Presentazione

Di mafia si parla molto, ed è un bene. Ma a volte se ne parla nel modo sbagliato, ed è un male. Molti libri, film e fiction di successo restituiscono un'immagine romanzata delle mafie, frutto in parte di luoghi comuni e vecchie leggende. Dal Padrino a Gomorra, da Quei bravi ragazzi a Romanzo criminale, il rischio che il boss diventi un eroe e l'illegalità una "carriera" è favorito spesso da una narrazione che mette in primo piano i protagonisti di camorra o 'ndrangheta, omettendo come possono essere combattuti o dimenticando chi lotta con coraggio per affermare la giustizia. Ma lasciare che si radichi lo stereotipo di una piovra invincibile, dotata di rapporti privilegiati con le istituzioni e capace continuamente di riadattarsi, significa indebolire un'azione di contrasto, in realtà sempre più stringente, che porta non di rado alla cattura e alla condanna dei boss.

È un'accusa precisa quella di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso che, a partire dall'esperienza delle inchieste e dei casi affrontati, come dagli studi e dalle analisi storiche e criminologiche, ripercorrono storia e vie della "mitizzazione" della criminalità.

Fenomeni così diffusi nel tessuto sociale, ricordano, possono essere combattuti solo con un'alleanza culturale che includa tutti gli italiani partendo dall'educazione alla legalità, al senso civico, alla difesa della nostra convivenza.

 

 

Gli autori

 

Nicola Gratteri è uno dei magistrati più esposti nella lotta alla 'ndrangheta. Ha indagato sulla strage di Duisburg e sulle rotte internazionali del narcotraffico.

 

Antonio Nicaso vive tra Canada e Stati Uniti. Studioso dei fenomeni mafiosi, insegna Storia delle organizzazioni criminali alla Scuola Italiana del Middlebury College (Usa) e alla Queens University di Kingston (Canada).

 

Insieme hanno scritto libri bestseller come Fratelli di sangue (2009), La malapianta (2010), La giustizia è una cosa seria (2011), Acqua santissima (2013), Padrini e padroni (2016).

 

«Se vogliamo combattere la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro, dobbiamo riconoscere che ci assomiglia».

 

GIOVANNI FALCONE

 

PARTE PRIMA

 

Che cos'è la mafia

 

 

1. Il mito della mafia.

 

«Non so che cosa sia la mafia. È qualcosa che si mangia? È qualcosa che si beve?». Steso sul lettino di un ospedale, Girolamo Piromalli, detto "Mommo", risponde con ironia alle domande del giornalista Joe Marrazzo.

A metà degli anni Settanta, Piromalli è uno dei boss più potenti della 'ndrangheta, sopravvissuto alla "guerra" che ha decimato la vecchia guardia rappresentata in Calabria da Domenico Trípodo e Antonio Macrì. Durante l'intervista, il boss di Gioia Tauro ammette di essere un uomo di rispetto, «generoso e umano con tutti», ma sostiene anche di essere un perseguitato per l'accanimento con cui gli «sbirri» hanno sempre cercato di «incastrarlo».

Luciano Liggio, il boss dei Corleonesi, è un grande affabulatore. «Sono stato più fortunato di Socrate, pur essendo meno importante» dice avvolto in un elegante foulard, durante una intervista concessa al giornalista Enzo Biagi. «A me, la cicuta, l'hanno fatta bere a piccoli sorsi» spiega, riferendosi alle condanne subite, a suo dire, ingiustamente. Nell'agosto del 1963, il suo avvocato, l'on. Dino Canzoneri, lo aveva descritto come «un propagandista democristiano perseguitato dai comunisti». Nello stesso anno, anche il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, riferendosi alla mafia, l'aveva definita una grossa montatura dei comunisti e dei giornalisti del nord. Sono anni in cui la confusione regna sovrana.

Da una parte c'è chi dice: «tutto è mafia».

Dall'altra chi, invece, sostiene che la mafia non esiste.

Raffaele Cutolo, il boss della Nuova Camorra Organizzata, sorride sornione davanti alle telecamere della Rai, mentre risponde alle domande dello stesso Biagi. Riconosce di non essere uno stinco di santo e di aver fatto scorrere molto sangue. «Ma ho anche aiutato tanta povera gente» precisa. Come don Vito Corleone nel Padrino di Francis Ford Coppola, un film inizialmente avversato da Cosa nostra americana e poi usato come metro di paragone per distinguere la vecchia mafia da quella nuova, violenta e sensibile solo al denaro, corrotta dal traffico di droga. Uno dei tanti luoghi comuni di boss e picciotti, come spiega il sociologo Umberto Santino.

«L'onore dei vecchi mafiosi», sostiene, «era solo una maschera di rispettabilità che copriva pratiche di violenza e di sopruso miranti al dominio e all'arricchimento; la finalità economica è una costante dei gruppi mafiosi, che hanno saputo adattarsi sia a forme di accumulazione primitiva, come l'abigeato, che "postmoderne", come il traffico di droghe e il riciclaggio del denaro sporco»."1" Il denaro, nelle mafie, da sempre, è funzionale al potere, fine ultimo del mafioso.

Altrettanto romantica è l'idea che della mafia ha Calogero Vizzini nel secondo dopoguerra.

La considera una necessità. Nel 1949 è un settantenne piccolo e tracagnotto, con i pantaloni tirati così in alto sul petto da coprire quasi per intero la cravatta. Per molti è il capo dei capi di Cosa nostra. Vive a Villalba, in Sicilia, nella parrocchia del fratello prete. Ha anche uno zio vescovo. A Indro Montanelli, che lo va ad intervistare, grazie alla mediazione di un latifondista del luogo, spiega che «in ogni società ci deve essere una categoria di persone che aggiustano le situazioni, quando si fanno complicate. In genere, sono i funzionari dello Stato. Là dove lo Stato non c'è, o non ha la forza sufficiente, ci sono i privati». Al suo funerale, nel 1954, vengono lette frasi commemorative degne di un capo di Stato: «Calogero Vizzini con l'abilità di un genio, innalzò le sorti del distinto casato [...] operando sempre il bene e si fece un nome apprezzato in Italia e fuori [...] Fu un galantuomo».

E sul "santino" con la foto del boss distribuito in chiesa si legge che la sua mafia «non fu delinquenza, ma rispetto della legge, difesa di ogni diritto, grandezza di animo. Fu amore».

I mafiosi credono di essere uomini speciali, capaci di affrontare personalmente ogni avversità e disposti a sopportare il carcere, il pericolo e il dolore fisico. Si definiscono benefattori, mediatori, uomini d'ordine. Come notava già negli anni Settanta dell'Ottocento, il sociologo Leopoldo Franchetti, il mafioso è «un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazione fatta dei mezzi che adopera a questo fine»."2" La genealogia del duro, del forte, del giusto è ancora oggi un valore assoluto. Loro e gli altri, il mondo di «dentro» e quello di «fuori». Ricordava Antonino Calderone, storico collaboratore di giustizia deceduto nel 2013: «Mi scuserete di questa differenza che io faccio fare fra mafia e delinquenza comune, ma ci tengo. Tutti i mafiosi ci tengono. È importante: noialtri siamo mafiosi, gli altri sono uomini qualsiasi. Siamo uomini d'onore. E non tanto perché abbiamo prestato giuramento, ma perché siamo l'élite della criminalità. Siamo assai superiori ai delinquenti comuni. Siamo i peggiori di tutti! Qualunque mafioso conosce perfettamente da dove deriva, fatti tutti i conti, il suo potere. La gente ha paura di essere colpita fisicamente e nessuno vuole rischiare neppure lontanamente di essere ammazzato»."3" L'esclusività del loro mondo, la selezione che passa attraverso il lungo processo di valutazione ed accettazione, li fa sentire unici. Gli altri, i non affiliati, sono "contrasti", "carduni": contano poco e valgono ancora meno.

 

 

2. Le origini.

 

Mentre 'ndrangheta e camorra sono figlie di quella plebe, sospesa tra fame ed illegalità, abituata a vivere di espedienti nella prima metà dell'Ottocento, la mafia nasce come organizzazione di facinorosi appartenenti a una rozza borghesia rurale.

Con il tempo, tutte e tre diventano potere tra poteri, qualcosa di diverso rispetto a malandrinaggio e brigantaggio, a cui spesso vengono erroneamente accostate. Il malandrinaggio era «specie di gente volgare e comunissima, rotta al vizio» che agiva «sopra gente di poca levatura»."4" Il brigantaggio, invece, era lotta aperta contro le leggi sociali.

La prima consorteria mafiosa di cui si ha notizia è la camorra che nell'Ottocento si impone all'attenzione delle autorità di governo e degli osservatori come un'organizzazione criminale centralizzata. Scrive Salvatore Scarpino: «Un'unica struttura, con gerarchie precise ed organismi diversi, ramificata nelle carceri e in tutti i quartieri popolari di Napoli, tenuta insieme da una rigida disciplina e da un uso puntuale e razionale della violenza»."5" Secondo la leggenda, sarebbe stato Pasquale Capuozzo, destinato a essere il primo capintesta della camorra, a promuovere, nel dicembre 1820, una riunione segreta tra camorristi nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, a due passi dai luoghi della prostituzione e dal carcere della Vicaria. In quella occasione si sarebbe deciso di dare vita alla Bella Società Riformata, un gruppo organizzato con regole e gerarchie precise, di cui rimane ancora oggi 'ù frieno, lo statuto.

Della società facevano parte gli uomini che hanno cuore (cioè coraggio) allo scopo di aiutarsi e sostenersi a vicenda. Il modello della Bella Società Riformata - regole, organizzazione e simbologia - viene successivamente adottato nelle carceri, nelle colonie penali, e mutuato da detenuti provenienti da altre zone del Regno delle Due Sicilie, soprattutto calabresi e pugliesi.

 

Il mito.

 

Le tre mafie, come le iconiche scimmiette del santuario shintoista di Nikko, in Giappone, in comune hanno una leggenda, secondo cui a fondarle sarebbero stati tre cavalieri fuggiti da Toledo nel 1400 dopo aver vendicato col sangue e nel sangue l'onore di una giovane indifesa. In altre versioni della stessa leggenda, i tre cavalieri sarebbero fratelli e la giovane violentata una loro sorella. Dopo essere rimasti nascosti negli anfratti di tufo dell'isola di Favignana, al largo di Trapani, per quasi trent'anni, i tre cavalieri-fratelli si sarebbero separati, fondando ognuno una diversa società mafiosa: Osso avrebbe fatto proseliti in Sicilia, Mastrosso avrebbe varcato lo stretto per fondare la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso si sarebbe spinto fino a Napoli per dare vita alla camorra.

Questa dei tre cavalieri, legati alla misteriosa setta della Garduña, verosimilmente frutto di invenzioni letterarie, non è comunque l'unica leggenda legata alle tre mafie più potenti nella storia della criminalità organizzata italiana. In Sicilia, per esempio, la nascita della mafia viene attribuita ai Beati Paoli, un gruppo di sicari incappucciati che, nella Palermo del XII secolo, celando la loro identità e muovendosi abilmente nell'intricato dedalo di cunicoli della città sotterranea, compiono giustizia sommaria di quei malfattori ai quali, con ogni probabilità, la giustizia dello Stato avrebbe assicurato l'impunità. Si tratta di una leggenda che, nata in epoche più remote, si è diffusa in séguito alla pubblicazione di due voluminosi feuilleton scritti agli inizi del '900 da Luigi Natoli sotto lo pseudonimo di William Galt. Altre versioni sono legate alla leggenda dei Vendicosi, una società segreta citata in alcuni codici del XII secolo, e a quella dei detemiti che, nella fortunata opera teatrale di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, I mafiusi dì la Vicaria (1863), assicurano la giustizia, con lo stesso ostentato sprezzo della legge, tipica dei Beati Paoli o dei Vendicosi.

In Calabria, dove per la prima volta emerge la storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri più che giustizieri sono giocatori d'azzardo. Pasquale Trimboli, deponendo davanti al tribunale di Palmi contro decine di imputati, accusati di associazione a delinquere, il 24 febbraio 1897, racconta: «La società nasce da tre cavalieri: uno spagnolo, uno palermitano e uno napolitano, i quali erano tre camorristi. Il primo, per ogni giocata che facevano il secondo e il terzo, esigeva la camorra.

