perché sono un uomo ».

Ma le donne non giudicavano diversamente da lui.

Dal febbraio del 1939, da quando cominciò a uscire anche di giorno, Antonio

dovette convenire che le donne gli lanciavano occhiate di cosi profonda soavità che

egli era costretto a rallentare il passo ogni volta, come chi riceva sulla carne un

tepore che lo snervi.

Una mattina, per le scale, vide la zitella Ardizzone impalata al principio della

seconda rampa, nell'atto di gettarsi sui gradini per impedirgli di passare. Egli cercò

di sgattaiolare lungo la parete opposta, ma a mano a mano che scendeva, la zitella

ebbe tempo di dirgli con gli occhi le parole più estreme di amore e dedizione, e

quando egli le fu poi a portata di mano, gli gettò le braccia al collo e lo strinse sul

petto infuocato e anelante, schizzandogli sulle guance un fiotto caldo di lacrime.

Antonio si staccò rudemente e fuggi via per le scale.

Uscendo nella strada, era sottosopra dall'emozione e dalla collera; pensava che la

notizia del suo stato avesse liberato le donne da ogni riserbo e timidezza nei suoi

riguardi, e che esse usavano verso di lui quella maschilità di cui lo sapevano

sprovvisto. Compi la sua solita passeggiata rosso in viso come un bambino

schiaffeggiato; era cosi rosso che, alla fontanella di una piazza deserta, si bagnò le

guance e la fronte; due ore dopo, incontrando Edoardo, egli era ancora rosso

scarlatto, come se l'abbraccio con la zitella fosse accaduto un momento prima.

Edoardo cercò di condurlo nello studio dell'avvocato Bonaccorsi, ma Antonio

rifiutò in modo energico: « Ho fatto sinora quello che avete voluto: sono uscito di

notte, poi sono uscito anche di giorno, vado in chiesa la domenica, entro nei caffè...

ma non chiedetemi di più! Appena metto il piede nella casa di un altro, mi sento

soffocare ».

Il cugino non insistette.

« Io devo andarci », disse, « ti saluto ».

Antonio seguitò solo la sua passeggiata, guardando fra i tetti e le terrazze della sua

bella città.

Nell'aria siciliana, lo sguardo pareva penetrare lentamente, riempiendosi della

dolcezza di tutte le cose che sfiorava. Dall'interno di un edificio, i cui balconi erano

pieni di materassi, tappeti e vasi di palme, veniva un canto di donna fra colpi di

battipanni, mentre una nuvoletta di polvere, varcato torpidamente il balcone scuro,

si fermava a mezz'aria come abbagliata dal sole... Libertà, Bellezza, Bontà, a quale

di questi tre numi avrebbe potuto dirigere il suo pesante sospiro, se avesse liberato

il petto dal macigno che lo schiacciava? Quale cosa avrebbe fatto volentieri, se

prima avesse potuto fare quell' altra? Alla Piana, vivendo insieme a Barbara nella

speranza, aveva letto dei libri che lo avevano rapito. Al crepuscolo, con la fronte

poggiata al vetro di un balcone, aveva visto il suo Secolo, il suo Tempo, questo

personaggio che alcuni giudicavano felice, altri orrendo, alcuni tirannico, altri

libero, vestito di un colore grigio, senza occhi né bocca, con un contorno di viso

che racchiudeva metà del cielo. Ed ecco che, aiutato dai pensatori che andava

leggendo, stava per giudicare il suo Tempo anche lui. E chi sa che non gli avrebbe

affibbiato un qualche epiteto o addirittura un nomignolo che lo bollasse per

l'eternità? Libertà tirannide? liberalismo socialismo? idealismo materialismo?

immanenza trascendenza?... Perdio, fra quante cose potevano scegliere le persone

libere dalla sua catena!

Ritornò a casa con un forte mal di capo, perché in verità anche il pensiero che

avrebbe potuto mettersi a pensare gli riusciva faticoso.

L'indomani ricevette una busta profumata. Si chiuse nella sua camera e l'aperse: era

una lettera di donna, leggendo la quale arrossi e sudò:

« Antonio mio, non v'è disprezzo che possa ripagare quella figlia di notaio che tu

hai voluto onorare col tuo nome! Se la potessi chiudere in una camera con me, la

farei a pezzettini con le unghie!

« Questo ha imparato sugl'inginocchiatoi di mogano e velluto rosso della sua casa?

questo ha creduto di sentire fra le parole della Santa Messa ? Sono stata anch'io

Figlia di Maria e la Madonna mi ha insegnato ben altro: mi ha insegnato ad amarti,

amarti eternamente, amarti come sposa fedele e devota, amarti a fronte alta, con

tutta la forza della mia purità!

« Quando il tuo matrimonio sarà annullato, ricordati che al secondo angolo del

viale XX Settembre abita un cuore che da anni si riempie d'amore per te, abita una

schiava disposta a passare il resto della sua vita (che potrebbe essere lungo : ho

diciotto anni) ai tuoi piedi, come un cane che, se vuoi, non alzerà nemmeno gli

occhi per guardarti in viso, contento di vederti camminare nello stesso pavimento

su cui tiene poggiato il muso... ».

Quello fu il primo segnale di una pioggia, di un rovescio addirittura, di lettere

d'ogni forma e qualità: firmate e anonime, lunghe come confessioni e brevi come

dispacci, imperative alcune fino a sembrare intimidatorie, altre supplichevoli, con

grafie ritte o inclinate in avanti o rovesciate all'indietro, chiare o arruffate, ineguali

come la scrittura dei medium in trance o uniformi e armoniose come uscite da un

pennello.Una diceva: « Non appena avremo chiuso la porta, il sangue ti svamperà».

Un'altra: « Una notte sul mio seno, e diventerai tutto un fuoco! »

Un'altra: « Passa una mano sulla mia pelle, prova, ho fatto miracoli ».

Ma le più erano lettere di ragazze : « Vivere di solo amore spirituale, di sguardi, di

parole, di comprensione: è stato sempre il mio sogno ! » Ovvero : « Una sera, a

Taormina, nel giardino dell'albergo San Domenico, il mio fidanzato mi parve colto

da un malessere che, invece di pietà, mi suscitò terrore e disgusto: mi fu spiegato

dopo che quello era amore per me, che era anzi l'amore degli uomini per le donne.

Ne rimasi annichilita! Ruppi il fidanzamento e giurai di prendere il velo.

Qualunque luogo, il più oscuro, umido, uggioso, il più sepolto dietro mura

altissime, mi sarebbe parso un paradiso per il solo fatto che mai una persona

dell'altro sesso vi potesse penetrare. Ma ora io sento con tutta l'anima che sono in

grado di non adempiere il mio voto per sposare te, te, Antonio, amore mio prezioso.

Questa notte mi è apparsa in sogno Santa Caterina e mi ha detto che il Cuore di

Gesù mi considera sciolta da ogni vincolo. Sposiamoci, Antonio, sposiamoci

presto... »

Ovvero : « Non ti ricordi, Antonio, della bambina di quindici anni che reggeva il

velo a Barbara il giorno del vostro matrimonio? Quella bambina ora è una donna e

rimpiange di non aver gettato del petrolio e un fiammifero sul velo che reggeva, per

bruciarvi dentro la creatura infame che osò pronunciare davanti a Dio un si

bugiardo. Come l'ho invidiata, quel giorno! come mi sarei cambiata con uno dei

suoi occhi o dei suoi capelli per sposarti anch'io un poco! come mi sarei cambiata

con la mano che tu le stringevi! E invece avrei dovuto disprezzarla e pretendere da

lei il rispetto che le mentitrici devono alle persone sincere!... Ho strappato tutte le

fotografie in cui io stavo vergognosa e umile dietro le spalle di quel mostro,

naturalmente dopo averne ritagliato la tua imagine che ora porto sul cuore. Antonio,

non è stato il volere di Dio che mi ha posto cosi vicino a te nel momento in cui

chiedevi una compagna per la vita e per la morte? E non ci siamo veramente sposati

un poco? Non ho risposto io, col grido di tutto il mio cuore, alla domanda del

sacerdote: "Sei contenta di sposare Antonio Magnano?", non ho risposto un si ch'è

andato assai più in alto di quello che Barbara se lasciata cascare dalle labbra come

una mela fradicia? E Dio non ha raccolto il mio si. E quale altro si poteva arrivare

in cielo se non il mio che scattava da un cuore teso di adorazione per te, ansia,

trepidazione per te, desiderio di te... ? ecc. ecc. ».

Ovvero : « Nelle tue passeggiate notturne per il viale Regina Margherita, tu credevi

forse che tutti dormissero nelle case che a mano a mano andavi sorpassando. Ma io

non dormivo. La mia camera è seminterrata, e la mia finestra, quando è aperta, si

riempie di scarpe, gonne, pantaloni, cani, gatti, ruote di carrozze, zampe di cavalli,

tutta roba che va da una parte e dall'altra, e qualche volta si ferma togliendoci la

luce. Dal mio letto, poggiato al muro esterno, io sentivo ogni notte, precisamente al

tocco, un rumore districarsi da tutti gli altri vaghi e lontani, di cui la città e piena a

quell'ora, specialmente nel suo corso principale, che taglia l'imboccatura del viale a

pochi metri dalla mia casa. Il mio cuore lo riconosceva subito, e saltava; e io

saltavo con lui, fuori del letto. Ed ecco che il rumore si lasciava indietro tutti gli

altri ed entrava nel silenzio del viale, ingrandendosi da un marciapiede all'altro. Di

notte, io ricordo come sono gli alberi del mio viale e quanto sono alti; e a queste

immagini il rumore del tuo passo si andava unendo sempre di più in un modo cosi

soave che il cuore mi scendeva nello stomaco. Barcollando come una che sia per

venir meno, andavo alla finestra, e, alzate le stecche della persiana, vi appoggiavo

gli occhi. Un minuto ancora... ed ecco: i tuoi cari piedi erano davanti a me... Io

potevo stendere un braccio e trattenerti! Mille immagini, i mille modi con cui si

sarebbe potuto svolgere questo fatto, mi si affollavano alla mente: ti vedevo

inciampare con grazia, ti vedevo gridare, ti vedevo staccare il piede e proseguire, ti

vedevo chinarti e sorridermi, ti vedevo sederti accanto alla finestra e parlarmi, ti

vedevo baciarmi, ti vedevo tirarmi sulla strada per i capelli, ti vedevo saltare nella

mia camera... e queste mille cose tutte insieme, in un lampo solo di pensiero, sicché

io rimanevo mezza morta con la faccia sulla persiana, mentre il rumore del tuo

passo si allontanava fra immagini di platani assai più sbiadite che non fossero nella

mia mente le immagini degli alberi vicini alla mia casa, chiarissime queste com'era

stato chiaro il tuo adorato passo quando le rasentava... O mio caro, o Antonio del

mio cuore, perché sposasti quella donna? perché lasciasti le tue passeggiate

notturne di scapolo ? Io non voglio sposarti, io non voglio chiuderti con me nella

mia casa seminterrata. Voglio solo sentirti passare di notte, sentirti passare sempre,

col tuo passo di giovane, col tuo passo d'uomo libero da qualunque donna, col tuo

passo ch'è soavemente legato alla notte in cui compii vent'anni, e nella quale

m'illusi che, giunto vicino alla mia finestra, tu sostassi un attimo, quasi sapendo che

dietro quella persiana c'era una donna che compiva vent'anni per te, solo per te

Antonio anima mia... ecc. ».

Queste lettere, che avrebbero fatto felice chiunque altro, invece di calmarlo, lo

esacerbarono in modo estremo come carezze maldestre e involontariamente

offensive e dolorose. Nella sua permalosità, che cresceva di giorno in giorno, egli

sospettò di provocare nelle donne una voluttà anormale, innaturale, leggermente

mostruosa: il cosiddetto amore esclusivamente spirituale che celava, secondo lui,

sotto la pietà e il candore, una feroce aggressività maschile. Le donne si

comportavano con lui come gli uomini con le donne; tutte si ritenevano in diritto di

scrivergli, di rivolgergli la parola, d'indorargli la pillola, di nascondergli la verità

sotto abili eufemismi, di fare in modo da non spaventarlo, e infine di convincerlo a

mettersi fiducioso nelle loro mani. Non erano questi i mezzi del più consumato

dongiovannismo? Egli era diventato l'oggetto di una caccia di cuori puri, di animi

nobili, di esseri apparentemente deboli e fiochi, ma in realtà spaventevoli. Sentiva

la loro avidità, che di spirituale aveva soltanto l'essere infinita, incoercibile,

incontrollabile e insaziabile, appetirlo da finestre alte e basse, da spiragli vicino al

suolo, da occhi mezzi rivolti a libri di preghiere o ancora umidi di cieli notturni

lungamente contemplati; si sentiva per tutta la pelle un fastidio intollerabile, colpito

ogni momento da pensieri di sconosciute che lo facevano arrossire di vergogna.

Via via che in questa o quella strada si rivelava l'esistenza di un cuore devoto,

cambiava il corso delle sue passeggiate; rientrando a casa, gettava subito uno

sguardo pieno di ripugnanza sullo scrittoio nero ove immancabilmente

biancheggiava un gruppo di lettere per lui. Cosi tanti slanci, e mod profondi e

delicati, di ardore e carità e dedizione, furono ripagati con la collera e l'antipatia.

Giammai ragazze cosi umili e innamorate furono cosi odiate.

Frattanto la sventura di Antonio raggiungeva il suo colmo.

Il processo, rimandato dal tribunale diocesano a quello della Sacra Rota, e nel quale

i Magnano, atterriti di dover discutere un simile argomento, non ebbero nemmeno

un rappresentante e non sollevarono alcuna obbiezione, si era concluso nel giugno

del 1939 con l'annullamento del matrimonio.

Antonio seppe che, nei salotti, Barbara veniva chiamata a voce alta e con insistenza

signorina. Un giorno, attraversando il viale Regina Margherita, da sud a nord per

evitare la casa della ragazza seminterrata, egli vide un centinaio di manovali sulla

facciata e sul tetto del palazzo dei Bronte; fissando spaventato il più eminente di

quegli operai, che lavorava, legato a un palo, a testa in giù, coi piedi sul cielo, per

coprire di un tetto più alto la felicità di Barbara e del futuro marito, Antonio fu

assalito da un capogiro, violentissimo e accompagnato da un sibilo. Dovette

rincasare in carrozzella. L'indomani apprese che il matrimonio del duca si sarebbe

celebrato dopo quindici giorni.

« Ma come, così presto ? »

« Fra quindici giorni ! »

Mercé potenti relazioni nel partito e nel governo, i principi e duchi di Bronte

ottenevano qualunque cosa nel più breve tempo possibile, smuovendo questo e

quello, in alto e in basso, e riempiendo di un sussulto tutta la scala burocratica,

poiché l'ondata della loro potenza, fragorosissimi a Roma, era capace di andare a

scovare e svegliare, con l'ultima delle sue infinite oscillazioni, in fondo allo scuro

corridoio del più intarlato e cascante ufficio di paese, il più addormentato e

indolenzito dei burocrati. Le pratiche, che per altri andavano strisciando da una

scrivania all'altra come lumache, per loro invece saettavano da un arcivescovado a

un tribunale, da un tribunale a un ministero, da un ministero a una parrocchia.

Il duca di Bronte, del quale non abbiamo detto che si chiamava Nené, colpito dalla

felicità del successo come da uno scompenso al cuore, scompenso gravissimo in lui

in quanto le cose belle e gaie non erano compensate da fatiche e inquietudini,

ingrassò a tal punto che il suo collo scomparve, e per le strade si vide passare col

suo nome, oggetto di profondi inchini e sorrisi, un impressionante congegno di

carne umana, formato da due involucri torcentisi alternativamente quello di sopra

verso destra quello di sotto verso sinistra, poi quello di sopra verso sinistra quello

di sotto verso destra. Ma chi osava vedere quell'uomo nell'esclusiva semplicità

della sua figura? Dietro di lui, agli occhi di tutti, c'era sempre l'augusto sfondo delle

sue terre sterminate che un cavallo a galoppo sfrenato non sarebbe riuscito a

percorrere nel corso di una notte; e se lui era ridicolo, solenni e severe erano le

montagne chiuse nel recinto dei suoi possedimenti, proprietà sua intoccabile anche

dagli uccelli contro i quali i campieri sparavano rabbiosamente e i cani latravano

inseguendoli a perdifiato su per le balze; e se lui non era bello, bellissimi erano i

suoi giardini di limoni scuri e luccicanti e i campi di grano rutilanti di papaveri.

