13.
Il vicequestore Guarrasi entrò nel portone della squadra Mobile di Palermo. Andò verso la guardiola e si qualificò all’agente di turno, che era uscita dalla porticina laterale. Passò nel cortile interno e prese le scale per raggiungere la sezione Catturandi. Era domenica, e nei corridoi c’era pochissima gente.
Angelo Manzo le venne incontro a metà strada. Anche se era stato di turno tutta la notte, s’era trattenuto apposta per aspettarla.
La portò nel quartier generale del gruppo che era stato creato appositamente per ricercare Salvatore Fratta detto Bazzuca. Un gruppo blindato, fatto di elementi selezionati, che avrebbe lavorato per conto proprio. Quello che era successo la volta precedente, quando l’operazione cui aveva partecipato anche Vanina era fallita, non doveva ripetersi mai piú. La talpa che aveva determinato quel fallimento, chiunque fosse e da qualunque parte provenisse, andava stanata.
Nonostante avesse deciso di non accettare il distaccamento a Palermo che il questore era pronto – e molto propenso – a firmarle per dirigere la squadra, Vanina voleva che gli uomini e le donne che ne facevano parte sapessero che era disposta ad aiutarli come poteva.
Il grosso del lavoro su cui stavano costruendo la loro strategia si basava sui fascicoli delle indagini che proprio lei aveva portato avanti negli anni di Palermo, per dimostrare che Bazzuca era piú vivo e piú vegeto di tutti gli altri.
Succede sempre cosí: quando i grandi sono tutti fuori gioco, anche una mezza cartuccia può diventare un pezzo da novanta. E questo era accaduto a Salvatore Fratta. Aveva fatto strada. Da bassa manovalanza qual era nei primi anni Novanta, quando aveva capeggiato il commando che aveva ucciso l’ispettore Guarrasi, era diventato una potenza. Capace di fare e disfare a suo piacimento.
Ma sempre una mezza cartuccia restava. Se per catturare i padrini c’erano voluti anni di duro lavoro, per stanare una negghia come quella Vanina era sicura che sarebbero bastati pochi mesi.
Manzo la aggiornò.
– La munnizza di Fratta, come lei aveva previsto, parlò assai. La telecamera di servizio di una farmacia vicina al covo riprese un uomo che da poco era andato a comprare quello stesso farmaco ipoglicemizzante che trovammo nella spazzatura. Di chi aveva le sembianze guarda caso, quest’uomo? Di Giuseppe Cuzzano.
Cuzzano era cugino di Fratta, un personaggio ambiguo, sempre ammucciato ma sempre presente negli snodi cruciali delle indagini.
– A quel punto abbiamo piazzato una telecamera fissa davanti all’abitazione del Cuzzano e abbiamo iniziato a seguirlo, – concluse Angelo.
– E del capello trovato sul letto che mi dici? – chiese Vanina.
– Il Dna ovviamente è femminile ma, manco a dirlo, non è presente in nessuna banca dati.
– Sappiamo che la merda aveva anche la fama di essere fimminaro. Cosa che per un latitante può essere un punto debole, non te lo scordare.
Nella mezz’ora successiva il vicequestore tirò fuori dalle sue vecchie carte alcune informazioni, e nomi che ora, alla luce dei nuovi riscontri, potevano diventare anelli di congiunzione.
Manzo sorrise. – Dottoressa, quando si decide a tornare tra noi, le giuro che faccio una festa.
Vanina neanche gli rispose.
Era appena uscita dalla Mobile quando la chiamò Marta.
– Vanina, sei in zona?
Un’altra a cui avrebbe dovuto confessare di non essere a Catania.
– Sono a Palermo da mia madre. Perché? Che è successo?
Percepí il suo stupore attraverso il telefono.
– Mi ha appena chiamato Lo Faro. Abbiamo trovato l’auto della Geraci. Ci avevi visto giusto: era all’aeroporto, nello stesso parcheggio dove hanno ucciso Esteban Torres.
Una botta di contentezza l’assalí. Con tutto quello che aveva combinato la sera prima s’era dimenticata di aver spedito Nunnari a fare il controllo all’aeroporto.
– Minchia, che bella notizia. E ora dov’è?
– La stanno portando nel nostro deposito.
– Di’ a Fragapane di chiamare Pappalardo. Cosí quelli della Scientifica iniziano a lavorarci subito. Voglio che analizzino tutte le tracce, e bene. Avete avvertito Vassalli?