A via di camorra aveva con il tempo riunito tutto il denaro e quando gli altri si trovarono nella condizione di non poter più giocare, egli restituì dieci lire a ognuno dicendo: eccovi queste dieci lire e se io ho in mano tutta la somma vuol dire che... sono il più forte». Trimboli, nella sua deposizione, descrive i tre cavalieri come un albero, in cui il capo rappresenta il fusto, mentre rami e foglie simboleggiano gli affiliati.

I giovani d'onore che aspirano a diventare picciotti sono invece rappresentati dai fiori."6" Anche le origini della camorra, negli anni della restaurazione borbonica, dopo il congresso di Vienna, si ispirano a guappi "giusti, severi e generosi".

Tutte vicende che, come nel caso delle pagine introduttive della Genesi o nella rappresentazione cosmica tratteggiata da Esiodo nella Teogonia, nonostante la consunzione moderna, servono a gettare un «ponte verso la trascendenza» e hanno una «incomparabile potenza simbolica» (Ernst Jünger).

Nel caso delle mafie, i miti di fondazione «costituiscono una potente attrattiva per gli aspiranti adepti, lusingati dalla prospettiva di entrare a far parte di una fratellanza antica e nobile, e agiscono di fatto come uno strumento straordinariamente efficace di proselitismo»."7" Una sorta di giustificazione pseudo-storica, un alibi etico, ma soprattutto una costruzione ideologica che serve per trasformare assassini in uomini d'onore.

Anche le Triadi cinesi e la Yakuza giapponese hanno i loro miti fondativi, come i cinque monaci sopravvissuti alla distruzione del monastero di Shao Liu ordinata dall'imperatore cinese Qing o come i kabuki-mono, volgari criminali, che diventano difensori del popolo (machi-yakko), aderendo alle regole del Bushido, il codice dei samurai.

 

 

3. La vecchia mafia.

 

È uno degli stereotipi più duri a morire quello della "vecchia mafia" che, aveva il senso dell'onore, che rispettava donne, bambini e uomini delle istituzioni, contrariamente alla "nuova mafia" che, invece, è più delinquenza comune, gangsterismo urbano, senza alcun rispetto per le vecchie ed antiche regole dell' "onorata società". La mafia composta da persone altruiste e generose, alla Robin Hood, non è mai esistita. Da quando si è cominciata a percepirla come organizzazione criminale, la mafia non ha mai guardato in faccia nessuno. Ha ucciso quando era necessario e non si è fermata né davanti alle donne, né davanti ai bambini.

Uno degli ultimi esempi è quello di Nicola Campolongo, il bimbo di tre anni ucciso in Calabria assieme al nonno Salvatore Iannicelli e alla compagna di Iannicelli, Ibtissa Touss, per il mancato pagamento di una partita di droga.

I tre corpi sono stati successivamente dati alle fiamme. Il nome del piccolo Nicola è andato ad aggiungersi al lungo rosario di vittime innocenti, almeno novecento persone uccise senza pietà dalle mafie, in alcuni casi solo perché, con rigore e coerenza, avevano compiuto il loro dovere.

 

La fratellanza rituale.

 

L'affiliazione alle mafie è una sorta di rinascita a nuova vita, un cambiamento di status.

Racconta il giudice Giovanni Falcone: «Si può sorridere all'idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un'immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell'individuo per tutta la vita.

Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi»."8" Stesse logiche governano le fratellanze rituali in seno alla 'ndrangheta.

Spiega Calogero Marcenó, ex capo locale di Varese: «È assolutamente impossibile per gli affiliati sciogliere il giuramento e il vincolo associativo, vincolo che può essere sciolto solo con la morte dell'affiliato, con il tradimento, o per decisione dei capi, nel caso l'affiliato non sia ritenuto più degno e meritevole di essere considerato uomo d'onore»."9"

Gli uomini d'ordine.

 

È gente che pensa di poter ristabilire nel mondo un ordine andato fuori sesto, come il sindaco del Rione Sanità nella celebre e omonima commedia di Edoardo De Filippo. Don Antonio Barracano, chiariva De Filippo, non è un "padrino" ma un uomo che ha vissuto sulla propria pelle l'ingiustizia e che, per amore della giustizia e sfiducia negli uomini, se la fa da sé. «La giustizia è la legge di pochi, la forza è la giustizia di tutti» ripetono spesso i mafiosi. Per i cosiddetti "uomini d'onore" farsi giustizia da sé è una virtù, nel senso che i Romani davano a questo termine.

Marte, il dio della Guerra, era accompagnato da altre due divinità, Honor e Virtus. Honor era rappresentato da un giovinetto armato di lancia.

Nella logica dei mafiosi, il ricorso alla giustizia dello Stato impedisce la vendetta. Colui che lo fa è un infame (la fama, era, presso i latini, la reputazione che procurava onore). Anche colui che tace è virtuoso, al pari del vendicatore, o di chi si fa giustizia con le proprie mani. È l'onore l'unità di misura del valore dei boss. Con l'onore acquisito grazie alle loro azioni, accrescono il prestigio sociale. Negli anni Cinquanta, Salvatore Zizzo, boss di Salemi, respingeva con sdegno l'accusa di essere un delinquente. «Con tali accuse, giornalisti e carabinieri cercano solo di rovinare onesti padri di famiglia» dichiarava a un cronista. Per Zizzo le azioni compiute non erano criminali, ma un naturale «comportamento sociale», un contegno semplicemente necessario nella società siciliana."10" Ma chi era Zizzo? In un rapporto inviato alla magistratura, il brigadiere Giuseppe Pagano lo descriveva così: «Armato di due pistole di grosso calibro e di fucile da caccia, montato su una giumenta di pura razza, dalla fiera andatura, accompagnato da due grossi cani da guardia, egli percorreva con aria da dominatore le contrade di Salemi, ottenendo al suo passaggio l'ossequio che nasceva dal timore delle sue violenze».

Ricercato per furto di bestiame, sequestro di persona, estorsione, associazione a delinquere, attentati dinamitardi, contrabbando di stupefacenti, mezza dozzina di omicidi, era stato processato nove volte. In sette occasioni era stato assolto per insufficienza di prove, in una per non aver commesso il fatto e in un'altra per mancanza di indizi. Sono gli anni in cui anche le Forze dell'Ordine hanno le idee poco chiare sulla mafia. Il questore di Palermo, Rosario Melfi, chiamato a deporre davanti alla Commissione antimafia il 25 luglio 1963, spiegava che la mafia era un'organizzazione a scopi pacifisti e che i mafiosi agivano quasi parallelamente alla legge, «per dirimere in senso buono ogni controversia»."11" Anche Giuseppe Genco Russo, potente boss di Mussomeli, tra i partecipanti, nel 1957, al summit siculo-americano nell'hotel Delle Palme di Palermo, viene indicato nelle informative di polizia, come "uomo d'ordine". Scrive la Commissione parlamentare antimafia: «Nell'immediato dopoguerra seguirà la trafila di altri personaggi mafiosi passando dal separatismo alla Democrazia cristiana: di specifico, per lui, c'è solo che svolse una intensa propaganda filo-monarchica durante la campagna elettorale precedente il referendum istituzionale, tanto da meritare nel 1946 l'onorificenza di cavaliere della corona d'Italia che gli conferì l'onorevole Pasqualino Vassallo, il quale, secondo quanto specifica un rapporto della questura di Caltanissetta, si diceva, "portasse appresso i decreti di nomina firmati in bianco dall'ex re Umberto»."12"

 

4. Come si conquista una società.

 

È una lunga e colpevole legittimazione quella di cui hanno goduto in Italia mafia, 'ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa. Nel 1869, per esempio, la 'ndrangheta viene assoldata per tutelare l'unità nazionale, minacciata dal revanscismo borbonico, nelle elezioni amministrative di Reggio Calabria. Diventa funzionale ai disegni della Destra liberale e massonica. A

Napoli, nove anni prima, al più importante boss della camorra, Salvatore De Crescenzo, il ministro Liborio Romano aveva assegnato compiti di polizia, nominandolo capo della Guardia nazionale.

Più ancora delle altre due consorterie criminali, Cosa nostra è sempre stata un fenomeno di classi dirigenti, utilizzato per frenare ogni tentativo di riforma sociale. È servita per neutralizzare i proclami di Garibaldi che in Sicilia aveva promesso pane e terra, ma anche a difendere gli interessi e i privilegi dei latifondisti che, voltano gabbana, ma non "mollano" la terra, la roba.

Spiega lo storico Isaia Sales: «In Italia si fa fatica a comprendere che quando fenomeni criminali durano tanto a lungo, quando essi rompono facilmente l'argine entro cui si pensava fossero storicamente e socialmente confinati, e quando tutti i tentativi di reprimerli o di ridimensionarli si sono dimostrati inefficaci o non definitivamente risolutivi, ciò vuol dire che le mafie non sono riducibili solo a "storia criminale", ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana». Per Sales, «negli Stati moderni nessuna forma di potere, soprattutto se violento, può affermarsi, consolidarsi, durare tanto a lungo se non è in relazione permanente con il potere ufficiale, costituito, istituzionale». Spiega ancora Sales: «Nessun potere extra-istituzionale può vivere e sopravvivere in contrapposizione a quello statuale. Se le mafie, quindi, durano da due secoli, ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso. Queste relazioni sono state diverse nel tempo, si sono allentate o rafforzate a seconda del contesto, delle circostanze, dei rapporti di forza, del grado di consenso sociale riscosso, ma sicuramente sono interne alla storia dei poteri in Italia»."13" L'interesse dello Stato nella lotta alle mafie è stato, purtroppo, episodico, mutevole ed incerto.

Qualcosa del genere era successo al tempo dei pirati e dei corsari con le lettere di marca, grazie alle quali veniva autorizzato l'assalto e la cattura di bastimenti mercantili di nazioni nemiche.

La maggioranza delle imprese corsare aveva il solo scopo di compiere azioni di pirateria per conto del proprio governo, con cui poi i pirati dividevano il bottino. Molto spesso sulle navi corsare «garantite»   dalle famiglie più  potenti venivano assoldati galeotti e criminali di ogni risma che, così, evitavano il carcere. Stesse legittimazioni di cui hanno goduto in Italia le «tre sorelle» e molte altre organizzazioni criminali nate nel Novecento, sul modello di mafia, 'ndrangheta e camorra.

 

Il capitale sociale.

 

Le mafie, diversamente da altre forme di crimine organizzato, hanno una struttura criminale orientata alla ricerca del profitto e del potere. Le principali competenze di cui dispongono i mafiosi riguardano fondamentalmente l'uso specializzato della violenza e la capacità di manipolare ed utilizzare relazioni sociali, ovvero di accumulare ed impiegare «capitale sociale».

Come spiega efficacemente il sociologo Rocco Sciarrone, essi sono contemporaneamente specialisti della violenza ed esperti di relazioni sociali, in grado di costruire un sistema di regole fondato sulla coercizione e di strutturare un sistema di relazioni basato su forme variabili di consenso sociale."14" Un concetto sul quale si è soffermato più volte anche il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, Giuseppe Gennari, autore di un libro dal titolo Le fondamenta della città. Scrive Gennari: «Il grande valore aggiunto di ogni associazione mafiosa sta nella capacità di creare un tessuto connettivo che invischia professionisti, imprenditori, politici, pubblici amministratori, direttori di banca, uomini delle istituzioni in una ragnatela inestricabile di scambi e favori reciproci. Antonio Belnome [un ex affiliato alla 'ndrangheta, oggi collaboratore di giustizia, Md.A.] li chiama "gemellaggi" con lo Stato. Un po' come quelli tra i Comuni, che mettono la targa del Comune amico all'entrata della strada principale.

Qui, però, i cartelli non ci sono e i gemellaggi sono occulti. In questo la 'ndrangheta è maestra e dimostra un'abilità superiore a ogni altra mafia»."15" Eppure non sarebbe stato affatto difficile comprendere l'essenza delle mafie, capirne le ragioni e le dinamiche, seguendo il filo sottile della sottovalutazione e della colpevole legittimazione che le ha fatte crescere nel silenzio. Purtroppo, non c'è stato interesse, né volontà politica: per molto tempo, le mafie sono state descritte e raccontate come se fossero un modo di essere, più che un modo di fare: qualcosa da interpretare in chiave antropologica e culturalista e non con analisi politiche, storiche ed economiche. La linea della palma di cui parlava Sciascia si è incrociata con quella della stella alpina, grazie alla legittimazione di cui hanno goduto le mafie anche nelle regioni centrali e settentrionali. Se in alcuni casi i mafiosi hanno messo radici in territori lontani da quelli d'origine, grazie a leggi discutibili come quelle sul soggiorno obbligato, in tantissimi altri, il radicamento al Centro-Nord è stato funzionale agli interessi di certi imprenditori e di certi politici, in cerca di manodopera a basso costo e di sostegno elettorale.

