Animali trovati
L’allergia e altri mali
Non sarò la prima né l’ultima a scrivere di animali, il che vuol dire quasi sempre di cani. Illustri amatori del genere mi hanno preceduto facendomi molto spesso versare delle lacrime. Al cinema, quando si tratta di loro, in genere non ci vado, se è in televisione, chiudo. C’è sempre da soffrire. Le care creature si prestano al ruolo di vittime e a buon diritto, per ragioni anche più sottili di quelle abusate nelle storie. Come si fa a vivere senza un cane, mi chiedo incredula, quando offro qualche trovatello e mi sento rispondere senza esitazione: “No”. La giustificazione più frequente del netto diniego è: “Quando non si può tenerli bene, è meglio non prenderli”. “In che senso bene? Lo picchierebbe? Lo affamerebbe? Sente istinti omicidi, pardon, canicidi?”
“Oh, per carità. Adoro le bestie, ma vivo in una casa piccola, sono fuori tutto il giorno, non ho neanche un terrazzo”.
Penso a come ci starebbe bene quel povero bastardo che ho incrociato col cuore stretto sulla tangenziale o anche quel grosso pastore che si trascina fra i banchi del mercato.
Avere un cane costa un po’, quel tanto che deve costare un atto di vita, non si vive gratis, non senza pensieri, non senza provocare delle attese, non senza impegnarsi, non senza rimorsi, non senza amare. Quel povero quadrupede che aspetta col suo sonno e i suoi piccoli sogni che guaiscono, là dietro la porta di una casa troppo piccola, senza terrazzo, sente gli scatti della segreteria telefonica, trattiene la sua pipì, ma è felice di essere di qualcuno. Incoraggiata dal fatto che si fanno inchieste, per essere gentili, di vario genere, ho fatto un giro di opinioni sulle più correnti ragioni per non accogliere un cane in casa, partendo dal dato che il novanta per cento degli italiani, lo dico con la benevolenza autoritaria degli opinionisti televisivi, dichiara di amare gli animali.
Una malattia emergente è l’allergia. Non dico che non esista; ma offre certamente una scusa buona per allontanare seccature e su questo scomodo malore, supposto o reale, si appoggia un bel po’ della malevolenza verso il cane in casa. La disonesta è più spesso la donna. Il grande ingombro domestico che impone un cane si riduce a portarlo fuori almeno un paio di volte al giorno, dargli una pappa, spazzare un po’ di peli e qualche zampata di fango quando piove. Ecco la comodità dell’allergia.
“No, signora, come faccio, sono allergica. A me piacerebbe, cani ne ho avuti… ma adesso proprio…”
“Sì, addio, il bambino me sta male, sternuta subito”.
“Amore di mamma, il cagnolino non si tocca”.
“Perché, signora? È buonissimo…”
“Per l’igiene… come niente se scopre n’allergia…”
“Ha visto, scusi, le mani del suo bimbo che il mio cane cortesemente tollerava sul suo pelo? Non mi guardi indignata… insegni piuttosto al piccolo che il pelo del cane si accarezza nel suo verso e non al contrario, e le manine si lavano”.
In realtà i pediatri, anche quelli delle ASL, dovrebbero consigliare col latte in polvere, le suppostine e i succhi di frutta, anche il cane. Vorrebbe dire far crescere un bambino certamente amato. I bambini che hanno avuto per primo amico un cane, saranno molto probabilmente uomini buoni, è il primo essere vivente che li affranca dai genitori, da quel rapporto comunque conflittuale. Lui sa che il suo quattro zampe è là; sempre pronto a cacciargli la testa sotto le manine non sempre lievi, a seguirlo senza discutere nelle imprese più innocenti e sempre sottolineate dall’apprensione nevrotica di uno dei due, i suoi occhi lo guardano sempre per proteggerlo e per dirgli: “Sono d’accordo”.
E perché privare i vecchi di un cane? Con lui si parla, almeno. Fra i giovani e semi-giovani e i vecchi ci sono dei silenzi abominevoli, stagna nell’aria l’impazienza di andarsene, il calcolo vergognoso del dovere compiuto. Il cane sarebbe lì, a raccogliere la sua solitudine. “No, la mia padrona non parla da sola, parla con me, non è né pazza né rimbecillita. Ha solo qualche idea fissa. Le conosco e in parte le condivido. Spero di morire prima di lei. Sarebbero capaci di mettermi in mezzo a una strada”.
“Noi li umanizziamo troppo, un animale deve vivere da par suo,” dicono. Ma il cane si rifiuta. Dato che la vita da cani è proverbiale, lui ha altri scopi che rappresentare un detto popolare. Ormai è legato al carro dell’uomo nel bene e nel male e, ahimé, più male che bene, ma quando fa presa in un cuore non chiede di meglio. C’è chi esce al guinzaglio di un cameriere filippino e chi ha imparato a conoscere i semafori, chi viene spazzolato da un maggiordomo, chi si ingegna con le proprie pulci a colpi di denti, ma avere un indirizzo è basilare.
E, contro questo, ecco un’altra scusa: la paura di soffrire.
“Da bambina ho avuto un cagnolino, una volpina, Chicca… quando mi è morta, sotto una macchina, del nonno, pensi… mamma non me lo voleva neanche dire… insomma ho sofferto tanto che ancora me lo ricordo… non ne ho più voluti…”
“Ma ci ripensi, non è detto che se ne prende uno, trovi un altro così disattento come il nonno, e poi la vita è sempre rischiosa, per tutti…”
“Quando è morto il mio Black, un favoloso pastore tedesco, venti anni fa, ho detto ‘cani, basta,’ ci sono già tante ragioni per soffrire, pensi che ancora oggi a pensarci mi commuovo”.
Io penso, brutta egoista, la tua sofferenza è più preziosa della vita di una creatura? La salvaguardia di quei possibili pianti ti nega anni di gioie semplici quanto intense. Essere intuìto a tanti metri di distanza, a tanti piani di lontananza, essere accolto sempre con gioia incontrollabile, frenetica, mentre qualche voce famigliare dice dietro una porta: “Ah, sei te?” e si risprofonda nella distrazione, essere vegliato con rispetto e qualche sospiro mentre dormi, i tuoi spesso ignobili papponi non sono mai respinti come può capitare al tavolo domestico a qualche piattino che hai studiato sull’enciclopedia dei cuochi, se ti sbrighi con una scatola, per lui fa lo stesso. Con quanta discrezione il tuo cane si ammala, se soffre lo dice solo con un dignitosissimo sguardo che rischia di farti soffrire, ma cos’è al confronto dei nostri lamenti, scatti, insofferenze, ingratitudini. Se uno di loro uccide, glielo abbiamo insegnato noi. Per lo più vengono uccisi. Ci sono cani che attraversano spazi incredibili per tornare da un padrone che forse neanche lo rimpiange o addirittura non lo voleva più.
Perché non mangiano più se il padrone è inspiegabilmente lontano? Perché pensano di non avere il diritto di star bene mentre lui magari è nei guai. Ci sono cani che si lasciano morire sulla tomba del padrone, volontariamente, non come quelle povere donne esotiche costrette a partecipare a un rogo, mentre avrebbero goduto di una vedovanza liberatoria. Chi vi ha insegnato questa vostra fedeltà oculata, senza esitazioni, senza sospetti, senza scambi? Questa è la fedeltà, è l’accettazione.
Il rimorso
Avevo sempre cercato di evitare un sentimento in particolare, fra tanti che ero capace di provare, il rimorso. In realtà, i sentimenti si provano non soltanto nel senso di esserne pervasi, ma proprio come dei cappelli dalla modista (meravigliosa tappa della signora in parte cancellata da una moda deprimente). Insomma, come non mi metto i pantaloni o, per tornare alla testa, un cappellino tirolese, non mi proverei mai per esempio l’invidia.
Qualche volta si esita davanti allo specchio con una paglia bizzarra in testa, come si può essere per un momento tentati di provare una gran paura anonima (di invecchiare, di compromettersi, di morire, boh!).
