentale, come fino a un attimo prima lo era stato Dent. Non era affatto sicuro di non rappresentare un simile pericolo, visto che si sentiva la testa piena di scalpiccii, di rumori, e di puzzo di sangue. Gli capitava sempre così ogni volta che gli sembrava di essere stato imbrogliato, e non era mai riuscito a spiegarsi la cosa. In una sublime dimensione di cui noi non sappiamo nulla il possente Khan, evidentemente, urlava di rabbia, ma il signor Prosser, come sempre, si limitò anche questa volta a tremare un po’ e a frignare. I suoi occhi si appannarono di lacrime. Nella sua mente si accavallarono i pensieri e le immagini più diversi: beghe burocratiche, uomini arrabbiati stesi nel fango, sconosciuti stranissimi capaci di infliggere le più inspiegabili umiliazioni, e un ignoto esercito di cavalieri (tartari) intenti a deriderlo. Ah, che giornata!
Che giornata. Ford Prefect sapeva che non aveva la benché minima importanza che la casa di Arthur fosse demolita o meno. Arthur, dal canto suo, era sempre molto preoccupato. – Ma possiamo fidarci di lui? – disse.
– Ah, io sono pronto a fidarmi di lui almeno fino alla fine del mondo – disse Ford.
– Oh, bene – disse Arthur.
– Su, vieni – disse Ford. – Ho proprio bisogno di bere.

Ecco come si esprime l’Enciclopedia Galattica sull’alcol. Dice che
l’alcol è un liquido volatile incolore originato dalla fermentazione di
zuccheri, e fa notare anche che ha effetti intossicanti su certe forme di
vita a base carbonio.
Anche la Guida Galattica per gli Autostoppisti nomina l’alcol.
Dice che la miglior bevanda alcolica che esista è il Gotto Esplosivo
Pangalattico.
Dice che quando si beve un Gotto Esplosivo Pangalattico si ha
l’impressione che il cervello venga spappolato da una fetta di limone
legata intorno a un grosso mattone d’oro.
La Guida dice anche quali sono i pianeti su cui servono i migliori
Gotti Esplosivi Pangalattici, quanto costano l’uno, e quali sono le
organizzazioni volontarie che possono aiutare il bevitore a
disintossicarsi.
La Guida insegna perfino come ci si può preparare da soli il
Gotto.
Prendete una bottiglia di Liquore Janx, dice. Riempitevi un
bicchiere.
Poi versatevi una dose d’acqua dei mari di Santraginus V. Ah,
quell’acqua di mare santraginese!, dice la Guida. Ah, quei pesci
santraginesi!!!
Fate sciogliere tre cubi di Mega–gin di Arturo nella mistura (che
dev’essere opportunamente ghiacciata, altrimenti l’alcol va perso).
Aggiungetevi quattro litri di gas delle paludi falliane, in ricordo di
tutti quei felici autostoppisti che sono morti di piacere nelle Paludi di
Fallia.
Sul retro di un cucchiaio d’argento fate galleggiare una dose di
estratto d’Ipermenta Qualattina, dall’odore e dal sapore dolci,
pungenti, mistici.
Aggiungete il dente di una Tigre del Sole Algoliana. Guardatelo
dissolversi e diffondere il fuoco dei Soli di Algol nel cuore della
bevanda.
Spruzzate un po’ di Zanfuor.
Aggiungete un’oliva.

Bevete… ma… con molta attenzione…
La Guida Galattica per gli Autostoppisti vende parecchio di più
dell’Enciclopedia Galattica.
– Sei pinte di amara – disse Ford Prefect al barista dell’Horse and Groom. – E presto, per favore. Il mondo sta per finire.
Il barista dell’Horse and Groom non meritava quel trattamento: era un vecchio onorato. Si mise a posto gli occhiali, che gli erano scesi un po’ sul naso, e guardò Ford Prefect stringendo gli occhi. Ford non lo degnò di un’occhiata e guardò fuori dalla finestra. Il barista allora passò a fissare Arthur, che alzò le spalle e non disse niente. Allora il barista disse: – Davvero, signore? Be’, se non altro per l’occasione fa bel tempo – e cominciò a spillare la birra alla spina. Poi riprovò a parlare.
– Allora andate a vedere la partita oggi pomeriggio? Ford si girò a guardarlo.
– No, non ha senso – disse, e tornò a guardare fuori della finestra. – Ah, allora secondo voi il risultato è già scontato, signore? – disse il barista. – L’Arsenal non ha speranze? – No, no – disse Ford. – Il fatto è che il mondo sta per finire. – Oh, sì, signore, l’avete già detto – disse il barista, dando un’occhiata ad Arthur da sopra gli occhiali. – Se così fosse davvero, sarebbe un bel modo di farla franca, per l’Arsenal! Ford si girò a guardarlo, chiaramente meravigliato. – No, non un gran bel modo, direi – disse, aggrottando la fronte. Il barista tirò un gran respiro. – Ecco qui le sei pinte, signore – disse.
Arthur abbozzò un sorriso e alzò ancora una volta le spalle. Si girò e offrì lo stesso tiepido sorriso alla gente che stava nel pub, caso mai le parole di Ford fossero giunte all’orecchio di qualcuno. Nessuno invece le aveva sentite, e nessuno capì perché lui avesse quello sciocco sorriso dipinto sulla faccia. Un uomo che era seduto al bar vicino a Ford guardò i due, guardò le sei pinte, fece un rapido calcolo aritmetico, arrivò a una risposta che gli piaceva e rivolse loro uno stupido e speranzoso sorriso. – Giù le mani – disse Ford – la birra è nostra – e gli diede un’occhiata che avrebbe ridotto al silenzio una Tigre del Sole di Algol.
– Comincia a bere – disse Ford. – Hai tre pinte da far fuori. – Tre pinte? – disse Arthur. – All’ora di pranzo? L’uomo vicino a Ford sorrise e annuì, tutto contento. Ford non gli badò minimamente. Disse: – Il tempo è un’illusione. L’ora di pranzo è una doppia illusione.

– Un pensiero molto profondo – disse Arthur. – Dovresti mandarlo
al Reader’s Digest. Dedicano una pagina a gente come te. – Bevi la birra.
– Perché dovrei berne tre pinte, così d’improvviso? – Perché ti fa rilassare i muscoli, e presto avrai bisogno di farli rilassare.
– I muscoli?
– I muscoli.
Arthur fissò la sua birra.
– Ho fatto qualcosa di male oggi – disse – o il mondo è sempre stato così e io ero troppo rinchiuso in me stesso per accorgermene? – E va bene – disse Ford. – Tenterò di spiegarti. Da quant’è che ci conosciamo?
Da quant’era?, pensò Arthur. – Ehm, circa cinque anni, forse sei – disse. – Allora le cose sembravano avere più senso. – Bene – disse Ford. – Come reagiresti se ti dicessi che non sono affatto di Guildford, ma di un piccolo pianeta nelle vicinanze di Betelgeuse?
Arthur si strinse nelle spalle, come a dire “boh”. – Non lo so – disse, bevendo un sorso di birra. – Perché, è questo il tipo di cosa che ti accingi a dirmi?
Ford lasciò perdere. Era inutile sprecare tanta fatica, visto che il mondo stava per finire. Così si limitò a dire: – Bevi.
Poi, con la stessa naturalezza, aggiunse: – Il mondo sta per finire.
Arthur tornò a guardare le gente nel pub con un sorriso melenso. La gente del pub lo guardò con la fronte aggrottata. Un uomo alzò una mano, facendogli cenno di smettere di sorridere e di pensare agli affari suoi.– Oggi dev’essere giovedì – si disse Arthur chinandosi sopra la sua birra. – Non sono mai riuscito a capirli, i giovedì.

In quel particolare giovedì, qualcosa si muoveva placidamente nella ionosfera, molte miglia sopra la superficie del pianeta; anzi vari qualcosa, parecchie dozzine di grossi, enormi qualcosa dalla forma di
lastroni, enormi come interi isolati, silenziosi come uccelli. Si libravano tranquilli, crogiolandosi ai raggi elettromagnetici della stella Sol e, raggruppandosi, preparandosi, aspettavano il momento buono. Il pianeta sotto di essi ignorava quasi completamente la loro presenza, il che, per il momento, era proprio quello che volevano. Gli enormi affari gialli passarono inosservati su Goonhilly, su Cape Canaveral, e anche su Woomera e Jodrell Bank (peccato per questi ultimi due, che avevano sempre cercato disperatamente d’individuare quel tipo di oggetti).
L’unica cosa che registrò la loro presenza fu un piccolo congegno nero chiamato sub–Eta sensomatic, che si mise a lampeggiare. Era riposto, al buio, nella borsa di pelle che Ford Prefect era solito portare al collo. Il contenuto di questa borsa era in effetti molto interessante, e avrebbe fatto strabuzzare gli occhi a qualsiasi fisico terrestre: era proprio per questo che Ford Prefect aveva sempre nascosto quel contenuto tenendo in cima a tutto un paio di copioni spiegazzati che faceva finta gli servissero per un’audizione. Nella borsa, oltre al sub– Eta sensomatic e ai copioni, Ford aveva un pollice elettronico, cioè un corto e tozzo bastoncino nero, liscio e opaco, con un paio di pulsanti e quadranti piatti a un’estremità. Inoltre, Ford aveva anche un congegno che sembrava un elaboratore elettronico abbastanza grande. Questo congegno aveva circa cento piccolissimi tasti piatti e uno schermi di circa dieci centimetri per dieci, sul quale si poteva far apparire in qualsiasi momento la pagina che si voleva (le pagine erano un milione). Il congegno appariva spaventosamente complesso, e questa era una delle ragioni per cui sulla pellicola di plastica nella quale era avvolto erano stampate a caratteri grandi che ispiravano fiducia le parole NON FATEVI PRENDERE DAL PANICO. L’altra ragione era che il congegno era il libro più notevole che fosse mai stato pubblicato dalla grande casa editrice dell’Orsa Minore, ovverosia la Guida Galattica per gli Autostoppisti. La ragione per cui era pubblicato in forma di

micro elemento elettronico sub–mesonico era che se fosse stato
stampato in forma di libro normale, l’autostoppista galattico avrebbe avuto bisogno, per portarselo dietro, di parecchi grandi edifici estremamente ingombranti.
In fondo alla borsa, sotto il libro, Ford Prefect teneva alcune penne a sfera, un notes, e un ampio asciugamano da bagno acquistato da Marks and Spencer.
La Guida Galattica per gli Autostoppisti dice alcune cose
sull’argomento asciugamani.
L’asciugamano, dice, è forse l’oggetto più utile che l’autostoppista
galattico possa avere. In parte perché è una cosa pratica: ve lo potete
avvolgere intorno perché vi tenga caldo quando vi apprestate ad
attraversare i freddi satelliti di Jaglan Beta: potete sdraiarvici sopra
quando vi trovate sulle spiagge dalla brillante sabbia di marmo di
Santraginus V a inalare gli inebrianti vapori del suo mare; ci potete
dormire sotto sul mondo deserto di Kakrafoon, con le sue stelle che
splendono rossastre; potete usarlo come vela di una mini–zattera
allorché vi accingete a seguire il lento corso del pigro fiume Falena;
potete bagnarlo per usarlo in un combattimento corpo a corpo; potete
avvolgervelo intorno alla testa per allontanare vapori nocivi o per
evitare lo sguardo della Vorace Bestia Bugblatta di Traal (un animale
abominevolmente stupido, che pensa che se voi non lo vedete,
nemmeno lui possa vedere voi: è matto da legare, ma molto, molto
vorace); inoltre potete usare il vostro asciugamano per fare
segnalazioni in caso di emergenza e, se è ancora abbastanza pulito,
per asciugarvi, naturalmente.
Ma, soprattutto, l’asciugamano ha un’immensa utilità psicologica.
Per una qualche ragione, se un figo (figo = non–autostoppista)
scopre che un autostoppista ha con sé l’asciugamano, riterrà
automaticamente che abbia con sé anche lo spazzolino da denti, la
spugnetta per il viso, il sapone, la scatola di biscotti, la borraccia, la
bussola, la carta geografica, il gomitolo di spago, lo spray contro le
zanzare, l’equipaggiamento da pioggia, la tuta spaziale, ecc. ecc. E
dunque il figo molto volentieri si sentirà disposto a prestare
all’autostoppista qualsiasi articolo di quelli menzionati (o una
dozzina di altri non menzionati) che l’autostoppista eventualmente
abbia perso. Il figo infatti pensa che un uomo che abbia girato in
lungo e in largo per la galassia in autostop, adattandosi a
percorrerne i meandri nelle più disagevoli condizioni e a lottare
contro terribili ostacoli vincendoli, e che dimostri alla fine di sapere
dov’è il suo asciugamano, sia chiaramente un uomo degno di
considerazione.

Da qui sono nati certi modi di dire entrati nel gergo
dell’autostoppista, come ad esempio nella frase: Ehi, ciacci quel
ganzo di Ford Prefect? È un frisco che sa davvero dove ci ha l’asciugamano! (Ciacciare = conoscere, rendersi conto di, incontrare, avere rapporti sessuali con; ganzo = tipo proprio in gamba; frisco =
tipo straordinariamente in gamba).
Riposto sopra l’asciugamano di Ford Prefect, nella sua borsa di pelle, il sub–Eta sensomatic si mise a lampeggiare sempre più frequentemente. Miglia e miglia sopra la superficie del pianeta, gli enormi affari gialli cominciarono ad apparire, in schiera. A Jodrell Bank, qualcuno decise che era ora di concedersi una bella, rilassante tazza di tè.
– Hai un asciugamano con te? – chiese d’un tratto Ford ad Arthur. Arthur, che si sforzava di bere la sua terza pinta, si girò a guardarlo.
– Perché? Ma, no… perché, dovrei forse averlo? – Oramai aveva smesso di meravigliarsi: sembrava che niente avesse più senso. Ford fece schioccare la lingua, irritato. – Bevi – incalzò.
In quella si sentì provenire da fuori un rimbombante fracasso, che fu ben udibile nonostante fosse filtrato dai rumori interni del pub, ovvero le chiacchiere della gente, il juke–box e il singhiozzo dell’uomo vicino a Ford, che finalmente era riuscito a farsi offrire da lui un whisky.
Ad Arthur andò di traverso la birra. Scattò in piedi. – Cos’è? – strillò.
– Non preoccuparti – disse Ford. – Non hanno ancora cominciato. – Meno male! – disse Arthur, e si calmò. – Sì, probabilmente stanno solo buttando giù la tua casa – disse Ford, scolando la sua ultima pinta.
– Cosa?! – urlò Arthur. Di colpo l’incantesimo creato da Ford si spezzò. Arthur si guardò intorno con aria furiosa e corse alla finestra. – Dio Dio, è vero! Stanno buttando giù la mia casa! Cosa diavolo ci faccio io in ‘sto pub, Ford?
– A questo punto non fa alcuna differenza – disse Ford. – Lascia che si divertano.
– Che si divertano?! – strillò Arthur. – Ah! Divertano! – Tornò a guardare fuori della finestra, per essere sicuro che stessero parlando della stessa cosa.

– Divertano! Ma gliela faccio vedere io! – squittì, e corse fuori dal
pub agitando furiosamente il bicchiere di birra mezzo vuoto che aveva in mano. La cosa non l’aiutò affatto a farsi degli amici, lì al pub. – Smettetela, vandali! Distruttori di case! – urlò. – Smettetela, avete capito, pazzi visigoti!
Ford si sentì in dovere di seguirlo. Si rivolse in fretta al barista e chiese quattro pacchetti di noccioline.
– Ecco, signore – disse il barista, mettendo i pacchetti sul banco bar. – Siate così gentile da favorire ventotto pence. Ford fu molto gentile: diede al barista un’altra banconota da cinque sterline e gli disse di tenersi il resto. Il barista guardò prima la banconota, poi Ford. E d’un tratto rabbrividì: provò una strana, improvvisa sensazione, una sensazione che non riuscì a capire, perché nessuno sulla Terra l’aveva mai provata prima d’allora. Nei momenti di grande tensione, tutte le forme di vita esistenti emettono un infinitesimo segnale sublimale. Il segnale non fa che comunicare il senso preciso e quasi patetico dell’enorme distanza che separa l’essere che lo emette dal suo luogo di nascita. Sulla Terra è impossibile essere più lontani di venticinquemila chilometri dal luogo di nascita, il che è molto poco, per cui i segnali emessi sono talmente deboli che non si possono notare. Ford in quel momento era sotto forte tensione, e il suo luogo di nascita, vicino a Betelgeuse, era lontano seicento anni luce. Il barista barcollò un attimo, colpito da quello scioccante e incomprensibile senso di distanza. Non capiva cosa significasse, ma guardò Ford Prefect con un senso di rispetto tutto nuovo, quasi una sorta di timore riverenziale.
– Dite sul serio, signore? – chiese in un lieve sussurro che ebbe l’effetto di imporre il silenzio nel pub. – Credete davvero che il mondo stia per finire?
– Sì – disse Ford.
– Ma proprio oggi pomeriggio?
Ford si era ormai ripreso e si sentiva al suo meglio. – Sì – disse allegramente. – Direi fra meno di due minuti. Il barista non poteva fare a meno di ritenere incredibile quella conversazione, ma riteneva incredibile anche la sensazione che aveva appena provato.
– E possiamo farci niente, allora? – disse. – No, niente – disse Ford, infilandosi in tasca i pacchetti di noccioline.
Tutt’a un tratto, nel bar divenuto silenzioso, qualcuno ruppe in una risataccia rauca che pareva fatta apposta per mettere in ridicolo tutti gli stupidi che se ne stavano in silenzio.