Se fossero state un prodotto della mentalità dei meridionali, sarebbero rimaste ancorate al Sud. Invece sono riuscite a mettere radici anche in altre regioni, riproducendo fedelmente quell'alleanza nell'ombra, come la definisce Sciarrone, «un'area grigia - vasta e assai eterogenea nelle sfumature, nelle funzioni e nella sua articolazione interna - che risulta composta, in modo variabile, da professionisti, politici, imprenditori, burocrati e che rappresenta il "luogo" dove le diverse tipologie di alleanze si stringono, si modellano e si ricompongono»."16" Ormai Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra vengono sempre più percepite come una componente normale del mondo produttivo, in grado di avvalersi di consulenti di assai elevata capacità tecnico-professionale, assunti nel giro di quelli che sono utilizzati da certe imprese, che non sempre si basano sul rispetto dei canoni di lealtà e correttezza o dei princìpi della libera concorrenza, per cogliere nella logica del massimo profitto la migliore remunerazione e redditività dei capitali impiegati. Come avvertiva già nel 1990 il senatore Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia, «[...] appare evidente il pericolo che possa crearsi una comunanza di interessi tra economia illegale ed economia legale, e che quest'ultima possa mutuare metodi di intimidazione utilizzati dalle organizzazioni mafiose. D'altro canto, meno è riconoscibile l'origine illecita del denaro, tanto più labile diventa il confine tra attività illecite e l'uso lecito dei profitti»."17" C'è una informativa dei carabinieri che per dieci lunghi anni non è mai stata trasmessa all'autorità giudiziaria, rimasta chissà in quale cassetto e solo nell'autunno del 2016 consegnata ai magistrati di Palermo. Contiene informazioni su una delle tante reti segrete di protezione del latitante Matteo Messina Denaro: due primari ospedalieri, un commercialista, tre imprenditori, un gioielliere ed altri insospettabili del trapanese.

Con alcuni di loro, il boss latitante da più di venti anni sarebbe andato a cena abitualmente in un ristorante di Santa Ninfa. Scrive Francesco Viviano su la Repubblica: «[Si tratta di] informazioni fornite da una fonte ritenuta "attendibilissima" [...] che suggeriva di non coinvolgere nelle indagini le Forze dell'Ordine che allora operavano nella provincia di Trapani per evitare fughe di notizie ed informazioni che sarebbero potute arrivare proprio al boss Matteo Messina Denaro che probabilmente disponeva di qualche "talpa" tra gli investigatori trapanesi». Vero o falso, queste indiscrezioni fanno comprendere la difficoltà della lotta alle mafie. Sulla tavolozza dei colori, non c'è solo il nero e il bianco, ma anche alcune inopportune e dannose variazioni di grigio.

 

La costruzione sociale.

 

Alle collusioni politico-economiche, soprattutto in passato, si è voluto prestare sempre poca attenzione. È stato molto più semplice tirare in ballo il soggiorno obbligato, la teoria del contagio o, come è avvenuto all'estero, L'allen conspiracy, la congiura del diverso, dello straniero.

L'esempio più evidente è quello della Mano nera, un metodo estorsivo fatto passare per organizzazione criminale composta esclusivamente da emigrati italiani. In Canada, per esempio, agli inizi del Novecento, molte estorsioni attribuite alla Mano nera erano state compiute da balordi locali. Tra le vittime anche uno degli uomini più ricchi di Toronto, John Eaton, e il sindaco di Winnipeg, James Henry Ashdown. Ma la minaccia, sui giornali, o agli occhi dell'opinione pubblica, era rappresentata dai cinesi con la vendita dell'oppio e dagli italiani con le lettere di scrocco.

Nel 1910, la percezione di insicurezza si trasforma in modifiche normative quando viene approvata la riforma della legge sull'immigrazione che impedisce l'accesso agli asiatici, ai mafiosi e agli affiliati alla Mano nera con una superficialità che rasenta la discriminazione, l'intolleranza e il disprezzo.

In quegli anni, le gang cinesi e italiane, come prima ancora quelle irlandesi ed ebree, venivano utilizzate dall'establishment locale per assicurarsi manodopera a basso costo, attraverso crudeli forme di caporalato (padrone system), e sostegno elettorale nelle elezioni municipali, offrendo in cambio protezione e licenze per la gestione di taverne e ristoranti, importanti luoghi di ritrovo in chiave politica ed occupazionale. La Mano nera, fatta in casa o "The English Black Hand", come la definisce qualche giornale non allineato, riesce quasi sempre a passare inosservata.

Anche negli Stati Uniti, la Mano nera viene strumentalizzata per condizionare la politica sull'immigrazione. Nel 1902 viene ucciso Frank Diconza, leader politico molto attivo a Brooklyn. Molti fanno finta di non capire per evitare di indagare sulle collusioni tra criminali, faccendieri e galoppini elettorali in àmbiti molto simili a quelli di Tammany Hall, la potente macchina elettorale messa in piedi dagli irlandesi per affrancarsi dalle subordinazioni subite a causa dell'establishment protestante. È molto più facile ricercare le cause dell'omicidio Diconza tra le pieghe del malessere sociale, legato alle formicolanti sacche dei quartieri-dormitorio. Stesse dinamiche erano emerse in Louisiana molto prima. Joseph Macheca, originariamente Carvanna, uno degli undici italiani linciati a New Orleans dopo il verdetto di assoluzione al processo per l'omicidio del locale capo della polizia, non era un guappo qualunque. Nel 1848, aveva sostenuto la candidatura di Horatio Seymour alla presidenza degli Stati Uniti ed era uno degli uomini più influenti di New Orleans, una posizione acquisita nel tempo proprio grazie alle collusioni politico-mafiose di cui era interprete nella gestione del voto cosiddetto etnico.

Anche la Commissione Dillingham, nel 1910, fa finta di non vedere e nel suo rapporto conclusivo invita il governo a bandire l'emigrazione dal Sud e dall'Est Europa, definendola "una minaccia per la società americana". Sono anni in cui l'insicurezza della gente spesso si confonde con la paura nei confronti dello straniero povero in cerca di lavoro che si porta dietro la sua differenza culturale e religiosa. Nel rapporto Dillingham, noto come "dizionario delle razze umane", gli italiani del Sud sono secondi solo agli afro-americani nella lista degli indesiderati.

Nello stesso rapporto, mafiosi e siciliani diventano sinonimi: «Le organizzazioni segrete della Mafia (vedi i Siciliani) e della Comorra [sic], istituzioni che hanno una grossa influenza sulla popolazione, che amano farsi giustizia da sé e che sono responsabili della maggior parte dei reati, sono largamente diffuse nel Sud d'Italia». La tendenza è quella di fare di tutta l'erba un fascio. Lo stesso costruttivismo sociale finisce per condizionare anche negli Stati Uniti le politiche sull'immigrazione. Ma com'è nata la storia della Mano nera? I giornali avevano dedicato grande attenzione a un processo celebrato in Spagna, e in particolar modo nell'Andalusia, ad alcuni presunti esponenti della Mano Negra, un'associazione anarchica che sequestrava i figli dei grandi proprietari terrieri. Nel 1918, Jack Lait, un noto giornalista autore del libro Chicago Confidential, in un articolo pubblicato sul Chicago Examiner, rivela che a utilizzare per primo il termine Black Hand era stato un suo collega, il quale, per finire in prima pagina, aveva inviato à un banchiere italo-americano alcune lettere firmate con una mano imbrattata di inchiostro. Fu il primo caso registrato a Chicago. Poi, molti seguirono l'esempio e la Mano Nera è diventata il terrore d'America. Spiega Lait che, a cavallo tra l'Otto e il Novecento, negli Stati Uniti si faceva spesso ricorso a parole italiane per dare maggiore enfasi a certe notizie. «Se l'astio diventava vendetta, la notizia finiva direttamente in prima pagina. Spesso si usava la parola stiletto per dare più forza narrativa alla storia». In un crescente atteggiamento di darwinismo sociale, italiani ed ebrei provenienti dall'Est europeo vengono considerati spesso un-americans solo perché sono percepiti come diversi, rispetto ai costumi e alle tradizioni del luogo. Un po' come succede ancora oggi, in un contesto nel quale l'importanza di un problema sociale per politici e classe dirigente dipende da come esso viene socialmente percepito. Ai giornali si sono aggiunti i social network. E sempre più spesso le valutazioni politiche vengono fatte sulla base dei rilevamenti condotti su Twitter, Facebook, Instagram, eccetera.

C'è sempre qualcuno che è più diverso degli altri nell'eterno conflitto tra selfhood e otherness.

La realtà è percezione. Viene in mente il libro di Luigi Malerba dal titolo Le galline pensierose.

Scrive Malerba: « Una gallina calabrese decise di diventare mafiosa. Andò da un ministro mafioso per avere una raccomandazione, ma quello le disse che la mafia non esiste. Andò da un giudice mafioso, ma anche questo le disse che la mafia non esiste. Andò infine da un sindaco mafioso e anche questo le disse che la mafia non esiste. La gallina ritornò nel pollaio e alle compagne che le facevano domande rispose che la mafia non esiste. Tutte le galline pensarono che era diventata mafiosa ed ebbero paura di lei»."18"

 

5. Quello che vediamo... e che non vediamo.

 

Alle mafie molti, ormai, si sono assuefatti.

È come salire su un taxi maleodorante. Dopo pochi minuti, il lezzo diventa meno forte, non perché sia diminuito, ma perché lo si è assorbito.

I neuroni sensoriali smettono di percepirlo. Con le mafie e i loro miasmi conviviamo da troppo tempo, senza grandi imbarazzi. Che cosa deve succedere che non sia già successo per voltare pagina e combattere seriamente un'organizzazione criminale che condiziona la crescita e lo sviluppo del nostro Paese?

Un approccio differente alla misura del fenomeno è quello volto a identificare gli effetti dell'economia criminale sul funzionamento del sistema economico: l'impatto economico più significativo della criminalità non consiste tanto nel valore di quanto prodotto attraverso attività criminali, ma, con effetti di ben più lungo periodo, nel valore di quanto non prodotto a causa delle distorsioni generate dalla diffusione della criminalità. Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, citando un lavoro condotto a supporto della Commissione parlamentare antimafia, nel 2015 ha stimato che l'insediamento della criminalità organizzata in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta aveva generato nelle due regioni, nell'arco di un trentennio, una perdita di PIL di circa il 16 per cento. Con una metodologia simile, si è confrontato quanto accaduto in Friuli-Venezia Giulia e in Irpinia dopo i terremoti del 1976 e 1980, in séguito all'afflusso di fondi pubblici: nel corso dei trent'anni successivi, in Friuli-Venezia Giulia, dove la criminalità organizzata non era presente, la crescita del PIL pro càpite è stata superiore di circa 20 punti percentuali, mentre in Irpinia, dove la criminalità organizzata era fortemente radicata, la crescita del PIL pro càpite è stata inferiore di circa 12 punti percentuali."19" Molti invece continuano a pensare che le mafie garantiscano occupazione e benessere.

Sarebbe opportuno fare chiarezza. Quelli garantiti dai boss, più che lavori sono vincoli, legami che non si spezzano, cambiali in bianco che prima o poi vengono portati all'incasso. La mafia non è generosa, ma opportunista. La sua natura è simile a quella dello scorpione del Panchatantra, un'antica raccolta di favole indiane: non cambia mai.

 

L'estetica.

 

Anche la mafia ha una sua estetica. Non è certamente fatta di coppole storte e lupara a tracolla.

Per comprenderla, bisogna partire dalle parole di Giovanni Falcone. «La mafia», diceva il magistrato palermitano ucciso nel 1992, «non è un fenomeno sovra-umano e sovrannaturale, può quindi essere interpretato, affrontato e sconfitto con strumenti umani. Se vogliamo combattere la mafia non dobbiamo trasformarla in un mostro, dobbiamo riconoscere che ci assomiglia».