Ma c’era uno di quei modelli di sentimenti super classici, come il paletot di cammello, che credevo proprio non mi tentasse, da tenersi tutt’al più in fondo all’armadio. A un certo punto della mia vita invece si è imposto con prepotenza, scavalcando anche, per un periodo, i migliori modelli del mio guardaroba sentimentale. Una vittoria subdola, ottenuta tramite i miei cani.
C’è stato un momento, piuttosto lungo direi, qualche anno, in cui dicevo con orgoglio, compiaciuta: “Ho sei cani, li tengo in campagna,” e ne descrivevo fisico, morale e prodezze. Il fatto è che loro erano in campagna e io no, e questo rendeva più o meno fedele il mio racconto. Ve li descrivo.
Una era Camilla. La sua era una retraite equivoca per presunta terza età e in un certo senso la sua presenza godeva di qualche privilegio, se non altro si permetteva dei viaggetti in città, sempre meno se ci penso, fino a quello finale e ritorno.
Poi c’era Filippa. Lei era una maremmana bianca, bella, forse non pura. Nel mio ricordo, la sua caratteristica era che mi amava insensatamente. Sì, un amore insensato perché io non ho fatto certo molto per lei. Mi veniva incontro quando arrivavo, si drizzava sulle zampe posteriori (era molto alta) e mi metteva le braccia, per così dire, sulle spalle e mi fissava dritto negli occhi col muso vicino al mio, per così dire.
Io le concedevo una lunga sosta in questa posizione, anche perché essere privilegiati da un cane fa sempre piacere. Ma poi io tornavo a Roma e lei restava lì e mi guardava andar via con uno sguardo indefinibile, ma certo non bello, dolente. Forse Camilla le avrà detto: “… Non ti affliggere troppo, pensa a me che sono stata scaricata dopo anni di vita in comune”. Filippa era molto dignitosa, come una vecchia contadina, era una pastora e i pastori se non hanno il gregge non si muovono dalla casa.
Poi c’era Lina. Una molossa napoletana, grigio-azzurro, piccolotta come molossa. Aveva preso il nome da un nostro spettacolo Lina e il cavaliere, ma lo spettacolo non l’aveva neanche visto. Era partita cucciola per i Castelli, un fagottello ignaro di padroni, amori e altre cose. A pochi mesi, quando arrivò da noi era una cagnolotta di gran carattere, ringhiava col sedere conficcato in un angolo di una stanza e apriva una gran bocca minacciosa pronta ad agguantare mani imprudenti, ma poi ha continuato a spalancare quella boccona per agguantare qualche pagnotta al volo per farci divertire. Aveva una gran platea per questo esercizio perché da noi la domenica veniva il meglio del teatro italiano e l’esercizio pagnotta la metteva quasi sul piano di un clown. Fece qualche peccato verso i gatti, ma non mi sento di colpevolizzarla troppo. Era vittima di un istinto senza sfogo o, come si dice oggi, di carenza affettiva. Il suo peso non le concedeva neanche qualche fuggevole ginocchio.
Poi c’è stato il Pazzo. Era un figlio di Camilla (che non fu una gran madre, tanto che non ricordo neanche gli altri. Fece i figli una sola volta, ma era troppo presa dall’amore per il padrone per averne ancora per loro).
Il Pazzo era veramente matto, bruttino, un po’ ispido, simpatico, di un brutto marrone castagna secca, non ascoltava ragione nella sua follia di ammazzare polli e questo vizio rese la sua vita breve. Scavava accanito e implacabile sotto le reti protettive, guatava il pollaio del vicino da un ponte (il nostro era stato definitivamente messo fuori uso), nei suoi occhietti si leggeva solo il calcolo della strategia da seguire.
Buon stratega per un po’, ma poi l’errore fatale. Fece dunque brevemente parte dei sei campagnoli, per poco più di un anno.
La sua uccisione ebbe l’indifferenza della madre e le mie tardive rimostranze, oltre al mio rimpianto, perché era veramente matto e quindi molto singolare.
Il suo posto fu subito preso da Strofinone. La storia di Strofinone fu determinante per far entrare nel mio guardaroba sentimentale il rimorso. Vi prese un posto stabile come quei capi che non si ha il coraggio di regalare e ogni tanto si tirano fuori. “Lo potrei mettere ancora? Ma… intanto lasciamolo lì”.
Si girava un film a Positano, Leoni al sole. Io quando giravo un film, quelli che oggi rivedo con piacere e con molti bei ricordi in testa, ero sempre triste. Anche soggetta al pianto. Quell’anno, in particolare, avevo scritto una commedia alla quale tenevo molto e pensavo con una specie di angoscia misteriosa, che il film avrebbe ritardato o forse compromesso la stagione teatrale. Ero lì, a picco su quel mare meraviglioso, e spiavo con odio le minuzie delle riprese. Stavo per respingere sdegnosamente il cestino, proprio sul punto di dire seccata: “Io mangio in alber…” quando è apparso Strofinone. Ho avuto la sensazione precisa che fosse la forma di un’anima eletta. Era di taglia media, nero, vagamente cocker, anzianotto, il ventre un po’ gonfio, impolverato, naturalmente affamato. Mentre mangiava il mio cestino e a ogni boccone alzava un occhio verso di me, gli ho visto intorno al collo una lunga cicatrice circolare. Ci guardavamo, quando sono spuntate alla sua altezza le gambe di un carabiniere come in un’illustrazione di Pinocchio.
“Il cane lo devo portare al canile municipale… è un randagio”.
“Cosa dice, è mio”.
“Allora gli metta un collare… guardi che la faccio responsabile”.
“Ma si figuri”.
“Come si chiama?”
“Non sono tenuta a dirglielo”. Se n’è andato.
Alla fine della giornata l’ho chiamato Strofinone perché non si staccava dalle mie sottane nonostante il guinzaglio. Quando l’ho portato a Roma, sperimentava evidentemente per la prima volta l’automobile. Era stretto a me sulle mie ginocchia e l’emozione gli fece vuotare l’intestino sulla mia gonna. Mi ricordo che era una bella gonna di seta verde pisello. Sono scesa, me la sono sfilata in un prato e l’ho lasciata là.
Strofinone è stato con noi non più di un anno. Per fortuna c’era di mezzo l’estate e perciò siamo stati un bel po’ insieme. Chi si nascondeva dentro la sua pelliccia sfiorita? Un gentiluomo, una dama, un bambino, un antico cane abituato a reincarnarsi? Strofi si accoccolava vicino a me in giardino in una bella buca, che si scavava appena intuiva la mia decisione di sedermi, purtroppo se mi dovevo allontanare mi seguiva scrollandosi di dosso la terra e quando tornavo e mi sedevo ne scavava un’altra. Gli avrei perdonato anche di peggio perché sentivo che il suo destino era prossimo a compiersi un’altra volta. Avrei potuto avere il cuore in pace con lui, dato che gli avevo certamente allietato la fine della vita. Ma intanto ero andata a fare la mia amata commedia e il veterinario dal quale l’ho portato temo che l’abbia soppresso. Mi diceva: “Sai, deve averne passate tante, comunque era anziano, almeno dodici… aveva un tumore”. Il tutto mi suonava come una giustificazione. Strofinone è rimasto là. Aveva certamente, secondo la regola, “finito di soffrire” proprio nel momento in cui aveva finalmente trovato un tetto.
Completarono quegli anni di espatrio canino altri tre cani che meritano un capitolo a parte. Ma il rimorso rimane. Mi agguanta quando li penso parte della mia vita allora felice, eppure non partecipi, se non teoricamente, i miei cani. In quella casa che non è più mia da tanti anni, in un angolo del giardino, un po’ nascosto, ci sono ancora delle lapidine coi loro nomi.
Con loro ho sepolto una colpa e quando ricordo loro, ricordo anche quella.
