"Secondo il GPS, un'ora e quarantaquattro minuti, il che vuol dire che posso esserci in un'ora e un quarto al massimo."
"Allora chiamo casa per vedere se sono ancora tutti vivi..." Olofsson scoccò alla collega un'occhiata esasperata.
"Santo cielo, non è possibile! Mi tocca sorbirmi una predica materna in diretta, vero?"
"Quando sarai padre capirai."
"Be', non c'è fretta!"
Olofsson parcheggiò su un viale di ghiaia che passava lungo due tappeti d'erba tappezzati di tombe dietro a una chiesa con le tegole rosse e i muri intonacati, che sembrava più la casa di un uomo che la casa di Dio.
Bergström e Nicholas-Nordin-medico-legale discutevano davanti a una tenda bianca accanto alla facciata laterale dell'edificio. Salutarono Hansen e Olofsson con un cenno del capo.
"Almeno non dovrà andare lontano per l'ultima confessione" mormorò Olofsson mentre s'infilavano guanti, tuta di plastica e sovrascarpe.
Hansen non raccolse. Il suo collega si preparava a modo suo per la scena che stavano per vedere.
La detective entrò per prima sotto la tenda, con il fruscio della tuta di Olofsson che la seguiva.
La giovane donna era stata appoggiata al muro bianco della chiesa. Le sue braccia, da una parte e dall'altra del corpo, toccavano terra con il palmo delle mani rivolto al cielo. Al posto dei seni si vedevano due larghe aureole sanguinolente. Le cosce e i fianchi erano stati tagliati via fino all'osso.
"Anche i glutei" dichiarò Karla, accovacciata a qualche centimetro dal cadavere.
Capelli lunghi fino alla vita, si concentrò Olofsson. Capelli lunghi fino alla vita.
Il detective fissò lo sguardo sulla cascata bionda che copriva le spalle della morta come uno scialle. Il resto... Il resto lo faceva interrogare sull'opportunità di avere dei figli, se poi dovevano fare quella fine. Il resto, preferiva dimenticarlo.
"Freja Lund. Ventidue anni" annunciò il commissario con voce cupa.
Olofsson girò la testa. Bergström e Nordin se ne stavano in piedi alle sue spalle, accanto ad Hansen. Non li aveva sentiti arrivare. Il medico legale osservava il cadavere con la testa inclinata da un lato.
"Le ferite corrispondono a quelle di Maria Paulsson, affermò. Anche la corda usata per strangolarla. Le piume nere sono presenti nei condotti auditivi. Non voglio trarre delle conclusioni al vostro posto, signori... E signore - mi scusi, detective Hansen -, ma si tratta certamente dello stesso assassino."
Olofsson uscì, seguito da Hansen, lasciandosi alle spalle Nordin e Bergström.
"È come aveva detto Google" commentò il detective, sfilandosi i guanti di latex.
"Google? Ma di chi parli, Olofsson?" gli domandò Hansen.
"Stavo parlando della Lindbergh. Aliénor. Capiresti meglio se la chiamassi Encyclopædia Britannica?"
"Oh, ma che cattivo!" lo ammonì la collega, agitando l'indice di fronte a lui. "Cos'ha detto, la nostra Aliénor?"
"Ha detto che era tutto collegato a Jack lo Squartatore. E dov'è che è stato abbandonato, il nostro cadavere? A Torslanda. E Torslanda è la città di Elizabeth Stride, terza vittima del Ripper."
60
Londra, Hampstead, domicilio di Alexis Castells,
venerdì 24 luglio 2015, mezzogiorno
Mentre apriva la porta del suo appartamento, Alexis stilò mentalmente una lista delle prossime tappe della sua inchiesta.
1. Cercare nelle minute del processo e dell'interrogatorio di Hemfield se la zia era menzionata.
Appoggiò la borsetta sulla credenza dell'ingresso.
2. Ritrovare il ristorante italiano vicino a Floral Street.
3...
Alexis lanciò un grido. Stellan era in piedi sulla soglia della cucina. Le venne incontro e la baciò lungamente.
"Ti sei dimenticata che arrivavo oggi" le sussurrò, staccandosi da lei.
"Io..."
"O meglio, hai perduto la cognizione del tempo."
"Sono desolata, amore mio, desolata..."
Lei gli coprì il viso di baci e si rese conto che non aveva più parlato a sua madre né a Stellan dalla sua partenza da Falkenberg, due giorni prima. Cioè, si corresse, né a Stellan né a sua madre. Avevano scambiato giusto qualche messaggio, in particolare dopo la sua visita a Broadmoor. Alexis li aveva informati che la visita si era svolta senza problemi ma che non aveva voglia di parlarne. Tutti e tre avevano rispettato il suo silenzio. Buon dio, suo padre doveva aver nascosto il cellulare di sua madre per evitare che asfissiasse di domande Alexis. Mado Castells doveva essere sull'orlo del baratro. Se non sul fondo.
"Com'è andata?" chiese lei, spostando sul tavolino basso due pile di fascicoli che ingombravano il divano.
"Molto bene."
Alexis gli rivolse uno sguardo incredulo.
"Com'è andata, veramente?"
"Molto bene, veramente. Ho parlato a lungo con tuo padre, ho cucinato con tua madre - mi ha insegnato a fare le crêpes alla francese."
"Sì, come no... Mi sa che è stata mia madre a cucinarti..."
"Anche questo..."
"Come avete fatto tu e mio padre a impedire che mi chiamasse dopo l'incontro con Hemfield?"
"L'abbiamo chiusa in cantina."
Alexis alzò gli occhi al cielo trattenendo un sorriso.
"È stato quasi meglio che tu non ci fossi, in definitiva."
"Ah, sì?"
"I tuoi genitori avevano meno paura di compiere passi falsi, e io meno paura di deluderti."
"Deludermi?"
"Bè, comunque sia, sono il primo uomo che presenti ai tuoi genitori da... Samuel."
Alexis s'irrigidì. Samuel, in bocca a Stellan, era intollerabile.
"E tu, hai cominciato a scrivere?"
"Ho incontrato un ex collega di Hemfield" rispose Alexis con tono colpevole.
"Collega?"
"Ho ritrovato questo Harvey Cowden attraverso uno dei coinquilini di Hemfield, che era in realtà il testimone della difesa."
Stellan annuì con un cenno del capo.
"Cos'hai scoperto?"
Alexis ebbe la sgradevole sensazione di avanzare su un terreno minato.
"Secondo le informazioni raccolte dalla polizia e dal procuratore, i genitori di Hemfield sono morti in un incidente stradale. Alla loro morte, il figlio è stato affidato alla zia paterna."
"Come hai avuto questi documenti?"
"Jon Pierland, il profiler che era con Samuel quando è morto. Me li aveva dati allora..."
Alexis deglutì.
"Secondo Harvey Cowden, però" continuò con voce roca, "questa zia sarebbe morta circa un anno dopo i genitori. Devo dunque scoprire cosa sia realmente successo e chi si sia preso cura di Hemfield alla morte della zia."
"Per fare che?"
Il terreno non è minato, pensò Alexis. È decisamente ostile.
"Ti ci metti anche tu, adesso?" strepitò lei, alzandosi dal divano.
"Ho l'impressione che cerchi di sfuggirmi, Alexis. E anzi, è più che un'impressione: sei partita da Falkenberg proprio nel momento in cui stavamo ingranando una marcia più veloce. Per tornare a infilare la testa nel passato, vicino all'uomo della tua vita."
Una rabbia fredda infestò Alexis come un'erbaccia. Scosse la testa e si diresse verso la cucina.
"Lo vedi, te ne vai di nuovo" disse lui con voce risoluta ma calma. Alexis si arrestò di colpo, poi si voltò lentamente verso Stellan.
"Ho bisogno di trovare delle risposte" scandì, frenando la sua voglia di piantarlo in asso.
"Che ne dici di smetterla con la tua recita da adolescente arrabbiata e di venire a sederti, per favore?"
Alexis si sentì sommergere di vergogna. Stellan aveva ragione. Bisognava disfarsi dell'armatura. Non era una guerra: era una conversazione con l'uomo che amava. Però, Dio... Com'era difficile tendere la mano!
Lui la prese tra le sue e la strinse.
"Ho bisogno di... Di finire tutto questo" mormorò lei, contemplando i fascicoli ammucchiati sul tavolino basso.
"Ma finire cosa, di preciso, Alexis? L'inchiesta di Tower Hamlets non ha niente a che vedere con la morte di Samuel. Hemfield è colpevole per la morte di Samuel; le conclusioni dell'inchiesta non cambieranno niente."
Stellan le diede un bacio sul palmo della mano e si alzò.
Il cuore di Alexis fu subito invaso dalla tristezza.
Lui tornò due minuti più tardi con una bottiglia di vino e due calici. Posò il tutto sul tavolino tra le pile di documenti.
"Lo so che da buona francese non sopporti le bottiglie di vino chiuse col tappo di plastica, ma il venditore mi ha assicurato che questo riesling è una delizia. Allora, cosa cerchiamo?" domandò mentre riempiva i bicchieri.
Alexis, sorpresa, lo squadrò un istante prima di rispondere.
"Prima di tutto, vorrei riprendere le minute del processo e dell'interrogatorio di Hemfield, per vedere se ci sono informazioni su questa Angela Hemfield, la zia. Se non c'è niente, allora bisognerà cercare il ristorante italiano dove lavorava quando è morta, nel 1979. Era a Covent Garden, intorno a Flora Street."
"Nel 1979? Non pensi che possa essere chiuso?"
"C'è anche un'altra pista da seguire. Ma a quella ci penso io" disse lei, bevendo un sorso di vino bianco.
61
Svezia, Halmstad, domicilio della famiglia Hansen,
venerdì 24 luglio 2015, ore 19.30
Dalla terrazza degli Hansen, con una Carlsberg in mano, Emily contemplava la biblioteca futurista di Halmstad - un arco di ferro e vetro a strapiombo sul fiume Nissan. Aveva appena smesso di piovere, e il sole strappava le nuvole dardeggiando i suoi raggi come un arciere. In pochi minuti il cielo si liberò come se lo avessero appena coperto con due strati di azzurro intenso per ridargli la luminosità dell'estate.
La profiler mandò giù un sorso di birra schiumosa.
Il suo aereo era atterrato a Göteborg a metà pomeriggio, con due ore di ritardo. Bergström aveva avuto appena il tempo di condurla sulla scena del crimine di Freja Lund prima che una tempesta li cacciasse da Torslanda. Poi avevano preso la strada di casa di Karla, a Halmstad, dove tutto il gruppo li aspettava per una seduta di lavoro e un barbecue.
"Sei proprio tu, Emily?"
Vestita con un pigiama di Spiderman, Ada, la figlia più piccola degli Hansen, era piombata sul balcone.
"Si, sono io."
Ada prese posto vicino ad Emily, afferrò il plaid posato sullo schienale della sedia e se lo mise sulle sue ginocchia.
"Ho sentito il detective Olofsson dire al signore con la barba che tu avevi un cervello grande come le tette della mamma. E le tette della mamma sono molto grandi. Molto più grandi di quelle delle altre mamme. Eppure non si direbbe che il tuo cervello sia così grosso. La tua testa è perfino più piccola della sua."
"Tu parli inglese?" le chiese Emily, sorridendo.
"Prendo lezioni d'inglese da sempre. Greta Gris in realtà si chiama Peppa Pig, lo sapevi?"
Karla arrivò con un vassoio pieno di knäckebröd, di burro, di formaggio e altre birre.
"E tu che ci fai, qui? Non sei ancora a letto?" domandò alla piccola.
"Sto discutendo con Emily, mamma."
Karla posò il vassoio sul tavolo, trattenendo un sorriso.
"Ah, sì? E di cosa discutevate?"
Ada lanciò uno sguardo interrogativo a Emily prima di rispondere.
"Di Peppa Pig. E stavo per dirle che ci sono delle parole svedesi che non si possono tradurre in inglese, come mångata, fika o tretår. E quindi, Emily" continuò in inglese, "figurati che ci sono parole svedesi che non si possono tradurre in inglese. Ce l'ha insegnato la maestra."
Ada infilò la mano nella ciotola di patatine vicino a Emily.
"Ada, non abbuffarti di porcherie; prendi piuttosto un knäckebröd. Hai fame?"
"No. Dunque, mångata vuol dire il riflesso della luna a forma di strada sull'acqua" spiegò con la bocca piena. "Fika è la pausa caffè, spesso accompagnata da dolci, che si prende in famiglia o con gli amici, e tretår vuol dire prendere del caffè per la terza volta. C'erano altre parole, ma non me ne ricordo più. Lo sapevi, Emily?"
Emily scosse la testa.
Karla cominciò ad accendere il barbecue, con un sorriso fiero che le rimaneva sulle labbra.
"Ma mamma, fate sempre il barbecue?" domandò improvvisamente Ada, con gli occhi sgranati e le briciole delle patatine incollate intorno alla bocca. "Ma fa super freddo! Swedish people are crazy!"
"Non per niente siamo Vichinghi. Forza, a letto, signorina! Sbrigati."
"Mamma..."
"Sì?"
"Dov'è papà?
"Nello studio, con il commissario Bergström."
"Chi è il commissario Bergström?"
"Il mio capo; il signore con la barba."
"Che fanno?"
"Papà gli fa vedere i suoi libri."
"Anch'io voglio vederli, i libri di papà."
"Ada..."
Il tono di Karla era senza appello. Ada scese dalla sedia di controvoglia, facendo il broncio. Piegò la coperta e la rimise sullo schienale, poi tornò nell'appartamento trascinando i piedi.
Le due donne scambiarono un sorriso ma Karla lesse così tanta tristezza negli occhi di Emily che non le fece la domanda di rito dall'effetto agglomerante: anche tu hai dei bambini?
"Volevi chiedermi qualcosa, poco fa, e siamo state interrotte" disse Karla per allontanare il dolore della profiler.
Emily annuì.
"Che storie leggete ai bambini, in Svezia?"
"Uhm... Per i più piccini, direi che le più popolari sono le avventure di Alfons Åberg. Quando sono un po' più grandi, si raccontano in generale le storie di Astrid Lindgren. Pippi Långstrump, Pippi Calzelunghe, è la più conosciuta da voi."
"Non raccontate la mitologia nordica?"
"La imparano a scuola, ma non si usa leggere queste cose per farli addormentare, no."
"Dunque non racconti la storia di Odino, né di Asgard?"
"A dire il vero, no... Anche se, da quando Chris Hemsworth impersona Thor, ho notato che la mia figlia più grande ha acquisito un certo interesse per la mitologia! Perché me lo chiedi?"
"Tuo marito mi ha detto che presto sosterrai la tua tesi di psicologia giudiziaria?"
Più del brusco cambio di argomento, fu la domanda a sorprendere Karla.
"Sì..."
Esitò un istante prima di proseguire.
"Sogno di venire a lavorare a Scotland Yard..."
"E così, Julianne Bell sarebbe una leccapassere!"
Olofsson era arrivato in compagnia di Aliénor, con una birra in mano. "Il detective si accomodò accanto a Emily."
"Che vergogna per il capo della polizia, però! Non se ne riprenderà mai; sarà costretto a dare le dimissioni, vedrete. Che poi, se è andata a cercare altrove, e quando dico altrove è proprio altrove, vuol dire che non ci sapeva fare..."
Il cellulare di Emily fremette nella tasca della giacca.
"Aliénor, dovresti evitare di frequentare quest'uomo" scherzò Karla.
La profiler rispose alla chiamata.
"Cerco di evitarlo. Siamo usciti per caso in terrazza nello stesso momento: ero andata al bagno."
"Saremo lì tra una mezzora" confermò Emily al suo interlocutore prima di chiudere.
Lo sguardo di Karla si staccò dai suoi colleghi per posarsi sulla profiler.
"Ah, be'... Grazie Lindbergh, simpatico da parte tua" ironizzò Olofsson prima di mandare giù un altro sorso di birra.
Emily si alzò in piedi.
"Dobbiamo andare al commissariato per una videoconferenza con lo Yard, li informò la profiler: hanno arrestato qualcuno."
62
Venerdì 24 luglio 2015
Bacerò le mie bambine.
Le loro guance. I loro occhi. La loro fronte. Le loro trecce. Le loro mani.
Le stringerò tra le braccia.
Una per parte.
Qui, strette al seno.
Con la testa rannicchiata nell'incavo del collo.
Con i loro capelli che mi solleticano il naso.
Sentirò il loro profumo. Le annuserò. Le respirerò.
Le stringerò ancora, non le lascerò andare.
Ascolterò la loro musica; quella delle loro risate, delle loro voci.
Bacerò Adrian, gli dirò che l'amo, malgrado tutto.
Che l'amo.
E amo anche te, mio caro Raymond.
Vi abbraccerò tutti e quattro; un grappolo d'amore.
Vorremmo ridere, ma piangiamo. Piangiamo ridendo. Non è come piangere di felicità. È molto di più. È ridere d'amore, di sollievo.
E tu, mia cara Florence.
Finalmente potrò vederti tutti i giorni, mia cara Florence.
Ogni giorno.
Alla luce del sole.
63
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
venerdì 24 luglio 2015, ore 22.00
Olofsson fece scendere lo schermo e accese il videoproiettore mentre Bergström, Emily e Karla si sistemavano intorno al tavolo delle riunioni. Mentre prendeva posto davanti al computer, notò Aliénor rannicchiata in un angolo della stanza, di fronte allo schermo. Si era seduta a gambe incrociate, per terra, col suo quaderno sulle ginocchia.
Dopo qualche minuto apparve l'immagine di Pearce che prendeva posto nella sala degli interrogatori. Olofsson batté su alcuni pulsanti della tastiera e lo schermo si divise in due : a sinistra un piano lungo della sala, che mostrava l'ispettore capo di fronte e il testimone di spalle, e, a destra, in primo piano, il viso del fratello di Julianne Bell: Raymond.
"Signor Bell, perché ci ha nascosto che è stato adottato dalla famiglia Bell?"
Raymond Bell scosse lentamente la testa, con gli occhi fissi sul tavolo di metallo.
"Perché non ci ho pensato."
Pearce rimase in silenzio per un istante, con lo sguardo fisso sul sospettato.
"Trovo strano, signor Bell, che non ci abbia pensato. Credo invece che non volesse che questa adozione fosse scoperta."
"Ma insomma, quel che dice non ha alcun senso. Perché mai avrei dovuto volerla nascondere?"
"Perché questa adozione è stata fatta in Svezia, e lei è svedese di nascita."
"E allora? Che c'entra con il rapimento di mia sorella?"
Pearce puntò i gomiti sul tavolo e intrecciò le dita. Prese a massaggiarsi il palmo destro con il pollice sinistro.
"Mi sta nascondendo qualcosa?"