– Sí, ci ha parlato Tito.
– Allora già il pm di Messina sarà stato informato.
Chiuse con Marta e chiamò il maresciallo Labbate.
Prima di tornarsene a Catania, Vanina passò da sua madre. Dato l’orario rimase incastrata in un canonicissimo pranzo della domenica, che contemplava la presenza perfino dei futuri suoceri di Costanza. Al matrimonio di sua sorella mancavano ancora piú di sei mesi, eppure se ne parlava come se fosse imminente. E da parte sua, in quanto testimone della sposa, ci si aspettava un coinvolgimento che in tutta franchezza lei, pur sentendosi vagamente in colpa, non provava.
Non fosse stato per il pranzo in sé, che a onor del vero valeva da solo una venuta a Palermo per come la signora Marianna s’era superata, quelle due ore perse seduta a tavola sarebbero state una tortura inenarrabile.
Quando uscí in terrazza a fumare una sigaretta Federico la seguí.
Le mise una sciarpa di sua madre sulle spalle. – T’ammazzi se no –. Si sedette accanto a lei. – Come stai, gioia mia? Sei pallida.
Poteva dirgli che era in giro dalla mattina precedente? Che s’era messa in macchina a un orario improponibile, reduce da un attacco di panico che le aveva fatto vomitare l’anima, e senza nemmeno passare da casa a cambiarsi? E che aveva passato quel che restava della nottata in una casa senza riscaldamenti insieme all’uomo con cui continuava a giurare di non voler tornare insieme?
– Non mi sono truccata granché, – giustificò.
Federico finse di crederci.
Sorrise e cambiò discorso.
– Ma lo sai che mi capitò? Mi venne a trovare la nuova capo area di un’azienda farmaceutica, una certa Canton, insieme a un informatore scientifico siciliano, che è di Catania. Appena videro la tua foto sulla mia scrivania e scoprirono che sei mia fi… – Si bloccò. Vanina lo vide in imbarazzo.
– Federico, puoi dirlo, – lo rassicurò. Poteva forse vietargli di considerarla sua figlia? Gli veniva spontaneo chiamarla cosí. Avrebbe dovuto ringraziarlo piuttosto.
Federico riprese: – Insomma, mi contarono che era stata la dottoressa Canton a trovare il morto su cui stai indagando tu. Il cubano americano. Un’ora mi tennero, a raccontarmi per filo e per segno tutta la storia.
’Sti due se la stavano spacchiando – per dirla alla catanese – un po’ troppo, per i suoi gusti.
Però sentirli nominare le aveva suggerito qualcosa.
Carmelo Spanò se ne stava da mezz’ora acquattato dietro una siepe, munito di binocolo.
’Sta partita di tennis pareva non finire mai.
Aveva eluso qualunque telefonata, ma alla Guarrasi doveva rispondere per forza.
– Dottoressa, – fece, a bassa voce.
– Spanò, che fu? È afono?
– No, è che sono… a messa –. Come gli era venuto non lo sapeva manco lui. Non entrava in una chiesa dal giorno del battesimo di sua nipote. Dieci anni prima.
– Ah, capisco. Mi chiami quando esce allora.
– No no, dottoressa, mi dica pure.
Vanina gli comunicò la novità del ritrovamento dell’auto della Geraci e si stupí del fatto che lui non lo sapesse già.
– I due che hanno trovato il cadavere di Torres sono ancora a Catania? – gli chiese.
– Sí. Uno vive qua, all’altra dissi di avvertirci se se ne fosse andata.
– Va bene, allora faccia una cosa: prenda una foto di Xavier Torres e la mostri a tutti e due. Chieda se per caso si ricordano di averlo incrociato nel parcheggio.
– Li contatto subito.
– Anzi, guardi, li convochi direttamente domani mattina nel mio ufficio.
L’ispettore chiuse il telefono chiedendosi il perché di quella richiesta.
La verità era che di questo caso se ne stava occupando poco e niente. Sí, certo, un’idea sua se l’era fatta. Aveva interpellato le sue fonti, aveva accompagnato la Guarrasi ogni volta che lei aveva voluto, ma con la testa non c’era.
S’era amminchiato con quest’altra storia e stava iniziando a sognarsela pure la notte. Perché se fosse stata vera, e se solo avesse potuto provarla, forse una speranza di recuperare la sua vita ce l’avrebbe avuta.
