5.
LE STRADE PIÙ BUIE

Sandra

Dissi alla Scarmigliata di parcheggiare accanto al cancello della casetta, in modo che potesse scendere dalla macchina ed entrare in giardino senza essere vista da nessun vicino, salvo qualcuno estremamente curioso – cosa che non sarebbe stata poi così rilevante perché tutte le case erano occupate da gente di passaggio, turisti o pensionati. Le ordinai di tirare il freno a mano e di darmi le chiavi. Poi scesi e aprii il cancello e la sua portiera.

Dopo un attimo Santi uscì di casa. Dal rapimento di Janín i rumori, per quanto fossero piccoli, si erano ingigantiti oppure il nostro udito era diventato più fine. Persino una goccia di pioggia che cadeva da una foglia poteva racchiudere un significato. Figuriamoci una porta che sbatteva. Il motore di una macchina. Gente che parlava per strada. Il balbettio di un bambino. Il cellulare che vibrava sul tavolo. Temevamo in particolar modo che venissero a bussare alla porta i poliziotti che si occupavano del nostro caso. Ci atterriva qualunque possibile notizia da parte loro, ci suscitava immagini insopportabili di bambini morti ritrovati nel ruscello che si tuffava in mare o tra i giunchi o in una discarica. A quel punto i due poliziotti, con le informazioni che avevano a disposizione, non sarebbero stati in grado di ritrovare nostro figlio vivo.

La Scarmigliata gettò un’occhiata al tavolino rotondo di ferro con le sedie in pendant, agli oleandri, agli aranci, all’albero di limoni, alla ghiaia, alla piccola veranda e alla lanterna, di ferro come il tavolino e le sedie, che pendeva dal soffitto. Abbracciò con lo sguardo la facciata color ocra e i due motorini. Stava allerta, cercava di assorbire tutti i dettagli che era in grado di immagazzinare e che secondo il suo istinto prima o poi le sarebbero serviti per fuggire. Si stava preparando per ciò che poteva succedere.

Santi la guardò incassando l’ennesima sorpresa, l’ennesima stranezza. Che ci faceva lì, quella donna? La spinsi dentro. Santi si fece da parte.

«È la madre di Martín», spiegai mentre gli passavo accanto sfiorandolo.

«E qui c’è il tuo amico», ribatté lui accendendosi una sigaretta ed esalando la prima boccata di fumo come se la sua vita dipendesse da quello.

Appena si entrava, sulla destra ci si ritrovava davanti il divano del salottino, distinto dalla zona pranzo dal colore degli arredi, e collegato alla cucina da un bancone di legno. All’inizio non vedemmo nessuno. Spinsi di nuovo la Scarmigliata con una manata sulla schiena fino al centro di quell’ambiente. La stoffa a fiori della sua vestaglia, o vestito, era bagnata. Probabilmente l’inquietudine di guidare verso un luogo sconosciuto l’aveva fatta sudare come non mai. Sfiorai una carne che era a metà tra il morbido e il muscoloso. Sembrava forte, ma non avrebbe mai potuto correre veloce quanto me e Santi l’avrebbe atterrata con una manata.

«Siediti qui», le dissi indicandole una delle sedie di legno massiccio del piccolo tavolo da pranzo. Pensavo di legarla per poterle staccare gli occhi di dosso per un attimo. E fu allora che capii la frase di Santi – «E qui c’è il tuo amico» – a cui non avevo prestato attenzione per non distrarmi dalla Scarmigliata.

Spuntò come un gatto dai cuscini del divano. Prima fece un piccolo rumore, un colpo di tosse, e poi alzò leggermente le gambe, gli stivali, si mise seduto e poi in piedi.

«Ma guarda, chi abbiamo qui?» esclamò Julián come se tornasse dal centro della terra.

«Cerca una corda nei cassetti o sotto il lavandino. Deve essercene un rotolo che usiamo per stendere la biancheria», dissi.

A quel punto, davanti allo sguardo stupito di Julián, infilai la mano nella tasca della felpa, presi la pistola e gliela diedi.

La sua mano era fredda e ossuta, ma non tremava, e di sicuro lui avrebbe saputo meglio di me cosa fare con quell’arma.

«È meglio che la corda la cerchi tu», disse puntandola contro la madre di Martín.

La Scarmigliata lo osservò cercando di ricordare. La faccia di Julián le diceva qualcosa. Non era cosciente del fatto che doveva averlo visto nelle foto che con ogni probabilità erano state distribuite tra i membri della Confraternita e forse ai Tre Ulivi, ma non era sicura di niente.

«E perché è qui?» chiese Julián con molta circospezione.

«Che fortuna!» Trovai un rotolo intero di corda. Iniziai a srotolarla con un’allegria infantile, da folle.

«Perché la stiamo sequestrando. Martín dovrà decidere: o sua madre o Janín. Occhio per occhio.»

Santi entrò esalando l’ultima boccata di fumo. Lo inspirava come se fosse acqua e lo espirava come se fosse il demonio.

«Lascia fare a me», disse. «Facciamole vedere com’è fatto un bel nodo.»

La imbavagliammo con il primo straccio da cucina che trovammo, sporco per essere stato passato sul bancone. Glielo mettemmo tra i denti e lo legammo dietro la testa. Doveva essere piuttosto sgradevole, ma tra qualcosa di sgradevole e una tortura c’è un abisso. Ci guardava con gli occhi spalancati, l’unica parte del corpo che poteva muovere senza difficoltà a parte la testa. La vestaglia, bagnata di sudore, stava iniziando a farle venire freddo.

Tirai le tendine della cucina.

«Sarà meglio metterla in quest’angolo, così da fuori sarà impossibile vedere la sua ombra.»

Ce ne occupammo io e Santi. Non volevamo che Julián facesse ulteriori sforzi dopo la coltellata che gli aveva inferto Frida. Ma la sedia era terribilmente pesante, come se il legno fosse pieno di ferro; anche la Scarmigliata pesava un bel po’, e tra l’altro non volevamo fare troppo rumore. La trascinammo come potemmo finché non iniziò a ribellarsi, muoveva il sedere e la testa, e così la sedia si ribaltò di lato. Il colpo dovette essere tremendo. Gemeva come poteva facendo dei versi gutturali, le mancava il respiro. Raddrizzammo la sedia con un certo sforzo. E lei ci faceva dei cenni con la testa. Perciò le sciolsi il bavaglio.

«Che cazzo vuoi?» le gridai per farle capire che potevo essere molto più dura di lei.

«Non ce la faccio più.»

Doveva andare in bagno. E io non volevo di certo che la casa puzzasse di piscio della Scarmigliata, perciò fummo costretti a slegarla. Santi mi chiese come avessi fatto a non pensarci prima. Gli risposi fuori di me, mentre scioglievo i nodi con tutta la rabbia di cui erano capaci le mie mani, che non avevo mai sequestrato e legato nessuno, che prima di legarla non mi era venuto in mente di chiederle: “La signora desidera andare al bagno?”.

«E va bene», concesse Julián, «che faccia quello che deve fare prima di legarla di nuovo, così potremo spostare comodamente la sedia fino all’angolo. Ma Sandra dovrà entrare in bagno con lei. Non mi fido.»

Dovetti sopportare il rumore e l’odore del rivolo di urina calda che usciva dal corpo di quella donna che aveva portato in grembo Martín. E poi non potei fare altro che guardarla con la coda dell’occhio mentre si tirava su le mutande, si abbassava la vestaglia e si lavava le mani e vidi anche le boccette di profumo di mia sorella alla sua portata. Attraverso lo specchio notai che le guardava. Con un movimento rapido poteva prenderne una, romperla sul lavandino e tagliarmi la gola prima che Santi potesse venire ad aiutarmi. Perciò decisi di retrocedere verso la porta e mentre lo facevo lei prese in un batter d’occhio una boccetta di Chanel, la ruppe contro il lavabo proprio come avevo immaginato e io ebbi il tempo di aprire la porta, uscire dal bagno e mettermi a correre. Il corridoio si percorreva tutto con quattro passi e lei avrebbe potuto raggiungermi, ma non lo fece. Quando arrivai nel salotto-sala da pranzo-cucina, Julián e Santi mi guardarono senza capire. Neanch’io capivo finché non mi resi conto che la Scarmigliata non aveva intenzione di ferire me, sarebbe stato inutile. Tornai coprendo la distanza di quattro passi con due falcate.

Era appoggiata al lavabo con il polso sinistro insanguinato. Stretti sulla soglia del bagno Santi e Julián osservavano la scena attoniti. Lei ci minacciava con il vetro insanguinato. Il bagno era inondato da una fragranza meravigliosa che eliminava ogni traccia del cattivo odore della Scarmigliata.

«Dobbiamo aiutarti. Ti stai dissanguando», disse Julián con un tono di profonda umanità che lei non si meritava.

«Mio figlio non diventerà una spia per colpa vostra. Non lo ricatterete usando me», mormorò lei con la mascella serrata.

«Entro mezz’ora perderai i sensi e bloccheremo l’emorragia. Non morirai», replicò Julián, senza dubbio il più adatto a gestire quella situazione, in verità senza molta prudenza perché lei si passò il vetro nell’altra mano, pronta a tagliarsi l’altro polso.

La ferita era poco profonda e il sangue denso, come se nelle sue vene scorresse fango. Provai sollievo. Quelle gocce che schizzavano il lavabo e le piastrelle bianche erano la conferma che mio figlio era ancora vivo, altrimenti Martín non avrebbe potuto tradire nessuno. La speranza mi ispirò, andai verso di lei e le diedi un pugno sulla faccia lucida e carnosa. Barcollò e si portò le mani al naso, il vetro cadde a terra rilasciando qualche altra goccia di profumo. Adesso le sanguinava anche il naso. «Che si fotta!» esclamai.

La presi per i capelli e la costrinsi a sedersi sul bordo della vasca da bagno.

«Non voglio che sporchi il salottino», dissi mentre sentivo le mie parole come se fossero pronunciate da un’altra persona.

Santi cercava lentamente garze, ovatta, alcol e cerotti. Julián ci disse di stare calmi e si occupò di medicarla. Prima il polso. Lo disinfettò con un bel po’ di alcol, per cui fu necessario imbavagliarla con un asciugamano perché non si sentissero i suoi ululati, e poi le mise un po’ di ovatta nelle narici.

«Non so», disse. «Sembra che abbia il setto nasale rotto.»

Presi un sacchetto di ghiaccio dal freezer e glielo sbattei sul naso. Julián le chiese di reggerlo da sé e lei lo lanciò contro le piastrelle di fronte. Mi venne voglia di colpirla di nuovo, ma non volevo peggiorare la situazione, non volevo altro sangue.

Quando l’emorragia dal naso si bloccò, la portammo fino alla sedia. Lei non collaborava e dovetti darle vari spintoni; ogni volta provavo più piacere a malmenarla. Mi piaceva afferrare una manciata dei suoi capelli stopposi e tirarglieli. Quando le facevo male, sentivo il desiderio di fargliene ancora di più. Non avrebbe mai potuto farmi pena, mi veniva solo voglia di strattonarla. Mentre le tiravo i capelli per l’ennesima volta, Julián mi guardò fisso.

«È molto facile superare il limite: controllati.»

Ma di che limite stava parlando? Non m’importava un cazzo di superare il limite. Io non volevo essere migliore di loro, l’unica cosa che volevo era rivedere mio figlio.

Le misi di nuovo lo straccio sulla bocca e stavolta strinsi più forte, con la sensazione che da qualche parte anche Martín stesse sentendo ogni spinta, ogni tirata di capelli e le corde che si conficcavano nei polsi e nelle caviglie. Doveva sentire la furia di sua madre e la sua disperazione. Doveva essere una sensazione strana, sconfortante, che non avrebbe avuto niente a che fare con le ombre della sua infanzia e la sua patetica solitudine. La guardai con disprezzo infinito.

«E adesso che facciamo con questa? E se in questo momento arrivassero i poliziotti che si stanno occupando del nostro caso? E se qualche vicino l’ha vista entrare? Bisognerà darle da mangiare e da bere e in qualunque momento di distrazione potrebbe trovare il modo di attirare l’attenzione di qualcuno. È molto furba, questa figlia di puttana», disse Santi accendendosi una sigaretta.

«Se ci vedessimo costretti a sbarazzarci di lei», intervenne Julián con grande calma e naturalezza, «sarebbe complicato perché è piuttosto voluminosa, pesa molto e ci metteremmo un secolo a farla a pezzi. Dovremmo optare per trasportarla in alto mare e poi gettarla in acqua con un’enorme pietra al collo. Ma voglio vedere chi di noi riuscirebbe a sollevare una pietra del genere. Ovviamente sarebbe più fattibile farla a pezzi. Abbiamo una sega?»