Non era affatto un genio, forse non era nemmeno intelligente, ma come dire la

vecchia frase: « bestia, che te lo devo dire, bestia! » a un uomo che poteva

rispondere col muggito e il latrato e il belato e il nitrito di migliaia di besde di sua

proprietà, bestie che mangiavano l'erba dei suoi prati o morivano scannate per lui o

che, al solo vederlo, s'accoccolavano vicino ai casotti, dalle cui catene avevano

poco avanti cercato di strapparsi per aggredire i polverosi passanti?

D'altro canto, egli era un uomo dolcissimo, devoto a Sant'Antonio di Padova, un

uomo che la notte di capodanno s'inginocchiava tra la folla elegante nel mezzo

della Collegiata e, dopo aver tenuto a lungo la fronte sulle mani, alzava verso

l'altare due guance rigate di lacrime. Faceva molta carità, di nascosto e

pubblicamente, aiutava le sale di scherma, gli orfanotrofi, gli ospedali, le squadre di

calcio, le parrocchie, il fascio e i ricoveri di mendicanti, ospitava d'estate in una sua

villa le mogli degli ufficiali, costruiva rifugi alpini, dava oro alla patria, cancellate

per i cannoni, lenzuola per gli ospedaletti della Croce Rossa, pacchi dono alle

guardie municipali, bandiere ai sommergibili, borse di studio ai licei. Era pronto a

beneficare chiunque purché fosse bene accetto al Governo, riuscendogli

inconcepibile che una persona, pensando con una sola testa, disapprovasse quello

che approvavano i Ministri, i Prefetti, i Comandanti di Corpo d'Armata, i Presidenti

di Tribunali, i Maggiori dei Carabinieri, il Re, i Cardinali, i Vescovi e tutti coloro

che non hanno bisogno di far debiti per mantenere se stessi e i loro figli. E poi era

un uomo modesto e cortese, con due occhi spalancati che esprimevano

costantemente meraviglia, sicché tutti coloro che parlavano con lui avevano la

piacevole impressione d'interessarlo sommamente.

« Ah, si ? » faceva il duca ogni momento. « Ah, si... proprio?... » Insomma,

bisognava dare un eccessivo peso ai propri stenti e povertà per odiare un uomo cosi

compito.

Al matrimonio del duca con Barbara intervenne il fiore della nobiltà di Catania,

Palermo e Messina, intervennero parecchi principi romani, un marchese fiorentino,

e un barone spagnolo di passaggio a Taormina; il palazzo dei principi di Bronte, che

i cento operai avevano innalzato di una torretta, pareva una nave contro la quale

s'abbattessero a ogni istante ondate di divise fasciste bianche e nere, di divise

militari, di tuniche d'ogni colore, di vestiti di seta, di fiori a bouquet a pout-pourri a

fascio a grappolo a pannocchia; i balconi e le verande erano stipate di persone con

bicchieri in mano; la piazza sottostante e le traverse risonavano di trombette e

clackson, zampate di cavalli, grida e insulti di cocchieri e autisti alcuni dei quali

picchiavano sopra gli sportelli per far scostare i curiosi. La folla s'accalcava davanti

ai cancelli, riverberando, dalle facce misere e invidiose, la luce di quello sfarzo e

felicità e accogliendo sulle bocche amareggiate il riflesso di quei mille sorrisi. Al

tramonto, la folla si fece più fitta perché era stata annunziata la prossima uscita del

duca con la sposa in partenza per il viaggio di nozze. Profittando della calca e della

penombra, con le spalle poggiate al tronco di un oleandro, premuto sul petto e i

fianchi da ragazze e da vecchie che ogni momento si voltavano verso di lui come

cercando un consenso al loro sorriso, consenso che naturalmente non ottenevano, o

riuscivano a strappare debole debole e amaro, Antonio Magnano guardava con gli

occhi spiritati che quel giorno parevano fatti più per esprimere paura che per

vedere.

Al crepuscolo, quando ancora le lampade delle strade sono spente e le ali, che

hanno portato la rondine entro il nido, vanno a sollevare da un buco della terra un

viscido sorcio (il pipistrello vola, ma la sorte gli nega il canto, ed egli, vergognoso

del suo strido, sbatte in qua e in là con un turpe silenzio, arrampicandosi irosamente

per i giri di cielo in cui la rondine ha lasciato il suo garrito e l'allodola il suo trillo),

al crepuscolo, il portone del palazzo s'illuminò, anche il giardino d'ingresso sbocciò

di lampade d'ogni colore, e gli sposi apparvero in cima alla gradinata.

La città era al buio e solo quel giardino sfolgorava. Antonio riuscì a vedere

nettamente il viso di Barbara illuminato da un raggio d'albero formicolante di

lampade, vide anche la sua mano passare al disopra dell'orecchia premendo, contro

la tempia e la nuca, l'onda nera dei capelli, vide attraverso la veste di seta la punta

del ginocchio, vide infine, quando ella discese il primo gradino, il piede, bianco

come se fosse nudo, entro una scarpetta nera e scollata; l'occhio esaltato destò gli

altri sensi, ed egli senti l'odore della pelle incipriata e quel fresco che avvertiva

sulla guancia un attimo prima di sfiorare quella di lei, udì la voce che pronunziava

lentamente Antonio!, mentre dalla mano protesa in aria senti sfuggirsi la mano di

lei, i nodi delle dita a uno a uno, l'inciampo degli anelli, le unghie; Barbara gli fu

sul petto, sulla bocca, sugli occhi, ma in fondo al suo corpo, in un punto che egli

ormai indicava con la parola « laggiù », nel punto in cui regnavano da tanti anni il

gelo e la morte, rimasero imperturbati il gelo e la morte.

Frattanto Barbara e il grosso Nené salivano nella macchina; da una finestra

s'affacciò una zia rimbambita con lo scaldino freddo tra le mani, da un finestrino

più alto lo zio matto che tirò fuori la lingua, ma subito fu tirato dentro lui da un

cameriere in giacchetta a righe; il fratello maggiore dello sposo, il principe Sarino,

insieme alla moglie che non era riuscita a dargli un erede e tuttavia aveva sempre

sul volto la smorfia delle incinte consumate dalla nausea, stava invece allo sportello

della macchina. Nella folla, ciascuno protendeva un dito in mezzo alle teste degli

altri per indicare il capostipite dell'antica famiglia. Ma quando le guardie

municipali in grande uniforme si disposero ai lati del cancello, e dalla gradinata

scesero il nuovo podestà di Catania, il prefetto, il questore, il segretario federale

Capàno, il vice segretario generale Lorenzo Calderara e infine l'arcivescovo che

subito tornò indietro gesticolando perché aveva smarrito lo zucchetto per le scale,

una voce di vecchio si mise a strillare: « Ladri del nostro sangue, ladroni di passo,

briganti senza battesimo, vi siete comprata la giustizia e la religione coi vostri

soldacci che puzzano di formaggio! perché avete trovato quegli altri ladroni pari

vostri, quegli affamati con l'aquila sulla testa che si mangeranno fino all'ultimo

sasso di questa terra disgraziata, se Domineddio non ci pensa in tempo e non li

brucia come topi ! Vi siete messi tutti d'accordo e avete combinato la polpetta come

avete voluto voi, gentaccia col pelo sul cuore, cànteri! Ma non sempre ride la

moglie del ladro! Deve venire, perdio, la libertà che vi potremo scaracchiare in

faccia! Deve venire il giorno dei galantuomini! E intanto vi dico questo: abbasso il

re, abbasso il...! »

A questo punto una mano afferrò il signor Alfio per le guance e gl'impedi di parlare.

« Don Alfio », gli disse in un orecchio l'uomo che lo aveva agguantato, « ma lo

sapete che se io non ricordassi sempre il benefizio che avete fatto a mio padre, che

lo avete mandato coi vostri soldi a Salsomaggiore, vi dovrei portare subito in

questura e denunziarvi almeno almeno per il confino? »

« Non me ne importa niente » mugolava il signor Alfio, dentro la mano del

poliziotto, che fra l'altro odorava di mandarino, « vado al confino con piacere !

Abbasso il... »

Ma il poliziotto strinse la morsa e gli schiacciò la parola fra le labbra.

« Andiamo! » disse, « venite con me! »

« Andiamo pure, andiamo pure, non perdiamo tempo! così mi lavo la bocca davanti

al questore! »

« Su, andiamo, basta! »

E il poliziotto spinse il vecchio Magnano fuori della calca, issandolo sopra una

carrozzella, nella quale prese posto anche lui.

Antonio riconobbe suo padre solo quando la carrozza si fece largo tra la folla,

imboccando il viale. Subito si mise a correrle dietro, ma dopo alcuni passi la

perdeva di vista fra le palme, i chioschetti e la folla scura di via Etnea.

Fortunatamente il poliziotto si limitò a ricondurre il vecchio a casa e, dopo avergli

baciato le mani, commosso, perché pensava che in quel momento « l'anima santa di

suo padre » lo stesse benedicendo, dopo avergli raccomandato calma e prudenza,

scese lesto lesto le scale, senza voler accettare nemmeno un bicchiere di vino.

« Me lo dovete promettere per i vostri morti » gli aveva detto presso la porta il

poliziotto « per quanto volete bene a vostro figlio e a vostra moglie, che mai dalla

bocca vi scapperà quel nome! »

Ma ormai l'ira del vecchio Magnano si era vestita di argomenti politici.

« Faranno la guerra e la perdono ! com'è vero Dio, la perdono! » si mise a

sentenziare nel salotto, davanti alla signora Rosaria, che, seduta nella solita

poltrona, con dei rammendi sulle ginocchia, lo guardava scuotendo il capo come a

dire: « A questo ci siamo ridotti, a fare i sovversivi! »

« Vedrai » continuava il marito, « vedrai come gli hanno combinato bene il cappio a

quei due che ora si fanno tenére, e minacciano di spaccare mezzo mondo, e alzano

il pelo come due leoni! Ma che leoni sono? impagliati! Li hai visti i leoni

impagliati? questi sono loro e nient'altro! E senti cosa ti dice Alfio Magnano oggi

venti luglio 1939: quei due malandrini da cortile stanno disturbando la quiete di

tutti, ma sai come andrà a finire? »

La signora alzò gli occhi al di sopra delle lenti e lo guardò.

« Andrà a finire che qui verranno i selvaggi, i neri, i gialli, gli antropofaghi, quelli

che hanno l'anello al naso e la penna in mezzo alla testa! »

« Dove, qui ? » mormorò la signora spaventata. « Qui, a Catania, per la strada

dritta, dove ora vedi tanti cornuti che se ne stanno tranquilli come pecore e non

sanno che sono stati venduti uno per uno al macello! »

« Ma che dici, Alfio ? davvero che stai dando i numeri! »

« Non do numeri, dico la verità. Vorrei essere sicuro di andare in paradiso come

sono sicuro di quello che sto dicendo. Qui, nella strada dritta » e si affacciò al

balcone per indicare la bella strada inondata di gente che straripava dai marciapiedi

fra mezzo ai tram e le carrozze, « qui verranno i selvaggi con la carrucola alle

narici, saccheggeranno i negozi e la faranno da padroni...! »

« Mai sia, mai sia! » pregava fra le labbra la signora.

« Sfileranno per la strada dritta con la penna sulla testa e la carrucola appesa al

naso! E voi » gridò verso l'avvocato Ardizzone che s'era affacciato al suo balcone,

« voi con quella faccia di scarpa vecchia, toglietelo, dalla sede dell'Ordine, quel

vostro ritratto col fascio littorio, che se poi lo trovano ve lo fanno pagare a pedate

nelle natiche! »

« Avremo tutto! » rispose giubilante l'avvocato, e alzò le braccia in aria coi

drappeggi curiali della vestaglia.

« Chi avremo tutto ? Noi ? quale tutto ? »

« Ci danno tutto, Corsica, Tunisi, Malta, Nizza, ci danno tutto quello che vogliamo,

senza guerra... ci danno tutto! »

« A chi lo danno, tutto? » gridò esasperato il vecchio Magnano, « a voi, per la

vostra faccia di melanzana fradicia? E perché ci devono dare tutto, perché? forse

perché hanno paura di voi e del vostro Senato, che non si vergogna di cantare

Giovinezza a bacchetta come i bambini dell'asilo, e nel quale, in ogni caso, voi non

c'entrerete mai, sentite quello che vi dico: mai! nemmeno per portare la bottiglia

con l'acqua a quelli che parlano! »

« Vi compatisco perché avete le vostre disgrazie » rispose l'avvocato con solenne

malignità, « e non sapete quello che dite ».

« Ma andate al diavolo! » gridò con forza il signor Alfio, « scimunito che non siete

altro! » E gli sbatté in faccia l'imposta del balcone.

« Ma Alfio » osservò timidamente la signora Rosaria, « cosi ci facciamo nemici

tutti! in caso di bisogno non avremo nessuno che dirà una parola per noi ».

« Non me ne importa niente della loro parola » ribatté il signor Alfio, « che, tanto,

sarà sempre piena di veleno ». Continuò a passeggiare da un capo all'altro del

salotto, facendo l'atto di vomitare ogni volta che, avvicinandosi al balcone, vedeva,

nei punti a giorno delle tendine, l'avvocato Ardizzone gonfio e rosso come un

tacchino. « E tutto questo perché ? » aggiunse con un tono meno iroso, ma più

disperato, « perché tutto questo ? perché Domineddio ce l'ha con Alfio Magnano,

con Alfio Magnano ch'è un povero Cappa qualunque, e non ha dato mai ombra a

nessuno, e tanto meno può dare ombra al Padreterno ».

« Alfio, non bestemmiare! »

« Non bestemmio, dico la verità. Il Padreterno ce l'ha con me, con me che non ho

ammazzato né rubato né mandato in prigione la gente né messo zizzania nelle

famiglie né tolto il pane a nessuno, anzi quando ho potuto, e tu lo sai, mi son tolto il

pane di bocca per darlo agli altri ».

« È vero, Alfietto, è vero ».

« E Domineddio mi manda la disgrazia più cattiva, più nera, più velenosa che si

possa mandare a un uomo, una disgrazia che nessun mio nemico avrebbe potuto

pensare più perfida, nemmeno se si fosse sforzato il cervello per mille anni. E il

Padreterno deve averla in testa da quando creò il mondo, una disgrazia cosi! E per

chi poi, una disgrazia cosi schifosa e assassina? per Alfio Magnano ».

« Alfietto, Alfietto, stai bestemmiando! »

« Non bestemmio, dico la verità. Una disgrazia, signori miei, che a pensarci ti senti

strappare il cervello dalla testa. Il proprio figlio, il proprio figlio unico, la gioia mia,

l'orgoglio, la vita mia stessa, vederlo ridotto peggio di uno straccio per i piedi,

che almeno questo serve a spolverare le scarpe, ma un uomo in quello stato a che

serve, che te ne fai, che campa a fare? »

« Alfio, Alfio, mi rompi le vene del cuore! »

« E il figlio di chi poi ? di Alfio Magnano, di Alfio Magnano che ne ha... Bè, bè,

non parliamo! Alfio Magnano che, quando entrava in un salotto, i mariti

allungavano il viso e cominciavano a pizzicare le mogli per dirgli che bisognava

andar via... »

« E per questo, il Signore poi... » commentò severa la moglie.

« Per questo, niente! Mi dispiace di non poterlo fare ancora, sangue di Giuda, e di

non avere più, non dico quarant'anni, ma sessanta, sessantacinque, che mi

basterebbe l'animo di mettere lo sputo sul naso a uno sposino senza barba. E se

vuoi saperlo, due anni fa, a sessantacinque anni, ho avuto un figlio! »

« Un figlio, e da chi ? » domandò, con le mani tremanti, la signora.

« Da una... cosa li... una dattilografa del tribunale ».

« E dov'è ora? »

« Morto! »

La signora scosse il capo con un'espressione di rimprovero e di tristezza: « Alfio,

Alfio! »

« E cosa credi tu, che abbia avuto solo Antonio? Molti cornuti hanno allevato a loro

spese figli di Alfio Magnano ».

« Non lo avresti dovuto fare mai, Alfio, e ora non te ne dovresti vantare! »

« Non me ne vanto, dico la verità! »

« Spero che tu dica la menzogna, invece! »

« Bè, va bene... e allora facciamo i nomi! Bertolini! » pronunciò solennemente.

« Cosa, Bertolini? »

« Il giudice Bertolini, lo conosci? »

« Come non lo conosco, sia lodato Iddio, che sarà la più brava persona di questo

mondo, ma è cosi antipatico! »

« ...il suo secondogenito, l'ufficiale di marina... »

« quella carrozza di morto ? »

« Si, quella carrozza di morto è mio figlio ! Un altro mio figlio è preside di liceo in

un paese qui vicino e si chiama Regalbuto. Un altro è un vero cretino, ma il più

fortunato di tutti, perché possiede mille ettari di terreno nel centro della Sicilia, e

quando muore quel becco ch'egli crede suo padre, sarà anche barone... »

« Ma Alfio, le dici a me queste cose, a me che... ? »

« A te che... niente! Li ho avuti prima di sposarti, questi figli ».

