1. Partenza

Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni. Ma quanto tempo per decidermi! Sono passati quindici anni da quando ho lasciato per l’ultima volta il Brasile e durante tutto questo tempo ho progettato spesso di metter mano a questo libro; ogni volta una specie di vergogna e di disgusto me l’ha impedito. Suvvia! Occorre proprio narrare per disteso tanti particolari insipidi e avvenimenti insignificanti? Nella professione dell’etnografo non c’è posto per l’avventura: questa non costituisce che un impaccio; incide sul lavoro effettivo col peso di settimane o mesi perduti in cammino, di ore oziose mentre l’informatore se ne va per i fatti suoi; della fame, della fatica, a volte della malattia, e, sempre, di quelle mille corvées che logorano le giornate in pura perdita, e riducono la pericolosa vita nel cuore della foresta vergine a una specie di servizio militare. Che occorrano tanti sforzi e inutili spese per raggiungere l’oggetto dei nostri studi, non dà alcun valore a ciò che si dovrebbe considerare piuttosto come l’aspetto negativo del nostro mestiere. Le verità che andiamo a cercare così lontano valgono soltanto se spogliate da quelle scorie. Certo, si possono consacrare sei mesi di viaggio, di privazioni e di avvilente stanchezza al reperimento (che richiederà qualche giorno e, a volte, qualche ora) di un mito inedito, di un nuovo istituto matrimoniale, di un elenco completo di nomi di clan, ma questo residuato della memoria (… alle 5.30 del mattino entrammo nella rada di Recife mentre i gabbiani stridevano e le barche dei mercanti di frutta esotica facevano ressa attorno allo scafo…), un ricordo così esiguo merita che io prenda la penna per fissarlo?

Tuttavia, questo genere di racconti riscuote un successo che per me rimane incomprensibile. L’Amazzonia, il Tibet e l’Africa invadono le vetrine sotto forma di libri di viaggio, resoconti di spedizioni e album di fotografie, dove la preoccupazione dell’effetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta. Anziché una sollecitazione nel suo spirito critico, il lettore richiede sempre più questo genere di cibo e ne ingurgita quantità prodigiose.

È un mestiere, oggi, essere esploratori: mestiere che non consiste, come si potrebbe credere, nello scoprire, dopo uno studio prolungato, fatti rimasti ignoti, ma nel percorrere un numero considerevole di chilometri raccogliendo immagini fisse o animate, preferibilmente a colori, grazie alle quali si possa per parecchi giorni di seguito affollare una sala di ascoltatori, a cui le cose più ovvie e banali sembreranno tramutarsi miracolosamente in rivelazioni per il solo motivo che l’autore, invece di compilarle senza muoversi, le avrà santificate con un percorso di ventimila chilometri.

Che cosa ascoltiamo in quelle conferenze e che cosa leggiamo in quei libri? L’inventario delle casse trasportate, le malefatte del cagnolino di bordo e, commisti agli aneddoti, slavati frammenti di informazioni che da secoli si trascinano in tutti i manuali e che una dose poco comune di impudenza, per quanto in giusto rapporto con l’ingenuità e l’ignoranza dei consumatori, non si perita di presentare come una testimonianza, o addirittura come una scoperta originale. Vi sono senza dubbio delle eccezioni, e ogni epoca ha conosciuto apprezzabili esploratori; fra quelli che si dividono oggi il favore del pubblico ne citerei volentieri uno o due. Ma il mio scopo non è di denunciare mistificazioni o di assegnare diplomi, bensì di comprendere un fenomeno morale e sociale tipico della Francia e recentemente apparso anche tra noi.