Per la prima volta la Scarmigliata aveva un’espressione veramente terrorizzata. E Julián era incredibile, perché mentre io e Santi a mano a mano che aumentava la disperazione passavamo al lato oscuro del vocabolario, il suo si raffinava sempre di più, con parole come «optare» e «fattibile». Sembrava che stesse leggendo quello che diceva.

«Vado a pulire il bagno. La Scarmigliata lo ha ridotto uno schifo», dissi.

Santi uscì in giardino. Avrebbe potuto fumare dentro, ma aveva bisogno di aria fresca. Bagnai un asciugamano e lo passai dappertutto, poi lo infilai in un sacchetto di plastica per gettarlo in un bidone dei rifiuti. Nel profondo di me, in quel posto recondito (per usare il lessico di Julián) in cui si custodiscono i pensieri peggiori, io avevo ucciso la Scarmigliata e quell’asciugamano insanguinato ne era la prova. Sentivo di essere su quello che chiamano «l’altro lato della legge», sentivo di essere nelle strade più buie, e non provavo nessun senso di colpa o rimorso. E pensare che quando ero piccola avevo paura di attraversare un campo di sera, e persino un semplice corridoio buio.

«Ho pensato», disse Julián mentre mi guardava legare il sacchetto, «a possibili nascondigli dove portarla. Un posto dove a Martín e ai suoi compagni non venga in mente di cercarla. Adesso non possiamo correre ad affittare un appartamento, e tra l’altro non sarebbe abbastanza sicuro.»

Non sapevo dove voleva arrivare. I posti che conoscevo erano quella casetta, la residenza I Tre Ulivi, i Bungalow Bremenn. Tutti posti scartati. Villa Sol era stata messa sul mercato e restava soltanto la grande casa di Otto e Alice.

Santi entrò, si lavò le mani e si sfregò anche una macchia sulla camicia.

«Bene, cosa ti è venuto in mente?» chiesi a Julián.

«La metteremo nel seminterrato della casa di Otto e Alice. Adesso è chiusa in attesa che i proprietari ritornino e sembra che a nessuno della Confraternita venga in mente di andarci. Non sono autorizzati a occuparla e, da quello che abbiamo visto l’altro giorno, non hanno nessun interesse a pulirla. È il posto migliore.»

Annuii varie volte.

«Dovremo aspettare le prime ore del giorno per portarcela. A quell’ora sono svegli solo i pescatori», disse Santi senza smettere di sfregare la macchia. «Io andrò avanti.»

Julián si infilò l’impermeabile. Una tasca gli pendeva più dell’altra per il peso della pistola. Prese le chiavi del motorino, e la cosa mi sorprese: non volevo che ci lasciasse soli. Anche Santi si innervosì, invece la Scarmigliata chiuse gli occhi sollevata.

«Devo farmi vedere alla residenza. Tornerò appena possibile, non vi preoccupate.»

Mi chiesi se sarei stata in grado di proseguire in quella storia senza Julián. Mi chiesi se sarei stata in grado di sopravvivere a Villa Sol senza Julián. Santi aveva gli occhi pieni di lacrime.

«Fai il caffè!» gli ordinai con la voce più aspra e forte che fui capace di tirare fuori dal petto.

La Scarmigliata era una spettatrice in prima fila della nostra tragedia. L’avrei messa con piacere con la faccia rivolta verso il muro, ma volevo tenere sotto controllo il suo viso e non avevo più voglia di avvicinarmi a lei per cambiarle di nuovo posto.

Julián

Dovetti fermarmi per fare benzina a Libertà II. Per fortuna avevo messo l’impermeabile. Faceva un fresco che per me era freddo. Da quando avevo compiuto ottant’anni avevo sempre freddo e se avevo caldo svenivo, perciò in fin dei conti era quasi meglio il freddo se non avevo paura di beccarmi una polmonite. La polmonite era un pericolo latente. Alcuni dei miei amici, che non erano neppure stati a Mauthausen e non sapevano cosa significasse stare nudi in un cortile innevato, erano morti proprio per una semplice polmonite. Li avevano portati in ospedale perché avevano la febbre, lì era stata loro diagnosticata una polmonite, si erano aggravati e poi erano morti. Quando avessimo recuperato il bambino avrei riso delle polmoniti. Pensavo di comprare qualche bottiglia di champagne da condividere con Sandra e Santi con quello che mi restava sul mio risicatissimo conto in banca, e di farmi il bagno nudo in mare. Se mi avessero ricoverato in un ospedale sarebbe stato dopo aver fatto il bagno nudo come un verme.

«Ero preoccupata per te», mi disse Geralda non appena mi vide in giardino.

«Sto bene», risposi. «Ho appena recuperato il motorino.»

«Dov’era?»

«Era rimasto dove mi hanno aggredito. È così vecchio che non lo hanno preso.»

Scoppiò a ridere. «Eh già, noi vecchi non interessiamo proprio a nessuno», commentò.

«Tu sei un vero e proprio piacere per gli occhi. Non dovresti stare qui.»

«Eh...» sospirò scuotendo la testa e muovendo la sua chioma aristocratica e brizzolata che quel giorno portava sciolta. «E tu sei molto coraggioso. Sei tornato sanguinante senza lamentarti. James non è ancora arrivato. È una banderuola.»

Non mi disse che mi aveva seguito e io non potevo chiederle niente, perché poteva trattarsi benissimo di mie fantasie. Forse non voleva infastidirmi dandomi a intendere che la preoccupava che potessi avere un incidente con il motorino.

Era già quasi l’ora di pranzo. Il tempo va sempre al contrario: durante l’infanzia, quando si vuole che passi in fretta, va a passo di lumaca. Quando avremmo bisogno di un momento di respiro, che l’orologio si fermasse per un attimo, decide di andare a tutta velocità. C’era odore di brodo di pollo. La residenza era impregnata dell’odore del pranzo, che per noi era alle due in punto, momento in cui alla maggior parte degli ospiti toccava il secondo giro delle varie medicine. Alle due stavamo già sorbendo il brodo e inghiottendo le pillole. Per alcuni quello era tutta la vita: sapere cosa c’era di secondo e che gli avrebbero misurato la pressione. Per altri, come me e James, era una semplice circostanza della vita, anche se a dire il vero a James interessava sempre molto sapere cosa c’era per dessert. Andava pazzo per la crema inglese e i profiterole al cioccolato accompagnati dal vino.

Alle due meno un quarto mi ero già seduto al mio posto con il tovagliolo sulle gambe. Volevo essere uno dei primi a essere servito per poi correre alla biblioteca comunale. Dovetti richiamare varie volte l’attenzione della cameriera e farle vedere che ero stato il primo ad arrivare, cosa che sembrò disturbarla come se fossi in ritardo. Da quando non godevo più del favore di Pilar mi trattavano come uno dei tanti.

Stavo finendo la sogliola in crosta di patate quando spuntò Geralda.

«C’è l’anguria», le dissi.

«Stamattina ti ho cercato dappertutto», intervenne James.

«Hai comprato i plettri?»

Se n’era dimenticato. Era impazzito a furia di guardare le chitarre e non ci aveva più pensato. Poi si era messo a cercare me e infine aveva pensato che potevano avergli fatto la multa perché aveva parcheggiato nella zona riservata ai disabili, e quando era già a metà strada si era ricordato dei plettri. Pensai che la sua meravigliosa vita fatta di mille attività e vagabondaggi lo aveva reso smemorato, non si era visto costretto a fare caso ai dettagli, né a essere sospettoso, né a guardarsi le spalle. Era come un bambino.

Non mangiai l’anguria per non dover andare in continuazione in bagno per tutto il pomeriggio e mi alzai prima dei caffè e delle tisane. Mi liberai come potei dalla cara Geralda e passai in biblioteca prima di andare poi alla casetta, dove mi aspettavano Sandra, Santi e la Scarmigliata legata a una sedia.

Salutai la bibliotecaria e superai il tavolo dell’eterno studente occhialuto. Adesso portava una benda elastica al polso e aveva le nocche di una mano livide, come se fuori di lì avesse una seconda vita, per giunta non molto tranquilla. Andai direttamente verso i grossi volumi dell’emeroteca. Aprii quello che parlava di Otto e dei suoi camerati e di come per loro la Spagna fosse stata un luogo di passaggio e in qualche caso di residenza. Tornai alla frase sottolineata da Salva su Otto e sulla sparizione dello scienziato Heinz Krug.

Cercai quel nome con la pressione a mille per l’emozione. A quanto pareva in quel periodo lavorava al programma missilistico egiziano, perciò perché gli stessi egiziani avrebbero dovuto sequestrarlo? Non era più logico che lo rapisse il Mossad? Guardai di nuovo la foto di Otto davanti alla grotta. Forse gli uomini che erano con lui non erano commilitoni nazisti. Il loro aspetto non era precisamente ariano.

Ciò che stavo sospettando sembrava incredibile, ma era la spiegazione più logica.

A quel punto mi misi a guardare lo studente così intensamente che prima si sentì a disagio e poi provò un vero e proprio fastidio. Si alzò e venne verso di me.

«Che succede?»

«Niente, figliolo, credo di aver trovato la chiave di tutta questa faccenda e che presto potremo liberare la creatura.»

Mi guardò provando pena verso di sé e disprezzo verso di me. Che importava, era lui che stava scegliendo quella vita così demenziale. Rilessi l’ultima pagina per capire se la mia immaginazione stava interferendo con la realtà. Sarei dovuto salire fino alla grotta a tutti i costi. Prima però sarei passato al centro commerciale a comprare qualcosa per cena. Non contavo sul fatto che Santi e Sandra si occupassero di una simile piccolezza. Avrei comprato qualcosa di semplice e neutro alla vista che non facesse pensare a nessun tipo di piacere, affinché non si sentissero in colpa per l’ennesima volta. E pensai anche ai bisogni della Scarmigliata, come la chiamava a ragione Sandra.

Sandra

Con il passare delle ore mi veniva sempre più voglia di imprecare. Non sentivo il cuore. Dovetti slegare la Scarmigliata per portarla in bagno, ma stavolta non le liberammo le mani e non le togliemmo il bavaglio, perciò dovetti abbassarle io le mutande. Poi gliele tirai su e pigiai il pulsante dello scarico. Mentre uscivamo mi diede una pedata e io le risposi con un ceffone.

Le scesero le lacrime. Potevano essere di rabbia, di pena per sé stessa, di odio. Non me ne fregava un cazzo delle sue schifosissime lacrime. Come se una lacrima potesse redimerla.

«Non so come fai a portare i capelli in quel modo. Sembri una pazza», le dissi facendola sedere bruscamente sulla sedia.

Serrò la mascella.

«Perché adesso non gridi?» la incalzai, sapendo che per lei era impossibile farlo.

Santi mi guardava.

Avremmo voluto non essere così soli. E la presenza della Scarmigliata ci faceva sentire ancora più isolati. Santi prese il telecomando del televisore, ma non lo accese. Lo tenne in mano come soppesandolo e fissò lo sguardo sullo schermo nero vedendo la propria immagine sfocata che si disfaceva nel vetro. Io mi sedetti su una sedia e mi concentrai su Janín. Quando era nato mio figlio, ero stata per quindici giorni a casa dei miei genitori. Non faceva altro che piangere e dormiva con me nella mia vecchia stanza da eterna adolescente. Lo allattavo ogni quattro ore. Adoravo il suo profumo e il fatto che stesse accoccolato accanto a me. Gli baciavo la fronte sempre un po’ bagnata. La Scarmigliata chiuse gli occhi e si addormentò con la testa inclinata verso la spalla sinistra.

Santi adesso fumava in giardino facendo la guardia e disprezzando la vita. Io continuai a pensare a Janín, al fatto che mia sorella gli aveva regalato delle scarpette apache con le frange con cui lui si piaceva tantissimo e faceva qualche passetto quando noi lo tenevamo per le mani. Tutte le sue caratteristiche, che prima erano semplici dettagli, mi si ingrandivano nella mente, i colori delle tutine, il disegno sul petto della salopette – una casetta con un comignolo da cui usciva il fumo – e mi sentivo colpevole per il fatto che qualche volta il suo pianto mi aveva irritato. Adesso avrei dato qualunque cosa per sentirlo piangere.

Julián comparve con una confezione di pannoloni per adulto, due polli arrosto e un filone di pane. I polli emanavano un profumo molto forte e mi venne la nausea. Secondo lui non mangiare era un azzardo e un’incoscienza. Quando iniziò a raccogliere le pentole e a lavare i bicchieri, mi avvicinai per aiutarlo.

«Siediti, ci penso io», disse.