« E hai fatto male lo stesso! »

« E allora ti dico che altri li ho avuti anche dopo! »

« Alfio, spero che tu non ragioni! »

« Non ragiono? A Firenze, una sposina in viaggio di nozze abbandonò la sua

camera e venne nella mia! Gli lasciavo la stampa, alle donne, io!... E tu lo sai!... A

Catania, una cosa li... come si dice?... una troia insomma voleva abbandonare il

casino e diventare una semplice ed onesta cameriera e servire da noi... cosi... gratis

e amore, pur di vedermi tutto il giorno! »

« Ma Alfio, » gridò fra i singhiozzi la signora, « ma perché le dici a me queste

cose? »

« Te le dico perché non abbia a pensare che tuo figlio è venuto com'è venuto per

colpa mia. Per sventura sua, e anche mia, Antonio non mi somiglia, ché avrei

preferito mi riducesse sul lastrico per andar dietro alle donne piuttosto che...

piuttosto che... »

Il signor Alfio si buttò su un divano, completamente sfinito.

« E se non ce la faccio ancora » disse, con un filo di voce, « la causa è questa

disgrazia che mi ha tolto il respiro dal petto, e mi basterà che riveda un po' di luce,

un pochino pochino di luce, che di nuovo ce la farò... » E dopo un minuto, aggiunse

fra i denti: « Perdio! »

L'indomani, con la fretta di chi va dal confessore a sgravarsi di un peccato mortale,

si recò dall'avvocato Bonaccorsi.

« Avete visto » si mise a sbraitare nel mezzo del salotto, « che prepotenza mi hanno

fatto ? avete visto come si son messi d'accordo ai miei danni? Ma c'è più religione,

c'è più giustizia, c'è più mondo? Ah, sentite, questo me lo dovete concedere perché

se no vi manco di rispetto anche a voi! Il giorno che casca questa baracca, voglio

essere il pubblico accusatore nei tribunali del popolo! Non guarderò in faccia a

nessuno! Venga pure davanti a me mio fratello, col ritratto di nostra madre in mano,

se mio fratello ha portato la gallina d'oro sulla testa, io lo faccio fucilare! Duchi,

notai, segretari federali, arcivescovi, conti, ministri... li faccio squartare! »

« Tu sei più buono di quanto non credi » mormorò l'avvocato Bonaccorsi, « e non

uccideresti una mosca ».

« Sbaglio c'è Raimondo » replicò il signor Alfio, « tu devi temere la levata del

buono! Dàtemeli nelle mani, questi signori, e vedrete se non ve li appendo ai ganci

come tanti porci! »

« Tu sei buono, e non lo sai » insistette l'avvocato.

« Io non sono buono, e lo so ».

« Tu sei buono, Alfio ».

« Raimondo », fece il vecchio, piantandosi davanti all'amico, « mi vuoi proprio

provocare? Ti ho detto che non sono buono! »

« E diamine! » esclamò spazientito l'ex brigante Compagnoni, « perché non

dobbiamo credergli che, all'occorrenza, il signor Alfio non è buono? Io la gente la

conosco per vecchia esperienza, e so che quando i buoni perdono il lume degli

occhi buttano fuoco più del diavolo. La sola volta che ebbi paura, nella mia vita

cattiva, fu quando in un caffè mi misi a stuzzicare un seminarista fino fino come

una canna, e giallo come il limone. Alla mia prima parola lui muto! alla seconda,

muto; alla terza muto; alla quarta, muto... ma alla quinta, e che cosa diventò? un

gatto idrofobo, una jena? a ogni salto, pareva dovesse spaccare il tetto con la testa;

mi veniva addosso da tutte le parti; mi morsicò il polso, guardate, che ancora si

vede la stampa! Mai, signuri, non mi ci metto più coi buoni, ché l'uomo buono

quando perde il lume degli occhi diventa peggio del diavolo! E sapete che io, di

mano, gioco pesante ».

« Sante parole » commentò il signor Alfio, « meglio il diavolo che l'uomo buono

quando gli rompono l'anima. E a me me l'hanno rotta, Raimondo, me l'hanno

pestata come l'uva! »

« Ha ragione, ha ragione » borbottava Compagnoni, « Quanto a me, signor Alfio, il

giorno che cascasse la baracca, vi faccio nominare a occhi chiusi pubblico

accusatore nei tribunali del popolo! »

« E chi si oppone? » osservò l'avvocato Bonaccorsi. « Voi fate il manico e voi la

quartara. Chi ha negato mai che Alfio possa fare il pubblico accusatore in un

tribunale del popolo? Solo che... »

« Solo che, niente! » interruppe il signor Alfio. Compagnoni strizzò all'avvocato

uno dei suoi enormi occhi per consigliargli di tacere, e Bonaccorsi apri le braccia in

silenzio, col gesto che il prete suole spargere sul Messale.

« Solo che, niente! Se anche voi mi negate giustizia, io vi mando a farvi fottere

anche voi! »

« Ma che dice, ma che dice, ma che dice ? »

« Oh, sangue di giuda ! e allora ? Voglio essere pubblico accusatore, c'è offesa per

qualcuno? Gli voglio leggere vita e miracoli in piazza, gli voglio mettere il bollo

sulle corna che hanno in testa! »

« E avrete ampia soddisfazione, don Alfio ».

« Oh, percristo! »

« Tutta la soddisfazione che vorrete ».

« Oh dunque! »

« Dovrete essere voi a dire : basta sono sazio ».

« Oh, santìssimo buon Dio! »

E il vecchio si sdraiò in una poltrona, respirando con tutto il petto.

Ma due giorni dopo, mentre camminava per via Etnea, senti brontolare queste

parole : « È giusto che se la facciano con quegli sminchiati di antifascisti... Si sono

fiutati i nasi, fra loro impotenti... ».

11 signor Alfio si girò furioso, levando il bastone, ma non vide che facce assorte in

discorsi privati o in letture di manifesti o in trasognamenti quasi angelici.

« C'è qualcuno che s'è annoiato di campare, in questo paese! » mugolò

dolorosamente, facendo voltare meravigliate dalla sua parte le tre o quattro persone

che poterono udirlo.

« No, non sono pazzo » aggiunse, « non parlo da solo né a vanvera. Rispondo a

quel becco fottuto che ha parlato poco fa e ora non ha il coraggio di ripetere le sue

parole ».

Gli sconosciuti fecero delle smorfie nelle quali si leggeva : « Sta farneticando ! »

ovvero : « Cosa vuole,che mi metta con un disgraziato vecchio come lei ? »

Queste smorfie irritarono il signor Alfio sino al parossismo.

« Torno a dire a quel becco fottuto » gridò, col bastone sempre levato, « di ripetere

le sue parole, ché gli smusso le corna con questo legno! »

« A casa, a casa! » si senti gridare da varie parti per tutta risposta. « Va a letto! »

« Va a coricarti! »

« Va e còricati! »

Erano voci lontane, che giungevano da oltre la cantonata.

Il vecchio diventò una belva. « Venite qua » gridò, « vigliacchi schifosi, fatevi sotto

se avete animo, ché vi pesto come blatte! »

« A letto, a letto! »

« Va e còricati ! »

« Avvicinatevi, figli di zoccole fetenti, polipacci stanchi, ché vi ficco questo piede

nella fessura del c.! »

« 'O cùrchiti, 'o curchitiì »

« Merda, io incalco! »

« 'O cùrchiti! »

« Merda io incalco, col piede, lo sapete! »

« 'O cùrchiti! »

« Merda, nel vostro... e delle vostre madri... e dei vostri padri! »

« 'O cùrchiti! »

« Merda incalco, merda! »

« Signor Alfio » si senti dire da un brav'uomo, « nemmeno vossignoria mi pare! Ma

come? dare confidenza a quattro villanacci che mancherebbero di rispetto al loro

padre sul letto di morte? »

« Io merda incalco, caro amico, merda! »

« Ma lasci stare, si calmi! non si metta li con quei morti di fame ! ci perde lei, cosa

crede ».

Loro non hanno niente da perdere! è gente che la mattina si lava la faccia col fango.

Ascolti me, venga via! venga, l' accompagno a casa ».

Il vecchio si staccò a fatica dal luogo in cui l'avevano insultato e fece la strada

insieme al brav'uomo senza rivolgergli la parola, fermandosi ogni tanto a picchiare

la mano destra sul manico del bastone che aveva poggiato a terra con la sinistra.

A casa, per tutto quel giorno, se ne stette muto. La moglie, che non lo sentiva

nemmeno sputare o raschiare con la gola, andava spesso a guardare nello studio,

spaventata come chi veglia un malato e non lo sente respirare.

Ma il vecchio era sempre li, dietro la scrivania con gli occhi sbarrati sul velluto

verde del tavolo, e quando sendva che la moglie s'era fatta in punta di piedi sulla

porta, senza voltarsi minimamente, le indicava con un dito della mano la strada da

cui era venuta.

« Cos'ha, tuo padre? » domandò la signora ad Antonio, « in quarantanni che siamo

insieme l'ho mai sentito cosi muto ».

Antonio arrossi e portò una mano al cuore che si sentì srotolare e sfilarsi dal petto

come un fuso che caschi di mano; ormai, a ogni notizia, rideva che la sua vergogna

avrebbe preso un ulteriore e più ripugnante aspetto.

« Non so » rispose timidamente, « cosa vuoi che gli sia successo ? »

L'indomani il vecchio si svegliò gridando. E cosa voleva, con quei gridi disperati?

Soltanto questo: che gli portassero il caffè subito, subito, subito, senza perdere un

minuto.

« Ma te lo portano » disse la signora, « perché gridi cosi? »

« Perché mi va di gridare! perché a casa mia grido quanto voglio, e chi non ci vuole

stare, ecco la cosa li... la diavolo... la porta., se ne vada pure! » La signora scoppiò a

piangere. Il vecchio spazientito cacciò le gambe fuori del letto, infilò le pantofole e

usci nel corridoio.

« Antonio! » si mise a gridare, « Antonio! »

Il figlio accorse in pigiama, con gli occhi strappati al sonno dallo spavento.

« Antonio, se oggi esci, mi devi fare una carità! »

« Dimmi, cosa ? »

« Devi portare la pistola! »

« Perché, papà ? »

« Per niente, io ho le mie fisime, ma tu devi farmi questa carità, devi portare con te

la pistola! »

« Ma perché, me lo vuoi spiegare? »

« Oh, santa Genoveffa, e torna! Non ho niente da spiegarti, ma vuoi farmi o no

questo piacere di portare con te la pistola? »

« Va bene, te lo farò ».

« Oh, santo Dio, e ci voleva tanto? Anch'io, se esco, mi caccio in tasca il pistolone

di mio padre ».

Allarmato da queste parole, Antonio usci più presto del solito e cercò Edoardo. I

due amici non dovettero faticare molto per apprendere nei minimi particolari

l'incidente occorso al signor Alfio.

Antonio stava per svenire dal dolore e, poiché il caso li aveva portati in quel

momento assai vicini all'abitazione di Bonaccorsi, Edoardo riuscì a convincere il

cugino di salire nello studio dell'avvocato, anche per togliersi dalla strada piena di

curiosi e di maligni.

Antonio sali, e vi trovò gli amici al completo, con in più Ermenegildo Fasanaro che

ascoltava con la faccia bassa e la bocca pendente in giù, come una povera mucca

ferma sotto il sole.

Anche Antonio si mise ad ascoltare in silenzio i discorsi di quegli uomini che,

nemmeno una volta, sia pure di passata o per incidenza, si occuparono della donna.

Questo sulle prime lo riposò, ma poi gli mise nel sangue quella smania e irritazione

che sempre gli suscitavano le parole libertà, progresso, dignità, verità, coscienza

ecc. Poiché esse erano l'opposto di altre parole, che pesavano in modo cosi

intollerabile nella sua vita, sposarsi, annullamento, prima notte, lei, spogliarsi,

letto, farcela, tentare, catenaccio, ecc., egli, ascoltandole, entrava subito in un

disagio dal quale solo poteva uscire o dimenticando per sempre quello che più lo

torturava, cosa per lui impossibile, o immaginando leggermente ipocrite le persone

che parlavano in quel modo. D'altra parte, la frase, che aveva spinto il signor Alfio

a sollevare il bastone per la strada, gli era stata riferita in questa forma : « Stanno a

parlare sempre di filosofia e libertà perché l'uccella non gli tira; se fossero in potere

di dar sazio alle loro mogli, non alleverebbero tante sciocchezze nel cervello ».

Antonio era troppo fine per attribuire a una frase cosi triviale un valore di verità,

nondimeno essa lo tormentò durante i discorsi di quegli uomini. Gli sfuggì nel

modo più completo il tono di sincerità che vibrava in quelle voci; il calore che le

scaldava, non lo avverti minimamente. Nello spasimo che lo aveva preso, e che gli

toglieva ogni possibilità di un chiaro e riposato discernimento, vedeva tutti i

presenti trasparire di quella castità e astinenza a cui egli era costretto, tutti

indistintamente li vedeva inutili per le donne, dimenticando che, se non altri, l'ex

brigante Compagnoni, un mezzogiorno d'agosto, inseguito con le roncole dai

contadini, aveva lasciato sotto un carrubo una ragazza di sedici anni, colei che

adesso era sua moglie, mezza sbranata dalla sua foga come da una zampata di lupo.

Ma ormai agli occhi di Antonio anche quest'uomo era macchiato di purità.

Sicché dopo un'ora ch'ebbe ascoltato in silenzio, scattò dalla sedia, frenandosi però

subito e addolcendo i suoi gesti.

« Chiedo scusa » disse, « ma devo andare ».

« Vengo con te » fece lo zio Ermenegildo, « aspettami ».

Sulla strada, lo zio portò al massimo quell'espressione di amarezza e sfiducia che lo

aveva fatto somigliare, nel salotto di Bonaccorsi, a una povera mucca affollata di

mosche e, nel corso di un lungo faticosissimo sospiro, disse lentissimamente:

« Bah!... »

Il tono, con cui lo zio espulse quel monosillabo, piacque molto ad Antonio; era la

prima voce, dopo tanto tempo, che s'accordasse al mesto suono di cui vestiva le

proprie parole quando fantasticava di giorno, o sognava la notte, dì parlare con

Barbara o col suocero o con altre donne della sua vita.

« Bah! » ripetè lo zio, e Antonio si raggricchiò tutto quanto, e socchiuse gli occhi, e

strinse le labbra, per assorbire sino alla radice dei nervi quella dolente e gradita

esclamazione.

« Bah, bah! »

Entravano a quel punto in piazza Dante, rasentando la chiesa di San Nicola, dalle

colonne mozze, attorno ai cui muraglioni le rondini, saettando di sotto alle tegole

del bel contento vicino, lanciavano strida brevi e attutite, quella che, destinate a

luoghi solitari e antichi, li rendono ancora più solitari e più antichi.

« Come voglio bene a questa terra! » disse lo zio. « La bacerei sasso per sasso,

anche le mosche bacerei, e la cacca degli uccelli! Che disgraziato, rimanerne per

vent'anni lontano! A Parigi, a Barcellona, non pensavo che a questi monelli

seminudi e ingrugnati, che stringono dietro la schiena un sasso da buttarti sulla

testa... Ecco qui la palma! » aggiunse poi, indicando col bastone una pianta

polverosa, « ecco la palma con cui avrei cambiato tutti i giardini di Versaglia... Era

proprio questa, santo Dio! eccola qui, eccola! » Il gentiluomo compì due giri

intorno alla vecchia palma, la picchiò dolcemente col bastone, poi le si piantò

davanti guardandola con amoroso sconforto; scoteva continuamente la faccia come

se la rimproverasse, ma in realtà rimproverava se stesso di non si sa quale torto

verso quell'albero.

« Eccola, lei!... In Ispagna » continuò, staccandosi malvolentieri dalla

contemplazione della palma e proseguendo con Antonio, « ho avuto un capogiro

che m'è durato un anno... Non esagero, un anno! A Barcellona non ho fatto un passo

senza sentirmi mancare il terreno sotto il piede. Ma la mia paura non era di cascare,

era di andare a sbattere il muso su una terra insipida e inodore, o che almeno non

aveva l'odore della mia... di questa qui » e batté il piede con forza, non senza un

conseguente vacillamento che lo fece impallidire e poi sorridere della breve paura

che aveva avuto, « di questa, alla quale un giorno o l'altro voglio dare un bacio cosi

in fondo da lasciarvi dentro il mio cadavere! »

« Zio! »

« Lo so, divento ridicolo. La quartara rotta dura più della sana... Però... »

Il gentiluomo non osò continuare, e affrettò un poco il passo.

« Però, che cosa ? » fece Antonio.