Non si viaggiava molto una ventina d’anni fa, e non erano certo le Sale Pleyel piene cinque o sei volte più della loro capienza, che ospitavano i narratori di viaggi, ma, unico posto a Parigi per questo genere di manifestazioni, un piccolo anfiteatro oscuro, gelido, mezzo rovinato, in un vecchio padiglione in fondo al Jardin des Plantes. La Società degli amici del museo vi organizzava ogni settimana, e forse vi organizza ancora, conferenze di scienze naturali. L’apparecchio di proiezione, a mezzo di lampade troppo deboli, mandava su uno schermo troppo grande ombre imprecise, di cui il conferenziere, con il naso incollato alla parete, mal percepiva i contorni, e che il pubblico confondeva con le macchie di umidità sparse sul muro. Ancora un quarto d’ora dopo l’ora annunciata ci si domandava con angoscia se vi sarebbero stati degli ascoltatori oltre i pochi che abitualmente occupavano qua e là i gradini. Proprio nel momento in cui si cominciava a disperare, la sala si riempiva a metà di bambini accompagnati da madri e governanti, gli uni felici di un diversivo gratuito, le altre stanche del chiasso e della polvere di fuori. Davanti a questa mescolanza di tarlati fantasmi e di marmaglia impaziente – suprema ricompensa di tanti sforzi, preoccupazioni e lavoro – ci si valeva del diritto di sciorinare un tesoro di ricordi, definitivamente raggelati, davanti a un simile uditorio, e, parlandone in quella penombra, si aveva l’impressione di sentirseli staccare da dosso e cadere a uno a uno come sassi in fondo a un pozzo.

E questo era il ritorno, solo di poco più sinistro della solennità della partenza: un banchetto offerto dal Comitato franco-americano in un palazzo del viale oggi dedicato a Franklin D. Roosevelt; una dimora disabitata dove, per l’occasione, un trattore era venuto due ore prima a installare il suo accampamento di fornelli e di stoviglie, e in cui persisteva un odore di desolazione che una sommaria aerazione non era riuscita a eliminare.

Poco abituati sia alla dignità di un simile luogo sia alla polverosa noia che esalava, seduti intorno a una tavola troppo piccola per quella sala troppo grande, della quale si era avuto appena il tempo di spazzare la parte centrale, quella occupata dalla tavola, prendevano contatto per la prima volta, uno con l’altro, giovani professori che avevano appena debuttato nei nostri licei di provincia e che il capriccio un po’ perverso dello psichiatra Georges Dumas faceva passare bruscamente dagli umidi inverni trascorsi nelle camere mobiliate dei piccoli centri, impregnate di odore di grog, di cantina e di cenere spenta, ai mari tropicali e ai piroscafi di lusso, tutte esperienze, queste, ben lontane dall’immagine ineluttabilmente falsa che, com’è fatale, ce ne eravamo formati.

Ero stato allievo di Georges Dumas all’epoca del Trattato di psicologia. Una volta alla settimana, non ricordo se fosse il giovedì o la domenica mattina, egli riuniva gli studenti di filosofia in una sala della clinica di Sant’Anna, che aveva la parete di fronte alle finestre interamente coperta di pitture di alienati. Ci sentivamo già esposti a una particolare specie di esotismo; Dumas insediava su un podio il suo corpo robusto, tagliato con l’accetta, sormontato da una testa bitorzoluta che somigliava a una grossa radice imbiancata e levigata da una lunga permanenza in fondo al mare. Il suo pallore cereo rendeva uniformi il viso e i capelli bianchi tagliati molto corti a spazzola e la barbetta altrettanto bianca che cresceva in tutti i sensi. Questo strano relitto vegetale, ancora irto di radici, diventava di colpo umano, grazie a uno sguardo nerissimo che accentuava il candore della testa, contrasto che si ripeteva tra la camicia bianca dal colletto inamidato e rivoltato, e il cappello a larghe falde, la cravatta alla Lavallière e il vestito sempre neri.

Le sue lezioni non insegnavano gran che: non le preparava mai, conscio com’era del fascino fisico che esercitava sul suo uditorio il gioco espressivo delle sue labbra deformate da un tic nervoso e soprattutto la sua voce rauca eppur melodiosa: autentica voce di sirena, le cui strane inflessioni non ricordavano soltanto il languedoc natale; ma, più che a inflessioni regionali, faceva pensare alle modulazioni arcaiche del francese parlato, così come la voce e il viso evocavano, nei due ordini sensibili, uno stesso stile, rustico a un tempo e incisivo: quello degli umanisti del XVI secolo, medici e filosofi, di cui, per l’aspetto esteriore e per lo spirito, sembrava perpetuare la razza.