Se ne tornò tra i cespugli dov’era nascosto prima e riprese il binocolo. Lo puntò sul campo da tennis e sbiancò.
La partita era finita. I due erano scomparsi.
Vanina si fermò al solito autogrill, quello dove la beccava sempre Adriano. Ridendo e scherzando s’erano fatte le sette e mezzo e una fame lupigna l’aveva assalita. Prese una mezza baguette con la mortadella, una Coca-Cola, e si appoggiò a un tavolino di quelli alti.
Sul telefono c’era un messaggio di Paolo che voleva sapere se era arrivata. Iniziò a scrivere, poi cambiò idea e lo chiamò.
– Mi devo preoccupare? – le rispose subito.
– Perché?
– No perché stamattina quando te ne andasti mi pareva di aver capito che non dovessimo sentirci.
Era vero. Com’era vero pure che lui non aveva opposto granché di resistenza. Eppure qualcosa di non detto Vanina l’aveva percepito. Come se Paolo avesse vuotato il sacco solo a metà. Forse era per questo che aveva avuto l’impulso di chiamarlo.
– Stamattina non t’ho ringraziato.
Lo sentí stupirsi. – E per cosa?
– Per aver capito.
Stavolta fu lui a non rispondere.
Bettina la sentí arrivare e uscí subito dalla portafinestra.
– Vannina, ma dov’era finita? Mi preoccupai!
Ogni volta che non la vedeva rientrare, la vicina entrava in ambasce. Eppure a Vanina capitava spesso di dover passare nottate intere in servizio, e lei lo sapeva benissimo. Anzi, sapeva benissimo anche quanto la sua inquilina amasse fare gli straordinari. Come tutte le persone che si spaventano a rimanere sole con i propri pensieri.
– Ha ragione, Bettina, non l’ho avvertita che sarei andata a Palermo, – si scusò Vanina, mentre salivano insieme i gradini che portavano a casa sua.
La vicina ebbe un guizzo negli occhi. Stai a vedere che una candela oggi una candela domani, Padre Pio – la cui capacità miracolosa per Bettina superava quella della Madonna stessa – aveva ascoltato le sue preghiere e stava riavvicinando Vannina al beddu dottore Malfitano. Certo un poco le sarebbe dispiaciuto se poi la sua poliziotta adorata se ne fosse tornata a vivere a Palermo, ma lei si sarebbe sentita la coscienza a posto per aver contribuito alla sua felicità.
La prese alla larga, s’informò prima sulla salute della signora Marianna, che aveva avuto il piacere di vedere solo una volta, poi del professore Calderaro, poi di Costanza. Alla fine, quando Vanina aveva già aperto la porta di casa, con indifferenza, sganciò la domanda piú importante.
– E il dottore Malfitano come sta?
In un’altra occasione Vanina avrebbe glissato, ma quella sera era troppo stremata per inventarsi qualcosa.
– Magnificamente, – rispose.
La gioia di Bettina per la notizia ricevuta si tradusse in una truscia piena di roba da mangiare, avanzata la sera prima. Vanina la onorò, dal primo al dolce, in preda alla piú incontrollabile fame da sfinimento.
Stanchezza non equivaleva a sonno, manco dopo la nottata campale che aveva passato.
Bagni caldi, litri di camomilla, tutte le poteva provare: il risultato non sarebbe cambiato. L’unica era scegliersi un film e mettersi comoda a guardarlo. Andò dritta alla mensola dei siciliani. Scorse i titoli cercando qualcosa di ricreativo. Alla fine optò per La ragazza con la pistola di Mario Monicelli. Monica Vitti / Assunta Patanè era appena partita alla volta dell’Inghilterra in cerca dell’uomo che l’aveva disonorata, per lavare l’affronto col sangue, quando Adriano Calí la chiamò.
Vanina mise in pausa e gli rispose.
– Ehi Calí, – si sentiva un rumore di sottofondo, come se fosse in macchina.
– Vanina, sento che sto facendo una minchiata, ma devo farla per forza.
– Che minchiata stai facendo?
– Sto andando a Noto. Luca mi ha detto che partiva all’improvviso per Roma, ma io sono convinto che invece si sia portato qualcuno a casa nostra. Se è cosí lo devo sgamare. Questo dubbio mi sta uccidendo.