Per un istante ci dimenticammo tutti e tre che la Scarmigliata ci osservava. Aveva gli occhi un po’ gonfi per aver pianto e dormito, per aver pensato. Fui quasi felice di dover lavare i piatti e spazzare, di pulire il tavolo con lo straccio e lavarlo bene perché puzzava di pomodoro inacidito. Mi fece bene sistemare quella stalla che stava iniziando ad assomigliare a quella della Scarmigliata, il che non era affatto un buon segnale perché noi eravamo un altro tipo di persone. Oppure non più?

Quando Santi entrò, il salotto brillava e Julián era tutto intento a prendere appunti sul divano. Lo usava soltanto lui. Si era tolto gli stivali e teneva le gambe stese sui cuscini.

«Aiutami», dissi a Santi solo per fargli fare qualcosa. «Metti i polli su quel fornello.»

«Facciamo una bella festa?» chiese lui con quel sarcasmo orribile che aveva sviluppato negli ultimi giorni.

«Bisognerà darle qualcosa da mangiare. Non vogliamo che muoia prima che l’ammazziamo noi, vero?» Mi sorprendeva sentire me stessa parlare di ammazzare una persona come se niente fosse. Fino a pochissimo tempo prima la vita e il bene erano da una parte, la morte e il male da un’altra. Adesso non c’era più separazione. Il rapimento di Janín aveva abbattuto la frontiera tra l’odio e i sentimenti normali. Mi bastava guardare la Scarmigliata per sapere che stavo smettendo di essere normale e, come me, anche Santi e Julián.

Santi fece quello che gli avevo chiesto di malavoglia. Mise i polli sul fornello come se li stesse buttando nella spazzatura e staccò una coscia.

«Ti tolgo il bavaglio. Se gridi ti spacco la faccia, anche se qui non ti può sentire nessuno, e se ti sentono penseranno che ti stai divertendo. Poi ti avvicinerò questa coscia di pollo alla bocca e tu ne mangerai un pezzo bello grande. Lo masticherai e lo butterai giù e poi ne mangerai un altro pezzo. Se fai qualche cazzata, non ti daremo nient’altro. Tanto hai riserve di grasso in abbondanza.»

In vita mia non avrei mai immaginato che vedere soffrire una persona potesse arrivare a piacermi, che la crudeltà mi avrebbe dato soddisfazione.

Santi le avvicinò la coscia alla bocca e lei ne staccò un pezzo e poi glielo sputò in faccia. Finii di piegare uno straccio che aveva ancora i grumi di omogeneizzato di Janín e mi avvicinai a loro. Le colpii la faccia con lo straccio con tutte le mie forze. Non volevo che Santi finisse per picchiare una donna, anche se si trattava della Scarmigliata, non volevo che per colpa sua ci abbrutissimo fino a quel punto. E il fatto che avessi ancora qualche scrupolo significava che pensavo al futuro, e il futuro era mio figlio. Lei gridò e Santi le infilò la coscia di pollo in bocca.

«A quanto pare vuoi lasciare orfano tuo figlio. Grida un’altra volta e te la ficco in gola», sbottò Santi.

La tirò fuori e le ordinò di mordere di nuovo.

Lei strinse i denti e le labbra. Si capiva che gliele avevano baciate poco. Erano bianche, senza vita, non ci scorreva il sangue. Era da secoli che le usava solo per mangiare, bere e parlare. Aveva procreato Martín con i baci o senza? Forse suo figlio le ricordava i pochi che aveva avuto, e per quello lo amava tanto. Amava un po’ d’amore.

«Dai un morso ti ho detto!» insistette Santi rabbiosamente passandole la coscia sulla bocca. All’improvviso le labbra le divennero lucide e si iniziò a distinguerne la forma. Faceva bene a non usare il rossetto.

La coscia di pollo stava iniziando a sfilacciarsi. Santi aveva le dita unte e lei non cedeva. Julián smise di prendere appunti e si alzò dal divano. Capimmo tutti che se non l’avessimo uccisa in quel momento non ci avrebbe preso sul serio.

«Qui no», disse Julián rimettendo le cose al loro posto. «Ceniamo, riposiamoci un po’ e poi la spostiamo. Tappale quella boccaccia.»

Santi la imbavagliò di nuovo con lo straccio sporco e da dove si trovava lanciò la coscia di pollo spolpata e piena di bava nella spazzatura.

«Alla residenza non si preoccuperanno se stanotte non torni?» chiesi a Julián.

Gli occhi della Scarmigliata soppesarono le mie parole e si fissarono su Julián. Aveva appena risolto un’incognita. Adesso sapeva dove aveva già visto quell’uomo: ai Tre Ulivi.

Gli allungai il cellulare di Santi perché potesse chiamare. Rimase pensoso per un attimo e poi digitò un numero.

«Ciao, Pilar. Sì, sto bene, non preoccuparti. Mi chiedevo se avessi voglia di venire a bere qualcosa a casa del pittore. Te lo ricordi? Quello della mostra. Ah, mi dispiace. E va bene, ci vediamo domani, stasera resto qui e magari anche domattina. No, non sono sicuro che sarò lì per pranzo, sai come sono gli artisti.»

Mi restituì il cellulare dicendomi che era un modo per dire alla responsabile della residenza che quella sera non sarebbe tornato senza darle spiegazioni in maniera diretta.

«E se lei avesse accettato l’invito?» chiesi.

«È giovedì, e di giovedì lei va sempre a ballare con uomini giovani e vigorosi.»

La Scarmigliata ascoltava con attenzione, era molto interessata a sapere cosa le era sfuggito durante le sue visite alla residenza, quando si prendeva cura del Macellaio. Mi venne in mente di infilarle due batuffoli di ovatta nelle orecchie, ma dopo un attimo me ne dimenticai. Da quando mi dominava la preoccupazione intensa e devastante per Janín, la mia mente passava da un pensiero all’altro alla velocità della luce. Dai batuffoli di ovatta passò ai polli sul tavolo. Dopo aver visto la coscia nella bocca della Scarmigliata, mi facevano proprio schifo.

Julián aprì il frigorifero, tirò fuori un pomodoro maturo che non arrivava a essere marcio e lo tagliò a pezzetti su una porzione di petto di pollo.

«Forza», disse, «è l’unica cosa che mangeremo stasera.»

«Grazie, ma non posso», risposi. «Mi vengono i conati solo a vederlo.»

Santi obbedì e masticò l’altra coscia guardando verso la finestra. Fortunatamente c’era la luna calante e la strada era poco illuminata. A meno che il vicino della casa accanto non fosse in giardino a fumarsi una sigaretta intorno alle quattro di notte, nessuno ci avrebbe visto salire in macchina con la Scarmigliata per andare alla casa di Otto e Alice; si sarebbe sentito soltanto il rumore del motore nel momento in cui avremmo messo in moto. Quando Santi finì, lanciò l’osso nel secchio della spazzatura. Prese un boccone di pane per togliersi il sapore dalla bocca e io feci lo stesso. Il pane era buono, imitava quello artigianale, cotto in forno a legna, e se uno non andava tanto per il sottile ci poteva anche credere. Mi si formò una palla nello stomaco.

L’unico che cenò lentamente e quasi assaporando ogni boccone fu Julián. Nel profondo del mio cuore glielo rimproveravo, e mi alzai da tavola. Andai a letto. Era terribile coricarmi e chiudere gli occhi. Per quanto mi sentissi molto stanca, la mia mente era accesa come quando prendevo le anfetamine per gli esami. Vedevo tutto con una chiarezza strana, che mi lasciava senza fiato. E sapevo che a poco a poco la chiarezza sarebbe diventata vetrosa e confusa, come i postumi di una forte sbronza, e non sarebbe servita più a niente, perciò non potei far altro che prendere un Orfidal. Mi misi a letto vestita, non mi tolsi neanche gli stivali ma tirai su le lenzuola e il copriletto. Sentii i passi di Santi che evidentemente stava andando a fare la stessa cosa in camera sua e pensai che Julián avesse bisogno di una coperta, ma non avevo né la forza né la voglia di fare altro.

Julián

Li svegliai alle quattro, come avevamo concordato.

Mi ero steso sul divano mettendomi addosso due accappatoi che avevo trovato in bagno e mi ero anche coperto la testa con un cuscino per non sentire russare la madre di Martín. Ero riuscito ad assopirmi per un’ora intera. Non si poteva chiamare sonno perché sentivo tutti i rumori, anzi sentivo anche quelli che avrebbero potuto esserci, come il cigolio della porta di ingresso, una finestra che si apriva o passi di stivali militari.

Non dimenticavo di avere la pistola carica ai piedi del divano e a portata di mano. Dovevo soltanto prenderla e per farlo avrei avuto tempo a sufficienza, posto che se fosse entrato qualcuno non mi avrebbe individuato subito. Il divano era di fronte a un finto camino e chi fosse entrato ne avrebbe visto soltanto lo schienale alto.

Feci un caffè bello carico e mi accorsi che la prigioniera stava avendo degli spasmi muscolari. Peggio per lei. Le avevamo offerto da mangiare e la possibilità di un trattamento migliore, e l’aveva rifiutato. Fintanto che non era morta, non mi faceva pena. E anche dopo non mi avrebbe fatto pena, mi avrebbe fatto soltanto preoccupare. Mah! Morire non è così facile, prima della fine una persona come lei sarebbe dovuta passare per molte fasi di malattia e debilitazione. Non avevamo fatto nient’altro che iniziare. Andai a guardare fuori. Il giardino era tranquillo, come pure la strada. Dal mare saliva l’odore del sale e nel silenzio si avvertiva leggero il rumore delle onde. Faceva fresco, l’umidità mi si insinuava nelle ossa. Il caffè mi fece bene. Riunii tutto quello che dovevamo portare via: i pannoloni, il caffè, quello che rimaneva del pane e del pollo. Quei ragazzi non avevano neanche idea di ciò che stavamo facendo. Presi da un mucchio di panni piegati su una sedia dei calzini e una maglietta da uomo. Infilai tutto in un sacchetto del supermercato.

Svegliai per primo Santi. Si alzò di colpo.

«Che succede?» chiese, completamente stralunato.

«È ora di andare. Tieni, una tazza di caffè.»

La prese tra le mani e bevve mentre scendeva le scale. Era scalzo e non portava la camicia.

«Fa freddo, mettiti qualcosa addosso.»

Salì di nuovo e scese con una Lacoste rosa, che non sembrava far parte del suo guardaroba.

Si versò un altro po’ di caffè e osservò la Scarmigliata, che dormicchiava e di tanto in tanto apriva gli occhi per sincerarsi che tutta quella situazione non fosse un incubo, poi li richiudeva per sfuggirvi.

«È meglio che vai avanti tu con il motorino: con molta cautela salti la recinzione, entri dalla finestra della cucina come l’altro giorno, apri la porta e il cancello», gli dissi. «Così, quando io e Sandra arriviamo con lei in macchina, la teniamo fra me e te e la portiamo nel seminterrato. Nel frattempo Sandra parcheggerà in una strada dove la macchina non insospettisca nessuno. Tu puoi lasciare il motorino dovunque.»

Non ci fu bisogno di svegliare Sandra: scese sfregandosi la faccia con un asciugamano. Le versai una tazza di caffè con due cucchiaini di zucchero, perché avrebbe avuto bisogno di tutta l’energia possibile. Era già vestita, perciò le chiesi di mettere nella macchina il sacchetto del supermercato e di avvicinarla alla porta. Non c’era tempo da perdere, non dovevamo tenere accese le luci della casa per tanto tempo, non si poteva mai sapere chi avrebbe potuto vederle. Nel frattempo liberai le mani della Scarmigliata e le chiesi di slegarsi da sola i piedi. Le puntavo contro la pistola. Mi obbedì, c’era qualcosa in me che mi rendeva più temibile degli altri.

«Adesso andiamo in bagno. Niente sciocchezze. Fai i tuoi bisogni. Non preoccuparti di me, ho visto tutta la sozzura umana del mondo.»

Si tirò su la vestaglia e si sedette sul water senza togliermi gli occhi di dosso, casomai le avessi dato l’opportunità di agire.

«Sai una cosa? Non abbiamo più bisogno di te. Ho scoperto come recuperare il bambino. Se ti sparassi dispiacerebbe soltanto a tuo figlio, agli altri non importerebbe niente, non sei una di loro.»

Quando finì, intuii chiaramente che stava soppesando la possibilità di accopparmi. Era una donna forte con le braccia muscolose, e io un vecchio con il cuore ridotto male. Valutò quanto fosse svantaggioso per me che si sentisse un colpo di pistola a quell’ora, di cui si sarebbero accorti tutti i vicini dei dintorni.

«Le case qui intorno sono vuote e uno sparo assomiglia a un terremoto, ma in ultima istanza lo farei senza pensare alle conseguenze», dissi intuendo i suoi pensieri e guardandola fisso negli occhi.

