Trama

 

Uno scrittore scorbutico in crisi creativa e un paralitico politicamente scorretto, Davide Yalta: la strana coppia si incontra casualmente in un bar in un giorno di temporale.

E comincia una frequentazione a dir poco singolare, punteggiata di situazioni imbarazzanti create dal perverso senso dell'umorismo di Davide.

L'uomo in carrozzella non fa sconti a nessuno nella sua sete di rivalsa verso le persone «normali», ma ha una grande debolezza: la passione per la bella vicina Elena, che è deciso a sedurre.

E le cose si complicano in un'avventura che intreccia desiderio, amicizia e destino.

 

Marco Vichi è nato nel 1957 a Firenze e vive nel Chianti. Presso Guanda ha pubblicato i romanzi: L‘inquilino, Donne donne, Il brigante, Nero di luna, Un tipo tranquillo, La vendetta, Il contratto; le raccolte di racconti Perché dollari?, Buio d'amore, Racconti neri-, la serie dedicata al commissario Bordelli: Il commissario Bordelli, Una brutta faccenda, Il nuovo venuto, Morte a Firenze (Premio Giorgio Scerbanenco - La Stampa 2009 per il miglior romanzo noir italiano), La forza del destino, Fantasmi del passato-, il graphic novel Morto due volte, con Werther Dell'Edera. Ha inoltre curato le antologie Città in nero, Delitti in provincia, E tutta una follia, Un inverno color noir.

Il suo sito internet è www.marcovichi.it

 

LA SFIDA

 

 

Signore, io non ho nessuno che m'immerga nella piscina quando l'acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me.

Gv. 5, 7

 

 

«Ha sbagliato a darmi il resto» dissi all'uomo che stava alla cassa, guardando con schifo le sue mani pelose e i suoi polsi scimmieschi coperti di bracciali d'oro.

«Eh?» fece lui, con il labbro di sotto che gli pendeva.

Sospirai.

«Spendo due euro e sessanta, no?» dissi. Era un bar del centro, con triangoli di specchio appesi dietro alle bottiglie, colonne greche e capitelli di plastica in miniatura, filamenti di neon azzurro, marmi neri. Era pieno di gente.

«Mi ha dato cinque euro, giusto?» fece lui, con aria strafottente. Doveva essere il padrone.

«Appunto...» dissi io, un po' meno convinto. Lui riprese in mano il resto e ricominciò.

«Un euro, due euro, e questi sono quaranta centesimi!

E allora? Ci sono tutti o sbaglio? Ma guarda questo...» bofonchiò, piegando la faccia di lato e ammiccando al barista in divisa.

«Va bene, mi sono sbagliato» farfugliai. Presi il resto e mi avviai alla porta con la faccia incazzata.

«Sarà che gli pesano le corna» disse il cassiere alla platea sbiancata dai neon. Feci finta di non sentire.

«Maiale» dissi tra i denti appena fuori, e fu tutto.

 

Abitavo in una città di merda, non dovevo meravigliarmi.

Ripresi la mia strada. Sotto un cielo foderato di nuvole spesse soffiava lo scirocco, umido e appiccicoso, e l'aria sapeva di pioggia. Guardavo la gente.

In mezzo ai gruppi di turisti con i piedi spellati si vedevano i nativi che camminavano in fretta. Avevano sguardi obliqui, brutti, diffidenti, le facce offese. Le donne avanzavano a naso ritto, ce n'erano di bellissime.

Le avrei ammazzate. Appoggiata contro un muro c'era una vecchia con la mano tesa. Aveva le dita storpiate dall'artrite. Mi fermai e le buttai una moneta nel palmo rugoso.

«Si compri un paio di guanti» dissi. La vecchia chiuse la mano e mi guardò, con gli occhi ricoperti d'acqua e un sorriso demente.

«Chiamo sorella morte tutti i giorni, ma non viene» disse, con la voce da bambina. Muoveva la mascella come se stesse preparando uno sputo. Sentii una gran pena, e anche ribrezzo. Quando feci per andarmene la vecchia mi s'attaccò al cappotto e mi guardò con gli occhi a fessura, come se cercasse di ricordare dove mi aveva visto. Sentirmi toccare mi dette fastidio. Tirai via il braccio e continuai a camminare.

Quattro ragazzotti rumorosi si divertivano a fare scherzi, e per evitare di picchiarli cambiai marciapiede.

E ora questo finocchio che cazzo vuole? Continuava a sorridermi... Oh Cristo, guarda che foulard!

Eh no, ora è troppo... Chi è che ride in questo modo? Ride di me? Ma che sta dicendo? Mi girai a guardare, ma nessuno ce l'aveva con me. Quella città mi stancava, mi ossessionava. Forse era tutta colpa mia.

In una traversa tre poliziotti perquisivano un nero, tenendolo schiacciato contro il muro. Il nero era altissimo. Mandava avanti il collo per spiegare le sue ragioni, per difendersi, vendo accendini, devo mangiare.

Lo rimandavano contro il muro, le mani sulle costole. Appena voltai l'angolo sentii volare un paio di schiaffi.

Ero stanco di tutto. Non avevo più voglia di fare niente, non avrei saputo da dove ricominciare. Uscii dal centro e m'incamminai verso la macchina. Sul viale il vento era più forte. Non sapevo cosa fare.

Avevo appena consegnato la prima stesura dell'ultimo romanzo all'editore, dopo due mesi di ore piccole, e mi sentivo vuoto. Stavo anche scrivendo la sceneggiatura di un film per un piccolo produttore di Roma, ma mi ero bloccato su un passaggio che non riuscivo a risolvere. Mi mancava l'umore giusto, quel misto di rabbia e malinconia che mi spingeva a scrivere, a inseguire le storie.

Arrivai alla macchina. Stavo per aprire lo sportello, poi rimisi le chiavi in tasca. Non avevo voglia di guidare. Non avevo nemmeno voglia di andare a casa, e non mi andava di vedere nessuno. Era un bel po' di tempo che non vedevo nessuno.

Mi guardai intorno. Dall'altra parte della piazza c'era un bar, e andai a vedere com'era. Nulla di speciale, ma era quasi vuoto. Quello che volevo. Entrai e mi sedetti a un tavolino, di fronte alla vetrata. Ordinai un bicchiere di vino a una ragazzina piena di brufoli, e mi lasciai andare contro lo schienale.

Cominciò a tuonare. Il sole era soffocato da una coperta di nuvole in movimento, e sulla città stava scendendo una luce verdognola. Mancava poco alla pioggia, e si avvertiva nell'aria una tensione fastidiosa.

Mi sentivo tirare la nuca. Il vento strappava le foglie dagli alberi e le spingeva in alto. Nella piazza passava gente, camminando a testa bassa.

Bevendo quel vino cattivo mi abbandonai alla malinconia. Da una radio arrivava una musichetta a basso volume che invitava al sonno. Stavo vivendo uno di quei momenti indefinibili in cui mi dicevo: a cosa potrei pensare? Uno di quei momenti in cui una donna che passa davanti alla vetrina di un bar non è una donna, è il movimento dei suoi passi, è una festa di forme e di colori che si allontana, lasciandomi solo. Un momento banale, in fondo, ma pieno di cose.

Cominciò a piovere, gocce grandi come noci. I pochi che si vedevano in giro affrettavano il passo per andare a ripararsi. I cartelli stradali ondeggiavano.

La pioggia cadeva sempre più fitta, e dopo un minuto veniva giù una muraglia di acqua. Dietro il banco, il padrone del bar sistemava le tazzine e ogni tanto guardava una TV accesa con il volume azzerato.

Era un uomo grasso e flaccido, con l'aria mite. Facevo meglio ad andare a casa, pensai. Quel bar era schifoso, e il vino era cattivo. Non ci sarei mai più tornato. Dovevo solo aspettare che smettesse di diluviare.

Mi voltai distrattamente. Al tavolino accanto c'era un tipo in carrozzella, con una coperta scozzese sulle gambe. Lo vedevo di profilo, aveva un naso piuttosto impegnativo. Avrà avuto una quarantina d'anni. Beveva il tè e scriveva qualcosa sopra un foglio.

Continuai a guardarlo. Si fermava spesso a pensare, mordendo la penna. Aveva uno sguardo molto vivo. A un tratto si voltò verso di me.

«Ho una briciola sulla guancia?» disse, con aria antipatica.

«Come?» dissi io, staccando la schiena dalla sedia.

«Deve farmi il ritratto?» «In che senso?» «Perché mi guarda?» «Mi scusi... Non guardavo lei... Ero sovrappensiero...» dissi, e mi passai una mano sugli occhi con aria stanca.

«Forse le ricordo qualcuno?» insisté lui.

«Ma no...» «Non ha mai visto un paralitico?» m'interruppe lui, con un tono di voce insopportabile. Alzai le spalle. Non avevo nessuna voglia di trascinare avanti quella sciocchezza. Bevvi l'ultimo sorso di vino e cercai il portafogli. Lui continuava a guardarmi con insistenza. Mi alzai, e passandogli accanto mi cadde l'occhio sul foglio che aveva davanti. Riuscii a leggere la prima frase: Lei non mi conosce, ma io la vedo spesso...

Non feci in tempo a vedere altro. Il paralitico prese il foglio e se lo accartocciò in tasca.

«Ancora sovrappensiero?» disse, con un sorriso da schiaffi. Lo lasciai perdere, e mi avviai verso la cassa pensando: "Sta scrivendo a una donna". Il padrone del bar stava guardando la TV senza volume, seduto di sbieco sull'acquaio. Davano una partita di serie B. Si accorse di me e si avvicinò. Pagai malvolentieri il vino cattivo, ma non potevo andarmene.

La pioggia cadeva ancora a scroscio e non avevo l'ombrello. Dovevo rassegnarmi ad aspettare. Il paralitico continuava a fissarmi, polemico. Non volevo lasciargli pensare di avermi messo in difficoltà. Forse per quella stupida volontà umana, ma in fondo animale, di apparire invincibili.

Tornai accanto a lui con aria indifferente e mi fermai in piedi di fronte alla vetrata del bar, a guardare la piazza e la pioggia.

«Il mondo è pieno di ipocriti» disse tra sé il tipo in carrozzella, ma lo disse abbastanza forte da farsi sentire da me. Mi voltai. Lui mi stava guardando. Riprese il foglio dalla tasca, e mandando in fuori le labbra scrisse velocemente qualcosa. Fece un sospiro, piegò la lettera e se la rimise in tasca. Mi avvicinai e mi sedetti al suo tavolo, di fronte a lui.

«Sta scrivendo a una donna?» chiesi. Lui mi guardò con un sorriso cattivo.

«Le sembra strano?» disse. Senza volerlo lanciai un'occhiata alla sua carrozzella e alla coperta scozzese che gli copriva le gambe. La cosa non passò inosservata. Il paralitico fece un altro sorriso.

«Le sembro patetico...» «Non ho aperto bocca» dissi.

«Solo perché lei è un ipocrita, appunto.» «Può darsi» dissi. Lui bevve con calma un sorso di tè, e arricciò appena il naso come se non gli piacesse.

Quando posò la tazza non era più così arrabbiato.

«Sì, è una donna. Una bellissima donna.» «Lo avevo immaginato» dissi. Lui si lasciò andare contro lo schienale della carrozzella, e si voltò a guardare la piazza con un'espressione vagamente rabbiosa.

«Voglio mettermi alla prova come tutti gli altri...

Se quella donna mi riderà in faccia non sarò il primo, non crede?» disse, come se aspettasse davvero una risposta. Io non fiatai. Mi sentivo in imbarazzo.

Non trovai di meglio che pigiarmi i bulbi degli occhi con le dita. Lui scosse il capo.

«Tutti parlano, parlano... Non fanno che parlare...

Ma non hanno mai nulla da dire...» borbottò tra sé, poi alzò una mano per chiamare la ragazza del bar. Vedendo come pioveva pensai di ordinare anch'io un'altra birra. Mentre la cameriera avanzava verso di noi, il paralitico tirò via la coperta scozzese e si scoprì le gambe... Due rami secchi e ritorti che scendevano fino alla predella e terminavano in due scarpe minuscole e flosce.

"Ma che fa?" pensai. La ragazza era già davanti a noi. Aveva sì e no quindici anni, il viso pieno di bolle e due gambe lunghe fino al mento. Si sforzava di non guardare le gambe del cliente in carrozzella.

«Serve qualcosa?» disse, gentile.

«È la quarta volta che chiamo» disse il paralitico con durezza.

«Mi scusi, non me n'ero accorta...» «Sarei venuto io, ma mi fanno male le caviglie» fece lui, fissandola.

«Ero distratta... Mi dica...» La ragazzina era confusa, e teneva gli occhi sul blocchetto delle ordinazioni.

Il paralitico indicò la sua tazza vuota.

«Cos'è che mi ha portato?» «Non aveva ordinato un tè?» disse la ragazza.

«Appunto. Questa è sciacquatura di piatti.» «Ma...» balbettò la ragazza, cambiando colore.

Sembrava che le dovessero scoppiare i foruncoli.

«Devo camminare fino in India per bere un vero tè?» «Le chiedo scusa...» disse lei.

«Il buon tè mi fa bene alle gambe» disse il paralitico, e con le mani si avvolse le ossa delle cosce, poco sopra il ginocchio. Erano così sottili che poteva toccarsi la punta delle dita. Scossi la testa, non mi piacevano per niente quelle buffonate. La ragazza mi lanciò un'occhiata per cercare appoggio, volevo sorriderle ma si voltò subito e non feci in tempo.

«Mi scusi...» disse di nuovo. Prese la tazza con la sciacquatura dipiatti e se ne andò in fretta facendola tintinnare. Si era dimenticata di me. Niente birra.

Arrivò al banco e parlò a bassa voce con il padrone.

Forse era suo padre. Guardarono tutti e due verso di noi, poi l'uomo fece un gesto con la mano e sparì nel retro del negozio. Il paralitico era di spalle e non poteva vederli. Si rimise la coperta sulle gambe, sistemandola con gesti abitudinari e precisi.

«Non ne posso più della pietà» mormorò, senza guardarmi. Non dissi nulla. Lui si mise a fissare fuori dalla finestra, con una ruga sulla fronte. Aveva un naso davvero particolare, lungo e fine, arcuato come quello di Dante.

 

La pioggia stava diminuendo. Il padrone tornò dal retro con una bustina colorata, riempì una teiera di acqua bollente, prese una tazza pulita e sistemò tutto sopra un vassoio. La ragazza venne verso di noi con il nuovo tè.

«Ecco, signore» disse, appoggiando la tazza e la teiera davanti al paralitico. Poi sparì di nuovo, senza interpellarmi. Niente birra. Il paralitico aprì la bustina del tè con aria schifata, scosse il capo e la infilò nell'acqua bollente come se tenesse un pesce morto per la coda.