– Adri, scusa, ma ragiona: secondo te Luca si porterebbe mai un altro nella vostra casa preferita? Non ci credo manco se lo vedo.
– Perché? È un classico: storie clandestine nelle case di villeggiatura ne sono fiorite a bizzeffe. Amuní, ma che te lo devo dire io? Che sbirra sei…
– Certo che è un classico, ma per il tipico marito fedifrago, insensibile e menefreghista. Non per uno come Luca.
– E invece magari proprio perché è l’ultimo posto in cui lo cercherei, lui se n’è andato lí.
– Vabbe’, fai come vuoi –. In fondo lei, coi suoi viaggi notturni – sebbene mossi da altro genere di angosce –, non poteva certo biasimarlo.
– Cerca di stare attento. E casomai dovessi sgamarlo, mi raccomando: poche parole, orgoglio e testa alta. La dignità prima di tutto.
– Agli ordini. Anzi, come dice quel sovrintendente tuo, quello che si sente un veterano della marina americana? Signorsí, capo.
Chiuso con l’amico, Vanina prese il telecomando per riavviare il film. All’improvviso le parole di Adriano le tornarono in mente con la violenza di una mazzata sulla fronte.
– Cazzo! Com’è che non ci ho pensato prima.
Si vestí di corsa.
Passando davanti allo specchio si vide cadaverica. No, non poteva guidare per la seconda sera consecutiva. Rischiava davvero di fare un incidente.
Riprese il telefono e chiamò Spanò.
L’ispettore se ne stava in bilico su un muretto alto, avvinghiato a un lampione dell’Enel. Tirò fuori lentamente il telefono che gli vibrava in tasca. Cazzarola, ma sempre nei momenti topici la Guarrasi lo andava a chiamare?
– Dottoressa, – bisbigliò.
– Ispettore, non mi dica che è ancora a messa perché non ci credo.
– No no, è che… Niente, lassassi stari. Mi dica.
– Lei non è di turno, vero?
– No, c’è Fragapane. E penso macari la Bonazzoli. Ma perché lo vuole sapere?
– Ho bisogno che qualcuno mi accompagni in un posto. E se ho ragione, daremo una svolta importante all’indagine. Piú siamo meglio è.
Qualcosa si mosse nella direzione che l’ispettore stava puntando da due ore. Non poteva lasciarsi scappare l’occasione. Ma una convocazione della Guarrasi era una convocazione della Guarrasi. Passava avanti a tutto.
– Il tempo di prendere una macchina di servizio, radunare gli altri e sono da lei.
Spanò, Marta e Fragapane arrivarono in mezz’ora con Colombo al seguito. La Bonazzoli alla guida.
Vanina s’infilò nel posto del passeggero. S’era fatta un caffè, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno. Bastava l’adrenalina che il suo fiuto sbirresco le aveva messo in corpo. E piú ce n’era, piú era sicura che stava andando nella direzione giusta.
Colombo era divertitissimo. Era da tanto che non stava sul campo, e l’azione gli mancava. Quando Vanina l’aveva chiamato era in giro per Catania con un collega della questura centrale, che gli stava facendo provare l’ebbrezza dello sgriccio al mandarino, bevuto al chiosco di piazza Spirito Santo. Una di quelle che la Guarrasi gli aveva indicato come «catanesate». S’era unito subito alla spedizione.
– Ora possiamo sapere dove stiamo andando? – fece Marta.
– A Noto.
Quelli sgranarono gli occhi. Si guardarono tra loro.
– Possibilmente veloci.
Marta partí in direzione dell’autostrada.
– Meno male che ho scelto questa macchina, – si limitò a osservare. Ma l’espressione sulla sua faccia parlava da sola: quando ti leverai il vizio di non dirmi quello che hai in mente?
Ci misero un’ora scarsa.
Lungo il tragitto Adriano Calí aveva chiamato Vanina, felice di aver trovato la casa chiusa e vacante. Pure col frigorifero staccato, come lui e Luca l’avevano lasciato l’ultima volta. Ora bel bello se ne stava tornando a Catania, che lí il riscaldamento era disattivato e c’era un freddo cane.
Vanina aveva evitato di dirgli che si sarebbero incrociati lungo la strada.
Recuperarono l’indirizzo della Geraci.
– Dottoressa, ma secondo lei qua lo troviamo, a Torres giovane? – Spanò aveva capito tutto.
Vanina improvvisò una breve riunione di squadra.