L’uomo seduto vicino a Ford era ormai ubriaco fradicio. Posò i
suoi occhi sbilenchi su Ford.
– Credevo – disse – che al momento della fine del mondo ci si dovesse sdraiare in terra, o infilare in testa un sacchetto di carta, o robe del genere.
– Oh, se vi va potete farlo – disse Ford. – Be’, questo è quanto mi hanno detto quando ero nell’esercito – disse l’uomo, e i suoi occhi ripercorsero la strada che da Ford portava al whisky.
– E serve? – chiese il barista.
– No – disse Ford, con un sorriso cordiale. – Scusatemi – aggiunse. – Devo andare. – E, salutando con la mano, uscì. Il pub rimase ancora un attimo immerso nel silenzio, poi l’uomo dalla risata rauca rise un’altra volta, nel generale imbarazzo. La ragazza che aveva rimorchiato fino al pub era arrivata, nel giro di un’ora, a provare un irrefrenabile disgusto per lui, e probabilmente sarebbe stata molto contenta di sapere che di lì a un minuto e mezzo l’abominevole tizio si sarebbe d’un tratto dissolto in una nube d’idrogeno, ozono e ossido di carbonio. Tuttavia, quando la cosa si fosse verificata, purtroppo lei sarebbe stata troppo occupata a dissolversi per poterla notare.
Il barista si schiarì la voce, e si ascoltò dire: – Fate le ultime ordinazioni, prego.
Le enormi macchine gialle cominciarono ad abbassarsi e a muoversi più in fretta.
Ford sapeva che erano là. Ma non era così che avrebbe voluto che andassero le cose.
Correndo per il viottolo, Arthur era arrivato quasi alla sua casa. Non notò come all’improvviso si fosse fatto freddo, non notò il terribile vento, né l’improvvisa, assurda raffica di pioggia. Non notò altro che i bulldozer cingolati che strisciavano sopra i detriti dove un tempo era stata la sua casa.
– Barbari! – strillò. – Farò causa al consiglio, e gli farò sborsare fino all’ultimo penny! Vi farò impiccare, squartare e sventrare! E frustare! E bollire finché… finché… finché non ne possiate più! Ford corse dietro ad Arthur. Corse più veloce che poté. – E poi rifarò tutta l’operazione un’altra volta! – strillò Arthur. – E quando avrò finito, prenderò tutti i pezzettini in cui vi avrò ridotto e ci salterò sopra!
Arthur non si accorse che gli uomini avevano abbandonato i bulldozer e stavano scappando, né si accorse che il signor Prosser

stava fissando con sguardo febbrile il cielo. Il signor Prosser si era
accorto che enormi affari gialli, che assurdi, impossibili affari gialli stavano rumoreggiando tra le nubi.
– E continuerò a saltare sopra i vostri pezzettini – continuò a urlare Arthur – finché non mi farò le vesciche ai piedi, e finché non mi verrà in mente qualcosa di peggio da farvi, e allora… Arthur inciampò, cadde a testa avanti, rotolò su se stesso e atterrò sulla schiena. Finalmente poté notare che stava succedendo qualcosa. Indicò il cielo con il dito.
– E quella che diavolo di roba è? – strillò. Qualunque cosa fosse, quella roba mostruosamente gialla che attraversava velocemente il cielo, lacerava l’aria con un rumore tremendo, e quando si allontanò scomparendo dalla vista, l’aria si richiuse alle sue spalle con un bang da polverizzare i timpani. Un altro mostro giallo seguì il primo, producendo ancora più baccano.
A questo punto sarebbe difficile dire cosa si misero a fare gli abitanti della Terra, perché loro stessi non si rendevano conto di quello che facevano. Ci fu chi corse dentro la propria casa, chi ne corse fuori, chi si mise a inveire poco rumorosamente contro tutto quel rumore.
In ogni parte del mondo le strade delle città si riempirono di gente e le automobili si scontrarono, sopraffatte dallo spaventoso rumore, che investì come una spaventosa onda di marea colline, valli, deserti e oceani.
Un solo uomo rimase in piedi impassibile a guardare il cielo, con una tremenda tristezza negli occhi e ottimi tappi di gomma nelle orecchie. Sapeva esattamente cosa stava succedendo, lo sapeva fin da quando il suo sub–Eta sensomatic aveva cominciato a lampeggiare nel cuore della notte, vicino al suo guanciale, svegliandolo di soprassalto. Per tanti anni aveva aspettato quel momento, ma quando, seduto tutto solo nella sua stanzetta buia, aveva decifrato il messaggio, un terribile gelo gli aveva stretto in una morsa il cuore. Di tutte le razza della Galassia che avevano la possibilità di passare a fare un saluto alla Terra, era mai possibile che dovesse farlo proprio la razza Vogon? Tuttavia, Ford sapeva cosa doveva fare. Quando il primo apparecchio vogon gli passò sopra la testa lacerando l’aria col suo rumore, Ford aprì la sua borsa. Buttò via una copia di Giuseppe e il suo stupefacente abito–sogno in technicolor, e buttò via una copia
dell’E–va’–in–cielo: non avrebbe avuto bisogno di nessuno dei due, nel posto dove stava per andare. Tutto era a posto, tutto era pronto. Ford sapeva dove aveva l’asciugamano!

La Terra fu colpita da un improvviso silenzio che, benché
sembrasse quasi impossibile, era ancor peggio del precedente rumore. Per un po’ non successe niente.
Le grandi astronavi restarono sospese in cielo, immobili. Nel cielo di ogni nazione della Terra. Immobili, enormi, massicce, solide, autentici affronti alla natura. Molte persone furono colte da shock quando cercarono di capire cosa fosse quello che stavano guardando. Perché quelle cose gialle sembravano enormi lastre, enormi mattoni. Ma i mattoni non stanno sospesi in cielo. Continuò a non succedere niente.
Poi ci fu un lieve sussurro, un improvviso, vasto sussurro che risonò dappertutto. Tutti gl’impianti ad alta fedeltà del mondo, tutte le radio, tutte le televisioni, tutti i registratori, tutti gli altoparlanti, tutti i radioconduttori di qualche tipo si accesero. Tutti i barattoli di latta, tutte le pattumiere, tutte le finestre, tutte le automobili, tutti i bicchieri di vino, tutte le lamiere di metallo arrugginito si attivarono formando una perfetta parete acustica. Alla Terra, prima che scomparisse, si voleva evidentemente offrire una dimostrazione delle ultime conquiste in fatto di riproduzione del suono: nel giro di un attimo, era stato approntato il più colossale sistema di altoparlanti che si fosse mai visto. Ma non fu trasmessa musica. Non furono trasmessi né concerti, né fanfare: solo un semplice messaggio.
Terrestri, prestate attenzione, prego – disse una voce, e l’effetto fu magnifico. Un suono perfetto, magnificamente quadrofonico, con livelli di distorsione così bassi, da far piangere di gioia anche l’uomo più tutto d’un pezzo.
Qui è il prostetnico vogon Jeltz dell’Ente Galattico Viabilità Iperspazio – continuò la voce. – Come indubbiamente già sapete, i
piani per lo sviluppo delle zone più remote della Galassia richiedono
la costruzione di un’autostrada iperspaziale che attraversi il vostro
sistema solare, e purtroppo il vostro pianeta è uno di quelli che è
necessario demolire. Il procedimento durerà poco meno di due dei
vostri minuti terrestri. Grazie.
Gli altoparlanti si spensero.
Terrore e sgomento s’impadronirono degli abitanti della Terra. Il terrore attanagliò la gente come una calamita il ferro. Panico e disperazione si diffusero a macchia d’olio, assieme allo spasmodico desiderio di fuggire. Ma non c’era nessun posto dove potersi rifugiare. Vedendo questo, i vogon accesero di nuovo gli altoparlanti. La voce disse:
Non ha senso che vi dimostriate sorpresi. Tutti i piani del progetto e gli ordini di demolizione erano disponibili al pubblico da

cinquanta dei vostri anni terrestri, nel locale Dipartimento Viabilità
di Alfa Centauri. Per cui avevate tutto il tempo per presentare gli
eventuali reclami. È troppo tardi, ora, per mettersi a protestare.
Gli altoparlanti si spensero di nuovo, e gli ultimi echi delle parole del vogon si dispersero. Le enormi astronavi ruotarono lentamente in cielo. Sotto ciascuna di esse si aprì un portello, e sulla gialla superficie liscia apparve un quadrato nero e vuoto. Qualcuno da qualche parte doveva avere acceso un radio– trasmettitore, individuato una lunghezza d’onda e trasmesso un messaggio di risposta alle astronavi vogon, per implorare pietà a nome di tutto il pianeta. Nessuno sentì tale messaggio, ma tutti sentirono la risposta dei vogon. Gli altoparlanti furono riattivati, e la solita voce, questa volta con tono seccato, disse:
– Come sarebbe a dire che non siete mai andati fino ad Alfa
Centauri? Perdio, terrestri, ma è a soli quattro anni luce da voi, no?
Mi dispiace, ma se non volete nemmeno prendervi la briga
d’interessarvi alle vostre questioni locali, peggio per voi.
Attivate i raggi di demolizione.
Dai portelli aperti si riversò fuori una luce. – Bah – disse la voce agli altoparlanti. – Maledetto pianeta di menefreghisti! Non mi fa nessuna compassione! – Gli altoparlanti
tacquero.
Ci fu un terribile, mortale silenzio.
Ci fu un terribile, mortale silenzio.
Ci fu un terribile, mortale silenzio.
La Flotta Costruzioni Stradali Vogon cominciò ad abbassarsi nel nero vuoto interstellare appena creatosi.

Molto lontano, sul limite opposto della spirale della Galassia, a cinquecentomila anni luce dalla stella Sol, Zaphod Beeblebrox, presidente del Governo Galattico Imperiale, solcava i mari di Damogran sulla sua deltabarca a propulsione ionica, che mandava bagliori nel sole di Damogran.
Damogran l’afoso, Damogran il remoto, Damogran il pressoché sconosciuto.
Damogran, patria segreta del Cuore d’Oro. La barca correva veloce sull’acqua. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo perché arrivasse a destinazione: Damogran infatti presenta qualche inconveniente. È costituito di isole deserte medio–grandi, separate da tratti molto belli, ma fastidiosamente ampi di oceano. A causa di queste difficoltà topografiche Damogran è sempre rimasto un pianeta disabitato. Ecco perché il Governo Galattico Imperiale l’aveva scelto per il progetto del Cuore d’Oro, perché Damogran era così deserto, e il progetto del Cuore d’Oro era così segreto…
La barca avanzava veloce sul mare che separava le principali isole dell’unico arcipelago abbastanza grande dell’intero pianeta. Zaphod Beeblebrox era partito dal minuscolo spazioporto dell’Isola di Pasqua (un nome che è una pura coincidenza: in lingua galattica pasqua significa piccola pianura e castano chiaro ) ed era diretto all’Isola del Cuore d’Oro, che, per un’altra insignificante coincidenza, era chiamata Francia.
Uno degli effetti collaterali del lavorare al Progetto del Cuore d’Oro era quello di imbattersi in una serie di coincidenze discretamente insulse.
Ma non era certo una coincidenza che quel giorno, il giorno culminante del progetto, il grande giorno in cui esso sarebbe stato svelato e in cui il Cuore d’Oro sarebbe stato finalmente presentato a una stupefatta Galassia, fosse anche il grande giorno di Zaphod Beeblebrox. Era pregustando questo giorno che lui aveva deciso a suo tempo di candidarsi alla presidenza, una decisione che aveva provocato un terremoto di stupore in tutta la Galassia Imperiale:

Zaphod Beeblebrox? Presidente? Non quello Zaphod Beeblebrox,
vero? Non il presidente? Molti avevano visto in questo la prova lampante di come per tutto il creato ormai serpeggiasse la pazzia. Zaphod sorrise e aumentò ulteriormente la velocità della barca. Zaphod Beeblebrox, avventuriero, ex–hippy, gran tempista (truffatore?, anche, sì), abilissimo nel farsi pubblicità, una frana nei rapporti umani, spesso pensava di avere avuto un unico scopo nella vita: non morire di fame.
Lui, presidente?
No, nessuno era impazzito: era giustissimo che fosse diventato presidente.
(Presidente, ovvero presidente a pieno titolo del Governo Galattico Imperiale.
Il termine imperiale è mantenuto ancora, benché sia ormai un anacronismo. L’imperatore, per diritto ereditario, è moribondo da molti secoli. Negli ultimi attimi di coma profondo fu chiuso in un campo di stasi che lo mantiene in uno stato di perpetua immutabilità. Tutti i suoi eredi sono morti da un pezzo: ciò significa che, senza nessuna drastica rivoluzione, il potere si è spostato di uno o due gradini verso il basso ed è conferito adesso a un organo che prima fungeva solo da consigliere dell’imperatore, cioè un’assemblea governativa eletta dal popolo e capeggiata da un presidente eletto dall’assemblea stessa. Questo solo all’apparenza, perché in realtà il potere non è affatto conferito né all’assemblea, né al presidente. Il presidente, in particolare, è soltanto un prestanome: non esercita in effetti il benché minimo potere. È, sì, scelto dal governo, ma le qualità che deve dimostrare di avere non sono quelle tipiche del leader: la sua fondamentale qualità è di sapere provocare scandali. Per questa ragione scegliere un presidente non è facile: bisogna poter scegliere una persona che sappia provocare il furore nella gente, ma che sia anche in grado di affascinarla. Il suo compito non è di esercitare il potere ma di stornare l’attenzione della gente dal potere stesso. In questo senso Zaphod Beeblebrox è uno dei migliori presidenti che la Galassia abbia mai avuto: ha già passato due dei dieci anni della presidenza in carcere per truffa. Sono davvero pochissime le persone che capiscono che il presidente e il governo non hanno praticamente nessun potere, e di queste pochissime persone soltanto sei sanno da che cosa sia esercitato in realtà il vero potere politico. La maggior parte degli altri pensano in cuor loro che tutte le decisioni fondamentali vengano prese da un computer. Non potrebbero commettere un errore più madornale.)
Solo sei persone, nell’intera Galassia, capivano il principio in base al quale la Galassia stessa era governata, e sapevano che era stato inevitabile che Zaphod Beeblebrox fosse eletto, una volta che aveva presentato la sua candidatura.
L’unica cosa che non capivano era perché Zaphod si fosse candidato alla presidenza.