Camilla
Adesso comincia la mia storia. Il mio primo cane è stato Camilla. Una femmina dunque. Non ero più giovanissima come proprietaria, avevo sempre avuto soltanto gatti. Camilla, meticcia bianca e nera, scambiabile per un pointer a prima vista e anche alla seconda, ha avuto una nascita regale. C’era alla sua origine un matrimonio combinato fra una assoluta bastarda e un purissimo pointer, entrambi bianchi e marroni, anzi la mamma era, a detta del suo padrone, bianca e gialla. Era figlia di un mio grande amico, un signore solo, uomo di teatro, che la definiva con amore infinito “una cagna da pagliaio”. Bianchina, la cagna in questione, viveva con lui proprio come una figlia. Aveva anche recitato. Con un collare cinquecentesco di pizzo rigido, faceva una gran figura in mezzo a molte attrici famose in Molto rumore per nulla al Teatro Romano di Verona. Sarebbe piaciuta anche a Shakespeare e un attore famoso disse di lei guardandola: “E ela sì che la sta ben”. L’attore, inutile dirlo, era veneto. Camilla è nata nella mia cucina insieme ad altri tre fratellini ed è stata scelta a caso, non volevo essere preda di quei cosiddetti feelings che possono anche creare dei rimorsi. Ho detto una nascita regale perché anche se la mia cucina non assomigliava a una stanza delle Tuilleries, c’era anche una piccola assemblea in attesa delle doglie della cagna madre e una, se pur modesta, cena in piedi, nella previsione che la cosa andasse per le lunghe. Vorrei poter ricordare a che ora e minuti è uscita Camilla, ma mi ricordo soltanto che era il tramonto. Era l’unica femmina e forse è stato questo fatto che ha spinto il mio amico a destinarmela, perché lui era un sostenitore del cane femmina e io allora non sapevo ancora che avrei avuto in avvenire cospicua felicità anche dai cani maschi. È anche probabile che lei abbia scelto noi. Per un po’ ha vissuto da cane. Non eravamo ancora pratici. Mangiava con noi, voglio dire le stesse cose, aspettava in macchina senza che pensassimo: “Ce la possono rubare”; lei, non la macchina. Dormiva su una brandina da cane e soltanto più tardi feci ricamare il suo nome su una copertina per il treno. Le ho fatto le vaccinazioni perché me lo hanno detto. Però lei entro i primi sei mesi ha cambiato le cose. Ha stabilito il suo ruolo. Camilla è il cane dei miei anni per così dire roventi, quelli in cui si lavora con più accanimento. Erano gli anni del Teatro dei Gobbi. Non pretendo che il lettore lo accetti come un dato storico, del resto ho sentito dei giovani intervistati che ignoravano chi fosse Che Guevara, altri che fra Carlo e Luca Goldoni hanno risposto: “Beh, Luca me pare che l’ho sentito, quell’altro no,” quindi… ma il lettore d’altra parte non pretenderà che scenda nel vivo della storia. Faremo il male a mezzo. Erano gli anni Cinquanta. Credo che sia ormai loro diritto fregiarsi dell’aggettivo “favolosi” e il Teatro dei Gobbi era un piccolo puntuale prodotto dei medesimi e la padrona di Camilla, io, faceva con intensità e successo il suo lavoro. Questo voleva dire, per l’ottica del cane, mattinate di attesa con le persiane chiuse, magari vicino alla porta sperando che si aprisse col caffè, pranzi al ristorante con piatti da cliente, pomeriggi per lo più in camerino coi padroni che entrano, escono, si sentono le loro voci alterate dalla recitazione, strillano, ridono, e questo in tempo di prove, se no magari in macchina a dormire, aspettando che escano dal cinema o da qualche strano negozio, la sera sempre in teatro. Ma insomma, ci vuole una gran pazienza! Non si poteva tardare a trovarle una parte. A conclusione di alcune scenette comiche sull’amore, io dicevo con affettata malinconia: “Ma in fondo l’uomo è cacciatore”. Allora usciva Vittorio Caprioli con un fucile sulle spalle e Camilla al guinzaglio. Lei fu molto contenta perché questa occasione, confermando la sua ascendenza di cane da caccia, interrompeva anche quella parte noiosa della serata e le procurava un piccolo guadagno per comperare finalmente una cuccia da cagnolina o forse un servizio di ciotole rosse. Si preparava puntuale in quinta senza solleciti e si fermava un momento in mezzo alla scena a guardare il pubblico per prolungare quell’attimo. “Non fare carrettelle,” le bisbigliavo dalla quinta e lei rientrava impettita come una generica colta in fallo dal regista. Poi c’era la tappa ristorante. Camilla non lo amava, mangiava in fretta e poi si rompeva palesemente le scatole, bofonchiava e dava anche delle zampate, a me naturalmente. Era impaziente di andare a Via Veneto. Camilla ha realmente vissuto la Dolce Vita. Entrava da Rosati verso l’una di notte salutata da tutti. Era amica intima del gruppo storico del “Mondo”, sfregava il naso umido sulle gambe di Ennio Flaiano, di Sandro De Feo, di Ercole Patti. Sembrava che ridesse alle loro malignità, sapeva divertirli drizzandosi in tutta la sua lunghezza al banco del bar per farsi dare un salatino o un dolcetto dal barman. D’estate spostava il suo finale di serata a Piazza del Popolo. Si leggeva nei suoi dolcissimi occhi l’attesa delle prime luci dell’alba. Allora la piazza era deserta, sublime, non contaminata da panchine e transenne del Comune, e in quella incredibile vastità, la sua figurina nera e bianca gironzolava rispettosa e libera, col muso verso le pietre e la coda sempre in movimento. Poi ci seguiva rassegnata nelle lunghe tournées. Le mancavano i suoi riti romani, la casa, le strade del centro di cui conosceva tutti gli odori. Era sempre molto educata negli alberghi. Non avrebbe sopportato di vedere i suoi padroni compatiti per le manchevolezze del loro cane. In caso di necessità, mi svegliava con una zampata particolare che voleva dire: “Abbi pazienza, mi devi portare fuori”.
Se Camilla avesse tenuto un diario vi avrebbe scritto: “In questi giorni il padrone ha comprato una casa ai Castelli, località dell’entroterra romano, dicono molto bella. Ma io ho come il presentimento che finirò lì”. Non so quale insano senso del giusto ci persuase che Camilla da allora in poi sarebbe stata meglio lassù. Era così evidente che non era vero. Se quella benedetta creatura avesse amato più me del padrone che adorava con fervore viscerale, non l’avrei lasciata là. Non per gelosia, ma mi pareva che loro si intendessero di più su tutto. Eppure quando il custode la portava a Roma e poi si avvicinava per riprenderla, lei scopriva tutti i denti in un ringhio sordo e un po’ feroce. Ero certa che soffrisse e io con lei… Aveva ormai dieci anni ed era ancora molto belloccia, aveva conservato tutta la classe ereditata dal padre.