– Picciotti, incrociamo due dati: la macchina della Geraci è transitata sulla Catania-Siracusa piú volte. Ne siamo sicuri perché la beccò l’autovelox della Stradale e il giorno dopo, mi disse Labbate, pure una telecamera della galleria. Il suo bancomat, che non poteva avere in mano altri che l’assassino, ha prelevato soldi in uno sportello bancario di Noto. Mettiamo che Xavier Torres, spaventato, abbia cercato un posto dove andarsi a infrattare. Le chiavi della casa di Noto erano nella borsetta, insieme al portafogli e al telefonino. I carabinieri mazzi di chiavi non ne trovarono. Poteva esserci un nascondiglio migliore di una casa lontana cento chilometri dal luogo del delitto, e per giunta di proprietà della morta?
– Ma scusasse, dottoressa, – intervenne Fragapane, – a quest’ora quello capace che se ne scappò.
– E perché? Ancora dell’omicidio della Geraci non se n’è parlato. Soprattutto non è mai stato pubblicamente collegato a quello di Esteban Torres. E non ci scordiamo che ora Xavier è pure senza macchina, perché quella della Geraci la lasciò all’aeroporto.
– Dunque secondo te, – fece Colombo, – Xavier Torres avrebbe usato un altro mezzo per tornarsene a Noto.
– Piú o meno cosí.
– Può darsi.
– Nel dossier che ti mandarono su Xavier c’è qualche dato che può tornarci utile stasera?
– No. Stasera no. Ma ci sono un po’ di cose sul suo conto che devi sapere per farti un quadro preciso.
– Ok. Allora me le dici dopo. Per adesso andiamo.
Scesero dalla macchina, che avevano parcheggiato distante. La casa della Geraci era nel centro storico in piena zona pedonale. In giro, alle undici e mezzo di domenica sera, non c’era quasi nessuno. L’ultima volta che Vanina era stata lí era fine settembre, e la città era ancora animata.
S’infilarono quatti nel cortile su cui dava la porta d’ingresso della Geraci. Un uomo e una donna sui sessanta con un cane al guinzaglio spuntarono alle loro spalle e si bloccarono, preoccupati. La fondina della Guarrasi era ben evidente, cosí come la pistola di Spanò.
Vanina si qualificò. A bassa voce chiese loro notizie sulla casa.
– È abitata in questo momento?
– Sí sí. La Bubi, poveretta, la teneva sempre in funzione. Se non ci stava lei la affittava –. Dovevano essere settentrionali.
Vanina si cavò di tasca la foto di Xavier.
– È lui l’inquilino?
I due si guardarono spaventati.
– Sí, è lui! Santo Dio, ma è un delinquente?
– Ci sono terrazze tra questi tetti? – chiese Vanina.
– Sí, in quasi tutte le abitazioni.
Potenziali vie di fuga, pensò il vicequestore.
Li liquidò dicendo loro di rientrare in casa e li ringraziò.
I due sparirono dentro un portoncino.
– Guarrasi, che facciamo? Sfondiamo? – fece Colombo.
– No. Temo che possa scapparci. È un rischio che non voglio correre.
– E allora?
Vanina guardò Marta.
– Bonazzoli, te la senti di fare da apripista?
– Certo. Come?
– Bussa alla porta. Digli che sei una turista in difficoltà, che non hai trovato un posto dove dormire. E hai visto la casa su Airbnb. Piú padana che puoi, mi raccomando.
Si nascosero e la Bonazzoli entrò in azione.
– Guarrasi, se le capita qualcosa Macchia t’ammazza. Lo sai, vero? – le sussurrò Colombo.
– Non le capita niente.
Marta suonò la prima volta. Poi la seconda. Bussò forte.
Una signora s’affacciò alla finestra della casa accanto.
– Cerca a qualcuno? – fece.
Solo quella ci mancava.
– Mi scusi, signora, ho trovato questa casa su Airbnb. Dovrebbe esserci qualcuno ad aprirmi, ma non rispondono.
– C’è ’n autru inquilino, ma mi pare che è nella terrazza. Ora ce lo vado a chiamare. Aspittassi.
Pure amicizie aveva fatto, Torres?
Vanina iniziò a temere di aver sbagliato e che Marta stesse per svegliare qualche persona davvero di passaggio nella casa. Ma com’era entrata, ’sta persona, se Bubi era morta? Probabilmente la Geraci aveva a Noto un equivalente di Nuzzarello a Trecastagni.