Il fratello di Julianne si allarmò. "L'avete ritrovata? L'avete ritrovata in Svezia?"
"Può parlarmi dei suoi genitori, Raymond?"
Raymond Bell batté in ritirata e si appoggiò contro lo schienale della sedia.
"I miei genitori erano delle persone generose, amorevoli, divertenti. Sono morti venticinque anni fa, poco tempo dopo il loro figlio maggiore..."
Pearce aggrottò le sopracciglia.
"Tutti e due portati via da un cancro, a otto mesi d'intervallo l'uno dall'altra. Morti di dolore, ne sono sicuro. Mio fratello si è ucciso in un incidente di sci, a ventidue anni. Era di quel genere di ragazzi che prendono la strada giusta senza bisogno di spingerli. Era brillante, bello come un dio, studiava a Oxford... I miei genitori lo chiamavano il loro sole. Ed è vero, William era solare."
"Io parlavo dei suoi genitori biologici" signor Bell.
"I miei genitori biologici Ma i genitori sono quelli che ti cullano, che ti curano, ti nutrono, ti educano, ti crescono, ti proteggono, ti incoraggiano, ti consolano, ti istruiscono, ti coltivano."
"E quelli che ti vogliono bene."
"E quelli che ti vogliono bene, sì. L'espressione "genitori biologici" è un controsenso, ispettore capo, questa espressione dovrebbe essere proibita! Si è padre e madre, si è genitore e genitrice. Non chiamate genitori chi mi ha generato. Non sono stati mai genitori, per me. Chi mi ha generato mi ha dimenticato, ignorato, abbandonato. Prima mio padre, che ha abbandonato il tetto coniugale quando avevo due anni, poi mia madre, che un anno e mezzo più tardi ha deciso di andare a raggiungerlo, senza di me evidentemente. E dunque sono atterrato all'orfanatrofio locale. Ecco la formidabile storia di famiglia che i miei genitori mi hanno lasciato in eredità e che la direttrice dell'orfanatrofio mi ha raccontato, senza risparmiarmi il minimo dettaglio, per spiegarmi che se continuavo a sporcare le lenzuola di notte nessun altro mi avrebbe voluto. Ed è più o meno quello che è successo; nessuno ha voluto adottarmi, fino all'arrivo dei Bell."
"È stato adottato tardi dai Bell. Aveva undici anni."
"Può darsi."
"Non se lo ricorda?"
"No."
"Raymond, ha cancellato dalla sua memoria più di sette anni di vita? Dai tre anni e mezzo agli undici anni?"
"Non cambiate le mie parole! È offensivo, insomma! Ho detto che non ricordavo a che età i Bell mi abbiano adottato! Ed è proprio così: non ne ho alcun ricordo. Mi ricordo solamente di aver passato tutto il mio tempo con William prima di aver passato tutto il mio tempo con i Bell. Forse l'adozione è stata regolarizzata tardi, ma io vivevo in casa loro come se appartenessi già alla loro famiglia molto prima dei miei undici anni
"Raymond, può parlarmi della sua famiglia di accoglienza?"
"Ho soltanto vaghi ricordi... Non so più neanche se si trattava dell'orfanotrofio o delle famiglie di accoglienza..."
"Ce ne sono state diverse?"
"Può darsi... Le dico che non so... Mi ricordo soltanto qualche viso, qualche nome... Hilda, una delle signore che si è occupata di me, e Sigfried suo marito... O Sigvard, forse... Ma che rapporto c'è tra la mia adozione e il rapimento di Julianne?"
"Lei conosce Richard Hemfield, Raymond?"
"L'assassino?"
"Sì, l'assassino."
"Ha qualcosa a che vedere con... Julianne?"
L'ispettore capo lasciò che un silenzio passasse tra di loro. Un silenzio che aveva la violenza del lutto e della perdita. Un silenzio che stordiva. Raymond Bell chiuse gli occhi per un istante, poi respirò profondamente prima di riaprirli.
"Raymond, dov'è sua sorella?"
"Dov'è mia..." La sua bocca si deformò all'improvviso in una piega piena di odio. Batté i pugni ammanettati sul tavolo. La sua capigliatura bionda sussultò contemporaneamente alla catena delle sue manette.
"Sta perdendo il suo tempo, Pearce!" urlò. "E quello di Julianne! Mia sorella è tutto, assolutamente tutto per me! Non lo vede?! Sa quante volte mio cognato mi ha accusato di essere innamorato di mia sorella? Di avere un rapporto incestuoso? Mentre tutto quel che facevo, lo facevo per dare a Julianne gli strumenti necessari per costruirsi una carriera! Per insegnarle a servirsi di questi strumenti. Tutto qui. Aiutarla e sostenerla, come deve fare un fratello. Tutto qui..."
Asciugò col rovescio della mano il moccio che gli colava in bocca.
Riprese con una voce stanca, graffiata dalla rabbia.
"Sta guardando nella direzione sbagliata, Pearce, sta guardando nella direzione sbagliata..."
64
Svezia, Falkenberg,
sabato 25 giugno 1988, ore 1.30
Skorpan dette un'occhiata al gigantesco tronco. Sormontato da un triangolo fiancheggiato da due cerchi, vestito di fronde e di fiori, troneggiava in mezzo al campo per festeggiare Midsommar, la festa di San Giovanni. Quella costruzione somigliava senza possibilità di errore a una verga che impalava una vagina; bisognava proprio essere ottusi per non vederlo.
Il primo giorno di festa stava finendo; dopo la degustazione delle tradizionali aringhe-patate-crema di porri-fragola e la danza dei ranocchi intorno a "l'albero di maggio" - come veniva definito in termini casti - le famiglie erano alla fine rientrare a dormire. Restavano quelli che dovevano smaltire una quantità astronomica di birra e di schnapps che avevano ingurgitato e quelli che si sbaciucchiavano, o peggio se era il caso.
Era il momento per tutti di attaccare il secondo pasto. Con quel che c'era sul menù, nessuno avrebbe rifiutato di mettersi a tavola: seni che traboccavano dalle scollature, gonne che nascondevano appena la virtù, sguardi che trasudavano sesso, il tutto annaffiato d'alcol. Gnam gnam.
La ragazza che Hilda aveva adocchiato veniva da Kiruna, quella città del nord del paese costruita su un pezzo di banchisa, "tra due colonie di pinguini", scherzava l'interessata. La tipica sartina che la sera di Midsommar dormiva con sette fiori differenti sotto il cuscino per sognare il futuro marito. L'archetipo di ragazza che aveva tardato a capire come si usava la fica e che, durante l'apprendistato, aveva ereditato tre mocciosi procurati da tre uomini differenti.
Era pazzesco il numero delle madri degeneri e delle sgualdrine depravate che inquinavano le strade. Il problema sembrava universale, senza tempo e già di attualità alcuni millenni prima. Con l'aiuto di Hugin e di Munin, i suoi fedeli corvi, Odino percorreva già i nove mondi per ripulire l'aria dai suoi atomi inquinati. Per impedire a quell'atmosfera viziata di penetrarti in casa e di soffocarti nel sonno.
Così come la madre era il primo paese in cui si viveva, la famiglia era il primo mondo in cui ci si muoveva. Ed era dovere di ciascuno occuparsi della propria famiglia. Proteggerla dalle madri degeneri e dalle sgualdrine depravate, impedire loro di riprodursi e di continuare a riprodursi.
Dunque bisognava eliminarle, completamente, e non permettere loro di nutrire la terra con le loro spoglie. Nutrirsene, riportandole alla loro essenza primaria: carne che si mastica, che s'inghiotte e che si digerisce.
Skorpan si leccò golosamente le labbra. Hilda aveva preparato per loro una succulenta cena di San Giovanni. Il paté che aveva servito come antipasto era il migliore che avesse mai fatto.
La ragazza di Kiruna sorrise a Skorpan.
Quello stupido di Sigvard la vedeva di nascosto. Il suo gusto in tema di ragazze era assolutamente deplorevole, e soprattutto pericoloso. Da quando la frequentava, l'atmosfera in casa era diventata irrespirabile.
La ragazza arrotolò una ciocca di capelli attorno all'indice inclinando la testa da un lato. Le lunghe piume degli acchiappasogni le accarezzavano le spalle nude come se Hugin e Munin, i corvi di Odino, fossero venuti a posarsi lì.
"Di', potresti riaccompagnarmi a Morup? Non ho proprio il coraggio di camminare..." domandò lei con voce avvinazzata, occhieggiando la Vespa di Skorpan.
"Se vuoi."
La ragazza si issò sullo scooter e si avvinghiò a Skorpan un po' troppo forte. Per una prima volta tutto andava a meraviglia. Dieci minuti più tardi, Skorpan posteggiava la Vespa dietro al fienile.
"Ehi, ma non siamo a Morup..."
Skorpan le sferrò un pugno alla mascella che la fece cadere all'indietro.
"No, non siamo a Morup."
Skorpan la scavalcò, si tolse la cintura e gliela passò intorno al collo. La ragazza sbatté le ciglia e, sentendo il legaccio intorno al collo, strabuzzò gli occhi. Skorpan si concesse due secondi prima di stringere la cintura per poter osservare la paura che stravolgeva lo sguardo della sua preda: gli occhi parevano uscirle dalle orbite.
La ragazza scalciava come un pesce spiaggiato, tirando fuori la lingua rosa alla ricerca di quell'ossigeno che non sarebbe arrivato mai più. Poi, all'improvviso, il suo corpo si afflosciò.
Skorpan snodò la cintura e la rimise nei passanti dei suoi jeans, osservando quel viso ritorto da una smorfia. Un orecchino a forma di acchiappasogni era atterrato nella bocca spalancata della sua preda.
Comunque, quella situazione era terribilmente ironica. Quei talismani non avevano fatto il loro dovere: l'incubo aveva inghiottito quella che avrebbero dovuto proteggere. Senza parlare delle piume. Pendevano sulle spalle della povera ragazza come se i corvi di Odino, Hugin e Munin, vi si fossero posati per mormorare quello che non andava nel suo mondo.
Skorpan strappò le piume nere e gliele infilò nelle orecchie.
Quella sciocca avrebbe fatto meglio ad ascoltarli.
65
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
sabato 25 luglio 2015, ore 8.00
Olofsson si stirò e concluse la sua ginnastica mattutina con uno sbadiglio. Il suo cervello tardava a carburare. Aveva bisogno ad ogni costo di un altro caffè e di qualcosa da mangiare, prima che Emily gli prosciugasse le meningi con la sua profilazione.
Non riusciva ad assorbire le mille informazioni che gli gettava addosso ogni minuto. Se avesse potuto, avrebbe preso appunti come un pazzo durante le sue spiegazioni. O meglio ancora: l'avrebbe registrata per ascoltarla più tardi facendo una piccola riunione con se stesso. Ma il fatto era che non si voleva coprire di ridicolo: la girl band del commissariato, Hansen e Lindbergh, seguiva senza problemi; come se la profiler stesse parlando di cucina. E allora non voleva passare per babbeo.
Olofsson diede un'occhiata ai suoi colleghi. Emily si era piazzata davanti al tabellone, con gli occhi fissi sulle terribili fotografie delle scene del crimine. Bergström scarabocchiava Dio solo sapeva cosa sul suo taccuino. E Hansen e Lindbergh erano immerse nei fascicoli delle vittime di Tower Hamlets.
Scherzi a parte, chi l'avrebbe mai detto? Hansen era attrezzata come un'attrice porno, senza il QI da struzzo che in genere si applicava in quei casi; e l'altra, quella piatta come una tavola, pronta a mangiare semi e a sputare su una bella bistecca, era anche lei una gran mente.
Il detective sbirciò il vassoio dei dolciumi. E se... E se invece di rimpinzarsi avesse mosso il culo e preso la parola, per una volta, eh? Tanto per far vedere che là dentro ce n'erano, di cose?
Olofsson si alzò di colpo, facendo cadere la sedia sul pavimento di linoleum e attraversò la sala di conferenze con passo deciso. Si piazzò accanto al tabellone e si sentì immediatamente come il figurante di un gioco televisivo. Scacciò quella immagine e indicò con il dito l'ultima fotografia. La nona.
"Freja Lund, ventidue anni. Viveva e lavorava a Torslanda. Studentessa di medicina, tirocinante allo studio medico Sjöwall."
Le colleghe lo fissavano con gli occhi sgranati, salvo la profiler: Emily lo scrutava senza battere ciglio. Eh be', guarda un po', bisognava davvero che ci si mettesse più spesso!
"Freja è stata vista per l'ultima volta allo Stardust, il bowling della zona industriale, sabato sera scorso, alle undici di sera" continuò. "Ritrovata sei giorni più tardi alla chiesa di Torslanda, nuda, strangolata, con la carne sezionata al livello dei seni, dei fianchi, delle cosce e dei glutei, come le vittime precedenti."
Gli occhi di Karla si posarono su ciascuna delle nove donne: Jeanine Sanderson. Diana Lantar. Katie Atkins. Chloe Blomer. Sylvia George. Clara Sandro. Maria Paulsson. Julianne Bell. Freja Lund.
Freja Lund. C'era tutta l'arroganza della gioventù, in quel suo sguardo. La smorfia provocante delle labbra. Quella bocca semiaperta, come se aspettasse un bacio dal suo amante. Aveva appena vent'anni. Una bambina.
"Come pensi che le rapisca?" chiese Olofsson girandosi verso Emily. "Non c'è nessun segno sul corpo che possa offrire una pista."
"Precisamente" intervenne Aliénor.
"Precisamente cosa, Lindbergh?"
"Questo segno doveva trovarsi sulla carne tagliata a pezzi" completò Emily. "Abbiamo un indizio nel video del rapimento di Julianne Bell: la velocità con cui viene immobilizzata suggerisce l'uso di un Taser o di uno shocker, che potrebbe essere stato applicato all'altezza delle anche o della vita. Dopo potrebbe averle somministrato un sonnifero, in modo da poter trasportare la preda senza problemi fino all'antro."
"Questo significa che possiede un luogo sufficientemente grande per imprigionare le sue vittime, farle a pezzi, conservare la carne..."
"Niente affatto. Un appartamentino con un ingresso privato può essere sufficiente: per la sua vittima ha bisogno soltanto di una cameretta per tenerla in cattività, di un bagno per fare a pezzi il corpo e di un frigorifero con due cassetti dei surgelati per conservarlo."
La spiegazione tanto fredda quanto macabra di Emily fu accolta da un momento di silenzio, giusto il tempo necessario per allontanare le immagini terribili che cominciavano a popolare i pensieri di ognuno.
Lo scricchiolio di una sedia interruppe il silenzio: Karla si era alzata e serviva nuovamente il caffè a tutti.
"Qualche altra vittima, oltre a Julianne Bell, è stata rapita mentre era nella sua vettura?" domandò la detective riempiendo le tazze.
"Sì, la quarta vittima: Chloe Blomer."
"Ad ogni modo, è strano questo cambiamento di modus operandi, non trovi?"
"Chloe Blomer era una piccola celebrità. Era la compagna di un giocatore di calcio dei Queens Park Rangers, una squadra di Londra. Julianne e Chloe erano prede più difficili da avvicinare."
"Perché sceglierle, allora?" intervenne Olofsson, seduto indolentemente sul bordo del tavolo delle conferenze.
"Proprio perché sono donne che non può avere, donne che per il loro comportamento incostante rifiutano di appartenere a un solo uomo, donne che farà sue loro malgrado, non violentandole - il possesso sarebbe troppo fugace - ma mangiandole. L'ingestione è il possesso definitivo. Il desiderio di costituire una sola unità è soddisfatto nel senso più letterale del termine: la sua vittima diventa il suo banchetto, essa abita in lui."
"Pensi che di tutto quello che fa subire alla vittima, cioè il rapimento, il sequestro e lo strangolamento, l'atto di cannibalismo sia la sua apoteosi?" domandò il commissario prima di sorbire un sorso di caffè.
"È di sicuro il momento in cui la sua eccitazione sessuale raggiunge il parossismo. Ma lo strangolamento delle vittime per lui è anche un momento d'intensa soddisfazione; lo sappiamo perché le strangola mettendosi di fronte a loro, come fanno capire i segni dei legacci sul collo. Assiste come uno spettatore soddisfatto al momento in cui le vittime incontrano la morte, pronte finalmente a essere mangiate. O meglio, al momento in cui la vita le abbandona. Invece per lui la caccia non è di primaria importanza: la vittimologia indica che sceglie le vittime come sceglierebbe un bue o un montone: non c'è un solo tipo, a parte il sesso della vittima e il colore della sua pelle."
Olofsson si alzò dal tavolo e raggiunse il vassoio dei dolci. Trangugiò una kanelbulle e tornò a sedersi al suo posto col suo bottino.
"E cos'è questo delirio delle scarpe? È un feticista o cosa?" Domandò prima di mordere golosamente la sua brioche alla cannella.
"Se fosse un feticista conserverebbe le scarpe o i piedi. Invece le rispetta e le lascia alla famiglia, e dunque alla polizia."
"Freud diceva che il piede è il sostituto del fallo per la donna e che per questo era il simbolo della potenza" spiegò Aliénor, mantenendo gli occhi fissi sul suo quaderno.
"Le scarpe hanno anche un forte simbolismo legato alla coppia" disse Karla. "Trovare una scarpa per il suo piede, come Cenerentola, di cui il principe conserva la scarpina di cristallo fino a ritrovare il piede che le si adatta perfettamente... E non sono forse le Siciliane che dormono con una scarpa sotto il cuscino per trovare marito?"
"Non credo che il simbolismo ruoti intorno alla donna, né intorno alla coppia" intervenne Emily. "Né che sia un fatto culturale, anche se le scarpe delle vittime sono state tutte trovate o davanti, o nelle vicinanze di casa loro, e gli Svedesi hanno l'abitudine di togliersele prima di rientrare. Credo piuttosto che questa firma lasciata dall'assassino sia un rito che ricorda il suo primo crimine. Questa prima volta ha rivestito un carattere sacro: con questa azione ha ancorato alla realtà le sue fantasie. Le scarpe abbandonate, a mio avviso, sono legate a qualcosa che è successo durante questo crimine originale. Forse una dimenticanza, un errore, o una reazione della vittima che ha colpito l'assassino al punto da farne la sua firma. Il sacchetto di plastica non è lì per proteggere le scarpe ma per sottolineare il ricordo di questa prima volta."
"Non credi che riportare le scarpe delle vittime vicino a casa loro sia anche un segno del suo senso di colpa?" chiese Bergström, inclinando all'indietro la sua poltrona per allungare le lunghe gambe sotto il tavolo.
"No, non c'è nessun senso di colpa nel nostro assassino. Si tratta di un sociopatico incapace di sentire la minima compassione. Ancor meno la colpa."