In salotto le chiesi di sedersi e aspettammo che tornasse Sandra, che le legò le mani dietro la schiena e le mise addosso una felpa con il cappuccio tirato sulla testa. Uscimmo. La facemmo sedere sul sedile posteriore dell’auto. Io chiusi la porta di casa mentre Sandra metteva in moto. Pregai che non incrociassimo nessuna volante della polizia, visto che sarebbe stato difficile spiegare loro perché avevamo con noi una donna legata e imbavagliata.

Era impressionante, sulla strada verso Tosalet, vedere la macchia scura degli alberi che si univa alle stelle. Scintillavano sulle ondulazioni abissali dei monti come se al firmamento fosse caduto uno strato di pelle. Pareva che se avessi alzato la mano e l’avessi infilata in quell’oscurità qualcuno o qualcosa mi avrebbe tirato verso l’alto. Per il momento eravamo laggiù e facevamo quello che potevamo. Anche la Scarmigliata alzava di tanto in tanto lo sguardo verso quell’immensità, probabilmente pensando a come se la sarebbe cavata suo figlio senza di lei.

Mi meravigliò l’abilità di Sandra nel riuscire ad arrivare fino alla casa di Otto e Alice con le luci spente dall’inizio della strada. Santi aprì appena il cancello e io diedi una mano a far scendere la Scarmigliata. La spinsi tenendole la pistola puntata su un fianco. E pur sapendo entrambi che non avrei potuto ucciderla lì, era un avvertimento del fatto che avrei potuto farlo più avanti in un fosso qualunque. Andammo rapidamente verso la casa. Santi socchiuse in fretta il cancello senza chiuderlo del tutto per permettere a Sandra di entrare.

Nella villa faceva freddo. Tirai fuori una torcia dalla tasca: le luci della casa avrebbero reso evidente la nostra presenza. La prigioniera guardava con gli occhi spalancati quel posto al quale fino a quel momento non aveva avuto accesso. Un luogo intoccabile per lei, la dimora di uno dei suoi idoli. La luce della torcia scivolava sul camino di marmo verde, sui divani di raso giallo, sulle scale bianche, sui mobili di mogano. Presi la confezione di pannoloni. Santi portò il nostro ostaggio giù per le scale tenendola per un braccio: non volevamo che cadesse o che si buttasse.

Con la torcia esplorammo il seminterrato finché non trovammo un divano di pelle lungo due metri dove probabilmente Otto schiacciava qualche pisolino. In un ripiano alto di un armadio c’erano varie coperte. Chiesi a Santi di prenderne una perché io non ci arrivavo e in più dovevo occuparmi della pistola. Gli dissi anche di slegare le mani alla donna.

Allungai alla Scarmigliata la confezione di pannoloni e le ordinai di mettersene uno. Non avremmo potuto essere sempre presenti per portarla in bagno. Probabilmente quando l’aveva catturata, o sequestrata, Sandra non si era soffermata su quei particolari. Doveva essersi fatta trasportare da quell’immagine dei film di un prigioniero legato al letto, che può passare giorni interi senza che dal suo corpo esca niente.

«Starai molto comoda su quel divano di pelle, non sappiamo se umana. Sai bene quanto sono capricciosi i tuoi capi.»

Lei si tirò su la vestaglia. Era la seconda volta che assistevo a quella scena; Santi si voltò di spalle. Quando se l’abbassò sembrava che avesse i fianchi più larghi. Le feci cenno di mettersi i calzini e la maglietta che avevo portato dalla casetta e poi di stendersi. La storia della pelle umana l’avevo detta per farle provare ribrezzo per il divano, ma siccome in fondo poteva essere vera cercai di sfiorarlo il meno possibile. Santi comparve dal fondo del seminterrato con una bella corda e un altro paio di torce.

«Qui c’è di tutto», disse.

«C’è anche una sega elettrica?» domandai dando le spalle alla Scarmigliata, ma sentendo il suo sguardo atterrito su di me.

«Sì, e anche guanti di gomma. E c’è un congelatore con torte e altre pietanze già pronte.»

«Vivevano come re», commentai mentre cercavo il modo di legarla al divano. «Porta un cacciavite. Devo fare un buco da cui far passare la corda.»

Alla fine riuscimmo a legarla per bene. Le tre torce la illuminavano da un tavolo come se fosse un quadro. Ma siccome non volevamo che al sorgere del sole la si potesse scorgere dalle finestrelle del seminterrato, dovemmo spostare di qualche metro il divano con lei sopra. L’operazione mi lasciò stremato e cercai un rubinetto per bere un po’ d’acqua. Come diceva Santi, c’era di tutto là sotto, persino un bagno con la doccia.

Mi lavai la faccia e bevvi l’acqua con la mano. In un vaso dalla forma allungata c’erano dei fiori di stoffa. Li buttai e ci misi dentro l’acqua. Poi cercai un tubo di gomma stretto e lungo, che probabilmente usavano per l’irrigazione automatica del giardino, lo tagliai e lo infilai nel vaso. Lo misi accanto al divano e infilai il tubo nel bavaglio che aveva sulla bocca.

«Così potrai bere quando hai sete, ma senza esagerare, perché potresti rimanere senz’acqua.»

Santi rimase ad ammirare la mia opera con la testa piegata da un lato.

«Adesso è ora di comunicarlo a suo figlio», concluse. «Si chiama Martín, no?»

Sandra

La casa di Otto e Alice sembrava disabitata come sempre. Dopo che Julián e Santi ci furono entrati insieme alla Scarmigliata, parcheggiai la macchina in una strada laterale. Non c’erano luci accese. Bene. Guardai in tutte le direzioni prima di entrare e chiusi il cancello dall’interno. Non potei evitare che il rumore rimbombasse in mezzo all’oscurità. Per fortuna, una volta dentro, era impossibile essere visti. Gli alberi alti e fitti lo impedivano, e avrebbe potuto intravedersi qualcosa soltanto dagli ultimi piani dell’hotel Dianium. Mi facevo guidare dalla luce delle stelle e da quella scarsa della luna. Conoscevo la strada fino alle colonne doriche e al porticato. C’era odore di foglie marce, come se l’acqua della piscina non si fosse ancora asciugata del tutto. Lasciai la porta aperta per poter vedere dentro. Mi arrivò un leggero riverbero, come se nel centro della terra ci fosse un falò. Andai fin lì, il silenzio era totale. «Sandra?» Sentii che Santi mi chiamava. «Scendi, ti faccio luce io», disse dal seminterrato.

Respirai. La discesa mi sembrò interminabile. E quando arrivai alla fine delle scale vidi il volto di Santi sfigurato dalla luce delle torce. Fui sul punto di gridare e mi resi conto che avevo i nervi a fior di pelle nonostante l’Orfidal che avevo preso qualche ora prima.

Mi abbracciò, e per la prima volta non mi sottrassi. Rimasi per un attimo con la faccia tra il suo collo e la sua spalla. Sentii la mancanza di Alberto e mi odiai per averlo nei miei pensieri in un momento del genere.

«È tutto sotto controllo», intervenne Julián illuminando la Scarmigliata che ci osservava in preda al panico.

«Non sappiamo neanche come si chiama», dissi.

«Adesso prepariamo un altro po’ di caffè con la caffettiera che ho trovato», riprese Julián. «In quel sacchetto c’è il pane.»

Io restavo in silenzio.

«In questo seminterrato non manca niente», osservò Santi con voce malinconica.

Tirai fuori il pane. Julián aveva ragione. Dovevamo fare colazione. Ci aspettava una giornata molto intensa.

La Scarmigliata aveva una coperta addosso e un cuscino sotto la testa. Adesso indossava un paio di calzini – che mi sembrava di aver visto stesi alla casetta – sotto le ciabatte. E a quanto pareva la faccenda del bagno si era risolta con un pannolone. Non aveva di che lamentarsi. Stava quasi meglio lì che nella sua casa sgangherata. Almeno non doveva occuparsi di dare da mangiare ai cani. Se era furba, avrebbe cercato di riposare finché non si fosse scatenata la tempesta. Stava molto meglio di me. Avrei fatto cambio con lei un milione di volte purché mio figlio fosse libero come il suo. Niente di ciò che avrebbero potuto farmi era paragonabile all’angoscia di non sapere cosa stava capitando a Janín.

«Dovremmo andare a casa sua. Martín deve essere lì, in attesa che arrivi sua madre.»

Prendemmo ognuno varie tazze di caffè aspettando che la caffeina ci desse la soluzione e illuminasse la strada che dovevamo percorrere, come aveva fatto per me qualche minuto prima la torcia di Santi. E speravamo che il suo aroma intenso non attraversasse i muri della casa e non arrivasse lontano. Il caffè aveva un sapore un po’ strano perché era fatto con l’acqua del rubinetto, ma ci fece svegliare e riscaldare.

«Dovremmo mandare a Martín un biglietto anonimo come ha fatto lui con te quando te lo ha infilato nella borsa del bambino», disse Julián.

Non avevamo un piano. Improvvisavamo a mano a mano, e questa non era una buona cosa. I sentimenti di amore, angoscia e disperazione ci annebbiavano di sicuro le facoltà mentali, non è così facile essere intelligenti. In quel momento avremmo avuto bisogno di qualcuno che valutasse la situazione dall’esterno, un dirigente in giacca e cravatta con la mente fredda e molto sicuro di sé.

«Perché perdere tempo con i biglietti anonimi? Andiamo a cercarlo.»

Mi versai un altro po’ di caffè. Il suo sapore forte di tubature era in completa sintonia con il mio essere. La caffettiera era una Melitta vecchiotta con residui di polvere attaccati al vetro, ma funzionava alla perfezione. Era in un angolo su un tavolo allungato con piccoli mosaici incastonati nel legno, che probabilmente veniva ricoperto di croissant e dolci di ogni genere durante le colazioni della Confraternita. Puntai la torcia tutto intorno a me: il seminterrato in un certo periodo era stato ben arredato. C’erano piantane e tappeti persiani, probabilmente autentici, arrotolati e addossati alle pareti, poltrone di raso rosso e altre di pelle dove di certo sprofondavano Otto, Fred, il Macellaio e altri vecchi nazisti. Sembrava che lo scantinato di Villa Sol (la casa di Fred e Karin) fosse destinato più alle cerimonie, mentre quello in cui ci trovavamo fosse utilizzato per le feste. Spostai un lenzuolo e comparve un giradischi che dovevano aver usato quando erano più agili, negli anni Sessanta o Settanta. Qualunque studioso di postnazismo lì dentro sarebbe impazzito. La luce della torcia cadeva sui vinili malinconica, decadente, nostalgica e fredda, morta. La voce di Santi mi costrinse a reagire.

«Che dici, Sandra? Andiamo a casa di questa pazza?»

Julián si sedette sulla poltrona di raso rosso e chiuse gli occhi. Probabilmente stava pensando, o forse dormicchiando un po’. Non si era tolto l’impermeabile.

«Julián dovrebbe restare qui o, meglio, tornare alla residenza. Questa è una cosa tra me e Martín da quando ha rapito mio figlio.»

«Nostro figlio», puntualizzò Santi alterato. Evidentemente gli sembrava che così il bambino fosse più protetto, meno solo in questo universo freddo ed estraneo.

«Probabilmente ormai Martín ha già fatto due più due ed è andato alla casetta a cercare sua madre», disse Julián, dando per scontato che una volta arrivato a casa sua Martín non fosse caduto come un ciocco nel letto pensando che la mammina stesse facendo commissioni dalle parti dei bungalow di Punta Negra.

La Scarmigliata chiuse gli occhi e si infagottò come poté con la coperta. Le nostre chiacchiere non le interessavano più e aveva deciso di riposare, il che significava che aveva dedotto che non avevamo neanche idea di dove potesse essere Martín, altrimenti avrebbe cercato di rimanere allerta. In ogni caso io e Santi saremmo andati a dare un’occhiata. E dovevamo allontanarci da lì prima che facesse giorno e potessero vederci.

Cercammo nel vestibolo le chiavi di casa. Guardammo in scatole di legno intagliato e d’argento. Non potevamo perdere altro tempo, perciò mettemmo un fermo sotto la porta perché non si chiudesse, per non dover entrare di nuovo dalla finestra, e poi facemmo lo stesso con la serratura del cancello. Da fuori non notai niente che attirasse l’attenzione, nessuna luce, nessun odore che non fosse di foglie marce e di gelsomino.