«E questo sarebbe tè?» Faceva di tutto per essere antipatico e se ne compiaceva. Ero cresciuto con l'idea che tutti gli infermi fossero costretti alla bontà e alla gentilezza, per cercare di farsi amare.

«Mi farebbe un favore?» disse il paralitico.

«Mi dica.» «Potrebbe andare a pagare il mio disgustoso tè?

Con i miei soldi, s'intende.» Non sembrava una domanda, ma una specie di ordine. Non mi piaceva.

«Da qui alla cassa sono solo quattro passi, ci vada da solo» dissi. Lo fissai con il massimo dell'apatia, e scesi con lo sguardo fino alle sue scarpe inutili. Lui mi guardò strizzando gli occhi, con un sorriso soddisfatto.

Poi tolse i freni alle ruote e scivolò silenzioso fino alla cassa. Pagò il tè alla ragazzina, che non riusciva a guardarlo negli occhi. Tornò verso il tavolo e si fermò di fronte a me.

«Non piove quasi più. Mi accompagna?» L'acqua continuava a correre nelle zanelle e a scivolare nelle fogne. Cadeva una pioggerella sottile che a Parigi chiamano sputino, ma il sole che stava quasi per tramontare riuscì a farsi vedere di nuovo. Le strade brillavano, e le ruote delle macchine frusciavano sull'asfalto. Il vento era diventato più freddo.

Il paralitico spingeva piano le ruote, con le sue braccia irrobustite. Io gli camminavo accanto, e chiacchieravamo.

Lui non disse nulla delle mie parole di scherno. Aveva una voce pacata, adesso, gentile e suadente. Sapeva parlare. Ogni tanto accennava una risata sonora, violenta, che subito interrompeva. Ricominciò a piovere più forte, e ci riparammo sotto un loggiato. Lui si chiamava Davide Yalta, era ebreo.

«Ma grazie a Dio sono ateo» mi spiegò.

«Cosa è successo alle sue gambe?» chiesi, mentre guardavamo le gocce che si rompevano una sull'altra.

Lui si avvolse meglio nel cappotto, tirandoselo quasi fino alla nuca.

«Eravamo in due a voler nascere, ma si vede che nella pancia di mia mamma non c'era posto a sufficienza.

Le mie gambe dovevano lottare con la testa del mio gemello che non smetteva mai di crescere.

Fu una gran battaglia: o il suo intelletto o le mie gambe.» «E ha vinto lui» anticipai.

«Mio fratello adesso è un chimico famoso, sempre in giro per il mondo, un mezzo genio. Nel suo cervello c'è tutta la vitalità delle mie gambe...» disse lui, e fece una delle sue risate. Poi mi guardò, come se volesse cogliere qualcosa nel mio viso. Sapeva avere sguardi avidi, che non conoscevo. L'ultima nuvola si allontanò portata dal vento, e di nuovo spuntò un raggio di sole. Ricominciammo a camminare lungo il marciapiede. Scaldandomi le mani nelle tasche lo incalzavo perché continuasse a raccontare.

Mi piaceva starlo ad ascoltare. A volte usava toni da romanzo.

«Quando eravamo bambini le gambe di mio fratello dovevano servire due padroni. Mi portava spesso appeso alla schiena, e passeggiavamo nei boschi dietro casa fino a sera. Mi sembrava davvero di avere due gambe tutte mie. Stavamo spesso da soli, senza parlare. Eravamo un mostro a due teste. A volte invece lo costringevo a parlare, per sentire le vibrazioni della sua voce nel mio torace. In quei momenti ero capace di addormentarmi appeso alla sua schiena. Solo quando siamo cresciuti mi è capitato d'invidiarlo, e a volte anche di odiarlo. Rivolevo le mie gambe, e per riaverle gli avrei succhiato il cervello...» «Lo odia ancora?» «No, lui non lo merita... Ha la mia benedizione...

Comunque adesso voglio cambiare tutto» disse a sorpresa, con gli occhi accesi.

«Tutto cosa?» «Ho le gambe atrofizzate, ma voglio pensare di avere solo dei brufoli sul viso come la ragazzina del bar... Potrebbe non essere poi così diverso.» «Invece lo è» dissi.

«Dipende tutto da come si vive la propria condanna» puntualizzò lui.

«Si devono fare i conti con le cose vere.» «Ci sono brufolosi più complessati di me, donne grasse che frignano tutte le sere mangiando insalata e frutta. Non mi fanno certo pena, ma di sicuro soffrono molto. Ognuno vive nel proprio mondo, e fa i conti con quel che ha. E solo una questione di risorse personali.» «Chi è quella donna?» chiesi all'improvviso. Mi sembrava il momento giusto. Lui rimase in silenzio, e avevo la sensazione che sorridesse. Spingeva le ruote con delicatezza, adeguandosi al mio passo lento.

Le persone che ci venivano incontro erano costrette a scendere dal marciapiede, dopo aver lanciato un'occhiata furtiva all'uomo in carrozzella.

«Abita nel palazzo di fronte al mio» disse Yalta, quando ormai non speravo più che mi rispondesse.

«Immagino che sia bella...» «Non solo... Ha qualcosa di speciale...» «Tutti gli innamorati dicono così.» «E lei pensa che mentano?» «Certo che no.» «Mi sono rotto le scatole di ricorrere alla manualità e alla fantasia... Non so se mi spiego.» «È stato chiarissimo.» «Ho passato la vita a nascondermi. Mi sono stufato, adesso deve cambiare tutto. Voglio parlare con chi mi pare e di qualsiasi cosa. Lo sa quali sono i momenti più bassi della mia vita?» Fece una pausa, e aspettò che io gli chiedessi quali erano.

«Quando spio dalla persiana chiusa e guardo quella donna che passa ondeggiando sotto le mie finestre...

Catturo con gli occhi le curve del suo corpo, ammiro la luce del suo viso, mi bevo la vita che passa davanti a me... Poi penso alle mie gambe e dico: "Se potessi avere anche solo una carezza da quella donna bellissima, sarei un uomo felice". Non c'è nulla di peggio di una brutta poesia, nemmeno l'invidia.» «Devo confessare che l'immagine che ho sempre avuto dei... disabili... Be', non è molto diversa.» «Finché lo pensa lei e tutti quelli come lei, non è così grave... Il fatto è che l'ho sempre pensato anch'io.

Sono stato un vigliacco, e me ne vergogno quanto basta. Sono stato vile, ma anche presuntuoso.

Cercavo di sentirmi speciale, di trasformare la mia tara in qualcosa di eroico. Un'idiozia ciclopica.

Vivere così vuol dire vivere in un profilattico, vuol dire avere sempre paura del momento della sconfitta...

Momenti che non hanno mai risparmiato nessuno.

Voglio desiderare quanto posso, buttarmi nella mischia, voglio sentirmi dire di no, voglio picchiare ed essere picchiato. Come fanno tutti. Non me ne importa nulla se andrà bene o male, voglio solo che sia tutto vero.» Fece un sospiro, e io sospirai con lui.

Il sole stava tramontando. Sull'asfalto e sui vetri delle case brillava una luce nuova, dorata, che illuminava la scia rapida delle ultime gocce. La gente ricominciò a camminare con calma.

Ci separammo quando smise di piovere del tutto.

M'incamminai verso casa tremando di freddo. Cercai di immedesimarmi in Davide Yalta, e sentii una grande gioia per le mie gambe in movimento. Mi era rimasta sulle dita la sensazione della sua stretta di mano, forte e decisa. "Arrivederci Trotti" aveva detto, con un sorriso da demonio. Se n'era andato pilotando la carrozzella con abilità, con i capelli che gli si alzavano sulla testa per il vento. Per non guardarlo avevo girato la schiena e mi ero allontanato. Ci eravamo lasciati senza scambiarci i numeri di telefono, e senza dirci che ci saremmo rivisti da qualche parte. Nessuno dei due ne aveva sentito il bisogno.

Almeno da parte mia, non certo per disinteresse.

Ero sicuro che lo avrei rivisto.

Arrivai a casa infreddolito, e per scaldarmi le mani lavai i piatti. Preparai la cena e portai tutto in tavola, nel tinello. Accesi il televisore e cominciai a mangiare. Mi sentivo strano. Ripensavo a Davide Yalta, cercando di capire quali sensazioni provavo.

Il suo modo di fare mi aveva un po' spiazzato. Ma non volevo starci troppo a riflettere. Non era poi una cosa così importante. Non era successo nulla di straordinario, in fondo. Magari solo qualcosa di insolito, pensai. Alla fine smisi di pensarci...

Alla TV un giornalista stava intervistando la mamma di un italiano trucidato in Africa. La telecamera traballava, cercando di ingabbiare il viso piangente della donna, che non stava fermo un momento. La voce fuori campo incalzava la poveretta, e il microfono inseguiva la sua bocca in una corsa oscena.

«Quand'è che ha visto suo figlio per l'ultima volta?

Come lo ricorda? Quando le hanno detto che era stato barbaramente ucciso? Cos'ha pensato quando ha saputo che era stato ucciso a colpi di machete?

Cos'è che le manca di più di suo figlio? Signora, non faccia così, non pianga!» La donna continuava a muoversi sulle gambe, e il suo viso tremava come una ricotta. A un tratto si affacciò dentro lo schermo, voleva gridare il suo dolore ma non riusciva a parlare, il mento le saltellava, e dopo un guaito chinò il capo in avanti e afferrò la nuca. Cercava di andarsene, ma la telecamera la seguiva...

La gente deve sapere... Dio, Patria e Notizia!

Si deve sapere, cazzo, come piangono le mamme italiane!

La donna riuscì finalmente a infilarsi nel portone di casa sua, e il filmato s'interruppe... E ora veniamo alle notizie economiche... Sensibile aumento dell'inflazione nel mese in corso...

Ma ormai non riuscivo più a seguire. Mi era rimasto in mente il guaito di quella donna oltraggiata da Dio e dalla televisione. Era un suono buffo, ridicolo, faceva ridere... Nulla di più tragico. Era meglio dimenticare tutto. I telegiornali erano un test di tenuta psicologica. Da ogni parte del mondo, valanghe di dolore, tragedie, ingiustizie, fame, orrore...

Non era più sana l'epoca dei bisnonni, quando la realtà arrivava più o meno dove riusciva ad arrivare lo sguardo?

Sparecchiai la tavola, e mi sedetti in poltrona con un bicchiere di vino in mano. Accesi anche una sigaretta.

Stava per cominciare un programma culturale.

Bene, avevo proprio voglia di rilassarmi un po'.

Sigla intelligente e divertente, musica piacevole. Un uomo seduto in poltrona come me introdusse il primo argomento.

«Un caro saluto a tutti i telespettatori... Cominciamo subito... Abbiamo qui la madre di un bimbo morto a causa di una terribile malattia, dopo anni di sofferenze inimmaginabili: un calvario che si è concluso con una morte pietosa. Una storia di ospedali e di viaggi complicati, di disperazione, di solitudine.

Una madre in estrema difficoltà abbandonata a se stessa, ignorata dallo Stato. Ci si domanda: si poteva fare qualcosa? Mariolino poteva essere salvato? Ma ci racconti lei signora, in trenta secondi, la vicenda del suo figlioletto strappato alla vita da un destino così spietato... Nessuno meglio di lei può farci capire l'assurdità di questa vicenda, che pare impossibile sia potuta accadere in un mondo che ormai governa lo spazio come l'orto di casa... Ecco, tocca a lei signora.

L'ascoltiamo.» Venne inquadrato un viso che strappava il cuore, un'altra mamma sofferente. Sotto due occhi consumati si aprì una bocca stanca e rinsecchita.

«Mio figlio era un bimbo meraviglioso. Lo vedevo soffrire, morire ogni giorno, e quel povero pulcino trovava lo stesso la forza di sorridermi, di dirmi che non dovevo preoccuparmi per lui.

"Scusa mamma" mi diceva "scusa se adesso devi piangere un pochino." Così diceva, e con la manina mi salutava da dietro il vetro della stanza d'ospedale. Ci parlavamo attraverso un microfono. Lo guardavo ma non potevo toccarlo, un abbraccio di sua madre poteva ucciderlo...

I virus, dicevano, i batteri...» La donna piangeva, ma non smetteva di parlare. «A volte ho perfino pensato: muori, piccino mio, muori presto, che la mamma vuole toccarti le gambine, vuole sentire come sei fatto e baciarti tanto... Oh Dio!» «Davvero una storia tragica... Molto toccante...

Signora, la ringrazio a nome di tutti i telespettatori...

E dopo la pubblicità volteremo pagina... Entreremo nel mondo della seduzione! Restate con noi...

A tra pochissimo... Non cambiate canale, mi raccomando...» La madre piangente scomparve. Cinque secondi di sigla. Cominciò la pubblicità e ne approfittai per andare in bagno. Me la presi comoda, e passai anche dalla cucina a riempire di nuovo il bicchiere. Quando mi sedetti di nuovo in poltrona, ricominciò il programma.

«Ci occuperemo adesso di una psicologa di Milano, che dopo lunghi anni spesi nel campo della ricerca scientifica ha deciso di inaugurare un corso di seduzione. Siamo in collegamento con i nostri studi di Milano per sentire direttamente dalla sua voce cosa l'ha spinta a una scelta che appare, direi, quantomeno insolita e originale. Vedo già alle mie spalle la dottoressa Frustini... Buonasera dottoressa.» Una donna occhialuta e di bell'aspetto riempì quasi tutto lo schermo. La sua voce tendeva al falsetto, ma era sopportabile.

«Buonasera a tutti. Vengo subito alla sua domanda.

Per molti anni ho riflettuto sul fatto che vi fosse la necessità, vista l'apatia sentimentale che domina la nostra era, di una rieducazione del desiderio in senso lato, e finalmente mi sono convinta che una stimolazione specifica che miri a smuovere in profondo l'aspetto ludico del desiderio e del desiderabile sia come oggetto concreto, sia come metafora, possa contribuire a risvegliare il mondo dei sentimenti nella sua interezza, e devo dire che...» Mi addormentai.

 

Mi svegliai tardi, già stanco. Avevo lottato tutta la notte con un brutto sogno. Il barometro aveva drizzato il suo ago, era una bella giornata di sole. Avrei dovuto mettermi a lavorare sul romanzo, ma non ne avevo voglia. Uscii di casa e comprai il giornale. Lo sfogliai per leggere velocemente i titoli, e me lo piegai sotto il braccio. Mi stavo avviando verso una destinazione ignota quando mi sentii chiamare.

«Trotti! Che falcata!» Riconobbi la voce e mi voltai. Davide Yalta. Mi stava venendo incontro spingendo le ruote con le due mani insieme, i gomiti su e giù, come due pistoni. Mi frenò davanti.