Lo sguardo di Emily si perse un momento tra le foto attaccate al tabellone.
"Non bisogna dimenticare neanche i calzini accuratamente piegati in tutte le scarpe sinistre" continuò. "Questo è un elemento essenziale, perché è un'aggiunta dell'assassino. Esprime la sua volontà di collegare le vittime tra di loro, come se facesse una collezione; ma soprattutto di collegarle alla proprietaria del DNA trovato nelle scarpe di Jeanine Sanderson, Maria Paulsson et Julianne Bell, la famosa vittima zero che non abbiamo ancora identificato... O forse la persona zero... Forse è lei all'origine dei crimini, senza per questo essere una delle vittime."
"E le piume infilate nelle orecchie? Questa è davvero incomprensibile, insomma!" sbottò Olofsson.
La profiler bevve un sorso di caffè.
"Queste penne nere mi hanno fatto pensare ai messaggeri del dio Odino nella mitologia nordica: i due corvi Hugin e Munin. Hugin, che significa "pensiero", e Munin, "memoria". Ogni giorno, all'alba, partono per sorvolare e spiare i nove mondi su cui regna Odino. L'indomani ritornano, si posano sulle spalle di Odino e gli raccontano nel cavo dell'orecchio quello che hanno potuto spiare."
Karla aggrottò le sopracciglia.
"È per questo che mi hai chiesto ieri se si raccontava ai bambini la mitologia nordica" commentò, rivolta a se stessa.
"Per il momento non ho nessuno strumento per verificare questa teoria" aggiunse Emily, "ma sono quasi certa che questa storia abbia ispirato la firma dell'assassino. O vuole impedire alle sue vittime di ascoltare quello che è stato riportato da Hugin e Munin, o vuole punire le vittime per non averlo ascoltato, cioè vuole impedire loro di far tornare alla memoria un ricordo traumatizzante oppure punirle perché questo ricordo traumatizzante non è servito di lezione."
"Avevo pensato al racconto de Il Corvo, di Edgar Allan Poe, a proposito delle piume nelle orecchie" intervenne Aliénor, scarabocchiando. "Quel corvo che ripete: "Mai più". Allora ero sulla pista sbagliata. Però c'è un'altra possibilità da prendere in considerazione riguardo all'identità dell'assassino."
"Aspetti sempre la fine per svelare le tue teorie, così ti riservi un piccolo effetto sorpresa, vero Lindbergh? Eh?" la punzecchiò Olofsson.
"Si tratta di un discendente di Elizabeth Stride oppure di John McCarthy."
"E chi sarebbe, questo John McCarthy?" chiese Bergström.
"John McCarthy era Jack lo Squartatore."
"Ma stai dando i numeri, Sherlock!" scattò Olofsson, sputando una pioggia di briciole di brioche. "Jack lo Squartatore non è mai stato identificato!"
"John McCarthy era il proprietario del Miller's Court" continuò Aliénor con lo stesso tono calmo, "dove viveva ed è stata uccisa Mary Jane Kelly, l'ultima vittima ufficiale di Jack lo Squartatore, o piuttosto vittima "canonica", come dicono gli studiosi del Ripper. Ci sono una quantità di elementi che indicano la sua colpevolezza. Prima di tutto l'aspetto fisico di McCarthy corrisponde alle diverse testimonianze dell'epoca su Jack lo Squartatore. E poi ha testimoniato di aver visto il fegato e altri organi di Mary Jane Kelly sul tavolo vicino al letto dove era stata lasciata morta. Ma come poteva identificare un fegato nella penombra e in mezzo allo scannatoio che era la scena del crimine? E, d'altra parte, come faceva a ricordarsi quel genere di dettagli, malgrado lo choc dell'orribile scoperta del corpo massacrato della donna? Per di più, c'è il fatto che il retrobottega di John McCarthy si trovava a poco più di un metro soltanto dalla camera della vittima. E questo spiegherebbe come abbia fatto Jack lo Squartatore a sparire dopo l'assassinio di Mary Jane Kelly senza farsi notare, mentre era coperto di sangue, si stava facendo giorno e le strade cominciavano a riempirsi di gente. C'è anche il fatto che ci sono stati altri due omicidi femminili a Miller's Court mentre McCarthy ne era ancora il proprietario, uno nel 1898 e uno nel..."
"La versione corta, Lindbergh, please?" abbaiò Olofsson.
Aliénor alzò lo sguardo verso gli ascoltatori.
"La versione corta, Olofsson? In inglese, il diminutivo di John è Jack."
66
Inghilterra, Berkshire, Crowthorne,
ospedale psichiatrico di Broadmoor,
lunedì 27 luglio 2015, ore 10.30
Alexis consultò rapidamente il cellulare. Ancora nessun messaggio.
Domenica sera, dopo un fine settimana passato ad analizzare nei minimi dettagli le minute del processo e dell'interrogatorio di Hemfield, e a cercare tra la quantità astronomica di ristoranti italiani che popolavano i dintorni di Floral Street nel quartiere di Covent Garden, Stellan e Alexis alla fine avevano ritrovato la pizzeria dove aveva lavorato Angela Hemfield: Antonelli, su Garrick Street, aperta dal 1971. Il proprietario si ricordava molto bene di Angela perché, col passare degli anni, era diventata una grande amica della moglie e la coppia aveva seguito il caso di Tower Hamlets con attenzione. Aveva consigliato loro di contattare direttamente la moglie, che in quel momento era a casa della figlia, in Cornovaglia. Alexis aveva dunque lasciato il giorno prima, alle diciassette, un messaggio alla signora Antonelli e aspettava impazientemente la sua chiamata.
Allungò le braccia sopra la testa, intrecciò le dita e stirò la schiena. Quando era arrivata all'ospedale psichiatrico, il suo stomaco era talmente aggrovigliato che aveva difficoltà a respirare. Non aveva nessuna voglia di tornare a Broadmoor e di respirare la stessa aria viziata di Hemfield. Ma se voleva andare avanti con la sua inchiesta non aveva altra scelta. Pearce si era incaricato di ottenere le autorizzazioni necessarie, non senza avvertirla che si trattava di un favore eccezionale.
"Signorina Castells?"
Alexis alzò gli occhi su un uomo dal fisico intimidente.
Stava sulla soglia della stanzetta dove Pat, il direttore dell'ospedale, l'aveva ammessa un'ora e mezzo prima. Senza finestre, ammobiliata con un tavolo quadrato e due sedie, era spartana e fredda come una cella.
"Albert Smith. Ci siamo visti la settimana scorsa" aggiunse l'uomo, con un cenno del capo. "Ero presente quando ha incontrato Richard Hemfield" precisò, sedendosi davanti a lei. Era il quarto infermiere che Alexis vedeva dal suo arrivo. Quegli uomini e quelle donne conoscevano la quotidianità e le abitudini di Hemfield molto meglio del suo psichiatra, le sue routine e le sue manie. Forse anche i suoi segreti.
"Mi ricordo di lei, Albert; grazie per aver accettato di incontrarmi" gli sorrise.
Non aveva scordato la sua connivenza con Hemfield.
"Come sta?" chiese lui con voce calda e profonda.
La domanda colse di sorpresa Alexis per qualche secondo.
"Bene, grazie" si affrettò poi a rispondere.
"Pat mi ha detto che sta preparando un libro su Richard?" Alexis annuì, sprofondando un po' di più nel suo inganno. Mai avrebbe scritto un libro su quell'individuo. Mai.
"Se accetta di cooperare."
"Assieme all'ispettore capo Pearce, lei è la sola visita che abbia accettato dal suo arrivo qui. Credo che desideri a tal punto il suo perdono per la morte del suo congiunto, che accetterebbe qualsiasi cosa in cambio dell'assoluzione."
Lo sguardo di Alexis si spostò nella stanza stretta. Andò a sbattere sui muri di un bianco ingiallito prima di fermarsi di nuovo su Albert Smith. Doveva rimanere rilassata. Se si fosse chiusa come un'ostrica il suo interlocutore avrebbe fatto lo stesso, era inevitabile.
"Grazie" mormorò, abbassando gli occhi sul taccuino.
Lui le indirizzò un sorriso pieno di simpatia.
"Da quanto tempo si occupa di Hemfield?"
"Dal suo arrivo. Sono tredici anni che lavoro a Broadmoor, e da undici sono nel reparto di massima sicurezza."
"Com'è cambiato il suo comportamento, dopo il suo arrivo qui?"
"Le medicine hanno calmato le sue pulsioni - non lo troviamo più con la mano nei pantaloni così spesso come in passato -, ma queste non sono completamente scomparse. Le cure non hanno peggiorato la sua aggressività. Richard progredisce con il suo psichiatra più che con la terapia di gruppo, e adesso riesce a dare un nome ai suoi desideri e alle sue pulsioni. D'altronde, lo ha sperimentato in prima persona quando è venuta qui."
Alexis deglutì, il solo ricordo delle parole di Hemfield le annodava la gola.
"Lei era paralizzata, e ne sono desolato, ma da parte mia ero molto soddisfatto dei suoi progressi."
Gli occhi dell'infermiere passarono da Alexis al tavolo graffiato. Le sue labbra si erano piegate, letteralmente incollate l'una all'altra come se volesse impedirsi di continuare a parlare.
"Davvero, signorina Castells" finì per dire posando su di lei uno sguardo prudente, "Richard è fuori posto nel reparto di massima sicurezza." Alexis era d'accordo con lui su quel punto. Il suo posto non era in un ospedale, dove gli portavano il pranzo in camera e dove passava da un atelier d'arte a un altro di musica. Il posto di Richard Hemfield era in carcere.
"Come si comporta con gli altri carcerati?"
"Pazienti."
"Come, prego?"
"Qui si parla di pazienti, signorina Castells, non di carcerati."
"Sì, mi scusi... Pazienti" rettificò Alexis sorridendo tra sé e sé per il suo lapsus. Quella parola le scorticava davvero la bocca.
"Nel reparto di sicurezza i nostri rapporti con i pazienti e quelli tra i pazienti possono essere di rara violenza. Richard è stato ferito due volte."
"Come è successo?"
"Un paziente gli ha tirato in faccia una sedia, gridando che Richard aveva un nido di vespe nel naso. Un'altra volta ha avuto la sfortuna di prendere un giornale lasciato sul tavolo nella sala comune: un altro paziente scontento gli ha buttato in faccia i suoi escrementi prima di riempirlo di botte."
Alexis fece una pausa di qualche secondo, fingendo compassione.
"Signor Smith, potrebbe darmi un'idea dell'impiego del tempo del signor Hemfield?" continuò poi con calma.
"Be'... Richard... Si sveglia al mattino tra le sette e le sette e mezzo. Gli portiamo la prima colazione tra le sette e mezzo e le otto e gli somministriamo le sue medicine. Il pranzo e la cena sono nella sala comune a mezzogiorno, e alle diciannove con gli altri pazienti del reparto di alta sicurezza. Alle nove di sera va a coricarsi. È in terapia di gruppo il lunedì e il mercoledì pomeriggio, dalle quindici alle quindici e quarantacinque. Vede lo psichiatra il martedì, dalle dieci alle dieci e quarantacinque. È in terapia artistica il giovedì, dalle quattordici alle sedici e musicoterapia il venerdì, sempre dalle quattordici alle sedici. Il resto è tempo libero, che passa nella sua stanza o nella sala comune."
"Le attività di gruppo si svolgono qui, in questo reparto?" Albert Smith rispose affermativamente con un cenno del capo.
"I pazienti di questo reparto non escono mai da questo edificio. In questo ha ragione: Broadmoor è proprio una prigione."
"Cosa fa, durante il suo tempo libero?"
"Legge i giornali, guarda la televisione."
"Non legge libri?"
"No, nessuno, e neanche i giornali del resto - ne legge soltanto uno, una volta a settimana."
"Uno soltanto?"
"Sì. Il Times, il giovedì. La mattina, appena uscito dalla sua camera. In genere lasciamo qualche giornale a disposizione nella sala comune."
"Legge i fatti di attualità, o le pagine sportive o politiche?" Albert Smith sogghignò. Le sue spalle massicce furono scosse da piccoli movimenti come se si fosse messo a danzare.
"No. Legge gli annunci personali."
Alexis sgranò gli occhi per la sorpresa.
"E, per quanto possa sembrarle strano, questa lettura lo stimola molto... Sessualmente parlando."
"Vuol dire che..."
"Che la lettura del Times gli procura un'erezione!"
67
Svezia, Falkenberg,
sabato 25 luglio 2015, ore 11.00
Emily viaggiava coi finestrini aperti.
Il mare rilasciava zaffate di salsedine che s'intrufolavano nell'abitacolo, lasciandosi dietro un persistente odore di iodio. Provenivano da una spiaggia di ciottoli, la cui barba riccioluta di alghe era stata tagliata dalla risacca.
"Bergström ha parlato con Scotland Yard" annunciò Karla dopo aver riagganciato. "Le informazioni fornite da Raymond Bell sono state verificate."
"Non abbiamo niente sull'entourage di Julianne Bell?"
"No, niente d'interessante, per il momento. Staremo a vedere cosa ci racconterà il vecchio."
Raymond Bell, nato Widstradt, era stato accolto tra i quattro e gli undici anni da una famiglia di Falkenberg: Hilda e Sigvard Stenson.
Raymond Bell, però, affermava di essere sempre stato dai Bell, fin da quando aveva iniziato le elementari, a sei anni. La famiglia aveva traslocato a Falkenberg nel 1981 e si era sistemata a quattro chilometri dalla fattoria degli Stenson. Julianne e William Bell frequentavano la stessa scuola comunale di Raymond. L'adozione era stata ufficializzata soltanto nel 1986, ma era in effetti molto probabile che la procedura fosse stata lunga e fastidiosa, come spesso capitava, e che gli Stenson avessero affidato Raymond ai Bell prima che ne ottenessero la custodia formale.
Emily seguì le indicazioni del GPS e svoltò a sinistra, per una strada che somigliava a una lingua di terra distesa su un prato d'erba fitta.
Un centinaio di metri più in là tre edifici di legno rosso, disposti a U, si ergevano nel bel mezzo dei campi.
Emily parcheggiò su uno spiazzo erboso baciato dal sole.
Un anziano col cappellino in testa sonnecchiava su una sedia a dondolo vicino a un melo, unica isola di penombra di quella spianata.
"Buongiorno, signor Stenson. Sono la detective Hansen, e le presento Emily Roy" lo salutò Karla, porgendogli la mano.
"Siete in anticipo" commentò Sigvard Stenson con voce secca.
In effetti erano in anticipo di tre quarti d'ora: Emily preferiva interrogare i testimoni sorprendendoli nel loro trantran quotidiano.
"Vuole che torniamo più tardi?"
"No, ormai siete qui, tanto vale che restiate."
La profiler osservava Sigvard Stenson: le rughe che gli solcavano il viso spigoloso e gli aggrinzivano le labbra, il corpo secco e teso, le mani bitorzolute, abbrancate ai braccioli come artigli. Capiva qualcosina di svedese, ma il linguaggio del corpo era universale.
"Il vostro capo, il detective Olofsson, mi ha spiegato che state indagando su uno dei ragazzi che Hilda teneva qui?" chiese loro il vecchio, spingendo sul terreno con un piede per accentuare il dondolio della sedia.
"Proprio così, signor Stenson" rispose Karla senza rilevare l'errore dell'anziano signore.
Olofsson non poteva che esserle superiore in grado - dopotutto lei non era altro che una donna, nevvero?
"Sarà ancora qualche storiaccia di pedofilia, la vostra..."
"Mi spiace, signor Stenson, non possiamo discutere i dettagli dell'inchiesta con lei. Lei accoglieva qui degli orfani, insieme a sua sorella Hilda?"
Quello ficcò una mano nei pantaloni e ne trasse una scatoletta di tabacco rotonda. Ne svitò il coperchio metallico e tirò fuori un sacchetto di snus, che si mise tra il labbro superiore e la gengiva.
Il vecchio non aveva nessuna intenzione di farle entrare in casa; era per questo che si era messo fuori. Non aveva previsto nessuna sedia per le due ospiti: contava di sbrigarsela in fretta.
"Hilda, sì... Pace all'anima sua" sussurrò a un tratto, con gli occhi smarriti nel vuoto. "È da un sacco di tempo che non ci sono più mocciosi che scorrazzano per il terreno. Ma era piuttosto mia sorella, quella che accoglieva i bambini. Va' a sapere perché, le faceva piacere averceli sempre attaccati alle gonne. Io mi occupavo della panetteria. Ho passato i miei anni migliori a lavorare lì: sveglia alle tre di mattina, tutti i giorni che Dio mandava in terra."
Tamburellò sui braccioli della poltrona con le dita rose dall'artrite.
"Si ricorda di qualcuno dei vostri piccoli ospiti arrivati verso la fine degli anni Settanta?"
Quello si mise a sghignazzare, col sacchetto di tabacco che gli deformava il labbro superiore.
"Scherza? Tornavo a casa soltanto la sera, per mangiare, e non avevo nessuna voglia di avere dei mocciosi tra le scatole. Se ne occupava mia sorella. Non aveva potuto avere figli, capite..."
"Si ricorda di un certo Raymond Widstradt? Poi è stato adottato dalla famiglia Bell."
"Come vuole che faccia a ricordarmi dei nomi di quei ragazzini che non vedevo mai?!"
Karla gli porse un foglio. Si trattava di una fotocopia di una polaroid che le era stata data dallo stesso Raymond Bell. Lo si vedeva, all'età di undici anni, insieme a Julianne e William Bell. I tre bambini sorridevano davanti a un bell'albero di Natale.
"Guardare in fondo non le costa nulla, no?" insistette lei Sigvard Stenson diede un'occhiata alla stampa ingiallita.
"Qual è?"
"Quello in mezzo."
Scosse nuovamente la testa, da destra a sinistra.
"No, non vedo. Orbene, non è che disdegni la vostra compagnia, ma vorrei andare a pranzare."
Sigvard Stenson fece alzare il suo corpo ossuto serrando le labbra e si congedò con un cenno del capo, prima di rientrare in casa.
Karla osò una risata amara.
"Be', un vero cancro, questo vecchio! Spero che sua sorella fosse più gentile, coi bambini! Tu che ne pensi?"
Emily si guardò intorno.
"Che Hilda Stenson è morta l'8 ottobre del 2004. E che gli omicidi di Tower Hamlets sono cominciati tre settimane dopo."
68
Crowthorne, ospedale psichiatrico di Broadmoor,
lunedì 27 luglio 2015, ore 11.30
Alexis si affrettò a salire in macchina per sfuggire alle raffiche di pioggia. Stellan non le lasciò nemmeno il tempo di asciugarsi il viso imperlato di gocce.
"Allora?"
"Devo chiamare Pearce."