Julián

Appena se ne andarono uscii di corsa. La Scarmigliata russava. Mi accertai che avesse a portata di mano il tubo per bere e spensi le torce. La stanza iniziava leggermente a schiarirsi in qualche punto e le finestrelle rettangolari del seminterrato non erano più così nere. Salii le scale con cautela. Al piano di sopra, l’anticamera, il salone e la cucina iniziavano a essere in penombra e nulla faceva sospettare che in casa ci fosse una presenza umana. Per fortuna il russare non era in grado di arrivare fin lì. Se qualcuno della Confraternita fosse entrato, avrebbe notato soltanto che dei ragazzi erano stati in giardino a bere. Raccolsi gli avanzi dal tavolo della cucina con un panno e li gettai in un sacchetto di plastica: ero stufo di vederli ogni volta che passavo. Aprii la porta di ingresso e notai che Sandra e Santi ci avevano messo un fermo di cartone per non dover entrare dalla finestra. Otto e Alice si erano portati via tutte le chiavi? Nelle case normali c’è sempre un mazzo di riserva per ogni evenienza. A casa mia a Buenos Aires, per quanto io e mia figlia avessimo ciascuno la nostra copia, ne lasciavamo un mazzo in una fruttiera e un altro lo aveva la domestica. E dovendo fuggire in tutta fretta portandosi dietro solo gli oggetti di maggior valore, i gioielli, i soldi e qualche vestito, era logico pensare che Otto e Alice avessero dimenticato le chiavi di scorta. Non volevo perdere troppo tempo a cercarle perché iniziava a fare giorno, e da lì al momento in cui avrebbe cominciato a splendere un sole forte e rosso non c’era che un passo.

Mi fermai all’ingresso ma non trovai nessun posto dove le avrei lasciate io. C’erano un armadio, un grande specchio, una consolle di noce con inserti di madreperla senza cassetti. Poi mi fermai in mezzo al salone. Probabilmente le tenevano lì, per non dover perdere tempo andando a cercarle in cucina. Lì sì che c’erano cassetti inseriti in mobili importanti, altri specchi, quadri, posacenere di vetro di Murano. Chiusi gli occhi e strinsi le mie chiavi. Dove le avrei messe? Andai verso il camino come se le chiavi stesse mi portassero fin lì. Non erano in vista, ma senza pensarci feci scivolare la mano dietro un orologio di ceramica istoriato. E, guarda un po’, sentii il metallo tra le dita.

C’erano cinque chiavi e le provai una per una, ma evitai di chiudere la porta. La mia imbranataggine mi innervosiva, mi odiavo in quei momenti in cui mi cadevano le cose a terra, sembrava che infilassi la chiave al contrario di proposito. E la luce s’insinuava sempre più tra i rami. Attraversai il giardino stando curvo, come se dovessi schivare la pioggia o le bombe. Feci in modo di non far cigolare il cancello e mi proposi di portare un po’ di olio per lubrificare i cardini per la durata del sequestro. Poi misi di nuovo il fermo nella serratura.

Mi allontanai rapidamente dal cancello e stando davanti alla casa guardai a destra e sinistra. Si sentì un tonfo, come di un vaso che si schianta a terra, rumori tipici dell’alba. Santi e Sandra avevano portato via la macchina, ma da qualche parte doveva esserci il motorino. Lo trovai in una stradina boscosa. Ci cadeva sopra una cascata di fiorellini bianchi e gialli. Dovetti fare contatto con i fili per metterlo in moto. Il mio vecchio compagno. Il fresco che veniva da una parte dal monte e dall’altra dal mare era molto piacevole. Mi diressi verso la casa di Frida sul monte di Dianium.

Ormai le curve della strada mi erano più familiari del corridoio di casa mia. A volte avevo rimorsi perché non pensavo intensamente alla mia vita passata: volevo vendicarla e continuavo ad amare Raquel e mi preoccupava che mia figlia non fosse felice, ma non avevo tempo di rimestare nei ricordi. Mi sentivo in colpa per non essermene rimasto tranquillo nel momento in cui il mio amore se n’era andato e la vita non era più davanti ma dietro di me. Adesso ogni giorno parlavo di meno con lei, dovevo sempre uscire di corsa perché il figlio di Sandra era in pericolo, probabilmente per colpa mia. Raquel mi avrebbe detto di certo: forza, dai, non essere tanto apprensivo. Adesso, quando mi svegliavo alle cinque del mattino e rimanevo a fissare il soffitto, la prima cosa che mi veniva in mente non era Raquel ma quel bambino che portava il mio nome e che avevo visto una volta, ma che non potevo consultare come facevo con mia moglie. Raquel aveva una bella chioma di capelli neri e ricci, ciglia folte e fianchi larghi, ed era sempre disposta a farsi un bel pisolino con me. Ho cancellato la sua morte, me la ricordo a stento; quando si affacciano nella mia mente un angolo di quel lenzuolo, di quell’asciugamano zuppo di sudore, di quel dolore, scuoto la testa e li disperdo come se fossero gocce d’acqua. Non voglio niente di tutto questo per Raquel.

Per poco non passai oltre l’abitazione di Frida. Sembrava che fosse il vento a spingermi. Mi addentrai nel piccolo viottolo che portava alla casa di cemento grigio, un progetto incompiuto.

La macchina era sotto un pergolato, per cui doveva esserci anche lei. Mi sincerai di avere la pistola nella tasca dell’impermeabile. Dalla finestra della cucina la vidi che si dava da fare. Era tutta assorta e stava lavando i piatti con dei guanti di gomma rosa. Un anno prima si sarebbe accorta della mia presenza da lontano e invece in quel momento fece fatica ad alzare lo sguardo, e ciò voleva dire che Frida aveva un cuore o un po’ d’orgoglio, e non c’è niente che blocchi tanto una persona quanto il cuore e l’orgoglio.

Mi vide quando bussai con le nocche sul vetro. Mi guardò depositando su di me tutti i suoi pensieri duri. L’azzurro dei suoi occhi sembrava strappato da un pezzo di ghiaccio. Nessuno che conoscessi e che fosse uscito dai campi di concentramento più atroci era arrivato a essere così. Tornò ai suoi piatti. Aveva voglia di continuare a odiare ancora un po’ chiunque avesse in mente. Non voleva fastidi, non voleva parlare con nessuno. Si comportava come un’innamorata che si chiude nella sua stanza a pensare al suo amore. Bussai di nuovo con le nocche. Mi indicò la porta. Evidentemente era aperta. Frida non aveva paura di niente, tranne che di non essere amata dai suoi capi.

Entrai in cucina e lei continuò a fare quello che stava facendo, non si girò nemmeno. Non aveva voglia di parlare. Quando ebbe finito di lavare i piatti, mise su il caffè. Mi porse una tazza con gli uccellini dorati, minuscola tra i suoi guanti di gomma.

«D’accordo», dissi, per passare al linguaggio orale, «ma senza veleno, per favore.»

Sbuffò e scosse la testa come a dire: “Non ho voglia di parlare”.

La lasciò sul tavolo e io mi sedetti. Vi pose vicino anche una zuccheriera che faceva parte dello stesso servizio e si voltò verso il bancone per tagliare qualche fetta di pane.

«È quello il coltello con cui mi hai ferito l’altro giorno?»

Sbuffò di nuovo. Sembrava una bambina enorme con i suoi pantaloni corti, gli stivali, i calzini e una maglietta.

Bevvi un sorso di caffè: era buono e, visto quanto poco avevo dormito, mi avrebbe fatto bene.

«Ti stanno ricrescendo i capelli, meno male. Fra tre anni o poco più li avrai come prima.»

Il coltello si bloccò in aria, rimanendo sospeso sulla fetta di pane.

Stava pensando, e anch’io lo stavo facendo. Dovevo riconoscere che non avevo pianificato come continuare. Un attimo di respiro mi faceva comodo.

«Sei una brava ragazza, grazie a te Bert ha vissuto tanto a lungo.»

Si girò verso di me con il coltello sporco di burro e i guanti rosa. M’infilai la mano in tasca e accarezzai la pistola.

«So chi sei», disse. «Ti cercano. Non so come non abbia fatto a capirlo prima.»

«È normale. Hai molte cose per la testa.»

«Che vuoi? Vuoi ricattarmi? Se mi viene voglia non esci vivo da qui.»

Ovvio, quello era il suo punto debole, ciò che l’aveva spinta a ferirmi la volta prima. La sua paura che scoprissero che aveva ammazzato il Macellaio.

«Non si è suicidato, vero?»

Nel ghiaccio azzurrino dei suoi occhi brillò la soddisfazione, come il sole sull’Artico.

«Mi stai facendo incazzare», grugnì, e conficcò la punta del coltello nel tavolo con una forza fuori dal comune.

«Loro non ti avevano ordinato di ucciderlo. L’hai fatto tu per conto tuo. Una cosa così impensabile che hanno deciso che doveva essersi suicidato e hanno incaricato te di disfarti del suo corpo, facendo credere che era tornato in Germania.»

«Non hai le prove.»

«Finirai per confessarlo, credimi, tu non sei forte come Violeta.»

Si tolse lentamente i guanti, come se dopo dovesse togliersi anche la maglietta e i pantaloni.

«Violeta, Salva, Bert.»

«Cosa vuoi che ti dica? Non mi ricordo neanche di quei due.»

«Violeta e Salva sono stati uccisi per qualcosa che a loro interessa molto, e io so cos’è.»

La conversazione la stancava, con tutti quei tira e molla. Era una donna di azione, rapida.

«Ti sto offrendo la possibilità di farti ammirare e rispettare da Sancho, così che faccia più affidamento su di te che su Martín. Adesso conti come il due di picche.»

Il cielo azzurrino diventò ancora più chiaro, nel bene o nel male. Era difficile sapere cosa ci fosse nella testa di quella psicopatica. Anche se forse era significativo che si versasse il caffè non in una tazzina con gli uccellini dorati, ma in un tazzone enorme, e che non toccasse il pane tostato. Le era passata la fame.

«Ciò che sto cercando di dirti è che mi piacerebbe che non mi vedessi come un nemico. Aiutami e io ti aiuterò. Io farò bella figura con i miei e tu con i tuoi.»

Venne verso di me con la tazzona in mano. Impugnai bene la pistola e la puntai verso di lei tenendola in tasca. Il caffè era bollente e non mi avrebbe fatto per niente piacere che me lo buttasse addosso. Le sue cosce tornite e forti mi sfioravano le ginocchia.

«Sei un chiacchierone. Parli così tanto che non ti capisco.»

«Tu mi dici dov’è il bambino. E io ti dico dov’è una cosa che loro cercano disperatamente e per la quale hanno ucciso Violeta e il mio amico Salva. Forse ti nomineranno capo di Sancho.»

«Molto chiacchierone per certe cose e molto poco per altre. Dovrai dirmi qualcosa di più su quello che cercano.»

«Quando tu mi dirai qualcosa del bambino. Ascoltami bene, voglio che porti un messaggio a Sancho. Digli che il vecchio Julián conosce il segreto di Otto, e quando il bambino darà segni di vita e ai genitori verrà permesso di vederlo io mi consegnerò e darò loro i codici che Violeta aveva dato a Salva e che Salva ha affidato a me. Digli anche un’altra cosa: che questa informazione gli procurerà un grande potere sulla Confraternita. Se non sei stupida...» – e qui lei aggrottò la fronte, doveva avere un grande complesso di inferiorità che le faceva scattare i campanelli d’allarme per ogni minima cosa – «se non sei stupida», ripetei compiacendomi di quella parola che la mortificava così tanto, «saprai trarre vantaggio dalla situazione. Ti avverto che se al bambino succede qualcosa ti ucciderò senza pensarci due volte e facendoti soffrire. Anche se non ci credi, ho visto tormenti che nemmeno ti immagini. Ma se il bambino torna dalla sua famiglia come ne è uscito, lascerò che tu metta fine alla mia vita con quei guanti di gomma rosa.»

Se Frida aveva un pregio era che sapeva ascoltare. Sapeva rimanere in silenzio cercando di capire se la si stava ingannando o meno.

Il caffè mi fece bene e fui indeciso se passare dalla residenza prima di tornare a sorvegliare la Scarmigliata a casa di Otto e Alice.

Sandra

Mentre guidavamo verso i pini, i cisti e gli arbusti selvatici in mezzo ai quali si nascondeva la casa della Scarmigliata alla ricerca di Martín, sentii che mi girava la testa e stavo per svenire. Chiesi a Santi di fermarsi appena possibile. Non finii la frase, lungo il collo mi saliva una spossatezza che mi impediva di tenere la testa dritta. Vidi tutto nero e mi si chiusero gli occhi. Non era la prima volta che perdevo il controllo del mio corpo e che sperimentavo cosa doveva essere morire, e sapevo che quando arriva quel momento uno è nelle mani degli altri e alla fine di Dio. Sentivo vagamente la voce di Santi e poi più nulla, sparii.

Mi svegliai stesa sul ciglio della strada. Avevo la testa appoggiata sulle gambe di Santi e la nuca bagnata. L’acqua mi colava lungo la schiena. Avevo una caramella in bocca.

«Succhiala. Stai meglio?»