«Stavo andando a sgranchirmi un po', mi accompagna?

» disse.

C'incamminammo verso piazza Beccaria, facendo frusciare le foglie accumulate sui marciapiedi.

Lontano, di là dal viale, due ragazze carine ridevano e si davano spinte. Davide le guardava senza staccare gli occhi.

«Belle gambe» disse afferrandomi improvvisamente una coscia, e scoppiò a ridere. Spazzai via la sua mano senza complimenti.

«La sua è un'ossessione» dissi, infastidito.

«Le pare strano?» «Le faccio presente che esisto anch'io.» «Non mi dica che si è offeso...» «Non mi piacciono queste buffonate. Se ha un rospo nello stomaco cerchi di sputarlo dalla parte giusta» dissi. Yalta rimase in silenzio per qualche secondo, poi scosse la testa e fece una risata. Lo ignorai.

Arrivammo davanti a una scuola superiore all'ora dell'uscita, e per desiderio di Davide ci fermammo.

Un fiume di ragazze stava uscendo dal portone. Maschi ce n'erano pochi. Davide seguiva con gli occhi ogni ragazza che gli passava davanti. Il vocio dilagava nel viale, sembrava di sentire quegli uccelli africani che si radunano a migliaia nelle paludi.

«Giovanissime» borbottò Davide.

«Sono bambine» dissi. Lui sorrise, senza staccare gli occhi dalle ragazze.

«Le guardi bene, Trotti. Sotto le prime piume di femminilità si vede ancora l'infanzia. E per questo che mi piace osservarle. Sono una mescolanza di verità e di artificio. E un momento di passaggio, il momento in cui può arrivare ogni invenzione. Molte di loro cederanno presto alla banalità, forse quasi tutte.

Altre s'immobilizzeranno in un'originalità qualsiasi, un movimento apparente. Solo alcune diventeranno delle donne speciali. Ma la trasformazione è adesso. Mi piace guardarle così, in questa età cruciale.

Mi piace vedere come il gesto affettato s'innesta sulla naturalezza infantile, come la spontaneità cede all'artificio. E una sorta di decadenza, per questo mi emoziona. Mi capisce Trotti? Il momento del declino...

L'antitesi dell'immobilità. In ciò che si corrode colgo il movimento, la trasformazione, il cuore della tragedia. Solo questo sa emozionarmi...» Non dissi nulla. Guardavo quelle ragazzine cercando la decadenza nei loro visi freschi e luminosi, stordito piacevolmente da quel borbottio di voci acute. Vedevo solo un branco di bambine piene di vita.

«Ci viene spesso?» chiesi a Davide.

«Abbastanza. Non sempre la stessa scuola, s'intende.

Ma non si meravigli, Trotti, se le dico che a volte scelgo una scuola elementare o un asilo.» «La decadenza dei bambini?» «Non potrei godere questi momenti se non conoscessi i bambini» disse Davide.

«E pensa di conoscerli guardandoli da lontano?» «Basta guardarli negli occhi. I bambini sono cupi, perché sono veri. Sono attratto soprattutto da quelli non troppo piccoli e non troppo grandi. Non sanno ancora i nomi e le formule del dolore, e ci annegano dentro pieni di domande. Niente decadenza.

Sono piccoli eroi. Li guardi bene negli occhi, Trotti... Dentro hanno l'inferno, ma non lo sanno raccontare.» «Non pensa mai di esagerare?» «I bambini sono le creature più sole dell'universo.

Hanno la mente piena di mostri senza nome, combattono contro fantasmi spaventosi, ma crescendo li dimenticheranno, come li abbiamo dimenticati io e lei. Ci pensi un po', Trotti... A chi interessa il mondo dei bambini? Il più delle volte vengono sospinti con benevolenza in un luogo spensierato e felice che i grandi hanno inventato per loro, un luogo che non esiste...» «È stata così la sua infanzia?» «Che c'entra? Non si perda nelle grinze del contingente...

La metta come vuole, Trotti, ma se osserva i bambini con attenzione capirà un sacco di cose.

Crescendo impareranno a buttare via il meglio di quel che hanno... Non le dice niente questo?» «Mi ci faccia pensare un po'...» borbottai. Lui alzò le spalle e avanzò con la carrozzella verso il portone della scuola. Non lo seguii, e rimasi appoggiato a una transenna di ferro. Le ragazzine se ne andavano sui motorini o sparivano dentro le macchine. Era rimasto solo qualche gruppetto a chiacchierare, e lentamente anche quelli si stavano sciogliendo. Davide si avvicinò a quattro ragazze che si erano fermate a ridacchiare davanti all'ingresso della scuola.

«Scusate, Valentina oggi non c'è?» chiese.

«Valentina? In che sezione è?» disse una delle ragazze.

«La G» fece lui, serio.

«È la nostra» dissero le ragazze in coro.

«In quale classe?» chiese una morettina.

«La quarta» disse Davide.

«Noi siamo in quinta G, ma non mi pare che in quarta ci sia una Valentina.» «Che strano... Eppure mi è apparsa in sogno stanotte e mi ha detto che faceva la quarta G.» «Come dice?» chiese una delle ragazze, imbarazzata.

«Dicevo che Valentina aveva promesso d'insegnarmi a saltare la corda...» disse Davide, sorridendo.

Le ragazze arrossirono e si scambiarono un'occhiata.

Ma Davide non aveva ancora finito.

«Uh, già... Che stupido che sono... Io non ce le ho mica le gambe...» disse tirandosi uno schiaffo sulla fronte, e scoppiò in una risata idiota. Si voltò verso di me studiando la mia reazione, e mi trovò serio.

Le ragazze se ne andarono di corsa, impaurite.

Davide mi venne incontro spingendo le ruote con decisione.

«Volevo solo farle ridere» disse.

«Non mi pare che ci sia riuscito.» «Non ho fatto ridere nemmeno lei?» «Le confesso che il suo teatrino mi ha disgustato.» «Solo perché lo ha visto dal vero, in televisione sarebbe stata tutta un'altra cosa» disse Davide, sorridendo. I suoi occhi intelligenti luccicavano di ironia.

«Non riesco a capire dove vuole arrivare.» «Volevo soltanto far sorridere quelle dolci ragazzine» disse di nuovo Davide, con aria innocente. Lo salutai con un cenno e me ne andai.

Tornai a casa. Nel pomeriggio provai a scrivere un racconto che avevo in testa da un po' di tempo, ma non mi venivano le parole. Scrivevo una riga e la cancellavo. Mi sarebbe piaciuto almeno cominciarlo.

Bastava una frase riuscita, e la sera me ne sarei andato a letto tranquillo. Ma non veniva fuori nulla.

Mi sentivo vuoto.

Verso le sette Davide mi chiamò al telefono.

«Stamattina cosa le è preso, Trotti? Se n'è andato di corsa come se avesse la pasta sul fuoco...» «Non mi pareva di averle dato il mio numero.» «Esistono gli elenchi... Ma non mi ha risposto...» «Non faccia il bambino, Yalta» dissi.

«Forse lo sono.» «Gliel'ho già detto, non mi piace il suo teatrino.

Lo trovo macabro e volgare.» «Sto solo prendendo coraggio» disse lui.

«Che significa?» «Significa che lei le donne le conosce, non è così?

Bravo Trotti! E io? Chi l'ha mai vista una donna da vicino? Che odore ha? Cosa c'è dentro? Come si usa? Mi sto preparando, Cristo! Pensa che non mi costi niente fare quelle scene da squilibrato? Non ho tempo da perdere! Da che parte si comincia a manovrare?

Per me tutto questo è qualcosa di nuovo, e non voglio certo mettermi a mendicare... Capisce cosa dico?» «No.» «Sono rimasto per secoli rinchiuso nel mio buco, ho ancora le ragnatele addosso. Sto cercando di uscire da quel buco... Ora capisce?» «Temo di no.» «Lei è un animale, Trotti!» urlò Davide.

«Può darsi» dissi, calmo. Lo sentii respirare forte e lo immaginai seduto in bilico sulla sua carrozzella, con i freni tirati.

«Mi deve scusare, Trotti. Sono nervoso, è colpa di questo maledetto tempo. In realtà l'avevo chiamata per un altro motivo. Le va di venire a cena da me? Non si aspetti cucina francese...» «Le confesso che sono un po' stupito.» «E cosa c'è di meglio, che essere stupiti?» «Mi dia l'indirizzo.» Alle otto e mezzo mi fermai davanti a un bel palazzo di piazza D'Azeglio, diviso in grandi appartamenti.

Seguendo le istruzioni di Davide spinsi il cancello e m'infilai nel giardino. Andai avanti, e trovai un portone aperto. Entrai nell'ingresso e mi feci portare in alto da un vecchio ascensore traballante, fino all'ultimo piano. Davide mi aspettava sulla soglia, con le mani sulle ruote. Indietreggiò per farmi entrare, e nell'ingresso notai un busto di marmo con un vero cappello sulla testa. Raffigurava un uomo sulla settantina, malinconico e orgoglioso. Aveva un viso da vecchio ebreo, con il naso ricurvo e la fronte spaziosa.

«Mio padre» disse Davide, vedendo che guardavo il busto. Mi fece strada scivolando con la carrozzella sui pavimenti. Mi staccò di qualche metro. In fondo al corridoio girò a destra e sparì dentro una stanza. Quando mi affacciai sulla soglia lo trovai girato verso di me, con le mani una sull'altra.

«Una bella casa» dissi, guardandomi intorno.

«Lei trova?» Eravamo in una sala dai soffitti altissimi.

Mobili antichi di legno scuro, vecchi volumi allineati sugli scaffali di grandi librerie, ritratti a olio tra i quali riconobbi suo padre. Mi sentivo bene in quella casa, senza capire il perché.

«Be', lei dev'essere piuttosto ricco» dissi, continuando a osservare la sala.

«Vuole fare a cambio? Di ogni cosa, però...» «No, grazie. Mi tolga una curiosità, come mai non ha una carrozzella elettrica?» «Non vorrei rinunciare ai muscoli che mi restano.» «Mi pare giusto.» Sentivo nel naso l'odore inconfondibile dei libri antichi, e avanzai nella sala per guardare le librerie da vicino. Gli scaffali erano pieni fino al soffitto.

«Li ho letti tutti» disse Davide.

«Una bella pazienza...» «Tutti, fino all'ultimo. E a cosa mi è servito? La sera mi arrampico sul letto e non ci trovo mai quello che vorrei.» «Mi fa vedere tutta la casa?» «Venga.» Cominciammo a visitare il museo.

L'arredo più moderno aveva almeno un secolo, e l'eleganza non permetteva al lusso di predominare.

«Vive solo?» gli chiesi.

«Vorrebbe dire che non sono in grado?» «Vuole farmi capire che con lei non bisogna mentire?» dissi. Lui sorrise, e continuammo il giro.

Quante stanze aveva quella casa? Seguii Davide in fondo al corridoio, e lui spinse l'ennesima porta.

«La palestra» disse, accendendo la luce. Era una stanza non grande, ben illuminata, assai diversa dalle altre. Quasi vuota, a parte uno scaffale con qualche peso per allenare le braccia. Mi colpì una corda tesa che tagliava la stanza in diagonale, fissata saldamente al muro a circa un metro e mezzo da terra.

«A che serve?» chiesi.

«A camminare» disse lui.

«In che senso?» «Vuole vedere?» disse Davide. Non aspettò la risposta, e si lanciò con la carrozzella verso l'angolo più lontano della stanza. Afferrò la corda con tutte e due le mani e si tirò su con la forza delle braccia. Me lo vidi davanti con le gambe ciondoloni. I piedi sembravano quelli di un burattino. Una dopo l'altra buttava le mani in avanti aggrappandosi alla fune, come Tarzan. Il suo viso diventava sempre più rosso, e cominciò a sudare. Aveva il fiato grosso per la fatica, ma si preoccupava di lanciarmi occhiate rassicuranti.

Era una scena infinitamente triste, ma anche buffa.

Lo vedevo in difficoltà, ma non mi azzardai a intervenire.

Arrivò ansimando fino all'angolo opposto, girò su se stesso e tornò indietro. Finalmente si gettò sulla carrozzella, esausto. Lentamente riprese fiato, e mi guardò.

«Non è ridicolo? Sì che lo è, ma io ci vado pazzo.

Ha fame?» disse, tornando verso di me sulle ruote.

Cenammo con calma, chiacchierando, accompagnati da un buon vino rosso. Aveva cucinato tutto da solo, mi disse. Gli feci i miei complimenti.

Dopo cena andammo in biblioteca, portandoci dietro il vino e i bicchieri. Mi sedetti comodo su un divano che odorava di vecchie zie, e lui si piazzò davanti a me sulla carrozzella.

«Ho spedito quella lettera» disse, dopo un lungo silenzio.

«Quale lettera?» «Sa bene di cosa parlo.» «Ah, quella lettera...» «Se Elena accetta l'invito ci sarà da divertirsi» disse lui, ridendo. Ma sembrava teso.

«Chi è questa Elena?» chiesi.

«La fata turchina, o meglio la principessa che dovrebbe baciare il rospo...» disse Yalta.

«Non può essere più preciso?» «Non so nulla di lei, la vedo solo entrare e uscire da un portone, qua davanti. Qualche volta la intuisco dietro una tenda... Una cosa patetica.» «Cosa le ha scritto?» «Le ho confessato di essere un guardone e l'ho invitata a cena.» «Ce l'ha già nel letto» dissi, sorridendo.

«Ho omesso soltanto un particolare...» «Mi lasci indovinare. Lei non le ha scritto nulla della sua... condizione. E adesso ha paura, ma forse è proprio quello che vuole. Se quella donna accetterà l'invito, si troverà davanti un infermo e aprirà la bocca dalla meraviglia...» «Continui...» sussurrò Yalta.

«Lei ha nascosto la sua infermità alla fata turchina proprio perché vuole vedere il lampo di delusione nei suoi bellissimi occhi, vuole essere punito per aver osato... Vuole essere ricacciato definitivamente nel suo buco, ma la responsabilità dev'essere di qualcun altro. E disposto a farsi crocifiggere, pur di avere a disposizione un aguzzino, una figura da odiare e magari da perdonare... So di ripetermi, ma è un teatrino idiota. E la vittima non fa piangere nessuno» conclusi. Davide scosse il capo.

«Con la fantasia si possono scrivere dei bei romanzetti, caro Trotti» disse.

«In che senso?» «La verità è ben diversa. Non ho rivelato alla bella Elena di Troia la mia condizione solo perché altrimenti non sarebbe venuta... O al massimo si sarebbe proposta come infermiera. Come vede è stato un espediente pratico, una strategia. Tutto molto più semplice, più dozzinale. Ma se vuole la complicazione, eccola: vorrei che quella donna mi vedesse come sono, senza essere preparata. Voglio scontrarmi con la verità, sia pure dolorosa... Del resto me ne frego!