I mafiosi spesso li troviamo negli uffici pubblici, negli ospedali, negli organismi elettivi. Sono professionisti, gente apparentemente normale, come Giulio Moneta, il vicino di casa di Jep nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Uno che passa inosservato, nonostante sia tra i dieci latitanti più ricercati nel mondo. Alcuni hanno visto in Moneta, Matteo Messina Denaro, il Diabolik di Cosa nostra, latitante dal 1993. Certi frammenti aiutano a rimuovere vecchi stereotipi, a far comprendere l'evoluzione delle mafie. I media da sempre svolgono un ruolo di intermediazione tra i fatti e la percezione collettiva.

Sono anche più colti, come segnala su la Repubblica Attilio Bolzoni. Costretti al carcere duro, leggono di tutto: da Dostoevskij a Tolstoj, da Svevo a Pirandello, da Virgilio a Kant. Una volta si limitavano a leggere la Bibbia, Il Padrino di Mario Puzo, I Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt. L'imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l'ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, «di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto», immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Messina Denaro ricordava anche L'Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: «Non c'è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica»."20"

 

6. Darwinismo criminale.

 

Le mafie sono cambiate. C'è una sorta di darwinismo criminale che condanna tutti quei modelli e quelle forme incapaci di adattarsi ai cambiamenti sociali e alle trasformazioni innescate da meccanismi come la globalizzazione e le nuove tecnologie. È una mafia che spara di meno, ma che continua a fornire sul libero mercato beni e servizi legali e illegali. È silente, come l'ha definita la Corte di Cassazione, rischia di divenire ancora più invisibile perché, a differenza di quella tradizionale, instaura con i territori e le popolazioni locali un rapporto meno aggressivo rispetto al passato, ma sempre più collusivo, all'insegna dello scambio e della reciproca convenienza. Insomma, cambia, rimanendo sempre la stessa identica «cosa».

Per la legge, la mafia, come fenomeno criminale specifico, esiste solo dal 1982, da quando è entrata in vigore la legge 646, più comunemente conosciuta come Rognoni-La Torre.

Prima la mafia veniva trattata come qualsiasi altra organizzazione criminale. Questa legge ha introdotto nel Codice penale l'articolo 416 bis, che oggi recita così: «L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto od indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».

Oggi la reputazione di certe famiglie è talmente forte che assoggettamento e omertà si manifestano senza che ci sia necessità di sparare un colpo o di minacciare nessuno. Come identificare allora la mafia, quando viene meno il metodo mafioso che, secondo la legge, prevede la forza di intimidazione, l'assoggettamento e l'omertà?

Vale comunque la pena riprendere la sentenza della Cassazione, pronunciata il 9 giugno 2015. Scrivono i giudici della Suprema Corte: «La forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l'uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell'assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio». In quel «sostanziale annullamento della concorrenza» e in quella minore «riserva di violenza nel patrimonio associativo» sono contenute le premesse concettuali per una possibile revisione del 416 bis, il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso.

I clan vivono sempre più in un contesto corruttivo che lega innumerevoli interessi, alimentandosi anche grazie al sostegno di gente estranea all'organizzazione. Ciò che salda il mondo di sotto con quello di sopra è il denaro che, da sempre, è funzionale al potere, come spiega efficacemente Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Messina: «I mafiosi sono visibili se violenti, quasi mai, quando generano consenso. Ciò che è invisibile non lo trascini nei processi, e così la mafia si è trasformata sempre più da azione pura in metodo». Per Ardita, la puoi stanare solo se capisci la sua essenza. «La troveremo a brindare coi banchieri che hanno dato l'assalto ai risparmi delle famiglie; coi bancarottieri e coi politici corrotti; e insieme a tutti loro vestita con abiti eleganti condannerà la violenza e farà inni alla legalità. Per sconfiggerla serviranno più processi di concorso esterno, più indagini su deviazioni e corruzioni istituzionali: esattamente quelli che certa propaganda ci ha insegnato a detestare». Lo aveva intuito agli inizi del Novecento anche un investigatore che in Calabria aveva cercato di accendere i riflettori sulla 'ndrangheta. Si chiamava Vincenzo Mangione.

Scriveva: «In vista dell'influenza che questa società segreta esercita sull'animo dei non associati, i componenti di essa mirano a commettere reati, quasi sicuri dell'impunità, come lo provano quelli i cui autori rimasero ignoti [...]; ed è così che s'impone l'omertà, per la quale l'ufficiale di polizia giudiziaria si trova disorientato nel praticare le prime indagini e l'autorità non raggiunge il fine della repressione del delitto avvenuto. L'associato, pertanto, trae profitto da questa soggezione morale degli intimiditi, spadroneggia nelle campagne, nelle imprese di lavoro, negli affari; ruba; truffa; si appropria indebitamente di ciò che più gli conviene; e del furto, della truffa, dell'appropriazione indebita non si dà denunzia o querela, per paura delle vendette della Picciotteria. Ed ove taluno manifesti il proposito di ricorrere all'Autorità, quattro, cinque, sei affiliati fra i più influenti prendono in disparte costui e, con il pretesto di rappacificarlo col suo avversario, gli schiccherano in faccia le solite frasi minacciose, senza tener conto che l'intervento di costoro è una minaccia di per sé. Si noti intanto che questi capi, i quali apparentemente menano vita onesta e laboriosa, hanno le loro influenze presso persone insospettabili, la cui opera sfruttano nell'interesse dei soci. Sono personalità politiche, avvocati, medici, possidenti, dei quali si sorprende la buona fede; e queste persone rispettabili, cui vengono presentati i fatti, larvati dal sentimento di giustizia, finiscono per spiegare la loro attività nell'interesse dei raccomandati, i quali, se colpevoli di un reato, con queste raccomandazioni, con le false testimonianze che apprestano, con le abili difese che si procurano, spesso riescono a sfuggire a una condanna; e quando proprio non possono sottrarvisi, per la irrefregabilità delle prove della loro reità, il discarico li dipinge onesti, delinquenti d'occasione sventurati, per attenuare il rigore della legge; ed anche dopo una mite condanna, con le medesime influenze, ottengono non di rado la grazia»."21" Tenendo conto di queste «alleanze nell'ombra», Leonardo Sciascia, nel suo capolavoro Il giorno della civetta, in tempi non sospetti, suggerisce ciò che realmente può servire per contrastare le mafie, avendone voglia e capacità. «È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui» fa dire al capitano Bellodi in riferimento al capo-mafia del romanzo. «Non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre... Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti... Sarebbe meglio ci si mettesse ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti, di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso...».

Ardita, nella sua analisi, va oltre. E scrive: «Servono più strumenti investigativi: quelli che sono stati depotenziati in questi anni. Ma potrebbe bastare», ammette, «un'etica delle istituzioni fondata sull'appartenenza civica; sulla povertà di chi svolge ruoli pubblici (che non è affatto miseria, ma godere di ciò che spetta); sulla incompatibilità tra politica e imprenditoria; o soltanto un umanesimo che spieghi che il progresso può dare benessere, ma non l'immortalità»."22"

 

7. Il fresco profumo della libertà.

 

Prima di morire ammazzato con gli agenti della sua scorta, Paolo Borsellino ha sottolineato un aspetto importante della lotta alla mafia, quello della partecipazione. «La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

Le manette e le sentenze non bastano. C'è bisogno della partecipazione ordinaria di tutti, il coinvolgimento delle famiglie, della scuola, della società che devono sentire la bellezza del fresco profumo della libertà. Le mafie sono come un enorme cumulo di macerie, una montagna di rifiuti.

A vederli ammassati gli uni agli altri, ti fa sentire impotente, ti fa venire meno le forze, il coraggio di reagire. Prevale lo scoramento.

L'unico rimedio è la bellezza, il rispetto del bene comune. Tutto ciò che serve per rafforzare la convivenza civile, come amava ripetere Piero Calamandrei nelle sue critiche all'indifferentismo nei confronti della politica.

In un discorso ai giovani sulla Costituzione, tenuto a Milano nel 1955, racconta la «storiellina», ancora attuale, di quei due emigrati, due contadini che traversavano l'oceano su un piroscafo traballante. «Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime ed il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: "Ma siamo in pericolo?", e questo dice: "Se continua questo mare, il bastimento tra mezz'ora affonda". Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: "Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz'ora affonda!". Quello dice: "Che me ne importa? Non è mica mio!"»."23"

 

 

PARTE SECONDA

 

Come si raccontano

 

 

1. Come parliamo quando parliamo di mafia.

 

Oggi non si può più sostenere che la mafia sia un tema trascurato nella discussione pubblica.

Resta però il problema di come se ne parla.

Molti libri e tanti prodotti televisivi o cinematografici restituiscono un'immagine stereotipata e romanzata delle mafie, frutto di luoghi comuni, di vecchie leggende che continuano ad evidenziare le caratteristiche di una mafia che un tempo aiutava i bisognosi e non uccideva le donne, né i bambini. Fa comodo descrivere le mafie come espressione del degrado económico-ambientale contro le quali lottano coraggiosamente magistrati e investigatori quasi sempre destinati a soccombere. Lo stereotipo, maggiormente radicato nell'immaginario collettivo, è quello di una piovra invincibile, dotata di rapporti privilegiati con le istituzioni e capace continuamente di riadattarsi. Poco conta che le mafie oggi siano al centro di una sempre più stringente azione di contrasto che passa attraverso la cattura dei boss, molto spesso costretti a subire pesanti condanne ed a perdere le loro ricchezze.

Negli ultimi tempi, dagli eroi positivi destinati alla sconfitta si è passati ai boss protagonisti di storie più o meno ispirate a fatti veri, in cui c'è solo il nero assoluto del male, un mondo abitato da «paranze» assetate di sangue, senza alcun margine di redenzione. Gli scenari rappresentati oscillano tra il male ed il peggio; alla fine, a risultare positivi sono quei personaggi che, tra i criminali, e pure essi stessi criminali, possono essere scambiati per uomini di potere, uomini di parola e uomini che sanno imporsi.

Quasi raramente sullo schermo trovano spazio quei «picciotti» costretti a vivere senza ricchezze, rischiando continuamente il carcere e subendo le angherie dei capi, come succede ogni giorno nel mondo del narcotraffico. Nel giro della droga, accanto a pochi che si arricchiscono, operano tanti altri che fanno la fame, come hanno fatto notare Steven D. Levitt e Stephen J.

Dubner nel libro Freakonomics, raccontando di tanti spacciatori che continuano a vivere nel seminterrato dell'abitazione dei genitori. Passa quasi inosservato anche il sacrifìcio delle forze di polizia coinvolte in indagini quasi sempre lunghe e complesse. Sfugge il senso del dovere e la dedizione al proprio ruolo di chi lavora quotidianamente per assicurare alla giustizia i responsabili della criminalità organizzata. Molto spesso, i fatti vengono modificati per rispondere alle esigenze cinematografiche e televisive. Nel raccontare due grandi personalità come Falcone e Borsellino, per esempio, spesso si dimenticano gli altri componenti del pool antimafia di Palermo, come Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Nei film li vediamo soltanto mentre fanno fotocopie o mentre entrano ed escono da qualche ufficio.

Il rischio è quello dell'eccessiva semplificazione, come spiega Andrea Meccia, autore di Mediamafia, un saggio che affronta il tema della rappresentazione della mafia tra cinema e televisione: «La serie Gomorra esprime una mitologia della camorra che si prende tutta la scena, senza un barlume di positività a farle da contraltare. Di contro, la fiction dedicata a Felicia Impastato rischia di trasformare una vicenda corale, quella di Peppino, dei suoi amici di Radio Aut e dell'omonimo Centro di Documentazione, in un atto di eroismo solitario. Felicia Impastato era una donna straordinaria, il suo impegno è stato eccezionale, ma non avrebbe avuto gli strumenti per affrontare tutta da sola la riapertura del caso giudiziario» spiega Meccia.

 

 

2. Criminali del grande (e piccolo) schermo.

 

In nome della legge è il primo film prodotto in Italia sulla mafia. È del 1949. Lo dirige Pietro Germi ed è tratto dal romanzo Piccola pretura di Giuseppe Guido Loschiavo. È la storia di un giovane magistrato inviato come pretore in un paesino della Sicilia. Vi giunge animato dalle migliori intenzioni, ma si scontra presto con l'omertà della gente. L'unico a non dimostrarsi ostile è un giovanotto di nome Paolino che verrà ammazzato, proprio quando il pretore, sfuggito a un attentato, accetta il trasferimento a Palermo. L'omicidio di Paolino, però, lo convince a rimanere per ristabilire a ogni costo il rispetto della legge. A vendicare la morte di Paolino è il massaro Turi Passalacqua, il capo della mafia locale, per il quale «l'uccisione di chi sbaglia è come una legittima difesa della società di fronte a uno Stato che non riesce ad assicurarla».