"Che cosa..."
"Aspetta. Fammi telefonare."
Alexis prese il cellulare e compose il numero con le dita ancora bagnate. L'ispettore capo rispose quasi immediatamente.
"Jack, sono appena uscita da Broadmoor. Ho una pista su Hemfield, ma avrei bi..."
"Alexis..."
Dall'altra parte della linea, Pearce s'interruppe per esalare un lungo sospiro.
"Devi smetterla, con Richard Hemfield. Abbiamo appena finito di vagliare la sua corrispondenza e non c'è niente, Alexis, niente. Per me è difficile da ingoiare quanto le è per te, credimi... Ma ascolta... È stata Emily a convincermi affinché ti aiutassi a ottenere le autorizzazioni necessarie a questa visita, sperando che saresti riuscita a lasciarti la cosa alle spalle per passare ad altro. Devi lasciar perdere adesso, Alexis, va bene? Dai, stammi bene."
Pearce riagganciò. Paralizzata dalla sorpresa, Alexis tenne il telefono incollato all'orecchio. Il cellulare prese subito a squillare. Doveva essere Pearce che la richiamava, senz'altro.
"Jack, io..."
"La signorina Alexis Castells?"
Una voce fricativa femminile, che aveva pronunciato perfettamente il suo patronimico catalano.
"Sono la signora Antonelli, l'amica di Angela Hemfield. Ha parlato con mio marito, il proprietario del ristorante in cui lavorava Angela."
"Sì, ma certo! Signora Antonelli. Grazie mille per aver richiamato."
Alexis avvicinò il telefono a Stellan affinché potessero seguire insieme la conversazione.
"Sono desolata di averci messo tanto, ma mia figlia ha appena partorito il terzo figlio, e la casa è a ferro e fuoco; non abbiamo avuto un minuto per respirare! Lei ha per caso origini catalane?"
"Mio padre è catalano."
"Ah! E lei parla la lingua?"
"No, soltanto lo spagnolo, con grande disappunto di mio padre!"
"Posso immaginarlo! Io sono andalusa. Venni un anno a Londra, per imparare la lingua, visto che volevo lavorare nel campo del turismo, poi però ho incontrato mio marito e non sono più tornata! Un'andalusa a Londra... Una cosa piuttosto contronatura, vero? Allora... Mi dicono che vuole scrivere un libro su Angela?"
Stavolta le fu più difficile mentire.
"Sto preparando un libro su suo nipote."
"Oh, santo cielo, è vero... Che storia tremenda... Grazie a Dio, Angela non è più qui per vedere cosa ha combinato la carne della sua carne... Se così vogliamo dire, ecco..."
"Lei conosceva Angela da tanto tempo?"
"Oh, sì. La conobbi quando arrivai a Londra, nel 1972. Abbiamo condiviso un appartamento. Lei c'era, quando ho incontrato mio marito. Durante l'estate del 1972, fummo assunte come cameriere da quello che sarebbe poi diventato mio suocero."
"Che tipo di donna era?"
"Oh, un po' oca e pazzerella, ma adorabile. Col cuore in mano. Quando però il suo fratellastro e sua cognata morirono in un incidente d'auto, la sua vita cambiò dal giorno alla notte, poverina. Ne fu talmente infelice che la vedemmo deperirsi giorno dopo giorno. All'epoca avevo appena partorito le mie gemelle, e non potei aiutarla come avrei voluto. Ereditò la custodia del nipote, un ragazzino che non conosceva nemmeno, visto che non vedeva il suo fratellastro da più di dieci anni. L'arrivo di quel bambino le distrusse la vita. Non era colpa del piccolo, poverino, nemmeno lui aveva chiesto niente, ma... Non funzionò... Lei continuò a condurre una vita da nubile con il piccolo in casa, se capisce che intendo... Angela, in quel momento, era ancora troppo immatura per poter avere la custodia di un bambino... Fu un disastro, tanto per lui che per lei."
"Per lui?"
"Be', alla fine si è messo ad ammazzare ragazze e a esporle come fossero carne da macello sulla pubblica piazza!"
Delle grida infantili le sovrastarono la voce per un istante.
"Aspetti, mi dia solo un istante."
Angela Antonelli consolò in spagnolo una piccola Susana, che a quanto pareva aveva appena dovuto incassare un rifiuto da parte della madre.
"Dunque... Dove eravamo rimasti... Durante l'estate del 1979, Angela partì in vacanza in Svizzera con delle sue amiche e il bambino, e, quando tornò, ci disse che aveva incontrato l'uomo della sua vita e che si sarebbe trasferita lì. Così, di punto in bianco!"
"Con Richard?"
"Ah, già! Richard, giusto. Ormai lo chiamo soltanto Hemfield o l'assassino di Tower Hamlets, così è più facile. Comunque sì, con Richard. Se ne andarono entrambi e non ebbi più notizie. Nada. L'ultima volta che ho sentito parlare di lui, è stato il giorno del suo arresto. Le lascio immaginare lo shock, per me e mio marito. Uno shock tremendo."
"E non ricevette più nessuna notizia da Angela, dopo la sua partenza?"
"No, mai più niente, nessun contatto. Come se di colpo fosse scomparsa dalla faccia della terra. Zac! Va' a sapere se c'è mai andata per davvero, in Svizzera... No, no, aspetti... Tutte le volte m'impiccio... Mi sbaglio sempre con quell'altra..."
"Come dice, scusi?" intervenne Alexis, un po' smarrita.
"No era Suiza, era el otro... Suecia!"
"In Svezia? Vuole dire che la zia di Hemfield si è trasferita in Svezia insieme a Richard?" esclamò Alexis.
"Ma sì, che sciocca che sono. La Svezia, non la Svizzera. Comunque è uguale, sono sempre due paesi in cui non vai mica a fare le vacanze..." concluse ridendo la signora.
Stellan alzò gli occhi al cielo.
"Si ricorda il nome de suo compagno? L'uomo con cui andava a vivere?"
"Ah, no. Mi spiace. Però mi ricordo un'altra cosa..."
69
Londra, Oxford Street,
venerdì 29 ottobre 2004, ore 20.00
Col corpo androgino e il seno quasi inesistente, Jeanine Sanderson somigliava a un topino da teatro dell'opera. Perfino le scarpe si accordavano a meraviglia con il suo fisico da danzatrice: delle piccole ballerine dorate.
Eppure Jeanine Sanderson, quasi venticinque anni, profumava di sesso.
La signorina uscì dal Boots, dove lavorava, a due passi dalla stazione di Bond Street, e risalì per Oxford Street fino a Oxford Circus. Proseguì lungo Regent Street e si fermò per un quarto d'ora in un sushi bar, dove spizzicò qualche maki. Poi svoltò un po' più giù, verso Foubert's Place, per raggiungere Marlborough Street. I suoi colleghi di lavoro l'aspettavano al pub Shakespeare Head.
Attirati dal clima mite di quell'inizio di fine settimana, crocchi di londinesi degustavano le loro pinte gomito a gomito lungo i marciapiedi. Jeanine cominciò con due bottiglie di vino bianco, da condividere con le sue amiche, seguite da due gin tonic e da un mojito.
Quando lui l'abbordò davanti ai bagni misti, l'alcol le rallentava la dizione e i tempi di reazione. L'uomo fece scivolare il sonnifero nel secondo shot che le offrì, appena prima di proporle di prendere una boccata d'aria.
Cinque minuti dopo, verso le 23.30, Jeanine accettò di farsi riaccompagnare da lui. Salirono nella sua macchina, parcheggiata una decina di metri più in là e, non appena ebbe posato le sue belle chiappe sul sedile, la ragazza si addormentò con la testa poggiata sulla spalla dell'uomo.
Gli restavano parecchie ore, prima che rinvenisse; e dunque aveva tutto il tempo di andare fino al cottage, d'incatenarla e di rinchiuderla. Poi avrebbe aspettato che si risvegliasse per cominciare a divertirsi.
Le alzò la gonna fin sopra i fianchi e le sfilò il tanga.
"Mia cara Hilda, questa è per te" sussurrò allo specchietto retrovisore.
Poi partì.
70
Londra, New Scotland Yard,
lunedì 27 luglio 2015, 13.30
Alexis aveva più volte tentato di richiamare Pearce ma senza successo, e i suoi messaggi erano rimasti senza risposta. Anche il cellulare di Emily squillava a vuoto. Non poteva aspettare all'infinito; doveva vederli, e presto.
Si era dapprima recata da Emily, sulla Flask Walk, a Hampstead. Non ricevendo risposta, Stellan l'aveva poi lasciata a Scotland Yard, dove stava aspettando Pearce da più di mezz'ora.
"Alexis?"
L'ispettore capo venne giù per il corridoio a grandi falcate. Alexis gli corse incontro.
"Che succede?" le chiese lui, teso.
"Dammi cinque minuti."
Pearce chiuse gli occhi.
"Accidenti, Alexis!"
"Cinque minuti."
Un sospiro esasperato, poi un gesto della mano le fecero segno di continuare a parlare.
"Ho rintracciato un'amica della zia di Hemfield, la quale mi ha detto che, nel 1979, Angela - è il nome della zia - si era trasferita in Svezia insieme a Richard, di cui aveva la custodia, per convivere con un uomo che aveva incontrato laggiù. Non si ricorda più il suo nome, ma quell'uomo era proprietario di una panetteria e abitava con sua sorella."
Pearce rimase di stucco.
"Che succede?" chiese Alexis, col cuore in tumulto.
"Abbiamo scoperto che Raymond Bell era stato adottato dalla famiglia Bell. Prima dell'adozione, viveva con una famiglia che lo aveva accolto, a Falkenberg; un fratello e una sorella, proprietari della più grande panetteria della città."
Alexis si sentì la gola secca. Deglutì prima di dire: "Allora, adesso la vuoi sentire, la mia teoria su Hemfield?"
Alexis e Pearce terminarono il loro resoconto col fiatone, come se avessero appena fatto i cento metri piani.
Davanti a loro, sul grande schermo della sala conferenze, Emily, Bergström e la sua squadra rimanevano in silenzio, assimilando le informazioni che avevano appena ricevuto.
Il commissario fu il primo a parlare.
"Richard Hemfield e Raymond Bell, quindi, sono stati nella stessa casa famiglia, nello stesso periodo?"
"Proprio così."
"Ma... Che ruolo avrebbe Raymond Bell in tutto questo?" chiese Karla. "Pareva piuttosto scosso, quando l'avete interrogato."
"Se ciò che ha detto Raymond Bell è la verità, ossia che ha cominciato a vivere coi Bell molto prima che la sua adozione venisse formalizzata, è possibile che lui ed Hemfield si siano semplicemente incrociati e che Raymond Bell non ne abbia memoria. Ma il loro legame non può essere una semplice coincidenza. Ma c'è dell'altro. Alexis?"
"Stamattina ero a Broadmoor, per intervistare il personale che lavora a contatto con Hemfield. Ho pensato che magari potevano... In breve, ho scoperto che Hemfield legge gli annunci personali sul Times tutti i giovedì mattina, e che quella lettura lo soddisfa al punto da eccitarlo, in termini sessuali."
"Vuoi dire che glielo fa venire duro?" esclamò Olofsson.
"Sì, proprio così. Glielo fa venire duro."
"Ah, che gran maniaco..."
"Ora, si dà il caso che il Times non pubblichi praticamente più annunci personali di incontri; certe settimane non ne pubblicano affatto. Il che significa che Hemfield legge le offerte d'impiego o gli annunci immobiliari. Ma ne dubito. Penso invece che Richard Hemfield comunichi col suo complice, o piuttosto che il complice di Hemfield comunichi con lui attraverso quegli annunci grazie a dei messaggi in codice, per informarlo. Informarlo di cosa, lo ignoro... Forse di un piano per favorire la sua evasione?"
"Helvete!" esclamò Olfsson.
"I miei uomini stanno scartabellando la pagina degli annunci privati del Times del giovedì" intervenne Pearce. Cominciamo da giovedì scorso e risaliamo fino a tre mesi prima dell'omicidio di Maria Paulsson."
"Me ne occupo io" propose Aliénor.
"Sei molto gentile, Aliénor, ma ho già una squadra che ci lavora."
"Lo so che sono gentile. Mi mandi gli annunci. Se esiste un qualche codice, lo decifrerò molto più rapidamente dei "suoi uomini"."
71
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, ore 2.00
Aliénor stappò il termos e si riempì la tazza di caffè. Poi aprì la scatola di pepparkakor presi da Anna, ne estrasse due biscotti e la richiuse.
Ora che aveva finito, poteva finalmente dissetarsi e ristorarsi.
Diede un morso al primo biscotto alla cannella.
Tutto era iniziato con l'Abate Tritemio e il suo trattato di angelologia. No, non era vero. Tutto era iniziato con una ricerca su Erodoto, quando era in terza. In uno dei racconti dello storico greco, Aliénor aveva letto l'aneddoto di uno schiavo cui un re aveva fatto rasare il cranio per potergli tatuare un messaggio sulla testa. Il re aveva poi atteso che i capelli del servo fossero ricresciuti, poi l'aveva spedito con il suo messaggio segreto al suo genero. Era un'idea geniale: nascondere un messaggio in un altro, affinché non potesse essere individuato. In questo la steganografia, come veniva chiamata dagli specialisti, era superiore alla crittografia, che si limitava a rendere inintelligibile il messaggio.
Aliénor si era dunque documentata; aveva letto, studiato e analizzato tutto ciò che era riuscita a trovare sull'argomento, sperimentando nel contempo le tecniche di steganografia su delle cavie alle medie e poi al liceo. Aveva così preso l'abitudine di dissimulare, nelle proprie ricerche e dissertazioni, parole d'ingiuria nei confronti dei professori che le rendevano la vita più difficile. Quei messaggi passavano inosservati, il che le dava una grande soddisfazione, un sentimento di vittoria gioiosa, di giubilo, per quanto effimero.
Dieci ore prima aveva ricevuto gli annunci del Times che doveva analizzare per decifrare il codice - sempre che contenessero tale codice. Poiché preferiva lavorare su carta piuttosto che su schermo, aveva stampato tutto, centinaia di annunci, e si era messa al lavoro.
Il compito più arduo era stato quello di individuare la matrice. Ci era riuscita dopo cinque ore e dieci minuti. La chiave era semplice: il messaggio era formato dalla prima e dall'ultima parola della prima linea, dalla terza e dalla terzultima parola della terza linea, eccetera.
Una volta decifrato il codice, Aliénor aveva contattato l'ispettore capo Pearce per comunicarglielo. Lui l'aveva ringraziata, aggiungendo che "i suoi uomini" avrebbero setacciato il resto degli annunci e che poteva andarsi a riposare. Ma Aliénor non aveva nessuna voglia di riposare. Non sarebbe andata a letto. Ora che conosceva il codice, voleva decifrare tutti i messaggi composti dal complice di Hemfield. E così aveva fatto. Li aveva appena inviati all'ispettore capo. Ai "suoi uomini" non restava altro da fare che individuare il mittente.
Ormai non c'era più nulla che le impedisse di andare a riposare.
72
Inghilterra, Hertfordshire,
martedì 28 luglio 2015, ore 3:30
Come sempre, quando partiva in missione, Pearce aveva inviato un messaggio a Emily. Non si aspettava nessuna risposta; era semplicemente perché fossero collegati col pensiero, in quel momento. Non sapeva perché, ma era divorato da quella paura viscerale di doversene andare senza averla potuta salutare... In realtà lo sapeva benissimo, perché.
"Arriviamo tra dieci minuti, sir" annunciò la poliziotta al volante.
I poliziotti dello Yard erano ancora intenti ad analizzare i messaggi inviati a Hemfield che Aliénor Lindbergh, la straordinaria stagista di Bergström, aveva già decifrato. I più recenti annunciavano il rapimento di Maria Paulsson e di Freja Lund, e la loro morte, tramite degli indirizzi email fittizi; le date dei crimini erano state dissimulate all'interno di due appuntamenti fissati per delle visite ad appartamenti in affitto.
L'unica zona d'ombra che non riuscivano a chiarire, però, era il passato di Richard Hemfield. Nel 1979, lui e sua zia erano scomparsi all'improvviso, e quindici anni più tardi era ricomparso a Londra, da solo. Se Hemfield era cresciuto in Svezia, perché di lui non si trovava traccia? E sua zia? Che fosse stata uccisa dal nipote stesso?
Senza la testardaggine di Alexis, senza la sua "ossessione" per Hemfield - come aveva sottolineato l'ispettore capo -, niente di tutto questo sarebbe stato scoperto. Le doveva molto. Molto più di quanto non potesse immaginare, del resto. Senza quella perseveranza, Pearce sarebbe stato riconosciuto responsabile di un monumentale errore giudiziario e costretto a dare le dimissioni da superiori e pari grado.
I tecnici informatici di Scotland Yard avevano seguito la pista degli annunci ed erano risaliti fino al loro punto di origine. I più recenti provenivano da un indirizzo IP localizzato a un'ora da Londra, nell'Hertfordshire. Una casa che da dodici anni apparteneva a un certo Daniel Adams; un'identità fasulla, ovviamente. Pearce si stava recando sul posto per provare a vederci più chiaro.
La giovane poliziotta seguì il furgone dello Specialist Firearms Command, l'unità speciale d'intervento armato, che aveva imboccato una stradina asfaltata a bitume. Spense i fari. La notte spalancò le sue fauci voraci e le richiuse loro intorno. Procedettero al passo per cinque minuti buoni, prima di fermarsi dietro una fila di querce fronzute.
Sei uomini, armati di Heckler & Koch MP5, con i caschi, protetti dai giubbotti antiproiettile e muniti di occhiali a infrarossi da visione notturna, scesero dal veicolo con un'agilità felina.
Amit Bhatia, il capo dell'unità d'intervento, diede il segnale. Duecento metri li separava dalla casa; l'edificio troneggiava in lontananza, in mezzo a un campo, placida, a luci spente.
Con Pearce in testa, la colonna di uomini avanzò attraverso le tenebre viscose, dense quanto una melassa, graffiando appena il silenzio.
Si fermarono a venti metri dall'ingresso, dietro uno steccato di legno.
Amit percorse da solo la distanza rimanente fino alla casa. Giunto sulla soglia, si acquattò e introdusse l'endoscopio digitale sotto la porta. Impiegò circa cinque secondi per orientarlo, consultando il piccolo schermo che aveva fissato al polso sinistro, poi lo tirò via.
Diede un nuovo segnale silenzioso con la mano guantata: via libera, era il momento di fare irruzione.
Pearce si passò inconsciamente una mano sul giubbotto antiproiettile prima di impugnare la sua Glock 17.
73
Martedì 28 luglio 2015
Julianne ha sete. Si sente i polmoni, la gola, le orecchie in fiamme. Ogni volta che una fitta le torce il viso, le sue labbra si spaccano; ci passa sopra la lingua, che si ricopre di sangue.