» disse Davide, dando uno scossone alle ruote.

Doveva essere il suo modo di battere i piedi.

«L'ultima frase mi ricorda qualcosa» dissi, per provocarlo.

«Molto divertente, ma se permette riderò più tardi » fece lui, cupo.

«Era solo una battuta.» «Molti dei miei parenti si sono trasformati in fumo ad Auschwitz, e non erano andati in Polonia di loro spontanea volontà... Non so se mi spiego.» «Era solo una battuta» dissi di nuovo, imbarazzato.

Dopo un lungo attimo di silenzio gli chiesi di raccontarmi ancora qualcosa della sua famiglia. Lui accennò un sorriso, e mi accontentò. Mi parlò di suo padre, di suo padre, di suo padre. Nei suoi racconti mancava la mamma. Lo ascoltavo con attenzione, il suo modo di parlare mi piaceva. Mi affascinava.

Aveva una visione ampia delle cose, anche delle più piccole. Trapassava dalla superficie al midollo tutto ciò che gli capitava tra le mani. Faceva commenti inaspettati, si lanciava in congetture apparentemente assurde, a volte quasi folli... ma sempre plausibili.

Una specie di sinfonia innovatrice. Saltava da un periodo all'altro della sua vita senza mai perdere il filo del racconto...

 

Uscii dalla casa di Yalta piuttosto tardi, dopo un'energica stretta di mano. Appena mi trovai sul marciapiede sentii un rumore. Alzai gli occhi verso le sue finestre e lo vidi affacciato al davanzale. Mi indicava i giardini della piazza... Cosa voleva dirmi? A un tratto vidi avanzare nel buio la sagoma di una donna, e capii che era Elena. Invece di andare verso la macchina m'incamminai a piedi nella sua direzione, per guardarla meglio.

"Io so chi sei" pensavo, andandole incontro. Era un po' come spiare. Quando le passai accanto mi lanciò un'occhiata distratta. Aveva un bel viso, lunghi capelli neri fermati sulla nuca con una pinza, due occhi scuri e pericolosi che mandavano luce.

Pensai a Davide e immaginai il corpo sano di quella bella ragazza. Mi girai a guardarla, era bella anche da dietro. Camminava in modo naturale, con passo sicuro ma leggero. Davide aveva ragione, non era solo una ragazza molto bella, era davvero speciale.

Mi voltai e la vidi entrare nel portone di casa sua.

"Mi piace" pensai. Tornai indietro, e passando sotto la finestra di Davide alzai gli occhi. Lui era ancora lì, immobile. Agitai una mano per salutarlo, ma lui non si mosse. Non capivo nemmeno se mi stesse guardando. Alla fine me ne andai. Montai in macchina, e uscii dal parcheggio con una lama nel cuore.

Se Elena avesse accettato l'invito di Yalta...

"Mi piace" pensai di nuovo. Avevo ancora negli occhi l'ombra immobile di Davide, affacciata al davanzale.

 

Ci trovammo qualche giorno dopo, di mattina, al solito bar. Ci eravamo dati appuntamento per le dieci.

Era uno degli ultimi giorni dell'inverno. L'ultimo freddo, quindi sopportabile. Il sole si stava dando da fare e le piante erano gonfie di vita, pronte a scoppiare.

Sui rami scheletrici si drizzavano le gemme.

Davide entrò poco dopo di me. Ordinò due tè, e mi si avvicinò.

«Eccoci qua, Trotti» disse, sistemandosi la coperta scozzese sulle ginocchia.

«È molto bella, la sua Elena» dissi a bruciapelo.

«Già» fece lui. Bevemmo il tè in silenzio. Io guardavo fuori dalla vetrata. Lui fremeva, scalpitava per qualcosa che aveva in mente. In piazza della Libertà il traffico scorreva lento. La porta del bar si apriva di continuo, e ogni volta entrava una ventata gelida.

«Ha impegni stamani, Trotti?» «Sono libero.» «Le va di accompagnarmi in un posto?» «Va bene» dissi. Lui finì il tè, prese la fettina di limone e mangiò la polpa. Sfilai il portafogli, ma Davide mi anticipò scivolando con la carrozzella fino alla cassa. Uscimmo, e lui tirò fuori il cellulare per chiamare un taxi.

«Pronto, signorina?

Voglio una macchina spaziosa, siamo cinque e tutti grassi» disse nel telefono.

Riattaccò e si girò a guardarmi.

«Se non faccio così magari arriva una macchina piccola, e questo coso non c'entra» mi spiegò, battendo le mani sulle ruote.

«Dove stiamo andando?» «Lo vedrà fra poco» disse Davide, con aria antipatica.

Dopo un minuto dal viale Matteotti sbucò un grande taxi Mercedes, e davanti al bar rallentò a passo d'uomo. Il tassista si guardava in giro per cercare cinque persone grasse. Davide agitò una mano verso la macchina, ma l'autista fece un gesto per dire che era occupato e ci passò davanti spiando il marciapiede, alla ricerca dei suoi clienti.

«Sono io che ho telefonato» urlò Davide, rotolando dietro alla Mercedes. L'autista si fermò più avanti e scese. Era basso e forte, con la testa grossa.

Dopo una breve discussione l'equivoco venne chiarito, e con l'aiuto del tassista adagiai Davide sul sedile posteriore. Gli passai la coperta scozzese, che lui mi strappò quasi di mano per sistemarsela sulle gambette con gesti nervosi. Era davvero odioso, quella mattina. Come se volesse evitare del tutto ogni possibile compassione. Seguendo le sue istruzioni tedesche riuscimmo a piegare la carrozzella per infilarla nella bauliera.

«Trattatela bene, è la mia Ferrari» disse Davide, con un tono autoritario. Il tassista cercava di non farci caso, non voleva prendersela con un povero paralitico bilioso, ma il sangue gli bolliva e bestemmiava tra i denti. Si sedette al volante e mise in moto.

«Dove, signore?» chiese, guardando Davide nello specchietto.

«Sia sincero» disse Davide, con un sorriso maligno.

«Eh?» disse il tassista, facendo una mossa con il collo molto simile al tic di Tyson.

«Lo dica che mi scaricherebbe volentieri sul marciapiede...

Ma non ne ha il coraggio, perché alla televisione ha imparato che bisogna avere pietà per gli infermi. Sa dove me la ficco la sua ipocrita e cattolica pietà?» «Dove vuole andare?» chiese di nuovo il tassista, serrando i denti. Io avevo incrociato le braccia, deciso a tenermi fuori da quella stupida situazione. Davide finalmente si degnò di pronunciare un indirizzo, e il taxi si mosse infilandosi in mezzo al traffico.

Nel silenzio si sentiva la musichetta della radio, e ogni tanto una voce femminile che smozzicava il nome di una via o la sigla di un taxi. Davide guardava la città con aria disgustata.

«Magnifica, la televisione... Si possono imparare un sacco di cose...» disse, con una smorfia amara.

Dentro il taxi si avvertiva una tensione difficile da ignorare. Avrei voluto essere altrove. Spiavo il tassista, i movimenti quasi impercettibili della sua grossa testa che parlavano per lui. Sembrava una bomba pronta a esplodere. Davide non faceva che sospirare, e mi aspettavo che da un momento all'altro dicesse ancora qualcosa di sgradevole. Invece taceva, e forse era peggio. Quando il cielo si copriva di nubi nere, non vedevo l'ora di sentire il primo tuono che annunciava la burrasca. Ma Davide non diceva niente.

Stava immobile, e osservava con disprezzo il mondo che scorreva di là dal vetro.

Oltrepassammo piazza Beccaria, arrivammo fino all'Arno e tornammo indietro sul viale Amendola.

Poco dopo il tassista accostò al marciapiede e si fermò.

«Siamo arrivati.» «Lo so benissimo, le ho dato io l'indirizzo» disse Davide. L'autista scese e si passò le mani sulla faccia, per calmarsi. Scesi anch'io, e lo aiutai a recuperare la carrozzella. Sollevammo Davide e lo riunimmo alle sue ruote. Gli passai la coperta scozzese.

«Lei non sa guidare» disse Davide al tassista.

«Sette euro e novanta» disse lui, mordendosi le labbra. Davide sfilò con calma il portafogli e pagò la corsa. Controllò il resto e annuì, con aria magnanima.

Il tassista partì sgommando, tirando manate sul volante.

Davide lo dimenticò in un istante. Il suo interesse era tutto per il palazzo che ci stava davanti, un brutto edificio della più brutta architettura fascista, rivestito di travertino annerito. Il fratello scemo del funzionalismo.

Il portone era aperto. Entrammo.

«Dove stiamo andando?» chiesi ancora, annusando nell'aria un odore di cavolo lesso degno di Dostoevskij.

«Non sia impaziente, Trotti» fece lui, pilotando la carrozzella verso l'ascensore.

«A che piano?» dissi, mentre aspettavamo.

«Se la carrozzella non entra nell'ascensore, dovrà portarmi in braccio» fece lui. L'ascensore arrivò.

Non era grandissimo, ma la carrozzella riuscì a entrare.

«Terzo» disse Davide, sporgendosi in avanti per schiacciare il pulsante. Sembrava nervoso. Al terzo piano lo seguii fino a una porta. Sopra c'era una targa in ottone.

Dott. Ditimolli - Impresario Davide suonò il campanello. La serratura scattò ed entrammo in un ingresso sporco da cui partiva un corridoio lungo e stretto. In un angolo c'erano due piante, una in fin di vita e l'altra di plastica. Imboccammo il corridoio. Da una porta sbucò una bionda che ci bloccò il cammino. Aveva una minigonna molto corta e due gambe che si facevano guardare.

«Cosa posso fare per voi?» disse, squadrando Davide dalla testa alle ruote. A me gettò appena un'occhiata, ma mi bastò per capire che se mi avesse invitato a cena non avrei rifiutato.

«Ho un appuntamento con il dottor Ditimolli» disse Davide.

«Chi devo dire?» «Davide Yalta.» «Un secondo, prego.» La ragazza ondeggiò fino in fondo al corridoio e bussò all'ultima porta a sinistra.

Sparì dentro, e uscì dopo un minuto, chiudendo delicatamente la porta. Ci venne incontro con un sorriso imbarazzato e i capelli che fluttuavano. Sembrava la pubblicità di un sapone intimo.

«Mi scusi, signor Yalta...» «Dottor Yalta» la interruppe Davide. La ragazza si fermò davanti a noi. Gli occhi mi andavano da soli sulle sue gambe.

«Mi scusi... Dottor Yalta... Il dottor Ditimolli non ricorda di avere un appuntamento con lei, e al momento non può riceverla.» «Ah, il dottore non può ricevermi...» disse Davide, con la faccia di De Niro in Taxi driver.

«Stia calmo, Yalta» sussurrai.

«Ha molto da fare» aggiunse la segretaria, con un sorriso impaurito.

«Anch'io ho molto da fare, e non ho tempo da perdere» disse Davide.

«Se vuole posso fissarle un appuntamento... Credo che si vada a maggio... Devo guardare l'agenda...» fece lei. Davide sorrise e fece un passo avanti... cioè avanzò di mezza ruota.

«Signorina, sto perdendo la pazienza» disse, simulando un tono dolce.

«Dottore, la prego di capire...» «Sono qui per qualcosa di sensazionale» sussurrò Davide.

«Mi spiace, ma io non posso... Sono solo la segretaria...» disse la bionda con le guance rosse, cercando il mio sguardo. Staccai gli occhi dalle sue gambe e la guardai senza dire nulla. Davide smise di sorridere.

«Lasci da parte le chiacchiere e dica quello che pensa... Lo dica, la prego... Sono queste gambe morte che la mettono in imbarazzo?» disse, dando un colpetto sulla coperta scozzese.

«No... Io...» «Lei è convinta che un paralitico sia solo una perdita di tempo per il suo capo, giusto? E pensa questo solo perché non ho due belle gambe come le sue...» «La prego...» disse la ragazza. Mi guardò ancora, con le gote infiammate. Davide spinse in avanti la carrozzella facendola indietreggiare.

«La prego, dottor Yalta...» «Sono venuto per parlare con Ditimolli e ci parlerò» disse Davide, continuando ad avanzare nel corridoio. Scavalcò la ragazza, che cominciò a inseguirlo pregandolo di fermarsi. Io mi lasciavo trascinare dagli eventi, curioso di capire, e li seguivo da vicino. Davide riuscì ad arrivare fino alla porta di Ditimolli, la spalancò senza bussare e s'infilò dentro.

La segretaria era terrorizzata.

«Mi scusi, dottore... Non sono riuscita a fermarlo...» balbettò. Ero rimasto sulla soglia, e dietro una scrivania piena di carte vidi una faccia grassa e due occhi ingigantiti da un paio di lenti spesse come culi di bottiglia. Ditimolli aveva la bocca aperta dallo stupore, e non riusciva a parlare. Si alzò in piedi con il telefono in mano, tappando il microfono. Era un uomo enorme, ma con le spalle strette.

«Buongiorno» disse Davide, fermandosi davanti alla scrivania.

«Dottore... Cosa devo fare?» chiese la bionda, atterrita. Ditimolli le fece un cenno nervoso, che significava più o meno «si tolga dalle palle», e lei ne fu mortificata. Per consolarla le sorrisi, sperando che mi crollasse addosso in lacrime, ma lei preferì andarsene a piangere da sola. Entrai nell'ufficio e mi chiusi la porta alle spalle. Era una stanza fredda, con la moquette verde e una grande finestra che dava su un muro di cemento. L'aria puzzava di fumo vecchio e di tende sudice.

Lo stupore del dottor Ditimolli era ancora tutto nei suoi occhi deformati dagli occhiali. Fissava Davide, poi me, poi Davide, poi me. Non capiva. E non si rimetteva a sedere. L'avevamo sorpreso a metà di una telefonata e continuava a tenere una mano sul microfono, aspettando che l'apparizione dei due sconosciuti svanisse. Davide stava in silenzio, aspettando la prima mossa di Ditimolli. Dall'interfono venne la voce angosciata della segretaria.

«Dottore, mi scusi... Ma quel... Si è lanciato contro la porta... Non ho potuto...» Ditimolli staccò il contatto con una zampata, continuando a guardarci.

Una sigaretta accesa giaceva nel posacenere, e una riga di fumo saliva verso il soffitto serpeggiando.

Mancava solo la musica di Morricone. Al suo posto si sentiva un mugolio che veniva dal telefono che Ditimolli aveva in mano, e finalmente lui riattaccò.