« Però... volevo dire... Ma lasciamo stare, divento ridicolo! »

Uscirono dalla piazza, imboccando via Di San Giuliano che scende a precipizio

verso il centro della città. Da questo punto, in fondo a una fuga di grigi palazzi,

gravidi di ringhiere persiane portali cariatidi vasi di fiori, e che, declinando

gradatamente nell'illusione della prospettiva, mostrano a mano a mano i frontoni, i

tetti scuri e le giare per l'acqua, si scorgeva un tratto di mare dolcemente annebbiato

dallo scirocco.

« Però » sbottò d'un tratto Ermenegildo, « io al fatto che lo spirito umano crea il

mondo, non ci ho mai creduto!... Cioè, mi spiego meglio: quando leggo il nostro

grande filosofo vivente, io piego la testa e ammetto di essere stato battuto. Non c'è

che dire, ha ragione lui: al di fuori del pensiero umano non esiste realtà di sorta, noi

non possiamo uscire fuori del nostro pensiero, anche questa frase che ho detto fuori

del nostro pensiero non è che un nostro pensiero... Perdio, non trovo argomenti

contro di lui, mi mordo le mani e i gomiti, ma devo ammettere che non ne trovo!...

Però, sento qualcosa in fondo al petto, una protesta, un'aspirazione... come devo

dire?... una pazzia, qualcosa che chiede giustizia contro questo modo di ragionare

che non ti dà respiro, contro... come devo dire?... la prepotenza del nostro grande

filosofo vivente. Giustizia, giustizia! che venga un altro filosofo, più grande e

valoroso di lui, e dimostri, con parole belle come il sole, che da una parte c'è il

mondo e dall'altra il pensiero che crede (nota bene questa parola!) che crede di

crearlo, ma in sostanza lo riflette, da una parte il corpo c dall'altra l'anima... Il

nostro grande filosofo vivente sostiene che una dimostrazione simile non sarà mai

data dagli uomini... Ma... e qui mi permetto di fargli un'obbiezione... come fa lui a

ipotecare il futuro e a stabilire quello che gli uomini non penseranno mai più e non

saranno mai più in grado di dimostrare? Sarebbe per caso diventato determinista,

un determinista a modo suo naturalmente... magari senza saperlo ?... Come ? ha

deriso tutti i profeti, e adesso ci spiattella una profezia bell'e buona ?... Eh, che ne

dici ? »

« Sta' attento dove metti il piede ! » rispose Antonio, « c'è uno scalino ».

« Che il vero e il fatto siano la stessa cosa... mi ha sempre convinto, ma non ci ho

mai creduto ».

« Eh? »

« Voglio dire che un paio di maniche è rimaner convinti di un ragionamento e un

altro paio credere che sia vero... Ma tu non puoi capire! quando il fegato ti

diventerà un sasso come il mio, e pisciando manderai più lacrime di dolore che

gocce di urina, allora forse capirai... E poi, scusami : io sarò un bambino, un

ignorante, un vecchio che non vede più dagli occhi perché soffre pene di c., ma

insomma, che vuol dire che la vita va bene cosi com'è, e ch'è stupido lamentarsene

e chiedere qualcosa di meglio?... Per me non va bene affatto! Una volta i nostri

grandi dichiaravano ad alta voce di voler sapere la verità assoluta, chiedevano di

sapere perché siamo nati e a che servano e a chi procurino diletio le sofferenze

degli uomini, dato che l'universo le coltiva con tanta sollecitudine, chiedevano

perché dobbiamo conoscere che moriremo e ignorare completamente che cosa sia

la morte, perché, prima di morire noi stessi, dobbiamo aver visto ìi miserabile

aspetto di tanti uomini morti, perché al nostro pensiero è dato tanto spago da

permettergli di arrivare con un salto a sentir l'odore della verità, senza però poterne

cogliere il frutto, e perché alla fine, ci viene concessa la facoltà di chiedere « perché

» e negata quella di ricevere una risposta definitiva... Ora tutto è cambiato!

Io mi levo il cappello davanti ai filosofi idealisti (gli altri, purtroppo, quelli che, in

un certo senso, potrebbero darmi ragione, non sono che merdicella di passero), io

mi levo il cappello fino ai piedi davanti al nostro grande filosofo vivente, ma, caro

Antonio, non pensi che questa filosofia cosiddetta conciliatrice, questa filosofia che

dichiara: voi cercate la verità? ebbene, la verità è la vostra ricerca! voi chiedete

perché? ebbene, importante non è la risposta, ma il vostro domandare perché!... non

ti sembra che questa filosofia nasconda molto accuratamente la rassegnazione e la

viltà? Stiamo abbracciando con la mente uno spazio più ampio o stiamo piegando

la testa davanti al mistero che si dimostra impenetrabile? Questa serenità, con cui

diciamo di comprendere, e accettare di buona grazia, tutti i contrasti e assurdità

della vita, non varrebbe per caso assai meno della disperazione con cui i grandi del

passato gridavano di non comprenderli e tanto meno accettarli, e preferivano

il suicidio a una vita di miseria e d'ignoranza, che a loro, grandi e generosi davvero,

appariva in ogni caso disonorevole? »

Gesticolando, gridando, e appoggiandosi impaurito al braccio di Antonio a ogni

nuovo capogiro, Ermenegildo era arrivato al centro della città chiamato i Quattro

Canti.

Qui furono urtari e sospinti in ogni senso dalla folla, e finalmente strizzati contro lo

specchio di un negozio, dal fondo del quale Ermenegildo vide salire verso di sé una

faccia di cadavere: sperando che non fosse la sua, provò a chiudere un occhio, ma

anche la faccia lo chiuse, tirò fuori la lingua,e anche la faccia inesorabilmente tirò

fuori la sua.

« Andiamo via da questa gente! » esclamò, « via subito! »

Affrettarono il passo e giunsero sotto i cancelli della Collegiata, risparmiati dalle

onde della folla, che scorreva per la via Etnea, infittendosi talvolta e dilatandosi,

senza però invadere mai completamente la piccola insenatura in cui sorge la chiesa.

« Certo che... » disse Ermenegildo, e dopo una lunga pausa, come tornando indietro

dal suo proposito: « Ma insomma! »

« Voi amate troppo i vostri peccati! » riprese, dopo un'altra pausa, « cosi ha avuto il

coraggio di dirmi quello sgrìcciolo di padre Raffaele. Io amo troppo i miei peccati?

e quali, per favore? il peccato di dovermi procurare molto denaro, il peccato di

eccellere nelle conversazioni, il peccato d'invidiare un altro se per caso eccelle lui,

il peccato di preparare i bauli e viaggiare, il peccato di adescare le serve, il peccato

di anfanare sopra la moglie di un amico?... ne sono più stanco di un santo ! Ti

assicuro, Antonio, che se amassi la castità, la povertà e la clausura solo perché sono

virtù cristiane, e non perché mi dànno sollievo e godimento, andrei in cielo con

tutte le scarpe. Ma anche in questo, purtroppo, sono il vecchio sensuale di una

volta, quello che siamo stati tutti i Fasanaro, almeno i maschi, perché le femmine

sono state delle madonne! La castità mi piace come un lenzuolo fresco; e anche la

morte, mi piace come una potente iniezione di morfina... Mi piace, ecco le due

parole che mi chiudono la porta di San Pietro... Mi piace, mi piace anche lei! Non

vedo l'ora di gustarmela!... Ahi! » fece a questo punto, toccandosi il torace,

« maledetta carcassa, miserabile gabbia! quella di una gallina è più elastica e

ariosa».

Si diede una manata sul petto, « gabbia buia, piena di quegli stessi organi che si

vedono nei piatti della cucina dopo aver disossato un capretto o un pollo: quegli

stessi disgustosi polmoni, fegato, cuore, budella; voi, per cui tante volte ho detto

ahi! e mi si è appannato il pensiero, andate al diavolo, finalmente! »

« Piano ! » disse Antonio, stringendolo per un braccio, « la gente penserà che

litighiamo ».

Ermenegildo rispose con un gesto di noncuranza.

« Dimmi una cosa, Antonio : quella cuore di pietra, non l'hai vista più? »

Antonio alzò la testa in segno negativo.

« Non ti ha scritto, non ha chiesto di parlarti ? »

Antonio rialzò la testa, e questa volta chiudendo gli occhi.

« Ma come, dopo un matrimonio d'amore con velo bianco, paggetti, messa cantata,

dopo tre anni di vita insieme, dopo che tutta la città vi ha visti felici, questa signora,

senza che tu le abbia fatto niente... dico niente di male... ti manda un salutino con la

testa e se ne va insieme a un altro marito senza nemmeno voltarsi indietro?... E poi

» aggiunse con voce accorata, « mi volete sostenere che questo mondo non è

brutto ?...» Lunghissima pausa. « Che facciamo, diamo una guardatura li dentro? »

« Dove ? »

Ermenegildo indicò con gli occhi la porta della chiesa.

« Qui mi sono sposato ! » obbiettò Antonio pallidissimo.

« Be', e che vuol dire?... Su, entriamo! »

Antonio sali i nove gradini esterni con gambe di piombo; al braccio dello zio,

attraversò il sagrato sentendosi intensamente guardato dai balconi vuoti del palazzo

Biscari, dalle finestre chiuse della viuzza contigua, dai marmi, dai mattoni, dalla

fila di lance del cancello. Mai come in quel momento e in quel luogo deserto si era

sentito oggetto di attenzione.

Entrarono nella chiesa, il cui soffitto, dipinto dallo stesso pittore che ha affrescato il

teatro Bellini, pare sempre percorso dal vasto e appena percettibile ondeggiamento

che il vento del palcoscenico suole imprimere al sipario. Alcuni raggi di sole,

attraversando i vetri delle finestre, rimanevano sospesi in aria come vapori colorati;

al disotto di questi fulgori, dentro cui l'aria impolverata sembrava roteare

lentamente, la chiesa formicolava di buio e fiammelle. Ecco l'altare maggiore, ecco

il cancello di legno, ecco l'inginocchiatoio! Come se avesse bevuto un sorso troppo

grande di passato, Antonio si senti soffocare, il suo respiro divenne affannoso e

rapido, il bel naso dagli orli illividiti cominciò a dilatarsi, mostrando lo sforzo di

tirare l'aria più su che potesse.

« Inginocchiamoci » disse Ermenegildo, « cosi staremo meglio ».

Meccanicamente Antonio piegò i ginocchi, al fianco dello zio che, intrecciate le

mani sul pomo del bastone, vi poggiò la fronte, presentando alla statua del Cuore di

Gesù il cranio lucido e biancastro, sul quale due ultimi riccioli, di un biondo quasi

giovanile, apparivano miseramente incollati.

Antonio invece chiuse le mani a imbuto e v'infilò dentro la faccia per non vedere

l'altare maggiore nudo dei drappi viola che l'addobbavano il 5 luglio del 1935,

giorno del suo matrimonio, né la porta principale priva del bel tappeto rosso su cui

s'erano spend i passi dei parenti, dei testimoni, degli amici.

Stette cosi parecchio tempo, aspettando che l'onda del sangue smettesse di

picchiargli il cervello, e le arterie delle tempie di pulsare fastidiosamente.

« È possibile » disse lo zio, sollevando la fronte dalle mani e poggiandovi il mento,

« è possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non

corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che

sono le parole più belle della nostra vita ? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco

lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa

voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora : Gesù

Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si

figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa

accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati, che lo

fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a

stento la sua onnipotenza ? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre

arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e

la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono

dorato alla destra di un assai curioso Padre... E dunque la sera di giovedì, quando

pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola Padre, dall'altra parte

non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone

convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare

quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto

e senza speranza!... E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro

o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza e, se andiamo a scuola, una

rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare verità le nostre disgraziate

domande senza risposta? Ebbene, no!... Lo ripeto per la terza volta: Gesù Cristo!...

No, perdio, no!... Gesù Cristo! Eh, no, non è come dire: Ermenegildo Fasanaro. È

ben diverso!... Ge-sù Cri-sto!... Eppure, chi lo sa? Fra ventimila anni, si potrà

parlare di Lui come di un moralista superato e quasi barbarico! un moralista poco

generoso verso i più sventurati dei nostri simili, i malvagi incapaci di redimersi, ai

quali non finiva mai di minacciare castighi crudelissimi... E allora dunque, Gesù

Cristo è un barbaro ? Hai sentito, Antonio, cosa ho detto? Gesù Cristo un barbaro!

Non si arrossisce di vergogna al solo sentirlo pronunziare? E che vuol dire questo

rossore, se non che la verità è dalla parte opposta? Gesù Cristo, Gesù, il nome

stesso di Dio! Gesù Cristo! Gesù Cristo! Gesù! Gesù Gesù!... »

Il gentiluomo s'accasciò davanti al proprio bastone, tornando a premere gli occhi

sulle mani intrecciate attorno al manico d'argento.

« Gesù Cristo! » mormorò ancora una volta, senza scostarsi dall'attitudine in cui

s'era tutto abbandonato, « più ripeto questo nome e più ne smarrisco il significato...

E nondimeno come sarebbe stato bello se uno di noi uomini, questo cittadino di

Nazaret, fosse stato figlio di Dio, e ci aspettasse dall'altra parte, col suo corpo

simile al nostro, sapendo per esperienza cosa voglia dire avere avuto dei polmoni,

un fegato, un intestino, un cuore con le valvole!... »

Antonio si senti risucchiare il cervello verso una parola che qui sarebbe suonata

oscenamente; cercò di rifiutarsi con tutte le sue forze, e ottenne soltanto di

avvicinarsi a quella parola come a una cosa morta, vedendola in ogni sua lettera,

senza leggerla però né sentirne il suono nella memoria.

« ...le ghiandole, i reni, la materia cerebrale, il midollo spinale... » continuò lo zio.

E Antonio, per una seconda volta, vide quella parola.

« ... che ci aspettasse vicino al nostro cadavere, anzi addirittura coi piedi sul nostro

cadavere, e c'incoraggiasse, noi spauriti del salto che abbiamo fatto, c'incoraggiasse

non dico altro che col suo aspetto di uomo, e magari ci sorridesse... E come sarebbe

soave che questi bravi sacerdoti ci avessero detto sempre la verità, né più né meno

che la semplice verità!... Io credo in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e

della terra... Proprio cosi: Dio Padre ha creato il cielo e la terra... Ed in Gesù Cristo

suo unico Figliuolo unico Signore nostro... Nulla di più vero: Gesù Cristo è il suo

unico Figliuolo e l'unico Signore nostro... lo credo nella Chiesa cattolica, nella

Comunione dei Santi, nella remissione dei peccati, nella vita eterna, amen. Tutto

oro colato: la Comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la vita eterna... Come

sarebbe bello che in questi quadri qui attorno si specchiasse fedelmente,

minutamente, pedantescamente, la verità: gli angeli con le ali, la Madonna con quel

viso, Gesù Cristo con quel cuore fuori del petto!... Come sarebbe bello che il nostro

Papa Pio XII, di cui fra l'altro conosco il nipote, fosse veramente il Vicario di Dio, e

che la visita del parroco di Zafferana, la sera, nella nostra casa di campagna, con la

lanterna in una mano e l'ombrello di incerata nell'altra, non fosse soltanto una cara

abitudine, ma una visita ben utile, assai più utile che quella di uno sciocco medico

che ti sta a guardare come una bestia di sua proprietà, mentre sa di te, per averti

visto in una lastra, quello che un siciliano sa della Cina che ha visto al cinema...

Come sarebbe bello, perdio! come sarei felice che le cose stessero così!... E invece

non stanno così! » riattaccò dopo una pausa, « Cristo di Dio, non stanno così!

Cristo di Dio, perché non dev'essere vero che tu esisti? perché non dev'essere vero

che gli assetati di giustizia saranno saziati, e che gl'infelici in terra siederanno alla

tua destra nella luce e nella gioia? perché non devi aver ragione tu quando minacci

l'inferno a coloro che non credono in te, e devono invece aver ragione loro, i

maledetti? E se tu minacci l'inferno a coloro che non credono, cosa dovremo

minacciare a te, noi innamorati delusi? E se tu soffristi quando sentivi qualcuno non

credere alle tue parole, come dovremo soffrire noi quando ci accorgeremo che le

tue parole sono state un inganno, un sogno, un bel sogno di cui l'universo non tiene

nessun conto, il sogno di tanti poveri uomini che agonizzarono sperando e

morirono insieme alla loro speranza?... E d'altro canto, non so perché, dicendo

queste parole, mi pare di venir meno ai miei doveri e di smuovere una qualche

terribile risposta... A meno che non sia l'impressione di mio... »

« Zio » lo interruppe Antonio, stringendogli bruscamente una mano e alzandosi in

piedi, « c'è un prete ».

« Dove ? » fece il gentiluomo, alzandosi anche lui, « vado subito a confessarmi ».