Un eterno conflitto tra norme legali e comportamenti sociali; o, meglio ancora, tra norme condivise e regole sociali. Nell'ultima scena, il pretore ed il capomafia finiscono per riconoscersi e legittimarsi a vicenda. Sono gli anni delle grandi lotte contadine contrastate dalla violenza mafiosa, regolarmente impunita perché funzionale agli assetti di potere. Ma per Loschiavo, diventato nel frattempo procuratore generale presso la Corte di Cassazione, la mafia è tutt'altra cosa. «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura», scrive nel 1955, dopo la morte del boss Calogero Vizzini, «è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è sempre inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione dei banditi e dei fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell'ordine.

[...] Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e al miglioramento sociale della collettività».

Poco importa che negli anni Quaranta e Cinquanta la mafia si era già macchiata di delitti infamanti, con l'uccisione di decine di sindacalisti, dirigenti di partito, sindaci, uomini delle Forze dell'Ordine, donne, bambini, lavoratori.

C'erano state anche le stragi di Portella della Ginestra, di Partinico e Canicattì con tanti vittime innocenti. Per molti, ancora in quegli anni, la mafia era un portato di orgoglio e risentimento sedimentato nella mente dei siciliani come forma di resistenza a secoli di invasioni straniere; qualcosa da considerare «come un aspetto del folklore, da tollerare, se non addirittura da valutare positivamente»."24" È essenziale conoscere la mafia di ieri per comprendere quella di oggi. Ed è essenziale raccontarla per far capire alla gente come le mafie, da più di un secolo, abbiano depredato regioni come la Calabria, la Sicilia, la Campania per continuare a governare su una terra di miserabili pronti a vendersi per fame. Con la complicità dei signori che, insieme ai boss, a quella fame li hanno condannati. Le mafie sono sistemi di potere che vivono di collusioni e si nutrono di silenzi.

Lo hanno cominciato a capire anche al Nord, dopo decenni di colpevole silenzio.

 

Il Padrino.

 

Negli Stati Uniti, è ancora un film, forse quello più bello di sempre, a riproporre le logiche della vecchia mafia, sensibile ai bisogni della gente indifesa e contraria alla degenerazione criminale rappresentata dai traffici di droga. Si tratta del Padrino di Francis Ford Coppola, la cui produzione viene inizialmente osteggiata da Joe Colombo, un boss di Cosa nostra, inscenando anche manifestazioni di protesta fatte passare come iniziative della sedicente Lega per la difesa dei diritti civili degli italiani d'America. Dopo l'uscita nel 1972, Il Padrino non straccia solo gli incassi-record del kolossal Via col vento, ma diventa anche la perfetta auto-rappresentazione del mafioso, custode di antichi valori, come la famiglia, la giustizia, l'onore, in una società come quella americana senza ormai punti di riferimento.

Racconta un investigatore americano che in ogni abitazione perquisita a séguito di indagini l'Fbi trovava in quegli anni quasi sempre cassette VHS del film di Coppola.

Al Padrino, liberamente tratto dall'omonimo libro di Mario Puzo, si sono ispirate tantissime produzioni cinematografiche e televisive, come Le mani dentro la città, la storia di una famiglia di 'ndrangheta emigrata al Nord. C'è l'avvocato che cura gli interessi della famiglia e c'è uno dei figli del boss Marruso che acquisisce sempre più potere, dopo una iniziale fase di disinteresse nei confronti degli affari del clan. Il film di Coppola, dal punto di vista cinematografico, è ineccepibile. Molti l'hanno definito un capolavoro.

Altri ne hanno evidenziato l'aspetto fortemente apologetico, partendo dalla prima scena, quella in cui il signor Buonasera si rivolge al Padrino per «punire» due giovani americani che avevano deturpato il volto di sua figlia. Don Vito, dopo averlo rimproverato per non essersi rivolto da subito a lui, chiede a Tom Hagen di affidare l'incarico a Clemenza. «Dobbiamo solo dare una lezione a quei due giovinastri, senza esagerare. Non siamo assassini» precisa. Già il nome del picciotto incaricato, oltre ad alludere alla tipologia dell'intervento punitivo, sottende l'idea di una mafia buona, dal volto umano.

 

La Piovra.

 

È una delle serie televisive che hanno avuto più successo nella storia della televisione italiana.

La puntata dell'omicidio del commissario Corrado Cattani, andata in onda il 20 marzo 1989, è stata seguita da oltre diciassette milioni di telespettatori. La Piovra evoca scenari sinistri come quelli della P2 e racconta gli intrecci della mafia con pezzi importanti della politica, della finanza, dell'economia e delle libere professioni. È una serie televisiva molto realistica, ma poco capace di cambiare la realtà. Anche in questo caso, il contrasto è affidato solo all'impegno individuale. A porsi argutamente un vecchio problema è ancora una volta Umberto Santino, instancabile protagonista del Centro Siciliano di Documentazione intestato a Peppino Impastato: «[...] il Male, così come viene rappresentato», scrive, «ha un suo fascino, attrae irresistibilmente; il Bene invece appare sbiadito, incolore e poco interessante. E non si vede perché bisogna aggiungere nuovi titoli a glorificazione di personaggi che sono in realtà ben miseri e poco attraenti (come Rima e Provenzano) trasformandoli in geni del male. Le loro fortune, più che sulle loro capacità, si fondano sul sistema di rapporti e sulle dinamiche di potere che li hanno usati e protetti. E lo stesso credo possa dirsi per un personaggio come Matteo Messina Denaro, ancora latitante, che di diverso ha la giovinezza e lo stile di vita ma la cui irreperibilità si spiega con un ambiente che lo nasconde e lo venera»."25"

 

3. Visibilità sul territorio.

 

Frank Costello, conosciuto come il "primo ministro" di Cosa nostra a New York, uno dei boss più potenti arricchitosi durante il Proibizionismo, nel 1948, in una intervista concessa al settimanale Time, dichiara di essere come la Coca-Cola. «Ci sono molte bevande buone.

Ma nessuna ha mai beneficiato della stessa attenzione goduta dalla Coca Cola. Io non sono come la Pepsi, sono come la Coca-Cola. Nella mia vita, ho avuto molta pubblicità."26" I mafiosi si vantano del loro pedigree, dei precedenti penali, della "pubblicità" accumulata sui media».

«Basta fare un clic sul computer per capire chi siamo e quanto contiamo» dice il rampollo di una famiglia di 'ndrangheta intercettato in Calabria. Altri 'ndranghetisti, invece, si impettiscono per essere stati menzionati in un libro pubblicato nel 2006, dal titolo Fratelli di sangue. «Basta sfogliarne l'indice per capire che non sei nessuno» dice un boss con tono sprezzante a un giovane che cerca di farsi largo tra le famiglie di 'ndrangheta. Chi racconta e chi scrive di mafia ha una grande responsabilità. Può trasformare bulli di quartiere in mafiosi a tutto tondo. Lo aveva intuito il grande esperto di mezzi di comunicazione di massa Marshall McLuhan, riferendosi ai terroristi: «Se non ci fossero i media, non esisterebbero».

I boss tengono tantissimo alla loro immagine nel contesto sociale in cui operano. Non cercano solo il contatto con il mondo imprenditoriale e politico, ma mirano anche al consenso della cittadinanza. Sia al Nord che al Sud, utilizzano ricorrenze religiose, manifestazioni sportive (rilevano addirittura piccole società di calcio) per "rappresentarsi" impegnati nel sociale, fornendo una immagine di loro vicina alle esigenze della gente (manifestazioni religiose) e dei giovani in particolare (manifestazioni sportive). Sono sempre attenti anche a ciò che si dice e a ciò che si scrive. Finanziano fogli locali per attaccare il lavoro dei magistrati che "danneggia" l'economia della zona e qualche volta riescono a controllare o pilotare anche interviste in televisioni locali per difendersi dagli "accanimenti polizieschi e giudiziari".

Informazione e disinformazione.

Le contromisure non mancano. Per evitare di ingigantire la figura dei boss nell'opinione pubblica occorrerebbe rappresentare la miseria che c'è dietro di loro, la sofferenza che causano, la mancanza di libertà (anche economica) di cui sono responsabili. Come è emerso nel corso dell'operazione "Robin Hood" coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, i clan erano arrivati a mettere le mani anche sui fondi dell'Unione Europea (credito sociale) destinati ai più bisognosi. Un'operazione spregiudicata che spiega la natura intima e più vera delle mafie.

 

Vederci chiaro.

 

Guai, però, a unirsi al coro di chi fa finta di non vedere. Il male non va taciuto. Va raccontato in modo serio, senza fronzoli narrativi, imbellettamenti o divagazioni inverosimili. Spesso i libri o le serie televisive vengono accusati di una eccessiva criminalizzazione del territorio.

L'indice dei libri proibiti, fortunatamente, non è più proponibile, anche se qualcuno ogni tanto ci prova. Spesso, per non dare una cattiva immagine della propria città, si afferma che la mafia non esiste. Lo ha fatto l'ex sindaco di Milano, Letizia Moratti, negando l'esistenza della 'ndrangheta e l'ha emulata l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, criticando Romanzo criminale.

Non si contano invece i prefetti che si innervosivano e diventavano paonazzi quando sentivano parlare di mafie, soprattutto al Nord. Altrettanto dannose sono le «sparate» ad effetto di chi, per cercare di fare audience, mette in risalto soltanto gli aspetti negativi, senza tenere conto della complessità dei territori. Chi ascolta, legge e vede non vuole solo intrattenersi, ma anche capire, sentire e cambiare. Non si tratta di fare moralismo, il cinema ha tutto il diritto di reinventare la realtà, o quanto meno di riprodurla in funzione delle proprie esigenze narrative. Ma non dovrebbe ignorare chi in certe vicende si batte anche a rischio della vita per rappresentare l'altra faccia della realtà che non è mai tutta nera o tutta bianca. Purtroppo, nel racconto sulle mafie, come fa notare Umberto Santino, si continua a scavare «dentro miniere di stereotipi».

 

 

4. I conti con la realtà.

 

L'immaginario collettivo non quantifica i danni sociali delle realtà mafiose, gli sfregi al territorio, all'ambiente. Basta sfogliare il rapporto del 2015 di Legambiente sulla cosiddetta "ecomafia" per rendersi conto dell'impressionante quadro dei reati accertati: circa 80 al giorno, poco meno di quattro ogni ora, per un fatturato criminale che è cresciuto di sette miliardi rispetto al 2013, raggiungendo la ragguardevole cifra di 22 miliardi, cui ha contribuito in maniera eclatante il settore dell'agroalimentare. La Puglia è in testa alla classifica regionale degli illeciti. Il Lazio è sempre la prima regione del centro Italia, la Liguria la prima del Nord, mentre la Lombardia resta al top per le indagini sulla corruzione.

Si legge nel rapporto: «La corruzione è un fenomeno sempre più dilagante nel Paese, è l'altra faccia delle ecomafie». Dal 1º gennaio 2010 al 31 maggio 2016, Legambiente ha contato 302 inchieste sulla corruzione in materia ambientale con 2666 persone arrestate e 2776 denunciate. La pressione dell'abusivismo non si ferma neanche davanti alla crisi generale del settore edilizio. Secondo le stime del Centro ricerche economiche e sociali del mercato dell'edilizia (Gresme), se nel 2007 l'abusivismo pesava per circa l'8 per cento sul totale costruito, nel 2015 la percentuale è pressoché raddoppiata con circa 18000 immobili costruiti illegalmente.

Preoccupano anche i reati legati al traffico illecito di rifiuti, al racket degli animali, alla filiera delPagro-alimentare ed al caporalato, forme di schiavismo sempre più attuali.

Sono tanti comunque quelli che continuano ad accreditare le mafie come agenzie alternative di collocamento. Non si possono sottovalutare le inadempienze dello Stato e la cronica mancanza di occupazione, ma le mafie sono tutt'altro che un'alternativa al malessere sociale ed alla disoccupazione. Il lavoro offerto dai mafiosi - vale la pena ribadirlo - è un vincolo, un ricatto, un vicolo cieco da cui è difficile uscire, una condizione liberticida di assoggettamento sociale ed economico.

 

Corruzione e riciclaggio di denaro.