La seconda ora e a volte la terza erano dedicate alle esperienze sui malati. Assistevamo allora a straordinarie scenette fra la smaliziata pratica del maestro e i diversi soggetti, i quali, allenati da anni di ospedale psichiatrico a ogni esercizio di questo tipo, sapendo benissimo che cosa ci si aspettava da loro, fingevano disturbi a comando o resistevano al domatore quanto era necessario per offrirgli l’occasione di un pezzo di bravura. Pur non cadendo nel tranello, gli ascoltatori si lasciavano volentieri affascinare da queste dimostrazioni di virtuosismo. Quando ci si era meritata l’attenzione del maestro venivamo compensati con l’assegnazione di un malato per un colloquio particolare. Nessuna presa di contatto con indiani selvaggi mi ha intimidito di più del colloquio avuto una mattina con una vecchia signora, tutta infagottata di lana, che si credeva un’aringa imputridita in mezzo a un blocco di ghiaccio, apparentemente intatta, minacciata però di disgregarsi non appena l’involucro protettore fondesse.

Questo scienziato, un po’ mistificatore, animatore di lavori di sintesi, il cui ampio disegno restava al servizio di un positivismo critico molto deludente, era un uomo di grande nobiltà e doveva dimostrarmelo più tardi, l’indomani dell’armistizio e poco tempo prima della sua morte, allorché quasi cieco e già in ritiro nel suo villaggio natale di Lédignan, aveva voluto scrivermi una lettera piena di discrezione e di sollecitudine il cui unico scopo era di affermare la sua solidarietà con le prime vittime degli avvenimenti.

Ho sempre rimpianto di non averlo conosciuto nella sua piena giovinezza, quando, bruno e abbronzato come un conquistatore e tutto in fermento per le prospettive scientifiche aperte alla psicologia nel XIX secolo, era partito alla conquista spirituale del Nuovo mondo. In quella specie di colpo di fulmine che stava per prodursi fra lui e la società brasiliana, si è certamente manifestato un misterioso fenomeno quando due frammenti di un’Europa vecchia di quattrocento anni – alcuni elementi della quale si erano conservati da un lato in una famiglia protestante meridionale, e dall’altro in una borghesia molto raffinata e un po’ decadente che, a ritmo rallentato, viveva sotto i tropici – si sono incontrati, riconosciuti e quasi rinsaldati. L’errore di Georges Dumas è stato di non essersi reso conto del carattere assolutamente archeologico di questo ritrovamento. L’unico Brasile che aveva saputo sedurre (e al quale un breve periodo di potere avrebbe dato l’illusione di essere l’autentico) era quello dei latifondisti che progressivamente tendevano a convertire i loro capitali in investimenti industriali a partecipazione straniera, e che cercavano una copertura ideologica in un parlamentarismo compiacente, alla buona: quegli stessi che i nostri studenti, che discendevano da immigrati di recente data o dalla nobiltà campagnola legata alla terra e rovinata dalle fluttuazioni del commercio mondiale, chiamavano con rancore il grão fino, «il gran fino», cioè la crema, il meglio del paniere. Cosa strana: la fondazione dell’Università di São Paulo, grande opera nella vita di Dumas, avrebbe dato a questi ceti modesti la possibilità di iniziare la propria ascesa ottenendo i diplomi che avrebbero aperto loro le porte delle cariche amministrative, tanto che la nostra missione universitaria ha contribuito a formare una nuova élite la quale doveva staccarsi da noi man mano che Dumas e il Quai d’Orsay dopo di lui si rifiutavano di riconoscerla come la nostra più preziosa creazione, anche se perseguiva il compito di scardinare un feudalesimo che ci aveva, sì, introdotti in Brasile, ma per servirgli in parte come cauzione e in parte come passatempo.

Ma, la sera del pranzo Francia-America, non ci rendevamo conto, i miei colleghi e io – e con noi le nostre mogli – del ruolo che involontariamente avremmo sostenuto nella evoluzione della società brasiliana. Eravamo troppo occupati a sorvegliarci l’un l’altro, attenti agli eventuali passi falsi; eravamo stati avvertiti da Georges Dumas che avremmo dovuto condurre lo stesso tenore di vita dei nostri nuovi maestri; frequentare l’Automobil Club, i casinò e i campi di corse. Tutto ciò sembrava sbalorditivo a dei giovani professori che avevano guadagnato fino allora ventiseimila franchi all’anno e – tanto pochi erano i candidati all’espatrio – anche dopo che ci furono triplicati gli stipendi.

«Soprattutto dovete essere sempre ben vestiti» ci aveva detto Dumas; e per rassicurarci aggiungeva con un candore commovente che avremmo potuto ottenere questo senza grande spesa non lontano dalle Halles, in un magazzino detto À la croix de Jeannette di cui egli stesso aveva sempre avuto a lodarsi quando era giovane studente di medicina a Parigi.