Fecero alcuni passi verso una tunica nera che si profilava sui gradini del coro, dritta

come se fosse vuota e appesa.

Ma avvicinandosi, Antonio scorse una faccia pallida legata a quella tunica dal

nastro nero del colletto.

« È padre Raffaele » esclamò, fermandosi.

« Meglio cosi, mi confesso con lui ».

« No ! » fece Antonio, con uno scatto nervoso.

« Perché no ? »

« È il confessore di Barbara ».

« E con questo ? »

« No, ti prego ! »

Antonio cercò di voltare indietro lo zio e spingerlo verso la porta. Fatica superflua!

Padre Raffaele, avendo riconosciuto Antonio, cercava anche lui di allontanarsi; a tal

punto il brav'uomo si sentiva pesare sulla coscienza quel ripudio che la sua

penitente non voleva giudicare un peccato, incoraggiata in questo da una sentenza

della Sacra Rota.

Antonio era stato assalito dal più forte dei suoi rossori; la faccia gli bruciava e

persino gli doleva. La figura in tunica nera, che andava scivolando lungo il braccio

sinistro della navata, gli sembrava carica di tutto il mistero di Barbara.

« Zio » disse, « sto male, mi pare di non vederci più, accompagnami a casa! »

Ermenegildo si slanciò premuroso e lo sostenne. E fu in uno stato d'incoscienza che

Antonio uscì dalla Collegiata, fra le braccia dello zio che, malgrado il peso che

sorreggeva, non potè fare a meno di mormorare lungo il faticoso tragitto: « ...o

divento comunista anch'io!... »

« ...ovvero cattolico, cattolico tutto fede e devozione, casa e chiesa! »

« ... o lascio aperto il rubinetto del gas! »

Capitolo 12

« Verso nuda scogliera, poiché l'autunno della vita preme, guardano, vinti e

sconsolati, i sogni ».

A. BLANDINI

Son passati quattro anni. Un giorno d'agosto del 1943, in una piazzetta della Punta,

il primo borgo sulla strada che da Catania s'arrampica addosso all'Etna, il buon

brigante Compagnoni, cavalcando un asinelio che, sotto di lui, sembra piccolo e

riottoso come un cane, comincia a gridare verso i balconi di una casa affumicata: «

Signora Sara, signora Rosaria, e con chi aveva parlato, suo marito? Ha visto che

son passati migliaia e migliaia di autocarri? ebbene, ora non ne vengono più. Dopo

di me, vengono i selvaggi a cavallo... si... quelli con la carrucola al naso e la penna

nella testa!... Tale e quale come aveva detto suo marito. Tale e quale: stampato!... I

selvaggi, gli antropofaghi!... » E agita le enormi braccia in una smania di collera,

soddisfazione, orrore e disgusto.

« Questo, dovevano vedere gli occhi miei : i selvaggi a Catania, nella strada dritta!

e ora vengono qui!... Col diavolo, aveva parlato il signor Alfio, col diavolo! »

Ma dov'è il signor Alfio, dov'è quel povero vecchio?

Una notte del '42, egli rincasava piano piano, maledicendo il buio, che ogni tanto lo

faceva rinculare di soprassalto come una porta sbattutagli in faccia, la guerra e la

propria vecchiaia, quando le cose stesse, i mattoni della strada, le carrozze ferme

lungo il marciapiede, le mura delle case, il cielo stellato e i campanili, scoppiarono

in un lamento lungo e continuo come quello di un armento che sente avvicinarsi il

lupo: erano le sirene d'allarme.

« Questa notte » borbottò il signor Alfio, « mi parla il cuore che non lasciano pietra

su pietra! »

E invece d'infilare la via che conduceva alla sua casa, imboccò certi vicoli

puzzolenti ove di solito il passante notturno sentiva a destra e a manca fiati di

donne che dicevano: «Entra, via! fermati un momento! »

Ma quella notte, in luogo degli usati inviti, si udivano sbattere gli usci e, dietro di

essi, non appena chiusi, un precipitoso affannoso armeggio di chiavistelli e paletti.

Il signor Alfio accelerò il passo agitando il bastone davanti a sé e colpendo mucchi

di spazzatura, gatti, cani, alla rinfusa. « Perdio, faccio la morte del topo nella

chiavica! Ehi » gridava, « ehi, Mariùccia, aprimi! »

Mariùccia, che abitava in fondo alla strada, era una ragazza senza una goccia di

sangue sotto la pelle, dal cui petto magrissimo sbocciavano due mammelle grasse e

pallide come quei frutti che si gonfiano a primavera in cima a rami secchi e privi di

foglie.

« Ehi, Mariùccia, per il tuo dio, aprimi! »

Il signor Alfio s'era già fermato, credendo di trovarsi davanti alla porta di

Mariùccia; ma questa si aprì a molti passi da lui, e il viso della ragazza, illuminato

dall'interno, sporse bianco come la cera: « Ma chi ce lo porta qui, vossignoria, in

questa notte da lupi ? »

Il signor Alfio corse affannosamente verso il punto da cui era stato chiamato, ed

entrò in un tugurio ove l'oggetto più prezioso e luccicante era una sveglia che

contava i minuti con un rumore miserabile di latta.

« Ma come ? vossignoria qui ? E se ci ammazzano, che diranno domani? che il

signor Alfio andava in casa di una mala donna? »

« Voglio proprio questo » disse il vecchio, « voglio che mi trovino morto qui!

voglio che tutta Catania sappia che Alfio Magnano coi suoi settant'anni andava a

putt... Scusami, non lo dico per offenderti. Tant'è vero che non voglio offenderti che

sono venuto a morire qui ».

« Oh, misericordia! E che è scritto, che dobbiamo per forza morire? » fece la

ragazza, con un tono leggermente risentito.

« Non lo so... Lo sanno quei bruciapaglioni che ci volano sulla testa ! Sono dei

ragazzacci, cosa credi ? ragazzacci come quelli che la notte fanno a spintoni per via

Etnea. Loro, invece che in via Etnea, lo fanno per le vie di Londra! E giocano a

biliardo, anche loro, che un padre, poveretto, non riesce mai a farli rincasare...

Questa notte però si son messi a giocare con le nostre case e, un colpo uno un colpo

un altro, vedrai che le fracassano tutte!... Si, da questo momento, tutti i catanesi, tu,

io, il prefetto, quelli che sono cornuti e quelli che non lo siamo, i fascisti e gli

antifascisti, il duca di Bronte e quella dannata di sua moglie, mio figlio e la mia

Sara, tutti, dico tutti, siamo nelle mani di quattro scavezzacolli che, quando

vogliono, ci possono stutare con un soffio, cosi, puffi, come candele alla fine della

festa! »

« E lo facciano pure » disse la donna. « Io vado a chiamare il gatto nel cortile ».

Apri una porticina che dava in un buco nero, in mezzo al quale troneggiava un vaso

di creta.

« Ehi » disse il signor Alfio, « non te ne andare! Non vorrei che domani mi

trovassero qui solo solo, come se fossi venuto a dirmi le devozioni. Voglio morire

accanto a una donna! Mi levo anzi la giacca ! »

« E via che non moriamo! » fece la ragazza senza voltarsi, e tornò a chiudere la

porta del cortile. « Con quel gattaccio, lo so io che rimedio ci vuole! »

E invece morirono. Il signor Alfio Magnano, che la città stimava e riveriva, fu

trovato, dopo cinque giorni di ricerche, tra le rovine di un quartiere malfamato : una

scarpina verde col fiocco rosa, schizzata da una casa da tè della strada contigua, gli

stava vicino alla faccia con la punta poggiata su ima tempia; di Mariùccia era

rimasta la mano destra chiusa attorno al manico della scopa. Non si capiva che cosa

in verità avesse ucciso il signor Alfio, perché egli appariva illeso coi vestiti intatti e

abbastanza puliti: in una tasca dei pantaloni, dentro una custodia di celluloide,

conservava gelosamente il foglietto che il cognato Ermenegildo aveva lasciato due

anni prima sul comodino, nella camera avvelenata di gas : « Quest'incubo della vita

è stato potente e continuo e, pur tra le sue assurdità, ha saputo avere un'aria di

coerenza e quasi di naturalezza ».

I catanesi, che sedevano la sera ai tavolini dei caffè sulla via Etnea completamente

oscurata, e cicalavano come ai bei tempi, malgrado avessero l'impressione di

masticare un buio terroso, trovarono in quella morte un argomento inesauribile.

« Che vecchio senza pace ! A settantanni, con una notte come quella, si sente

l'animo di andar a cercare un covo per il suo lepre! »

« Una vera esagerazione! » obiettava qualcuno.

« Perché esagerazione? »

« Ma poteva trattenersi, no? Che mi volete dire che se passava un giorno senza...

alla sua età... moriva? »

« Ognuno sa i fatti suoi ».

« Ah, certo, ogni legno ha il suo fumo e ogni uomo la sua valentia. Però... non

aveva più vent'anni ».

« Non aveva più vent'anni, ma quella salita se la faceva ancora bene ».

« Questi Magnano, sia lodato Dio... »

« I vecchi, volete dire, perché i nuovi... »

« Avesse preso un dito, da lui, suo figlio! dico molto forse? un dito! »

E chi sa quanto altro avrebbero detto e almanaccato se, una settimana dopo, il

segretario federale Pietro Capàno, travasando di notte nel suo garage un fusto di

benzina, vistosi improvvisamente al buio per un allarme aereo che spense la luce,

non avesse acceso un fiammifero. Subito l'aria ruggì e, sbucata da non si sa dove,

una fiamma feroce lo avvolse dai piedi alla testa. Egli fece due salti indietro,

cercando di uscire da quell'inferno, ma la fiamma, avvinghiata fortemente alla sua

persona, lo seguì palpitando.

In preda al terrore, quest'uomo di trentanni, che era anche figlio unico di due

genitori pazzi per lui, cominciò a gridare padre e madre, e a chiamare aiuto, ma

poiché nessuno accorreva, si buttò fuori del garage. L'atrio era deserto.

Fiammeggiando sinistramente, Pietro Capàno lo attraversò come un ossesso e,

infilata la prima porticina che vide, salì dove lo portavano le scale: nella casa di un

suo nemico.

L'autista Impellizzeri, ch'egli aveva mandato al confino, e parecchie volte aveva

mugolato dentro la palma della mano : « Bruciato devi morire, bruciato! », si senti

venir meno dalla paura, quando, socchiusa e poi spalancata la porta, vide quel

pover'uomo entro una fiamma che lo teneva saldamente prigioniero e s'affrettava a

ingoiare la benzina ancora sparsa sulla pelle e i vestiti, per addentarne la carne.

« Aspetti, federale, aspetti, Madonna Santa, ma non entri, ché qui tutti andiamo in

fuoco! »

E precipitatosi in cucina, tornò con un secchio pieno d'acqua.

« Non abbia paura, non abbia paura ché la spegniamo subito! »

Cosi dicendo, con la mano premurosa e tremante gli lanciava spruzzi d'acqua sui

vestiti e la faccia.

« No » urlava, il disgraziato Capàno, « è peggio cosi, peggio! »

Infatti, come alimentata dall'acqua, la fiamma sali più vigorosa e sanguigna, con

uno sbuffo di fumo nero verso il soffitto. Vedendo quel viso d'uomo disperato in

mezzo a una fiamma cieca e dura cui non c'era verso di far capire che quella era

carne battezzata e non un pezzo di legno, l'autista scoppiò a piangere.

« No, acqua no : tu mi ammazzi perché sono fascista! » gridava Pietro Capàno.

«Che fascista e non fascista!» rispondeva piangendo l'autista, « che va dicendo?

siamo uomini!... Dio sa cosa darei per strapparle di dosso quella fiamma! »

« La giacca! » urlo Capano, abbattendosi sul pianerottolo e trascinandosi a terra la

fiamma che con un salto gli » distese sopra, più larga ora che alta ma non meno

rabbiosa.

« Si, è giusto, la giacca » fece l'autista, « e il tappeto! »

Volò nell'altra stanza, con le mani alle orecchie per non sentire le grida di Capàno

che si torceva a destra e a manca sotto il fuoco che tentava di addentargli le spalle

ogni volta che egli, nel torcersi, le staccava dal pavimento.

L'autista tornò con un tappeto, una coperta, un cappotto, e, affannato e pieno

d'angoscia, li distese sulla fiamma che subito si rannicchiò. L'autista si buttò allora

sulle coperte e si mise a calcarle col peso di tutto il corpo. La fiamma scomparve di

botto con un rumore di vento. Nel pianerottolo si fece buio, e dall'interno delle

coperte cominciò a venire un fumo denso e più nero del buio stesso insieme ai

gemiti sempre più soffocati di Capàno.

Poco dopo accorse una ragazzina recando una candela. L'autista si alzò tremando e

battendo i denti; con la mano priva di sangue, tirò via le coperte e scopri un corpo

interamente ustionato, cieco, muto, col sangue rappreso sulle profonde lesioni che

lo attraversavano per tutti i versi.

L'autista s'abbracciò stretto alla bambina : poi s'inginocchiò vicino a quell'uomo

che spento sembrava più orribile di quando aveva orribilmente fiammeggiato, e il

cui unico segno di vita era lo stridere di alcune piaghe che andavano ancora

friggendo.

Pietro Capàno morì l'indomani, lasciando turbati da vaghi rimorsi coloro che lo

avevano odiato. Solo pochi, si contavano sulle dita, ebbero il cuore di mormorare:

«Chi la fa se l'aspetti!», ma trovarono subito chi li rintuzzasse: « E che è? oh, Gesù

bambino! siamo cristiani! Non aveva bruciato nessuno, lui! »

« E dirò di più » aggiungeva un altro, « era anche buono ».

« Buono forse... »

« Buono, buono!»

« Non so cosa voglia dire lei col suo buono ».

« Quando dico buono, voglio dire buono! non la capisce, lei, la parola buono? »

« Io volevo... »

« Lei non voleva niente, si stia muto! »

« Volevo dire... »

« Lasci stare! »

« Volevo spiegarmi... »

« Le dico che non c'è bisogno! lasci stare! »

E Antonio? La morte del padre lo annichili per alcuni giorni: quel tenero padre, che

lo amava più degli occhi suoi, se n'era andato assestandogli il più forte schiaffo che

mai padre abbia dato a figlio. La vergogna non era per il vecchio, ch'era finito tra le

macerie di un quartiere malfamato, ed era rimasto un giorno intero allineato

sull'asfalto della strada insieme a due ubriachi dai nasi tumefatti e a cinque donne a

cui la morte non sapeva cosa togliere talmente le aveva già spolpate la vita: la

vergogna era per lui, Antonio, che tre giorni dopo, recatosi al cimitero di Aquicella,

trovò sulla lapide del padre, scritte a carbone da una mano sconosciuta, queste

parole spaventevoli: « ...morto il 6 marzo 1942 per lavare l'onore della famiglia

infangato dal figlio ». Le parole erano grandi e inverosimili. Egli cercò di

cancellarle con la manica della giacca guardandosi attorno come un profanatore di

tombe e ricevendo negli occhi spaventati lo sguardo di molte fotografie e statue.

Non tornò più al cimitero e ogni notte aveva paura di addormentarsi perché ogni

notte vedeva in sogno quelle parole scritte a carbone.

Ma la signora Rosaria la pensava in altro modo.

« Il mio Alfio » ripeteva, vestita e coperta di nero, con la corona del rosario sempre

in mano, un medaglione nero sul petto contenente la fotografia del signor Alfio

vestito a lutto per il padre, la faccia chiusa in un fazzoletto nero, « Alfietto, Alfio, il

mio tesoro, il fiato mio, morto con quelle donne, sotto le pietre!... »

Non voleva né mangiare né stendersi sul letto.

« Ma come si può mangiare, ma come si può dormire » piagnucolava coi parenti

che la tenevano chi per una mano chi per l'altra, « quando l'anima mia è morto sotto

le pietre, e chissà quanto avrà sofferto? »

Tutti scoppiavano a piangere, e le donne guardavano Antonio, la cui bellezza,

nell'abito a lutto, nel pallore mortale del dolore e della vergogna, sembrava

veramente quella di un arcangelo.

Due mesi dopo, la signora Rosaria, vinta dal disgusto di non saper morire,

ricominciò a nutrirsi e stendersi per qualche ora sul letto. Antonio non sognò più la

lapide del padre e fece di tanto in tanto un sogno più dolce, che Barbara, commossa

dalla disgrazia, gli scrivesse una lettera, un biglietto, lo pregasse di andare da lei.