 

Le mafie riciclano e investono. I loro soldi fanno gola a tanti. Entrano con una facilità impressionante nell'economia legale. Ci sono paradisi fiscali che custodiscono e proteggono i soldi della droga, eludendo le indagini che cercano di far luce sui capitali mafiosi. Londra è una delle piazze finanziarie più importanti con una ventina di centri offshore, come le Isole Cayman, Jersey e Guernsey. Gli Stati Uniti costituiscono invece il più esteso paradiso fiscale, grazie alle leggi permissive di stati come il Nevada, il Delaware, il Wyoming e la Florida. Altrettanto accoglienti sono Paesi come San Marino, Liechtenstein e Gibilterra. È un buco nero dentro il quale c'è di tutto, dalle tangenti della corruzione al traffico d'armi e droga, dalle plusvalenze delle multinazionali ai soldi della grande evasione internazionale.

Una volta c'erano i contanti, oggi ci sono i pagamenti e i trasferimenti on-line, spesso su portali localizzati in Paesi offshore.

La corruzione è l'altra faccia delle mafie.

Ciò che prima si faceva con le armi oggi si può fare con professionisti compiacenti che garantiscono opportunità di investimento e riciclaggio di denaro sporco. Piercamillo Davigo, presidente dell'Associazione nazionale magistrati, è stato uno dei componenti del pool di Mani Pulite. In un articolo pubblicato nel febbraio 2017 sul Fatto Quotidiano, spiega con grande efficacia i meccanismi della corruzione e le difficoltà che si incontrano a sradicarla. «La corruzione presenta due caratteristiche fondamentali: è seriale e diffusiva.

È seriale in quanto coloro che sono dediti a questi illeciti tendono a commetterli ogni volta che ne hanno occasione, con ragionevole certezza di impunità. E diffusiva in quanto corrotti, corruttori e intermediari, al fine di assicurarsi la realizzazione dei patti illeciti e di evitare di essere scoperti, tendono a coinvolgere altre persone, creando una fìtta rete di interrelazioni illecite, fino a che sono gli onesti a essere esclusi dagli ambienti prevalentemente corrotti. Appare, quindi, un grave errore considerare i reati di corruzione come episodi isolati anziché calarli nel contesto generale in cui si compiono. E questo è il motivo per cui ritengo necessario tenere sempre a mente, al di là dei singoli fatti e delle responsabilità personali, il "sistema della corruzione" nel suo complesso. Sistema che prevede spesso collegamenti ad altri reati quali quelli fiscali o comunque relativi alle falsità contabili, le turbative d'asta e il riciclaggio. Alcuni esempi sono illuminanti per capire quanto questi atti criminali finiscano per inquinare interi ambienti: un indagato, nel 1992 (agli inizi della stagione nota come Tangentopoli), riferiva parlando di un ente di livello nazionale - che lì vi operava un cartello di circa duecento imprese che si spartivano gli appalti e che pagavano praticamente chiunque all'interno dell'ente, oltre ai principali partiti. Per inciso, chiariva anche che questo sistema era adottato da almeno venti anni! Non solo. Il sistema di cui ci stiamo occupando comprende anche stretti legami con il crimine organizzato»."27" Insomma, nel buco nero del malaffare, la corruzione è un elemento imprescindibile. In cambio di denaro, tanti continuano a chiudere gli occhi, a prestare il fianco e a girarsi dall'altra parte. I danni della corruzione sono ormai, da tempo, sotto gli occhi di tutti.

 

La vera essenza della mafia.

 

Il primo scrittore a narrarla nei suoi rapporti con il potere è stato Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta, un libro ispirato dall'assassinio del sindacalista comunista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca il 4 gennaio 1947. Il titolo è tratto da un passo dell'Enrico VI di Shakespeare «come la civetta quando di giorno compare» un modo per spiegare l'evoluzione della mafia che prima operava in segreto, nell'ombra, come la civetta che è un animale notturno, ed ora invece agisce alla luce del sole, anche grazie alle complicità politiche. Quando di mafia si parlava appena, Sciascia mette in scena Cosa nostra e la sua modernità. De Roberto, Pirandello, Verga e Capuana non s'erano accorti che esistesse, mentre Brancati l'aveva volutamente sottovalutata.

Il primo regista a comprenderne la complessità e a raccontarne i rapporti con il potere è Francesco Rosi. È lui a inaugurare il fortunato filone del cinema civile, nel 1961, e a descrivere l'oscenità del potere, cioè L'ob scenum, ciò che sta dietro la scena. Quando Peppino Impastato, nel film I cento passi, organizza con i ragazzi di Radio Aut il cinefórum nel circolo di musica e cultura, fa vedere proprio uno dei film di Rosi, Le mani sulla città, proprio per sottolineare l'impegno di uno dei più grandi maestri del cinema civile e dei film d'inchiesta.

 

 

5. Il fascino della medusa.

 

I mafiosi hanno una loro visione del mondo. È una gerarchia che non ammette equivoci, come ricorda don Mariano Agate ne Il giorno della civetta di Sciascia: ci sono gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà. Loro, gli uomini di Cosa nostra, ma anche quelli della 'ndrangheta, sono convinti di far parte di un'organizzazione esclusiva, alla quale accedono solo quelli che dimostrano di esserne degni. Un tempo, si annacavano, camminavano ondeggiando, quasi come le statue dei santi in processione.

L'accesso è consentito solo a chi dimostra di avere «fegato», ma soprattutto a chi comprende l'importanza delle regole, del silenzio, dell'obbedienza e delle gerarchie. C'è bisogno di qualcuno che ne proponga l'ammissione dopo aver fatto la gavetta e dimostrato di essere disposto a tutto, anche a spargere sangue, se necessario.

Ai giovani, ancora oggi, viene fatto credere che le mafie siano state fondate da gente disposta a sacrificarsi per aiutare i più deboli e a percorrere le gesta dei Beati Paoli o dei tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso. In un confronto in aula con Totò Riina, il 15 maggio 1993, Gaspare Mutolo gli rimprovera di aver distrutto Cosa nostra, un'organizzazione che prima dell'avvento dei Corleonesi aveva una moralità, un codice d'onore che si ispirava ai Beati Paoli e non consentiva l'uccisione di donne e bambini."28" Non è superfluo sottolineare che si tratta di sciocchezze senza alcun fondo di verità.

La mafia, come è noto, non si è mai fatta scrupolo di uccidere donne e bambini. È successo nel 1948 con l'eliminazione di Giuseppe Letizia, un ragazzo di tredici anni, testimone oculare dell'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Ed è successo anche nel 1996, per citare un altro caso molto noto, con Giuseppe Di Matteo, sciolto in una vasca di acido nitrido nel tentativo di far tacere il padre, Santino, che aveva deciso di collaborare con la magistratura.

Di simili omicidi si sono macchiate anche la 'ndrangheta e la camorra, in un lungo rosario di sangue.

Che codici e miti fondativi fossero importanti lo si sapeva da tempo, che addirittura venissero usati linguaggi cifrati per trasmetterli da generazione a generazione lo si è scoperto nel 2013, a Roma, con il sequestro di alcuni foglietti di carta riempiti di grafemi che sembravano tratti dall'alfabeto demotico. L'abitazione in cui è avvenuto il sequestro è quella di Gianni Cretarola, un ex affiliato alla 'ndrangheta, oggi collaboratore di giustizia, coinvolto nell'omicidio di Vincenzo Femia, referente a Roma dei clan di San Luca. Gli investigatori sono riusciti così a risalire all'ennesima versione del mito fondativo, legato a Osso, Mastrosso e Carcagnosso, all'isola di Favignana e a San Michele Arcangelo, scelto come patrono della 'ndrangheta. Nella versione decrittata si legge:

Una bella mattina di sabato Santo allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue ed onore. Mi dissero di seguirli che l'avrei trovato. Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre dell'isola della Favignana. Lì sulla mia destra vitti un castello dove c'erano due leoni incatenati a una catena di ventiquattro maglie e con me una venticinque dopo mi accorsi che c'era una scala di marmo finissimo di ventiquattro gradini e con me una venticinque in cima a questa scala sulla mia destra trovai tre stanze entrai nella prima e vi trovai un vecchio con la barba era San Michele Arcangelo entrai nella seconda e vi trovai una donna vestita tutta di nero era nostra Santa Sorella Elisabetta entrai nella terza stanza e vi trovai una cassa di noce fina finissima lo aperta e vi trovai un pugnale e lì ho giurato eterna fedeltà all'onorata società.

 

Non c'è nulla da ridere. Questi rituali, oltre all'aspetto criptolalico, vengono ancora oggi utilizzati «come elemento di coesione del gruppo e come emblema identificante»."29"

Il male che piace ai ragazzini.

 

Sono l'ultima leva delle cosche, come scrive Lirio Abate su l'Espresso. «Minorenni arruolati sempre più spesso dai padrini di Gela, del Nisseno, di Secondigliano e del Gargano. Finora i clan li avevano relegati a compiti secondari: postini della droga e vedette dei covi. Negli ultimi anni invece stanno diventando bambini soldato: hanno la pistola, rapinano, incassano il pizzo, difendono il territorio. E sono pronti a uccidere»."30" Gli uomini delle cosche selezionano i minori più violenti e capaci, come si fa con i ragazzini che giocano bene al calcio e vengono segnalati alle grandi squadre da abili talent scout che monitorano il territorio. L'apprendistato spesso è lungo e richiede obbedienza e dedizione. Spesso vengono commissionati estorsioni, danneggiamenti, ma anche omicidi. Talvolta sono proprio gli omicidi che spianano la strada all'ingresso nelle organizzazioni criminali.

Racconta ancora Abate: «Proprio il figlio di un boss della Stidda, Marco, ha descritto la vita quotidiana di un baby killer nisseno. Ha dichiarato di avere eliminato un avversario, giovanissimo, quando aveva solo quindici anni: lo impiccò come ritorsione per avere rapinato e ferito la moglie di un altro capo. Prima lo appese al cappio e poi si aggrappò alle gambe per soffocarlo, quindi gli piantò un chiodo in testa per essere sicuro che fosse morto. Infine, con l'aiuto dei complici, lo seppellì nella calce viva». Molti ragazzini scimmiottano i «duri» delle serie televisive. Quella che ha colpito di più l'immaginario collettivo degli adolescenti è Romanzo criminale, ma anche Il capo dei capi e, ultimamente, Gomorra-La Serie.

A Vibo Valentia, in Calabria, il Libanese ed il Freddo, protagonisti della serie Romanzo criminale, sono diventati gli eroi di una baby-gang che voleva diventare cosca. Nell'Agrigentino, nel 2008, uno studente universitario ha messo in piedi un sistema molto simile a quello utilizzato dai capi storici di Cosa nostra, comunicando con i restanti membri dell'organizzazione tramite pizzini. Nelle intercettazioni, il giovane boss si vanta di essere un grande ammiratore della nota fiction televisiva dedicata al boss Totò Riina e di aver visto più volte il film American Gangster di Ridley Scott. Era stato ammaliato da Frank Lucas, il protagonista del film che si vanta di spacciare l'eroina più pura mai apparsa sul mercato americano. La chiama Blue Magic. Anche i giovani delle paranze usano il linguaggio delle serie televisive, o imitano l'atteggiamento di Genny Savastano, protagonista di Gomorra-La Serie. Ma, come avverte la psicologa Francesca Ferrante, il problema non riguarda solo i baby criminali, ma anche ragazzi che appartengono a famiglie borghesi: «[...] non solo si vestono e parlano come i personaggi della serie, ma spesso adottano anche un comportamento di prepotenza verso i coetanei, comportandosi da bulli perché incapaci di distinguere il bene dal male»."31" C'è chi sostiene che l'arte e la fiction non debbano avere un ruolo pedagogico. Ma non si può certo ignorare che la "spettacolarizzazione del mondo criminale" rischia di essere molto pericolosa.

 

 

6. Le armi per combattere.

 

La memoria.

 

Quel che resta è il titolo di un libro incompiuto di Pierre Sansot sull'importanza della memoria.

Un libro postumo di reliquie, ricordi e rimorsi. Ma anche di imponderabili tracce e devastanti macerie. Per Sansot, «restare vuol dire anche insistere e resistere, difendere nella memoria di chi sopravvive il ricordo di un'esistenza, salvaguardare la propria umanità opponendo al resto spregevole della morte, il potere di un sorriso».