«Chi siete?» domandò, spingendosi gli occhiali sul naso. Ributtando giù la mano urtò una pila di fogli che cadde in terra sparpagliandosi sul pavimento.

Prima che potesse bestemmiare, nella sua tasca suonò un cellulare... Era il caos. La mano di Ditimolli correva di tasca in tasca, senza trovare il telefono.

Davide non aveva mosso un muscolo, non capivo cosa volesse fare, come mai mi avesse portato in quella stanza.

Ditimolli trovò il cellulare e rifiutò la chiamata con un gesto stizzoso. Sulla sua faccia restava lo stupore.

Per affermare la mia neutralità mi guardavo in giro con aria indifferente. A una parete era appeso un brutto quadro, e su quella di fronte un calendario con le donnine nude.

«Chi siete?» domandò ancora Ditimolli, con lo stesso tono di prima.

«Mi chiamo Davide Yalta, e come può vedere sono condannato a vivere sulle ruote» disse finalmente Davide.

«Che significa?» «Lui è Trotti, un amico.» Feci un cenno di saluto con la testa. Ditimolli non mi rispose, forse non mi vide nemmeno. Teneva gli occhi fissi su Davide, con una riga sulla fronte che poteva essere preoccupazione o irritazione, non si capiva bene. Non avevo ancora decifrato la sua personalità. Era un duro o un pappamolla?

«Cosa vuole da me?» chiese a Yalta, sempre in piedi.

«Lei è un impresario dello spettacolo... E la definizione giusta?» disse Davide.

«Certo» disse Ditimolli, vagamente tranquillizzato.

Raccolse con calma i fogli da terra, li buttò su uno scaffale e si mise finalmente a sedere. Appoggiò i gomiti sulla scrivania, fissando il paralitico.

«Voglio farle una proposta» disse Davide, avanzando di mezza ruota.

«Sentiamo...» «Ho un'idea fenomenale...» continuò Davide.

L'impresario dello spettacolo aspettava, incuriosito.

Io ero più curioso di lui.

«Voglio fare il comico, mi ci sento portato» disse Davide, rivelando la sua idea fenomenale. Ditimolli mi lanciò un'occhiata disperata, forse sperando che io fossi uno psichiatra. Alzai le sopracciglia per fargli capire che ero all'oscuro di tutto. Ditimolli si fece pensieroso. Si alzò di nuovo, girò intorno alla scrivania e arrivò davanti a Davide. Lasciò andare le mani dentro le tasche.

«Mi faccia capire meglio» disse. Aveva il respiro rumoroso.

«Non le pare un'idea magnifica?» fece Davide.

«Mi faccia capire meglio» ripeté l'impresario, con un tono drammatico. Respirando gli uscì un fischio dalla gola, sfilò dalla tasca una bomboletta e si spruzzò quella roba in bocca, aspirando con violenza.

«Qual è il problema?» chiese Davide.

«In che senso?» disse Ditimolli.

«Pensa che non sia un affare? Oppure non crede alle capacità comiche dei menomati? O magari le sembra una cosa immorale...» «Immorale?» si stupì Ditimolli, come se non conoscesse bene il significato di quella parola.

«Allora cosa mi dice? Possiamo parlare del contratto?

» insistè Davide.

«Signor Yalta...» «Dottor Yalta» lo interruppe Davide.

«Dottor Yalta... Ha pensato bene a quello che mi sta chiedendo?» disse l'impresario.

«Certo che ci ho pensato... Ci rifletta anche lei...

Pensi alla carrozzella...» «Appunto» lo interruppe Ditimolli.

«Appunto cosa?» disse Davide, ostentando stupore.

«Mi dispiace, ma...» cominciò Ditimolli con un tono gentile, poi cambiò strategia e fece un gesto con la mano.

«Non se ne parla nemmeno!» disse con decisione, ma sulla sua faccia era rimasto un velo di meraviglia.

Davide avanzò di un quarto di ruota.

«E così lei ha dei forti pregiudizi contro gli handicappati...» disse, con durezza.

«Non ho detto questo... Semplicemente non funzionerebbe...» «Come fa a saperlo? Chi l'ha stabilito? Quale legge divina lo impedisce?» fece Davide. L'impresario inghiottì un paio di volte.

«Sarebbe uno spettacolo... macabro» borbottò.

«Come fa a dirlo, se non mi ha mai visto?» «La prego, dottor Yalta...» «Non bisogna parlare a vanvera.» «Si fidi della mia esperienza...» disse l'impresario, facendo saltare gli spiccioli nelle tasche. Invece di replicare, Davide voltò la carrozzella e guadagnò il centro della stanza. Si girò verso di noi e bloccò le ruote. Capii con spavento che stava per dare una dimostrazione delle sue capacità comiche, e desiderai di non essere in quella stanza. Lo sguardo di Davide saltava da me a Ditimolli. In quel momento eravamo il suo pubblico.

«Immaginatevi un teatro pieno di gente... Un palco illuminato... Milioni di persone che seguono la trasmissione comodamente sedute davanti al televisore...

E dalle quinte esco io, spingendo le ruote con le mani... Tutti zitti... Non capiscono cosa succede...

Si aspettano la solita lagna sui paralitici... Una storiella commovente per strappare due lacrime prima di andare a nanna... E invece no... Quello che dico spiazza la platea... Anche i paralitici possono fare due passi, volete vedere come?» Davide si buttò giù dalla carrozzella e atterrò con le mani sulla moquette.

Riuscì a mettere il tronco verticale, a stare in equilibrio.

Le sue gambe atrofizzate andavano qua e là, senza controllo. Ditimolli indietreggiò inorridito.

Davide si mise a passeggiare per la stanza, rosso in faccia per lo sforzo. Parlava a fatica.

«L'unica fregatura... è che quando passeggio... non posso toccare... il sedere alle donne... sennò mi spacco i denti... Qui si potrebbe... già ridere... non le pare?» L'impresario lo guardava, poi guardava me, poi Davide... Alla fine si fermò su di me, come se il pazzo fossi io. Davide cadde di lato, sbilanciato dall'ondeggiare incontrollato delle gambe. Corsi ad aiutarlo, ma lui mi allontanò.

«L'ho fatto apposta! Non l'avete capito?» urlò, ansimando. Si mise più o meno seduto sulla moquette, e si asciugò il sudore dalla fronte con le dita.

«La sapete quella dei due paralitici che vanno a puttane?» disse, e raccontò una storiella volgare. Se la rise da solo, poi si trascinò verso la sua carrozzella.

Ci si arrampicò con la forza delle braccia, e sistemò come sempre la coperta sulle gambe.

«Be', che ve ne pare?» disse con il fiato grosso, guardandoci tutti e due. Scambiai con l'impresario un'occhiata drammatica. Chi dei due doveva rispondere?

Sarebbe stato giusto tirare a sorte, come nelle imprese di guerra. Davide scosse la testa, sdegnato.

«Non avete capito nulla... Lo so bene che è una barzelletta stupida e volgare, ma se la racconta un paralitico... diventa geniale!» concluse, soddisfatto.

«Geniale?» disse Ditimolli.

«Una barzelletta del genere non potrebbe mai passare in televisione... A meno che non sia un menomato a raccontarla. E questo non è geniale? Anche la passeggiata sulle mani... Se hai le gambe sane è una coglionata vecchia come il cucco... Ma uno come me... Una cosa sensazionale... Gli handicappati ormai fanno di tutto... Ministri in carrozzella, cantanti, addirittura sportivi... Manca solo una cosa: il comico in carrozzella. Ci pensi bene, e capirà che ho ragione» concluse Davide, fissando Ditimolli. L'impresario si spruzzò ancora in bocca il farmaco per l'asma. Non sembrava che fosse in grado di rispondere.

Mi feci avanti io.

«Yalta, perché non ce ne andiamo?» «Mi lasci stare. Voglio far capire a questo signore che anche i paralitici possono prendersi per il culo e raccontare barzellette sporche come tutti gli altri!» fece Davide, di nuovo alterato. L'impresario si fece coraggio.

«Io non credo in questo tipo di... spettacolo...» «Lei non capisce niente, non sa fare il suo lavoro.» «Può darsi çhe lei abbia ragione... Non ci sono solo io a fare questo mestiere... Provi da qualcun altro...» disse l'impresario, calmo.

«La sua ipocrisia è disgustosa!» gridò Davide.

Suonò il telefono sulla scrivania. Ditimolli allungò una mano e prese il ricevitore.

«Sì? Scusa cara, ti richiamo» bisbigliò parandosi con la mano, e buttò giù. Davide gli andò incontro spingendo le ruote.

«Lei non si rende conto... Io sono il primo uomo sulla terra che usa la propria menomazione per far divertire la gente... E con me rideranno i paralitici, gli emarginati, i discriminati! Dio pensi a salvarli, io li farò ridere!» «Che c'entra Dio?» fece Ditimolli, mordendosi un labbro. Si asciugò una goccia di sudore che gli scendeva sulla faccia. Feci finta di nulla. In quel momento la segretaria bussò e socchiuse la porta.

«Dottor Ditimolli, c'è di là il signor Rabbinetti.

Aveva un appuntamento con lei...» «Gli dica di attendere» tagliò corto l'impresario.

«Ha molta fretta» bisbigliò la bionda. Voleva chiudere la porta, ma sulla soglia apparve una faccia brutta e allungata. Ditimolli gli andò incontro.

«Ciao Rabbinetti, un attimo e sono da te...» disse con un sorriso. Rabbinetti guardava Davide sulla carrozzella, preoccupato.

«Ti aspetto di là» disse. La sua faccia sparì e la porta si richiuse. Mi feci avanti di nuovo.

«Yalta, andiamo» dissi. Lui non mi ascoltava, aveva ancora qualcosa da dire a Ditimolli.

«Pensi bene a quello che le dico, Pappamolli...

Lei sta cercando di negare a un paralitico di raggiungere il traguardo più alto della propria dignità...

Vuole impedirgli di misurarsi con il mondo, di liberare un'intera categoria umana dalla condanna della pietà! Mi sono rotto i coglioni della compassione, non ne posso più di essere rispettato solo perché mi manca qualcosa... E arrivato il momento di cambiare le cose... Tutti ormai fanno dell'ironia sulla propria condizione... Lo fanno le donne, i brutti, i negri, i finocchi, i comunisti... addirittura gli ebrei.

Manchiamo solo noi.» «Non mi sembra il caso di...» «Lei è un reazionario, un antiumanista! Lei sta cercando di bloccare il cammino della storia, ma è una lotta impari. Nessuno può fermare la storia!

Andrò direttamente alle televisioni, e vedrà che mi capiranno! Non se lo dimentichi, se lo scriva sull'agenda alla data di oggi: Ho perso l'occasione della mia vita! Sono un imbecille!» Sentii gemere Ditimolli.

Davide continuò.

«Lei è un filisteo, non merita alcuna indulgenza!

E un misoneista!» «Che?» Ditimolli era stordito.

«Ma le dico di più, anzi glielo ripeto... Lei, Pappamolli, non sa fare il suo lavoro, non ha spirito pionieristico, non sa cogliere le novità del mondo! Si sarebbe lasciato sfuggire anche Presley e i Beatles!

La mia idea diventerà un grande successo, e lei si morderà le mani!» disse Yalta, come se lanciasse un anatema. Ditimolli s'irrigidì, e si spruzzò la medicina direttamente sulle tonsille. Riprese fiato.

«Lei non sa quello che dice» mormorò.

«Sono lucidissimo ! Lo so benissimo che non potrei né fare Iago né Woyzeck...» «La prego...» disse Ditimolli esasperato, con le gote tremanti.

«La prego io di non essere gentile con me! Lei mi odia!» urlò Davide. L'impresario decise di rivolgersi a me.

«Tracchi, senta...» «Trotti» lo corressi.

«Sì, insomma... Lo accompagni lei per favore... E suo amico, no? Faccia qualcosa...» disse. Il suo tono non mi piacque, anzi mi dette fastidio, e non risposi.

«Disgustoso...» commentò Davide.

«Be'?» fece Ditimolli, continuando a guardarmi.

A un tratto Davide alzò le braccia al cielo.

«Avrei potuto essere la salvezza dei paralitici!» disse, fingendo un lamento disperato. Una scena lugubre.

Mi chinai per parlargli all'orecchio.

«Yalta, mi ascolti... Con questo panzone sta perdendo il suo tempo» bisbigliai, con aria complice.

Non servì a nulla. Davide non aveva finito la sua arringa...

«Non voglio più vedere storpi lamentosi rintanati nell'ombra! E necessario rivoluzionare la vita dell'uomo in carrozzella! Lei deve tremare, esimio dottor Senzapalle! Uno sputo enorme verrà giù dal cielo e l'affogherà!» A quel punto Davide si afferrò un piede avvizzito con le mani e se lo portò alla bocca.

«Ammirate signori! Io sono il Redentore dei mutilati, il Messia delle bestemmie della Natura!» Soffiando dentro l'alluce cominciò a gonfiarsi le gambe...

Prima la caviglia, poi più su, il polpaccio, il ginocchio, la coscia... Tutto si gonfiava, prendeva forma e consistenza, diventava carne...

«Resurrezione! Pro despectu Christianitatis! Resurrezione in vita! Resurrezione! Anche la Natura ha i suoi martiri, i suoi santi! Vi ho ingannati! Vi ho ingannati tutti!» Si alzò in piedi e cominciò a camminare su e giù per la stanza, dondolando le anche come un brasiliano e dandosi dei colpi violenti sulle cosce... Lo sguardo perfido, terribilmente intelligente...

Alzai il capo dal cuscino, cercando aria. Ero sudato fradicio, ma il sogno era finito. Mi ributtai giù, contento di essermi svegliato. Ma non mi ero sognato tutto. La mattina precedente avevo vissuto davvero quelle cose... Tranne l'ultimissima parte. Mi aveva fatto una certa impressione. La sera tardi, mentre cercavo di addormentarmi, avevo ripensato a quei momenti per liberarmene... E dopo l'incubo mi ero ritrovato di nuovo nello squallido ufficio di Ditimolli...

A un tratto Davide aveva voltato la sedia a rotelle e si era lanciato verso l'uscita. Lo avevo seguito nel corridoio, contento di uscire da quel luogo assurdo.

Il signor Rabbinetti e la segretaria ci avevano guardato passare senza dire una parola... Il paralitico matto e il suo strano amico.

Steso a letto ripensavo ancora a quella mattina.

Non riuscivo a dare un nome alla sensazione che provavo, come se fosse qualcosa di nuovo che non avevo mai vissuto. Pensai a Davide e mi sembrò di volergli bene. Speravo soltanto che la compassione non c'entrasse nulla.

 

Non ci vedemmo per qualche giorno. Stavo perdendo un sacco di tempo dietro a grane burocratiche.