Ma Barbara non scrisse alcun biglietto, e Antonio, dopo il tramonto del sole,

s'aggirava attorno al palazzo dei Brente, abbassandosi, nell'angoscia, a tal punto di

stupidità, che una notte, visto trapelare fra le persiane un raggio di luce, e sperato

invano che le persiane si aprissero ed ella s'affacciasse, sbottò in un grido da

ossesso : « Luce, luce ! La forca ci vorrebbe per voi! »

Subito la luce si spense, e Antonio fuggi come un ladro di lampadine, sentendosi

pesare addosso un tale schifo di se stesso che, giunto nella deserta via Sant' Euplio,

sotto il muro del giardino pubblico, poggiò la mano a una pietra coperta di

muschio, e su quella mano pianse lungamente; e poiché soleva profumarsi con

l'essenza usata da Barbara, per un certo tempo ebbe la soave illusione di piangere,

non sulla propria mano, ma sulla guancia di lei.

Soavità infida, egli lo sentiva mentre andava godendola, ma tanto più forte e

snervante quanto più era accompagnata dal presentimento che stesse per aprirsi su

una profonda sconsolata amarezza. Eccola, infatti, già passata! eccola, infatti,

perduta! La mano ricascava dalla pietra borraccinosa lasciando un po' del profumo

di Barbara in mezzo all'erba, un poco, una larva, quello che rimane di luce, dopo

una giornata di mezz'agosto, nel volo di ima lucciola.

« Ma questa Barbara è una delinquente! » diceva Edoardo.

Antonio rispondeva con un sorriso ironico, quasi di sufficienza.

« Io non so se sia vero quello che dicono » incalzava il cugino.

« Cosa dicono ? » faceva Antonio, più per sentir parlare di lei che per dar credito a

una voce di cui percepiva già chiaramente la falsità.

« Ma dicono... dicono tante cose ». E vedendo la faccia ironica del cugino, Edoardo

aggiungeva irritato : « E il bello è che io ci credo !... Tu no, naturalmente? »

« Ma io non so ancora di che si tratta ».

« Si tratta di questo: che Barbara e il marito non vanno d'accordo. E d'altro canto,

come può, una donna, andare d'accordo con quella sorta di vacca che gli manca

soltanto il campanaccio al collo? »

Antonio s'illuminava di piacere.

« E questo non è tutto: Barbara lo tradisce! »

Antonio s'abbuiava; ma tornava subito al suo sorrisetto e alzava in aria il mento.

« Tu non ci credi, naturalmente ».

Antonio rovesciava le labbra e rialzava adagio adagio il mento.

« Ebbene, io invece ci credo e scommetterei qualunque cosa ch'è vero! »

« E con chi lo tradirebbe ? »

« Col cocchiere ».

Antonio sorrideva in fondo in fondo al petto, quasi con lo stomaco, e alzava di

nuovo il mento.

« No ? »

Antonio alzava il mento.

« E invece si! Barbara ha nelle vene una buona dose di sangue matto. Mi

meraviglio che tu, vivendo per tre anni con lei, non te ne sia mai accorto ! A me è

bastata un'occhiata... Nella sua famiglia, questo lo sai, ci sono due o tre pazzi dei

quali nessun notaio Puglisi ama sentir parlare. Guarda cosa fai: va' da tuo

suocero...»

Antonio impallidiva.

« ... Insomma da colui ch'è stato tuo suocero, e digli : notaio, com'è morto suo zio

Tanino ? e vedrai di che colore diventa il notaio ».

« Perché, com'è morto ? »

« Con una donna seduta sulla faccia e un'altra a cavallo sulla pancia; al capezzale,

ove i Puglisi tengono il libro da Messa, aveva un cartoccio di una certa polverina...

Un altro Puglisi, lo zio di questo Gaetano, la polverina la vendeva di contrabbando

nello scorso dopoguerra: nascondeva le cartine fra i capelli; la sera, alcuni miei

amici bussavano alla porta della sua casa a pianterreno e, dandogli un bel mazzetto

di biglietti di banca, si compravano il permesso di accarezzargli la testa. Una sera,

invece di lui, trovarono la moglie che urlava di dolore: lo sciagurato era morto. I

miei amici consolarono la donna con buone parole, poi dissero: "E' un po' di

magnesia, non l'ha lasciata?"

"Che ne so" piagnucolava la vedova, "che ne so io se l'ha lasciata? che ne so dove

la teneva, che, fra l'altre pene, non abbiamo un soldo per fargli dire una Messa?..."

I miei amici scostarono gentilmente la donna ed entrarono coi cappelli in mano. Il

morto giaceva sul catafalco fra quattro candele accese, e aveva la testa, priva di

cuscino, sprofondata dietro il petto. Uno dei miei amici si avvicinò al capezzale,

s'inginocchiò, si segnò, recitò una preghiera, si segnò ancora una volta, poi passò

ima mano fra i capelli del morto e tirò fuori una bustina. Tornato dalla vedova, le

prese la destra, se la strinse al petto, e le infilò dentro duemila lire con le quali

l'indomani il fratello prete potè celebrare una Messa cantata ».

« E con questo ? »

« Con questo voglio dire che se Barbara cerca nel suo sangue qualche goccia matta,

ne trova a sufficienza. Del resto ho saputo che quand'era bambina... Ma lasciamo

stare quand'era bambina... Parliamo di oggi! oggi come oggi, se la... dal cocchiere...

con tutta la radica! »

Antonio si alzava indignato.

« Tu » gli gridava dietro il cugino, « stai diventando un minchione! »

Antonio faceva una spallucciata, riuscendo a esprimere, con le spalle e la nuca, la

più ironica incredulità, e s'allontanava.

« E va bene » mormorava sconsolato Edoardo, « pensala come vuoi ».

Antonio, la sera, tornava ad aggirarsi sotto il palazzo dei Bronte. Passava da un

tronco di platano all'altro, silenzioso e veloce come un cacciatore, poi ficcava la

faccia tra le sbarre del cancello, assaporando dalle guance il gelo e la durezza del

ferro come una carezza umiliante che Barbara avesse incaricato una delle sue cose

di fare a quel disgraziato, il meno che potesse dargli, e che a lui nondimeno

sembrava molto, anzi lo riempiva di gioia e di piacere; il cuore gli batteva e

sussultava al pensiero che nessuno lo vedeva e che egli era felice contro tutte le

regole della dignità, della convenienza e del decoro. No, Edoardo non sapeva

neppur lui quello che andava dicendo! Il palazzo dei Bronte stava li, solenne e

scuro come una chiesa, e dalla sua alta torre si alzavano al cielo, e vi

s'immergevano con la maestà d'una statua, l'onore, la superbia, la freddezza di colei

che ne portava alla cintola le chiavi.

Un giorno, i due cugini videro passare lentamente per via Etnea una carrozza con lo

stemma dei duchi di Bronte dipinto sugli sportelli.

Antonio si fermò e diede di gomito a Edoardo.

In serpa, con la bombetta in testa, la lunga frusta nella mano destra, le redini nella

sinistra, tentennava il cocchiere.

« Guarda » fece Antonio, « guarda li il tuo cocchiere! Quanti anni gli dài? »

Il cocchiere era vecchio, ma Edoardo generosamente lo ritenne vecchissimo e gli

diede settantacinque anni.

« D'altro canto » aggiunse, « colui che mi ha raccontato la storia di Barbara è un

bugiardo col bollo.

Figurati che ieri mi ha annunziato con tutta serietà di aver sentito alla radio con le

sue orecchie che Hitler s'era accecato. A dirla tutta, la verità, non è stato solo lui a

raccontarmi quella storia. Ma insomma » sbuffava spazientito, « faccia Barbara

quello che vuole. Se lo governi come le pare e piace : è suo, in fin dei conti! Di

questi tempi c'è ben altro al mondo che Barbara e il duca di Bronte! Fra poco, caro

Antonio... »

L'Europa era tutta al buio, le navi scivolavano di notte sul mare lugubri e scure

come carri funebri, molti popoli si nutrivano soltanto d'uva passa, e tuttavia

Edoardo sentiva nell'aria « odore di felicità' ».

« Fra poco » diceva, « questi venti anni di tirannide, di rozzezza, di presunzione ci

parrà di averli sognati in una notte di febbre. Conserveremo soltanto il tic di

voltarci indietro prima di parlare a voce alta, e faremo ridere i nostri nipoti. "Ma

che ha il nonno" domanderanno, "che si guarda sempre alle spalle?" E i nostri figli

spiegheranno sorridendo che il povero nonno è vissuto in un'epoca nella quale ogni

cittadino aveva il suo angelo custode dietro e andava in prigione solo per aver detto

che il capo del governo era vecchio... Ma ci pensi, Antonio? » esclamava afferrando

le braccia del cugino e scotendolo con tutta la sua forza, « fra poco non dovrò più

dire che Hitler arriva appena appena alle ginocchia del Nostro quando vorrò dire

che l'uno e l'altro sono due bestie matricolate! Fra poco dirò nettamente come la

penso in faccia a chiunque! È possibile? mi domando certe volte, è proprio

possibile questo? dire a voce alta la propria opinione, qualunque essa sia!... la

propria opinione » aggiungeva piano piano quasi ad ascoltare egli solo quelle

parole per meglio concentrarsi e capirle, « qualunque essa sia... a voce alta!... Ma

Antonio » riprendeva con furore, « io credo che non ci arriverò, a un giorno simile,

e morirò la sera prima! E poi, ne sarò capace? voglio dire, saprò parlare la lingua di

una persona libera? non m'imbragherò? non arrossirò? non dirò delle enormità? non

farò capire a tutti che sono stato per vent'anni un povero servo? e non cercherò

anche allora, per una vecchia abitudine, di piacere a qualcuno, di adulare un

potente, di seguire la moda, e di tenere, in ogni caso, discorsi opportuni? Ovvero

non farò il ribelle a sproposito, non finirò col non pagare il biglietto del tram per

dare a intendere che sono un uomo libero? Io ci perdo la testa... »

I due cugini camminavano l'uno accanto all'altro in silenzio.

« L'unica cosa che mi dispiaccia » ripigliava Edoardo con voce commossa, « è che i

tempi della gentilezza, della pietà, della poesia ritornano quando noi non abbiamo

più vent'anni ! La nostra giovinezza è in tasca a quell'uomo; il giorno che lo

arrestano e lo perquisiscono, gli trovano addosso i nostri vent'anni. Questo pensiero

mi fa sudare freddo! vedere un' Europa serena, libera, un' Europa che onora i sogni

e la musica, e noi non avere più l'età in cui si sogna con tanto ardore e si passa

un'intera giornata canticchiando la nuova canzone di Tosti!... Ma sia fatta la volontà

del Signore! L'importante è che tornino tempi felici e, soprattutto, liberi! »

Con questi discorsi e sentimenti, egli trascorse il '40, il '41 e il '42, anni che,

nell'attesa della felicità, furono per lui teneramente, trepidamente felici. Di quali

colori non si vesti' la speranza? di che non si nutrì? da quale piccolo fiore non

rifulse? da quale misera canzonetta di passante non cantò con la sua voce suprema?

E Pippo, Pippo non lo sa

che quando passa ride tutta la città,

si crede bello

come un Apollo

e saltella come un pollo.

Oh deliziosa canzone, per Edoardo! Essa voleva dire che fra poco sarebbero venuti

tempi felici.

Qualche anno dopo:

Tutte le sere sotto quel fanal

presso la caserma ti stavo ad aspettar.

Anche stasera aspetterò

e tutto il mondo scorderò

per te, Lili Marlen,

per te, Lili Marlen.

0 trombettiere, stasera non suonar, una volta ancora la voglio salutar...

Edoardo, col mento sul cuscino, seguiva la voce del nottambulo. La feroce Europa

era stanca, non voleva più sentirne di trombette militari, preferiva il suono di un

bacio sotto un lampione. Ecco il romanticismo che tornava, ecco il primo nuovo

romantico che passava per la via nel cuore della notte, e proprio sotto il balcone di

Edoardo, ecco il primo europeo con la testa piena di sogni.

Quando nel fango devo camminar sotto il mio fucile mi sento vacillar.

Amabile europeo, incapace di sopportare il peso di un fucile.

Che cosa mai sarà di me? ma poi sorrido e penso a te.

Adorabile europeo, a cui bastava un'immagine di donna, davanti agli occhi della

mente, per non vedere più né fango né miseria.

Edoardo si agitava sul letto e sbuffava di smaniosa contentezza.

« Che hai ? » domandava la moglie.

« Fra poco » rispondeva Edoardo, « fra poco... »

« Fra poco, che cosa ? »

« Niente, lo vedrai ».

Ed eccolo finalmente il giorno tanto sospirato da Edoardo: esso porta il nome di 5

agosto 1943. Eccolo! ma com'è nero di polvere e pieno di un sordo rombo di

rovina! Cade la tirannide, ma anche i tetti delle abitazioni, i campanili delle chiese,

i vecchi ponti sui fiumi; si spezzano gli orologi in cima agli edifìci pubblici e le

sfere rimangono ferme sul minuto in cui la bomba uccise in piazza un gruppo di

povera gente spaventata... Il buon brigante Compagnoni, cavalcando un asino, è già

arrivato alla Punta, e grida verso la piccola casa affumicata, in cui è andata a

rifugiarsi la signora Rosaria col figlio Antonio, grida che dietro di lui vengono gli

africani e gl'indiani.

La signora Rosaria sporge timidamente la testa legata in una sciarpa, si fa il segno

della croce e si ritrae.

« Antonio, hai sentito? » dice con l'esile voce che l'è rimasta dopo la morte del

marito, « tuo padre aveva parlato con gli angeli, poveretto. A Catania, nella strada

dritta, ci sono i selvaggi! »

Antonio sdraiato su un divano, col solito fazzoletto di seta intorno al collo, si

rivolta dall'altra parte : « Se ne andranno come sono venuti » borbotta con la faccia

contro la spalliera sfilacciata.

« Povere ragazze ! » dice la madre. « La Madonna benedetta deve salvarle ! Dicono

che questi selvaggi ne fanno vendetta! »

Antonio scatta a sedere sul divano.

« Tutte storie ! » esclama. « I negri sono come i bianchi ».

« E che so ? » fa la madre, « ne dicono tante ! Che posso sapere? Povera casa nostra

» aggiunge con un sospiro, « sarà in piedi ? sarà cascata ? se la saranno presa i

soldati? A me mi devono lasciare il letto in cui abbiamo dormito tanti anni con tuo

padre. Si portino via tutto quello che vogliono, ma il letto me lo devono lasciare,

perché se no, cosi vecchia come sono, non so davvero cosa faccio! »

« Che vuoi fare, mamma? » dice Antonio, cercando di scherzare. « Quelli hanno i

cannoni e ti sparano ».

« E io gli cavo gli occhi con queste unghie ».

« Ma non ti lasciano avvicinare, mamma ».

« E io invece m'avvicino. Che ne sanno, loro, che io gli voglio cavare gli occhi?

Loro non lo sanno e mi lasciano avvicinare... E io, con questa mano, gli tiro gli

occhi... »

D'un tratto Antonio si rabbuia. Dopo che ha scherzato un momento, gli càpita

sempre di diventar nero. Un minuto di allegria gli fa sentire più cupamente

l'amarezza del suo stato abituale.

« Tu, figlio mio » dice la signora Rosaria, « uno di questi giorni ti devi armare di

santa pazienza e fare una corsa a Catania a vedere la casa ».

« Ci andrò domani », risponde Antonio, tirando di nuovo le gambe sul divano e

sdraiandosi.

Ma l'indomani non partì.

Per due settimane, la voce delle zampogne che i soldati scozzesi, installatisi nella

vicina casa del farmacista, suonavano notte e giorno allo scoccare di ogni ora, gli

diede un ambiguo e paralizzante dìletto. Dove stava Barbara, in quei giorni? ed

erano vere le voci che correvano sul suo conto? Il notaio della Punta raccontava

ch'ella era stata violentata da un tedesco; il suo aiutante, ch'era fuggita con un

soldato inglese; il medico condotto, amico delle famiglie Bronte e Puglisi, che si

recava ogni due giorni in baroccino nel paese in cui s'era rifugiata Barbara col

marito, persona attendibile dunque, raccontava invece che la casa dei Bronte era

rimasta chiusa a tedeschi e inglesi, e che Barbara, col solo affacciarsi al balcone,

aveva scoraggiato alcuni soldati dal continuare a bussare col calcio dei fucili.

Quest'immagine di Barbara che, affacciandosi dall'alto, rendeva stanchi e smorti

alcuni ribollenti scaricatori del porto di Amburgo o di Londra, fu quella che piacque

di più ad Antonio e lo convinse interamente. Senza dubbio la verità era in

quest'immagine ! Barbara era questa! Il cuore stesso glielo confermava, palpitando

a precipizio ogni volta che egli la vagheggiava con la mente in quella superba

attitudine.

Sulla fine di agosto, scosse il torpore, si stiracchiò, indossò l'abito nero e scese a

Catania.