In campagna con Camilla c’erano altri cani di cui parlerò in seguito. Credo che Camilla li intrattenesse sul suo favoloso passato. “Una volta, in un ricevimento, Luchino Visconti mi dava il gelato col suo cucchiaino. Una signora gli ha detto: ‘Ma non è igienico!’ E lui le ha detto: ‘Stronza’ con quella sua adorabile erre moscia… Eravamo molto amici… mi ricordo che una volta correndo, in Riviera, mi sono sbucciata tutte e quattro le palme, qui sotto… Vittorio per un po’ di giorni mi ha portato in braccio perché mi facevano male… era così bello andare in giro così che quando sono guarita fingevo ancora che mi facessero male… ma un maledetto giorno sovrappensiero mi sono messa a correre e mi hanno scoperto… Una volta, che ridere, a Catania, sapete dov’è?… Fa niente… un signore aveva in mano un cannolone pieno di panna… e intanto parlava con un amico… mi sono messa in piedi e gliel’ho mangiato, così… mi guardava e diceva: ‘Ma come?’… E quando a Parigi il padrone mi tirava il sasso sotto i portici di Rue de Rivoli… bel posto, ci stavo benissimo… il sasso ha rotto una vetrina, era notte e nessuno ci ha visti… non l’abbiamo detto che siamo stati noi… A Capri prendevo certi sassoni sul fondo e li lasciavo cadere sui piedi di qualcuno, restavano così impressionati che nessuno mi ha picchiato… Adoravo il mare di scoglio… il mare in genere… quando facevamo la traversata in vaporetto, Napoli-Capri… mi veniva di buttarmi giù… del resto qui, mentre voi dormite o ammazzate polli, io mi faccio le mie tre o quattro vasche in piscina… No, non sono qui perché erano stufi di me, tutt’altro… mi lasciano qui perché mi fa bene l’aria, non sono più una cucciola…”
Camilla è morta con me. Aveva dodici anni. Era venuta a Roma perché non stava bene. Il veterinario fece una brutta diagnosi. Quel pomeriggio ero sola in casa con questa pena e ascoltavo la Bohème. Mi ha messo la bella testa in grembo con tanta stanchezza come se volesse dirmi: “Ti ho voluto più bene di quello che sembrava”. Poi si è messa nella sua cuccia aspettando di finire.
Non ho pensato neanche per un attimo di non prendere più cani.
Tre vip
Parlerò di tre cani che hanno avuto nascite illustri, diciamo per censo, come Verdi quando lo hanno fatto senatore. Esito un po’ anche a definirli vip, considerando il degrado dei facenti parte del titolo. Quindi, tre vip di una volta. Un Natale degli anni Sessanta, gli ultimi buoni, i primi, eravamo in campagna, è arrivato al nostro pranzo della vigilia Luchino Visconti. L’allegro gruppo di amici entrato con lui non mi ha distratto dalla felice immagine di quel che Luchino portava in braccio, un cucciolo nero di levriero afgano. Aveva una bella macchia focata sulla fronte e portava un cartello legato al collo con un grande nastro rosso: “Mi chiamo Tamberla, buon Natale”.
“Tu che sei milanese come me, lo sai, vero, cosa vuol dire Tamberla… perché a questi qui ho dovuto spiegarlo”.
“Ma certo Luchino, un tamberla è uno stupidone…”
Il mio Tamberla ha onorato il suo nome. È cresciuto bello, elegante, dinoccolato, non sufficientemente curato nella toilette personale (emergenza rimorsi), il suo lungo pelo era spesso, anzi quasi sempre pieno di nodi, però un tipo felice, assurdo, assente. L’istinto del cane è quello di scegliersi un padrone, lui ne sceglieva uno a caso quasi ogni giorno e, quel che è peggio, lo seguiva. Siccome nessuna abitudine lo legava all’avventizio (portalegna, fattorini, errore di cancello, ecc.), non sapeva più tornare a casa. Il nostro custode lo andava a cercare spandendo sui colli quell’assurdo nome meneghino e l’ha sempre trovato, perché i nuovi padroni non andavano oltre il circondario e lui se ne tornava senza sensi di colpa, seguendo quello che per lui era solo un domestico. Alle soglie della vecchiaia, come un vero scapolo d’oro, un vero signore anziano che sa ancora portare uno smoking, accettò di buon grado di essere regalato (non da me) a un effettivo cameriere che lasciava il servizio, e se ne andò con lui sicuro di essere meglio pettinato e puntualmente accompagnato, considerando anche che il suo scarso senso di orientamento si era ulteriormente affievolito.
È rimasto nel mio ricordo come uno dei miei prigionieri un po’ dimenticati, amati per telefono e poco di persona.
Azucena, invece, mi fu regalata da Eduardo De Filippo. Non proprio un regalo, un appoggio da noi per far passare il periodo del calore e per sfuggire alle brame del suo maschio. Mi piacque naturalmente l’idea che si chiamasse Azucena, era una molossona tutta nera e disgraziatamente già incinta. Non fu mai ritirata dal suo celebre padrone e io per delicatezza, perché non sembrasse un sollecito, non gli ho mai comunicato la nascita di cinque cuccioli. Erano molto simili al padre, non c’era dubbio, grigi e possenti come lui.
Ne ricordo uno in particolare che fu dato a una coppia di giovani attori amici che lo chiamarono Pappo e ha avuto una vita molto felice. Ma in Azucena gli istinti premevano. Era molto grande, molto pesante, era sola come tutti gli uomini giganteschi. Quando chiedevo notizie, aveva ucciso un gatto o ferito un collega, una sua zampata pesava molto, anche involontariamente nuoceva. Preferivo che mi dicessero: “Ha rovesciato quel tavolino a tre gambe a cui lei tiene tanto e si è rotto tutto,” piuttosto di sapere che aveva commesso un delitto. Sembrava dispiaciuta dei disastri che commetteva, si lasciava accarezzare la testona liscia e nelle sue occhiaie rosse gli occhi chiedevano comprensione.
Un giorno morì tragicamente il nostro custode. Cadde certamente per un malore nella piscina. Azucena fu la più disorientata. Quell’uomo dolcissimo, che era parte integrante della casa, la proteggeva, copriva le sue colpe con una risata complice e qualche sotterfugio, senza la sua amicizia la casa le sembrava troppo piccola. Fece di malavoglia le sue ultime malefatte e poi fu felice che le trovassero una nuova collocazione, in una grande villa con altre taglie massime. Una delle sue ultime vittime, che per una sua zampata aveva rischiato di perdere un occhio, era stata Agata.
Agata, in realtà Agathe con l’acca, divenuta in seguito per interpretazione del nostro custode pugliese “A’gatta”, era una piccola Cavaliera di King Charles. Era nata sotto le volte della storica villa veneta di Maser con l’augurio di un affresco del Tiepolo e un sussurro del Brenta. La sua mamma era una splendida cagnolina, i suoi padrini dei raffinati signori e lei era la più bella cucciolina che si possa veder sbucare da una gabbietta da viaggio. Era arrivata con una governante e un dettagliato promemoria sulla sua alimentazione. Perché non l’abbia tenuta con me e l’abbia imbarcata per la villa di campagna è un mistero che non sono ancora riuscita a chiarire con me stessa. Agata era la vera cagnolina da compagnia, da grembo, da salotto, da tutte quelle funzioni che impongono di tenersi un cane in casa, a tavola, sul letto, fra le braccia. Era una bimba squisita, mite, timida, naturalmente educata. Se avessi dovuto immaginarla vestita, l’avrei vista come una bambina di Renoir. Mangiava piano, con appetito ma con contegno, e si scostava con grazia se avanzava un altro cane o anche un gatto. Sembrava uscita da un collegio svizzero per fanciulle ricche. Crescendo si era acuita la sua discrezione. Si teneva sempre un po’ lontana dalla banda casalinga, forse anche per paura, ma molto per discrezione. Andava persino a dormire nella legnaia senza rivendicare l’uso della sua cuccia che avevamo sentito il dovere di comperare carina. Mi dilungo volentieri sul carattere di ogni animale, perché la differenza di personalità di ognuno è veramente sorprendente.
Questi di cui parlo sono i cani che hanno meno vissuto con me, eppure a distanza di tempo mi emergono nella mente così diversi l’uno dall’altro, accomunati soltanto da quella definizione anonima e imperfetta di “cani”.