Zaphod fece fare alla barca una curva secca sollevando così una
parete di spruzzi che si proiettarono verso il cielo. Finalmente era arrivato il giorno: quello infatti era il giorno in cui i sei avrebbero compreso che cosa Zaphod si fosse proposto. Era il giorno in cui sarebbe stato chiaro come mai Zaphod avesse scelto di fare il presidente. Era anche il giorno in cui lui compiva duecento anni: ma questa, come tante altre, non era che un’insignificante coincidenza.
Pilotando la barca attraverso i mari di Damogran, Zaphod sorrise tranquillo fra sé, pregustando la bellezza di quella che sarebbe stata una giornata memorabile. Si rilassò, e abbandonò pigramente le braccia sullo schienale del sedile. Tenne il timone con il braccio supplementare che si era fatto mettere di recente subito sotto il destro. – Ehi – si disse con grande autocompiacimento – sei davvero un tipo in gamba, sai? – Ma i suoi nervi erano più tesi della corda di una balestra.
L’Isola di Francia era lunga circa trentadue chilometri e larga otto, era sabbiosa e a forma di mezzaluna. In realtà, non sembrava tanto esistere come un’isola a sé stante, quanto in funzione dell’immensa curva della baia che formava. Questa impressione era confermata dal fatto che il profilo interno della mezzaluna era costituito quasi interamente da rupi ripidissime. Dalla cima delle rocce la terra declinava dolcemente per otto chilometri, fino a raggiungere la spiaggia opposta.
In cima alle rocce c’era una commissione che si preparava a ricevere Zaphod.
Era composta in gran parte dagli ingegneri e dai ricercatori che avevano costruito il Cuore d’Oro: erano per lo più umanoidi, ma qui e là c’erano alcuni atomineri rettiloidi, due o tre maximegagalatticisti verdi, tipo silfidi, un fisucchiuralista ottopode, e un hooloovoo (l’hooloovoo è una sfumatura super–intelligente del colore azzurro). Tutti, tranne l’hooloovoo, indossavano luccicanti camici da laboratorio di tutti i colori; per l'occasione, l'hooloovoo era stato temporaneamente rifratto in un prisma.
Tutti erano invasi da una tremenda eccitazione. Erano infatti riusciti a superare gli ultimi limiti delle leggi fisiche: avevano ristrutturato la fondamentale struttura della materia, avevano oltrepassato, violato, corretto le leggi della possibilità e dell’impossibilità. Ma l’eccitazione più grande derivava loro dal pensiero d’incontrare un uomo con una sciarpa arancione al collo (la sciarpa arancione era quello che per tradizione distingueva il presidente della Galassia dagli altri comuni mortali). Forse non avrebbe fatto alcuna differenza, per loro, se avessero saputo quanto

poco potere in realtà possedeva il presidente della Galassia. Solo sei
persone in tutta la galassia sapevano che il compito del presidente non era di esercitare il potere ma di allontanare l’attenzione della gente da esso.
Zaphod Beeblebrox svolgeva il suo compito con straordinaria abilità.
La commissione rimase a bocca aperta, abbagliata dal sole e dall’arte marinaresca del presidente, quando questi aggirò veloce il promontorio con la sua barca ed entrò nella baia. La barca splendeva e lampeggiava al sole, scivolando sull’acqua in ampie curve. In realtà, scivolava così elegantemente perché non toccava nemmeno l’acqua: era infatti sorretta da un lieve cuscinetto di atomi ionizzati. Solo per fare più effetto era fornita di sottili alette che potevano essere calate in acqua. Queste sferzavano il mare scagliando in aria sibilanti strati di spruzzi, e scavavano nell’acqua solchi profondi che creavano folli disegni di spuma dietro la poppa della barca.
A Zaphod piaceva fare effetto sulla gente: era, tra l’altro, la cosa che sapeva fare meglio.
Zaphod compì un’ultima curva particolarmente spettacolosa, che creò una grande falce bianca nell’acqua, poi spense il motore, portando la barca a riposare leggera sulle onde. Dopo pochi secondi uscì sul ponte e salutò con la mano, sorridendo, più di tre miliardi di persone. I tre miliardi di persone non erano lì, ma guardavano ogni suo gesto attraverso gli occhi della tri–D robocamera che si librò subito nell’aria vicino a lui. Gli spettatori tri– D amavano moltissimo le buffonate del presidente: del resto, il suo scopo era proprio di piacere.
Zaphod sorrise ancora. Tre miliardi di persone, assieme ad altre sei, non sapevano ancora nulla, ma presto avrebbero saputo. Presto avrebbero assistito alla più colossale buffonata che mai si potessero aspettare.
La tri–D robocamera zumò per ottenere un primo piano della testa più popolare di Zaphod, e Zaphod salutò ancora. Il presidente era grosso modo umanoide, a parte il braccio supplementare e una seconda testa. I suoi capelli biondi e arruffati erano dritti e andavano in tutte le direzioni; i suoi occhi azzurri brillavano esprimendo un qualcosa di assolutamente indefinibile, e i suoi due menti mostravano quasi sempre una barba incolta.
Un globo trasparente del diametro di circa sei metri arrivò vicino alla barca galleggiando sull’acqua e luccicando al vivido sole. Dentro di esso era sospeso un ampio divano rosso semicircolare, di pelle: più

il globo sobbalzava sull’acqua, più il divano restava immobile, fermo
come solida roccia. Anche questo faceva parte di tutta la messinscena. Zaphod attraversò la parete del globo e si accomodò sul sofà. Abbandonò le due braccia normali sullo schienale e col terzo braccio si tolse quel po’ di polvere che gli si era posata sulle ginocchia. Alzò i piedi e li poggiò sul divano, poi con le due teste si guardò intorno, tutto sorridente. Ma dentro continuava a essere teso. L’acqua ribolliva sotto la bolla, e a un certo punto proiettò un grande schizzo. La bolla fu sollevata dallo schizzo su, sempre più su. Lo spruzzo cresceva sempre, e la bolla saliva, mandando bagliori in direzione delle rocce. Dal getto d’acqua cadevano rivoli di gocce che ripiovevano in mare, decine e decine di metri più giù. Zaphod sorrise, pensando alla propria immagine in tri–D. Quella bolla era un mezzo di trasporto assolutamente ridicolo, ma anche assolutamente affascinante.
Arrivata in cima alla roccia, la sfera oscillò un attimo, imboccò una scala mobile fornita di ringhiera, scese lungo essa e arrivò a una piccola piattaforma concava, dove si fermò. Al suono di fragorosi applausi, Zaphod Beeblebrox uscì dalla sfera, con la sua sciarpa arancione che splendeva alla luce del sole. Il presidente della Galassia era arrivato! Aspettò che gli applausi cessassero, poi alzò la mano in segno di saluto.
– Salve! – disse.
Un rappresentante del governo, un tizio magro e allampanato, si avvicinò tutto curvo e sbilenco a Zaphod e gli allungò timoroso una copia del discorso che gli era stato preparato. Le pagine dalla tre alla sette dell’originale erano andate a finire in acqua, a circa otto chilometri dalla baia. Le pagine numero uno e numero due erano state arraffate da un’Aquila dalla Cresta di Fronda di Damogran, ed erano già entrate a far parte di una nuova forma di nido inventata dall’aquila. Il nido era fatto in gran parte di papier maché, ed era praticamente impossibile per l’aquilotto riuscire a fuggire da esso. L’Aquila dalla Cresta di Fronda di Damogran aveva sentito parlare del concetto di sopravvivenza della specie, ma non intendeva averci niente a che fare…
Zaphod Beeblebrox non aveva affatto bisogno di leggere il discorso, e quindi rifiutò gentilmente la copia offertagli dal tizio allampanato.
– Salve – disse ancora.
Tutti, o almeno quasi tutti, gli sorrisero radiosamente. Lui distinse tra la folla Trillian. Trillian era una ragazza che Zaphod aveva raccattato di recente, quando era andato a visitare un pianeta in

incognito, così per divertirsi. Trillian era scura, magra, umanoide, con
lunghi capelli neri ondulati, labbra piene, uno strano naso e ridicoli occhi neri. Aveva una sciarpa rossa legata in testa e un lungo abito scuro di seta: così acconciata ricordava un po’ un’araba. Non che nessuno, là, avesse mai sentito parlare degli arabi, naturalmente. Gli arabi avevano cessato da poco di esistere, e prima, quando esistevano ancora, si trovavano a cinquecentomila anni luce da Damogran. Trillian non rappresentava niente di particolare per Zaphod, o almeno lui così affermava. Semplicemente, andava spesso in giro con lui, e gli diceva chiaro e tondo cosa pensava di lui. – Salve, tesoro – le disse Zaphod.
Lei gli fece uno stretto sorriso, poi distolse lo sguardo. Dopo un attimo tornò a guardarlo e gli sorrise con un po’ più di calore, ma oramai lui stava guardando da un’altra parte. – Salve – disse Zaphod a un gruppetto di giornalisti che erano in piedi vicino a lui e che aspettavano che smettesse di dire “salve” e si decidesse a parlare di qualcosa di più interessante. Zaphod sorrise loro perché sapeva che di lì a poco li avrebbe accontentati, parlando della più favolosa delle cose.
La prima cosa che disse dopo “salve” non fu però di molta utilità ai giornalisti. Un qualche funzionario aveva deciso che il presidente chiaramente non era nello stato d’animo adatto a leggere il finissimo discorso che era stato preparato per lui, e aveva acceso l’interruttore del congegno di comando a distanza che aveva in tasca. Lontano, davanti ai presenti, l’enorme cupola bianca che si levava gonfia e sferica verso il cielo s’incrinò nel mezzo, e si spaccò in due. Tutti restarono a bocca aperta, anche se sapevano benissimo che la cupola si schiudeva così perché era stata costruita a quello scopo. Così aperta, la cupola rivelò un’enorme astronave lunga centocinquanta metri: era a forma di lucida scarpa da corsa, ed era bianchissima e straordinariamente bella. Nel cuore dell’astronave, non vista, c’era una scatolina d’oro che racchiudeva il congegno più inconcepibile che fosse mai stato pensato, un congegno che rendeva quell’astronave unica nella storia della Galassia, un congegno che aveva dato il nome all’astronave stessa: il Cuore d’Oro. – Wow! – disse Zaphod Beeblebrox. Non c’era molto altro da dire. – Wow! – ripeté, perché sapeva che la cosa avrebbe infastidito i giornalisti.
La gente si girò a guardarlo, in ansiosa attesa. Zaphod strizzò l’occhio a Trillian, che alzò le sopracciglia e sgranò gli occhi, fissandolo. Lei sapeva cosa stava per dire, e lo giudicava un tremendo esibizionista.

– È davvero stupefacente – disse Zaphod. – Quell’astronave è
veramente stupefacente. È tanto stupefacentemente stupefacente che credo mi piacerebbe rubarla!
Era una meravigliosa frase presidenziale perfettamente rispettosa della forma, che avrebbe potuto facilmente essere citata. La folla rise d’approvazione, i giornalisti tutti allegri premettero i tasti dei loro sub–Eta notiziomatic, e il presidente sorrise. Mentre sorrideva, Zaphod in cuor suo urlava di gioia, una gioia intollerabile: toccò la piccola bomba paralizzomatic che teneva in tasca, e finalmente poté fare esplodere tutta la sua allegria. Alzò le due teste al cielo, cacciò un magnifico urlo in do diesis, buttò la bomba al suolo e corse avanti, in mezzo al mare di facce dai sorrisi improvvisamente congelati.

Il prostetnico vogon Jeltz non era piacevole a vedersi nemmeno per gli altri vogon. Il suo nasone a volta saliva alto sopra la piccola fronte da porcello. La sua pelle verde scuro, gommosa, era abbastanza spessa da permettergli di giocare bene al gioco della politica del Servizio Civile Vogon, ed era abbastanza impermeabile da permettergli di sopravvivere tranquillamente, senza effetti collaterali, a profondità sottomarine di trecento metri.
Non che lui andasse mai a nuotare, beninteso. Era sempre troppo occupato per farlo. Il suo aspetto era quello che era perché miliardi di anni prima, quando i vogon per la prima volta erano usciti strisciando dai pigri mari primordiali di Vogsfera ed erano approdati ansimanti sulle rive vergini del pianeta, quando i primi raggi del giovane brillante Vogsole li aveva investiti col suo splendore, era successo che le forze dell’evoluzione avevano rinunciato a occuparsi di loro: si erano come tirate in disparte, disgustate, e li avevano esclusi dal loro elenco, considerandoli un orrido e increscioso errore. Così, i vogon non avevano più potuto evolversi: non sarebbero mai dovuti sopravvivere.
Il fatto che siano sopravvissuti è una specie di omaggio all’ottusa forza di volontà–ostinazione di queste creature. Evoluzione? si dissero. E chi ne ha bisogno? E così fecero semplicemente a meno di quello che la natura aveva rifiutato loro, finché non arrivò il momento in cui furono in grado di correggere i più grossolani inconvenienti anatomici con la chirurgia.
Nel frattempo le forze della natura, sul pianeta Vogsfera, avevano fatto dello straordinario per compensare quell’errore marchiano. Diedero origine a una specie di granchi dalla corazza scintillante tempestata di gemme, granchi che i vogon mangiavano dopo averli schiacciati con mazze di ferro, fecero crescere alberi sottilissimi dai magnifici colori, che i vogon abbattevano per fare i fuochi con i quali cuocere la carne di granchio, e infine diedero origine a delle eleganti creature simili a gazzelle, dalla pelliccia morbidissima e dagli occhi di rugiada, che i vogon catturavano e cavalcavano. In realtà, erano

creature poco adatte al trasporto, perché le loro schiene si spezzavano
con gran facilità, ma i vogon le cavalcavano lo stesso. Così su Vogsfera passarono piacevolmente i millenni, finché i vogon d’un tratto non scoprirono i principi del viaggio interstellare. Nel giro di pochi voganni, tutti i vogon emigrarono nel sistema di Megabrantis, il fulcro politico della Galassia; e adesso erano la spina dorsale immensamente potente del Servizio Civile Galattico. Hanno cercato di istruirsi, di acquistare stile e savoir–faire, ma sotto molti aspetti sono ben poco diversi dai loro antichi progenitori, Ogni anno importano ventisettemila granchi scintillanti dal loro pianeta d’origine, e si divertono a passare notti d’ubriachezza facendoli a pezzi con mazze ferrate.
Il prostetnico vogon Jeltz era un vogon abbastanza tipico in quanto era assolutamente volgare. Inoltre, non gli piacevano affatto gli autostoppisti.
Da qualche parte, in una piccola cabina buia sepolta nel cuore dell’ammiraglia del prostetnico Jeltz, qualcuno accese un fiammifero. Questo qualcuno non era un vogon, ma sapeva tutto dei vogon, ragione per cui si sentiva molto nervoso. Questo qualcuno era Ford Prefect.
Il vero nome di Ford Prefect può essere pronunciato solo in un oscuro dialetto di Betelgeuse, un dialetto in pratica estinto dall’epoca del Grande Disastro Hrung dell’Anno /Sid./Gal. 03758, che cancellò tutte le vecchie comunità prassibeteliche di Betelgeuse Sette. Il padre di Ford fu l’unico uomo in tutto il pianeta a sopravvivere al Grande Disastro Hrung: una coincidenza straordinaria, che lui non fu mai in grado di spiegare soddisfacentemente. L’intero episodio è avvolto nel più fitto mistero: in realtà, nessuno è mai riuscito a sapere cosa fossero i hrung, né perché avessero scelto di andare a crepare su Betelgeuse Sette in particolare. Il padre di Ford, allontanando magnanimamente da sé il velo di sospetti che inevitabilmente gli si era creato intorno, andò a stabilirsi su Betelgeuse Cinque, dove fu sia padre, sia zio di Ford: in ricordo della sua antica e ormai estinta razza battezzò il bambino nell’antica lingua prassibetelica. Poiché Ford non imparò mai a pronunciare il suo nome vero, suo padre alla fine morì di vergogna (quest’ultima è ancora una malattia mortale, in certe parti della Galassia). I compagni di scuola di Ford lo soprannominarono Ix, che nella lingua di Betelgeuse Cinque significa “ragazzo che non è capace di spiegare in modo soddisfacente cosa sia un hrung, né perché un hrung debba scegliere di andare a crepare su Betelgeuse Sette”.
Ford Prefect si guardò intorno nella cabina, ma riuscì a vedere molto poco: alla tremolante luce della fiammella, le ombre apparivano strane e mostruose, ma tutto era tranquillo. Ford sussurrò un silenzioso

grazie al dentrassi. I dentrassi sono un’indisciplinata tribù di
buongustai, gente tutta matta ma simpatica: i vogon li avevano di recente assunti sulle loro flotte, affidando loro il compito dell’approvvigionamento dei viveri. Li avevano assunti a patto che si tenessero in disparte, per conto loro.
La cosa andava del tutto a genio ai dentrassi, i quali amavano il denaro dei vogon (la loro è una delle monete più forti della galassia), ma detestavano i vogon come persone. Se potevano, non perdevano occasione di fare loro dei dispetti.
Proprio perché Ford Prefect sapeva questo era riuscito a evitare di diventare una nube di idrogeno, ozono e ossido di carbonio. Sentì un lieve gemito. Alla luce del fiammifero vide un’ombra muoversi sul pavimento. Spense subito il fiammifero, si frugò in tasca, ne tirò fuori un oggetto e lo aprì. Si accucciò sul pavimento. L’ombra si mosse di nuovo.
Ford Prefect tolse dall’oggetto appena aperto il suo contenuto e disse: – Ho comprato delle noccioline.
Arthur Dent continuò a muoversi (l’ombra era infatti la sua), si lamentò ancora, e balbettò qualcosa d’incomprensibile. – Su, prendine un po’ – lo invitò Ford, tirando fuori altre arachidi dal pacchetto. – Se non ti è mai capitato prima d’ora di trovarti in mezzo a un raggio–trasmettitore di materia, probabilmente adesso ti mancheranno un po’ di sali e di proteine. La birra che hai bevuto dovrebbe però avere fatto abbastanza da cuscinetto. – Whhhrrr… – disse Arthur Dent, e aprì gli occhi. – È buio – disse. – Sì – disse Ford Prefect – è buio.
– Niente luce – disse Arthur Dent. – Buio, niente luce! Una delle cose che Ford Prefect aveva sempre trovato difficile comprendere a proposito degli umani, era che questi avevano il vizio di affermare e ripetere cose assolutamente ovvie, come risultava evidente da frasi quali Che bella giornata! o Come sei alto! o Oddio, mi sembra che tu sia caduto in un pozzo profondo nove metri: ti sei
fatto male? In un primo tempo Ford si era fatto una sua teoria per
spiegare questo strano comportamento. Aveva pensato che le bocche degli esseri umani dovessero continuamente esercitarsi a parlare per evitare di rimanere inceppate. Dopo avere osservato e riflettuto alcuni mesi, Ford aveva abbandonato questa teoria per un’altra. Aveva pensato che se gli esseri umani non si esercitavano in continuazione ad aprire e chiudere la bocca, corressero il rischio di cominciare a far lavorare il cervello. Dopo un po’ aveva abbandonato anche questa teoria, considerandola eccessivamente cinica, e aveva deciso che in fondo gli esseri umani gli piacevano molto, anche se non poteva mai

fare a meno di preoccuparsi e disperarsi davanti alla terribile quantità
di lacune che le loro conoscenze presentavano. – Sì – disse Ford, assecondando Arthur – niente luce. – Offrì all’amico un po’ di noccioline. – Come ti senti? – gli chiese. – Come un’accademia militare alla cerimonia del congedo dei cadetti promossi – disse Arthur. – Sento dei pezzetti di me stesso che continuano a venire congedati.
Ford lo fissò alla cieca, nel buio.
– Se ti chiedessi dove diavolo siamo – disse Arthur con voce fioca – potrei poi pentirmene?
Ford si alzò. – Siamo in salvo – disse.
– Oh, bene! – disse Arthur.
– Siamo in una piccola cambusa – disse Ford – in una delle astronavi della Flotta Costruzioni Stradali Vogon. – Ah! – disse Arthur. – Questo è un modo di usare l’espressione in salvo che ancora non conoscevo.
Ford accese un altro fiammifero per cercare l’interruttore della luce. Di nuovo apparvero strane ombre mostruose. Arthur si alzò in piedi barcollando e si guardò intorno timoroso. Orribili forme aliene sembravano accalcarsi intorno a lui: l’aria era greve di odori ignoti e sgradevoli, che gli entravano nei polmoni, e un basso ronzio costante, estremamente irritante, gli impediva di concentrarsi col cervello. – Come siamo finiti qui? – chiese, rabbrividendo. – Abbiamo fatto l’autostop e ci hanno dato un passaggio – disse Ford.
– Cosa? – disse Arthur. – Non vorrai mica dirmi che abbiamo tirato fuori i nostri pollici e un mostro verde dagli occhi d’insetto è sbucato fuori a dirci Ehi, amici, saltate a bordo, posso portarvi fino al luna park di Basingstoke?!
– Be’ – disse Ford – il Pollice è un congegno elettronico che manda segnali sub–Eta, e il luna park è sulla Stella di Barnard, sei anni luce lontano, ma a parte questo, sì, praticamente le cose sono andate così.
– E il mostro dagli occhi d’insetto?
– È verde, sì.
– Bene – disse Arthur. – Io quando posso tornare a casa? – Non puoi – disse Ford Prefect, e trovò finalmente l’interruttore della luce. – Fatti schermo con la mano – disse, e l’accese. Perfino Ford si meravigliò, guardando la cabina. – Madonna! – disse Arthur. – Ma è proprio l’interno di un disco volante?