Ha talmente sete che ha bevuto l'acqua blu del bagno, vomitandola poi quasi immediatamente, ma lo rifà. Anche soltanto per calmare le ustioni che le scendono giù fino allo stomaco e che le fanno risalire un rigurgito di bile.
Non le hanno più dato la bottiglia. Niente più acqua; ma nemmeno mutilazioni. Niente più antidolorifici. I dolori sono atroci. Geme in continuazione, come una cagna. A volte grida, ma la sua gola non produce alcun grido. Soltanto un suono basso. Uno sfrigolio.
All'improvviso, un tonfo fa tremare la sua cella. Trema perfino il pavimento. Un'altra scossa, come se stessero colpendo violentemente i muri, la...
Qualcuno sta sfondando la porta. Qualcuno sta sfondando la porta.
Julianne si lascia scivolare a terra dal materasso. Non riuscirà a camminare, né in piedi né carponi: le gambe e le natiche le fanno troppo male. Si struscia su un fianco per raggiungere la gattaiola.
Uno scalpiccio di passi misto a grida.
Che stanno dicendo? Che stanno...
"Polizia! Polizia!"
Julianne si tira su con una smorfia e bussa coi pugni chiusi sulla porta. Dalla sua gola escono grida distorte, che le graffiano i polmoni e le fanno sanguinare la bocca.
"Polizia! Si allontani dalla porta, stiamo per aprire!"
La voce di un uomo.
Julianne si mette a pancia in giù e si trascina vicino alla tazza con le sole braccia, accompagnata dallo sferragliare della catena che le imprigiona la caviglia.
"Chiamate un'ambulanza!" grida l'uomo.
Un colpo di ariete.
Un secondo.
Un terzo.
La porta si spalanca. Un uomo si precipita nella stanza, seguito da altri. Corre verso di lei e si lascia cadere a terra con tanta foga che si sente lo schiocco delle sue ginocchia.
"Julianne, mi chiamo Jack Pearce, lavoro per Scotland Yard, con Leland. È al sicuro adesso, Julianne, andrà tutto bene."
Lei si aggrappa a lui. Al suo collo. Profuma di limone. Di fuori. Repira il suo odore di vita. Non lo lascia. Non vuole più essere lasciata da sola.
"Ora la tiriamo fuori di qui, Julianne. È al sicuro adesso, andrà tutto bene, Julianne. La sua famiglia l'aspetta. Andrà tutto bene..."
Le accarezza i capelli. Non smette di parlarle. Ha capito. Ha capito che Julianne non vuole più sentire il silenzio.
Lei vorrebbe ridere, e invece piange. Piange ridendo. No... Non piange: ride d'amore, di sollievo.
74
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, ore 7.00
Aliénor posa la tazza di caffè sulla scrivania per rispondere al telefono.
"Pronto?"
"Sì... Ehm... Pronto..."
"Chi è?"
"Ehm... Sono Benjamin. Lavoro per il servizio informatico della polizia metropolitana di Londra. Sto cercando il commissario Bergström, o la profiler Emily Roy."
"Perché chiama me, allora?"
"Perché non riesco a raggiungere i loro telefoni e perché il terzo numero che l'ispettore capo mi ha dato è quello di Aliénor Lindbergh. È lei?"
"Sì, sono io. Faccio fatica a capirla."
"Ah..."
Un raschio e un fruscio sordo dall'altra parte della linea.
"Così va meglio?"
"No. Non ho detto che non la sentivo, ho detto che non la capivo. Aggiunge delle e dappertutto, è strano. Che le succede? Sta male?"
"Ehm... No. Può... Può darsi che sia il mio accento: sono francese."
"I francesi hanno una qualche deficienza al livello palatale o linguale?"
"Ehm... No... Non credo... Ehm..."
"Ha delle afte?"
"Ehm... No..."
"Si è appena trasferito a Londra?"
"No, ehm... Sono, ehm, diciassette anni che abito in Inghilterra."
"Strano... Perché mi chiama?"
"Abbiamo finito di analizzare gli annunci personali, ehm, del Times, e siamo riusciti a isolare altri quattro indirizzi IP. Sono tutti in Svezia. L'ispettore capo ci ha chiesto di metterci in contatto con lei, per questo."
"In Svezia dove?"
"Malmö, Stoccolma, Göteborg e Uppsala."
"Mi dia gli indirizzi esatti. Commissario!"
Bergström, che stava uscendo in tromba dall'ufficio, si bloccò sul posto.
"C'è Scotland Yard in linea."
"Pearce?"
"No, è un uomo di nome Benjamin."
"Benjamin chi?"
"Un francese del reparto informatico. Parla molto male inglese Dice di non avere lesioni orali, ma stento a crederlo. Penso piuttosto che non osi ammetterlo."
"Cosa vuole, Aliénor?" si spazientì il commissario.
"Chiedo scusa, ho solo qualche difficoltà a capire quale sia il suo problema. A dire il vero, hanno ritrovato altri quattro indirizzi IP, da cui il complice di Hemfield ha inviato i testi degli annunci pubblicitari pubblicati sul Times..."
Bergström sgranò gli occhi per la sorpresa.
"Altri quattro indirizzi?"
"È quel che ho detto, sì. Si trovano tutti in Svezia, a Malmö, Stoccolma, Göteborg e Uppsala."
"Aliénor?" la chiamò Benjamin.
"Un attimo soltanto, sto parlando con un mio superiore, Benjamin" rispose lei bruscamente. "L'ispettore capo Pearce desidera che ce ne occupiamo" continuò poi, rivolgendosi a Bergström.
"D'accordo. Annotati gli indirizzi ma chiedigli anche gli annunci relativi e le date in cui quegli annunci sono stati inviati al Times. Poi raggiungici in sala conf, abbiamo novità."
Aliénor annuì col capo.
Annotò tutte le informazioni che le dettava Benjamin sul proprio taccuino.
"Si sciacqui la bocca con un po' di calendula, la tranquillizzerà" le consiglio, prima di riattaccare.
75
Londra, ospedale UCLH,
martedì 28 luglio, ore 7:00
Julianne era distesa sul suo letto d'ospedale, con lo schienale leggermente rialzato e una coperta tirata su fino in vita. Le braccia, magre come stecchi di legno secco, riposavano da una parte e dall'altra del suo corpo. I suoi capelli scarmigliati e legati alla bell'e meglio sopra la testa le irrobustivano stranamente il viso smunto, disturbato da tic nervosi.
Adrian posò le mani sulle gote scavate di sua moglie e le baciò delicatamente le labbra raspose. Julianne emise un sospiro profondo, le si afflosciarono le spalle e gli occhi abbottati si velarono di lacrime.
Avvicinò il naso al collo del marito e lo respirò, poi si mise a tossire. Adrian si scostò, prese il bicchiere d'acqua sul comodino e lo accostò alle labbra striate di sangue rappreso. Lei bevve due timidi sorsi. All'improvviso aggrottò il viso e l'intero suo corpo fu scosso da singhiozzi, che le scorticavano la gola e la facevano soffocare. Si aggrappò alla mano di suo marito.
Un'infermiera accorse in stanza.
"Sente dolore, signora Bell?" le chiese verificando il polso e la temperatura di Julianne, che continuava a singhiozzare.
"Stava bevendo e... E tutt'a un tratto si è messa a... A piangere" balbettò Adrian.
"Signor Bell, le stia più vicino, ha bisogno di sentire il suo contatto."
"Non vorrei farle male..."
"È ferita dalla vita in giù; l'abbracci delicatamente: ha bisogno di sentire la sua presenza."
Adrian le cinse con le braccia il busto scheletrico, accarezzandole la gota col naso.
"Shhh" mormorò mentre la cullava. "Shhh... Sono qui, amore mio, sono qui..."
"Ecco, ecco, andrà tutto bene Love" la rassicurò l'infermiera. "Andrà tutto bene. È al sicuro, adesso. Ecco, ecco..."
Dopo qualche minuto, il pianto si placò, lasciandosi dietro uno strascico di respiro affannato.
"Le abbiamo somministrato un calmante dieci minuti fa, signora Bell; presto farà effetto, vedrà. Utilizzi pure il campanello per qualsiasi necessità" disse, rivolgendosi ad Adrian, prima di uscire dalla stanza.
Julianne alzò debolmente la mano destra, in perfusione.
"Le bambine..."
La sua voce rotta, strascinata e tremula somigliava a quella di una vecchia ammalata.
"Stanno bene, tesoro. Non le ho mandate a scuola per evitare che... Che sapessero. Le abbiamo portate un po' in giro per Londra, con Antonia e Raymond, per distrarle. Stanno bene, Julianne."
"Vederle..."
"Aspettiamo il via libera dei dottori, tesoro. Presto."
Julianne deglutì. Il suo viso si corrucciò, poi mosse lentamente la testa dall'alto in basso.
"Florence..."
Lo sguardo di Adrian evitò quello della moglie. Si fissò sulle loro mani intrecciate sopra la coperta ruvida.
"Sta arrivando. L'ho chiamata."
76
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, ore 7.15
Aliénor prese il taccuino, il termos e attraversò il commissariato. Oltrepassando le doppie porte che aprivano sul corridoio, intravide Emily Roy che entrava nella sala conferenze.
La ragazza accelerò il passo per non perdersi niente di ciò che la profiler stava per annunciare.
"... Confermato che Julianne Bell è stata ritrovata viva. Era isolata in una stanza e non ha mai visto il viso del suo aggressore, e per il momento è tutto ciò che sappiamo. Era mutilata e in stato di shock, ed è stata trasportata d'urgenza in ospedale. La scientifica è sul posto. Dovremmo avere i risultati a fine giornata, o domani mattina nella peggiore delle ipotesi."
"È stata fortunata! C'è mancato poco che finisse allo spiedo per il pranzo della domenica!" commentò Olofsson.
Aliénor notò con sollievo che avevano lasciato libero il suo solito posto, e che il detective Olofsson non ci aveva né poggiato i piedi, né sbriciolato sopra qualche brioche alla cannella.
"Il complice di Hemfield ha cambiato modus operandi: aveva già cominciato a farla a pezzi" proseguì Emily.
Olofsson si contorse a disagio, con una smorfia.
"Come... Viva, intendi? Ma Cristo santo, che schifo!"
"Mio Dio, che orrore" mormorò Karla.
"Alexis ha fatto bene a insistere" s'inserì Bergström. "Hemfield era a tanto così dal farla franca."
Emily sapeva che quel commento era rivolto a lei. Non raccolse il guanto.
"Cos'altro hanno trovato, nella casa?" chiese il commissario.
"Né vittime, né sospetti; e per il momento sembrerebbe che non ci siano altre impronte oltre a quelle di Julianne."
Olofsson si schiarì la gola.
"Ma hanno... Hanno ritrovato il... I... Pezzi di carne di Julianne Bell?"
"Qualcuno."
"Oh, cazzo, cazzo, cazzo. Quel tipo si è fatto un carpaccio! Non ci credo... Credi di averle viste tutte, e di colpo te ne capita una ancora peggiore... Cos'ha dovuto sopportare quella povera ragazza... Immagina che..."
"Aliénor, trasmettici le informazioni dallo Yard" lo interruppe Bergström.
"Io le appunto qui" disse Karla, dirigendosi alla lavagna.
"Sono stati identificati quattro nuovi indirizzi IP, ossia quattro nuovi luoghi da cui il complice di Hemfield ha spedito delle email con richiesta di pubblicazione per gli annunci personali. Il 7 maggio, alle dieci e cinque minuti, dall'Apple Store di Stoccolma; il 13 giugno alle diciannove e sette minuti, dal cybercafé Wired a Uppsala; il 3 luglio alle otto e quarantatré dal bar Network a Göteborg; il 14 luglio all'una e un minuto, dall'hotel Diplomat a Malmö."
"Olofsson, chiama il Diplomat e chiedi loro la lista dei clienti per la notte dei 14 luglio" ordinò il commissario. "Meglio ancora se hanno conservato gli orari di log, sapendo che il nostro uomo deve aver usato il business center per navigare in internet. È possibile che la reception gli abbia fornito un identificativo e una password personali. Prima contatta il procuratore, nel caso in cui volessero romperti le palle con qualche stupida clausola di confidenzialità.Karla e Aliénor, occupatevi dei due cybercafé. Io penso all'Apple Store. Prima o poi riusciremo a incastrarlo, questo scherzo della natura!"
Emily uscì dal commissariato col cellulare in mano. Attraversò la strada deserta e si sedette su un muretto di mattoni.
Aveva bisogno di isolarsi per rimettere un po' d'ordine tra le sue idee. Liberarsi delle teorie e ricentrarsi sui fatti.
L'assassino non aveva aspettato che Julianne fosse morta: l'aveva fatta a pezzi da viva. Una variazione significativa, colossale, della sua firma. E si dava il caso che una firma era qualcosa di statico, visto che rifletteva le fantasie più radicate dell'assassino.
Ma non doveva forse dire gli assassini, visto che Hemfield aveva un complice? Chi era stato, allora, a uccidere le sei vittime di Tower Hamlets? Hemfield? Hemfield e il suo complice? Non poteva essere stato il complice da solo. Il complice informava Hemfield, il che voleva dire che era quest'ultimo a condurre il gioco. Eppure non aveva né il profilo, né le reazioni di uno che potesse condurre il gioco.
La teoria deve adattarsi ai fatti e non viceversa, ripeté a se stessa.
Che atteggiamento aveva adottato Hemfield, quando aveva parlato ad Alexis delle sue devianze? Si era tolto gli occhiali e aveva chiuso gli occhi. Emily aveva pensato che si stesse in tal modo assicurando di non vedere la reazione di Alexis. E se fosse stato l'opposto? Magari Hemfield non aveva voluto che lo si vedesse godere di quella situazione. Forse si era assicurato che nessuno potesse notare l'intensa soddisfazione sessuale che gli procurava quella faccenda.
Richard Hemfield non corrispondeva affatto al profilo del serial killer cannibale, ma poteva darsi che non fosse cannibale. Poteva darsi che lui fosse soltanto il predatore sessuale, il guardone, lo strangolatore...
Il profilo criminale di quell'assassino cannibale lo descriveva come un uomo caucasico, tra i quaranta e i cinquant'anni, minuzioso, organizzato, intelligente al punto di ingannare chi aveva intorno e perfino i più esperti nel campo, di successo e socialmente ben integrato.
Il cannibale dunque era il complice di Hemfield? Lo strangolamento era la firma di Hemfield, e lo squartamento quella del complice? Ognuno si occupava di un compito ben specifico - il che spiegava che avessero commesso insieme dei crimini sempre identici. Nessun dominante, né dominato, ma un partenariato perfetto?
Emily scosse la testa. Era raro, estremamente raro, un duo senza dominanti.
Il suo cellulare squillò, e lei rispose.
"Hai ricevuto il mio messaggio?" chiese immediatamente a Pearce, prima che avesse il tempo di dire alcunché.
"No, io..."
"Verifica che abbiano fatto un prelievo dalla fronte di Julianne Bell, altrimenti manda subito qualcuno a farlo all'ospedale. Chiama la clinica per avvertirli che non la lavino. Richiamami subito dopo."
La profiler riagganciò.
Cinque minuti dopo, il cellulare squillò di nuovo.
"No, non hanno fatto nessun prelievo dalla fronte e hanno proceduto a lavarla non appena è arrivata in ospedale" la informò Pearce.
Emily rimase in silenzio per qualche istante.
"Nessuna impronta, sul corpo?"
"Né sulle bende."
"Quand'è che il laboratorio avrà i risultati degli altri prelievi?"
"Verso mezzogiorno. Per quanto riguarda la casa, la stiamo ancora spolpando. I ragazzi si sono messi a smontare perfino le prese, pur di trovare qualche impronta."
"Hai intenzione di interrogare Julianne Bell?"
"Sì, il medico e il marito hanno acconsentito, ma avrò soltanto dieci minuti. Sono in ospedale adesso."
"Ho bisogno che tu le chieda due cose: per prima cosa, in che modo le ha tagliato la carne, se da sveglia o da sedata. Se fosse da sveglia, poiché ha detto di non aver visto il viso del rapitore, chiedile dietro cosa si nascondeva. Voglio anche sapere quali parti ha cominciato a tagliare per prime. Poi controlla se è stata violentata, e chiedi al laboratorio se indossava le mutandine; in caso affermativo, dì loro di farne una foto e di inviarmela, e, soprattutto, di rilevarne le impronte. Aspetto una tua chiamata."
77
Londra, ospedale UCLH,
martedì 28 luglio 2015, ore 8.30
Jack Pearce aveva bussato alla porta della stanza di Julianne Bell quando vide Adrian, in fondo al corridoio, in piena discussione con un medico.
"Avanti!"
L'ispettore capo riconobbe la voce di Florence Hartgrove.
La grande stanza con salotto e mobili eleganti sarebbe potuta passare per una suite d'albergo, se non fosse stato per le flebo e il letto da ospedale.
Julianne Bell gli parve ancor più gracile di quando l'aveva tirata fuori dal cottage, poche ora prima. La paura non aveva ancora lasciato il suo sguardo.
Florence si alzò in piedi senza lasciare la mano di Julianne.
"Jack... Non sappiamo come ringraziarla."
"Non sono certo io la persona che dovete ringraziare, signora Hartgrove; posso citarle subito i nomi di un mucchio di gente che hanno fatto più di me per la liberazione della signora Bell."
La moglie del commissario gli rivolse un sorriso triste.
"Adrian ci ha detto che voleva fare qualche domanda a Julianne."
"Lei è d'accordo, Julianne?" s'informò l'ispettore capo.
La donna annuì dolorante.
"So che la sua gola la fa soffrire. Ho portato un iPad per farvi digitare le risposte; i tasti sono più facilmente accessibili che su uno smartphone. È d'accordo?
Un altro cenno di assenso.
"Ho poche domande, ma non sono gradevoli. Mi fermi quando vuole, e mi tolgo di mezzo. Va bene?"
Julianne sbatté le palpebre per indicare che aveva capito.
Pearce posò l'iPad sulla coperta. Florence raddrizzò il letto e tenne il tablet all'altezza delle mani di Julianne.
"Cominciamo, allora. Vorrei sapere se l'hanno nutrita."
Lei scosse la testa, poi digitò con entrambi gli indici: Soltanto acqua con limone e miele
"Le faceva passare le bottiglie tramite la gattaiola, o apriva la porta?"
Gattaiola
"Questa mattina mi ha detto che non l'ha mai visto in viso."
Lei scosse vigorosamente il capo. Il suo labbro inferiore si mise a fremere, poi digitò nuovamente:
Mai visto mai entrato
"Dunque è stata mutilata mentre era priva di sensi?"