Che tristezza! Nel corso, le macerie dei bei palazzi, non ancora rimosse, si

addossavano ai muri superstiti; i negozi erano in gran parte chiusi e le saracinesche

distorte dai ladri che ogni notte tentavano di forzarle; piramidi di spazzatura in ogni

punto, lambite da una fiamma senza denti che non riusciva a mordere che qualche

buccia secca o foglio di giornale, e mandava in alto, fino ai terzi piani e alle

terrazze, una nube densa di cattivi odori; le rondini, impaurite dagli spari, volavano

altissime come su una terra sommersa da un'alluvione, e stampavano in fondo in

fondo al cielo vaghe immagini di mestizia; le zanzare, invece, trasportate dai carri

militari, dai fuggiaschi e da quell'occulto vortice che risucchia gl'insetti in seno agli

uomini quando questi perdono le forze, s'eran spinte dalla Piana nel cuore della

città e iniettavano la malaria fin nelle mani levate al cielo degl'improvvisati soprani,

alcune povere straccione, che la sera, nel teatro Bellini, cantavano per i soldati; su

per i mucchi di spazzatura, fanciulli nudi e magri, con le scapole che gli foravano la

pelle come punte di ali, erravano in cerca di cibo; su alcune rovine campeggiava,

priva di cassa, l'arpa di un pianoforte, che la notte denunziava lamentevolmente la

presenza dei ladri col suono delle corde su cui di botto era strisciato un mobile,

trasportato sulla punta dei piedi; mancavano i fiammiferi e, per accendere il fuoco,

bisognava andare a chiederne uno al preveggente amico che abitava all'altro capo

della città. Che tristezza! Per il corso, cartelli d'ogni misura dicevano in inglese :

« Attenti alle malattie veneree! », « La guerra passa ma la malattia venerea resta »,

« Cosa porterete a casa alla vostra ragazza ? una malattia venerea ».

Nel mezzo del corso un antico e nobile caffè s'era rivestito di paraventi e intonachi

bianchi e, sulla porta, una scritta luminosa comandava ai soldati : « Entrate !

lavatevi prima o almeno dopo! » Il giardino pubblico era invaso da carri militari; al

crepuscolo, i cittadini disastrati si aggiravano come spettri nei luoghi in cui era

seppellita la loro casa e con essa la sala da pranzo nella quale, fino all'anno avanti,

era rimbombato il loro brindisi della notte di San Silvestro con l'augurio di un

nuovo anno felice e i vicendevoli baci; altri, scacciati dai loro appartamenti, e

ridotti a vivere insieme a parenti poveri e brontoloni, spiavano dalla strada,

attraverso i vetri delle finestre, quello che accadeva nella loro vecchia abitazione, e

vedevano disegnata sulla parete, a cui una volta s'era appoggiato il quadro della

Sacra Famiglia, una donna nuda e sconcia con nell'occhio un proiettile di rivoltella

sparatole addosso da chi sa quale soldato ubriaco. Il quartiere del porto, nel quale,

alla rinfusa con le casette popolari, sorgono i vecchi palazzi di Catania, era

circondato di ferro spinato e vietato a tutti i civili perché in esso avevano preso

stanza i grossi e piagnucolosi soldati negri di cui talvolta se ne vedeva uno a un

balcone con il cappellino della padrona di casa in testa e il boa intorno al collo. Gli

abitanti di quel quartiere, poveri o ricchi che fossero, si appoggiavano al ferro

spinato, cercando di vedere il più lontano possibile, e consolare la loro vecchia

casa, che si trovava, come essi dicevano, in mano ai Turchi, con uno sguardo

disperato. Se le cose erano devastate, i sentimenti non lo erano di meno. Molti

rancori serpeggiavano tra le famiglie: saluti non corrisposti, sguardi alteri, denunzie

politiche avevano dato un aspetto più solitario alle case rimaste in piedi, quasi

fossero chiuse ciascuna in faccia all'altra per dispetto e sgarberia. I violenti di una

volta, ormai privi di sfogo, s'eran fatti gialli dal veleno che avevano in corpo, e non

sapevano addolcire lo sguardo nemmeno quando lo posavano sui figli. E della

gente che aveva sofferto, ahimè, quanta se n'era guastata! Il gentile avvocato

Bonaccorsi stava barricato in casa, e non voleva ricevere gli amici che ormai gli

eran venuti a noia : vestito di nero, con un fazzoletto in mano, seduto davanti allo

specchio come a consolarsi con la vista di un uomo addolorato, piangeva tutto il

giorno. Cosi, mentre quelli, che avevano percosso, ucciso e mandato in galera il

prossimo, se ne stavano orgogliosi e duri, sfogando o meditando vendette, questa

persona gentile, che aveva sempre ragionato e mai fatto del male, tormentato

pietosamente dai rimorsi degli altri, non aveva il coraggio di farsi vedere per le

strade. L'ingegnere Marietti invece, nominato sindaco della città, andava per la via

Etnea, polverosa e assordata da carriaggi militari, col naso a becco di civetta in aria,

fingendo di non conoscere molti dei suoi conoscenti e ricambiando, con un bel

sorriso e un cenno della mano, soltanto il saluto dei nuovi violenti. Miserabile

autorità, la sua, perché una sera degli ufficiali inglesi ubriachi, sorpresolo davanti al

suo portone che solennemente proclamava quali cittadini dovessero venir privati

per sempre dei diritti civili, lo rapirono in una jeep e, portatolo in un vecchio

palazzo, fra i resti di un banchetto, gli fecero lavare una montagna di piatti sporchi.

L'avvocato Ardizzone era stato assalito da una paura solenne come la sua boria di

un tempo, c un pomeriggio si recò insieme ad un pittore nella sede dell'Ordine degli

Avvocati ove, profittando che a quell'ora non c'era anima viva, fece passare sul

fascio littorio, a cui egli si appoggiava nel ritratto a olio, delle intensissime

pennellate, con l'effetto che la sua immagine rimase pendente nel vuoto. Senon-

ché, fosse colpa dei cattivi colori o opera di qualche malevolo, due giorni dopo il

fascio riapparve ingrandito da una sbavatura sanguigna. Uno. sconosciuto lo avvertì

per telefono: « Avvocato, il fascio tornò! »

« Che vuol dire, il fascio è tornato ? si spieghi ! »

« Vuol dire che, nel suo ritratto, il fascio si vede da capo ».

« Ma io sono un uomo onesto, e non ho nulla da temere! »

« Lo so che lei è un uomo onesto, ma qualche maligno potrebbe... »

« Cosa mi consiglia di fare? »

« E lo tolga, questo quadro! »

« No, sarebbe peggio, penserebbero chissà che cosa, che io per esempio mi ero

fatto fotografare accanto a quello Sciagurato criminale a cui dobbiamo tutte le

nostre sventure... Mi comprende, mio caro e gentile amico, di cui purtroppo non so

il nome, e che tuttavia ringrazio dal profondo del cuore ? »

« E allora faccia come crede! » L'avvocato fu assalito dalla febbre, e parecchie

volte, sentendo picchiare al portone, e immaginando che fosse arrivata la polizia

inglese coi berretti rossi e le bandoliere bianche, tentò di salire sul terrazzino per

buttarsi nella strada. Talmente era preda di un terrore insensato!

Antonio arrivò a Catania al mattino, e poiché non voleva percorrere via Etnea

ov'era più facile incontrare gente che avesse cambiato viso e perfino andatura, prese

una piccola traversa che da via Umberto conduceva alla sua strada. Qui incontrò

una sua porta, cioè a dire notò, con un tonfo al cuore, stesa per terra, da un margine

all'altro d'un fossato ch'era stato aperto lungo lungo le casette, un'imposta a lui nota,

la quale faceva da passerella per quelli che dalla strada volessero entrare in un

portoncino o uscirne. Mosse altri pochi passi e vide per terra, con lo stesso ufficio,

una seconda sua imposta, questa qui ancora più riconoscibile della prima perché

portava inciso con la punta di un chiodo il nome Antonio nella grafia ritta ch'egli

aveva a dieci anni; e prima che la stradetta sboccasse in via Pacini, ecco una terza

imposta, la più vecchia della sua casa, mezza crepata e piena di orme fangose, che

sembrava non leggere più alla fatica.

« Allora la mia casa è cascata? » pensò Antonio, svoltando pallido in via Pacini.

Ma la casa era in piedi. Solo il portone di ferro era scardinato e s'appoggiava allo

stipite, incapace di girare su se stesso e di chiudersi; nell'atrio, ov'egli subito entrò,

schegge e rottami d'ogni sorta, polvere di vetri e di specchi, mucchi di cenci e di

spazzatura; ai piedi dello scalone, sulla soglia di una porticina senz'uscio, seduto

come un cieco, ecco il vecchio portiere inebetito dagli spaventi.

« Don Sebastiano » fece Antonio, « come state? »

Il portiere brancolò per afferrargli la mano, e afferrata che l'ebbe, se la portò vicino

agli occhi e scoppiò a piangere.

« Mi pisciano sino in casa » disse fra i singhiozzi. « e se m'azzardo a dire una

parola, meschino di me! mi abbaiano in faccia come cani di macellaio ».

« E la mia casa è danneggiata? »

« Signor Ninuzzo, bombe qui non ne sono cascate, ma i ladri di questi tempi pare

che abbiano le ali! »

« Ma perché non ci avete dormito voi, lassù? »

« E chi ce la fa a salire le scale ? »

« Datemi la chiave! »

« C'è su mia nipote, che sta facendo un po' di pulizia ».

Antonio si precipitò per le scale intoppando sconosciuti che scendevano da chissà

dove, e alcuni forse dal suo appartamento.

« Ehi » gli disse uno, con l'aria di avvertirlo, « dove vai ? C'è la donna ».

« Figlio di cane! » masticò Antonio fra i denti, e scostatolo con una forte gomitata,

sali' più in fretta le scale.

Dalla porta del suo appartamento veniva una nube di polvere densa come fumo di

legna umida, dietro quella nube appariva e spariva, al di qua e al di là dello stipite,

una scopa manovrata con energia.

« Un momento! » disse Antonio, arrivando col sopraffiato nel pianerottolo.

La nipote del portiere, ch'era uscita dalla soglia sbattendo la scopa, si fermò

perplessa : era una donna di cinquantanni, piccola come una gobba, ma diritta,

forte, vivace, con una guancia rossigna e un'altra addirittura color vinaccia a causa

di una voglia che la occupava interamente.

« Sono il padrone » aggiunse Antonio.

« Oh, il signor don Alfio! » esclamò la donna appoggiandosi con una mano al

manico della scopa e sprofondando in un inchino.

« Il signor Alfio era mio padre ed è morto. Io sono Antonio ».

« Oh, il signor don Ninuzzo! » fece la donna, ancora più premurosa. « Vado a

prepararle la camera ch'è tutta sottosopra. Sapesse cosa ci vuole per tenere a bada

questi ladroni scatenati; ne vengono ogni momento dicendo che sono guardie, che

sono inglesi, che sono americani, che sono il diavolo che li fece! »

E detto questo, appoggiò la scopa a una parete e corse in fondo al corridoio.

Antonio chiuse la porta d'ingresso, l'unica di tutta la casa che fosse rimasta coi suoi

battenti, e seguì la donna; ma giunto nello studio del padre, si fermò oppresso da

una stanchezza della quale fino a quel momento non s'era accorto. Si lasciò cascare

sul divano che non tintinnò più come una volta per la buona ragione che gli scranni

erano vuoti e bianchi di polvere. Antonio appoggiò la testa a un bracciuolo di legno

e, muovendo lentissimamente gli occhi in giro, guardò i ritratti che s'eran fatti più

tristi, i tendaggi cascanti, le porte orbate delle loro imposte, il balcone coi vetri

spezzati, nel cui riquadro campeggiava il tetto di una casa vicina sfondato e irto di

travi. Dalla strada salivano contìnuamente zaffate di puzza, polvere e, volando

come uccelli, fogli di carta mezzi bruciacchiati. Che tristezza! che tristezza!... D'un

tratto, dal fondo del corridoio, arrivò una voce affannata: « Antonio ! ohè Antonio !

dove sei, Antonio ? »

Si udì un rumore di passi prima incerto e lento, poi veloce e sicuro, e dal corridoio

entrò un uomo che gli anni, dopo averlo rispettato, sfiorandolo appena e

carezzandolo, pareva l'avessero aspettato di notte al buio, e bastonato con

improvvisa ira e rancore, lasciandogli da per tutto i segni di un bastone nel quale

ogni giorno trascorso faceva da chiodo.

« Edoardo ! » esclamò Antonio spaventato, e aprì le braccia, senza però alzarsi dal

divano, « Edoardo! »

Il cugino gli strinse una mano facendogli sentire come fosse arida e screpolata la

sua, poi si tirò sotto uno sgabello e vi si abbandonò a sedere. « Edoardo ? »

« Si, si » rispose l'altro, pizzicandosi con la destra la palma della sinistra, « si!

Edoardo! » Volse attorno lo sguardo stanco, con una contrazione amara di tutto il

viso. « Si, Edoardo, proprio!... Edoardo! » Lasciò scorrere un po' di tempo su

questo suo nome pronunciato tristemente da lui stesso, poi disse : « Lo sai da dove

vengo? »

« No... o meglio, si... »

« Dal carcere ».

« Mi avevano detto ch'eri stato mandato in un campo di concentramento! »

« Prima sono stato in carcere, poi in un campo di concentramento, poi di nuovo in

carcere... Non rinnego per questo una sola mia parola; sono sempre della stessa

opinione di una volta! Ma santo cielo, è curioso che uno abbia aspettato per tanti

anni la libertà... e tu sai come l'ho aspettata!... e quando questa libertà arriva, per la

prima cosa mi chiude in una cella con una porta di ferro, poi in un recinto di filo

spinato, poi di nuovo in una cella con la porta di ferro. È curioso, curioso! »

La nipote del portiere fece capolino fra le tende e domandò ad Antonio se dovesse

preparargli il letto.

« Si » rispose Antonio, « voglio riposarmi un quarto d'ora ».

La donna sorrise, felice di potersi rendere utile in una nuova faccenda, e

scomparve.

« Più conosco le celle, i fili spinati e le sentinelle col mitra, e più odio la tirannide!»

continuò Edoardo. « La mia sentinella non era cattiva, era un paziente impiegato di

banca che masticava un po' d'italiano. Una notte, io di qua dal filo lui di là, abbiamo

parlato di Shakespeare e di Keats, abbiamo osservato le stelle che ci pendevano sul

capo e ci siamo chiesti se il mondo non si fosse imbruttito per sempre. Questo

colloquio notturno fra il prigioniero e il suo secondino, queste confidenze

reciproche, questo confondere gli sguardi per osservare la medesima stella mi

sembrava di buon augurio; ma il mitra, ogni volta che passava una macchina coi

fari accesi, mandava un luccichio che mi stringeva il petto: esso conteneva alcune

pallottole per me nel caso che avessi tentato di fuggire... E poi, poi... che ti devo

dire, Antonio? Una cosa è la ragione che non perde mai il comando dei suoi

pensieri, e un'altra il cuore che si fa nero per conto suo... Un uomo » esclamò con

gli occhi che si arrossavano per lo sforzo di non piangere, « non dev'essere mai

chiuso da un altro uomo in un recinto spinato o dietro una porta di ferro! È un

miracolo ch'egli non ne esca cosi privo di orgoglio umano da non sapersi più

reggere su due piedi; e in ogni caso, gli rimane nel sangue un istinto di povera

bestia che diffida degli uomini, e un bisogno di scappare ogni volta che li sente

avvicinarsi. La sera, quando torna l'ora in cui venni arrestato, mi vado a nascondere

in soffitta... Ogni carro militare che si ferma, mi ferma il cuore nel petto. Mi sembra

che tutta l'Ottava Armata inglese cerchi me e sia sbarcata in Europa col solo scopo

di catturare me. No, Antonio, non bisogna mai catturare un uomo, mai! Io ho odiato

la tirannide, ma quanto più l'avrei odiata se avessi conosciuto bene queste cose!...

Ed è curioso che queste cose me l'abbia fatte conoscere la libertà... »

Antonio, cullato leggermente dal suono lamentoso di queste parole, s'appisolò, ma

subito lo svegliò la nipote del portiere, riaffacciandosi fra le tende per chiedergli se

potesse andare da lei che aveva da parlargli in disparte.

Antonio rispose con la mano che attendesse un poco. La donna scomparve

sorridendo.

« E poi » continuò Edoardo, « è proprio vero che la tirannide venga uccisa da questi

colpi di cannone ? "Tu odi i ricchi e ami la libertà d'opinione!" mi ha detto un mio

compagno di prigionia, "sarai un uomo infelice! L'odio per i ricchi ti porterà fra i

comunisti i quali ti butteranno in carcere perché ami la libertà d'opinione!" Ma cosa

bisogna fare? Quegli altri soldati che scendono dall'oriente provano davvero la

ripugnanza che provo io per la censura, la deportazione e il carcere? non avranno

finito con lo scambiare questi orrori per fatti naturali? Antonio, abbiamo l'obbligo

di pensare a queste cose e di prendere una risoluzione che ci permetta... »

« Scusami » disse Antonio, « vado un momento e torno ».