Il prostetnico vogon Jeltz si alzò e sollevò il suo disgustoso
corpaccio verde, lì sul ponte di comando. Sentiva sempre una vaga irritazione dopo avere demolito dei pianeti abitati. Sperava che arrivasse qualcuno a dirgli che tutto andava male, così da potere sfogare i suoi nervi su di lui. Si lasciò cadere pesantemente nel posto di comando, nella speranza che il sedile si rompesse dandogli così un motivo vero per essere arrabbiato. Ma il sedile emise solo un lamentoso scricchiolio.
– Sparisci! – urlò Jeltz alla giovane guardia vogon che era comparsa sul ponte. La guardia obbedì subito, e si sentì molto sollevata. Era contenta che toccasse così a qualcun altro riferire la notizia che era appena stata appresa. La notizia era ufficiale, e diceva che in quel momento, in una base di ricerca del governo situata sul pianeta Damogran, era appena stata resa nota l’esistenza di una nuova, meravigliosa forma di propulsione per le astronavi, propulsione che avrebbe d’ora in avanti reso perfettamente inutili tutte le autostrade iperspaziali.
Si aprì un’altra porta, ma stavolta il comandante vogon non urlò, perché la porta era quella della cambusa, dove i dentrassi preparavano da mangiare. Un buon pasto, pensò Jeltz, sarebbe stato davvero il benvenuto.
Un’enorme creatura pelosa uscì dalla cambusa portando il vassoio del pranzo. Aveva un ghigno da folle dipinto sul viso. Il prostetnico vogon Jeltz ne fu deliziato. Sapeva che quando un dentrassi ghignava di autocompiacimento c’era sempre qualcosa di losco in atto sull’astronave. Qualcosa capace di fare arrabbiare sul serio un comandante vogon.
Ford e Arthur si guardarono intorno.
– Be’, cosa ne pensi? – disse Ford.
– È un po’ squallido, no?
Ford aggrottò la fronte guardando i materassi sporchi, le tazze non lavate e i vari pezzi non riconoscibili di biancheria intima aliena (puzzolente) che giacevano sparsi nella piccola cabina. – Be’, questa non è una nave da crociera, sai – disse Ford. – Qui siamo negli alloggi dei dentrassi.
– Credevo avessi detto che si chiamavano vogon, o qualcosa del genere.
– Sì – disse Ford – i vogon governano la nave, ma i dentrassi, che sono i cuochi di bordo, sono quelli che ci hanno fatto salire. – Devo dire che sono un po’ perplesso – disse Arthur. – Su, da’ un’occhiata a questo – disse Ford. Si sedette su un materasso e frugò nella propria borsa. Arthur saggiò nervosamente il

materasso con le mani, poi vi si sedette sopra anche lui: in realtà, non
aveva alcuna ragione di essere nervoso, perché tutti i materassi cresciuti nelle paludi di Skifguscioso Zeta vengono uccisi ed essiccati prima di essere usati. Sono davvero pochissimi quelli che quando meno si pensava sono tornati in vita.
Ford porse un libro ad Arthur.
– Cos’è? – chiese Arthur.
– La Guida Galattica per gli Autostoppisti. È una specie di libro elettronico. Ti dice tutto quello che hai bisogno di sapere di qualsiasi cosa. È fatto proprio per questo scopo.
Arthur se lo rigirò nervosamente tra le mani. – Mi piace la copertina – disse. – Non fatevi prendere dal panico. È la prima cosa utile, o almeno intelligibile, che mi sia stata detta da stamattina in poi.
– Ti mostro come funziona – disse Ford. Prese il libro dalle mani di Arthur, che lo teneva come un uccellino morto da due settimane, e gli tolse la copertina–involucro.
– Vedi, devi premere questo bottone qui, e lo schermo s’illumina, fornendoti l’indice.
Lo schermo di sette centimetri per dieci s’illuminò e l’indice cominciò a scorrervi sopra.
– Vuoi sapere qualcosa sui vogon, vero? Allora basta comporre il loro nome, così. – Ford batté alcuni tasti. – Ecco qua. Sullo schermo apparvero in caratteri verdi le parole Flotte Costruzioni Stradali Vogon.
Ford premette un grosso bottone rosso sotto lo schermo, e su questo cominciarono a scorrere le parole. Nello stesso tempo, il libro cominciò a parlare, dicendo le cose che apparivano registrate sullo schermo. Ovvero, con voce pacata e cadenzata, disse: Flotte Costruzioni Stradali Vogon. Cosa dovete fare per chiedere
un passaggio a un vogon? Niente: scordatevene. I vogon sono una
delle razze più antipatiche della Galassia: non sono proprio cattivi,
ma hanno un caratteraccio, e poi sono dei burocrati, degli invadenti e
degli insensibili. Non alzerebbero un dito nemmeno per salvare la
loro nonna dalla Vorace Bestia Bugblatta di Traal, se non avessero
ricevuto l’ordine firmato in triplice copia, non lo avessero spedito e
rispedito a cento chi di dovere, e non lo avessero timbrato, vagliato,
sottoposto a minuziosa approvazione. (Un ordine per lo più destinato,
alla fine, a essere perso e a essere riciclato come combustibile.)
Il modo migliore per farsi offrire un drink da un vogon è di
ficcargli un dito giù in gola, e il modo migliore per irritarlo è di dare
da mangiare sua nonna alla Vorace Bestia Bugblatta di Traal.

Non permettete a un vogon, per nessuna ragione al mondo, di
leggervi le sue poesie.
Arthur strizzò gli occhi.
– Che strano libro! – disse. – Allora come siamo riusciti ad avere un passaggio?
– È questo il punto – disse Ford. – Il libro non è aggiornato. – Rinfilò la Guida nel suo involucro di plastica. – Io sto appunto facendo ricerche in loco per la Nuova Edizione Riveduta e Aggiornata. Tra l’altro devo includere anche qualche notizia a proposito della nuova abitudine dei vogon di assumere cuochi dentrassi. Un’abitudine che dà a noi stoppisti un’utile via di scampo. Arthur, con aria afflitta, disse: – Ma chi sono questi dentrassi? – Tipi in gamba – disse Ford. – Sono i migliori cuochi e i migliori barman che esistano, fanno il loro lavoro e non rompono le scatole a nessuno. E aiutano sempre gli stoppisti a salire a bordo, in parte perché amano la compagnia, ma soprattutto perché sanno di fare così un dispetto ai vogon. E questa è proprio il tipo di cosa che un povero stoppista che voglia vedere le meraviglie dell’Universo spendendo meno di trenta dollari altairiani al giorno deve assolutamente sapere. E far sì che lo sappia è il mio lavoro. Divertente, non trovi? Arthur aveva un’aria sperduta.
– Sorprendente – disse, e corrugò la fronte, fissando uno dei materassi sparsi sul pavimento.
– Purtroppo sono rimasto infognato sulla Terra per molto più tempo di quanto intendessi – disse Ford. – Dovevo starci una settimana, e invece sono rimasto infognato lì quindici anni. – Ma come ci sei arrivato?
– Oh, semplice, ho chiesto un passaggio a un rompi. – Un rompi?
– Sì.
– Ma, cos’è un…
– Un rompi? I rompi sono ragazzi ricchi che non hanno niente da fare. Vanno in giro a cercare pianeti che non abbiano ancora avuto contatti interstellari, e li irronziscono. – Irronziscono? – Ad Arthur ormai pareva che Ford si divertisse a rendergli la vita difficile.
– Sì – disse Ford. – Li irronziscono. Trovano un posto isolato frequentato da pochissima gente, atterrano accanto a qualche anima semplice cui nessuno sarà mai disposto a prestar fede, e poi cominciano a pavoneggiarsi davanti alla poveretta esibendo sciocche antenne in testa e facendo rumori, ronzii, “bip bip” vari. Sono proprio molto infantili. – Ford si sdraiò sul materasso e portò le mani dietro la testa: appariva estremamente soddisfatto di sé.

– Ford – disse Arthur – non so se possa sembrarti una domanda
sciocca, ma cosa ci faccio io qui?
– Ma come – disse Ford – ti ho salvato la vita! – E la Terra?
– Be’, la Terra è stata demolita, no?
– Ah, sì – disse Arthur.
– Sì. Si è dissolta nello spazio.
– Sai – disse Arthur – la cosa mi sconvolge un pochino. Ford aggrottò la fronte, come meditando fra sé la considerazione appena fatta da Arthur.
– Sì, lo posso capire – disse alla fine. – Lo puoi capire! – urlò Arthur. – Tu lo puoi capire! Ford scattò in piedi.
– Continua a guardare il libro! – sibilò. – Cosa?
Non farti prendere dal panico!
– Non mi sto facendo prendere dal panico! – Sì invece!
– E va bene, mi sto facendo prendere dal panico! Cos’altro dovrei fare?
– Venire in giro con me per la Galassia e divertirti. Ci si diverte, sai, nella Galassia. Adesso bisogna che ti metta questo pesce nell’orecchio.
– Come hai detto, scusa? – disse Arthur, più gentilmente che poté. Ford aveva in mano un vasetto di vetro nel quale si dimenava un pesciolino giallo. Arthur lo guardò, e sbatté le palpebre. Ci fosse stato almeno qualcosa di immediatamente comprensibile, lì intorno! Si sarebbe sentito molto più al sicuro se insieme alla biancheria intima dei dentrassi, alle pile di materassi Schifgusciosi, all’uomo di Betelgeuse che gli offriva un pesciolino da infilare nell’orecchio, ci fosse stato solo un piccolo pacchetto di fiocchi di granturco. Ma non c’era, e così lui non si sentiva al sicuro. D’un tratto ci fu un rumore violento di cui Arthur non riuscì a capire la provenienza. Arthur boccheggiò, terrorizzato: il rumore faceva pensare a un uomo che cercasse di fare gargarismi mentre tentava di respingere un branco di lupi. – Zitto! – disse Ford. – Ascolta, forse è importante! – Im… importante?
– Non senti? È il comandante vogon che sta facendo un annuncio all’altoparlante.
– Vuoi dire che quest’orribile rumore è la lingua vogon?! – Zitto, ascolta!
– Ma non conosco il vogon!

– Non hai bisogno di conoscerlo. Basta che ti metta il pesce
nell’orecchio.
Con movimento fulmineo, Ford sbatté una mano sull’orecchio di Arthur: Arthur, con disappunto, sentì il pesce scivolargli a fondo nel condotto uditivo. Ancora una volta boccheggiò, disgustato, e si portò, anche se inutilmente, la mano all’orecchio. Ma dopo qualche secondo, strabuzzò gli occhi dallo stupore, Sperimentò l’equivalente uditivo del guardare l’immagine di due profili in nero, e scoprire d’un tratto che delimitano i contorni di un’altra immagine, quella di un candeliere bianco. O l’equivalente del guardare vari punti colorati su un pezzo di carta e scoprire poi d’un tratto che formano il numero sei (e che il nostro ottico si prepara a farci sborsare un mucchio di quattrini per l’acquisto di un nuovo paio d’occhiali). Arthur, ne era conscio, sentiva ancora i gargarismi–ululati, solo che, in un modo o nell’altro, questi avevano assunto le caratteristiche dell’inglese corrente.
E udì le seguenti parole…

Ululato ululato gargarismo ululato gargarismo ululato ululato ululato gargarismo ululato gargarismo ululato ululato gargarismo
gargarismo ululato gargarismo gargarismo gargarismo ululato slurrp
uuuurgh debbano divertirsi. Ripeto il messaggio. È il vostro
comandante che vi parla, perciò, qualunque cosa stiate facendo, smettete di farla e ascoltate. In primo luogo, vedo dagli strumenti di bordo che sull’astronave ci sono due stoppisti. Dovunque siate, stoppisti, salve. Desidero solo mettere subito in chiaro una cosa: che non siete affatto i benvenuti. Ho fatto di tutto per arrivare ad essere quello che sono, e non sono diventato comandante di una nave costruzioni stradali vogon per vederla trasformata in taxi al servizio di un mucchio di scrocconi degenerati. Ho già spedito una squadra a cercarvi: appena vi troveranno, vi farò buttare fuori dall’astronave. Forse, se vi capiterà quest’enorme fortuna, avrete l’onore di ascoltare prima alcune delle mie poesie.
– In secondo luogo, stiamo per balzare nell’iperspazio in vista del viaggio fino alla Stella di Barnard. Al nostro arrivo resteremo in porto per riparazioni che verranno eseguite in circa settantadue ore: durante questo tempo nessuno dovrà lasciare la nave. Ripeto, le libere uscite sul pianeta sono state cancellate. Io ho appena vissuto un’infelice storia d’amore, e dunque non vedo perché gli altri debbano divertirsi. Fine del messaggio.
Il rumore cessò.
Arthur si accorse con imbarazzo di essere raggomitolato sul materasso in posizione fetale, con le braccia strette intorno alla testa. Abbozzò un sorriso.
– Che uomo affascinante! – disse. – Vorrei avere una figlia per poterle proibire di sposare un vogon…
– Non ti capiterebbe mai di doverlo fare – disse Ford. – Il sex– appeal di un vogon è uguale a quello di un incidente stradale. No, non muoverti – aggiunse Ford, vedendo che Arthur si accingeva a stendere le membra. – Sarà meglio che ti prepari al salto nell’iperspazio. La sensazione che si prova è spiacevolmente simile all’essere ubriachi.

