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Il giorno dell'esame di ammissione coincideva con la mia prima volta in Conservatorio. Per una sorta di rituale scaramantico avevo fatto in modo che, fino a quel momento, restasse un territorio sconosciuto. Finalmente stavo per infrangere i miei sigilli e varcare l'ingresso. Appena lo feci, però, temetti che si trattasse della mia unica occasione.
La struttura era antica, di un giallo sbiadito, e confinava con una chiesa dalle dimensioni imponenti. Si apriva su un acciottolato quadrato, i cui lati erano occupati da portici. Si respirava un'atmosfera sospesa, esclusiva, come se ancora, per raggiungere le sale da concerto, si viaggiasse in carrozza. Mi piaceva.
Su una bacheca lessi dove avrei dovuto sostenere la prova e, seguendo le indicazioni, mi diressi verso l'aula 106. "Sei più uno sette. Sette è un bel numero, ad esempio le virtù sono sette".
Se mia madre fosse qui mi ricorderebbe che l'otto ha caratteristiche migliori: otto sono i petali del loto, ottagonale è la forma dei templi buddisti. Quindi meglio non illudersi. Ma in quali ragionamenti mi stavo impigliando?
Oltre a me in cortile non c'era nessuno e quella desolazione mi fece credere che la prova sarebbe stata più semplice del previsto. "Sei la solita esagerata" mi dissi salendo le scale.
Era fine aprile, la luce della giornata era forte e rasserenante.
Ma quando varcai la porta di vetro del primo piano, quella gradevole sensazione svanì. Sull'ampio corridoio, simile a quello di una vecchia clinica, si affacciavano solo aule e nemmeno una finestra. L'unica era in fondo, ma la presenza di molte persone non consentiva alla luce di espandersi. Ragazzi e ragazze di tutte le età bivaccavano insieme ai loro strumenti musicali. Alcuni a gambe incrociate con gli spartiti posati tra le ginocchia ripassavano: chi soffiava in un righello come fosse un flauto traverso, chi affondava le mani in complessi accordi sulla propria borsa. Le madri - molti le avevano con sé - origliavano alle porte.
"Io adesso torno a casa e riempio la vasca da bagno. Mi sciolgo nell'acqua come sapone, divento schiuma e non penso più a nulla".
Quando poi vidi il mio nome occupare l'ultimo posto dell'elenco dei candidati di viola, mi sentii ancora peggio: attesa infinita. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno disposto a mostrare solidarietà. Per un po' rimasi in piedi, con la custodia in spalla che saliva e scendeva insieme al respiro. Solo una bambina che non avrà avuto più di sei anni si rivolse a me.
"Io sono già iscritta a pianoforte, ma voglio imparare anche il violino". Il suo strumento era piccolo, sembrava un giocattolo.
Lei, invece, faceva terribilmente sul serio.
"Beh, non mi dici che sono brava?".
Avrei voluto essere sgarbata e invece mi limitai a confermare che, in effetti sì, lo era. Anch'io avevo cominciato con i tasti bianchi e neri. Ma dopo poco, a forza di protestare, i miei avevano ceduto lasciandomi scegliere un altro strumento. Volevo qualcosa da potermi portare in giro, da suonare dovunque, e che fosse sempre e solo mio. Le mie vacanze erano condizionate dal fatto che ci fosse un pianoforte nella zona: mi ero esercitata su quelli della parrocchia, su quello di casa di un sindaco, su quello della scuola di danza e persino sul palco di un villaggio turistico. Alcuni erano perfetti, altri orribilmente scordati, sporchi, o si trovavano dentro stanze polverose. E poi, quando cominciavo a familiarizzare con loro, era il momento di lasciarci e ripartire.
"Perché proprio la viola e non il violino?" mi aveva chiesto la segretaria della civica quando, alla fine delle visite nelle varie classi, avevo comunicato la scelta ai miei genitori. "Non è uno strumento da bambini" aveva continuato. Ma io non volevo certo fare una cosa da bambini, tanto meno con la musica. Anche se avevo nove anni.
Finalmente l'ultimo candidato uscì dall'aula e arrivò il mio turno. Sentivo le gambe dure come se avessi corso nel freddo di dicembre, ma, nonostante la mia condizione restasse vacillante, decisi di entrare. Qualcuno, però, mi raggiunse alle spalle. "Aspetta! Tu sei la privatista che deve fare l'ammissione?".
La voce era aspra, frammentata dall'affanno. Mentre riprendeva fiato mi squadrava. "Io ti ho già vista. Forse fai il Manzoni?".
"Sì, sto per finire il terzo anno. Anche tu?" chiesi solo per cortesia.
"No, è che abito lì vicino".
Più osservavo i suoi tratti e meno riuscivo a decidermi: era un ragazzo o una ragazza?
"Beh, a questo punto mi presento" disse allungandomi una mano con le unghie mangiate fino alla carne. "Ludovico Anselmi, il tuo pianista accompagnatore".
Dunque era un ragazzo, e aveva una stretta morbida, sicura, che mi sorprese. "Perdonami per il ritardo, ma oggi ho dovuto seguire molti altri esami. Dammi il tempo di recuperare la tua parte e poi entriamo". Così dicendo si era messo a cercare tra i vari spartiti diligentemente incollati a fisarmonica. Io lo guardavo e non mi pareva avesse molto di mascolino. Non assomigliava ai miei compagni che odoravano di sigaretta e riuscivano a stare in T-shirt anche in inverno. Lui aveva una camicia a righine infilata dentro i pantaloni, una cintura intrecciata e delle Clarks blu ai piedi. In effetti era vestito da maschio, ma non era più virile di un bimbo. Provai a immaginare quan to lo prendessero in giro i suoi coetanei: nella mia scuola bastava molto meno per essere tiranneggiati.