Annuii, ma avevo paura di muovermi. Le nuvole si delineavano e un raggio di sole mi si piantava nella fronte. Improvvisamente vidi Janín venire verso di me con le braccia aperte, ormai camminava da solo. E i suoi primi passi senza aiuto erano stati per qualcuno che non gli voleva bene.

«Andiamo in ospedale», disse Santi aiutandomi a rialzarmi.

Mi strinse troppo forte per infilarmi in macchina.

«Sto bene. Sono solo svenuta. Sai che ho la pressione bassa.»

«Non so», disse scuotendo la testa mentre metteva in moto.

«Ti dico che non è nulla. Non possiamo perdere una giornata in ospedale.»

Era di fronte a un dilemma, io o suo figlio. Suo figlio indifeso e nelle mani di sconosciuti o io, adulta e libera. L’ospedale poteva attendere.

«Non credo che Martín sia a casa di sua madre. Non si è ancora accorto di niente.»

E in effetti era rimasto tutto come l’avevo lasciato quando me l’ero portata via. Stavolta i cani grugnirono, ci mostrarono i denti e si lanciarono contro di noi senza nessun successo perché Santi li ignorava, non ne aveva nessun timore. Scese dalla macchina e andò dritto verso la casa, come se fossero invisibili. Uno gli morse il bordo dei pantaloni e lui se lo scrollò di dosso senza neppure guardarlo. Io lo seguivo protetta dal mio amico Thor, che quando mi vide scodinzolò.

«Vai a vedere se hanno l’acqua», disse Santi. «Io darò un’occhiata dentro.»

In realtà, come la volta precedente, pensai di dare loro un po’ d’acqua in un secchio, ma dopo un attimo me ne dimenticai. Entrai nella casa sgangherata dietro Santi. Martín non ci aveva messo piede. A ogni modo, aprimmo le porte delle camere, casomai stesse dormendo. In quella che doveva essere la sua c’era una maglietta nera perfettamente stirata sul letto, e sul muro, a coprire tutta la testata, l’aquila di una bandiera della Spagna franchista. Sulle mensole vari libri con la svastica in copertina e sul comodino il Mein Kampf. In realtà si trattava dell’unica stanza un po’ ordinata, l’unica a cui sua madre prestava davvero attenzione.

«Se non è qui, dove può essere quell’idiota?» borbottò Santi.

Gli lasciammo un biglietto sulla maglietta proprio come lui lo aveva lasciato a me nella borsa con gli orsetti di Janín.

È stato un vero piacere conoscere tua madre. Adesso ha tutto il tempo del mondo per pensare a te, proprio come io penso a mio figlio. Se vuoi vederla, chiama questo numero.

Scrissi il numero di Santi e ci avviammo verso i bungalow nei pressi di Punta Negra.

Avevamo fatto solo pochi metri quando ci venne incontro il giardiniere che già conoscevo. Non sapevo se si sarebbe ricordato di me, fra tante facce di passaggio. Aveva una zappa in una mano e un secchio nell’altra.

«Cercate qualcuno? È un complesso privato, riservato ai residenti.»

«Certo», disse Santi. «Abbiamo appuntamento qui con un amico. Non è precisamente un residente, si occupa di fare lavoretti e cose del genere. Si chiama Martín.»

Ci fissò e noi guardammo lui con tutta l’ingenuità che fummo capaci di disseppellire dalla nostra infanzia più remota. E per non dargli la possibilità di riconoscermi mi girai facendo finta di ammirare dei gerani. Lui si rivolgeva a Santi, ma osservava me, me ne accorgevo.

«E dite che avete appuntamento qui con lui? Non so se parliamo della stessa persona.»

«Abita sul fianco del monte con sua madre e... be’... oggi pomeriggio partiamo e lui voleva farci vedere i bungalow. Diciamo che siamo come fratelli.»

Santi fece il segno delle virgolette con le dita quando pronunciò la parola «fratelli». Il giardiniere lasciò cadere a terra il secchio. Era di plastica e rimbalzò.

«Perché non lo chiamate sul cellulare? Non sono sicuro di potervi aiutare.»

«E se facciamo un giro per vedere se lo troviamo?»

«Questo non è possibile. Vogliamo che i nostri ospiti si sentano a proprio agio.»

Non parlammo, non ci muovemmo. Santi davanti a lui e io davanti ai gerani. Perciò si vide costretto ad aggiungere qualcosa.

«Non è piacevole sentirsi osservati da intrusi.»

Osservati. Intrusi. Sembrava che avesse appena squartato qualcuno con la zappa.

«La sua faccia non mi è nuova», disse inclinando il corpo verso il punto in cui mi trovavo io.

«Me lo dicono in molti. Penso di essere la cugina o la vicina di tutti.»

«E anche la sua voce non mi è nuova.»

Chiuse gli occhi per sentirmi meglio. Evidentemente gli piaceva la musica, perché li chiuse con un’espressione deliziata. E mentre li teneva chiusi e un raggio di sole affilava ancora di più la zappa, vidi Martín uscire dallo stesso bungalow che qualche sera prima avevo spiato senza nessuna fortuna.

Fu questione di niente, di qualche secondo, che andassimo verso di lui e che il giardiniere tornasse in sé e ci seguisse.

«Guarda un po’», dissi, «ecco il nostro amico.»

«Ciao Martín», esclamò Santi. «Siamo venuti a portarti un messaggio.»

Il giardiniere chiese con lo sguardo cosa doveva fare: assecondarci o inseguirci con la zappa? E Martín dovette pensare, dovette pensare così tanto che persino il giardiniere finì per annoiarsi. Finché non mi venne in mente cosa dirgli.

«Tua madre ti sta aspettando a casa. È molto preoccupata. Mi ha chiamato in preda alla disperazione.» Gli sorrisi un po’ per inviargli un messaggio subliminale con quel sorriso, anche se sembrava tutto piuttosto evidente.

Qualcosa andava male, molto male: non c’era motivo che io gli parlassi di sua madre. Si mise a correre verso la sua macchina.

Noi tre rimanemmo a osservare per qualche istante come correva.

«Ha visto quanto era importante che lo incontrassimo?»

«So perché mi sembra di averla già vista», fece il giardiniere. «L’altra sera.»

Anche noi però ci avviammo tranquillamente verso l’uscita.

Avemmo il tempo di veder partire il fuoristrada verde oliva che un tempo guidavamo Fred e io stessa. Sapevo cosa c’era nel cassettino portaoggetti e che sulla tappezzeria del sedile accanto a quello del conducente spiccava una macchia.

Non ci fu bisogno di metterci d’accordo per andare verso la villa di Otto e Alice. Era chiaro che quando Martín avesse visto il biglietto che avevamo lasciato in casa sua avrebbe chiamato sul cellulare di Santi e sarebbe stato interessante fargli sentire il respiro affannoso di sua madre.

Dovevamo stare molto attenti mentre entravamo in casa, perché il sole, alle nove di mattina, era un faro puntato su chiunque camminasse per strada. Presto Martín avrebbe fatto circolare l’allerta tra i membri della Confraternita e avrebbero predisposto un sistema di sorveglianza in qualunque punto considerassero nevralgico. Era difficile valutare quante persone facessero parte del loro esercito, ma come il giardiniere potevano essercene molti altri. I vecchi pezzi grossi disponevano di denaro sufficiente per farsi dei sudditi. Perciò il giardiniere aveva un lavoro sicuro e un certo potere, e sentiva di appartenere a una corporazione che lo proteggeva. Probabilmente in precedenza aveva dovuto ammazzarsi di fatica potando e piantando di giardino in giardino per una miseria, e adesso portava a casa un buono stipendio. Aveva deciso di eseguire ciò che gli veniva ordinato senza fare domande.

Il cancello si aprì, il fermo cadde ed entrammo. Ci infilammo rapidamente nel giardino e una volta dentro procedemmo con grande cautela. La porta d’ingresso era aperta, dovemmo soltanto spingerla. Dentro non si sentiva niente, non era più buio. La luce attraversava le tendine della finestra della cucina e le vetrate del salone da cui si scorgevano piante inselvatichite, rami secchi e uno stagno che ormai era diventato una pozza verde con le foglie marce.

L’acqua di una fontana addossata a un muro non smetteva di zampillare. Ci accertammo che la casa fosse sufficientemente protetta dalle occhiate indiscrete grazie al cancello, ai pini enormi e alle piante rampicanti. A loro i ficcanaso non piacevano.

Non facevamo rumore. Indossavamo entrambi scarpe da ginnastica con suola di gomma. Osservammo che qualcuno aveva raccolto i residui di cibo dal tavolo della cucina. Scuotemmo la testa. Ci avrebbe fatto comodo avere la pistola, ma era giusto che la tenesse Julián perché era l’unico che sapeva usarla e mi ripromisi che, quando tutto questo fosse finito e avessi avuto mio figlio tra le braccia, avrei imparato a sparare e avrei seguito anche un corso di difesa personale e poi avrei preso il porto d’armi. Non avevo più fiducia nella bontà umana, solo in alcune persone. Forse avevano mandato qualcuno a pulire, probabilmente Frida. E se si fosse trattato davvero di Frida era facile che ci stesse aspettando laggiù pronta all’azione, con Julián verosimilmente incosciente. Santi decise di aprire i cassetti il più lentamente possibile in cerca di un coltello grande e affilato. Fece rumore e il mio cuore ebbe un sussulto. I nostri piani stavano andando a rotoli. Non eravamo dei bravi genitori, non sapevamo proteggere nostro figlio. Eravamo due imbecilli e avremmo dovuto mettere tutte le informazioni che avevamo nelle mani della polizia. Ci guardammo sconfortati. Santi mi affidò un altro coltello e un paio di forbici. Era ridicolo. Non avremmo potuto fare niente contro la letale Frida.

Andammo piano verso la porta del seminterrato e la aprimmo producendo un piccolo scricchiolio. Se ne fossimo usciti vivi avremmo dovuto oliare i cardini. Le scale erano vagamente illuminate dal chiarore che entrava dalle finestrelle. Santi andava avanti e io lo seguivo, pronta a non so cosa con il coltello e le forbici, pregando di non inciampare.

Arrivati di sotto, scoprimmo che Frida non c’era, ma neppure Julián.

Non avemmo altro tempo per pensare. Il cellulare di Santi squillò. La Scarmigliata voltò lo sguardo verso di noi. Io ero appoggiata al tavolino di ciliegio, l’intarsio del bordo mi si conficcava nelle cosce.

«Ti passo tua madre», disse Santi, «ma potrà dirti soltanto una parola.»

Le avvicinò il cellulare alla bocca e le spostò un po’ il bavaglio. Non si capì bene cosa dicesse perché non riusciva a muovere bene la lingua, ma Martín comprese che era la sua voce.

«No, non te la passo. Hai già molto più di quanto abbiamo noi su nostro figlio. Sì, sono il padre. Fai molte domande e rispondi poco, non ti sembra?» Santi stava aspettando la risposta dell’altro. «Come? Che dici? Abbiamo tutto il necessario per farla sparire. Nessuno sospetterà di noi... D’accordo, quando ci darai una prova del fatto che nostro figlio è vivo, le toglierò il bavaglio e potrai parlarle.»

Se Martín le voleva bene la metà di quanto lei amava lui, sarebbe stato un colpo all’anima immaginarsela con uno straccio sulla bocca, uno straccio che poteva essere, come di fatto era, assolutamente ripugnante, infestato di batteri, e che pertanto avrebbe potuto provocarle malattie e infezioni.

«E un’altra cosa», aggiunse Santi. «Siamo stanchi e stufi. Se non ci dai la certezza che il bambino è ancora vivo, noi la ammazziamo. Non vediamo l’ora.»

Riagganciò immediatamente e si mise a piangere. Si sedette scosso sul bracciolo del divano dov’era la Scarmigliata e si prese la faccia tra le mani. Non lo avevo mai visto piangere. Lo avevo visto far finta di piangere, frignare un po’ quando gli avevo detto che la nostra storia non andava da nessuna parte, emozionarsi quando gli avevo annunciato di essere incinta e alterarsi quando gli avevo spiegato che non avevo in mente di vivere con lui. In tutte quelle occasioni lo avevo visto quasi piangere, ma non piangere davvero come in quel momento. Si asciugava gli occhi con i pugni e poi se li asciugava di nuovo con la manica, con un lembo della camicia, dovette addirittura alzarsi per cercare un pezzo di carta igienica. La Scarmigliata non provava pena, non solidarizzava con un dolore simile al suo, lo guardava senza pietà.

Mi staccai dal tavolo e andai verso di lei, ma Santi mi fermò. «Così non risolviamo niente», disse.

Julián

Il fatto di non disporre di un cellulare mi limitava molto, ma non appena ero arrivato a Dianium avevo deciso di permettermi solo le spese indispensabili, e questo faceva sì che fossi una specie di fantasma di un’altra epoca in mezzo alla gente reale. E proprio questo impediva che fossi localizzabile e individuabile. In fondo tante invenzioni hanno come fine ultimo quello di controllarci più comodamente.