– Cosa c’è di così spiacevole nell’essere ubriachi?
– Chiedilo a un bicchier d’acqua.
Arthur meditò su questa considerazione.
– Ford – disse.
– Sì?
– Cosa ci fa quel pesce nel mio orecchio? – Fa l’interprete. È un pesce Babele. Se vuoi, puoi consultare il libro.
Gli gettò la Guida Galattica per gli Autostoppisti e si raggomitolò in posizione fetale, preparandosi al salto. In quella, ad Arthur partì il sedere per la tangente attraversando il cervello, gli occhi gli si rovesciarono, e i piedi gli penetrarono fino al cocuzzolo.
La stanza intorno si appiattì completamente, si mise a girare vorticosamente, scomparve, e lui si ritrovò quasi infilato nel suo stesso ombelico.
Stavano passando attraverso l’iperspazio. – Il pesce Babele – disse con la sua voce pacata la Guida Galattica – è piccolo, giallo, simile a una sanguisuga, ed è probabilmente la
cosa più strana dell’Universo. Si nutre dell’energia delle onde
cerebrali, ma non delle onde cerebrali della persona nella quale si
trova, ma di quelle delle persone che le si trovano intorno. Assorbe
tutte le frequenze mentali inconsce di tale energia, e si alimenta così.
Quindi il pesce Babele, defecando nella mente della persona che lo
ospita, espelle una matrice telepatica formata dalla combinazione
delle frequenze del pensiero conscio e dei segnali nervosi raccolti dai
centri del linguaggio del cervello che le ha fornite. Il risultato pratico
di tutto questo è che se vi ficcate un pesce Babele in un orecchio,
immediatamente capirete qualsiasi cosa vi si dica in qualsivoglia
lingua. La struttura del linguaggio che ascoltate viene decifrata
attraverso la matrice dell’onda cerebrale che è stata immessa nella
vostra mente dal pesce Babele.
Ora, è così bizzarramente improbabile che una cosa
straordinariamente utile come il pesce Babele si sia evoluta per puro
caso, che alcuni pensatori sono arrivati a vedere in ciò la prova finale
e lampante della non–esistenza di Dio.
Le loro argomentazioni seguono pressappoco questo schema: – Mi
rifiuto di dimostrare che esisto – dice Dio – perché la dimostrazione è
una negazione della fede, e senza la fede io non sono niente.
– Ma – dice l’Uomo – il pesce Babele è una chiara dimostrazione
involontaria della Tua esistenza, no? Non avrebbe mai potuto
evolversi per puro caso. Esso dimostra che Tu esisti, e dunque, grazie
a questa dimostrazione, Tu, per via di quanto Tu stesso asserisci a

proposito delle dimostrazioni, non esisti. Q.E.D., Quod Erat
Demonstrandum.
– Povero me! – dice Dio. – Non ci avevo pensato! – e sparisce
immediatamente in una nuvoletta di logica.
– Oh, com’è stato facile! – dice l’Uomo, e, per fare il bis, passa a
dimostrare che il nero è bianco, per poi finire ucciso sul primo
attraversamento pedonale che successivamente incontra.
La maggior parte dei teologi più stimati affermano che tali
argomentazioni sono questioni di lana caprina, ma questo non ha
impedito a Oolon Colluphid di farsi una piccola fortuna usandole
come leit–motiv del suo best–seller “Cucù! Be’, dov’è andato a finire
Dio?”.
Nel frattempo, il povero pesce Babele, avendo eliminato le
barriere che impedivano alle varie razze e civiltà di comunicare tra
loro, ha provocato più guerre sanguinose di qualsiasi altra cosa nella
storia della creazione.
Arthur emise un lieve gemito. Con orrore si stava accorgendo che il salto nell’iperspazio non l’aveva affatto ucciso. E così, adesso, era costretto a realizzare la gravità della situazione: si trovava a sei anni luce dal posto che sarebbe stato la Terra se la Terra non si fosse disintegrata.
La Terra.
Nella sua mente nauseata, cominciarono a scorrere immagini struggenti. No, Arthur non poteva reggere a quell’idea: la sua mente si rifiutava di ospitare un’idea così mostruosa. La Terra… La rifiutava tanto quell’idea, che in effetti Arthur non riusciva a sentire niente. Provò a stimolare i propri sentimenti pensando ai genitori e alla sorella morti. Nessuna reazione. Pensò a tutta le gente che gli era stata vicina. Nessuna reazione. Allora pensò a un tizio a lui completamente sconosciuto, cui si era trovato dietro nella fila per la cassa, al supermarket, due giorni prima. E di colpo sentì una fitta: il supermarket era scomparso, tutti quelli che c’erano dentro erano scomparsi! La statua di Nelson era scomparsa! La statua di Nelson era scomparsa, e nessuno avrebbe potuto protestare, perché non c’era più nessuno da nessuna parte! D’ora in avanti, la statua di Nelson sarebbe esistita solo nella mente di Arthur. L’Inghilterra sarebbe esistita adesso solo nella sua mente, in quella sua mente infognata in un’umida astronave puzzolente rivestita d’acciaio. Arthur si sentì invadere da un senso di claustrofobia.
L’Inghilterra non esisteva più. Be’, ormai bene o male aveva accettato quest’idea. Provò con qualcos’altro. L’America: l’America, pensò, era scomparsa. Non riuscì a reggere a un’idea così vasta. Provò allora con qualcosa di più piccolo. New York era scomparsa. Nessuna

reazione. In ogni caso, non aveva mai creduto veramente che New
York esistesse. Il dollaro, pensò, è colato a picco per l’eternità. Provò un lieve tremore. Tutti i film di Humphrey Bogart erano stati cancellati dalla faccia dell’Universo, si disse. Questa volta lo shock fu forte. Pensò alla catena di ristoranti McDonald. Non ci sarebbe stata mai più una cosa come l’hamburger dei McDonald. Arthur svenne. Quando rinvenne, un secondo dopo, scoppiò a piangere pensando a sua madre.
– Ford!
Ford, che era seduto in un angolo e stava canticchiando fra sé, alzò lo sguardo. Trovava sempre abbastanza faticoso il vero e proprio attraversamento–dello–spazio.
– Sì? – disse.
– Se sei uno che ricerca materiale per quello strano libro, visto che sei stato sulla Terra immagino che avrai raccolto un po’ di notizie su essa, no?
– Be’, sì, sono riuscito ad ampliare un pochino la precedente registrazione.
– Fammi vedere cosa dice il libro. Ho bisogno di sapere. – Sì. D’accordo – disse Ford e passò ad Arthur la Guida. Arthur l’afferrò e cercò di frenare il tremore che aveva alle mani. Premette il bottone per chiedere la pagina che lo interessava. Lo schermo s’illuminò, i dati scorsero, poi si fermarono su una pagina. Arthur guardò quello che vi era stampato. – Non è registrata! – urlò.
Ford si girò appena, e guardò.
– Ma sì – disse. – Guarda laggiù, in basso sullo schermo, subito sotto Eccentrica Gallumbits, la prostituta dai tre seni di Eroticon 6. Arthur seguì la direzione indicata dal dito di Ford e vide il punto. Per un attimo lesse senza pensare al significato di ciò che leggeva, poi, subito dopo, s’infuriò.
– Cosa?! Innocua? È tutto quello che il maledetto libro ha da dire? Innocua! Una sola parola!
Ford alzò le spalle.
– Sai, ci sono cento miliardi di stelle nella Galassia, e lo spazio del libro elettronico è limitato – disse. – E poi naturalmente non c’era nessuno che sapesse molto sulla Terra.
– Per fortuna tu ci sei stato parecchio, sul mio pianeta. Immagino che tu sia riuscito a correggere abbastanza le carenze. – Oh, sì, sono riuscito a trasmettere al curatore una nuova registrazione. Lui ha dovuto fare qualche taglio, ma è sempre un miglioramento.
– E adesso cosa dirà il libro? – disse Arthur.

Fondamentalmente innocua – disse Ford, tossicchiando
imbarazzato.
Fondamentalmente innocua?! – urlò Arthur. Cos’è questo rumore? – sibilò Ford.
– Sono io che urlo! – urlò Arthur.
– No, zitto! – disse Ford. – Credo che siamo nei guai. – Ah, tu pensi che siamo nei guai!
Fuori della porta si sentivano chiaramente dei passi pesanti. – I dentrassi? – sussurrò Arthur.
– No, questi sono stivali dalla punta d’acciaio – disse Ford. Si sentì bussare con prepotenza alla porta. – E allora chi è? – disse Arthur
– Be’ – disse Ford – se siamo fortunati sono solo i vogon che vengono a prenderci per buttarci nello spazio. – E se siamo sfortunati?
– Se siamo sfortunati – disse cupo Ford – il comandante potrebbe avere fatto le sue minacce seriamente, e avere intenzione di leggerci prima qualcuna delle sue poesie…

Nell’elenco del peggior tipo di poesie dell'Universo, la poesia vogon occupa, com'è noto, il terzo posto. Il secondo posto ce l'hanno gli azgoth di Kria. Durante una recita del loro Poeta Laureato Gruntos il Flatulento (recitava la poesia Ode a un pezzetto di mastice verde che mi sono trovato sotto un'ascella un mattino di piena estate) quattro
spettatori morirono di emorragia interna, mentre il presidente dell'Ente Centro–galattico Arti Nocive per riuscire a sopravvivere si staccò con un morso una gamba. A quanto si dice, Gruntos rimase deluso dell'accoglienza data alla sua poesia, e decise d'imbarcarsi nella lettura pubblica del suo poema epico in dodici volumi intitolato Le mie bolle preferite con la bocca quando sono in bagno nella vasca, quando il
suo intestino crasso, nel disperato tentativo di salvare la vita e la civiltà, gli saltò dritto fino al collo e, penetrandogli ancor più su, gli strozzò il cervello.
Le poesie di gran lunga peggiori di tutte, quelle che avevano il primo posto in assoluto nell'elenco, erano perite assieme alla loro creatrice, Paula Nancy Millstone Jennings di Greenbridge, Essex, Inghilterra, quando il pianeta Terra era stato demolito. Il prostetnico vogon Jeltz fece un sorriso lento, lentissimo. Non tanto per fare colpo, quanto perché cercava di ricordarsi i necessari movimenti muscolari. Aveva fatto un urlaccio tremendo ai suoi prigionieri, e adesso si sentiva molto rilassato e pronto a dimostrare un po' della consueta insensibilità.
I prigionieri erano legati alle sedie di Degustazione Poetica. I vogon non si facevano illusioni riguardo all'accoglienza che le loro opere ricevevano generalmente. All'inizio i loro tentativi di composizione poetica avevano fatto parte del generale tentativo minaccioso e violento di farsi accettare come razza normalmente evoluta e civile, ma adesso l'unica cosa che li induceva a insistere nelle loro creazioni era esclusivamente la loro crudeltà. Un sudore freddo imperlava la fronte di Ford Prefect, e scivolava attorno agli elettrodi che gli erano stati fissati alle tempie. Gli elettrodi erano collegati a una batteria di attrezzature elettroniche:

intensificatori d'immagini, modulatori di ritmo, residuatori di
allitterazioni… Erano tutti strumenti studiati per dare risalto maggiore all'esperienza poetica, e per far sì che non andasse persa nemmeno la più piccola sfumatura del pensiero del poeta, Arthur Dent, seduto vicino a Ford, rabbrividì. Non aveva la minima idea di cosa stesse per succedergli, ma sapeva bene che fino allora non c'era stata nessuna cosa che gli fosse andata a genio, per cui era improbabile che la situazione migliorasse. Il vogon comincio a leggere i fetentissimi brani di una poesia creata da lui.
Oh, acciacciato grugnosco… – comincio. Ford si sentì invadere da insopportabili fitte: la prova appariva ben peggiore di quanto si aspettasse.
– … le tue minzioni mi appaiono / Come ciance di sebi su luride api.– Aaaaaaarggggghhhhhh! – urlò Ford Prefect, rovesciando indietro
la testa attanagliata da una tremenda morsa di dolore. Vagamente, scorse accanto a sé la sagoma di Arthur, scomposta e sconvolta da spasimi. Strinse i denti.
Deh! Impiacciami, imploroti – continuò lo spietato vogon – sgabazzone rampante!
Il tono della sua voce raggiunse abominevoli vette d'infiammato stridore. – Sciasciami, sprusciami, sprusciami coi crespi tentachili, / O ti strapperò gli sputtoni coi miei scassagangli, CAPITO?
Nnnnnnnnnnyyyyyyyuuuuuuuurrrrrrrgggggghhhhhl – urlò Ford
Prefect, sconvolto da un ultimo, tremendo spasmo, mentre l'intensificazione elettronica dell'ultimo verso imperversava a tutto spiano nelle sue tempie. Poi si afflosciò nella sua sedia. Arthur sedeva abbandonato e scomposto.
– Ora terrestrucoli… – tuonò il vogon (non sapeva che Ford Prefect era in realtà di un piccolo pianeta nelle vicinanze di Betelgeuse, ma se anche l'avesse saputo non gli sarebbe importato niente) – vi concedo una semplice scelta! O vi lasciate buttare nel vuoto interstellare, o… – fece una pausa per dare un'impronta melodrammatica – mi dite dettagliatamente quanto vi sia piaciuta la mia poesia!
Si appoggiò allo schienale del suo enorme sedile di pelle a forma di pipistrello, e li guardò sorridendo.
Ford ansimava penosamente, tentando di riprendere il respiro. Fece roteare la lingua gonfia nella bocca secca, e gemette. Arthur disse, con vivacità: – A me e piaciuta davvero molto. Ford si girò a guardarlo con la bocca aperta. Quella era una linea d'azione a cui non aveva minimamente pensato.

Il vogon alzò un meravigliato sopracciglio che gli nascose in parte
il naso, con non sgradevoli risultati.
– Oh bene… – tuonò, alquanto sbalordito. – Sì – disse Arthur – ritengo che alcune delle immagini metaforiche fossero particolarmente efficaci. Ford continuò a fissarlo, cercando di organizzare le idee e di mettersi in sintonia con quella prassi completamente nuova. Che avessero ancora la possibilità di cavarsela, grazie a quelle impudenti menzogne?
– Sì, continua, ti prego… – disse il vogon. – Oh, e… ehm– vi ho trovato anche interessanti soluzioni ritmiche – continuò Arthur – che paiono fare da contrappunto al… ehm… al… – S'inceppò.
Ford si lanciò al salvataggio, e rischiò: – … al surrealismo della sottintesa metafora del… ehm… – Anche lui s'inceppò ma Arthur intanto si era ripreso.
– … dell'umanità del…
Vogonità – gli sibilò Ford sottovoce. – Ah, sì, della vogonità (scusate) dell'anima compassionevole del poeta – riprese Arthur, sentendosi di nuovo in piena forma – che riesce, attraverso il mezzo della struttura poetica, a sublimare questo, trascendere quello, e venire a patti con le fondamentali dicotomie di quell'altro… – Arthur era ormai giunto a un crescendo trionfale. – Per cui si rimane con la netta e profonda sensazione di avere penetrato in pieno la… la… ehm… – e qui Arthur non seppe più cosa dire. Ford gli corse in aiuto col coup de grâce: La sostanza dell'argomento, qualunque esso fosse, di cui la
poesia trattava! – urlò. Con l'angolo della bocca sussurrò ad Arthur: – Bravo, sei stato proprio in gamba!
Il Comandante scrutò attentamente i due. Per un attimo la sua esacerbata anima di vogon si era commossa, ma subito dopo si riprese. No, penso il prostetnico: troppo poco e troppo tardi. La sua voce assunse toni di carezzevole falsità.
– Dunque voi dite che io scrivo poesie perché sotto una scorza di crudele e meschina insensibilità nascondo soltanto il desiderio di essere amato – disse. Fece una pausa. – È così? Ford fece una risata nervosa. – Be', io dico di sì. In fondo non abbiamo tutti noi, nel profondo, il desiderio, ehm… Il vogon si alzò. – Ebbene no, vi sbagliate, non è assolutamente così – disse. – Io scrivo poesie solo per dare pieno risalto alla mia scorza di crudele e meschina insensibilità. E, in ogni caso, intendo buttarvi fuori della nave. Guardia! Porta i prigionieri al compartimento stagno numero tre, e buttali fuori!

– Cosa?! – urlò Ford.
Una giovane e enorme guardia vogon fece un passo avanti, e con le sue braccione gonfie strappò i legacci che tenevano i due stretti alle sedie.
– Non potete gettarci nello spazio! – gridò Ford. – Noi stiamo scrivendo un libro!
– Inutile resistere! – urlò la guardia vogon. Era la prima frase che aveva imparato quando era entrato nel Corpo delle Guardie Vogon. Il Comandante guardò la scena con distaccato divertimento, e poi si girò, distogliendo lo sguardo.
Arthur si guardò intorno disperatamente. – Non voglio morire proprio adesso! – urlò. – Ho ancora mal di testa! Non voglio andare in paradiso col mal di testa! Il dolore m'impedirebbe di gustare le delizie del Cielo! La guardia li afferrò entrambi per il collo e, inchinatosi con deferenza al suo Comandante, che gli voltava le spalle, portò via i due dal ponte di comando. Una porta d'acciaio si chiuse, e il Comandante rimase da solo. Canticchiò e meditò fra sé, tamburellando con le dita sul notes che raccoglieva i suoi versi.
– Uhmmm – disse – paiono fare da contrappunto al surrealismo della sottintesa metafora… – Rifletté un attimo sulla cosa, poi chiuse
il notes con un diabolico sorriso.
– La morte è troppo poco per loro! – disse. Il lungo corridoio rivestito di acciaio echeggiò dei deboli tentativi di lotta fatti dai due umanoidi, che la guardia vogon teneva ben stretti sotto le sue gommose ascelle.
– Pazzesco! – biascicò Arthur. – Una situazione mostruosa! Lasciami andare, maledetto bruto!
La guardia vogon continuò a trasportarli imperterrita. – Non preoccuparti – disse Ford – escogiterò qualcosa. – Ma non sembrava molto speranzoso.
– Inutile resistere! – ringhiò la guardia. – Ma non devi inveire, capisci? – farfuglio Ford. – Se si inveisce vomitando insulti, come si può conservare un atteggiamento mentale positivo?
– Cristo! – protestò Arthur – parli di atteggiamento mentale positivo, ma non ti hanno mica demolito il pianeta, a te! Io mi sono svegliato stamattina, ho pensato che intendevo passare una bella giornata di relax, leggere magari un po', poi spazzolare il cane… E adesso sono passate da poco le quattro e sto per essere gettato fuori da un'astronave aliena che si trova a sei anni luce dai resti fumanti della