"Eccola qui!" esclamò facendomi ripiombare nella realtà di quel momento. "Ehi, ma sei pallida, non avrai mica paura, vero? Io studio qui dalle elementari, fidati, andrà bene".
Ma cosa poteva saperne, se non mi aveva mai sentita suonare nemmeno il campanello della bici? Non dissi nulla, lui mi aprì la porta dell'aula con un gesto galante ed entrammo, come se davvero fossimo un duo.
Dietro la cattedra mi aspettava la commissione: erano in cinque, e una delle due donne aveva una folta chioma rossa. Cominciai ad accordare la viola: cala, giusto? O cresce? Mi stavo già perdendo, cercavo un viso al quale affidarmi per avere qualche suggerimento. Ludovico Anselmi, concentrato, sfogliava la partitura. L'ansia che mi aveva raggiunta era così forte da rendermi sorda alle piccole oscillazioni. Ecco una cosa che avrei desiderato cambiare di me, non i capelli ricci in lisci, o il seno piccolo in una terza abbondante. Avrei sostituito il mio orecchio esitante con uno assoluto.
Per nulla sicura di aver fatto un buon lavoro con le corde, decisi di iniziare comunque: quel momento era finalmente arrivato.
Il pianista mi fece un sorriso mentre portava le mani sui tasti, poi abbassò le palpebre come a dirmi "stai tranquilla", ma era chiaro a tutti che non lo ero.
Cominciai con la sonata di Benedetto Marcello. Fui incerta nelle prime note, non stavo abbandonando il pensiero, il controllo.
Provai ad ascoltare il pianoforte, a cercare un suono che si combinasse con il suo, che fosse musica. Allegro, Adagio. E poi, durante l'Allegro finale per un attimo mi sembrò di cantare, di scivolare impetuosa e guizzante. Ne fui contenta, ma durante la prova successiva, lo studio di Kreutzer, ecco un errore.
E allo sbaglio delle dita ne aggiunsi un altro, peggiore: mi fermai. Quel silenzio che un musicista non dovrebbe mai far ascoltare.
"Non si preoccupi, riprenda pure dalla quarta riga" mi disse una voce maschile. Non guardai la commissione, ma sentii che qualcuno si era alzato e aveva raggiunto la finestra. Il bianco della pagina sul mio leggio si era rabbuiato. Non feci altri errori e, quando fu la volta della Suite di Bach, mi stupii dell'euforia con la quale stavo per affrontarla. Avevo ancora una possibilità e desideravo che parte del piacere tattile che mi davano le note risuonasse nell'aula. Preludio, Allemanda. Che quell'emozione, che in nessun altro modo e in nessun altro luogo riuscivo a esprimere, li raggiungesse. Corrente, Sarabanda. "Va bene così, per noi può bastare" disse una donna. Staccai l'archetto dalle corde e guardai verso la cattedra. Il maestro che prima si era alzato era ancora rivolto verso la finestra.
Tolsi la viola dalla spalla e, tenendola per il manico, la lasciai scendere lungo il fianco. Avevo le dita bollenti e le labbra screpolate.
Lui si voltò, per un istante incrociai il suo sguardo, aveva una folta barba scura. Mi fece un sorriso e io mi sistemai una ciocca di capelli. Tenni quell'immagine come la più preziosa della giornata e abbassai subito gli occhi attendendo che mi congedassero.
"Grazie, i risultati saranno esposti fra due settimane" annunciò la rossa. E nessuno aggiunse altro.
Uscii dall'aula insieme al mio pianista. Il corridoio era ormai vuoto, le inservienti cominciavano a pulire i pavimenti con delle grosse scope a V, raccogliendo carte di caramelle e qualche tappo di bottiglia. Ero convinta che non avrei studiato lì, di non aver superato l'esame: lo insegnano fin dai primi anni che quando si sbaglia bisogna andare avanti, l'errore va coperto con spavalderia.
"Quasi quasi chiedo se spazzano via anche me" dissi ad alta voce.
"Eri solo un po' troppo agitata" mi rispose lui, meno otti mista di prima. "Ma si sono accorti che sei brava. Me ne sono accorto anch'io".
Non consolarmi, avrei voluto strillargli sul viso. E invece mi accorsi che durante l'esecuzione doveva essersi fatto male a un dito: gli stava sanguinando sui pantaloni. Lo vide anche lui e, svelto, lo portò alle labbra. "Mi capita spesso. Ora però scusami" farfugliò "devo andare". E così, di corsa com'era arrivato, Ludovico imboccò le scale.
Io, prima di decidermi a scendere guardai il vuoto oltre il corrimano, le punte dei miei piedi sul limitare del gradino.
In quel mentre, dal corridoio comparve la commissione.
Parlavano tra loro divertiti e mi passarono accanto senza notarmi, quasi fossi parte dell'architettura. Solo il maestro con la barba rallentò. I nostri sguardi si incrociarono di nuovo, sembrava che stesse per dirmi qualcosa. Ma poi si era voltato, tornando nel gruppo.
A un tratto sentii freddo alle braccia, lungo il corpo. Abbassai lo sguardo: avevo sudato. Due aloni umidi segnavano la camicia e l'imbarazzo che stavo provando li avrebbe solo ampliati.
Scesi lentamente, l'orlo della mia gonna ondeggiava. Avevo scelto quella di stoffa leggera a pennellate blu e lilla certa che mi avrebbe portato fortuna.