A dieci anni Agatina venne a stare con me in città. La casa dei Castelli era stata venduta, i cani sistemati, di Azucena e Tamberla ho detto. Lina e Filippa riposavano ormai sotto le loro lapidine. Agata visse la vicenda come un personaggio di Cechov. Immagino che si sarà aggirata silenziosa nelle stanze che si svuotavano col suo immaginario vestito bianco, non più da bambina ma da vecchia signorina come era rimasta, per distrazione, per mancanza di frequentazioni, perché non aveva mai fatto sentire le sue ragioni. Il tempo passa e ci si dimentica degli esseri discreti. Vedeva partire gli altri e si chiedeva certamente “E io dove andrò? Dicono a Roma… non so se mi piacerà”. Ci si adattò molto bene, con la sua solita educazione, con la sua assurda dolcezza. Viveva a stretto contatto con la nostra domestica, come due signore di diverso ceto che si ritrovano nella stessa casa di riposo. La donna le faceva degli scherzi, anzi sempre lo stesso. Le faceva scendere una scala interna e poi le diceva: “Cosa fai qui? Vai su”. Agata lo sapeva già e le obbediva paziente. Forse pensava: “Facciamola contenta, in fondo è più vecchia di me”. Qualche domenica, se non ero a Roma, andava il portiere a darle la pappa e mi diceva puntualmente: “Ma quant’è educata quella bestiola”. Mi ha sempre colpito la cortesia con cui trattava chi la serviva, al contrario per esempio di Camilla che mordeva volentieri i cosiddetti subalterni. Lei li chiamava così, non io.
La dolcissima signorina morì in pochi minuti per una tragica circostanza di cui non voglio parlare. Il suo corpicino elegante è andato a inaugurare un altro giardinetto del ricordo, sotto un cespuglio di rose.
La banda
“La banda”, così chiamo i miei cinque cani di campagna. Il sesto, piccolo aristocratico, mi vive attaccato e quindi spesso anche in città e in tante città dove approdo per lavoro. È Roro III, il più bisbetico, il più nevrotico della stirpe, ma adorabile come i predecessori. Il più fragile perché è stato spesso malato, ma ha espresso una volontà di guarire che ha impegnato a fondo i suoi medici. La sua testolina rotonda contiene un cervello che macina piccole idee sorprendenti, io lo capisco sempre con ritardo. Inutile dire che ci adoriamo. Ma chi fra i due è meno dipendente dall’altro? In un certo senso, lui. Roro III non si arrende mai. Quando gli va, mi dorme sulla testa e sprofonda il suo naso rotondo e i suoi occhioni acquosi nel mio collo; quando gradirei il suo tepore di cagnolino setoso vicino al viso, lui dorme in fondo al letto e blocca perentoriamente i miei piedi. Queste non sono che espressioni della sua indipendenza amorosa. Esprime il suo giudizio su tutto, tutto quello che è alla sua portata certamente, che è molto. Senza troppo esagerare, dovrei sentire il suo parere prima di accettare un contratto. Non ama i camerini, vi si adatta per emergenza, ma se proprio si può farne a meno preferisce un letto in un bell’albergo o la cuccia nella sua camera, che sarebbe per assurdo la mia. Non tollera che io telefoni, ignorando che molti dei suoi agi dipendono dalle mie telefonate. Gli tocca passare l’estate con “la banda” e anche certe belle giornate intermedie. Questo rapporto è un’altra svolta del suo carattere. Non li detesta, non li ama, li ospita ed è felice di andarsene quando il cancello si chiude sui cinque musi anelanti. Non si arrabbia se scambio con loro vistose tenerezze, è tutt’al più scocciato, ma troppo sicuro di sé per manifestare gelosia. Né loro si stupiscono che lui mangi a parte, dorma con me, se ne vada con me. Quel piccolo inglese camuso non fa parte della loro civis. Lo rispettano e con generosità non badano alle sue crisi isteriche perché non sa salire le scale da solo. Loro divorano lo spazio e potrebbero anche stupirsi, ma lui è il re. Un monarca moderno, senza poteri politici, ma una gran classe. Lui è bianco e arancio, loro sono tutti neri con qualche inserto di bianco e di rossiccio.
Li chiamo “la banda” per scherzo, in realtà è un gruppo dalle caratteristiche sociali e anche politiche ben definito. Il capo è Tom. Tom ha le dimensioni di una pianola, lungo pelo nero appena screziato, distinguibile anche da lontano per un orecchio dritto e uno giù. È il capo per le dimensioni, non per la natura autoritaria; la sua testona morbida, i suoi occhi affettuosi, la sua lunga zampa anteriore destra sempre protesa alla carezza, se non fosse per quella grande bocca piena di zanne lucenti che ricordano il lupo-nonna di Cappuccetto Rosso, non avrebbe proprio le caratteristiche del capo. Anche lui cerca in ogni modo di evadere, ma non per fini misteriosi come Carlotto. Se esce dal giardino, lo vediamo scorrazzare negli orti dei vicini, creandoci grossi problemi. Lui è alto, innocente, prende tranquillamente una bistecca dal nostro piatto e dà in cambio quella grossa zampa affettuosa. Non ha niente del dittatore e neanche di un semplice direttore. La capa semmai è Norina, anche perché è la più vecchia. Lei con i suoi grandi fianchi siederebbe dignitosamente in un’aula parlamentare. Non le sfuggono polli o corvi e nel suo impulso direttoriale ritrova la passata agilità. Norina come tutti i grandi politici ha commesso molti crimini che non vi starò a raccontare, ma quando guardo il suo grosso muso meticcio e scruto i suoi occhi gravi, lei sa che io so e mi chiede perdono, e io l’abbraccio senza sapere se perdonarla o no. Le voglio bene. La mia “lady di ferro” non ha agito per interessi ragionati, ma per obbedire a un suo istinto di molosso intriso di non so cosa, che la rende a tratti incantevole.
Come in ogni società che si rispetti, c’è una signora. È Amalia. Sarebbe un cane da caccia, ne ha tutte le fattezze, del pointer, nera e bianca, più nera che bianca. Ma del suo possibile passato prima del ritrovamento, non ricorda neanche un particolare. È una signora. Afferra i biscotti con grazia e non come se fossero una pernice. Ha una sua poltrona preferita e finge distrazione se i maschi le annusano il posteriore. Se dovessi assegnarle un modello, direi una diva del muto.
La stessa passionalità, gli stessi occhi perduti, gli stessi sospiri di languore quando si drizza sulle zampe posteriori e viene vicino al mio viso, o preferibilmente si butta a terra, ventre in su come in un’alcova dorata. Amalia è il punto sociale più alto del gruppo anche se Norina ha avuto qualche difficoltà ad ammetterlo. Come tutte le vere signore ha qualche vizio segreto che per una cagna che vive all’aperto è difficile nascondere, le piace sedersi nel catino dove gli altri bevono. Si alza scrollando natiche e coda con molta grazia, sembra che pensi: “Se loro ci bevono, io no”.
Come in tutte le comunità moderne, abbiamo un extracomunitario. È Sam. È venuto dalla Romania con un gruppo di sperduti in pericolo di vita, salvati da un’anima squisita. Sam è stato l’ultimo a essere piazzato e temevo che non si adeguasse al gruppo. Al contrario ha legato subito coi suoi simili, eleggendo Tom ad “amico del cuore”, come vuole la vicenda verdiana del Ballo in maschera. Più lento è stato l’approccio all’uomo. Finalmente un giorno mi si è avvicinato. È stata una grande emozione. Adesso mi ama molto, ma sotto le carezze la sua testa si abbassa. Un oscuro timore? Un senso di dipendenza? Vorrei che fosse sicuro di essere molto amato. Sam è tutto nero, pelo raso, taglia media, robusto, il suo triste passato è scritto su qualche cicatrice che buone pappe hanno quasi nascosto. È una gioia vederlo integrato, corre con tutta “la banda” al minimo rumore, non ha permessi di soggiorno e non ha ostilità di quartiere. Tutti i cani sono uguali, a tutti serve un padrone. Il mio Sam l’ha trovato.
L’ultima arrivata è Lucy. Nella comunità rappresenta il problema dei bambini. Non ha ancora un anno, ma penso che le sue zampotte piuttosto corte non crescano più. Pelo nero screziato, ma più ruvido e arruffato dei compagni, occhietti vivissimi e ridenti, Lucy è una bambina terribile. La sua vivacità è incontenibile, se andasse all’asilo metterebbe in subbuglio la classe. Ma è una bambina e gli altri quattro la amano e la sopportano. È la sola che seppellisce il biscotto, che compare festosa con una manina di talpa in bocca (ahimé) o una penna di corvo, corre e saltella come una molla, poi come tutti i bambini sprofonda in un sonno improvviso, un fagottino nero in un angolo del divano.