Terra! – Le ultime parole le farfugliò in modo quasi incomprensibile,
perché la guardia aumentò la stretta.
– E va be' – disse Ford. – Ma non farti prendere dal panico! – E chi ha detto che mi sono fatto prendere dal panico? – urlò Arthur. – Adesso soffro ancora soltanto di uno shock culturale. Lo shock da perdita della civiltà. Ma aspetta che mi sia veramente calato nella situazione, che mi sia veramente reso conto di dove sono! Allora che mi farò prendere dal panico!
– Arthur, guarda che mi sembri isterico. Sta' zitto, su. – Ford si concentrò, cercando disperatamente di escogitare qualcosa, ma fu interrotto ancora una volta.
– Inutile resistere! – urlò la guardia.
– E sta' zitto anche tu! – ringhiò Ford. – Inutile resistere!
– E falla riposare un po' quella lingua! – disse Ford. Girò la testa in modo da guardare in faccia la guardia. E in quella gli venne un'idea. – Ti diverti veramente a fare queste cose? – le chiese d'un tratto. La guardia si fermò di botto e sul suo viso si dipinse un'espressione d'immensa stupidità.
– Se mi diverto? – tuonò. – Cosa intendi? – Intendo dire – disse Ford – se ti dà piena soddisfazione, la tua vita. Se ti piace andare di qua e di là urlando e buttare la gente fuori delle astronavi…
Il vogon fissò il basso soffitto d'acciaio, e le sue sopracciglia si arrampicarono quasi l’una sull'altra. Piegò la bocca in giù e disse, alla fine: – Be', le ore mi piacciono…
– È giusto che così sia – convenne Ford. Arthur girò la testa e guardò Ford.
– Ford, ma cosa fai? – chiese in un sussurro pieno di meraviglia. – Oh, mi sto solo interessando al mondo intorno a me, CHIARO? – disse. Rivolto al vogon disse: – Allora dicevi che le ore ti piacciono, vero?
Il vogon lo fissò, mentre torpidi pensieri vagavano lenti nelle nere profondità della sua mente.
– Sì – disse – ma adesso che mi ci fai pensare, i singoli minuti sono abbastanza schifosi. A parte… – Ci pensò su un attimo, cosa che lo indusse a fissare di nuovo il soffitto. – A parte le urla che faccio, che mi piacciono tanto – concluse. Si riempì i polmoni e urlò: – Inutile res…
– Sì, certo – lo interruppe subito Ford – sai urlare bene, te l'assicuro. Ma se quello che fai ti fa sostanzialmente schifo – e qui Ford scandì lentamente le parole, per ottenere il massimo effetto – allora perché lo fai? Per cosa, eh? Per le ragazze? Per la divisa? Per

masochismo? O trovi semplicemente che rassegnarsi alla stupida noia
di tutto questo sia una forma di sfida?
Arthur guardò Ford e il vogon con aria assai perplessa. – Ehm… – disse la guardia – ehm… non so. Credo che… be', sì, lo faccio per queste ragioni. Mia zia diceva che quella di guardia spaziale era una buona carriera per un giovane vogon… Sai, l'uniforme, la pistola a raggi paralizzanti, la stupida noia… – Vedi, Arthur? – disse Ford col tono di uno che aveva appena tratto le sue conclusioni. – E pensare che tu credi di avere tanti problemi!
Arthur riteneva sì di averli. A parte lo spiacevole fatto che il suo pianeta fosse stato demolito, c'erano altri problemi: la guardia vogon, ad esempio, lo aveva ormai mezzo strozzato con le sue braccione, e di lì a poco l'avrebbe gettato nello spazio. – Cerca di capire il suo problema – disse Ford. – Pensa un po' a questo povero ragazzo la cui intera vita consiste nell'andare di qua e di là a buttar fuori la gente dalle astronavi… – E nell'urlare – aggiunse la guardia.
– E nell'urlare, certo – dis se Ford, dando un amichevole e affettuoso colpetto al braccione gonfio che gli serrava il collo. – E pensa che il poverino non sa nemmeno perché lo fa! Arthur convenne che era una cosa molto triste. Espresse questo pensiero con un piccolo, debole gesto, in quanto era troppo asfissiato per parlare.
Profondi brontolii di preoccupazione provennero dalla guardia. – Be', adesso la metti in un modo che mi viene da pensare che… – Bravo ragazzo! — lo incoraggiò Ford.
– E va be' – tuonò il vogon – ma qual è l'alternativa? – Ma – disse Ford, con vivacità – smettila di fare quello che fai, no? Di' ai tuoi superiori che non intendi farlo più. – Gli sembrava di dovere aggiungere qualcosa per dare un tocco finale, ma per il momento la guardia sembrava avere abbastanza carne al fuoco sulla quale meditare.
– Uuuuuuuuuuuuuuuuhhhh –, hhhhhhhhhhmmmmmmm… – disse la guardia. – Uhm, non. mi sembra una gran bell'idea. Ford si sentì il terreno scivolare sotto i piedi. – Ehi, un attimo – disse – questo è solo l'inizio, capisci? Ma c'è di più, oh sì, molto di più di quanto non ti sembri… Ma la guardia strinse più forte i due sotto le ascelle e continuò a camminare in direzione del compartimento stagno. Era visibilmente commossa.

– No – disse – credo che, se per voi è lo stesso, farò meglio a
buttarvi nel compartimento stagno e ad andare poi a fare alcuni urlacci che mi sono rimasti da fare.
No, per Ford Prefect non era affatto lo stesso. – Ehi, senti, pensaci bene – disse, molto meno vivacemente di prima.
– Uuuuuuuuggggggghhhhh… – disse Arthur, senza nessun accento particolare.
– Pensa – continuò Ford – che devo ancora parlarti della musica, dell'arte, e di mille altre cose! Arrrrgggghhhh! – Inutile resistere – urlò la guardia, e poi aggiunse: – Vedi, se continuo a fare quello che faccio, alla fine sarò promosso Ufficiale Urlatore Superiore, e di solito non vengono offerti i posti di ufficiale superiore agli ufficiali inferiori che non–urlano e non–spingono–la– gente–qui–e–là per cui credo che farò meglio a tener duro. Ormai erano arrivati al compartimento stagno, ovvero al suo portello, che era pesantissimo, tondo, grande e d'acciaio. La guardia premette un bottone e il portello si aprì. – Ma grazie per esserti interessato ai miei problemi – disse il vogon. – Addio. – Gettò Ford e Arthur nella piccola camera stagna. Arthur giacque in terra, ansimante. Ford si girò di scatto e si puntellò con la spalla al portello, che si stava chiudendo. – Ascolta! – urlò alla guardia. – C'è un intero mondo di cui non sai assolutamente niente! Che ne dici, eh? – Disperato, si appigliò all’unica citazione culturale che gli venne in mente lì per lì: canticchiò le prime battute della Quinta di Beethoven. – Ta ta ta tuuum! Non ti fa sentire qualcosa dentro? – No – disse la guardia. – No, per niente. Ma proverò a cantarla a mia zia.
Il portello si richiuse ermeticamente, e se mai il vogon disse qualcos'altro, le sue parole non furono udite né da Ford né da Arthur. I due ormai non potevano sentire altro che il debole ronzio lontano dei motori dell'astronave.
Erano in una camera stagna cilindrica e lucidissima, lunga circa tre metri e con un diametro di circa due metri. Ford si guardò intorno, ansimando.
– Credo che potenzialmente sia un ragazzo intelligente – disse, e si lasciò cadere contro la paratia curva.
Arthur giaceva ancora in terra dove era stato buttato. Non alzò gli occhi. Stava ancora ansimando disperatamente. – Adesso siamo in trappola, vero? – disse. – Sì – disse Ford. – Siamo in trappola.

– Ma non dovevi escogitare qualcosa? Mi sembrava che l'avessi
promesso. O forse hai escogitato qualcosa e io non l'ho notato. – Oh sì, ho escogitato qualcosa – ansimò Ford. Arthur alzò gli occhi a guardarlo con ansia.
– Purtroppo – continuò Ford – era un qualcosa che implicava la necessità di restare dall'altra parte di questo maledetto portello. – Diede un calcio al portello da cui erano appena passati. – Ma era almeno una buona idea?
– Oh sì, ottima.
– E cioè?
– Non l'avevo studiata ancora nei dettagli. Ma tanto adesso che siamo qui non ha più senso parlarne, ti pare? – Allora… cosa ci succederà? – disse Arthur. – Be', ehm, quel portello che vedi davanti a noi si aprirà automaticamente fra pochi secondi e immagino che noi verremo proiettati fuori nello spazio profondo, dove asfissieremo. Naturalmente, se fai un bel respiro prima del balzo puoi riuscire a sopravvivere ancora per trenta secondi… – Ford intrecciò le mani dietro la testa, alzò le sopracciglia e si mise a canticchiare un vecchio inno di battaglia di Betelgeuse. D'un tratto ad Arthur apparve particolarmente alieno.
– Dunque le cose stanno così – disse Arthur. – Moriremo. – Sì – disse Ford – a meno che… Ehi, un attimo! – Scattò in piedi di colpo e corse dall'altra parte della camera, alle spalle di Arthur. – Cos'è quel pulsante? – urlò.
– Cosa? Dove? – gridò Arthur, girandosi a guardare. – No, mi sono ingannato – disse Ford. – Credo che dopotutto moriremo.
Tornò ad appoggiarsi al muro e riprese a canticchiare l'inno da dove l'aveva interrotto.
– Sai – disse Arthur – è in momenti come questi, in cui mi trovo intrappolato in un compartimento stagno vogon in compagnia di uno di Betelgeuse in attesa come me di morire d'asfissia nello spazio profondo, che mi pento amaramente di non avere dato retta a mia madre, agli insegnamenti che mi dava quando ero giovane. – Perché, cosa ti diceva tua madre?
– Non lo so, non la stavo a ascoltare.
– Oh! – disse Ford, e continuò a cantare. – È spaventoso – disse fra sé Arthur. – La statua di Nelson non c'è più, i McDonald non ci sono più, siamo rimasti soltanto io e le parole Fondamentalmente innocua. Da un momento all'altro io non ci sarò
più, e rimarranno solo le parole Fondamentalmente innocua. E pensare che ieri il pianeta sembrava così normale!

Si sentì un ronzio di motori.
Ci fu un leggero fischio, poi il rumore assordante dell'aria che veniva vomitata fuori dal portello aperto, nella vuota oscurità tempestata di minuscoli punti di luce irrealmente lucenti. Ford e Arthur furono proiettati nello spazio profondo come tappi sparati da una pistola giocattolo.

La Guida Galattica per gli Autostoppisti è un libro davvero notevole.
È stato aggiornato più e più volte nel corso degli anni, ed è stato
rivisto da vari curatori. Innumerevoli viaggiatori e ricercatori hanno
dato il loro contributo all'opera.
L'introduzione comincia così:
Lo spazio è vasto. Veramente vasto. Non riuscireste mai a credere
quanto enormemente incredibilmente spaventosamente vasto esso sia.
Voglio dire, magari voi pensate che sia un bel tratto di strada andare
fino alla vostra farmacia, ma quel tratto di strada è una bazzecola in
confronto allo spazio. Ascoltate…
E il libro va avanti così. (Dopo un po' lo stile si fa più pacato, e
cominciano le notizie di cui si ha veramente bisogno. Si dice ad
esempio che il meraviglioso pianeta Bethselamin è ormai talmente
preoccupato per l'erosione provocata col passare del tempo dai dieci
miliardi di turisti in visita ogni anno, che ogni netto squilibrio fra la
quantità di cibo che mangiate e la quantità di feci che espellete finché
siete sul pianeta viene rimediato al momento della partenza attraverso
un'operazione chirurgica atta a togliervi il peso in eccesso: per questa
ragione ogni volta che andate al gabinetto, su Bethselamin, è
estremamente importante che vi facciate dare la ricevuta.)
A voler essere giusti però, bisogna dire che, quando ci si confronta
con le immense distanze che ci sono fra le stelle, menti più brillanti di
quella responsabile dell'introduzione alla Guida si dimostrano non
all'altezza. Alcuni ad esempio, per darvi un'idea delle distanze, vi
invitano a pensare a una nocciolina confrontata con la città di
Reading; altri vi invitano a pensare alla differenza tra una noce e
Johannesburg, e via dicendo con queste sciocche facezie.
La verità invece è che le distanze interstellari non possono essere
comprese, dalla limitata immaginazione umana.
Perfino la luce, che viaggia così in fretta che alla maggior parte
delle razze occorrono migliaia di anni per capire che appunto
viaggia, impiega abbastanza tempo per andare da una stella all'altra.
Le ci vogliono otto minuti per andare dalla stella Sol al posto dove un

tempo c'era la Terra, e le ci vogliono quattro anni per arrivare fino
alla stella più vicina a Sol, cioè Alpha Proxima.
Per arrivare al capo opposto della Galassia, per arrivare,
diciamo, fino a Damogran, la luce ci mette parecchio di più: ci mette
cinquecentomila anni.
Per coprire questa distanza da stoppista, il minor tempo possibile
che si possa impiegare sono poco meno di cinque anni, naturalmente
senza riuscire a vedere molto lungo la strada.
La Guida Galattica per gli Autostoppisti dice che se vi riempite
prima i polmoni d'aria, potete sopravvivere nello spazio per la durata
di circa trenta secondi. Continua però col dire che le probabilità di
essere raccolti da un'altra astronave nell'arco di quei trenta secondi
sono una contro due elevato alla potenza di duecentosessanta–
settemilasettecentonove.
Per una coincidenza assolutamente sconcertante, 267709 è anche
il numero di telefono di un appartamento di Islington dove una volta
si svolse una bellissima festa alla quale Arthur andò, e dove conobbe
una ragazza molto carina con la quale non riuscì assolutamente a
limonare (lei si mise a limonare con un ospite non invitato).
Benché il pianeta Terra, l'appartamento di Islington e il telefono
in questione siano ormai tutti scomparsi, è consolante sapere che di
essi non si è perso il ricordo, visto che ventinove secondi dopo essere
stati gettati nello spazio, Ford e Arthur vennero salvati.

Un computer cicalò fra sé, allarmato, quando si accorse che un compartimento stagno era stato aperto e poi richiuso senza nessuna ragione evidente.
In effetti la Ragione non c'era, perché era andata un attimo a farsi un bagno.
Così, un buco era appena apparso nella Galassia. Apparve solo per un nientesimo di secondo, e il suo diametro era di un nientesimo di centimetro, e fra la sua apparizione e la sua scomparsa passarono milioni di anni luce.
Poco prima che si richiudesse, uscirono da esso un mucchio di cappelli di carta e di palloncini, di quelli che si usano durante le feste. Volarono via anche trentanovemila uova fritte, che si materializzarono in un mucchio barcollante su una terra colpita da carestia, ovvero Poghril, nel sistema di Pansel.
Purtroppo, tutta la tribù di Poghril era già morta di fame a eccezione di un uomo, che morì per avvelenamento da colesterolo alcune settimane dopo l'arrivo delle uova fritte. Il nientesimo di secondo che occorse al buco per aprirsi e chiudersi si ripercosse avanti e indietro nel tempo nel più improbabile dei modi. Da qualche parte, nel passato profondamente remoto, traumatizzò un gruppetto di atomi che vagavano a casaccio nella vuota sterilità dello spazio, e li indusse a stringersi insieme secondo il più straordinariamente inverosimile degli schemi. Questi schemi impararono ben presto a riprodurre se stessi (il che faceva parte dell’estrema inverosimiglianza degli schemi stessi) e si misero a provocare gravi guai su tutti i pianeti che toccavano. Fu così che cominciò la vita nell’Universo.
Cinque folli Vortici di Eventi vorticarono nella perversa burrasca dell’irrazionale e vomitarono un marciapiedi. Sul marciapiedi giacevano Ford Prefect e Arthur Dent, boccheggianti come pesci mezzi morti.
– Vedi, eccoti qua – ansimò Ford, tentando di trovare un appiglio sul marciapiedi, che correva attraverso il Terzo Tratto dell’Ignoto. – Ti avevo detto che avrei escogitato qualcosa!

– Oh, certo – disse Arthur – certo.
– È stata brillante – disse Ford – la mia idea di trovare un’astronave di passaggio e farsi salvare. L’universo reale s’inarcò disgustosamente sotto di loro, allontanandosi. Vari finti universi passarono silenziosi, come capre di montagna. Esplose la luce primeva, spruzzando spazio–tempo in giro come pezzi di ricotta. Fiorì il tempo, la materia scomparve. Il massimo numero primo si conglomerò tranquillo in un angolo e si nascose per l'eternità.
– Oh, piantala – disse Arthur – le probabilità che questo succedesse erano infinitesimali.
– Ma intanto ha funzionato – disse Ford. – In che razza di astronave siamo? – chiese Arthur mentre l'abisso dell'eternità si apriva sotto di loro.
– Non lo so – disse Ford – non ho ancora aperto gli occhi. – Nemmeno io – disse Arthur.
L'Universo saltò, si bloccò, tremò e s'indirizzò in varie impensate direzioni.
Arthur e Ford aprirono gli occhi e si guardarono intorno, enormemente stupiti.
– Buon Dio – disse Arthur. – Sembra proprio il lungomare di Southend!
– Diamine, sono proprio contento di sentirti dire questo – disse Ford.
– Perché?
– Perché pensavo di essere diventato matto. – Forse lo sei diventato. Forse hai solo creduto che io abbia detto quello che ho detto.
Ford ci pensò su.
– Ma l’hai detto o non l’hai detto? – chiese. – Credo di averlo detto – disse Arthur.
– Forse siamo diventati matti tutt'e due. – Sì – disse Arthur – è da pazzi, tutto considerato, pensare che questa sia Southend.
– Perché, credi davvero che sia Southend? – Oh sì.
– Anch'io.
– Quindi dobbiamo essere matti.
– Ma se non altro è una bella giornata.
– Sì – disse un pazzo di passaggio.
– Chi era? – chiese Arthur.
– Chi, quell'uomo con cinque teste e un cespuglio di bacche di sambuco pieno di aringhe affumicate?