Lo Stato mi chiedeva dei soldi che non gli dovevo, e per dimostrare di avere ragione dovevo farmi un gran culo. Il principio sembrava essere questo: io ti chiedo tutti i soldi che posso chiederti sfruttando ogni equivoco e ogni cavillo, se poi tu riesci a dimostrare che non devi pagare... Be', come non detto.

Con questo sistema l'Agenzia delle Entrate era sicura che almeno qualcuno avrebbe ceduto alla paura pagando balzelli illegittimi. E se un bel giorno ti accorgevi di aver pagato per errore, quei soldi non li avresti mai più rivisti.

Mi alzai e andai a farmi una doccia.

Poi c'erano le nuove leggi e leggine e decreti e ordinanze e delibere comunali del cazzo... Leggi retroattive se dovevi pagare per gli anni passati, e non retroattive se dovevi recuperare dei pagamenti ingiusti.

Sembrava di vivere sotto una dominazione straniera. Mi veniva voglia di prendere la doppietta e di salire in montagna. Ormai mi sembrava l'unica soluzione per difendersi dai veri ladri, quelli che governavano, quelli che rubavano più di tutti e che non sarebbero mai andati in galera.

Mi lavai i denti e mi pettinai. Ero sempre più incazzato.

Tutta quella moda delle buone maniere mi dava sui nervi... Non bisogna urlare, non bisogna essere violenti, bisogna essere civili. Non mi tornava. Se uno che lavora come una bestia con il risultato di non arrivare in fondo al mese vede i potenti che si mettono in tasca montagne di soldi e non pagano nemmeno il parcheggio... Costui ha il diritto di essere violento, di disturbare, di non essere civile...

Insomma facevo un sacco di bei ragionamenti. A volte mi capitava, appena sveglio. Poi durante la giornata dimenticavo tutto, e vivevo tranquillo...

Squillò il telefono. Era James, un mio amico inglese che abitava a Manchester. Ogni tanto scendeva in Italia per lavoro. Era diretto a Napoli, e mi chiese se poteva fermarsi a dormire da me. Nessun problema, dissi. Era già sotto casa, e mi suonò il campanello. Preparai un caffè, e ci mettemmo a parlare seduti in cucina.

Decidemmo di andare fuori a fare due passi. Avevamo già infilato i cappotti, e in quel momento telefonò Davide. Mi invitò a cena da lui. Gli spiegai che ero con un amico, e Davide disse che poteva venire anche lui.

«Nessun disturbo, Trotti» disse, sentendo che non parlavo. James mi faceva dei cenni per chiedermi chi fosse. Sorrideva, pensava a una donna. Gli voltai le spalle.

«Non so se il mio amico...» «Saremo in tre, il numero perfetto» disse Davide.

Cercai di rifiutare l'invito con una scusa. Mi girai a guardare il ghigno di James, e continuai a giustificarmi con Davide molto più del necessario. Parlavo più a me stesso che a lui. Alla fine tagliai corto e riattaccai.

«Chi era?» mi chiese James, strizzandomi l'occhio.

Lo ignorai. Non riuscivo a togliermi dalla testa che avevo rifiutato l'invito di Yalta solo perché mi vergognavo di portare James a cena da un... da un paralitico. La cosa non mi piaceva per niente, non corrispondeva all'idea che avevo di me. E intanto vedevo Davide che si avviava in cucina scivolando silenzioso sulla carrozzella, con la coperta scozzese sulle ginocchia. Cercai di dimenticarmi di lui, non volevo che quella faccenda mi rovinasse la giornata.

Notando la mia agitazione, James mi chiese ridendo chi fosse quella donna, se era very nice, e se era già mia. Feci un sorriso idiota e non dissi nulla.

Lui mi chiese se avevo qualche problema con quella misteriosa ragazza.

«Tu non preoccupare, io capisco bene» disse.

Aggiunse che poteva andare a fare un giro in centro da solo, no problem... Bastava che gli lasciassi le chiavi di casa. Ci saremmo rivisti il giorno dopo, o al suo ritorno da Napoli. Gli dissi che non avevo nessun problema con la mia ragazza, e uscimmo.

La sera a letto, mentre cercavo di addormentarmi, mi tornarono in mente le parole di una donna: "Non hai cuore. Nemmeno nelle cose che scrivi sono mai riuscita a trovarlo. Ami solo quel che è bello, quel che si può stimare con gli occhi e con il cervello.

Ami solo le belle forme, anche se durano poco. Non mi permetto di condannarti, ma non posso più stare con te". Non c'era astio nelle sue parole, solo amarezza.

Prima di andarsene mi aveva dato un bacio sulle labbra, e avevo capito che faceva sul serio. Era bellissima Francesca, e vederla uscire dalla porta mi aveva demolito...

Scivolando nella memoria mi ritrovai ai tempi delle scuole medie. Mi univo a un gruppo di compagni che ogni giorno si accaniva contro un ragazzino con i capelli rossi e il viso da topo. Si chiamava Giacomo.

Sentivo bene che non era giusto, ma ridevo lo stesso di quel ragazzino impacciato che fuggendo verso casa inciampava nella cartella. Lo facevo per meritarmi la stima dei più grandi, e sapevo giustificarmi.

Nei momenti di dubbio mi alleggerivo la coscienza pensando che era solo uno scherzo, che lo facevano tutti. Quella persecuzione durava ormai da mesi, e sembrava non dovesse finire mai. Un giorno, tornando a piedi verso casa dopo la scuola, vidi Giacomo sul marciapiede di fronte. Attraversai la strada e mi avvicinai a lui con la faccia da duro. Con mia grande meraviglia Giacomo mi salutò come se nulla fosse, e continuammo a camminare affiancati. Non c'erano i miei compagni, e mi sentivo libero di fare come mi pareva. Ci mettemmo a parlare normalmente.

Non era mai successo.

Ci fermammo al bivio che separava il nostro cammino verso il pranzo, e Giacomo si mise a raccontarmi delle storie che gli erano successe. Il suo modo di parlare mi piaceva. Lo ascoltavo a bocca aperta.

Con i miei compagni non mi era mai successo.

A volte, per farsi capire, Giacomo usava esempi che non avrei mai saputo immaginare, e la mia ammirazione per lui cresceva. Come se non bastasse, mi nominò i libri che aveva letto negli ultimi tempi, e mi vergognai di non conoscerne nemmeno uno.

Dopo un po' ci salutammo, per non far preoccupare le mamme. Camminando verso casa paragonai Giacomo ai miei compagni di scuola, e mi sentii confuso. Giacomo aveva qualcosa di speciale, mi dicevo.

Il giorno dopo, all'uscita di scuola, i miei compagni cominciarono a tormentarlo come al solito. Gli buttavano i libri per terra, e quando lui si chinava a raccoglierli gli davano manate sul sedere. Con una scusa salutai in fretta e me ne andai. Mentre mi allontanavo sentivo il rumore degli schiaffetti che piovevano sulla nuca di Giacomo. Mi voltai a guardare.

Una donna che passava si mise a sgridare i miei compagni, ma li fece solo ridere più forte. Almeno lei aveva provato a difendere Giacomo, pensai.

Qualcuno gli sfilò una scarpa, l'annusò con una smorfia e la gettò in mezzo alla strada fra le risate di tutti. A quel punto Giacomo si mise a piangere, e prima che potesse guardarmi corsi via, sperando che non mi chiamasse. Svoltai l'angolo e mi misi a correre.

Sentivo vampate di calore sulla faccia. Quel giorno imparai sulla mia pelle cos'era la vigliaccheria.

 

Il giorno dopo James partì per Napoli. Passai una mattina inquieta, in cui cercavo di non pensare a Davide, e per distrarmi lavai la montagna di piatti che si era accumulata nell'acquaio. All'una mi cucinai qualcosa, e dopo pranzo mi misi a lavorare alla sceneggiatura. Mi vennero in mente alcune scene che non mi parevano male. Sembrava una giornata giusta per scrivere, e andai avanti per diverse ore senza accorgermi del tempo che passava. Quando guardai l'ora erano già le dieci. Non avevo fame. Ero intorpidito, avevo gli occhi stanchi. Uscii di casa per fare due passi, e dopo un po' che vagavo senza meta mi trovai a passare sotto casa di Davide. Alzai gli occhi per guardare le sue finestre. Erano accese, e decisi di suonare il campanello. Nessuna risposta. Stavo per andarmene, quando sentii nel citofono la voce scocciata di Yalta.

«Sì?» «Sono io... Trotti... Passavo di qua, la disturbo?» Sentii dei rumori, poi silenzio.

«Yalta, è ancora lì?» Silenzio.

«Mi sente?» «Va bene, salga» fece lui, brusco. Entrai nel portone e m'infilai nell'ascensore. Mentre salivo vidi una donna che scendeva giù per le scale, e riconobbi Elena. Mi sentii un po' in colpa, forse avevo sbagliato a suonare. Ma ormai era fatta. Arrivai in cima. La porta di Davide era socchiusa. Entrai e m'incamminai nel corridoio. Lo trovai in salotto, con un bicchiere in mano. Aveva l'aria pensierosa, e la bottiglia sul tavolino era vuota.

«Mi offre qualcosa?» dissi, sorridendo.

«L'ha vista, vero?» fece Yalta.

«Chi?» «Sì, l'ha vista» disse lui. Me lo leggeva in faccia.

«Ah, dice la donna della lettera?» «Non faccia l'ipocrita, Trotti. Muore dalla voglia di sapere com'è andata.» «Stiamo qui o andiamo a fare due passi?» dissi, per prendere tempo.

«Preferisco stare a casa, se non le dispiace.» «Dove trovo qualcosa da bere?» chiesi, fingendomi allegro. Davide mi indicò la vetrinetta delle bottiglie, fissando nel vuoto. Andai a prendere la bottiglia di cognac e un calice. Prima di tornare da Yalta mi affacciai alla finestra. Guardai il palazzo dove abitava Elena, e vidi muovere una tenda al secondo piano. Era stato un movimento brusco, come se qualcuno stesse spiando e si fosse nascosto. Non dissi nulla a Davide. Andai a sedermi di fronte a lui e mi riempii il bicchiere. Davide si avvicinò con la carrozzella, e riempii anche il suo. Bevve un sorso e sorrise.

«Il romanzo è cominciato, Trotti. S'intitola La bella e il paralitico.» «E le piace?» dissi.

«Lei cosa pensa?» «Non saprei.» «Provi a immaginare» disse Yalta, facendo roteare il cognac nel bicchiere. Finsi di pensarci, sapendo che non avrei detto quello che pensavo.

«Lei ha detto che tornerà?» dissi. Davide mi guardò con un sorriso di compassione.

«Lei è un vigliacco, Trotti.» «E lei comincia a darmi sui nervi con la sua amarezza...» «È quello che voglio» disse lui.

«Bene, vuole sapere cosa ho immaginato? Elena si è spaventata ed è scappata via... Oppure si è impietosita, e si è offerta di spingerle la carrozzella. Ecco, gliel'ho detto, ma non mi sembra giusto. Voglio sentirmi libero di mentire come e quando mi pare.» «E io sono libero di capire che lei è un bugiardo e di smascherarla quando e come voglio» fece lui.

Scossi la testa.

«Faccia come le pare, Yalta, ma questo gioco non m'interessa.» «E cosa le interessa, caro scrittore?» «Le va di raccontarmi com'è andata?» dissi. Lui bevve un sorso e sorrise. Rimase in silenzio a guardare il bicchiere, e aspettai con pazienza. Si vedeva bene che aveva una gran voglia di parlare di Elena.

Finalmente si decise...

«Mentre lei saliva con l'ascensore mi sono detto: caro Davide, sei un imbecille. Quando ho sentito i suoi passi avvicinarsi ho spalancato la porta. Appena mi ha visto seduto sulla carrozzella, nei suoi occhi è passato un lampo. Ho colto tre cose. Fastidio, meraviglia, imbarazzo. Una miscela che conosco bene. L'ho invitata a entrare con un sorriso, e l'ho fatta accomodare sullo stesso divano dove adesso è seduto lei. Nei suoi occhi era rimasta la cosa peggiore, l'imbarazzo. Stava lì e non diceva nulla. Mi sembrava un sogno che fosse davanti a me. Ho parlato solo io per mezz'ora, cercando di non farle vedere la mia agitazione. Le ho detto che ero molto contento di vederla, le ho raccontato le solite storielle sulla mia famiglia e ho scherzato sui miei appostamenti per vederla entrare e uscire dal suo portone. Un paio di volte sono anche riuscito a farla sorridere...» «È già qualcosa» dissi. Mi sentivo triste, e cercavo di tirarmi un po' su.

«Quando mi sono accorto che voleva andarsene, le ho detto che sarei stato molto contento di poterla conoscere meglio.» «E lei?» dissi. Davide finì l'ultimo sorso di cognac.

«Le ho scritto il mio numero su un foglietto di carta e le ho detto che poteva chiamarmi a qualunque ora. Lei ha detto che era molto impegnata, anzi impegnatissima, ma appena trovava il tempo sarebbe sicuramente tornata a trovarmi. L'ho accompagnata alla porta e ci siamo stretti la mano. Fine del primo capitolo. Il titolo del romanzo l'ho cambiato...

S'intitola Tanto va la gatta al lardo...» «Non è un po' troppo raffinato?» dissi.

«Porco pulito non fu mai grasso, come le sembra?» «Troppo poetico, non le pare?» «Ne trovi uno lei» fece Yalta, fissandomi. Sembrava che il gioco gli piacesse.

«La metamorfosi» dissi.

«Perché non Umiliati e offesi?» «I miserabili.» «Uomini e topi.» «L'Odissea.» «Cuore di cane.» «Chiedi alla polvere...» «Memorie del sottosuolo...» continuò Yalta. Mi tirai su e riempii tutti e due i bicchieri. Poi continuammo a giocare.

 

Qualche giorno dopo incontrai per caso Elena in un supermercato. Mi misi a seguirla a distanza, spingendo il carrello vuoto, dimenticandomi di fare la spesa. Ero agitato, ma non capivo come mai. Lei si fermò a metà di un corridoio, di fronte ai barattolini dei sottaceti. Non c'era nessuno. Feci un bel respiro e le andai incontro. Mi fermai accanto a lei.

«Buongiorno Elena, sono un amico di Davide Yalta...» dissi, porgendole la mano.

«Buongiorno» disse lei, sorpresa. Ci stringemmo la mano. Aveva dita sottili e fredde, e qualcosa di orientale nei lineamenti.

«Posso rubarle due minuti?» «Prego...» disse lei, perplessa. Mi feci coraggio e cominciai la mia apologia. Le parlai di Davide... di quanto fosse generoso e delicato, di quanto pulita fosse la sua mente, di quanto lui era capace di darsi agli altri. Non m'importava di essere sincero, volevo solo stare lì a guardare quegli occhi che mi guardavano.