C'è un sorriso che torna alla mente, quello con cui don Pino Puglisi accoglie il suo assassino a Brancaccio, dove si è battuto per dare un futuro a tanti ragazzi che rischiavano di finire nelle grinfie dei fratelli Graviano. La memoria ricorda che bisogna «insistere e resistere» per non rendere vano il sacrificio di chi è morto per combattere la mafia, contrapponendo il sorriso di don Pino alla ferocia dei suoi aguzzini.

È importante ricordare che senza il sacrificio di tanti servitori dello Stato oggi non avremmo leggi come quella sull'associazione mafiosa e sul sequestro dei beni illegalmente conseguiti, né quella premiale sui collaboratori di giustizia, né quella sul regime carcerario che ha posto fine alla gestione allegra di molti penitenziari.

Sarebbe bello poter creare, come propone Umberto Santino, un laboratorio-memoriale per la lotta alla mafia. Una struttura polivalente con un percorso museale sulla mafia e sull'antimafia, un itinerario didattico, una biblioteca, una emeroteca, un archivio di documenti, una cineteca e una videoteca, ma anche un luogo di incontro e di progettazione. Uno spazio, insomma, da vivere e non un museo da visitare. Non solo a Palermo, ma anche in tante altre città italiane sfregiate dalle mafie.

Senza memoria non c'è futuro. E conoscere il passato aiuta ad affrontare meglio il presente ed il futuro.

 

Le scuole.

 

Le mafie sono fenomeni complessi e per comprenderli non bisogna limitarsi a guardare qualche film. Nelle scuole bisognerebbe promuovere sistematicamente la lettura critica dei media e non solo in occasione di progetti estemporanei.

Il rischio di emulazione è dietro l'angolo. «Stavo facendo vedere delle foto di Letizia Battaglia in una scuola calabrese» racconta ancora Andrea Meccia. «Sullo schermo scorrevano i volti di tante vittime della mafia. Quando è apparso quello di Pio La Torre, uno studente ha cominciato a fare il verso del pulcino. Pochi se ne sono accorti, tantomeno l'insegnante, ma quel giovane stava imitando la scena che aveva visto nel film Il capo dei capi, dopo l'uccisione del deputato comunista. Non aveva mai sentito parlare di Pio La Torre e lo aveva imparato a conoscere attraverso l'unico consumo culturale, al quale aveva avuto accesso». Chi educa gli educatori? Anche su questo fronte c'è ancora tanto da fare.

Ma il problema-scuola è molto più complesso.

Segnala la giornalista Alessia Candito: «C'è un pericolo, sempre più evidente, di sdoganamento del fenomeno mafioso, ma non bisogna pensare che questo sia dovuto semplicemente alla mitizzazione di questo o quel criminale. Le indagini degli ultimi anni hanno mostrato in maniera chiara che le mafie oggi sono così diffuse e ramificate grazie allo storico coinvolgimento di settori importanti della borghesia, delle professioni e delle istituzioni. Più vengono fuori i nomi degli uomini di potere che hanno lavorato per questo o quel clan, più da certi settori c'è la tendenza a derubricare tali rapporti a semplice "attività professionale". È il caso - ad esempio - dei tanti imprenditori del Nord Italia che si rivolgono a questo o quel clan come agenzia di riscossione crediti o come affidabili soci in affari. Contro questa tendenza allo sdoganamento delle mafie, il lavoro nelle scuole è importante.

Ma anche in questo caso è necessario fare nette distinzioni. Passerelle, eventi spot e manifestazioni ludiche servono solo a far perdere agli studenti un giorno di scuola. La mafia è negazione dei diritti di tutti per garantire i privilegi di pochi. Per questo sarebbe necessario partire da un'alfabetizzazione civica su diritti e doveri.

Magari a partire dallo studio della Costituzione».

La scuola può e deve fare ancora molto nella lotta alla 'ndrangheta.

Innanzitutto è necessario diventare più credibili agli occhi dei giovani i quali, nell'età di frequenza della scuola, hanno bisogno di modelli chiari e precisi. La scuola deve riappropriarsi del suo ruolo istituzionale che è quello di educare, formare ed istruire e diventare più credibili significa agire con competenza dando a ciascun alunno pari opportunità formative.

Solo la cultura, le competenze, oltre alla famiglia, possono dare ai giovani la possibilità di non cadere nelle "tentazioni" del malaffare.

Nelle scuole prima ancora che nelle università, inoltre, è importante far capire il valore della istruzione; far capire che attraverso l'istruzione passa il riscatto sociale e professionale; far capire che le "scorciatoie", siano esse economiche o professionali, hanno sempre "un padrone" che prima o poi chiede il conto. L'introduzione di una reale meritocrazia, l'eliminazione dei baronati nelle università, la garanzia di un reale diritto allo studio, un reale sostegno alla ricerca, la bonifica dell'ambiente accademico e scolastico dalle clientele probabilmente sarebbero il migliore antidoto contro il proliferare di mafie e sistemi corrottivi che ne sono il corollario.

 

I libri.

 

Sebbene la pubblicistica di mafia sia diventata negli anni "di moda", sono pochi i testi che hanno il pregio di essere accessibili a tutti, precisi e completi nei contenuti, come rispettosi della realtà che pretendono di raccontare. Di fatto, si oscilla fra due estremi, ugualmente pericolosi: il carattere estremamente tecnico di alcune pubblicazioni e la banalizzazione del tema in altre.

Nel primo caso, si induce la gente a credere che le mafie siano argomento tecnico, dunque destinato a pochi. Ci sono quintali di testi accademici che non fanno altro che allontanare la gente che ha voglia di capire, finendo per derubricare il tema mafie a materia da tribunali. Nel secondo, invece, una descrizione macchiettistica rischia di non far comprendere la reale gravità del problema o di creare eroi di carta straccia. È il caso di romanzi, dai quali sono stati tratti anche film di successo, che propongono un'interpretazione estremamente semplificata e vagamente assolutoria del fenomeno 'ndranghetista.

Anche diversi saggi mostrano la medesima debolezza.

Alcuni, ad esempio, riducono il fenomeno a un mero problema di ordine pubblico, o ricostruiscono in modo parziale e romanzato vicende e figure complesse, spesso piene di chiaroscuri.

Ci sono invece saggi come Africo di Corrado Stajano, che già trent'anni fa aveva reso la 'ndrangheta argomento nazionale, o Il ritorno del principe di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato, che propone un'interessante riflessione sul rapporto fra democrazia e mafie e Le fondamenta della città del giudice Giuseppe Gennari, che rappresenta un'analisi spietata del radicamento delle mafie a Milano.

 

Il mondo digitale.

 

Le mafie sono una cosa seria, una realtà complessa, e l'argomento deve essere affrontato con competenza e sobrietà. La spasmodica e generalizzata corsa ad una comunicazione continua - non preceduta da una reale formazione e da una corretta informazione - ha i suoi lati negativi.

Ciò non toglie che a ciascuno deve essere garantito il più ampio diritto di manifestare il proprio pensiero, con qualsiasi forma e mezzo: l'importanza del web è avere permesso a notizie locali di trovare lettori anche al di là del territorio d'origine. Non tutte le fonti di informazione sono attendibili ed il problema si ingigantisce nella misura in cui il pubblico di potenziali lettori è sempre meno attrezzato per difendersi, dunque sempre meno in grado di distinguere la corretta informazione dalle false notizie. Un tempo, solo dopo una lunga gavetta, magari al séguito di cronisti più esperti, ad un giornalista veniva offerta la possibilità e la responsabilità di rapportarsi con i lettori. Oggi questo passaggio è saltato.

Non si tratta di un filtro che è venuto meno, ma di un periodo di formazione che si è sgretolato.

È come se si permettesse ad un aspirante medico di operare dopo aver letto un manuale di anatomia o ad un aspirante toga di giudicare un imputato dopo aver assistito a un processo. Ed è estremamente pericoloso, tanto per inquirenti e investigatori, che rischiano di veder oscurato il proprio lavoro per non scontentare questo o quell'inserzionista che permette al sito di vivere, come per gli indagati, che rischiano di essere messi alla forca, ancor prima di essere rinviati a giudizio, solo per attirare qualche click.

Anche i mafiosi e i loro simpatizzanti usano il web, come dimostra la proliferazione di pagine di sostegno a questo o quel clan, o per attaccare questo o quel magistrato, facendo da cassa di risonanza a notizie false o parziali. In più, l'evoluzione tecnologica ha messo in mano alle mafie innumerevoli e sempre nuovi strumenti di comunicazione, come il deep net o il darknet. Il problema però non è il medium, ma chi lo utilizza. Se ci fòsse maggiore coscienza sociale, certi contenuti non troverebbero spazio. Anche recentemente ci sono stati esempi in cui si è tentato di utilizzare i social a favore della criminalità organizzata: nel vibonese ci sono stati tentativi di creare gruppi social dove pubblicare, anche distorcendole, notizie contro le forze di polizia e la magistratura (ad esempio errori giudiziari), minimizzando episodi che coinvolgevano esponenti della criminalità organizzata.

Facebook, per tanti, è anche una valvola di sfogo. Sul popolare network e con un séguito di oltre diciottomila follower, un trentanovenne di Lamezia Terme, condannato per associazione mafiosa e omicidio, esprime solidarietà nei confronti dei detenuti, dediche speciali al boss messicano El Chapo Guzman e critiche feroci al 41 bis. In altri post, sottolinea l'importanza di tenere la bocca chiusa e attacca i collaboratori di giustizia, difendendosi con la solita tiritera della supremazia della giustizia divina su quella terrena: «Quello che Dio conosce di me, è infinitamente più importante di quello che gli altri pensano di me».

Anche nel mondo virtuale dei videogiochi spopola la mafia. Mafia III è uno di quelli più venduti. Vince chi riesce a scalare l'organizzazione mafiosa, utilizzando ogni mezzo. Un altro àmbito di grande interesse è quello rappresentato dalle canzoni di malavita con decine di migliaia di Cd venduti in giro per il mondo. Nei Cd si narrano storie di 'ndrangheta, di latitanti perseguitati dalla giustizia e di odiosi «sbirri» che andrebbero tolti dalla faccia della terra. Un po' come succede con le canzoni neomelodiche che spopolano in Campania e in Sicilia e con il movimiento alterado diffusissimo in Messico, ma anche negli Stati Uniti, con decine di milioni di visualizzazioni su Youtube.

 

La scrittura.

 

Certamente la scrittura è un modo importante per uscire dall'isolamento. Si nota durante gli incontri nelle scuole. C'è tanta voglia di conoscenza che va oltre la fiction. Molti scoprono il gusto della lettura, della comunicazione.

Hanno voglia di partecipare. Una studentessa della scuola italiana del Middlebury College, Grace Weber, dopo aver frequentato in Vermont un corso sulla storia della mafia, ha deciso di andare in Sicilia per fare volontariato nei campi di Libera. Poi è tornata in America per raccontare la sua esperienza, spazzando via molti luoghi comuni sulla Sicilia e sui siciliani.

È importante coinvolgersi, comunicare, sollecitare l'impegno civile che non può però fermarsi alle parole. La scuola, la famiglia, le istituzioni devono fare fronte comune. I mafiosi hanno più paura dei maestri elementari che delle manette. La conoscenza aiuta a fare scelte consapevoli, a decidere da che parte stare. E la gente consapevole sa come esercitare il diritto-dovere del voto, sa distinguere chi progetta politiche di cambiamento e chi millanta promesse.

Scriveva l'11 ottobre 1981 Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia a Catania e fondatore della rivista I Siciliani: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all'erta le Forze dell'Ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». Quel concetto di cui parlava Fava dovrebbe guidare chiunque scelga di fare giornalismo. Non si può scrivere e fare finta di non vedere.

Ci sono giornalisti che hanno scritto tanto sulle mafie e lo hanno fatto coerentemente senza timore di ritorsioni. A testa alta. C'è tanto da imparare dal loro metodo di lavoro.

 

1. Ricordarsi che i mafiosi sono uomini come noi e spesso ci assomigliano. Farli diventare eroi o più grandi di quello che sono è controproducente.

Spesso sono le costruzioni sociali a ingigantire prospettive e contesti. Molte carriere criminali sono state costruite sui media.

2. I mafiosi parlano. E spesso si servono di giornalisti per comunicare. Una delle premesse per una corretta intervista è quella di conoscere nei dettagli la vita e il percorso criminale della persona intervistata. Evitare nel modo più assoluto la possibilità di fare da cassa di risonanza.

3. Mai dare niente per scontato. La domanda ricorrente deve essere quella tesa al chiarimento delle espressioni equivoche. "In che senso?" è la domanda-chiave per chi si trova di fronte un mafioso od un ex mafioso.