Lucy completa la circoscrizione, le sue alternative sociali, i suoi diritti morali, i problemi dell’educazione. Quando Roro III si allontana verso una mondanità sconosciuta, verso quel mondo che forse solo Sam ha intravisto, ma solo per soffrire, la cittadella continua la sua vita. L’erba ingiallita è tornata verde smeraldo, gli alberi sono pieni di foglie, il banano sta rispuntando da tanti buchi della terra e loro sono i padroni di questo mondo semplice e incantato. Padroni? Non è esatto, cittadini.
Due diversi modi di integrarsi
Ho avuto per breve tempo un cane che si chiamava Zac. Era il cane dei portieri. Una specie di chow-chow, molto pelo fulvo, ma un musino da girovago. Lo adocchiavo da un po’ nei dintorni della casa, ci sono dei prati, e mi chiedevo se era stato abbandonato. Speravo che mi seguisse, ma faceva qualche festa solo alla portiera. Siccome era una donna molto volgare e vestita in modo disumano, mi sembrava strano che anche un cane non se ne accorgesse. In realtà era il suo cane. Lo tenevano fuori perché il condominio non accettava che il portiere avesse un cane. Questa ignominia sotterranea non era giunta alle mie orecchie. Finché il portiere fu colpito da un ictus.
Zac vide l’ambulanza, non vide più il padrone, di cui anche in quell’erba fuori casa sentiva la presenza, e si piazzò in attesa del ritorno raggomitolato davanti al portone del nobile condominio. Cominciò discretamente il nostro rapporto, due carezze tornando la notte dal teatro, un biscotto, finché giunse la sentenza dei condomini. Non si può in un palazzo signorile trovare un cane al posto di uno “stoino”. Si porti il cane al canile. Prestai orecchio alle parole scambiate in modo vibrante fra la portiera e la mia cameriera, grande amante di cani e gatti. Non abbiamo avuto esitazioni. Zac ha varcato il mio cancello, Zac era praticamente mio. La sua gratitudine fu immediata. Discreto con i miei gatti, si teneva a distanza per non spaventarli, col mio cane invece una dolcezza protettiva e rispettosa. Allora avevo Roro II che aveva un buon carattere. Accettò con grande piacere quel maggiordomo peloso e robusto che lo precedeva nella passeggiata del mattino.
Zac era umile e dignitoso, tutta la sua integrazione fu all’insegna della discrezione. Dormiva in giardino, raramente entrava nel casotto che gli avevo comprato. Mi guardava intensamente con i suoi occhi dorati che dicevano “disturbo?”. Sapevo che mi avrebbe fatto soffrire. Zac, vissuto troppo a lungo allo sbando anche se aveva dei padroni, era malato di polmoni e di cuore. L’ho curato per qualche mese dopo un giudizio molto pessimistico del veterinario. La notte lo facevo entrare. Si fermava incerto sulla soglia, guardava Roro che gironzolava da padrone, poi si sdraiava piano sul tappeto, esausto e incredulo. Una mattina, una brutta crisi cardiaca l’ha ucciso. La mia donna urlava raccogliendo il disprezzo delle condomine che uscivano a fare la spesa, io tenevo la sua zampa ancora morbida che mi ringraziava per l’ultima volta. Anche Zac riposa nel mio giardino. Capita che l’animale diventi un esempio anche per gli uomini, così è stato Zac, la sua modestia aveva una luce, era al di sopra del male che gli hanno fatto. Ho visto due lacrime anche negli occhi di Roro II.
Conosco una cagnolina che se la chiami “principessa”, si volta. Perché il suo papà è un principe. È Olivia. Ha un corpicino di taglia media, appena un po’ sovrappeso, quell’embonpoint che giova nella maturità femminile. Pelo raso, biondo-dorato, zampine agilissime, il suo punto di massimo fascino sono gli occhi. Attenti, da maliarda furba, passano fulmineamente dalla passione (per lui) all’aggressività, alla risata. Dietro questa sua realtà attuale c’è una lunga storia. Non dico che Olivia non la ricordi; l’ha, come si dice, rimossa. Non dico neanche che sia una storia tutta penosa. Dopo una prima infanzia disastrata, quasi randagia, è stata riscattata da una buona padrona. Una villa, altri cani, buon vitto, senza troppa attenzione alla linea, un parto e quindi un incontro amoroso. Sua figlia esiste, le assomiglia in brutto. “E chi la conosce?” è il pensiero che passa negli occhi di Olivia, se ne parli. Ho conosciuto Olivia crivellata di morsi dei compagni più grossi. Volgeva intorno sguardi furenti mentre giaceva sotto antibiotici in una cuccia in teatro. Anche la sua padrona è attrice. Il principe la coccolava già. Eravamo tutti nella stessa compagnia. Il verdetto psicologico era: “Un cane che non si sottomette”. È facile capire come Olivia sia passata da uno status famigliare buono ma preoccupante, alle belle generose mani del principe. Olivia non ci ha messo più di un giorno a entrare in questa nuova vita. Ha imparato con una girata di occhi tutto della casa, con particolare attenzione al letto, tutto del quartiere, strade, negozi, odori, amici-persone e amici-cani, che tollera perché non la riguardano. Il cane della sua nuova padrona è diventato per forza di cose un amico; ça-va-sans-dire che è lui a sottomettersi. Olivia segue il suo principe ovunque, teatri, set cinematografici, ricevimenti, mare, montagna. Aspetta fuori dai negozi, seguendolo con la coda dell’occhio: “Lo conosco, quando compra la fa lunghissima”. Raramente viene lasciata a casa. Aspetta scegliendo il divano più comodo, pronta a precipitarsi nella cuccia al rumore delle chiavi. Ma sono così a conoscenza l’uno dell’altro che Olivia ride perché sa di essere scoperta. Olivia si è integrata senza umiltà, con la prepotenza del suo fascino, conscia delle sue qualità canine, intelligenza, agilità, intuizione del pericolo di ogni genere, amore infinito che traspare dai suoi lievi sussulti quando dorme serena in mezzo a lui e lei. Olivia ha la consapevolezza di avere scelto il proprio destino e se la gode giorno per giorno in tutti i suoi aspetti. Olivia respinge il passato che è ormai confinato all’odore della sua vecchia padrona, che saluta affettuosamente se la incontra, come del resto tutti gli amici di famiglia. Olivia è convinta, e lo racconta a quei miserabili borghesi che incontra al parco, di essere nata principessa in una cesta piena di nastri rosa.