Dopo la mia gita a casa di Frida, decisi di tornare alla residenza, anche se lì non mi aspettava più nessun dovere. Ma non potevo sbarazzarmi da un giorno all’altro delle mie ultime abitudini: entrare in camera mia, dove avevo i miei pochi effetti personali, ed entrare in sala da pranzo, dove avevo i miei pochi amici. Mi sarei fatto la doccia, mi sarei cambiato le mutande e la camicia, che avrei lavato in bagno e avrei lasciato appese alla sbarra della tenda della doccia, mi sarei tolto per un po’ le lenti a contatto e poi avrei fatto colazione con i miei compagni. Non avevo l’età per vagabondare senza mai fermarmi, avevo bisogno di una certa routine per non disintegrarmi nell’aria. All’ora di pranzo sarei tornato alla villa di Alice e Otto con qualcosa da mangiare per quattro.

Prima di sedermi per colazione e di fare tutto quello che avevo programmato andai nella mia stanza e controllai il ripiano della scrivania, che nessuno aveva toccato. Invece qualcuno aveva aperto l’armadio. I cassetti erano chiusi male, una cosa impercettibile per gli altri, ma non per me. I miei calzini non erano allo stesso posto. Magari si era trattato di curiosità da parte di una delle ragazze delle pulizie, che pensava di trovare soldi o qualcosa di valore. Mi distesi sul letto cercando di calmarmi, ma non ci riuscii. E se non era stata una cameriera? A chi potevano interessare le mie cose alla residenza?

Quando mi sembrò di aver recuperato un po’ di forze andai a trovare Pilar.

Ormai le ero indifferente, mi fece aspettare cinque minuti fuori e una volta dentro non mi chiese di chiudere la porta. Mi sedetti su una delle poltroncine scomode per i visitatori molesti.

«Allora sei tornato.»

Se non avessimo avuto un rapporto di maggiore intimità non avrei mai creduto che fosse una donna affettuosa e sensibile. E capivo che era vitale che si distanziasse da me emotivamente, che non mi ammirasse, che non si facesse coinvolgere da un problema futuro. «Vitale» era una parola che mi infastidiva, ma che si adattava all’esuberante Pilar.

Annuii e le chiesi se ci fosse qualche nuovo membro del personale delle pulizie.

«No, perché?»

«Credo che abbiano frugato tra le mie cose.»

Aggrottò la fronte con tutta l’incredulità del mondo e con un po’ di ironia. Chi avrebbe potuto voler frugare tra le quattro cose di un vecchio? Mi pentii di averle dato quell’informazione, per cui mi alzai e la ringraziai.

«Di niente», rispose provando pena per me, non poteva evitarlo.

Avevo fatto solo qualche passo quando mi imbattei in Geralda. Mi prese per un braccio agitatissima.

«Pensavo che ti fosse successo qualcosa. Per fortuna la coordinatrice mi ha detto che stavi bene. Si può sapere dove sei stato?»

No, non si poteva sapere, perciò le diedi la stessa informazione che avevo dato a Pilar: mi ero fermato a casa di un amico pittore. Poi le chiesi se avesse visto qualcuno entrare nella mia stanza. Per rispondere ci mise più del previsto.

Ci erano entrati lei e James per controllare che non mi fosse successo niente. Poi erano andati in direzione.

«Ci fai stare in ansia», aggiunse. «Siamo una famiglia, oppure no?»

«E non è entrato nessun altro?»

Sapeva soltanto quello che mi aveva appena raccontato. L’importante era che fossi tornato.

Provai una grande confusione. Che a James e Geralda fosse venuto in mente di frugare tra le mie cose? Mi sembrò brutto chiederglielo. In sala da pranzo era tutto come al solito, lo stesso odore del giardino mischiato a quello del caffè e del pesce del prossimo pranzo. James ci fece un cenno. Ci sedemmo vicini, perciò mi sarebbe riuscito difficile portarmi via qualche frutto per mangiarlo più tardi.

«E così siete entrati nella mia stanza, ma con quale chiave?»

«Ce l’ha data il portiere. Ha detto che preferiva che fossimo noi a trovare il morto stecchito», spiegò James.

Poi rise a crepapelle mostrando i denti d’oro. Non mi immaginavo James che metteva a soqquadro i miei poveri calzini e mutande, a meno che non pensasse che ero un vecchio avaro con milioni nascosti, e questo sì che avrebbe potuto essere da lui.

Mangiai i soliti cereali con il latte in tutta fretta e bevvi il succo di frutta da un piccolo brik. Non prestai attenzione alle chiacchiere dei miei compagni, immaginavo solo Santi e Sandra nel seminterrato che non sapevano cos’altro fare. I miei compagni non avevano fretta, potevano mangiare il pane tostato con tutta calma. A Geralda, quando si portava il pane tostato alla bocca, tintinnavano i bracciali che aveva ereditato da Elfe; se c’era qualcuno alla residenza che conveniva derubare, quella era lei. Dissi loro, mentre allungavo il braccio per prendere uno yogurt e due mele, che dovevo riposare.

«Li mangerò in camera mia.»

«Un attimo!» esclamò Geralda un po’ imperiosamente. «Non penserai di sparire un’altra volta?»

Non seppi cosa dire. Ero in piedi con lo yogurt e le due mele in mano ed era tutto molto complicato. Lei si preoccupava per me. Dopo Sandra ed Esther era la persona a cui stavo più a cuore. Si comportava come una madre. Non volevo pensare alla mia vera madre, perché quel pensiero mi conduceva alla mia disperazione e a quella di tutto l’universo.

«Forse più tardi vado di nuovo a casa del mio amico. Se stasera non mi vedete, non vi preoccupate.»

Mi chiusi nella mia stanza per riflettere e riposare, ero uscito dalla villa alle sei di mattina e avevo dovuto affrontare Frida. Ero distrutto. Finalmente potei togliermi le lenti a contatto, mi stesi sul letto e puntai la sveglia per mezzogiorno. Magari Martín aveva già mandato una prova del fatto che il bambino stava bene. Purtroppo Sancho il Secchione, che a quanto pareva aveva preso il comando, non sarebbe stato disposto a rinunciare al segreto di Otto in cambio della madre di Martín. La Scarmigliata non interessava a nessuno. Se Sandra mi avesse consultato, non le avrei consigliato di rapirla. A Sancho non sarebbe dispiaciuto neppure togliere di mezzo Martín, se avesse fatto qualche sciocchezza. Avrebbe accettato di scambiare il bambino soltanto con me e con l’informazione che possedevo soltanto io.

Ero impaziente di sapere come erano andate le cose a Frida con Sancho, sperando che gli avesse trasmesso bene il mio messaggio: io in cambio del bambino. Non sapevo se tornare o meno a casa sua, ma non volevo ritrovarmi in un’imboscata. Perciò pensai che, prima di andare al supermercato a comprare il pranzo, sarei passato dal Faro.

Restando in sella al motorino, feci un giro accanto alle vetrate del bar-ristorante e tra le macchine del parcheggio. Ai tavoli esterni c’era poca gente, era un giorno feriale e minacciava pioggia. A mano a mano che le ore passavano il cielo si faceva sempre più grigio. Non mi sembrò che ci fosse nessuno di indesiderabile. Parcheggiai e mi addentrai fra le palme selvatiche, mi sedetti sulla panchina di sempre e alzai la pietra. C’era un foglio a quadretti ripiegato. Sentii la mia pressione alzarsi all’istante, e questo mi ricordò che non avevo preso tutte le medicine, distratto da Geralda e dalla necessità di portarmi via qualche frutto. Era una cosa che alla residenza ci era tassativamente proibita, perché poi la frutta marciva nelle stanze attirando mosche e moscerini. Spiegai il foglio. Poteva essere soltanto la grafia di Frida: grande, irregolare, di una persona scarsamente scolarizzata. Diceva: Problemi. Vieni a casa mia. Se su cassetta laccio bianco, entra. Se laccio nero, no.

Non sapevo se fosse il caso di tornare indietro a prendere le medicine. Tra l’altro, avevo bevuto pochissimo. Mi rimordeva la coscienza per Esther, non per me. Sudavo con l’impermeabile addosso. Mi pesavano le tasche, odoravo tutto di mela. Quando arrivai al viottolo che portava a casa di Frida mi entrò la polvere negli occhi che iniziarono a bruciarmi. Non vidi nessun laccio sulla cassetta della posta, finché alla fine non scorsi lei che veniva verso di me indossando un pantacollant aderente e una maglietta troppo grande.

«Stavo venendo adesso a mettere il laccio.»

Me lo mostrò. Era bianco. Le dissi che non c’era bisogno di metterlo, visto che io ero già lì, ma volle farlo lo stesso. A quanto pareva era dovuta andare in paese a comprare la corda, tagliarla e uscire di nuovo, perciò l’avrebbe legato eccome. Non ebbi niente da obiettare, non vedevo l’ora di andarmene di lì. Le proposi di fare una passeggiata nei campi, tra gli ulivi, i vigneti e i pini.

Anche se adesso Frida non poteva fare altro che stare dalla mia parte, non dimenticavo che era un’assassina e non smisi di impugnare la pistola. Lei non aveva niente con sé, non ne aveva bisogno. Con le sue gambe, le sue braccia e le sue mani, poteva farmi a pezzi. Tirai fuori le mele dalle tasche e gliene offrii una. Non la volle e così le buttai; buttai anche lo yogurt, era già abbastanza il peso delle mie gambe stanche, delle chiavi, del portafogli e della pistola. Mi sollevò l’idea che le avrebbero beccate gli uccelli e che se le sarebbero godute.

«Perché non hai il cellulare? È assurdo arrivare fino al Faro, non è normale.»

Dio mio! Sapevo che quello che stava per dirmi non era niente di buono.

Si appoggiò a un mandorlo di un color rosa penetrante, completamente irreale. Lei era più robusta del tronco ed ebbi paura che lo abbattesse.

«Sancho vuole parlarti. Vuole che gli spieghi di cosa stai parlando. Fino a quel momento lui si rifiuta di menzionare qualunque bambino», spiegò.

«Tu hai visto il bambino?» chiesi.

Scosse la testa.

«Mi piacerebbe sapere cosa pensi di tutto questo. Mi interessa la tua opinione.»

«E perché credi che li tradirei per te?»

«Perché sei stufa che ti sputino in faccia. Non te lo meriti. Ti ho visto lavorare, prima con i Christensen e poi con il Macellaio: hai rinunciato alla tua vita per aiutarli. Adesso avresti potuto tendermi una trappola e consegnarmi a Sancho.»

«Posso ancora farlo. E non mi puntare contro quella pistola che hai in tasca, non mi fai paura.»

«Non ti fa paura il buio totale, il nulla, non avere un corpo, non provare niente, sparire?»

Si staccò dal tronco e si stirò in tutta la sua altezza, con le braccia sopra la testa, esibendo il suo corpo atletico davanti a uno ridotto uno straccio come me.

«Queste sono sciocchezze», disse.

In ogni caso, fece un passo indietro quando tirai fuori la mano dalla tasca. Le mostrai il biglietto che aveva lasciato al Faro.

«Qui dici che è sorto un problema. Io non direi che vedere Sancho sia un problema. Hai una grafia molto bella, molto personale.»

«No, non è di questo che si tratta.»

Si prese rabbiosamente la testa bionda tra le mani per pensare meglio. Doveva giocare una piccola partita a scacchi nella sua mente e aveva bisogno di tempo e solitudine, io la distraevo, non voleva perdere nessuna possibilità, forse la sua ultima chance di fare una buona impressione a Sancho.

«Sai veramente quello che stai facendo? Sei una brava persona e ti salverai», insistetti.

«Dici sul serio? Sei un prete o qualcosa del genere? Potrai vedere Sancho domani alle otto sulla spiaggia accanto al ristorante Bellamar. Sarà seduto sulla sabbia a contemplare le onde. Gli piacciono molto.»

Me ne andai più inquieto di prima e mi fermai a comprare pane, burro e qualche porzione di pizza che sarebbe arrivata un po’ fredda, poi mi feci fare una copia delle chiavi della villa nel reparto ferramenta del centro commerciale.

Parcheggiai il motorino in una strada laterale e presi a camminare con il sacchetto della spesa in mano. Dovetti fare il giro lungo perché in quel momento c’erano vicini che entravano e uscivano. Aspettai che la strada fosse di nuovo morta per entrare. Spalmai il burro sulla serratura per poter chiudere a chiave senza mettere in allarme nessuno e poi feci lo stesso con la porta d’ingresso. Adesso non avrebbe potuto sorprenderci più nessuno. Mi accorsi, con un tuffo al cuore, che qualcuno stava scendendo le scale di marmo dal primo piano.