4. Evitare di accentuare le anomalie fisiche della persona di cui si parla. Sono inutili ai fini della narrazione e rischiano solo di inviperire gli animi di chi legge.

5. Per comprendere i mafiosi, bisogna saperne interpretare le lunghe pause ed i tanti silenzi.

Spesso sono più eloquenti di mille parole.

 

La parodia.

 

Per combattere le mafie è opportuno tornare a parlare di giustizia e di legalità. E fare in modo che ciascuno, nell'àmbito della sua vita e della sua professione, si senta in lotta per un obiettivo comune. Fino a quando la battaglia contro le mafie sarà delegata a pochi, il confronto sarà ineguale.

Il racconto della legalità non ha bisogno di eroi. Il vero eroe è colui che agisce con onestà, che dice no a forme di facile guadagno e che vive quotidianamente osservando la legge. Bisogna riscoprire la banalità del bene, o meglio, il fascino della normalità.

Un'altra arma è la parodia. Scrive Rosario Giovanni Scalia, studente di Dottorato alla Scuola italiana del Middlebury College: «Ogni grande mito è stato oggetto di parodia, fin dai tempi del poema epico omerico. Le avventure eroiche dei capi achei sono state spesso oggetto di deformazione comica nella letteratura classica. La tragica avventura vissuta da Odisseo nella grotta del Ciclope diventa parodia nel dramma satiresco Il Ciclope di Euripide; le epiche battaglie di Achille e dei suoi di fronte alle mura di Troia sono ridicolizzate nella Batracomiomachìa, la battaglia delle rane contro i topi. Personaggi dalla statura eroica vengono rappresentati come pavidi; esseri deformi e turpi suscitano l'amore di bellissime ninfe. La parodia è l'antitesi stessa del mito, un arguto divertissement frutto della verve comica di autori ispirati.

Poiché non c'è parodia senza mito, l'esistenza di una parodia sulla mafia è innanzi tutto la prova tangibile che la mafia è la protagonista di una mitologia.

Specialmente in questi ultimi venti anni la parodia sulla mafia ha dimostrato una certa vitalità e sfornato prodotti caratterizzati da risultati ineguali nelle intenzioni e negli esiti. Ovviamente il fondamento ideologico di operazioni di questo tipo è l'idea che la parodia, in quanto dissacrazione del mito, faccia perdere a quest'ultimo la sua solennità e la sua aura sacrale, svelandone di fatto la reale inconsistenza, ridere del mito, quindi, incrinerebbe nello spettatore sentimenti quali il senso di venerazione nei confronti della mafia, il timore reverenziale, la paura»."32" I mafiosi, salvo qualche eccezione, da Roberta Torre a Pif, li abbiamo raccontati sempre in modo troppo serioso. Come se fossero personaggi tratti dalle tragedie di Shakespeare. Il giorno in cui riusciremo a metterli definitivamente alla berlina, sbeffeggiandoli, senza ricorrere più ai vecchi luoghi comuni, la mafia e i mafiosi saranno meno forti.

 

 

 

Conclusione

E la politica?

 

La politica dovrebbe avere più coraggio e "raccontare" la mafia "denunciando" tutte le forme di collusione e combattendola nelle scelte quotidiane. Si celebrano giustamente le vittime, si guarda al passato, alla memoria storica, ma il presente ed il futuro? In primo luogo, la politica dovrebbe affrontare la mafia. Soprattutto al suo interno. Al momento, non c'è partito che non possa "vantare" quanto meno un esponente sorpreso in contatto con i clan, molti hanno, fra i loro, persino condannati in via definitiva. Pochi hanno il coraggio di condannare connivenze e frequentazioni. Quando questo o quel politico finisce sotto indagine, tutti sono "sorpresi e costernati", sebbene abbiano fatto con lui centinaia di riunioni, incontri, colloqui e magari decine di campagne elettorali. E questo non è possibile.

In più, c'è un paradosso. Quando si chiedono controlli antimafia sulle liste elettorali, tutti sono pronti a gridare all'ingerenza della magistratura nella politica. Quando però uno di quei candidati viene arrestato, tutti sono pronti a dire: "Perché non ce lo avete detto prima?". È ipocrita. Da parte della politica è necessario e urgente un atto di coraggio, che permetta di rimuovere tutti gli ostacoli che oggi impediscono di combattere efficacemente le mafie. C'è bisogno di un po' di chiarezza sugli obiettivi e un po' di coerenza. Se si afferma che la lotta alle mafie è una priorità, bisogna dare a inquirenti e investigatori gli strumenti per combatterla, come per mostrare ai cittadini che il contrasto delle organizzazioni mafiose porta benefìci per tutti. Ma servono fatti, non parole.

Per combattere le mafie bisogna accettare il fatto che, negli anni, esse sono state protette ed utilizzate dal potere politico ed economico. La loro storia è fatta di continue trattative con lo Stato che, quando poteva sferrare il colpo decisivo, si è sempre tirato indietro, distratto da altre emergenze, alcune vere, altre inventate. Senza il rapporto con la politica, le lobby di potere, le logge più o meno deviate della massoneria, il sostegno di professionisti senza scrupoli, le mafie sarebbero già state sconfitte da tempo. Se si riuscisse ad accettare questa amara realtà e trovare la forza di reagire, senza sensi di colpa o polemiche sterili e inutili, forse si potrebbe chiudere il cerchio. Ma ci vuole coraggio, coerenza e determinazione.

Come è avvenuto al tempo del terrorismo e, ancora prima, del brigantaggio. La guerra che non abbiamo mai voluto combattere, possiamo allora cominciare a vincerla.

 

 

 

Note

 

Parte prima.

 

1) U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995, p. 30.

 

2) L. Franchetti, Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia [1871], Donzelli, Roma, 1993, p. 97.

 

3) P. Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita dì un grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano, 1992, pp. 5 e 200.

 

4) G.Pitrè, La mafia e l'omertà, Brancate Editore, Catania, 2002, p. 288.

 

5) S. Scarpino, Storia della camorra. Fenice, Milano, 2000, p. 6.

 

6) N. Gratteri, A. Nicaso, Dire e non dire. Oscar Mondadori, Milano, 2012, p. 12.

 

7) R.G. Scalia, La mafia e il mito: un rapporto dialettico, Qualifying paper, Middleburv Language School, Summer Session 2016, ITAL6628, Mafia Through Lenses of Cinema.

 

8) G. Falcone in collaborazione con M.Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1991, p. 97.

 

9) Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le Indagini preliminari, Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Girelli Lucia + 16, 13 giugno 1994, p. 124.

 

10) H. Hess, Mafia, Laterza, Bari, 1984, p. 100.

 

11) L.Jannuzzi, I grandi protettori, in l'Espresso, 11 aprile 1965.

 

12) Commissione Parlamentare Antimafia, op. cit., p. 45.

 

13) I. Sales, Storia dell'Italia mafia: Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 14.

 

14) R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell'ombra, Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Fondazione Res, Donzelli Editore, Roma, 2011, pp. 6-7.

 

15) G. Gennari, Le fondamenta della città, Mondadori, Milano, 2013, p. 211.

 

16) R. Sciarrone (a cura di), Alleanza nell'ombra, Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli Editore, Roma, 2011, p. XIV.

 

17) N. Gratteri, A, Nicaso, Padrini e Padroni, come la 'ndrangheta è diventata classe dirìgente, Mondadori, Milano, 2016, pp. 151-2.

 

18) L. Malerba, Le galline pensierose, Garzanti, Bologna, 1984.

 

19) Audizione del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco davanti alla Commissione parlamentare antimafia, 14 gennaio 2015. Cfr. E Decarolis, C. Giorgiantonio e V Giovanniello, L'affidamento dei lavori pubblici in Italia: un'analisi dei meccanismi di selezione del contraente privato, Banca d'Italia, Questioni di Economia e Finanza, 83, dicembre 2010.

 

20) A. Bolzoni, Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini in la Repubblica, 7 febbraio 2017.

 

21) A. Nicaso, Alle origini della 'ndrangheta: la picciotteria, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1990, pp. 20-21.

 

22) S. Ardita, L'eresia che diventa verità, in Blog Mafie. Da un'idea di Attilio Bolzoni, mafie.blogautore.repubblica.it, 22 gennaio 2017.

 

23) P. Calamandrei, Lo Stato siamo noi, Prefazione di Giovanni De Luna, Chiareletiere, Milano, 2011, pp. 6-7.

 

Parte seconda.

 

24) Ibidem, p. 308.

 

25) U. Santino, Saggio introduttivo al libro di Andrea Meccia, Mediamafia. Cosa nostra fra cinema e Tv, Di Girolamo editore, Trapani, 2014.

 

26) Time, "Manners & Moráls", 28 novembre 1949, p. 13.

 

27) P. Davigo, Mafia e corruzione, il patto seriale che strozza l'Italia, in Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2017, p. 4.

 

28) Tribunale di Palermo, Sezione Corte di Assise, Udienza del 15 maggio 1993, Processo contro Greco Michele + altri, p. 12569.

 

29) J. Trumper, A. Nicaso, M. Maddalon, N. Gratteri, Male lingue.

Vecchi e nuovi codici delle mafie, Pellegrini Editore, Cosenza, 2014, p. 13.

 

30) L. Abate, Ora la mafia arruola i ragazzini, in l'Espresso, 24 aprile 2013.

Cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/04/24/ news/ora-la-mafia-arruola-i-ragazzini-1.53662 - Visitato il 17 febbraio 2017.

 

31) @mdemarco55, Gomorra e il rischio dell'emulazione "Troppi ragazzi imitano la fiction", in Corriere della Sera, 12 maggio 2016. Cfr. http://wwwxorriere.it/cronache/16_maggio_13/gomorra-rischiodeU-emulazione-troppi-ragazzi-imitano-fiction-56a647fc-1882-1 le6al92-aa62c89d5ecl.shtml Visitato il 16 febbraio 2017.

 

32) R.G. Scalia, op. cit.

 

 

 

Bibliografia essenziale

 

F. Romano, Storia della mafia, Mondadori.

Milano, 1966.

G. Falcone con M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991.

P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, Mondadori, Milano, 1992.

G. Pitrè, La mafia e l'omertà, 1899, Brancato Editore, Catania, 2002.

S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 1994.

R. Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano, 1994.

G.C. Marino, Storia della mafia, Newton & Comp ton, Roma, 1997.

F. Renda, Storia della mafia, Sigma, Palermo, 1997.

M. Massari, La Sacra Corona Unita. Potere e segreto, Laterza, Roma-Bari, 1998.

L. Paoli, Fratelli di mafia, Il Mulino, Bologna, 2000.

R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di domìnio della camorra, Mondadori, Milano, 2006.

N. Gratteri, A. Nicaso, Fratelli di sangue, Pellegrini, Cosenza, 2006 [Mondadori, Milano, 2009].

A. Bolzoni, Parole d'onore, Bur Rizzoli, Milano, 2008.

U. Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Editori Riuniti, 2009.

A. Badolati - G. Pastore, Banditi e schiave. 'Ndrine, albanesi e il codice Kanun, Pellegrini, 2009.

F. Barbagallo, Storia della camorra, Laterza, Bari-Roma, 2010.

V. Spagnolo, Cocaina S.p.A., Pellegrini, Cosenza, 2010.

F. Varese, Mafie in movimento, Einaudi, Torino, 2011.

A. Dino, Gli ultimi padrini, Laterza, Bari-Roma, 2012.

I. Sales, Storia dell'Italia mafiosa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015.

N. Gratteri, A. Nicaso, Padrini e padroni, Mondadori, Milano, 2016.

 

Filmografia essenziale

 

Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy (1931).

In nome della legge di Pietro Germi (1949).

Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1962).

Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963).

Il Padrino - Trilogia di Francis Ford Coppola (1972, 1974, 1990).

Scarface di Brian De Palma (1983).

C'era una volta in America di Sergio Leone (1984).

Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese (1990).

Tano da morire di Roberta Torre (1997).

Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca (2000).

I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000).

Alla luce del sole di Roberto Faenza (2005).

Gomorra di Matteo Garrone (2008).

Il divo di Paolo Sorrentino (2008).

La mafia uccide solo d'estate di Pif (2013).

 

FINE

 

 

 

Finito di stampare nel mese di Marzo 2017 presso Elcograf S.p.A. - Cles (TN).

16/07/17 10:05:40

Nicola Gratteri, Antonio Nicaso - L'inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi
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