La famiglia reale
Il mio legame con la famiglia reale è cominciato alla fine del ’75. Per famiglia reale intendo la più autentica, la più chiacchierata, ma la più potente, quella d’Inghilterra. Quando c’è l’avallo della storia, di centinaia d’anni di intrecci e di passaggi di corone, una gazzarra di cronisti non fa certo paura. Non sono rapporti che si improvvisano, non vai fuori a cena in pizzeria e ne incontri uno, dico quelli che contano veramente. Questa volta per avere un King Charles ho dovuto passare attraverso il vaglio del cerimoniale, finché un giorno, inatteso come tutti gli eventi d’alto bordo, mi hanno portato a casa il piccolo principe. Gli siamo scesi incontro, figurandoci sulla scalinata di un palazzo, con palese emozione, ancora scossi dalla recente scomparsa di Agata. Premetto che avrei voluto una femmina, che era il sesso che aveva prevalso nel mio curriculum canino, ma dall’allevamento o forse da corte, mi fecero sapere che la mia professione, se non altro vagabonda, non era adatta per una fragile principessina. Gli scambi protocollari mi resero edotta anche che il rampollo avrebbe avuto circa quattro mesi perché il suo svezzamento fosse completo e non traumatico, e successivamente mi comunicarono anche che il pedigree della creatura l’avrei avuto dopo aver dimostrato con fotografie e risposte consone, che il pupillo era sistemato da par suo. Il nome era stato deciso (ma loro non lo sapevano) al di fuori di quello altisonante assegnato dall’albero genealogico: Aroldo. Me l’aveva suggerito Nora, la mia amatissima amica molto malata. Certo, è il protagonista di un’opera di Verdi che si svolge in Inghilterra. Non ci aspettavamo un incontro così folgorante. Quel cucciolo incredibile emanava il pronostico di una storia speciale. Il colore del suo pelo di seta era definito nelle specifiche della razza “bianco arancio” e sul bianco abbagliante del corpicino morbido le macchie erano luminose come piccole arance al sole. Il suo faccino, lo devo proprio chiamare così, aveva caratteristiche entusiasmanti come occhi e naso, un buffo bottone nero, guance molli e vellutate come la mano di un bimbo ben pasciuto, una testina curva e liscia come una palla di biliardo da cui pendevano due orecchie regali. Ma in quel mirabile esserino si manifestò subito una personalità eccezionale, direi conturbante. Comincio col dire, non senza emozione, che girando appena i suoi occhioni tondi li fissò su di me e mi scelse, fu un’investitura, considerando la regalità del soggetto. E siccome emise ben presto suoni molto articolati che assomigliavano alla sempre attesa parola “mamma”, dirò che con la mamma, me, amò molto teneramente anche il compagno della mamma, che si considerò quindi il suo babbo. Aroldo è stato un cane di un’intelligenza paurosa, nel senso che il suo comportamento spesso impressionava. Sedeva a tavola con noi e scoprivi che ti fissava con dolcezza e molta attenzione come se volesse imparare a usare le posate o anche aspettasse di essere interpellato sull’argomento in corso. Era senso dell’orientamento o magia che gli faceva intuire la destinazione di un viaggio, molti chilometri prima di arrivarci? Si agitava allora, come fuori di sé, parlava (a modo suo) e tirava un sospiro di sollievo quando si arrivava: “Hanno capito, meno male”. Il mio impresario, col quale giravo molto in macchina, era quasi spaventato, però quando non trovava la strada finiva col dire: “Sentiamo un po’ cosa dice Roro”. Era il suo nomignolo. Ci era stato suggerito subito dalla sua tenerezza, quando ancora si pensava di poterlo lasciare a casa come un regolare cane. Tornando, quelle poche volte, lo vedevo là, in mezzo a un tavolo da cui poteva fissare la porta d’ingresso, teso, immobile; aspettava che entrassi, che la porta fosse chiusa, senza abbaiare e poi si buttava giù senza darmi il tempo di prenderlo e veniva dritto fra le mie braccia, esausto. Mi dormiva sulla testa come un cappellino oppure sulla schiena con la piccola testa conficcata nel mio collo. Pensai allora che il mio sonno fosse ormai condizionato e non avrei più potuto dormire senza quel morbido cache-col. Quando recitavo, la sarta me lo portava in quinta alla fine dello spettacolo: “Non potevo più tenerlo… lo sa com’è lui, quando sente l’ultima battuta nell’altoparlante vuole scendere…” Ma Roro non faceva piazzate, forse neanche scodinzolava, mi guardava negli occhi da sotto in su, perché lui, se Dio vuole, era più piccolo di me, e voleva essere preso in braccio per abbracciarmi. Per lui era un ritorno. Una volta rimase in casa di amici una settimana, eravamo andati in un paese dove non si possono portare i cani. Quando siamo tornati, è entrato in casa senza alzare gli occhi, è andato di corsa nella cuccia e ha dormito ventiquattr’ore. Roro si è ammalato di cuore a cinque anni. Quelle famiglie hanno delle tare. L’ho curato per due anni e mezzo con fasi alterne di apprensione e speranza. Si lasciava curare con saggezza e rassegnazione. Aspettava l’iniezione in posa. Poi ci ha lasciato. Avvolto in una camicia da notte della mamma è andato a raggiungere Agata sotto il cespuglio di rose. È stato certamente il cane più sconvolgente della mia collezione. Eravamo così disperati che ci siamo soltanto chiesti come sarebbe stata la nostra vita senza quella presenza così ineffabile quanto in un certo senso misteriosa. Così, dato che apparteniamo a quelli che non hanno paura di soffrire ancora, ne abbiamo chiesto un altro assolutamente identico. È il mio cane Roro II. Sta chiedendomi con intemperanza di uscire, perché lui, rispetto al primo, ha un carattere un po’ più umano, meno perfetto. Forse per questo mia madre, quando lo vide arrivare, a tre mesi e mezzo, appena più esile del primo, gambette un po’ più lunghe, disse senza esitazione: “Questo è di serie B”. A parte il fatto che in B ci vanno anche le grandi squadre, era da parte sua una battuta polemica. Mia madre era polemica per natura e nascondeva sotto questo atteggiamento i sentimenti più profondi. Aveva sempre polemizzato sulla mia dedizione a Roro I, quella mia dipendenza che mi portava quando uscivo con loro, lei e il cane, a seguire esclusivamente il naso di Roro. Ma al di là della polemica, lo amava e prese le distanze dal secondo come se fosse un torto fatto al primo. Il piccolo II invece era una ripetizione appena corretta del primo, meno drammatica per la nostra convivenza. Più robusto sotto quell’apparente fragilità, più esigente a propria difesa, più allegro, più sensuale. Ho omesso una particolarità di Aroldo I, una castità assoluta. Roro II, ora quattordicenne nonostante la presenza della tara della razza, era da piccolo un demonio, slacciava le scarpe degli ospiti, mangiava gli appunti del malcapitato che intervistava la mamma, morsicò in diretta la mano di un noto etologo che aveva azzardato: “Come cane è bello, ma obbiettivamente è brutto…”. Roro era furente e l’ho calmato soltanto dichiarando che gli era stata riscontrata una vera somiglianza con Brigitte Bardot. Divorava le cicche, entrò con tutti i baffi sinistri in una candela, ho la registrazione di un suo paziente lavoro di distruzione su una poltrona RAI, il suo dottore teme ancora i suoi dentini aguzzi (anche se al presente ne ha qualcuno in meno), sul marciapiede della stazione di Milano scambiò per una colonna la lunga veste di una suora in attesa di novizie. La sua personalità è pari a quella dell’altro, anche se diversa. Adesso dorme tranquillo con un gatto sulla schiena; lo può fare perché le sue ragioni ai gatti le ha subito cantate chiare, anche per vendicare le aggressioni subite dall’angelico Roro I. Lui ha una grande educazione musicale. Conosce una trentina di opere a memoria e si alza rispettoso dalla poltrona quando sente il finale. Si offriva spontaneamente di sostenere la parte del bimbo nella Madama Butterfly che abbiamo più volte messo in scena e quando arrivava il bambino vero lo guardava con occhio critico.
Roro buffone, patetico, intelligente, esigente, dormiglione, goloso, grande compagno. Se mi presento senza di lui, mi chiedono: “…e Roro?” Se vedono prima lui, mi cercano. Roro è in primo piano sull’immagine di tutti gli altri che continuano a seguirmi come in una favola.
Carlotto
Carlotto è nato col destino di un eroe romantico, bellezza, avventura, amori, morte prematura. Non so che numero dargli nella nomenclatura dei miei cani che sono stati tanti, importante è ricordare l’incontro.