Non vidi che era Sandra finché non me la ritrovai davanti. Scendemmo nel seminterrato senza parlare, io con forti palpitazioni. Era come tornare a casa dopo essere usciti per andare a comprare le sigarette vent’anni prima.

Laggiù, Santi aveva la testa sepolta tra le braccia su un tavolino.

Lasciai la spesa sul tavolo allungato delle colazioni della Confraternita, su cui c’era ancora qualche mollica secca, che buttai in un cestino. Indicai con un cenno la Scarmigliata e il cibo per far capire ai ragazzi che avremmo dovuto fare il possibile per farle mangiare qualcosa.

«Qui c’è un mazzo di chiavi. Le serrature sono già state lubrificate.»

Sandra

Mentre Santi piangeva sempre più forte salii al piano di sopra con una delle torce; le finestre e le persiane erano chiuse e non volevo accendere la luce. Il mio grande pianto non era ancora arrivato: erano arrivati la nausea, lo svenimento, il vomito, ma il pianto sarebbe giunto solo nel momento finale, quando la mia vita sarebbe ritornata a me. Lo lasciai a sfogarsi su una delle poltrone di raso rosso e salii nelle stanze del piano di sopra. Ci ero già stata la prima volta, ma volevo indagare un altro po’. C’erano mobili e specchi che sarebbero bastati per riempire tre palazzi. Probabilmente ad Alice piaceva passarci sopra le mani inanellate. Era davvero pacchiana. E si capiva qual era la sua stanza perché era la più grande e la più sfarzosa, con baldacchino dorato, specchi dorati, poltrone dorate, copriletto dorato, e sul camino un enorme quadro che la ritraeva, con cornice, ovviamente, dorata. Alice allo stato puro. Sentii qualcosa mentre osservavo il suo ritratto: mi guardava. Sembrava che seguisse i miei passi e che dovesse saltarmi addosso da un momento all’altro. Nonostante ciò, aprii l’armadio. Riconobbi i pantaloni ampi di velluto con i quali una volta l’avevo vista scendere le scale di marmo. Le fluttuavano intorno alle lunghe gambe. Era piuttosto alta, snella e agile, e adesso, sapendo quello che sapevo di lei, mi avrebbe fatto parecchia paura.

Mentre stavo frugando nell’oscuro mondo d’oro di Alice e Otto, sentii un movimento al piano di sotto, dei passi e il leggero scricchiolio di un sacchetto di plastica. Perciò scesi con cautela, scivolando lungo le scale come una gatta finché non vidi Julián in mezzo all’ingresso, con in mano un sacchetto del supermercato. Fu un vero sollievo, non solo perché voleva dire che non erano entrati degli sconosciuti, ma anche perché Julián si era salvato, aveva salvato sé stesso, me e altri, era come una moneta portafortuna.

Pensai che fosse il momento di approfittarne per andare alla casetta. Magari la polizia era passata di lì, magari qualcuno aveva lasciato nostro figlio sulla soglia. Mi venne voglia di vomitare. Mi facevano davvero schifo i pantaloni di velluto di Alice, e li avrei bruciati molto volentieri in giardino. Alla stoffa dovevano essere attaccati milioni di cellule morte, in qualche modo Alice era sparpagliata per tutta la casa. Perciò avrei dato fuoco volentieri anche a quella casa, quella che chiamavamo la Magione.

Preferii scavalcare la recinzione piuttosto che uscire dal cancello. Era troppo azzardato entrare e uscire in continuazione, qualcuno avrebbe potuto vederci e la Confraternita aveva occhi dappertutto. Ora piovigginava e il cielo si era fatto completamente grigio. Scavalcando caddi a terra e mi feci male a un ginocchio. Speravo di non essermi rotta niente. Non appena fossi entrata nella casetta ci avrei messo del ghiaccio, poi mi sarei spalmata una pomata e me lo sarei bendato. Dovevo essere pronta a correre e saltare.

Quando parcheggiai la macchina, mi sorprese vedere una lampadina accesa nella casetta, che si sarebbe notata di più se fosse stato buio. Era quella del corridoio, il cui riflesso s’insinuava in una stanza e usciva dalla finestra in giardino. Cercai di ricordare e mi sembrò di aver spento tutte le luci, era una cosa su cui mia sorella insisteva così tanto che era diventata un’abitudine lanciare un’ultima occhiata dalla strada per verificare che non ce ne fosse neanche una accesa. E probabilmente lo avevo fatto anche la notte del trasferimento della Scarmigliata alla Magione, ma non mi ero accorta che ne era rimasta una accesa. Nonostante ciò, scesi dall’auto con circospezione e aprii il cancello senza fare rumore. In confronto al grande cancello di ferro battuto della villa di Otto e Alice, quello sembrava un giocattolo, e tutta la casetta pareva un plastico in miniatura. Quando infilai la chiave nella porta, si aprì da sé. Che l’avessi lasciata aperta? In realtà avevo fatto attenzione solo a infilare la Scarmigliata in macchina il più rapidamente possibile. Non avevo mai sequestrato nessuno e perciò i dettagli e le dimenticanze di quella notte non contavano.

Schiacciai con grande piacere l’interruttore dopo la luce fioca e piovosa di fuori, ero stufa delle torce e del seminterrato. S’illuminò tutto, non solo il corridoio, e non m’importava che qualcuno lo vedesse. Anzi, meglio se avessero visto che non avevamo abbandonato per sempre la casetta. E in quel momento avvertii l’impulso di vomitare. Arrivai a fatica fino al bagno. Non avevo quasi niente nello stomaco e i conati erano molto dolorosi. Sul lavabo cadde solo muco. Muco e succhi gastrici, sembrava che lo stomaco fosse stretto in una morsa. Senza nient’altro da rimettere, il corpo continuava a tentare di espellere qualcosa, forse me stessa, fino allo sfinimento totale. Mi facevano male il ginocchio e la testa, e non osai bere acqua. Per la prima volta da quando Janín era scomparso non potei fare altro che distendermi sul divano. Mi ricordava i pisolini davanti alla televisione, il non pensare a niente, la vita normale. La odiavo.

Dalla porta aperta entrava una corrente di fumo freddo. A quel punto finalmente bevvi e trattenni l’acqua piuttosto bene. Mi massaggiai il ginocchio con l’olio da cucina, non avevo voglia di cercare bende o ginocchiere, né ghiaccio. La porta d’ingresso, di legno di pino, non si chiudeva bene, come se l’avessero forzata senza lasciare segni o altri indizi. Dalla sedia dove avevamo imbavagliato la Scarmigliata, staccata dalle altre intorno al tavolo, pendeva ancora un pezzo di corda. Non c’era niente altro che attirasse l’attenzione. Esaminai le stanze da letto e neanche lì notai qualcosa fuori posto. Chiunque fosse entrato avrebbe potuto portarsi via soltanto il televisore o il computer di Santi, ed erano entrambi al loro posto.

Feci caso soltanto a un bracciale agganciato alla tenda della stanza di Janín. Mia sorella l’aveva decorata a tema marinaro e la tenda era fatta con una rete da pesca. Qui doveva essersi impigliato uno dei suoi brillocchi, come li chiamavo io. Alcuni erano belli, con brillanti autentici, regali di Richi, altri di bigiotteria, come quelli che vendevamo al negozio. Lo misi nel portagioie della sua stanza. Che importanza aveva in quel momento tutto questo? Nessuna. Era un dettaglio della vita normale e come tutta la vita normale era una sciocchezza. Sembrava che anche dal portagioie non mancasse niente. Proveniva dal mercatino del Paseo Marítimo ed era di ottone con incastonate delle pietre semipreziose.

Presi uno yogurt scaduto che era rimasto in frigorifero e lo mangiai un po’ alla volta, non volevo svenire mentre guidavo. L’unica spiegazione che trovavo per la faccenda della porta era che fosse venuta la polizia e, non trovandoci, l’avessero aperta con uno dei loro metodi per farsi un’idea di quello che stava succedendo. Per loro anche noi eravamo dei sospetti. Avremmo potuto essere genitori crudeli o criminali che fingevano di stare cercando il proprio figlio. Ed evidentemente loro volevano trovare prove per incriminarci. Era normale, significava che non si erano dimenticati del caso anche se erano completamente fuori strada.

Non sapevo se tornare al seminterrato della Magione ad aspettare una telefonata di Martín o disperarmi da sola. Accanto allo yogurt avevo visto una bottiglia di vino mezza vuota che spandeva un odore un po’ acido ed ebbi la tentazione di stordirmi con quella porcheria e per un attimo dimenticarmi chi ero, ma il box vuoto di Janín con i suoi giochi di gomma era più forte di tutto il dolore che potessi provare, e non potevo ubriacarmi, perché in quel caso i poliziotti avrebbero avuto ragione e io sarei stata la persona più ripugnante del mondo.

Mi stesi di nuovo sul divano e chiamai Santi per dirgli che mi sarei trattenuta ancora un po’ alla casetta e di telefonarmi per qualunque cosa. Mi faceva male il ginocchio. Misi la sveglia alle sei di pomeriggio. Avrei preso tre caffè doppi per tirarmi su in un bar. Più o meno dopo un’ora, però, squillò il cellulare e dovetti uscire di corsa per tornare alla Magione. Martín voleva vedere me e Santi. Mi sentivo già un po’ meglio, soprattutto se non dovevo scavalcare nessun muro. Avrei resistito fino alla fine e, a seconda di quale fosse l’epilogo, avrei avuto due opzioni: la felicità, l’amore e la vita. Oppure...

Julián

Non fu necessario insistere molto per farle dare un morso a un pezzo di pizza: sapeva che se non l’avesse mangiata, Santi le avrebbe messo immediatamente lo straccio in bocca. Quando masticava le facevano male le mascelle, una cosa di cui aveva colpa soltanto lei per non aver collaborato. Inoltre per la prima volta bevve l’acqua direttamente da un bicchiere. Le dicemmo che poteva mangiare tutta la porzione di pizza, anche se uno di noi avrebbe dovuto accontentarsi di pane e burro.

«Se gridi qui non ti sentirà nessuno. Sei nella Magione di Otto e Alice e questo seminterrato è stato usato per feste, omicidi, cerimonie di iniziazione, tradimenti, orge, tutto quello che ti possa venire in mente, perciò, come potrai immaginare, è perfettamente insonorizzato.»

La pizza era stata così a lungo nella scatola che sapeva di cartone. Lasciammo il pane e burro a Sandra e cercammo di metterci comodi sulle poltrone di raso. Mi vennero in mente i giorni che Raquel aveva trascorso in ospedale prima di morire, quando io tentavo di riposare come potevo su una poltrona davanti al suo letto. Almeno si era salvata nel campo di concentramento, almeno era morta in un ospedale normale. Almeno era morta senza che nessuno la uccidesse, mi dicevo per consolarmi, anche se non sono sicuro che non avessero seminato nella sua vita una morte prematura. In realtà non morì di nulla di specifico, ma di un collasso generale. Iniziò a dimagrire e a stancarsi. Il suo organismo impazzì e a un certo punto dovettero ricoverarla, ma lei disse: «Esther ormai è una donna e tu sai provvedere a te stesso, e in più ci sono i tuoi amici della partita». Mi accarezzò il viso con la mano magra esprimendo un amore profondo, e il giorno dopo ci lasciò.

Santi borbottò che non poteva resistere senza fumare e io lo avvisai che avrebbero potuto scoprirci per una sola sigaretta. L’odore attraversa i muri, si insinua nelle crepe. Se qualcuno fosse arrivato davanti alla porta della Magione lo avrebbe sentito. Esagerai. Anche l’odore di pizza era penetrante. Credo che in quel modo stessi costringendo Santi a combattere per suo figlio sino alla fine con un grande senso del sacrificio personale, come aveva fatto Raquel. Lei aveva lottato per nascondere il suo dolore e per far sì che fossimo più felici.

Nel seminterrato stava comoda soltanto la Scarmigliata, come la chiamava Sandra. Noi cambiammo posizione varie volte per un’ora finché non squillò il cellulare di Santi.

Rispose e rimase in silenzio. Mi fece un cenno perché mi avvicinassi per sentire. Mi stizziva non capire bene cosa diceva quella che sembrava la voce di Martín. Quando riagganciò, Santi rimase a guardarmi.

«Be’, che te n’è sembrato?»

Dovetti confessargli che proprio dall’orecchio destro non ci sentivo molto bene.

«Cazzo! Vuole vederci entro un’ora. Voleva che gli passassi di nuovo sua madre. Chiamo Sandra.»

Non mi venne in mente nient’altro se non fare il caffè. Anche l’aroma del caffè poteva attirare l’attenzione, ma Santi non andava tanto per il sottile.