Continuai la mia galoppata cercando di magnificare Davide con osservazioni intelligenti e sottili, in modo che lei vedesse quanto era sensibile e acuto l'amico del paralitico. Trovai il modo di dirle cosa facevo nella vita, pronunciando con modestia le parole scrittore e sceneggiatore. Subito dopo cominciai a dire stupidaggini, sperando di farla sorridere. E piano piano ci riuscii. Continuai a dire cretinate.

Le rivelai che ero dello Scorpione, e lei disse anch'io. Mi coprii la faccia con le mani e feci una battuta sugli sfortunati che s'innamorano degli Scorpioni... il segno più pericoloso dello Zodiaco.

«Nei momenti di angoscia gli Scorpioni trascinano chi hanno accanto nel loro abisso, e quando toccano il fondo tornano verso la luce lasciando in basso il loro disgraziato accompagnatore... Meglio lasciarli soli, gli Scorpioni...» Lei continuava a sorridere, ma nei suoi occhi vedevo ancora un po' di diffidenza. Non le capitava certo di rado di essere avvicinata da un uomo con una scusa qualunque. Era una donna che poteva scegliere, pensai. A ondate mi arrivava il suo odore, che sapeva di sole e di giovinezza. Guardavo le sue labbra che si schiudevano per sorridere, i suoi dentini piccoli e bianchi, e pensavo a come sarebbe stato bello baciarla. Volevo rivederla, e le chiesi se potevo invitarla a vedere uno spettacolo di teatro. Una cosa molto bella, dissi. Un attore straordinario che era anche un mio carissimo amico.

«Conosce Antonio Di Francesco?» dissi.

«Ah, siete amici?» disse lei, alzando le sopracciglia.

Accennai un sì con la testa, senza insisterci troppo.

«Domani fa uno spettacolo nel Salone dei Cinquecento, un monologo tratto da Tolstoj» le spiegai.

Elena ci pensò un attimo. Non era più una bambina, sapeva bene che la sua risposta aveva un significato.

Alzò appena le spalle.

«Ci devo pensare» disse, accennando un sorriso.

«Me lo può dire anche domani.» «Mi lasci il suo telefono...» «Ha da scrivere?» «Ho una buona memoria» disse lei. Le dettai il numero del cellulare, e lei annuì.

«Non se lo ricorderà» dissi.

«Adesso devo andare...» «Aspetto la sua telefonata, a domani.» Ci stringemmo di nuovo la mano, e la seguii con gli occhi mentre si avviava alla cassa. Si muoveva con l'eleganza naturale degli animali. Quando si fermò in coda continuai a fare la spesa. Riempivo il carrello senza riflettere troppo, spiando Elena che aspettava con pazienza il suo turno. Ero emozionato. Ma mi sentivo anche uno stronzo. Un grande stronzo. Uno stronzo molto contento, a dire il vero. Uno stronzo che faceva la spesa, che forse sarebbe uscito con una bella donna e avrebbe provato a baciarla... E se andava tutto bene avrebbe passato una notte niente male.

Continuavo a sbirciare Elena. Stava mettendo la sua spesa sul nastro. Era bellissima, una pantera.

Aveva le proporzioni giuste per farmi perdere la testa, e anche il suo pensiero doveva essere pieno di sorprese. Voltai in un altro corridoio e la persi di vista.

Davanti allo scaffale della pasta mi bloccai...

Elena non aveva scritto il mio numero semplicemente perché non aveva nessuna intenzione di telefonarmi, pensai. Se lo era già dimenticato, e rideva della mia ingenuità. Era una donna Scorpione, non una qualsiasi. Tornai indietro per guardarla di nuovo, ma non c'era più. Finii di fare la spesa e uscii dal supermercato con quattro buste che mi segavano le dita.

Feci un rapido conto. La spesa che avevo appena fatto corrispondeva più o meno alle royalties di cinquanta copie di Nessuno si salverà, l'ultimo romanzo che avevo pubblicato. Caricai tutto in macchina e andai a casa.

 

La mattina dopo mi svegliai agitato. Non volevo ammetterlo, ma aspettavo la telefonata di Elena, anche se ormai ero convinto che non sarebbe mai arrivata.

Ero uno stronzo molto sfiduciato. Ma forse era meglio così. Evitavo di mettermi in una situazione difficile.

Nel pomeriggio provai a lavorare, ma era inutile.

Fissavo lo schermo e mi mordevo le labbra. Non mi sentivo a mio agio, e lo sforzo di far finta di nulla assorbiva tutta la mia concentrazione. Alla fine preferii sospendere il giudizio, e mi sedetti in poltrona a fissare il vuoto.

A svegliarmi fu il suono del cellulare. Numero riservato.

Risposi... Era lei. Mi sentii sollevare da terra, e non riuscii a evitare che il tono della mia voce mi risultasse odioso. Fissammo di vederci alle nove e un quarto davanti all'ingresso di Palazzo Vecchio.

Alle nove ero già lì. C'era un sacco di gente che ciondolava senza una meta. Elena arrivò alle nove e venticinque, e si scusò per il ritardo. Passammo subito al tu. Corremmo alla cassa a prendere i biglietti omaggio, e chiacchierando di cose intelligenti salimmo la scalinata di pietra che portava al Salone dei Cinquecento. Trovammo a fatica due posti in una delle due gradinate di legno montate per l'occasione.

In mezzo c'era una lunga striscia di tela che copriva qualcosa, sembravano libri. Elena guardava i grandi affreschi del Vasari che tappezzavano le pareti.

Le sussurrai all'orecchio la mia opinione su quelle scene di guerra che non riuscivano a essere veri capolavori, e annusando il suo odore le parlai del genio di Leonardo e della follia del Pontormo. A un tratto si spensero le luci, e subito dopo cominciò lo spettacolo.

Era un bel testo, Le confessioni di Tolstoj, e il mio amico Antonio era un grande attore. Si muoveva e parlava a un passo dalle prime file sfidando la consuetudine del teatro, che vuole una distanza tra il pubblico e la scena per evitare il pericoloso effetto di un'intimità troppo fisica con chi ti sta raccontando una storia, della quale si deve cogliere il valore universale. Una sfida assai difficile, ma Antonio la reggeva senza fare una piega.

Ogni tanto spiavo Elena e la vedevo attentissima.

L'avevo portata a vedere una bella cosa, e questo mi faceva guadagnare punti.

Quando finì lo spettacolo ci fu un applauso che sembrava non dovesse finire mai. Antonio s'inchinava a destra e a sinistra, visibilmente contento. Io ero più contento di lui. Elena avvicinò la bocca al mio orecchio e disse: «Bellissimo. Mi sono riconciliata con il teatro».

«Pensavi di annoiarti, ammettilo.» «Lo ammetto...» disse lei. Seguendo un ragionamento raffinato dedussi una cosa molto importante: Elena aveva accettato di venire a teatro con me anche se immaginava di annoiarsi, e dunque era venuta proprio per me, solo per me.

Antonio era attorniato di persone che gli facevano i complimenti, e quando anche l'ultimo ammiratore se ne fu andato lo presentai a Elena.

«È stato meraviglioso» disse lei, più sincera che mai.

«Sì, non è stato male» feci io.

«Tutto merito del grande Leone» disse Antonio, guardando Elena.

«Non solo... Si può rovinare anche Shakespeare...» aggiunse lei.

«Troppo buona.» «È stata un'esperienza unica.» «Mi fai arrossire...» «Se volete baciarvi me ne vado» dissi io, mascherando con una battuta scema la gelosia che mi pungeva.

Antonio ne approfittò per baciarla sulla guancia, e ci salutammo.

Uscendo da Palazzo Vecchio Elena mi ringraziò di averla invitata, e si mise a parlare di quali emozioni aveva provato, di quanto era bravo Antonio, di come fosse potente il teatro quando...

Parlava di Antonio con un entusiasmo quasi infantile, come se non avesse mai visto un attore come lui... e probabilmente aveva ragione. Io annuivo, ma non vedevo l'ora di cambiare discorso. Continuavo a sentire un brivido di gelosia, e l'unica mia preoccupazione era che lei non se ne accorgesse. Pensai a Davide. Lo vedevo vagare silenzioso sulla carrozzella, lungo i corridoi in penombra della sua grande casa.

Forse anche in quel momento stava pensando a Elena. Cosa avrebbe fatto se mi avesse visto insieme a lei?

Quando Elena finì di celebrare le gesta di Antonio la invitai a bere qualcosa, ma lei disse che era troppo stanca. L'accompagnai alla sua macchina, e se ne andò senza nemmeno dirmi se mi avrebbe richiamato.

Ero uno stronzo deluso. Tornai a casa e mi misi a guardare la TV.

 

Il giorno dopo Davide mi propose di andare a cena fuori, in una specie di trattoria in via di Mezzo, La Pentola d'Oro. Gli dissi che mi andava bene. Ci trovammo davanti alla porta del ristorante, che non era distante da casa sua.

Ero un po' agitato. Di Elena nessuna traccia. Non aveva chiamato, e non mi era arrivato nessun messaggio.

Davide sistemò la carrozzella davanti al tavolo.

«Fino a qualche anno fa era una bettola da poche lire, ora ci vogliono cento euro a testa» mi sussurrò.

«Non ho cento euro da spendere in una cena» dissi a bassa voce, spiando la gente seduta agli altri tavoli.

«Stasera è ospite mio, Trotti.» «Come mai?» chiesi, sentendomi in colpa per via di Elena.

«Per nessun motivo» fece lui. Approvai con un cenno del capo, e ordinammo. Il vino lo scelse Davide, un Cannonau da sedici gradi e mezzo. Riuscii a vedere il prezzo. Quarantacinque euro. Il cameriere aprì la bottiglia e versò un assaggio nel calice di Davide.

Lui bevve una goccia, e alzò appena le sopracciglia.

Il cameriere ci riempì i bicchieri e se ne andò.

Brindammo in silenzio. Alle spalle di Davide notai una donna molto bella, con i capelli neri e un neo sul labbro.

«Bella, vero?» disse Davide.

«Non le sfugge nulla...» «Chi non ha gambe abbia testa» fece lui.

«Non cominci, la prego...» «Preferisce che le racconti di quando ho vinto i quattrocento a ostacoli?» «Perché no...» dissi. Lui sorrise. Mi aspettavo che da un momento all'altro si mettesse a parlare di Elena, e mi preparavo a non muovere un muscolo.

La Carbonara era ottima, e il vino completava l'opera.

La saletta era silenziosa. Parlavano tutti pianissimo, e anche le risate erano sussurrate. La bella mora si muoveva con la delicatezza di un cerbiatto.

Dopo un paio di bicchieri, a bassa voce Davide mi raccontò ancora della sua famiglia, di quando era bambino e suo padre lo guardava come se lo disprezzasse, e di come lui non sopportasse né quelle occhiate né quelle di sua madre, cariche di compassione.

«E lei? E stato un bambino felice?» mi chiese sorridendo, con l'aria di chi conosce già la risposta.

«Non mi lamento... Ma non vorrei tornare bambino...» «Perché no?» «Non mi piace l'idea di vivere due volte la stessa cosa.» «E se potesse tornarci con la consapevolezza di adesso?» «Sarebbe magnifico.» «Se n'è accorto, Trotti? Le ho fatto cambiare idea in un secondo.» «Non mi dica che è una grande soddisfazione...» «Piace a tutti intervenire sulla vita degli altri. Ma in realtà è molto più di un piacere, è una necessità.

Solo quando ci riusciamo sentiamo di esistere, o almeno ci sembra... Non si preoccupi, Trotti... Non ho intenzione di continuare su questo tono... Un po' di vino?» «Grazie...» Davide riempì i bicchieri, e prima di bere li alzammo in aria.

«Secondo lei sono un uomo affascinante?» disse Davide a voce alta, e nella saletta calò il silenzio assoluto.

Tutti erano voltati verso di noi, con la forchetta in mano. Aspettavano la mia risposta. Anche il cameriere si era fermato a guardare.

«Non potrebbe parlare più piano, per favore?» mormorai, rosso in faccia. Tutti quegli occhi puntati addosso mi mettevano a disagio, ma sotto sotto mi davano anche una strana euforia, non sapevo capire il perché. Era come se dovessi mettercela tutta per fare bella figura.

«Ho detto qualcosa di male?» urlò quasi Davide.

Intorno a noi ricominciarono a mangiare, con gli occhi nel piatto. Ma nessuno parlava. Stavano tutti con le orecchie aperte. Non si sentiva volare una mosca.

«La prego... Parli più piano...» dissi ancora.

«Dica solo sì o no... Secondo lei sono un uomo affascinante?» ripeté Davide, sempre a voce alta. Al culmine dell'imbarazzo decisi di cambiare metodo.

Alzai la voce anche io.

«Dottor Yalta, cosa le succede stasera?» dissi con un sorriso, guardandomi intorno. Eravamo l'attrazione della serata.

«In che senso?» fece lui.

«No, dico... Una domanda del genere...» «Sì o no?» insisté lui.

«Non sono mica una donna» puntualizzai, e sentii qualcuno che ridacchiava.

«Non sia ridicolo, Trotti...» «Bene, allora mi dica lei se io sono un uomo affascinante.» «Nemmeno un po'» disse lui.

«Ah...» Ero rimasto con il bicchiere a mezz'aria.

Mi sentivo offeso.

«Ora tocca a lei rispondere, Trotti.» «Basta con questo gioco. Non ho nessuna voglia di rispondere» dissi, e continuai a mangiare. Speravo che la faccenda si chiudesse lì. Davide stava sorridendo, e lo guardai male. Lui mi strizzò l'occhio e restammo in silenzio. Poco a poco nella saletta tornò a spandersi il brusio delle voci, ma si sentiva che qualcosa era cambiato. Davide si sporse in avanti, per farsi sentire solo da me.

«Non lo trova divertente?» mi chiese a voce bassissima.

Anche io mi sporsi in avanti.

«Nemmeno un po'...» dissi.

«Un paralitico in carrozzella che fa certe domande non può che essere divertente.» «Non per me.» «Lei è troppo musone, Trotti, se lo lasci dire. Eppure gli scrittori dovrebbero essere curiosi dell'animo umano.» «Non è che mi chiederà di scrivere un romanzo su di lei?» «Secondo me lo sta già scrivendo» disse Davide, con uno sguardo ironico che aveva anche qualcosa di arrogante.

«Non scrivo romanzi comici» tagliai corto. Lui sorrise appena, con l'aria di chi ne sta per fare un'altra delle sue. E infatti avevo ragione. A un tratto si drizzò sulla schiena, con un viso serissimo, e fece ruotare lo sguardo tutto intorno.