Lei chiuse gli occhi, poi annuì.
Florence staccò una mano dal tablet e le accarezzò un braccio. Julianne ricominciò a digitare.
Acqua drogata
Al risveglio c'erano ferite
"Si svegliava nella cella?"
Sì sempre
Non so se ne sono uscita
Non so dove mi ha
Non terminò la frase e il suo sguardo si striò di lacrime.
Pearce aveva parlato col medico: conosceva l'estensione delle sue mostruose menomazioni.
"Tutto bene, Julianne?" si preoccupò Florence.
"Bene" mormorò lei con voce inaudibile.
Deglutì con una smorfia. Florence le fece bere un po' d'acqua. Pearce pazientò qualche istante prima di proseguire.
"Si ricorda di qualche odore particolare?"
Solo il mio cattivo orribile
"Potrebbe dirmi qual è stata la prima ferita?"
La bocca le si corrugò mentre si rimetteva a scrivere.
Gluteo
Guardò Pearce, intento a formulare la prossima domanda, poi abbassò gli occhi sullo schermo.
Non violentata
Il viso di Florence Hartgrove s'increspò di dolore e compassione.
Sono sicura.
Pearce abbassò lo sguardo. Lo sapeva: il laboratorio gliel'aveva confermato.
Basta ora stanca desolata
"Certamente" rispose lui con voce dolce. "La ringrazio, Julianne, grazie mille."
Riprese l'iPad e le salutò con un cenno del capo prima di andarsene.
Jack aspettò di uscire dall'ospedale per richiamare Emily.
"La mutilava da addormentata, la prima parte a essere tagliata sono stati i glutei, non è stata violentata e le mutandine erano sporche di sangue" disse la profiler, dopo aver risposto.
"Il laboratorio ti ha mandato la foto delle mutandine?"
"Non ancora."
Pearce sorrise tra sé e sé. Quella donna era formidabile.
"Non ha mai visto il suo aggressore, Emily. La drogava per farla uscire e immagino che la portasse nel suo studio, dove la mutilava sul tavolo chirurgico, per poi rinchiuderla di nuovo nella cella. A quanto pare era l'acqua al miele e limone che le somministrava a essere drogata, e può essere soltanto quella, perché non l'ha nutrita."
Un silenzio accolse le sue spiegazioni.
Emily lo ruppe dieci secondi dopo. Gli spiegò la strategia da seguire per arrestare il rapitore di Julianne. Perché aveva capito chi era.
78
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, ore 11.45
"Helvete!" imprecò Olofsson lasciandosi cadere sulla sedia.
Ovviamente gli avevano rifilato l'incombenza più pallosa e i suoi sforzi non avevano prodotto risultati. Il direttore dell'hotel Diplomat di Malmö era in viaggio di affari in Svizzera e non aveva ancora richiamato la sua assistente.
Intanto, Karla e Aliénor aveva già ottenuto risposta dai due cybercafé di Uppsala e Göteborg, che non disponevano di nessun impianto di sorveglianza - incredibile, cazzo - ed erano naturalmente incapacitati a fornire lo storico delle ricerche, e tantomeno il nome di coloro che si erano collegati dai loro terminali. Quanto all'Apple Store di Stoccolma, conservava i video delle telecamere di sicurezza soltanto per una settimana. Francamente, così a che serviva controllare la gente? Ecco fatto, pronto e impacchettato per il capo e la girls band, che ora si godevano in diretta l'interrogatorio di Adrian Bell. E intanto lui si ritrovava solo come uno scemo a giocare alla segretaria, senza ben capire perché. Tanto avrebbero arrestato Bell, no? Però, certo, Bergström non voleva lasciare niente di intentato al caso. Ma quale caso, perdio?
Il telefono della sua scrivania squillò.
"Olofsson" abbaiò lui alzando la cornetta.
"Buongiorno, detective. Krister Widmark, direttore dell'hotel Diplomat di Malmö. Sono desolato di non averla potuta contattare prima, ma ero in..."
"Mi trasmette la lista dei vostri clienti per la notte del 14 luglio, o preferisce che vi metta il procuratore alle calcagna?"
"Gliel'ho fatta recapitare via mail, detective" rispose Krister Wildmark, il cui tono mellifluo si era fatto acido. "Si ha bisogno di me per altro, mi contatti pure al numero che la mia assistente le ha inviato nella mail" aggiunse prima di riagganciare senza troppe cerimonie.
Olofsson fece una smorfia alla cornetta prima di precipitarsi a controllare le mail. Mentre stava per aprire il documento, la linea fissa squillò di nuovo.
"Olofsson" rispose lui, con tono burbero.
"Kristian, sono Maja."
"Hej Maja!" si addolcì di colpo il detective. "Che ci fai al centralino?"
"Hans è dovuto andare a recuperare la moglie, che è in panne con la macchina."
"Non dirmi che mi dai buca, stasera?"
"Ma no" ridacchiò la ragazza. "Ci vediamo alle sette da me."
Delle immagini della sublime Maja passarono dritte dalla mente ai pantaloni del detective.
"Il commissario mi ha chiesto di passarti le chiamate relative ai casi Paulsson e Lund, finché saranno in videoconferenza con gli inglesi.
"Ok, bellezza. Chi abbiamo in linea?"
"Lasse Holt. Lavora al cybercafé Wired, a Uppsala. All'inizio credevo fosse uno scherzo, perché ha una voce da ragazzino, per cui ho richiamato il proprietario per verificare. Lasse Holt ha diciotto anni, e lavora veramente da loro. Questa mattina li aveva chiamati Lindbergh, per quelle mail inviate al Times provenienti dal loro indirizzo IP, e Holt dice di avere un'informazione a riguardo."
"Okay, passamelo. Ci vediamo stasera, bellezza."
Un risolino precedette uno scatto sulla linea.
"Detective Olofsson."
"Sì... Scialve... Lasse... Lavoro... Cybercafé... Upp..."
"Ehi, ti spiace inghiottire il boccone? Non capisco un'acca di quel che dici."
Olofsson udì qualche schiocco di lingua, poi uno scatarro sonoro.
"Sì. Sono Lasse Holt. Lavoro al cybercafé Wired, a Uppsala. Il 13 giugno c'ero io, al turno serale, e il capo mi ha detto di richiamarvi."
"Perché mai?"
"Perché so chi è il tipo che ha inviato la mail alle diciannove e sette minuti."
79
Londra, New Scotland Yard,
martedì 28 luglio 2015, mezzogiorno
Alexis era in piedi dietro lo specchio semiriflettente.
L'adrenalina della vittoria creava sensazioni curiose: farfalle nello stomaco, l'impressione di lievitare, il cuor leggero, vampate di serenità, sensazioni stranamente simili a quelle provocate dall'amore. Si sentiva esaltata come una guerriera dopo la battaglia. Una metafora d'inaudita violenza le s'insinuò nella mente: lei, ritta e impettita, gonfia d'orgoglio, mentre schiacciava sotto il piede il nemico a terra. Era davvero incorreggibile.
Emise un sospiro tremulo.
Pearce le aveva parlato della cella di Julianne Bell, della puzza di quel posto, della catena che la teneva legata, dell'assenza di acqua e di riferimenti temporali. Il resto della casetta in cui era stata sequestrata era altrettanto spartana: cucina, bagno, stanza, garage e atelier - o meglio, laboratorio di sezionamento; ogni cosa era pulita, immacolata, ordinata. L'ispettore capo le aveva descritto anche le ferite di Julianne: i prelievi di carne sui glutei, all'interno e sopra le cosce. Diversi pezzi erano stati ritrovati nel frigo e nel surgelatore.
Le cicatrici di Julianne Bell sarebbero state un eterno, permanente ricordo dell'inferno che aveva vissuto per undici giorni, come se il suo aguzzino le avesse tatuato il proprio nome sul corpo. Ed era sicuramente intenzionale, aveva commentato Emily. Commettendo quello stupro simbolico, il possesso del criminale diventava duplice: attraverso l'atto cannibale, Julianne sarebbe vissuta per sempre in lui, e lui sarebbe vissuto in lei attraverso i segni che le aveva lasciato sul corpo.
Alexis trasalì. Dall'altra parte dello specchio semiriflettente, una delle due sedie era stata scaraventata contro il muro. Ricadde a terra con un fracasso tremendo. Adrian Bell gli sferrò un calcio furioso, poi si mise a urlare che lo facessero uscire.
Pearce si alzò in piedi, rimise dritta la sedia, la trascinò fino al tavolo, poi intimò ad Adrian di sedersi. Con la bocca ancora schiumante di rabbia, il marito di Julianne obbedì.
80
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, mezzogiorno
Bergström seguiva Olofsson che avanzava a passo di corsa lungo il corridoio.
"Accidenti, Kristian, spero per te che sia importante. Cominceranno l'interrogatorio di Bell da un momento all'altro."
Per tutta risposta, Olofsson aumentò il passo.
"Allora?" si spazientì Bergström, arrivando nell'ufficio del detective.
Insolitamente serio, Olofsson trasse un lungo sospiro, come se si stesse preparando ad andare in apnea.
"Avevo appena riagganciato col direttore dell'hotel di Malmö, quando mi hanno passato un ragazzino che lavora al cyber di Uppsala. Quello mi racconta di aver lavorato il giorno in questione, il 13 giugno, e di sapere chi è stato a inviare il messaggio al Times, perché ha controllato lo schermo dopo la partenza del cliente."
"E chi è?"
Olofsson si collegò alla casella Outlook e cliccò sull'allegato alla mail inviata da Lasse Holt. Una foto si aprì a schermo intero.
Il commissario, stordito, dovette sedersi. Non credeva ai suoi occhi.
"Non solo. Il direttore del Diplomat mi ha inviato la lista dei loro clienti per la notte del 14 luglio."
Il detective deglutì.
"Era anche al Diplomat, il giorno in cui è stata inviata l'email al Times. Che facciamo, capo?"
Bergström fissava la foto con sguardo fosco.
"Chiamo Pearce. Va' dagli altri. Chiedi a Emily di provare a contattare direttamente Jack... Ho paura che stia già interrogando Bell. Poi raduna tutti quanti nel mio ufficio."
81
Londra, New Scotland Yard,
martedì 28 luglio 2015, ore 12.30
"Può dirmi che sta succedendo?" chiese Raymond Bell, agitato, entrando con passo sostenuto nell'ufficio di Jack Pearce.
L'ispettore capo, al telefono, ringraziò il suo interlocutore e riagganciò. Invitò Raymond Bell a sedersi con un gesto della mano.
"Avete arrestato mio cognato?"
"No."
Raymond Bell aggrottò la fronte per la sorpresa.
"Ma... Due poliziotti sono venuti a prelevarlo all'ospedale. E il nostro avvocato mi ha telefonato per dirmi che Adrian l'aveva chiamato."
"È esatto."
"Non capisco."
"Proprio come noi, signor Bell: neanche noi capivamo."
"Come, scusi?"
Le labbra di Jack Pearce si stirarono in un largo sorriso stretto.
"Non capivamo perché Julianne Bell fosse stata fatta a pezzi da viva, né perché non avesse mai visto il suo rapitore."
Spinse verso Raymond Bell il taccuino che aveva davanti sulla scrivania.
"Non insulti la mia intelligenza, signor Bell, e io non insulterò la sua. Non farò finta di voler adulare il suo ego sovradimensionato ripetendole quanto io sia impressionato dal suo intelletto, dal suo senso dell'organizzazione, dalla vostra cura e attenzione dei dettagli. Le dirò solo che, se scriverà su questo foglietto il nome delle donne che ha rapito, strangolato, fatto a pezzi e consumato insieme a Richard Hemfield, fin da quando eravate bambini, troveremo un modo per rendere la sua permanenza in prigione molto meno sgradevole."
Raymond Bell guardò il taccuino, poi l'ispettore capo, con sguardo vuoto.
"E va bene, va bene, signor Bell. Va bene. Si ricorda della profiler Roy?"
Le labbra di Raymond Bell s'incurvarono verso il basso.
"Sì, lo so. Provoca questo genere di reazione a parecchia gente. Emily Roy è stata colpita da tre elementi. Per prima cosa, il fatto che Julianne sia stata drogata e non abbia mai visto il suo rapitore. Lo trovava strano, perché se il destino di sua sorella - o meglio, sorellastra - fosse stato quello di morire come le altre vittime, il rapitore non aveva alcun motivo per nascondere la propria identità. D'altra parte, la nostra profiler ha trovato interessante e rivelatore che Julianne Bell sia stata fatta a pezzi da viva, e rapita proprio dopo aver iniziato da pochi mesi una relazione adultera."
Un tic nervoso fece trasalire il labbro inferiore di Bell.
"Già, mi scusi: avrei dovuto aggiungere omosessuale. Una relazione adultera omosessuale. Perché non è soltanto l'adulterio che la disturba... Dico bene, signor Bell?"
Raymond Bell aggrottò il mento e le labbra.
"Quando abbiamo ritrovato la sua sorellastra, la profiler mi ha chiesto di verificare se le mutandine di Julianne portassero tracce di sangue e quali erano state le parti prelevate per prime. Strane richieste, non crede?"
Raymond Bell inclinò leggermente la testa da un lato.
"Quando il laboratorio ha confermato che le sue mutandine di seta erano macchiate di sangue - tracce che corrisponderebbero agli schizzi e al gocciolio provenienti dalle ferite che le sono state inflitte - la profiler Roy ne ha dedotto, e la scientifica concorda con la sua teoria, che le mutandine non sono state tolte quando è stata incisa. Il fatto che non le siano state sfilate dimostra che l'aggressore nutriva grande rispetto per la sua vittima. Come corrobora anche il fatto che si sia attaccato per prima cosa ai glutei di Julianne. Il suo aguzzino ha cominciato il lavoro senza doverla guardare in faccia perché, perfino se lei era sedata, la vista del suo viso lo turbava, lo costringeva a confrontarsi col proprio gesto, con la vergogna, con i propri rimorsi. Mi segue?"
Raymond Bell raddrizzò la schiena che si era impercettibilmente incurvata.
"Ed è qui che la cosa si fa interessante, signor Bell. Perché, quando Julianne è stata ritrovata, la profiler Roy ha chiesto immediatamente che si prelevino le tracce di DNA sulla sua fronte e sulle mutandine di seta, che non erano state cambiate da undici giorni. Ovvio che la polizia scientifica avrebbe comunque rilevato le impronte sulle mutandine di seta, ma ci saremmo fatti sfuggire l'analisi del DNA sulla fronte se Emily non ce ne avesse parlato. Ma perché la fronte? Ebbene, le mutandine schizzate di sangue e il gluteo come prima zona incisa hanno fatto suppore alla nostra cara profiler che il rapitore di Julianne, come le dicevo, l'avesse trattata con tanto pudore e rispetto che l'unico contatto diretto che si sia concesso col suo corpo è stato protettivo e casto, come se baciasse la sua bambina per verificare la febbre. Un bacio sulla fronte, per essere precisi. Sfortunatamente per noi, l'ospedale aveva già proceduto a lavare la sua sorellastra, e i nostri prelievi non hanno dati risultati."
Raymond Bell rilassò le spalle.
"Aspetti, Raymond, non ho ancora finito. Sa perché insisto nel precisare che le mutandine erano di seta? Ebbene, perché sulla seta si possono rilevare le impronte; non con la polvere, certo, ma con un processo di metallizzazione sottovuoto. E si figuri, signor Bell, che, come dice Ted, il nostro esperto d'impronte digitali, "c'è sempre un momento senza guanti, sempre", tanto più per qualcuno che, per la prima volta, poteva avvicinare, guardare, osservare il triangolo di Venere della donna a cui vota quasi tanta adorazione quanto rispetto."
Le mani di Raymond Bell si aggrapparono ai braccioli della sedia.
"Ciò che pensa la profiler Roy, signor Bell, è che insieme a Richard Hemfield, che considerate come vostro fratello poiché avete convissuto con lui fino all'età di undici anni - nonostante i suoi sforzi molto convincenti per farci credere il contrario -, abbiate ucciso, mutilato e divorato un gran numero di donne. Secondo Emily Roy, dunque, quando è venuto a sapere che la sua sorellastra, quella donna che lei aveva amato come fosse sua figlia e che le è debitrice della propria gloria, si divertiva al di fuori del matrimonio, per di più con una donna, non è riuscito a sopportarlo e si è detto che l'avrebbe punita a modo suo: ovvero rapendola e tenendola prigioniera nel suo piccolo teatro degli orrori, nella sua garçonnière - sua e di Richard Hemfield. Ma bisogna purtroppo ammettere che noi poveri mortali siamo creature abitudinarie, la routine ci rassicura; per cui, quando si è trovato quelle decine di chili di carne sotto il naso, non ha saputo resistere e si è messo da parte qualche spuntino di riserva. Perché non aveva intenzione di uccidere la sua Julianne. O almeno, non finché non abbiamo scoperto che era cresciuto nella stessa famiglia dell'assassino di Tower Hamlets. In quel momento, anche se devo ammettere che la sua straordinaria performance ci aveva tratti in inganno, dev'essersi convinto che la bella Julianne Bell doveva scomparire una volta per tutte."
La rabbia incupì lo sguardo di Raymond Bell.
"Cosa me lo fa dire?" proseguì Pearce. "Il fatto è che ci aveva mentito affermando che era andato a vivere coi Bell già molto tempo prima della sua adozione formale, e che l'unica persona che poteva contraddirla era proprio Julianne Bell. Per cui ha deciso di ucciderla. E, senza la perseveranza e l'intelligenza di una delle nostre... Consulenti, non avremmo mai scoperto come faceva a comunicare con Richard Hemfield, né avremmo mai localizzato il suo piccolo teatro degli orrori - e dunque Julianne Bell - in tempo."
Pearce sorrise prima di continuare. Sempre lo stesso sorriso posticcio, di convenienza.
"Sono le sue impronte, signor Bell, che abbiamo ritrovato sulle mutandine di seta della sua sorellastra. E non è tutto. Stiamo disossando la sua casetta di campagna. Disossare è proprio il termine più giusto, visto che abbiamo ritrovato delle ossa nel suo giardino, ma anche una bella valigia contenente i vestiti di Jeanine Sanderson, Diana Lantar, Katie Atkins, Chloe Blomer, Sylvia George, Clara Sandro, Maria Paulsson e Freja Lund. Vestiti che stiamo facendo analizzare e sui quali, ne sono certo, troveremo il suo DNA e quello del suo compare, Richard Hemfield.
Gli occhi di Raymond Bell studiarono il soffitto alle spalle di Pearce.
"Sì, proprio così, signor Bell. Due telecamere stanno filmando le sue reazioni. Ma le aveva individuate non appena era entrato, vero?"
Il sguardo di Raymond sfiorò il bloc-notes.