La finestrella sopra il portone si aprí, lentamente. Vanina, Spanò e Colombo si erano nascosti.
– Buonasera, – fece Marta, l’aria angelica da ragazza smarrita.
– Buonasera, – rispose l’uomo. L’accento americano.
– Mi scusi, ho trovato questa casa su Airbnb.
L’uomo le rispose in inglese, con un’inflessione spagnola inconfondibile.
– Mi dispiace, io sono solo un inquilino, come lei. Non posso aprire.
Marta fece la faccia disperata.
– La prego! Non so come fare. È tardi, negli altri alberghi non c’è posto…
– La casa è occupata.
La Bonazzoli si superò.
– E le dispiacerebbe dividerla con me? Sarebbe cosí gentile… Le giuro che domattina me ne vado.
Vanina notò che l’uomo ci metteva un po’ a rispondere. Certo, quando gli ricapitava di accogliere in casa una strafiga come la Bonazzoli? Col suo mestiere, capace che gli toccava farsela sempre con donne piú agé.
– Come ti chiami? – le chiese.
– Betti.
– Di dove sei?
– Di Bassano del Grappa.
– E che ci fai qui?
– Ero in vacanza col mio fidanzato. Ma… lui se n’è andato e mi ha lasciata sola. Per piacere, solo per stanotte…
– Aspetta, Betti.
Chiuse la finestra.
– Ci siamo, – fece Vanina.
Marta aspettò serafica che la porta si aprisse.
Xavier Alejandro Torres comparve davanti a lei.
– Entra, niña.
Non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi che le niñe erano diventate due, e che una era armata. L’ispettore capo Spanò l’aveva già bloccato faccia al muro.
L’espressione di Macchia quando gli avevano raccontato lo stratagemma con cui la Guarrasi aveva stanato Xavier Torres era da filmare. Cosí come l’occhiata apprensiva che aveva lanciato alla sua Marta nel momento in cui s’erano trovati a notte fonda negli uffici della Mobile, dove Torres era stato appena condotto.
Nella sala interrogatori insieme all’uomo c’erano Vanina e Colombo. Spanò assisteva da fuori, insieme al primo dirigente e alla Bonazzoli, che invece era fresca come una rosa e per niente provata. Un’attrice nata, l’aveva presa in giro la Guarrasi. In effetti la recita le era riuscita bene. Xavier Torres era stato cosí pollo da credere davvero che una ragazza come lei gli si stesse offrendo in quel modo.
Gli elementi indiziali piú importanti a suo carico riguardavano l’omicidio della Geraci. Tecnicamente perciò l’arresto doveva essere verbalizzato dai carabinieri di Taormina, che stavano per arrivare.
Nell’appartamento netino della donna, Vanina aveva recuperato tutto quello che mancava all’appello. Computer, telefono e portafogli della vittima.
– Lei conosceva suo zio Esteban Torres? – chiese Vanina, in inglese.
Xavier la fissò in silenzio. Gli occhi verdi cerchiati di scuro. Un James Dean quarantenne in versione ispanica.
– Signor Torres, mi risponda: lei conosceva Esteban Torres, suo zio?
– Sí.
– L’ha conosciuto qui in Italia in questi giorni?
– Sí.
– È stata Roberta Geraci a farvi conoscere?
L’uomo non rispose.
– Signor Torres, lei ha ucciso anche suo zio, oltre alla signora Geraci?
Xavier serrò le labbra.
– Io non ho ucciso nessuno.
In quel momento Marta entrò nella stanza.
L’uomo la guardò. – Hola niña! Peccato, ti saresti divertita, – disse. Un sorrisetto sardonico sulle labbra.
Il vicequestore scattò, batté la mano sul tavolo. – Oh, Torres. Stai attento a quello che dici. Non ti permettere mai piú di rivolgerti cosí a un ispettore di polizia altrimenti ti giuro che divento la tua peggior nemica.
Quello mantenne il ghigno.
La Bonazzoli lo ignorò. Si limitò a comunicare a Vanina che erano arrivati i carabinieri.
– Non abbiamo finito. Ci rivediamo in carcere, Torres, – gli promise il vicequestore, prima di lasciarlo al capitano Silvani e al maresciallo Labbate.
Un’ora dopo Xavier Alejandro Torres varcava i cancelli del carcere di piazza Lanza.