– Sì.
– Non so, era uno.
– Ah.
Seduti sul marciapiedi, Arthur e Ford guardarono con un certo disagio degli enormi bambini rimbalzare pesantemente lungo la spiaggia, e cavalli selvaggi galoppare in cielo portando fresche provviste d'ingiurie recidive alle Aree Incerte. – Sai – disse Arthur, tossicchiando – se questa è Southend, ha qualcosa di molto strano…
– Vuoi dire per via del mare solido come roccia e delle case che continuano a sciabordare su e giù? – disse Ford. – Sì, anch'io penso che sia abbastanza strano. – Con enorme fragore, Southend si divise in sei segmenti uguali che si misero a danzare e girare vorticosamente gli uni intorno agli altri, con aria libidinosa e impudica. – In effetti – disse Ford – sta proprio succedendo qualcosa di molto strano. Folli e lamentosi suoni di pifferi e di violini s'incancrenirono nel vento, frittelle dolci saltarono fuori dalla strada per dieci pence l'una, orribili pesci precipitarono dal cielo, e Arthur e Ford decisero di scappare.
Si buttarono in mezzo a pesanti muri di suono, a montagne di pensiero arcaico, a valli di musica triste, a laghi di scarpe maligne e di pipistrelli stupidi, e d'un tratto sentirono una voce di ragazza. Sembrava la voce di una persona ragionevole, ma disse solo: – Due elevato alla potenza di centomila contro uno, in diminuzione.
Ford scivolò lungo un raggio di luce e girò vorticosamente, cercando di individuare da dove venisse la voce, ma non vide niente che si potesse ritenere realmente verosimile. – Che voce è questa? – gridò Arthur.
– Non lo so! – urlò Ford. – Non lo so. Sembra un indice di probabilità.
– Probabilità? Cosa intendi dire?
– Intendo dire probabilità. Per esempio, due probabilità contro una, tre contro una, quattro contro cinque. La voce ha detto due elevato alla potenza di centomila contro uno. Una roba molto improbabile, ti pare? Una vasca da cinque milioni di litri piena di budino di crema si rovesciò su di loro senza preavviso.
– Ma cosa significa? – urlò Arthur.
– Cosa, il budino?
– No, l'indice d'improbabilità!
– Non lo so. Non lo so proprio. Penso che siamo su un qualche tipo di astronave.

– Posso solo dedurre – disse Arthur – che non ci troviamo negli
scompartimenti di prima classe.
Nella struttura dello spaziotempo apparvero grandi, orridi rigonfiamenti.
– Aaaaaaaauuuurgggghhh… – disse Arthur, sentendo il proprio corpo ammorbidirsi e piegarsi in insolite direzioni. – Southend sembra sciogliersi… le stelle vorticano… il deserto… le mie gambe vanno alla deriva nel tramonto… anche il braccio sinistro se n'è partito via. – Ad Arthur venne in mente una cosa terribile. – Cristo! – dis se. – E adesso come faccio ad attivare il mio orologio da polso digitale? – Roteò disperatamente gli occhi, alla ricerca di Ford. – Ford – disse poi. – Ford, smettila! Stai diventando un pinguino! Si sentì di nuovo la voce.
– Due elevato alla potenza di settantacinquemila contro uno, in diminuzione.
Ford sculettò furiosamente intorno a un laghetto. – Ehi, chi siete? – disse. – Dove siete? Cosa sta succedendo? C'è modo di fermare tutto ciò?
– Calmatevi, prego – disse la voce, suadente come quella di un'hostess su un aereo di linea con un'ala sola e due motori di cui uno in fiamme. – Siete perfettamente al sicuro. – Ma non è questo il punto! – urlò Ford. – Il punto è che io adesso sono un pinguino perfettamente al sicuro, e che il mio collega qui sta perdendo tutte le membra!
– Va tutto bene, adesso le ho riacquistate – disse Arthur. – Due elevato alla potenza di cinquantamila contro uno, in diminuzione – disse la voce.
– A dir la verità – disse Arthur – le mie membra sono più lunghe del solito. Non è che mi piacciano molto così, ma… – Non credete sia il caso – stridette rauco Ford, con furia pinguinesca – di dirci qualcosa?
La voce si auto–schiarì. Mentre un gigantesco pasticcino da tè andava a passeggio goffamente in lontananza, disse: – Benvenuti sull’astronave Cuore d'Oro.
La voce continuò:
– Vi prego di non spaventarvi, qualsiasi cosa vediate o sentiate intorno a voi. È inevitabile che per un po' risentiate le conseguenze dell'essere stati salvati da morte certa a un livello d'improbabilità di due elevato alla potenza di duecentosessantasettemilasettecentonove contro uno, in diminuzione: ripristineremo la normalità appena saremo sicuri di cosa sia in ogni caso il normale. Grazie. Due elevato alla potenza di ventimila contro uno, in diminuzione. La voce tacque.

Ford e Arthur si ritrovarono in una piccola cabina rosa e brillante.
Ford era eccitatissimo.
– Arthur! – gridò. – È fantastico! Siamo stati raccolti da un'astronave che va a propulsione d'Improbabilità Infinita! È incredibile! Ne avevo già sentito parlare, ma la cosa è sempre stata smentita! Evidentemente invece ce l'hanno fatta! Hanno creato la Propulsione d'Improbabilità! Arthur, hai sentito, è… Arthur? Che cosa succede?
Arthur spingeva con tutta la forza la porta della cabina, che voleva aprirsi. Attraverso le fessure si vedevano piccole mani pelose con le unghie tinte d'inchiostro, che cercavano di insinuarsi dentro. Voci stridule ciarlavano senza senso.
Arthur alzò gli occhi.
– Ford! – disse – qui fuori c'è un'incredibile moltitudine di scimmie che vogliono parlarci di una sceneggiatura dell'Amleto che avrebbero appena finito di scrivere!

La Propulsione d'Improbabilità Infinita è un metodo nuovo e meraviglioso per attraversare le enormi distanze interstellari in un nientesimo di secondo, un metodo che permette di abbandonare definitivamente quella noiosa schifezza che è l'iperspazio. È stata scoperta per un caso fortunato e trasformata poi in una forma di propulsione controllabile dal gruppo di ricerca del governo galattico che lavorava sul pianeta Damogran. Questa, in sintesi, è la storia della sua scoperta. Il principio in base al quale si generano piccole quantità d'improbabilità finita collegando semplicemente i circuiti logici di un Cervello Submesonico 57 di Bambleweeny a un vettore atomico sospeso in un forte produttore di moto browniano (diciamo per esempio una bella tazza di tè bollente), era naturalmente compreso a fondo. I generatori basati su questo principio venivano usati spesso per rompere il ghiaccio durante le feste: si facevano infatti saltare tutte le molecole della sottoveste dell'ospite, simultaneamente di mezzo metro sulla sinistra, in conformità alla Teoria d'Indeterminazione. Molti fisici autorevoli dichiararono la propria ostilità al principio, in parte perché, secondo loro, implicava una degradazione della scienza, in parte e soprattutto perché non riuscivano mai a farsi invitare a quel tipo di feste.
Un'altra cosa che non potevano sopportare era il continuo insuccesso cui andavano incontro cercando di costruire una macchina che potesse generare il campo l'improbabilità infinita necessario a spedire un'astronave fino alle stelle più remote; alla fine dichiararono seccati che tale macchina era praticamente impossibile. Poi, un giorno, uno studente che era stato lasciato a spazzare il laboratorio dopo una festa particolarmente mal riuscita, si mise a ragionare in questo modo:
Se, pensò, una simile macchina è un'impossibilità pratica, allora deve logicamente essere un'improbabilità finita. Perciò, per poterla costruire, basta che calcoli esattamente quanto sia improbabile, che fornisca i dati al generatore d'improbabilità finita, che gli dia una tazza fumante di ottimo tè… e che lo attivi!

Così fece, e fu abbastanza sorpreso di scoprire d'essere riuscito a
creare dal niente quel dorato generatore d'Improbabilità Infinita che tanti avevano inutilmente cercato di fabbricare. Si stupì ancora di più quando, subito dopo avere ricevuto il Premio dell’Istituto Galattico per la Massima Ingegnosità, si vide linciare da un'infuriata marmaglia composta di autorevoli fisici, che avevano finalmente capito come l’unica cosa che non potevano davvero sopportare fosse un somaro intelligente.

La cabina di comando a prova d'Improbabilità del Cuore d'Oro appariva simile a qualsiasi altra cabina d'astronave, solo che era pulitissima in quanto la nave era nuova di zecca. Alcuni sedili erano ancora avvolti nel loro involucro di plastica. La cabina era oblunga, quasi tutta bianca, era grande come un piccolo ristorante. In realtà non era perfettamente oblunga: le paratie lunghe erano inclinate a formare lievi curve parallele, mentre tutti i vari angoli, smussati, seguivano la forma delle curve. In verità, sarebbe stato molto più semplice e pratico costruire la cabina come una comune stanza oblunga tridimensionale, ma in quel caso i designer si sarebbero sentiti umiliati. Così invece la cabina aveva un'aria di maggiore importanza, coi suoi grandi videoschermi in fila sopra i comandi, i suoi pannelli del sistema di pilotaggio sulla paratia concava, e la serie di computer inseriti nella paratia convessa. In un angolo, tutto triste, sedeva un robot, con la testa d'acciaio luccicante abbandonata tra le luccicanti ginocchia d'acciaio. Anche il robot era abbastanza nuovo, ma benché fosse bello lucido e ben costruito, sembrava che le varie parti del suo corpo più o meno umanoide non fossero montate perfettamente. In realtà lo erano, ma c'era qualcosa nell’insieme che faceva pensare che non lo fossero. Zaphod Beeblebrox passeggiava nervosamente su e giù per la cabina, toccava le varie attrezzature luccicanti e ridacchiava tutto eccitato.
Trillian sedeva curva vicino a una serie di strumenti e ne leggeva gl'indici. La sua voce si diffondeva attraverso gli altoparlanti in tutta l'astronave.
Cinque contro uno, in diminuzione… – disse Trillian – quattro contro uno, in diminuzione… tre contro uno… due… uno… fattore di
probabilità di uno contro uno… Siamo alla normalità, ripeto,
abbiamo raggiunto la normalità. – Spense il microfono, poi lo
riaccese, fece un lieve sorriso, e continuò: – D'ora in poi quindi qualsiasi difficoltà incontriate è reale, è un vostro reale problema.
Rilassatevi, prego. Vi manderemo a prendere presto.
Zaphod sbottò, seccato: – Chi sono, Trillian?

Trillian girò sul suo sedile, guardò in faccia Zaphod e si strinse
nelle spalle.
– Solo due tizi che pare abbiamo raccolto nello spazio aperto – disse. – Settore zz9 Plurale Zeta Alfa.
– È stato davvero un pensiero gentile, Trillian – disse Zaphod – ma credi che sia stato prudente farlo, data la nostra situazione? Voglio dire, siamo qui che scappiamo e tutto il resto, ormai avremo alle calcagna la polizia di mezza Galassia e ci fermiamo a raccogliere degli stoppisti! D'accordo, ti do dieci e lode per lo stile, ma meno parecchi milioni per l'idea, eh?
Zaphod si mise a battere la mano sul pannello dei comandi, per sfogare la rabbia. Trillian con calma l'allontanò prima che combinasse dei guai. Quali che fossero le sue qualità mentali, (impulsività, spacconeria, vanità), Zaphod era un inetto in campo tecnico e avrebbe potuto facilmente far saltare in aria la nave solo con un gesto della mano. Trillian era arrivata a sospettare che la ragione per cui Zaphod aveva avuto una vita così disordinata e fortunata fosse che non aveva mai realmente capito il significato di quello che faceva. – Zaphod – disse paziente – fluttuavano senza tuta nello spazio aperto… Avresti forse voluto lasciarli morire? – Be', ecco… no. Non proprio, ma…
– Non proprio? Non proprio morire? E cosa allora? – Magari avrebbe potuto raccoglierli qualcun altro, dopo. – Un secondo ancora, e sarebbero morti.
– Sì, e se tu ti fossi presa la briga di riflettere sulla cosa un pochino più a lungo, il problema non sarebbe più sussistito. – E tu saresti stato contento di lasciarli morire? – Ecco, non proprio contento, ma…
– Ad ogni modo – disse Trillian, girandosi di nuovo verso i comandi – non li ho raccolti io.
– Come sarebbe? E chi li ha raccolti allora? – L'astronave.
– Eh?
– L'astronave. Ha fatto tutto da sola.
– Eh?
– Mentre eravamo in Propulsione d'Improbabilità. – Ma è incredibile!
– No, Zaphod. È solo molto molto improbabile. – Ehm, già.
– Senti, Zaphod – disse lei, carezzandogli un braccio – non preoccuparti per gli alieni. Sono solo due tizi innocui, immagino. Manderò il robot a prenderli per portarli qui. Ehi, Marvin!

Nell'angolo, la testa del robot si drizzò, mettendosi poi a
tentennare impercettibilmente. Marvin si alzò in piedi come se fosse di qualche chilo più pesante di quanto era, e per attraversare la stanza sembrò fare uno sforzo immane ed eroico. Si fermò davanti a Trillian e fissò la sua spalla sinistra con espressione assente. – Credo che sia meglio che tu sappia che mi sento molto depresso – disse. La sua voce era bassa e disperata. – Oddio! – mormorò Zaphod, e si abbandonò su una sedia. – Guarda – disse Trillian, con brio ma anche con tono compassionevole – ho qui qualcosa da farti fare, che t'impedirà di pensare alle cose tristi.
– Non può funzionare – ronzò Marvin. – La mia mente è troppo vasta per poter essere riempita da una qualsiasi occupazione. – Marvin! – lo sgridò Trillian.
– E va bene – disse Marvin. – Cosa vuoi che faccia? – Va' all'entrata numero due e accompagna qui i due alieni che si trovano la. Tienli sotto sorveglianza, naturalmente. Dopo la pausa di un microsecondo e dopo avere calcolato raffinatamente la micromodulazione della voce e del suo timbro (in modo che fosse impossibile trovarvi un appiglio per offendersi), Marvin riuscì a comunicare tutto il disprezzo e il disgusto che provava per le cose umane.
– Tutto qui? – disse.
– Sì – disse secca Trillian.
– Non è che mi piacerà farlo – disse Marvin. Zaphod si alzò di scatto dalla sedia.
– Non deve mica piacerti! – gridò. – Devi farlo e basta, capito? – D'accordo – disse Marvin con voce di campana rotta – lo farò. – Bene… – ringhiò Zaphod, – fantastico… grazie… Marvin si girò e alzò i suoi occhi rossi e triangolari, fissando Zaphod.
– Non è che vi sto deprimendo, vero? – disse, patetico, – No, no, Marvin – gorgheggiò Trillian – va tutto bene, davvero… – Non vorrei mai al mondo deprimervi.
– No, non preoccuparti – gorgheggiò ancora Trillian – tu comportati pure spontaneamente, e le cose continueranno ad andare benissimo.
– Davvero non siete seccati? – indagò Marvin. – No, per niente, Marvin – zufolò Trillian. – Va tutto benissimo, davvero… La tua depressione non è che una delle tante cose che possono capitare nella vita.
Marvin le lampeggiò un'occhiata elettronica. – La vita! – disse. – Non parlatemi della vita!