«Che avete da guardare? Non avete mai visto due omosessuali che litigano?» disse a voce alta. Io feci un gesto alla platea per far capire a tutti che l'uomo in carrozzella si era bevuto il cervello. Arrivò di corsa il cameriere seguito dal proprietario del ristorante, un uomo basso con la testa grossa.

«Qualche problema, signori?» disse testa grossa, gentile. Mi portai il bicchiere alla bocca e lasciai che Davide se la sbrigasse da solo. Non ne potevo più delle sue scenette, ma in quel momento la sua arroganza faceva molto comodo ai miei sensi di colpa.

Davide guardò testa grossa con occhi severi.

«Quando vado al ristorante non pago solo quello che metto in bocca, ma anche la tranquillità di poter conversare senza che nessuno mi interrompa... Approva il mio ragionamento?» «La prego, signore» balbettò testa grossa, lanciando un'occhiata ai suoi clienti. Il cameriere sembrava una statua, e osservava la scena con aria preoccupata.

Nessuno fiatava. Davide mise le mani sulle ruote, fece indietreggiare la carrozzella e la voltò verso i due uomini. Indicò il cameriere e disse: «Perché siete così gentili con me? Perché sono in carrozzella?» «Ma cosa dice?» «Non so che farmene della vostra compassione...

Volete buttarmi fuori? Perché non lo fate?» «La prego...» disse testa grossa, cercando di nascondere l'agitazione. Ogni tanto mi lanciava un'occhiata per vedere da che parte ero schierato. Io volevo restarne fuori, e me ne stavo zitto con un'espressione fredda e distaccata. Non vedevo l'ora di finire la cena e di andarmene via, lontano da quel pazzo senza gambe. Dalla cucina sbucò una donna e si avvicinò al tavolo con una ruga sulla fronte, sfregandosi le mani unte sopra il grembiule. Aveva in testa un cappello da cuoco e di sicuro non faceva alcuna dieta.

Testa grossa le fece un cenno, per dire che era tutto sotto controllo, e lei si dileguò.

«Le chiedo solo la cortesia di non parlare a voce troppo alta» sussurrò a Davide, con un tono accomodante.

«Guardi che il pubblico si è divertito... Glielo chieda...» disse Davide, guardandosi intorno. Nessuno dei clienti aprì bocca. Si limitavano tutti a guardare.

Testa grossa fece un lieve inchino a Davide.

«Posso contare sulla sua gentilezza?» sussurrò.

«Vedrò cosa posso fare...» disse Davide, più antipatico che mai. Testa grossa sudava, e si asciugava la faccia con un fazzoletto. Fece un sospiro, sforzandosi di sorridere.

«La ringrazio» bisbigliò.

«Per favore, ci porti una bottiglia di vin santo con i cantuccini» disse Davide, con un sorriso rassicurante.

«Subito... Anselmo, serva i signori...» Il cameriere corse a prendere il vin santo, e testa grossa si chinò in avanti sopra il tavolo.

«I signori si ritengano miei ospiti» sussurrò, fissando Davide con aria d'intesa.

«Grazie, non rifiuto mai un invito.» «Allora siamo d'accordo...» «Certo.» «Buona continuazione» disse testa grossa, rilassato, e dopo uno sguardo circolare alla sala se ne andò con passo elegante. Davide alzò il bicchiere con l'ultimo sorso di rosso, e sorrise.

«Stare in carrozzella serve almeno a non pagare la cena» disse a bassa voce, divertito.

«Lo trovo patetico...» «Noi ebrei siamo famosi, nell'arte del risparmio.» «Non era un luogo comune?» «No davvero. Ci hanno costretti a diventare abili a maneggiare denaro, privandoci di mille altri diritti, e quando siamo diventati banchieri e usurai non hanno saputo fare di meglio che additarci, braccarci e sterminarci.» «Non siete stati sempre e solo vittime, anche voi avete fatto esplodere le bombe al mercato per mettere in piedi lo Stato di Israele.» «È vero, ma non se lo ricorda nessuno.» «Si vede che avete un ottimo ufficio stampa.» «Ora ho capito tutto! Lei è un antisemita!» disse Davide, con un sorriso che finalmente trovai piacevole.

Arrivò il cameriere con il vin santo e i cantuccini, e ci riempì i bicchieri.

«Ci lasci la bottiglia» disse Davide.

«Certo, signore» sussurrò il cameriere. Stava per andarsene, ma Davide lo bloccò con una domanda bisbigliata.

«Mi dica, Anselmo... Lei farebbe sposare sua figlia con un paralitico?» «Non ho figli, signore.» «Magnifico! E la stessa risposta di quel film...

Come si chiama? La nave dei folli... E lo sa cosa risponde Michael Dunn? "Lei è un ipocrita!" Ecco cosa risponde...» «Con permesso, signore» disse il cameriere, e se ne andò di corsa. Scossi la testa.

«Non ne posso più delle sue ripicche contro il genere umano» dissi.

«Lo ammetta, sono un uomo affascinante.» «Di sicuro fa di tutto per rendersi antipatico» dissi, mordendo un cantuccino.

«Almeno questo lo troverà divertente...» «Muoio dal ridere.» «Basta con quel muso, Trotti. Dovrebbe ringraziarmi.

Non le capita spesso di passare una serata così originale.» «Ne farei volentieri a meno.» La donna con i capelli neri mi fece un sorriso che mi sollevò da terra, e io ricambiai. Subito dopo si voltò anche l'uomo che era con lei, e non sorrideva per niente. Spostai lo sguardo su Davide. I suoi occhi ridevano, ma il resto della faccia era immobile.

«Un sorriso non fa primavera» disse.

«Che?» «Ci sono donne che vivono con l'ossessione di fare innamorare ogni uomo che incontrano, e per riuscirci sono disposte a fingere di desiderarli.» «Comincio a pensare che lei abbia un occhio sulla schiena.» «Non occorre... Basta saper leggere il viso delle persone...» disse Davide, fissandomi. Mi sentii arrossire, immaginando che fosse capace di leggermi negli occhi il desiderio che provavo per la sua bella Elena. Lo guardai bene anche io, e pensai che nell'insieme aveva davvero qualcosa di affascinante.

Ma non avevo nessuna voglia di dirglielo...

In quel momento sentii vibrare il cellulare in tasca.

Era arrivato un sms, magari era lei, Elena. Con aria indifferente sfilai il telefono e guardai. Era la compagnia telefonica. Mi avvertiva gentilmente che il mio credito stava per esaurirsi.

«Si aspettava di meglio, non è così?» disse Davide.

«Perché non la smette di controllarmi?» «Non finga. Le fa un gran piacere essere al centro dell'attenzione.» «In questo si sbaglia» dissi, sbirciando la bella mora nell'angolo del ristorante. Non mi guardava più.

«Gli ebrei non sbagliano mai...» disse Yalta.

Dopo un ultimo bicchierino di vin santo uscimmo dal ristorante, accompagnati dai sorrisi di testa grossa e del cameriere, e dagli sguardi curiosi dei clienti.

Ci mettemmo a camminare in mezzo alla via deserta, i marciapiedi erano troppo stretti per la carrozzella.

Davide non parlava, e mi gustai il silenzio.

Lo accompagnai davanti al portone. Ci stringemmo la mano, e forse ci sorridemmo. Aspettai di vederlo sparire dentro il portone e m'incamminai verso piazza Sant'Ambrogio, dove avevo parcheggiato la macchina.

Stava cominciando a cadere una pioggerella finissima, e i lampioni sembravano circondati di lucciole.

Guidando verso casa mi sentivo un cane con la coda tra le gambe, ma preferii non chiedermi come mai.

 

Due giorni dopo Davide mi telefonò, verso le sette di sera. Mi sembrava più amaro del solito, e dopo qualche frase inutile mi chiese se avevo voglia di passare da lui. Doveva parlarmi di una cosa importante.

Feci un sospiro nel microfono.

«Non ho voglia di altre serate speciali...» dissi.

«Mi dica solo sì o no.» «Stasera sono a pezzi, penso che andrò a letto dopo Carosello...» dissi, cercando di fare il simpatico.

«Domani sera?» chiese Davide, serio.

«Be', magari sentiamoci...» «Buonanotte» fece lui, e riattaccò senza aggiungere altro. Gli avevo detto una balla, avevo un appuntamento con Elena. Dopo un giorno di silenzio mi aveva finalmente telefonato, e avevamo fissato di vederci per andare a cena da qualche parte. Ero emozionato, ma mi sentivo più stronzo che mai. In qualche modo dovevo assolvermi, e alla fine mi convinsi che il mio era un eccesso di premura che rasentava il paternalismo. Davide diceva sempre che voleva entrare nella vita a testa alta, da uomo «normale», con tutti i rischi del caso. La sconfitta poteva colpire tutti, dunque anche lui. Comunque con Elena non era ancora successo nulla, e mi concentrai su quella verità.

Arrivò l'ora di uscire, e andai incontro al mio destino con la curiosità di scoprire cosa aveva in mente per me.

Ci trovammo in centro alle nove, e dopo una breve ricerca c'infilammo in un ristorantino non troppo caro ma con le candele sui tavoli.

Dopo un po' Elena cominciò a parlarmi di Davide, il paralitico innamorato. Ne parlava con rispetto, ma anche con una certa agitazione. Pur non avendone alcun motivo si sentiva in colpa, e questo mi alleggeriva la coscienza. Non ero solo io a sentirmi in quel modo.

«Innamorarsi non è sempre una bella cosa» disse.

«Sono d'accordo» approvai.

«A volte ha qualcosa di perfido.» «È vero.» «Non hai nient'altro da dire?» «Be'... L'amore guasta il mondo.» «Questa non è tua, è il titolo di un libro.» «Chiedo perdono, ma mi sembrava che ci stesse bene.» «Forse è meglio cambiare argomento...» disse lei, sorridendo.

Dopo un lungo silenzio ci mettemmo a raccontare un po' le nostre vite... Il lavoro, i sogni, gli aneddoti familiari... Non era importante quello che dicevamo, ma il modo in cui ci guardavamo... O meglio, il modo in cui la guardavo io. Lei non lasciava trapelare nulla.

Finimmo di cenare, e pagai senza darle il tempo di aprire bocca. Uscimmo dal ristorante leggermente brilli. Ci mettemmo a camminare per le vie del centro, giocando a prenderci in giro. Faceva freddo, per strada non c'era nessuno. Mi sentivo agitato.

Dovevo baciarla quella sera stessa, dovevo provarci.

O la va o la spacca. Se non ci avessi provato sarei tornato a casa avvilito. Ogni secondo mi voltavo a guardarla, e mi sembrava sempre più bella. A momenti mi arrivava l'odore buono dei suoi capelli, e immaginavo di abbracciarla all'improvviso e di baciarla con forza. E se i baci violenti non le piacevano?

Forse dovevo prenderla per le spalle con dolcezza e tirarla verso di me, come se fosse stata la cosa più naturale... E se invece della dolcezza non sapeva che farsene? Non riuscivo a decidermi...

Elena mi sembrava sempre più misteriosa. Con altre donne avevo sentito con chiarezza che potevo farmi avanti. Ma lei non mi faceva capire nulla... O forse non c'era nulla che doveva farmi capire, e se avessi provato a baciarla mi avrebbe respinto.

«Elena...» dissi, mentre passeggiavamo lungo un viale.

«Sì?» fece lei. Mi fermai e le presi il viso tra le mani. Si lasciò baciare, e fu lei a farmi capire come lo dovevo fare. Il bacio più bello della mia vita... Ma il paradiso durò pochi secondi. Appena staccai le labbra, alle sue spalle vidi in lontananza una figura in movimento nella notte. In fondo alla strada, una sedia a rotelle stava avanzando verso di noi.

«Che c'è?» disse lei, un attimo prima di voltarsi.

Restammo immobili a fissare Davide che ci veniva incontro. Lui ci passò davanti senza guardarci, fischiettando e maneggiando le ruote con violenza.

«Davide...» dissi.

«Davide!» lo chiamò lei. Lui continuò la sua corsa. Feci una lunga e triste carezza a Elena, una cosa tipo i film di Bogart, e m'incamminai dietro alla carrozzella di Davide. Dovetti quasi correre, ma lo raggiunsi prima che voltasse l'angolo.

«Davide...» dissi. Lui si fermò di colpo e mi puntò addosso la carrozzella.

«Mi dica, Trotti.» «Ecco... E successo tutto così... Non è colpa di nessuno...» «Di cosa sta parlando?» «Lo sa bene...» «Forse è lei che non lo sa.» «Non cominci con i suoi ragionamenti contorti» dissi.

«Ha qualcos'altro da dirmi?» «Non è colpa di nessuno» ripetei, a corto di parole.

«Non sia sempre così cattolico...» «Non è facile parlare.» «Allora possiamo dirci buonanotte» fece lui.

«Una cosa però vorrei dirgliela... Non mi farà sentire in colpa...» La cosa più triste era che nessun tribunale mi avrebbe mai condannato, eppure mi sentivo colpevole.

«Ho cose più interessanti da fare, che star dietro alla sua colpa» disse Davide.

«Non volevo che succedesse così...» «Non mi deve nessuna spiegazione, Trotti.» «Lo so, lo so... non è quello... mi sento come se...» «Se ha qualcosa da dire lo dica, senza troppi complimenti.» «Sì... Ha ragione... Ecco... Elena mi piace molto... E ho motivo di pensare che anche io piaccio a lei... E credo che passeremo la notte insieme» dissi, con un senso di liberazione.

«Ne è sicuro?» fece lui con un sorriso, guardando dietro le mie spalle. Mi voltai, e vidi Elena che saliva sopra un taxi.

«Elena!» urlai. Il taxi partì, e mentre ci passava accanto lei ci guardò dai vetri senza fare alcun gesto di saluto. Avevo ancora in bocca il sapore delle sue labbra, e seguii il taxi con lo sguardo finché non sparì in fondo al viale. Quando mi voltai di nuovo verso Davide, lui era già lontano. Sotto la luce dei lampioni scorgevo a momenti le sue braccia che strattonavano le ruote... Chissà se ci saremmo mai rivisti... E fórse non avrei più visto nemmeno Elena... La dea Fortuna doveva vederci benissimo, se era riuscita a organizzare un meccanismo così perfetto... Mi sentivo a pezzi... Forse avrei vomitato...

Lo sapevo bene che c'era chi stava peggio di me, e anche peggio di Davide. Potevamo essere tutti e due in mezzo a una delle centinaia di guerre sparse per il mondo. Ma ognuno soffre come può e per quello che gli tocca, e a volte chi non riesce a conquistare una donna e chi corre sotto le bombe può sentirsi più o meno nello stesso modo. La vita era davvero ingiusta. Infilai le mani in tasca e m'incamminai verso casa.

 

 

Marco Vichi - La sfida
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