"Dovevamo farle credere che era sempre un passo avanti a noi, che sarebbe entrato a Scotland Yard da vittorioso. Volevamo coglierla di sorpresa. Il fatto di riceverla nel mio ufficio, invece di condurla in una sala per gli interrogatori, ci ha permesso di sorprenderla. Perché sorprenderla, chiederà lei, visto che abbiamo le prove materiali della sua colpevolezza? Be', perché nel momento in cui abbiamo posizionato quelle telecamere non possedevamo ancora quelle prove. Soltanto la certezza della nostra profiler, e speravamo di poterla spingere a confessare. Ormai non serve più: il laboratorio mi ha confermato che le impronte sulle mutandine di Julianne Bell erano le sue proprio nel momento in cui ha messo piede nel mio ufficio."
Raymond Bell si sedette in mezzo alla sedia e appoggiò i gomiti alla scrivania di Pearce. Si asciugò gli angoli della bocca col pollice e l'indice, e disse:
"Signor Ispettore Capo Pearce. Jack. Se vuole che le dia il nome di tutte le donne che abbiamo rapito, strangolato, fritto, bollito, panato, rosolato, scottato e fatto mantecare da più di trent'anni, bisognerà che ci proponga qualcosa in cambio; a me, e a Richard."
82
Svezia, Falkenberg, commissariato di polizia,
martedì 28 luglio 2015, ore 14
Emily, Bergström, Olofsson e Karla erano in piedi dietro lo specchio semiriflettente. Scandagliavano con lo sguardo la sala degli interrogatori, come se cercassero altro, che non fosse un tavolo metallico e tre sedie. Aliénor era prostrata in un angolino, rannicchiata a terra come un ragno sulla tela. Il silenzio in cui era immersa la sala le ricordava quel momento di calma terrificante che precedeva le arrabbiature di sua madre. Si preparava dunque alle grida, alla violenza e alla tristezza che avrebbero coronato il tutto.
Le due ore che erano appena trascorse avevano scavato i visi, pesando loro sulle spalle. Né Bergström, né Emily erano riusciti a raggiungere Pearce prima dell'interrogatorio di Raymond Bell per informarlo di ciò che avevano scoperto: la persona che aveva inviato le mail al Times, il 13 giugno dal cybercafé di Uppsala, e il 14 giugno dall'hotel Diplomat di Malmö, non era Raymond Bell. C'era una terza persona che aveva aiutato Richard Hemfield e Raymond Bell, lì in Svezia. Un individuo che era sicuramente l'assassino di Maria Paulsson e Freja Lund.
Un poliziotto in uniforme aprì la porta e fece segno a Bergström: erano pronti. Il commissario trasse un lungo sospiro prima d'interrogare Karla ed Emily con lo sguardo. Loro risposero con un cenno del capo secco e teso. Uscirono rapidamente dalla stanza, poi entrarono nella sala degli interrogatori.
Karla si appoggiò sul tavolo con mano tremante. Si umettò le labbra aride, deglutì per respingere la nausea latente e si sedette.
Emily si mise accanto a lei, attaccando la sedia a quella di Karla.
In quell'istante, fecero entrare il sospettato. In manette. Il poliziotto tirò la sedia da sotto al tavolo e gli premette sulla spalla per farlo sedere.
Il 13 giugno Lasse Holt, l'impiegato del cybercafé di Uppsala, assisteva insieme alla sua ragazza a un incontro con firmacopie in una libreria vicino all'università. Poiché l'incontro si era prolungato molto, Lasse era dovuto tornare ai corsi e non era potuto restare per l'autografo. Diverse ore dopo, mentre era di servizio al cybercafé, il ragazzo aveva immediatamente riconosciuto lo scrittore che era andato a vedere nel pomeriggio: Dan Hansen. Non aveva osato avvicinarlo, ma aveva curiosato nella cronologia del PC che aveva usato Dan per far colpo sulla sua amichetta. Come tutti quelli che mettevano piede nell'internet-café, Dan aveva cancellato la cronologia. Lasse l'aveva ripristinata ed era rimasto super deluso nel constatare che lo scrittore aveva semplicemente contattato il Times.
La presenza di Dan Hansen sulla lista dei clienti dell'albergo Diplomat di Malmö, la notte del 14 luglio, non era altro che un secondo chiodo sul coperchio della sua bara; quell'immagine attraversò la mente di Olofsson ma non osò tradurlo ad alta voce.
Impossibile verificare se fosse lui il mittente delle mail al Times, il 7 maggio alle dieci e cinque minuti, dall'Apple Store di Stoccolma, e il 3 luglio alle otto e quarantatré dal bar Network a Göteborg, ma Bergström ed Emily non avevano il minimo dubbio: quelle date corrispondevano senz'altro a qualche viaggio di lavoro dello scrittore.
Dan Hansen posò uno sguardo vitreo su sua moglie.
La realtà colpì Karla come uno schiaffo. Si sentì schiacciare dal dolore. L'uomo della sua vita, il padre dei suoi figli. Avrebbe voluto abbracciarlo e, contemporaneamente, prenderlo a pugni. Il suo amore cercava di emergere da sotto la rabbia intensa e dolorosa che la prostrava. Le si accelerò il respiro, e dovette spalancare la bocca per attingere all'aria che le si era ammassata in fondo ai polmoni.
Karla puntò un indice minaccioso verso suo marito.
"Sei stato tu a farlo?"
La sua voce, striata di lacrime, vacillò sulle ultime parole. Singhiozzò e si mise a tossire per scacciare le ondate di singulti che le tagliavano il fiato.
Emily osservava Dan; il suo silenzio e la sua postura erano ieratici.
Dall'altra parte dello specchio semiriflettente, Bergström si chiese se avesse fatto bene ad autorizzare quel faccia a faccia.
Karla chiuse gli occhi per un istante, poi riprese:
"Hai aiutato... Quei due mostri a... Ad ammazzare quelle donne?"
All'improvviso, il dolore di Karla trapassò Emily come una freccia.
"Ti rendi conto di ciò che hai fatto alla tua famiglia? Di ciò che hai fatto a noi? E le nostre figlie? Le nostre ragazze?"
Dan Hansen esalò lentamente dal naso. Quel respiro pareva un preambolo alla parola, ma non aprì la bocca. Non rivolse nemmeno uno sguardo alla sua compagna, come soggiogato dal suo riflesso nello specchio semiriflettente. La sua presenza saturava la stanza di angoscia, eppure era assente in quella conversazione.
"Dan! Non vorrai restare lì davanti a me, tua moglie, senza dire niente?!"
"Richard e Raymond erano miei fratelli" fece Dan, con voce monocorde, senza staccare gli occhi dallo specchio semiriflettente. "Sono cresciuto con loro, nella fattoria di Hilda Stenson. Erano la mia famiglia, tutti e tre. Richard, Raymond e Hilda. Tutti e tre. Avevo il dovere di aiutarli. Il dovere di aiutare la mia famiglia."
Karla si asciugò bruscamente il viso con il rovescio della mano.
"Non posso... Non posso" mormorò scuotendo la testa, con gli occhi chiusi. "Non ci riesco..."
Si alzò bruscamente e uscì dalla stanza, con lo sguardo fisso sul pavimento.
83
Svezia, Göteborg, palazzo di giustizia,
venerdì 30 ottobre 2015, ore 11.00
Dan Hansen si sbottonò con garbo la giacca del completo grigio chiaro, si allisciò la cravatta stretta e si accomodò di fronte al giudice. Anzi, "alla" giudice.
Il suo sguardo indugiò sulle perle pesanti che le pendevano dai lobi delle orecchie, larghe quanto un pollice. Il suo avvocato gli aveva consigliato di indossare un completo scuro e sobrio. Una cravatta più classica. Un nodo meno stretto. Ma era solo un consiglio.
Lui se ne sbatteva, del costume. Era la scelta a eccitarlo. Quel minuscolo frammento di potere, da esercitare fino in fondo. Da rosicchiare fino all'osso.
La giudice cominciò a parlare. Scosse la testa e i suoi orecchini danzarono mollemente. I lobi della donna parevano stirarsi come lingue.
"Lobi a modo mio"
Intingete i lobi in due tuorli sbattuti.
Usate del pangrattato per l'impanatura.
Soffriggete il tutto con del burro erborinato.
Servite accompagnando il piatto con del purè all'olio di oliva.
Lobi-a-modo-mio.
Dan avvicinò la bocca al microfono per rispondere alla Signora giudice. Enunciò il proprio nome. S'interruppe per spolverarsi la spallina sinistra col dorso della mano. Proseguì dichiarando cognome, data di nascita e professione, ripensando nel mentre a quel suo tic di sbottonarsi sempre la giacca del completo mentre si sedeva. Una moda lanciata dagli allievi dell'Eton College - più precisamente dai membri del club "Pop". A meno che quella bizzarria non risalisse al tempo di re Edoardo VII, le cui trippe reclamavano più spazio allorquando Sua Maestà decideva di riposare il regal deretano.
La giudice gli aveva appena dato la parola, sistemandosi il merletto del vestito e spostando qualche faldone sul tavolo.
Lobi-a-modo-mio.
Dan tossicchiò portandosi una mano chiusa a pugno davanti alla bocca. Apprezzò l'assenza di manette. Gli venne in mente che ben presto sarebbero state sostituite da una gabbia. Tra lui e la giudice dai lobi grinzosi si frappose un'immagine in cui se ne stava appeso alle sbarre della cella come una scimmia. Con indosso il completo.
Scoppiò a ridere.
Gli rispose l'eco di un vociare.
Rideva, eppure un sottile velo di sudore gli gelava la nuca.
"Non è colpa mia" mormorò tra sé e sé. "Non è colpa mia..."
La giudice lo interruppe. Lui non ne colse le parole; solo la musicalità della frase. Uno slancio, poi un balzo. Si trattava di una domanda.
"Non è colpa mia" proseguì lui. "È stata Hilda a cominciare... È cominciato tutto con Hilda..."
"Di che parla, signor Hansen?" gli chiese la giudice.
"È tutta colpa di Skorpan..."
"Signor Hansen..."
"Ma sa cos'è veramente ironico? Sarei dovuto essere io, Skorpan. Non sono mai stato Jonathan. Mai. Skorpan sarei dovuto essere io..."
"Signor Hansen!"
Si portò una mano alla bocca. Ora doveva davvero azzittirsi.
84
Svezia, Göteborg, palazzo di giustizia,
venerdì 30 ottobre 2015, ore 11.00
Bergström, Emily e Alexis uscirono dall'aula e si rifugiarono nel bar accanto alla corte di giustizia.
"Siamo passati a trovare Karla con Olofsson, ieri sera" spiegò Bergström posando un tè, un caffè e un latte macchiato sul tavolo. "Vi ha detto che aveva contattato lo Yard per venire a lavorare con voi?"
Emily annuì con un cenno del capo mentre prendeva il cellulare di tasca.
"Come sta gestendo la situazione?" chiese Alexis, soffiando sul latte macchiato.
"Tiene duro... Ma le bambine non stanno per niente bene: a scuola le bullizzano, sono completamente ripiegate su loro stesse... Karla è molto preoccupata. Pensa di doversi trasferire in fretta."
"Del resto, cosa vuoi che faccia, qui in Svezia, dopo una tragedia del genere?" aggiunse Alexis. "E le bambine, te lo immagini? Con Facebook, e tutte queste stronzate di social media, gli attaccheranno addosso tutta questa storia come un'ombra."
"Emily porse le cuffiette al commissario, interrompendo di fatto la conversazione, e face partire la testimonianza di Hansen, registrata poche ore prima in tribunale.
Continuando a sorseggiare il suo espresso, Bergström lo tradusse per loro.
"Chi sono, Skorpan e Jonathan?" chiese Alexis, quando ebbe terminato.
"Sono i due personaggi principali del racconto I fratelli Cuor di Leone, di Astrid Lindgren. È la storia di due fratelli con un legame fortissimo; Jonathan, il maggiore, protettore e amante, muore nel tentativo di salvare Skorpan, il suo fratellino malato, dall'incendio che distrugge la loro casa.
Emily fissava Bergström con sguardo assente.
"Che succede, Emily?" chiese Alexis spingendo via la tazza.
"Non lo so. Forse però Sigvard Stenson saprà dircelo."
85
Svezia, Falkenberg, domicilio di Sigvard Stenson,
venerdì 30 ottobre 2015, ore 18.30
Le portiere della macchina si richiusero con uno scatto sonoro.
Bergström, Emily e Alexis corsero sotto il portico degli Stenson, con i cappotti e le sciarpe maltrattati dalle raffiche di vento e pioggia gelata.
Sigvard Stenson aprì la porta e squadrò i suoi tre visitatori infreddoliti.
"Che volete?"
"Buongiorno, signor Stenson, sono il commissario Bergström. Abbiamo delle domande da farle su Dan Hansen. Potremmo parlarne dentro?"
Il vecchio si scansò a malincuore per lasciarli entrare.
"Sentite, credevo che questa faccenda fosse sistemata" grugnì con voce aspra, piantandosi nel corridoio mal rischiarato. "Mi avete già fatto passare un'estate infernale con tutte quelle convocazioni in centrale, per parlare di mocciosi che nemmeno conoscevo, e di quella ragazza, la zia del vostro assassino seriale, quella... Ehm..."
"Angela Hemfield."
"Quella Angela Hemfield. Non è mai venuta ad abitare qui, e no, non conosco suo nipote e non so perché mai racconti quelle fandonie!"
"Vorremmo parlare di Dan Hansen, signor Stenson."
"E allora? Che differenza fa? Cominciano a scocciarmi, queste storie! Ho detto a quel vostro detective palestrato che non mi ricordavo di questo Dan Hansen, né degli altri! Quante volte dovrò dirvi che ho passato una vita a lavorare? Conoscevo appena il padre di quel tizio! Suo padre era un mio vicino, e va bene, ma la loro stamberga non era mica incollata alla mia fattoria. Senza contare che era un alcolista impenitente, e per di più un perdigiorno, per cui non c'era pericolo che passassi il mio tempo libero con lui, sempre che ne avessi."
"Saprebbe dirci, signor Stenson, se Dan Hansen aveva un fratello?"
"Credete che sappia dove andasse a inzuppare il biscotto suo padre, e quante volte abbia fatto centro?" sbottò Stenson tirando fuori la scatola del tabacco dalla tasca dei pantaloni.
"Signor Stenson, durante il processo di oggi, Dan Hansen ha menzionato il nome di Skorpan. Le ricorda qualcosa?"
"Skorpan? Cos'è, mi state facendo un esame di letteratura svedese?"
Il commissario Bergström si avvicinò al vecchio. Sigvard Stenson dovette inclinare la testa all'indietro per guardare quella montagna d'uomo negli occhi.
"Signor Stenson, gli avvocati di Richard Hemfield e di Raymond Bell sono in attesa che il processo di Dan Hansen giunga al termine per fornirci la lista delle loro vittime. Siamo pronti a scommettere che sua sorella, Hilda, che è il denominatore comune di questi tre uomini, sia stata l'istigatrice dei loro primi crimini. Tra qualche settimana, sua moglie, le vostre terre, la vostra vecchia panetteria saranno passate al setaccio per ritrovare le tracce di DNA di tutte le ragazza che hanno ucciso, fatto a pezzi e divorato. Tra qualche settimana, il suo giochino di "non ho visto niente, non ho sentito niente" non funzionerà più, signor Stenson. Per cui le consiglio vivamente di proteggersi cominciando a cooperare, sin d'ora."
Il vecchio abbassò lo sguardo. Aprì la scatola di snus e si mise un sacchetto di tabacco sotto il labbro superiore.
"Allora: Skorpan era forse il soprannome di Richard Hemfield, Raymond Bell o di un altro dei bambini presi in custodia da sua sorella?"
"Non so cos'abbia fatto mia sorella... Non lo so..."
"Chi è questo Skorpan, signor Stenson?"
Sigvard Stenson voltò la testa da un lato, come se qualcuno l'avesse appena chiamato, poi si mise a fissare ostinatamente il muro grigio.
"Il padre di Dan Hansen aveva una ragazza. Una sgualdrina, buona a nulla, alcolista come lui. Il suo moccioso somigliava come due gocce d'acqua al ragazzino che aveva recitato il ruolo di Skorpan nel film I fratelli Cuor di Leone, che Hilda adorava. È per questo che l'aveva soprannominato Skorpan."
"Come si chiamava la madre di Skorpan, signor Stenson?"
"Non lo so."
"Sigvard, Hilda è morta" intervenne Emily in inglese. "Si guardi intorno, Sigvard. Si guardi intorno. Non c'è niente. Nessuno. Niente, a parte lei e il ricordo di sua sorella. Non c'è più niente e nessuno che possa proteggervi, Sigvard. Si faccia un favore e si protegga da solo."
Il vecchio alzò gli occhi velati di lacrime verso la profiler.
"Non sopravvivrà alla prigione, signor Stenson" lo incalzò Bergström. "Può evitarla, se coopera. Lo capisce?"
Il mento di Sigvard Stenson si corrucciò.
"Iris... Sundberg. La madre di Skorpan si chiamava Iris Sundberg."
86
Svezia, Halmstad,
domicilio della famiglia Hansen,
lunedì 2 novembre 2015, ore 9.00
Karla Hansen guardò l'ora indicata dal microonde mentre continuava a sparecchiare la colazione dal tavolo. Emily non sarebbe tardata ad arrivare.
Lanciò un'occhiata verso il salone. Le sue due bambine, accoccolate l'una accanto all'altra sul divano, si abbandonavano alla televisione. Avevano perso il padre, le loro radici, i loro punti di riferimento; erano diventate, tutte e tre, una famiglia zoppa. Karla si chiedeva come avrebbero fatto a ricostruirsi. Sapeva che la passività e il dolore di Pia e di Ada si sarebbero trasformati in rabbia, e che l'avrebbero colpevolizzata per i crimini e la scomparsa del padre. Ma aveva visto di peggio, avrebbe tenuto duro.
Karla aveva contattato Jack Pearce a Scotland Yard. Aveva sempre avuto ottimi risultati all'accademia di polizia, e sperava di poter cominciare una nuova vita in Inghilterra. Emily le aveva detto che avrebbe appoggiato la sua candidatura.
Qualcuno suonò il campanello. Le sue figlie non si mossero nemmeno. Karla andò ad aprire a Emily.
La profiler le indirizzò un rapido sorriso a guisa di saluto e lanciò un "hej" a Pia e Ada, che risposero senza voltarsi.
"Lasciale stare" intervenne Emily quando Karla fece per riprenderle. "Come stanno?" le chiese, seguendo la detective in cucina.
Karla si richiuse la porta alle spalle.