Girò sui tacchi con aria sconsolata e si trascinò fuori della cabina.
Con un ronzio soddisfatto e un clic finale, la porta si richiuse alle sue spalle.
– Credo che non potrò sopportare ancora per molto quel robot, Zaphod – ringhiò Trillian.
L'Enciclopedia Galattica definisce il robot un apparecchio
meccanico destinato a svolgere il lavoro di un uomo. La divisione
marketing della Società Cibernetica Sirio definisce il robot L'amico di
plastica con cui è bello stare.
La Guida Galattica per gli Autostoppisti definisce la divisione
marketing della Società Cibernetica Sirio un branco di idioti
rompiballe che saranno i primi a essere messi al muro quando verrà la rivoluzione e mette una nota a piè di pagina dove dice che i curatori saranno lieti di ricevere domande d'impiego da chiunque sia
interessato a fare il redattore di robotica.
Curiosamente, un'edizione dell'Enciclopedia Galattica, che per un
caso fortunato è stata portata da una distorsione temporale di mille
anni avanti nel futuro, definisce la divisione marketing della Società
Cibernetica Sirio un branco di idioti rompiballe che sono stati i primi
a essere messi al muro quando c'è stata la rivoluzione. La cabina non era più rosa, e le scimmie se n'erano andate. Ford e Arthur si ritrovarono in una normale astronave molto ben tenuta. – Questa nave dev'essere nuova di zecca – disse Ford. – Come fai a dirlo? – disse Arthur. – Hai qualche misterioso congegno che ti permette di misurare l'età del metallo? – No, ho solo trovato questo depliant sul pavimento. Pieno di slogan tipo l'Universo può essere vostro!. Ah! Guarda qui se non ho ragione!
Ford indicò una delle pagine dell'opuscolo e la mostrò ad Arthur. C'era scritto: Nuova sensazionale breccia aperta nella Fisica dell'Improbabilità. Appena la propulsione della nave raggiunge
l’Improbabilità Infinita, la nave passa per tutti i punti dell'Universo.
Questa scoperta ci potrà fare invidiare da governi ben più importanti
del nostro!
– Ehi, questa è roba di prima qualità! – disse Ford. Lesse con grande interesse i particolari tecnici, boccheggiando ogni tanto dallo stupore: era chiaro che l'astrotecnologia aveva fatto passi da gigante durante gli anni in cui lui era rimasto sulla Terra. Arthur ascoltò per un po' le notizie che gli dava Ford, poi, non essendo in grado di capirle, si mise a pensare agli affari suoi. Così facendo tamburellò con le dita su un'incomprensibile consolle di

computer, e alla fine premette un bel bottone rosso invitante, su un
vicino pannello. Il pannello s'illuminò, e vi comparvero le parole: Prego, non premete più questo bottone. Arthur si ridestò dalle sue
fantasticherie.
– Senti qua – disse Ford, che era ancora completamente assorto dalla lettura dell'opuscolo – esaltano come matti la cibernetica della nave. Una nuova produzione di robot e computer della Società Cibernetica Sirio, con le nuove caratteristiche CPV.
– Caratteristiche CPV? – dis se Arthur. – Cosa vuol dire? – Oh, qui dice che significa Carattere da Persona Vera. – Oh! – disse Arthur. – Terribile!
Una voce alle loro spalle dis se: – Proprio così. – La voce era bassa e sconsolata, ed era accompagnata da un lieve schioccolare metallico. Arthur e Ford si girarono e videro un vile uomo di metallo in piedi sulla soglia. Stava tutto curvo.
– Be'? – dissero.
– Sì, terribile – continuò Marvin. – Orribilmente, assolutamente terribile. Non parlatemene nemmeno! Guardate questa porta, ad esempio. – Fece un passo avanti. I modulatori della sua voce le impressero un timbro tonante, e Marvin imitò l'enfasi del depliant pubblicitario: – Porte e portelli di questa astronave hanno un temperamento allegro e gioioso. Per essi è un piacere aprirsi per voi,
ed è una soddisfazione richiudersi con la consapevolezza di avere
fatto bene il loro lavoro .
Quando la porta si richiuse, lo fece effettivamente con un sospiro di soddisfazione. – Hu–mmmmmmmmyummmmm ah! – disse. Marvin la guardò con freddo disgusto, e i suoi circuiti logici inorridirono e vibrarono, scossi dall'idea allettante di usarle violenza fisica. Altri circuiti intervennero dicendo: Perché prendersi questa briga? Che senso ha? Non vale la pena farsi coinvolgere da niente. Altri circuiti ancora si divertirono ad analizzare i componenti molecolari della porta e quelli delle cellule cerebrali degli umanoidi. Si divertirono anche a misurare il livello delle emissioni d'idrogeno dei parsec cubici di spazio lì intorno, poi si ritirarono di nuovo nella noia. Uno spasimo di disperazione scosse il corpo del robot. – Su – disse Marvin – ho ricevuto l'ordine di portarvi sul ponte di comando. Eh sì, guardatemi: ho un cervello vasto come un pianeta, e mi chiedono di accompagnarvi sul ponte di comando! E voi umani parlate delle soddisfazioni che dà il lavoro? Bah! Si girò e tornò all'odiata porta.
– Ehm, scusa – disse Ford, seguendolo – a che governo appartiene questa nave?
Marvin fece finta di non sentire.

– Guardate questa porta – borbottò – sta per riaprirsi. Lo capisco
dalla stupida soddisfazione che sta emanando. Con un gemito accattivante la porta si riaprì, e Marvin vi passò in mezzo.
– Venite – disse.
Arthur e Ford lo seguirono. La porta si richiuse alle loro spalle con cinguettii e miagolii di compiacimento.
– Tutto questo grazie alla divisione marketing della Società Cibernetica Sirio – disse Marvin, trascinandosi con aria desolata per il curvo corridoio luccicante che si apriva davanti a loro. – Costruiamo robot che abbiano un Carattere da Persona Vera, hanno detto. E ci
hanno provato con me. Io sono un prototipo del CPV. Si vede, vero? Ford e Arthur mormorarono degli imbarazzati “no, no”. – Odio quella porta – continuò Marvin. – Ma non è che vi sto deprimendo, per caso?
– A quale governo… – riprese a dire Ford. – Non appartiene a nessun governo – ringhiò il robot. – È stata rubata.
– Rubata?
– Rubata – disse Marvin.
– Da chi? – chiese Ford.
– Da Zaphod Beeblebrox.
Sul viso di Ford si dipinse un'espressione di stupore e incredulità; la sua gamba sinistra, che era a metà di un passo, sembrò trovare a fatica il pavimento su cui posarsi. Ford fissò il robot e disse, con voce fioca: – Zaphod Beeblebrox…?
– Sì, ho forse detto qualcosa che non va? – disse Marvin, continuando a trascinarsi con aria apatica. – Scusate se respiro troppo forte, in realtà io non respiro, come avrete notato, per cui non capisco perché ho detto scusate se… Dio, come sono depresso! Ecco qui un'altra di quelle porte così soddisfatte di sé! Ah, la vita! Non parlatemi della vita!
– Nessuno si è nemmeno sognato di nominarla – brontolò irritato Arthur. Guardò Ford. – Ford, ti senti bene? – disse. Ford si giro a guardarlo. – Ha detto proprio Zaphod Beeblebrox, il robot? – disse.

Uno strepitio di musica gunk invase la cabina dell'astronave mentre Zaphod cercava il notiziario, nella gamma di lunghezze d'onda della radio sub–Eta. La radio era abbastanza difficile da manovrare. Per anni le radio erano state puntate premendo bottoni e girando manopole; poi, quando la tecnologia si era perfezionata, i comandi erano diventati sensibili al tocco. Bastava sfiorare i pannelli con le dita, ed era fatta. Adesso addirittura ci si limitava ad agitare la mano nella generale direzione dei componenti: e si sperava. Naturalmente questo faceva sì che si risparmiassero molto i muscoli, ma costringeva anche a stare seduti spasmodicamente immobili, se si voleva mantenere la radio puntata su un certo programma. Zaphod agitò una mano e cambiò stazione ancora una volta. Altra musica gunk, che però faceva da sottofondo a un notiziario. Il notiziario di solito veniva sempre adattato al ritmo della musica. – … eccoci qua col nostro notiziario della gamma sub–Eta, che trasmette in tutta la Galassia ventiquattr'ore su ventiquattro! – gracchiò una voce. – Un grande ciao a tutte le forme di vita intelligente di tutti i pianeti… e anche a tutti gli altri! Il segreto è il Big Bang, ragazzi! E naturalmente, la notizia super di questa sera è quella del furto sensazionale della prima nave a Propulsione d'Improbabilità, furto effettuato nientemeno che dal presidente Zaphod Beeblebrox. E la domanda che tutti si fanno è… Gli ha fuso finalmente il cervello stavolta, al nostro Big Z? Beeblebrox, l’uomo che ha inventato il Gotto Esplosivo Pangalattico, ex esperto di truffa all’americana, definito una volta da Eccentrica Gallumbits il Miglior Bang dopo il Big Bang, eletto di recente per la settima volta Essere Senziente Peggio Vestito dell'Universo Conosciuto… ha finalmente avuto quello che voleva, stavolta? Lo abbiamo chiesto al suo specialista d'igiene mentale personale, Gag Halfrunt… La musica turbinò impetuosa per un attimo. Poi un'altra voce, probabilmente quella di Halfrunt, disse: – Pene, qvesto ragazzo, Zaphod… – ma non continuò, perché una matita elettrica volò per la
cabina troncando, con la sua interferenza, la trasmissione. Zaphod si girò a guardare torvo Trillian: era infatti lei che aveva tirato la matita.

– Ehi – disse – perché l’hai fatto?
Trillian stava tamburellando con le dita su uno schermo dove apparivano delle cifre.
– Ho appena pensato una cosa – disse.
– Ah sì? Una cosa tanto importante da meritare la precedenza su un notiziario che parla di me?
– Hai già saputo abbastanza notizie su di te. – Io sono un tipo molto instabile. Lo sai anche tu, vero? – Possiamo smettere di parlare del tuo Io per un attimo? È importante.
– Se c'è in giro una cosa più importante del mio Io, dimmelo che le sparo subito. – Zaphod guardò ancora una volta di traverso Trillian, poi si mise a ridere.
– Senti – disse lei – quei due tizi che abbiamo preso su… – Che tizi?
– Quei due tizi che abbiamo raccolto.
– Ah sì – disse Zaphod. – Quei due tizi. – Li abbiamo presi su nel settore zz9 Plurale Z Alfa. – Ah si? – disse Zaphod, sbattendo le palpebre. Trillian disse: – Ti dice niente questo? – Mmmm – disse Zaphod – zz9 Plurale Z Alfa. zz9 Plurale Z Alfa?
– Allora? – disse Trillian.
– Ehm… cosa vuol dire Z? – disse Zaphod. – Quale delle Z?
– Una qualsiasi.
Una delle difficoltà maggiori che aveva Trillian nel suo rapporto con Zaphod era di riuscire a distinguere tra quando Zaphod fingeva di essere stupido solo per cogliere di sorpresa le persone, tra quando fingeva di essere stupido perché non voleva rompersi le scatole a pensare e voleva che qualcun altro lo facesse per lui, e quando fingeva di essere ignominiosamente stupido per non far capire che effettivamente non capiva cosa stava succedendo, ovvero per non far capire che in quel momento era davvero stupido. Era famoso per la sua straordinaria abilità, e a ragione, ma era discontinuo: non era abile sempre, il che lo affliggeva. Per questo aveva inventato quel
comportamento. Voleva che la gente rimanesse sconcertata piuttosto che sdegnata. Trillian giudicava che fosse francamente stupido, ma non aveva più nessuna voglia, ormai, di discuterne con lui. Sospirò e batté alcuni tasti, per fare apparire sul videoschermo una mappa stellare. Qualunque fosse la ragione per cui Zaphod ostentava in quel momento stupidità, rendere le cose più semplici era sempre un aiuto.

– Lì – indicò. – Quello è il punto.
– Ehi… sì! – disse Zaphod.
– Allora? – disse lei.
– Allora cosa?
Trillian urlò mentalmente di rabbia. Disse, calmissima: – È lo stesso settore in cui un tempo prendesti su me. Lui la guardò, poi tornò a guardare lo schermo. – Ehi, sì! – disse. – È strano. Avremmo dovuto trovarci nel bel mezzo della Nebulosa della Testa di Cavallo. Come siamo finiti là? Voglio dire, in un posto del cavolo come quello. Lei fece finta di non sentire.
– È per via della Propulsione d'Improbabilità – disse, paziente. – Me l’hai spiegata tu stesso. Passiamo per tutti i punti dell'universo, no?
– Sì, ma è una coincidenza abbastanza pazzesca, non trovi? – Sì.
– Raccogliere della gente in quel punto! Con l'intero universo a disposizione! È davvero troppo… Voglio fare il calcolo. Computer! Il Computer di Bordo della Cibernetica Sirio, che controllava e permeava ogni particella della nave, si mise in comunicazione con Zaphod.
– Ehilà, salve! – disse, tutto allegro, e nel contempo sputò fuori un minuscolo nastro per la registrazione scritta. Il nastro disse: – Ehilà, salve!
– Oddio – disse Zaphod. Non era da molto che si serviva di quel computer, ma aveva già imparato a odiarlo. Il computer continuò, allegro e sfacciato come un rappresentante di detersivi.
– Voglio che sappiate che qualunque sia il vostro problema, io sono qui per aiutarvi a risolverlo.
– Sì, sì – disse Zaphod. – Senti, credo che farò da solo, con una penna e un pezzo di carta.
– Oh, certo – disse il computer, gettando nel contempo il suo messaggio nella pattumiera – capisco. Ma se mai voleste… – Zitto! – disse Zaphod. Afferrò una penna e si sedette alla consolle, vicino a Trillian.
– E va bene… – disse il computer con un tono di voce offeso, e richiuse il canale di comunicazione.
Zaphod e Trillian studiarono attentamente le cifre che l'analizzatore della rotta d'Improbabilità faceva lampeggiare silenziosamente davanti a loro.
– Possiamo calcolare – disse Zaphod – l'Improbabilità del salvataggio dal punto di vista dei due che abbiamo salvato?

– Certo, è una costante – disse Trillian. – Due elevato alla potenza
di duecentosessantasettemilasettecentonove contro uno. – Un'Improbabilità molto alta. Sono due tizi fortunatissimi. – Sì.
– Ma facciamo il calcolo relativamente a noi, a quello che facevamo quando la nave li ha raccolti…
Trillian batté sulla tastiera. Sullo schermo apparvero altre cifre: due elevato alla potenza dell'Infinito–meno–uno, contro uno (un numero irrazionale che ha solo un significato convenzionale nella Fisica dell'Improbabilità).
– È abbastanza basso – disse Zaphod, con un fischio sommesso. – Sì – convenne Trillian, e lo guardò con aria ironica. – C'è una bella fetta d'Improbabilità da spiegare. Perché la somma torni, nello sbilancio dovrà risultare qualcosa di molto improbabile. Zaphod scarabocchiò alcune somme, le cancellò e buttò via la penna.
– Porca Eva, non riesco a fare il calcolo. – Allora?
Zaphod fece urtare le due teste l'una contro l'altra, irritato, e digrignò i denti.
– E va bene – disse. – Computer!
I circuiti della voce si rianimarono,
– Ohilà, salve! – dissero (tic tac della scrivente…). – Voglio solo rendere la vostra giornata più bella che mai… – Sì, basta con le chiacchiere, fammi un calcolo. – Certo – schioccolò il computer – volete una previsione di probabilità basata su…
– Dati d'Improbabilità, sì.
– Benissimo – disse il computer. – Comincio subito con una piccola considerazione interessante. Vi siete mai resi conto che la maggior parte delle vite sono governate dai numeri telefonici? Le due facce di Zaphod si contrassero in un'espressione di disgusto.
– Ti ha dato di volta il cervello? – disse. – No, ma darà di volta a voi quando vi dirò che… Trillian boccheggiò. Cercò tentoni i pulsanti sullo schermo della rotta d'Improbabilità.
– Numeri di telefono? – disse. – Quel coso ha detto numeri di telefono?
Sullo schermo lampeggiarono dei numeri.
Il computer aveva fatto un'educata pausa. Riprese a parlare. – Stavo per dire che…
– Non disturbarti a farlo, per favore – disse Trillian.

– Guarda, cos'è questo? – disse Zaphod.
– Non lo so – disse Trillian – ma gli alieni stanno arrivando sul ponte di comando assieme a quel disgraziato di robot. Perché non li guardiamo sul monitor?

Marvin si trascinava per il corridoio, lamentandosi. – … e poi naturalmente – stava dicendo – ho questo dolore terribile a tutti i diodi della mano sinistra…
– Ma no?! – disse truce Arthur, che gli camminava a fianco. – Davvero?
– Oh, sì! – disse Marvin. – Ho chiesto che me li sostituissero, ma nessuno mi dà mai ascolto.
– Posso immaginarlo.
Ford stava emettendo strani fischiettii e sibili. – Bene bene bene – disse fra sé. – Zaphod Beeblebrox…
Di colpo Marvin si fermò e agitò le mani in un gesto di scoraggiamento.
– Sapete cos'è successo adesso, vero?
– No, cosa? – disse Arthur, che non aveva voglia di saperlo. – Siamo arrivati a un'altra di quelle porte. La porta in questione cominciò ad aprirsi. Marvin la squadrò con sospetto.
– E allora? – disse Ford, spazientito. – Ci vogliamo passare in mezzo, o no?
Passare in mezzo o no? – lo scimmiottò Marvin. – Sì. Di qui si entra sul ponte di comando. Mi è stato chiesto di portarvi fino al ponte di comando. Sarà probabilmente la domanda di livello più alto di tutta la giornata…
La porta finì di aprirsi. Il robot, con aria di tremendo schifo, ci passò in mezzo.
Grazie – disse la porta – per avere reso tanto felice un'umile porta.
Nel profondo del torace di Marvin, gl'ingranaggi si sentirono opprimere da un peso tremendo.
– Curioso – disse il robot, funereo – che proprio quando si pensa che la vita non possa andare peggio, d'un tratto vada peggio. Lasciò Ford e Arthur a guardarsi in faccia e stringersi nelle spalle, e si trascinò avanti. I due lo sentirono parlare con qualcuno, sul ponte di comando.