Si alzò dal divano con una piacevole pesantezza alle gambe, usci dallo studio e,

percorso il corridoio, entrò nella sua camera.

La donna finiva di rincalzare le lenzuola; sentendo il rumore di un passo, voltò la

faccia e, curva com'era, mandò ad Antonio di sotto in su uno sguardo sorridente.

« Cosa c'è... come vi chiamate? »

« Rosa » disse la donna, sorridendo con più acutezza.

« Cosa c'è, Rosa ? »

La donna si drizzò dal letto e si voltò, facendo subito un piccolo passo indietro e

guardandogli sospettosa la destra, ch'egli s'era portata al viso, come se quella mano

stesse per muovere verso di lei.

« Niente, volevo chiederle soltanto questo... » La donna esitò, sorridendo con

imbarazzo e accendendo al massimo il color rosso di una guancia e il color vinaccia

dell'altra.

« Su, dite! cosa volevate chiedermi? »

La donna esitò ancora. « Niente, volevo chiederle soltanto questo : ha bisogno

d'altro ? »

Un ronzio assordante sali alla testa di Antonio; egli senti caldo alle pupille che

videro tutto nebbioso; nello stesso tempo, come espulsa dalla sua stessa violenza,

rompendo la dura corteccia in cui stava incapsulata, un'onda di desiderio gli esplose

dall'interno dei nervi, gli arrivò su tutta la pelle, pulsò, col vigore di un cuore in

tumulto, in un punto remoto, e per tanti anni abbandonato, del suo corpo.

Vacillando un poco, egli si avvicinò alla donna e, presala per le ascelle, la sollevò

da terra e la strinse contro di sé.

« Che fa ? » esclamò Rosa, mandando un odore e calore di carne turbata, « ma che

fa?... Io ho cinquantanni ».

« Non importa! » fece lui. « Sta' zitta! » E tenendola sempre sollevata per le ascelle,

e stringendola contro di sé, la portò passo passo vicino al letto.

« Ma che vuol fare? almeno me lo dica! » ripeteva la donna. « Mi dica cosa vuol

fare? » « Zitta! zitta! sta' zitta! »

« Ma no che non sto zitta! mi dica, cosa vuol fare? »

« Zitta! » ripeteva lui, « zitta! »

« Oh, Madonna santa! »

« Zitta! »

« Madonna, Madonna, mi fa casca... » Ella era stata sprofondata nel letto che cigolò

altalenando. Antonio, temendo sempre di, essere abbandonato da quel calore che lo

possedeva, e sentendosi invece sempre più scoppiare il viso e picchiare il sangue in

tutte le arterie del corpo, si buttò sopra la donna, e con la furia del cane che strappa

via con le zampe l'involto in cui è legato un pezzo di carne, la svesti, poi la strizzò,

la morse; la sbatté a destra e a manca, la voltò e rivoltò, soffiando sempre fra i denti

serrati, sempre mordendola e strizzandola, finché non provò una sensazione

voluttuosissima e doppia, come di chi sfoghi un odio lungamente represso e riceva,

nello stesso tempo, un'offesa che, ripagandolo di un male compiuto, lo sgravi da un

rimorso intollerabile. Allora contrasse il petto, le viscere, la gola, e gettò fuori un

urlo...

Qualcuno gli fu addosso a trattenerlo, ed egli si svegliò sotto le mani di Edoardo

che lo inchiodavano al divano.

« Che ti succede ? » diceva Edoardo, « hai gridato come se ti ammazzassero, e

cercavi di strapparti la carne dal petto! che hai? »

Egli si torse ancora e s'inarcò, sbattendo con le mani sugli scranni e i bracciuoli, poi

ricadde supino e mandò un sospiro profondo.

« Ho sognato dunque? » mormorò, con gli occhi chiusi.

« Avrai sognato di sicuro » rispose Edoardo, pieno di malumore. « Io parlavo, e tu,

invece di ascoltarmi, ti sei addormentato! »

« Ho fatto un bel sogno! » disse Antonio, con un vago sorriso sulle labbra pallide. «

Che bel sogno ho fatto! »

Si alzò a sedere stropicciandosi gli occhi.

« Edoardo » aggiunse con la voce tremante, « ho sognato che... Mi capisci? »

« Non ti capisco... Che cosa hai sognato ? »

« Ho sognato di fare, di fare veramente... Ho provato una felicità da morirne! E

forse non è stato un sogno o è stato un sogno solo la donna, ma io ...quanto a me...

non ho sognato ».

Edoardo scattò dalla sedia.

« È proprio questo il momento di fare sogni da collegiale! » borbottò con acredine.

« Perché te la prendi così calda ? » disse Antonio. « Pare che ti abbia offeso ».

« Non mi hai offeso, ma insomma, ci sono momenti in cui una persona non

sopporta... »

« Mi meraviglio » disse Antonio, « sei stato sempre intelligente e buono e mi hai

capito sempre ».

« Ma caro » ribatté il cugino, « anche tu devi capire me! »

« Te la sei presa a male, Edoardo ! Non è degno della tua intelligenza ».

« Non me la son presa affatto a male. Ma secondo te » incalzò con voce dura,

« dobbiamo sempre occuparci di quella faccenda ? non c'è altro a questo mondo?...

Magari non ci fosse altro, caro Antonio! Nel campo di concentramento ho pensato a

tante cose, e ho pensato anche a te ».

« Cos'hai pensato di me? Sentiamo.

« Che avresti potuto prendere l'incidente che ti è occorso con maggior calma! »

« Lo chiami incidente? »

« Incidente, si, e anche da nulla. Per qualunque persona di un altro Paese, sarebbe

stato un incidente da nulla. Ma per noi no! per noi è una tragedia! perché noi

pensiamo sempre a una cosa, a una sola cosa, a quella! e frattanto un tiranno ci

caccia in guerra con una pedata nel sedere, e gli altri popoli ci ricacciano indietro

con un'altra pedata, ed entrano nelle nostre case! Le donne, la donna!... Quattro

volte, cinque volte, sei volte... Ecco gli oggetti delle nostre ansie!... Ma lo sai che

non c'è nessun disonore a passare tutta la vita nella castità?... Sei bello, cortese,

alto, forte, impari facilmente qualunque arte e scienza, sei in grado di capire tutto!...

Ma pensa quante cose avresti potuto fare, se non ti fossi chiuso giorno e notte in un

pensiero a consumarvi dentro la vita?... »

« Io, caro Edoardo, vorrei una sola cosa: che il sogno che ho fatto non fosse un

sogno! »

« Oh, il gran desiderio! che nobile desiderio, perdio! che alta aspirazione! »

« E poi vorrei fare un'altra cosa: incontrare Barbara e schiaffeggiarla. E ti assicuro

che, se oggi la incontro, la schiaffeggio da levarle il pelo, anche sotto gli occhi di

suo padre e di suo marito ».

« Oh la grande impresa! aggiusterai il mondo con questo: rialzi l'onore dell'Italia,

risolvi la questione sociale... »

« M'importa tanto, a me, della questione sociale...» gridò Antonio esasperato, e poi

alzando di più la voce: « E anche dell'Italia! »

« Oh sicuro! quando uno ha per le mani faccende tanto gravi... »

« Edoardo, oggi, se vuoi saperlo, mi fai antipatia ! »

« E altrettanta me ne fai tu a me, carissimo Antonio. Non riesco nemmeno a capire

come abbia sopportato per tanti anni le tue stupide lamentele ».

« E io come abbia sopportato i tuoi sproloqui ».

« Via, leviamo l'occasione! Ti saluto ».

Edoardo si alzò e prese il cappello dalla scrivania. « Quando il sogno non sarà più...

un sogno, metti la bandiera al balcone: cosi io capirò. Ciao... E un'altra bandiera,

quando avrai schiaffeggiato Barbara. Addio ».

Uscendo dallo studio, Edoardo si voltò per vedere se Antonio reagisse, ma Antonio

lo guardava con grande disprezzo.

« Sciocco! » borbottò Edoardo fra i denti, « uomo inutile... maniaco... strascicone...

cassapanca da corridoio! »

Frattanto era arrivato in via Etnea e cercava di scansare i gruppi di soldati dei quali

alcuni, ubriachi, giuntigli vicino, tentennavano per cascargli addosso attirati da lui

come dal vuoto.

« Giovane rovinato... sempre con quel chiodo in testa... sempre con l'occhio oltre

l'ombclico per vedere chi sa mai?... Ne ha fatto la sua religione, il suo dio... Oh, che

miseria! »

Così pensando e masticando parole, era giunto davanti alla sua casa, e ne varcava il

portone che la figlia del portinaio subito richiuse.

« Fra l'altro avevo tanto bisogno di sfogarmi con lui... Mi ha lasciato tutta la feccia

dentro... Ho la lingua amara come il veleno... E tu, Giovanna,, che diavolo chiudi il

portone come se fosse mezzanotte? »

« Signorino, sono sola e ho paura dei soldati. Mi vengono dentro con gli occhi

spiritati e vogliono non so che cosa ».

« Via che lo sai cosa vogliono ».

« Io non so niente, signorino ».

« Lascia stare che lo sai! »

« Vossignoria la pensi come vuole, ma io non so niente! »

« E allora, se non lo sai, fattelo insegnare da qualcuno! »

« Nessuno a me deve insegnare niente perché io non voglio sapere niente da

nessuno! »

« Nemmeno da me? »

« Nemmeno da vossignoria ».

« E via che da me... »

« Nemmeno da vossignoria, ho detto... E mi lasci stare la faccia! »

« Oh come sei delicata! »

« Sono quella che sono... E mi lasci stare le mani! »

« Oh Dio, neanche le mani ? »

« Neanche le mani! »

« E questo nasino ? »

« Mi lasci stare il naso!... Oh santa pazienza! »

« Ma allora che cosa posso toccare? »

« Niente, può toccare!... No, signorino, no! » gridò a un tratto smarrita la povera

donna. « Che fa, benedetto Iddio? e che ha visto oggi?... che l'ha preso? »

Edoardo fu risoluto e sbrigativo, e non smise un solo istante la sua aria di uomo in

collera.

Quando si alzòe asciugò la fronte, chinò subito gli occhi, per non guardare la donna

in faccia, vedendone già chiaramente, nei gesti con cui ella si stirava e batteva la

gonna, la sorda stizza e la ribellione; mise il piede sul primo gradino, e cominciò a

salire lentamente la prima rampa della scala, poi la seconda, poi a precipizio la

terza. Entrato in casa, e spalancate con mala grazia le imposte del balcone, andò al

telefono e compose il numero della casa di Antonio.

« Chi è ? » domandò la voce smorta del cugino « chi è dunque?... Pronto!... Chi è?»

Silenzio, da questa parte. « Ma insomma chi è?... Si può sapere chi è? » Silenzio.

« Pronto! pronto!... Chi è? »

Edoardo scoppiò in singhiozzi. Antonio rimase sospeso per un minuto. Poi disse :

« Sei tu, Edoardo ? »

Il pianto, da questa parte, si fece più chiaro e lento, inciampò come a dare il

passaggio a una parola che però non venne, lasciò che due o tre respiri profondi

sciogliessero il petto dalla contrazione dei singulti, infine cessò.

« Si » disse Edoardo, « sono io... Ti chiedo perdono ».

« Perdono? e di che? »

« Ho avuto la faccia di farti dei rimproveri!... io..io... » e qui ebbe un altro singulto,

« io che sono l'ultimo degli uomini! Io che ho... »

« Ma che hai fatto? »

« Mi devi sputare, Antonio, quando mi vedi! mi devi camminare sulla faccia e poi

pulirti le scarpe! »

« Ma che hai fatto? »

Uno scoppio lontanissimo fece tremare appena appena i vetri del balcone e parve

abbassare la luce del cielo.

« Che hai fatto ? »

Edoardo raccontò, con parole dure verso se stesso, quello che era accaduto ai piedi

della scala.

Quando ebbe terminato, ci fu una pausa : Edoardo aspettava che parlasse ora il

cugino. Ma aspettò inutilmente. Dall'altra parte del filo, c'era silenzio.

« Che ne dici ? » domandò angustiato Edoardo.

Silenzio, dall'altra parte del filo.

« Che ne dici ? » ripetè Edoardo.

Ancora silenzio.

« Che ne dici dunque? »

Antonio seguitò a tacere, pur facendo capire che stava con l'orecchio attentissimo.

E un'altra cosa, lasciò capire improvvisamente, e fu questa: che invece di

condannare o compiangere Edoardo, per ciò che egli aveva fatto ai piedi della

scala, lo invidiava. Con tutte le gocce di sangue che aveva in cuore, con tutti i

pensieri che aveva in testa, lo invidiava. Sempre più forte, intenso, scottante,

attraverso il filo del telefono, giunse ad Edoardo il calore di quell'invidia.

« No! » gridò egli allora con tutta la forza, « no, no, no, no! No, Antonio, credimi...

sulla testa dei miei figli... non è come dici tu! »

« Io non ho detto niente! » fece Antonio e, dopo aver tirato su il respiro con

violenza, lo trattenne quanto potè, riempiendo il filo del telefono di un silenzio

assoluto. Finché d'un tratto non scoppiò in lacrime lui.

Questo non era il pianto di Edoardo: era più stretto, più disperato, tutto

intramezzato dei sibili di un petto che, da molti anni, non si apriva a larghi respiri di

felicità.

Edoardo stette ad ascoltarlo per alcuni minuti, pi, sentendo che non accennava a

diminuire, tolse scoraggiato il ricevitore dall'orecchio e si mise a guardarlo; lo

guardò a lungo, con sfiducia, con amarezza, sentendovi sempre gorgogliare quei

singhiozzi di adolescente tardivo.

« È ben curioso tutto questo! » disse, e s'asciugò una lacrima che gli s'era

raffreddata sulla guancia, « è proprio curioso! » Poi, piano piano, delicatamente,

chiuse il telefono.

(1) Dipinto, butterato.

(2) Il fratello del Somaio.

(3) Soprannominato il Ceppo, il Torsolo.

(4) Questa mattina.

(5) Male.

(6) Perché va male.

(7) E dove sono queste arance ?

(8) Ma dove le vede, quest'arance?

(9) Questa è un'arancia. E che vuol dire?

(10) Appena una!

(11) E per una!...

(12) Poche ce n'è... niente.

(13) Non sono orbo. Tu hai le traveggole, questa sera, Alfio!

(14) Ah, pure il comunismo deve venire adesso? Sentiamo quest'altra.

(15) E io cosa ci perdo?

(16) Ma la terra, la perdi tu.

(17) Perché la chiami sempre sventurata, questa terra che ti ha dato il Signore? Non è giusto!

(18) Io non so niente, Alfio. Io non voglio né comunismo né altre novità : voglio solo lavorare.

(19) Lavorare poco e rubare molto: questo vuoi tu.

(20) Io non rubo, Alfio.

(21) Tu ti mangeresti pure me!

(22) Io non mangio nessuno.

(23) Ma cos'avete, cos'avete? Sempre che fate baccano, voi due!

(24) Due fratellini di latte, signori miei, che non dovrebbero vederci dagli occhi (23)l'uno per l'altro, e guardate come si

accapigliano!

(25) Vero è, vero è

(26) O Alfio, Alfio, sempre lo stesso sei tu, che hai testa di giocare!

(27) Non c'ero io, compare.

(28) Ma allora, catenaccio?

(29) Catenaccio ben saldo, compare.

(30) Diteglielo al Padreterno, ch'è lui che le fa, queste cose

(31) E per fare che cosa, vive?

(32) Meglio morto!

(33) Meglio morto mille volte!

(34) Che dite, mille volte? Cento milioni di volte!

(35) Per me, aspetti quanto vuole. Ma sentite: questa disgrazia l'ha portata sempre addosso, o gli e cascata dopo che s'è sposato?

(36) Sinceramente compare, vi dirci una menzogna: non lo so.

(37) A me mi avevano detto che a Roma questo ragazzo s'era fatto tante scorpacciate di donne che non si riusciva nemmeno a

contarle, e che quando si trovava a Catania ogni momento aveva bisogno di una donna per lisciarsi il pizzo...

(38) (e com'era ostinato)! : « Che facciamo, Ninuzzu, ci andiamo li a soffiarci il naso?

(39) Si, andiamo a soffiarci questo naso.

(40) A me che me ne viene, se lui non ce la fa?

(41) Il grande sforzo che avreste fatto, compare! Quella ragazza fa cascare cantonate [con la sua bellezza]