"Male. Le cose vanno male qui, a casa, e anche a scuola... Dobbiamo andarcene. Restare è troppo difficile per noi. Dan è ovunque..."
Karla deglutì più volte. Era da sola, ora.
"Siamo passati a trovare Sigvard Stenson, ieri" proseguì Emily.
"Hemfield e Bell vi hanno dato la lista delle loro vittime?"
Emily scosse la testa mentre si sedeva al tavolo.
"No, i loro avvocati non ci hanno ancora fatto avere niente."
Lo sforzo serrava la gola di Karla.
"Si tratta di una cosa che ha detto Dan, durante il processo" continuò Emily.
Karla chiuse gli occhi per un istante. Si appoggiò al bancone.
"Dan ha parlato dei Fratelli Cuor di Leone, Jonathan e Skorpan."
Dan. Dan. Dan...
Karla riempì due tazze di caffè e ne mise una davanti a Emily, prima di sedersi.
"È per questo che siamo andati a trovare Sigvard."
Karla posò uno sguardo stanco sulla profiler.
"Sigvard Stenson si è impiccato nel fienile, poco dopo la nostra partenza. L'abbiamo ritrovato questa mattina."
"Emily, io... Io non ho voglia di continuare a parlare di... Di questa faccenda..."
"Lo so. Ma non ne avrò per molto. Appena prima d'impiccarsi, Stenson ci ha parlato di una certa Iris Sundberg. Iris Sundberg è la chiave di questa faccenda, Karla. Iris Sundberg faceva coppia con Alf Hansen. Vivevano in una casetta vicino alla fattoria di Hilda e di Sigvard Stenson. Quando si sono conosciuti, Iris e Alf avevano già dei bambini: Alf era il padre di Dan e Iris la madre di Skorpan. Dei figli che dimenticavano di nutrire, che picchiavano, dei bambini che probabilmente costringevano anche a partecipare ai loro giochini sessuali. Allora Dan e Skorpan cercavano rifugio da Hilda Stenson, dove trovavano altri orfani abbandonati, maltrattati, altre anime perse come loro. Tra quei bambini c'erano Raymond Bell e Richard Hemfield. Richard era arrivato con sua zia, Angela Hemfield, da Londra. Angela era l'amante di Sigvard. Ma si dava il caso che la presenza di quella sublime inglese rovinasse il quadretto di famiglia perfetta che Hilda Stenson si era dipinta, con i bambini che erano diventati i suoi e Sigvard che rappresentava un marito immaginario. Suo fratello non aveva nessun bisogno di una moglie; c'era lei, lì con lui. Hilda si era dunque liberata del problema uccidendo Angela Hemfield, e ha tenuto il suo bambino con sé. Gli altri bambini andavano e venivano ma, secondo i registri, Skorpan, Raymond, Dan e un certo Josef hanno passato tutta l'infanzia e l'adolescenza dagli Stenson. Immagino che questo Josef sia morto molto presto, molto in fretta, e che Richard abbia acquisito la sua identità. I bambini cambiano, crescendo, e chi si preoccupava di quegli orfani? Hilda. Soltanto Hilda. Ecco perché si perde traccia di Hemfield per quindici anni. Perché viveva in Svezia, con l'identità di un altro ragazzo.
Emily scansò la tazza da un lato.
"Non è stato facile ritrovare l'identità di Iris Sundberg, che, come immaginerai, è morta. Ma Olofsson si è dato molto, molto da fare."
Gli occhi della profiler si posarono su Karla con una dolcezza che sorprese Hansen.
"Sei tu, la figlia di Iris Sundberg, Karla."
La detective piantò lo sguardo in quello della profiler.
"Skorpan sei tu, Karla."
"Io? Skorpan?" sghignazzò. "Ti ha dato di volta il cervello, Emily?"
"la piccola Skorpan sei tu. Quando Hilda è morta, Richard Hemfield e Raymond hanno cominciato a scoprire nuove ossessioni, a sperimentare nuove strade, ed è lì che le cose hanno deragliato. Hemfield, sadico sessuale, aveva voglia di uccidere per il gusto di farlo, di esporre i suoi trofei; Raymond, invece, da vero cannibale qual era, desiderava mangiare carne umana; e si sono ritrovati a far comunella. Del resto, sono sicura che sia il DNA della zia di Hemfield, quello che abbiamo ritrovato nelle scarpe di Jeanine Sanderson, Julianne Bell e Maria Paulsson. Del resto non era davvero sua zia. Angela Hemfield e il padre di Richard erano diventati fratello e sorella in seguito al matrimonio dei loro genitori. Quindi penso che sua zia sia stata la vostra prima vittima. La vostra prima volta. Avete conservato le sue cose come trofei - il che è normale, direi, per un primo crimine - e Richard ha usato i suoi calzini in occasione dell'omicidio di Jeanine Sanderson. Il resto della storia lo conosci già."
Karla incrociò le braccia sul petto.
"Hemfield però si è fatto pizzicare" continuò Emily. "Allora Raymond si è rivolto a voi, Dan e Karla, perché bisognava tirare fuori Richard, vostro fratello, dal carcere. Ma a quell'epoca avevate appena avuto le bambine con Dan, e la tua carriera in polizia era agli inizi - non avresti mai potuto immischiarti nell'inchiesta. Avete quindi deciso di attendere di avere tutte le pedine necessarie per tirare fuori Richard da Broadmoor; avrebbe comunque dovuto scontare la pena per l'omicidio di Samuel Garel e non sarebbe potuto uscire subito. Per cui il vostro piano era semplice: far credere che gli omicidi continuassero perché il vero assassino era sempre in libertà. Avreste abbandonato il primo cadavere nella zona di tua giurisdizione, Karla, e, vista l'incompetenza di Johansson, il tuo capo sezione, ti saresti fatta affidare il caso, permettendoti così di orientare le indagini come meglio ti pareva. Informavate Richard dei vostri progressi tramite gli annunci del Times, mentre lui avrebbe continuato a comportarsi da detenuto modello e a sostenere la propria innocenza nell'attesa della scarcerazione ormai prossima, un gioco che l'ha sicuramente molto divertito. Ma Raymond ha sgarrato; ha aggredito la sua sorella adottiva, e in quel momento ogni cosa ha cominciato a crollare.
Karla abbassò gli occhi.
"Quando hai visto tuo marito, al commissariato, non gli stavi facendo delle domande. Gli dicevi cosa doveva fare. "Sei stato tu a farlo. Hai aiutato quei due mostri ad ammazzare quelle donne. Poi gli hai detto: Ti rendi conto di ciò che hai fatto alla tua famiglia? Di ciò che hai fatto a noi, intendendo che era colpa sua, che non era stato abbastanza prudente e che non si era preso cura della propria famiglia. La propria famiglia, ovvero sua moglie, Richard e Raymond. E poi hai aggiunto: E le nostre figlie, riferendoti alle bambine. Dopo hai ripetuto le nostre ragazze, e stavolta parlavi delle vittime, quelle ragazze che avete assassinato dapprima insieme a Hilda, e poi senza Hilda. Hai concluso con Non vorrai restare lì davanti a me, tua moglie, senza dire niente", per ordinargli di confessare la sua colpa. Ed è ciò che ha fatto. Tuo marito l'ha detto, venerdì, al processo: era più Skorpan che Jonathan; tu eri la protettrice, quella che si prendeva cura di lui, ma anche quella che prendeva le decisioni. La cosa più interessante, è che tu e Dan abbiate scelto per le vostre figlie la vostra stessa infanzia. Avete riprodotto i medesimi errori dei vostri genitori. In fondo, non offri loro niente di meglio di ciò che ti ha offerto tua madre."
Karla allungò un indice minaccioso davanti al viso di Emily.
"Non osare paragonarmi a iris Sundberg!" sputò con la bocca ritorta dalla furia. "Io sono una madre. Una sposa. Una sorella. Iris Sundberg... Mi ficcava in gola a forza il pene del padre di Dan. Non era mia madre. Era un errore della natura che non avrebbe mai dovuto procreare. Mai. Una puttana e una degenerata, come la zia di Hemfield. E come tutte quelle che Hilda ci serviva per cena."
87
Inghilterra, Berkshire, Crowthorne,
ospedale psichiatrico di Broadmoor,
venerdì 13 novembre 2015, ore 2.30
Richard Hemfield aprì la zip del sacchetto. Il corrispettivo in cambio della lista delle loro vittime. La sua ricompensa.
Le calze erano state tagliate in sette pezzi per motivi di sicurezza; fianchi e glutei, cosce, gambe, piedi.
Tirò fuori con cautela quei pezzi di stoffa, li rovesciò e ne allineò sei, da una parte e dall'altra del suo cuscino. Si sdraiò delicatamente sul letto e posò l'ultimo pezzo sul suo viso, con il cavallo a ricoprirgli la bocca e il naso.
Chiuse gli occhi e introdusse un pezzo di collant nella narice sinistra. Degli effluvi zuccherini e al contempo piccanti gli appesantirono la lingua. Un odore di burro rancido e di miele... Un bouquet unico... Come un vino, la cui degustazione iniziava già molto prima di essere bevuto.
La festa di San Giovanni del 1988... La ragazza di Kiruna... Anche il suo sesso profumava di cuoio umido e burro rancido...
Hemfield s'infilò il collant anche nell'altra narice.
Erano usciti tutti quando avevano udito il motore della Vespa. Karla, già a cavallo della sua preda, stringeva la cintura intorno alla sua gola bianca. La ragazza li aveva guardati tutti e cinque, inorridita, prima che la sua lingua rosa e pendula come quella di una cagna le uscisse dalla bocca.
Raymond e Dan l'avevano aiutato a portare la ragazza in cantina. Karla l'aveva spogliata e lavata, e Hilda l'aveva fatta a pezzi; poi erano tornati su per preparare la cena. Di solito conservavano le ragazze per qualche tempo prima di consumarle, e il gusto della carne ne guadagnava: era meno nervosa, più tenera e saporita.
Avevano comunque consumato il pasto con grande appetito. Quelle cene provocavano una sorta di... Orgasmo buccale... Come se il piacere sessuale si trasferisse improvvisamente nella bocca, nella gola e nello stomaco... Solo un rumore discreto di masticazione e qualche schiocco perturbavano il clicchettio dei coperti, come dei mormorii di piacere soffocati durante il coito.
Hemfield cercò tastoni e prese un altro pezzo di collant, a destra. Un piede. Liberò una delle narici e ci ficcò dentro il nuovo pezzo di nylon.
"Sono stati gli dei, a portarti fin da me" gli ripeteva spesso Hilda... Dopotutto, avevano entrambi del sangue inglese nelle vene.
Quella sera, l'aveva sorpreso mentre si masturbava con i vestiti della ragazza di Kiruna... Si era limitata a sorridere e a richiudersi la porta della cantina alle spalle... Hilda capiva che la cena non gli bastava. Capiva che i bisogni del suo Richard erano altri... E non lo giudicava. Lo lasciava perfino sperimentare...
Hilda...
Prese altri due pezzi di stoffa e se li mise nelle orecchie.
Raymond l'aveva supplicato di non abbandonare i corpi delle ragazze a Tower Hamlets, ma lui non aveva voluto saperne... Gli piaceva vedere le sue puttane snaturate e fatte a pezzi su un marciapiede... Il godimento era troppo intenso, inebriante... Assoluto.
Ma Hilda non gli avrebbe mai perdonato di aver trascinato Karla nella sua caduta.
Hemfield prese gli ultimi pezzi di collant.
Hilda non gli avrebbe mai perdonato di averle portato via la sua piccola Skorpan... La sua sublime Skorpan...
Si mise i lembi in bocca e se li infilò in gola con le dita.
Ma Richard capiva Hilda... E non la giudicava.
88
Francia, La Ciotat,
domicilio di Mado e Norbert Castells,
giovedì 24 dicembre 2015, ore 14.00
Alexis si sdraiò sul divano. Posò la testa sulle gambe ancora rotondette della nipote, che si mise a pettinarle i capelli con le sue manine delicate.
Alexis aveva consegnato il suo libro sul caso Ebner quattro giorni prima, e la fatica cominciava a reclamare quanto le era dovuto. Si sentiva come una madre che ha appena partorito: dominata da una furiosa voglia di dormire. "Con l'unica differenza che tu però puoi dormire", l'aveva corretta sua sorella, madre di due bambini.
"Lukkumi con me, Zietta?"
"Sì, amore. Che guardi?"
"Peppa Pig, nana nanananananaaa... Zietta!"
"Sì, pulcina..."
"Canta la canzoncina strana!"
"Quale, pulcina? Jingle Bells?"
"No, quella del paese di Stella che fa lalalalala e che si canta quando si beve!"
"Ah, quella... Dovrai chiederla a lui: io non so cantarla, tesoro."
"Yaya però sì, lei la sa!"
Alexis interrogò la madre sgranando gli occhi.
"Be', sì" rispose Mado mettendo un pezzettino di torrone tra le labbra della nipotina e quella di Alexis. "Ho imparato Hall and Gore in onore del nostro invitato."
"Sai cantare Helan Går, mamma?"
"E anche molto bene" intervenne Stellan, che passò per il salone seguendo Norbert Castells.
"Dove state andando?" chiese Alexis, con gli occhi socchiusi, soccombendo alla dolcezza delle carezze della nipote.
"In soffitta. Andiamo a cercare i super 8 delle feste di Moros y Cristianos."
"Va bene" si accontentò di replicare lei, lasciandosi cogliere dal sonno.
Completamente assorta da Peppa Pig, che si divertiva come una matta tra le pozzanghere, sua nipote pareva essersi dimenticata di Hall and Gore.
Stellan e Norbert Castells salirono le scale che portavano al piano superiore.
"C'è una cosa che volevo dirle da quando siamo arrivati, Norbert" disse Stellan richiudendo la porta dello stanzino che dava accesso al solaio, "ma non riesco mai a trovare il momento giusto."
"Vuoi dirmi qualcosa? Che cosa vuoi... Oooh!"
Il padre di Alexis si sedette su una pila di cartoni. Poi si rimise subito in piedi.
"Aspetta, Mado, aspetta! A Mado verrebbe un colpo se sapesse che mi volevi parlare senza di lei. Un attimo soltanto."
Norbert Castells riaprì la porta.
"Mado!" gridò, mettendosi le mani a coppa vicino alla bocca. "Ci sono quarantaseimila scatole su in solaio! Non trovo i film! Dove li hai messi? Ho già svuotato due cartoni, ma non trovo niente!"
"Ma insomma, acciderbolina!" rispose immediatamnte Mado salendo le scale. "Saresti capace di non trovare l'acqua in mezzo al mare, Castells! Fammi passare."
Norbert richiuse la porta alle sue spalle.
"Il ragazzo ti vorrebbe parlare, ma stai sempre appiccicata ad Alexis."
"È stanca morta, non vedi?! È pallida come un cencio, ha passato tutto l'autunno davanti allo schermo, senza prendere mai una boccata d'aria, e..."
Mado s'interruppe. Il suo sguardo si velò d'angoscia.
"Cosa? Che c'è? Hai qualche brutta notizia? Stai male? Alexis sta male?"
"Ma no, Mado! Se lo lasci parlare, magari riuscirà a dirti quello che vuole."
"Va bene. Cosa vuoi chiederci, Stella?"
Stellan sorrise.
"Vorrei chiedervi la mano di vostra figlia, Mado."
Norbert soffocò il futuro genero in un abbraccio, prima di schioccargli due baci sonori sulle gote.
Stellan, preoccupato, osservava la futura suocera - così sperava, perlomeno - che, una volta tanto, pareva avara di parole e di emozioni.
"Lo sapevo, Bert, lo sapevo!" esclamò all'improvviso. "Lo sapevo che mia figlia se ne sarebbe andata ancora più al nord!"
89
Québec, Montréal,
cimitero di Notre-Dame-des-Neiges,
giovedì 24 dicembre 2015, ore 15.00
Emily aprì la zip del giaccone e tirò fuori la scatoletta nera dalla tasca interna.
Poche settimane prima, si era inginocchiata accanto a quel minuscolo fazzoletto di terra addossato al muro di mattoni, in fondo al giardino. Quel cimitero dove seppelliva i casi risolti, tutte quelle vittime che avevano ritrovato la pace. Cinquantadue piccole bare, in attesa della prossima.
Presto.
Aprì la cinquantatreesima scatola.
Contemplò Angela Hemfield. Jeanine Sanderson. Diana Lantar. Katie Atkins. Chloe Blomer. Sylvia George. Clara Sandro. Maria Paulsson. Freja Lund. Ci mise a ghirlanda tutte quelle che non erano ancora state identificate. Tutte quelle che aspettavano che le negoziazioni tra gli avvocati giungessero al termine, perché si potesse dar loro una sepoltura o le si potesse piangere.
Non si stupì di vedervi in mezzo i loro carnefici: Hilda, Sigvard, Karla, Dan, Richard e Raymond. Sei destini di bambini rovinati, maltrattati, abusati dai genitori, poi dalla vita stessa. Ogni errore era stato inanellato come una perla per farne una lunga collana tramandata di generazione in generazione.
Alla fine, tutta questa tragedia, queste tragedie, non avevano niente a che vedere con il terribile Jack lo Squartatore, come aveva suggerito Aliénor. I suoi crimini rappresentavano il viso butterato di miseria dell'Inghilterra, ma non erano i peggiori.
Qualche fiocco di neve ricopriva ora il fondo della scatola. Emily stava per richiuderla quando ci si vide dentro: un'intrusa in mezzo alle vittime. Lei, la profiler che aveva discusso, mangiato al fianco di un mostro, condiviso il suo dolore, senza smascherarlo.
Emily richiuse il coperchio, si rimise la scatola in tasca e tirò su la zip del giaccone, sotto la carezza dello sguardo di Pearce.
Risalirono il viale che costeggiava il cimitero, accompagnati dal suono dei loro stivali che crocchiavano mentre si staccavano dalla neve.
Suo figlio riposava accanto a una nonna di nome Hortense, in una bara bianca grande quanto una culla che aveva dovuto scegliere da sola. Sebastian era lì, proprio sotto i suoi piedi.
Pulì delicatamente la neve con la mano, fino a sentire le pietre sotto i guanti. Posò un ciottolo oblungo, grigio e picchiettato di nero accanto alla pietra bianca che aveva portato l'anno precedente.
S'inginocchiò e posò i palmi delle mani e la fronte sulla tomba gelata.
Parlò a suo figlio di tutto l'amore che avrebbe voluto dargli, di tutti quei pasti che avrebbero potuto condividere, di tutte le risate, i viaggi, i litigi, le angosce, i pianti, i compleanni, le feste...
Gli confidò tutti i suoi rimpianti.
L'importante non è cosa fanno di noi, ma ciò che noi stessi facciamo di ciò che hanno fatto di noi.
Jean-Paul Sartre