Ecco, di ognuno so quando ho cominciato ad amarli. In una cucciolata di cagnolini scuri, lui, l’unico bianco, con un occhio bistrato, uguale alla madre. La madre ha sempre un ruolo a parte per questi avventurieri della bellezza e del coraggio, è destinata a piangerli. Carlotto è cresciuto in fretta, a sei mesi era già un bel cavallino bianco, affettuoso, regolare nelle sue funzioni, mi pronosticava una fedeltà serena. Scoccata la mia prima partenza di lavoro, gli ho preso una compagna, Norina. Lei è ancora con me, una cagnolona robusta, trovatella assoluta, privata, per la nostra lucidità nel pianificare le loro vite, delle gioie della maternità. Carlotto e Norina erano grandi amici, lei ben piantata, nera con qualche striatura bionda, lo ha protetto e ammirato. A un anno, Carlotto era un bel cane completo, lungo, alto, il bistro del suo occhio sinistro si era allungato e disteso nel candore assoluto della sua testa, dolcissimo. Si era guadagnato la stima e l’affetto del nostro contadino, uomo rude e capace di impugnare un coltello sul collo di un povero maiale, per averlo vegliato quando era caduto da un albero: “Mi ha fatto da Croce Rossa,” ripeteva incredulo e commosso. A un anno o poco più, si è accesa la lampada segreta del suo destino. Ha cominciato a uscire. Prima brevi sortite, controllabili, dopo al massimo un’ora si presentava al cancello, allegro, con aria innocente. E qui come in una sequenza cinematografica hanno cominciato a innalzarsi reti intorno al mio giardino. Gli ho messo un bel collare coi numeri di telefono, beige per non disturbare il suo candore, ma un’ansia inspiegabile guidava i miei gesti.
Carlotto ha vissuto tre anni. Le lunghe estati che abbiamo passato insieme mi hanno illuminato sul suo carattere, un cane felice e indomabile, guardava me e Norina coi suoi teneri occhi diversi: “Vi amo, ma altre cose mi chiamano”.
Ci si ostina inutilmente a voler trattenere gli spiriti liberi. Niente gli impediva di uscire, reti, cancelli si piegavano al suo volere, come se avesse una spada magica. Lo chiamavo la notte, magari sotto la pioggia, correndo da un cancello all’altro, per poi ritrovarlo soltanto al mattino, col sole, in attesa che gli si aprisse, asciutto, chissà dove era stato. Quando sono partita al terzo autunno (lo ricordo con precisione, come certe cose della prima infanzia, misteriosi lucidi depositi della nostra memoria), ho infilato la mano nel cancello per accarezzarli ancora una volta. Norina ha preso la carezza e si è allontanata dimenando i suoi fianchi robusti, e lui è rimasto lì, la grossa testa appoggiata sulla mia mano. Ho pensato: “Non vedo l’ora di tornare e farlo sdraiare sul divano… come gli piace…”
Non l’ho più rivisto. Carlotto è stato avvelenato dai pastori, abbastanza lontano da casa, un luogo sinistro per i cani. È sepolto nel mio giardino, sotto un cespuglio azzurro, vicino ad altri indimenticabili amici. E qui si apre il grande capitolo della fatale incomunicabilità con queste creature che ci danno tanto amore. Forse noi non abbiamo diritto di saperne di più, perché il sentimento che ci lega è reale, quotidiano, diretto. Ma la nostra vita, da quando li incontriamo, è sotto i loro occhi, vedono, spiano, capiscono. La mia giornata non ha misteri per loro. La loro, sì. Penso a Carlotto, bello come un destriero, che si allontanava veloce dalla sua casa, sempre più lontano dalla mia ansia, non sempre per un richiamo sessuale. Perché? Era deciso a non dirmelo mai. Non perché il cane non ha la parola: lui dice molte cose, chiaramente, c’è fra noi una confidenza assoluta, segreta, affidata a mille segnali, io con le mie parole per lui chiarissime, lui col suo corpo per me altrettanto chiaro. Ma io gli dico tutto, lui no. Almeno con Carlotto è stato così, è spesso così. Anche di un uomo amato, una parte della vita non ci appartiene, quante delle sue ore ci nega. È nel suo diritto, tornare senza dover mentire. L’attimo misterioso è nei suoi occhi innocenti. Il mio caro Carlotto non è tornato col suo tacito mistero. Ancora interrogo quel cespuglio azzurro che ogni primavera continua a fiorire.
Gatti di guerra
L’Universo Gatto lo sto esplorando da quando ero poco più che bambina. Il primo abitante mi venne incontro in una vecchia e stretta via del centro di Milano in una sera di pioggia, anzi una notte. Un romanzo di Dickens. Era un’orfanella bianca e nera che, infilata un po’ fradicia nella pelliccia della mia mamma, si risvegliò su un cuscino un po’ sdrucito davanti a un piattino di latte. Sempre Dickens. Fu chiamata Mignina e visse con gratitudine da noi come una fedele cameriera. Erano i tempi in cui le domestiche ti invecchiavano in casa senza alcun rimpianto, e così fece la gattina che ci seguì anche da sfollati in Brianza. Dormiva sulle stufe di terracotta o sulle ginocchia di una vecchia signorina che sembrava una suora e la accarezzava con manine di cera. Ma intanto in casa si erano insediati anche due fratellini quasi persiani, una gattina grigia quasi azzurra e un gatto tutto nero, Mingo e Minina senza la g, perché mia madre per i nomi dei gatti aveva poca fantasia. I due fratellini riassumevano molto bene le proprietà caratteriali dei loro due sessi in senso universale. Lui ingenuo, protettivo, irresponsabile, robusto, meditativo; lei furba, veloce, rapida anche nelle decisioni, civetta, cattivella e, se voleva, dolcissima.
Qui si impone qualche riflessione sul gatto e i luoghi comuni che gli competono. Come tutti i belli, deve scontare questo dono di natura con la leggendaria rabbia dei brutti. Il gatto non è egoista per natura, non è attaccato solo al cibo, non è incapace di amare come si blatera, ecc., ecc. Ogni gatto ha una sua personalità, semmai è capace di farsi rispettare se la sorte gliene concede le possibilità, perché molto spesso è amara e crudele con lui, come con tante ragazze perdute che mai hanno ritrovato il benessere dei focolari e dei sentimenti.
Il gatto è socialmente più organizzato del cane, questo sì.
“Perdu et sans collier” è impossibile che si dica di lui. Se il destino non offre di meglio, è capace di crearsi una comunità, e siccome l’unione fa la forza, e questa è una di quelle asserzioni che si possono riconoscere per vere, il gruppo trova sempre per nutrirsi qualche gattara o qualche vecchio cuoco, o anche qualche esperta in sterilizzazioni perché il gruppo non aumenti troppo a scapito della comodità. In questo senso il gatto è indipendente. Ma nel rapporto gatto-uomo viene fuori tutta la sua ricchezza psicologica. Lui è dotato di quel motorino definito ron-ron che rivela la temperatura delle sue passioni e i suoi momenti di vero benessere sentimentale, non resiste a socchiudere gli occhi nelle sue estasi o a muovere le sue zampine sur place come una ballerina in sala. I suoi sentimenti sono scoperti perché lui non li vuole nascondere dietro alcun mistero o sortilegio. Intendiamoci, un po’ di soprannaturale c’è in lui, non vogliamo destituire di fondamento tanti films gialli.
Si sa che l’occhio a mandorla chiaro e luminescente non te la racconta giusta. Non sono le mandorle nere degli orientali, sepolcri di storia, di pigrizia, di fame. Sono gemme, finestre sull’infinito, forse sono soltanto molto belli, ma la bellezza è comunque un mistero. Perché qualcuno ce l’ha e tanti altri no? Perché sono così pochi a produrla e tanti a rovinarla? Il nostro piccolo animale è bello e se si accanisce sui topi è perché sono brutti, almeno secondo lui che è un esteta. Lui si adagia con una leggerezza sublime sui cuscini più preziosi, lui si fa le unghie preferibilmente sulle tappezzerie di damasco, lui si specchia curioso della propria immagine che lo soddisfa. Perché lui copre con furia quel che di antiestetico e di maleolente esce dal suo corpo? A vedere le toilettes di molti luoghi pubblici, si direbbe che non ci sia altrettanta circospezione nell’uomo. Lui ha preso tutto dalla tigre fuorché la ferocia, gli è rimasta solo qualche crudeltà casereccia di cui fanno le spese uccellini e lucertole. Per giustificarsi tira in ballo l’atavismo, spalanca occhi innocenti e non si lascia sgridare. Ti volti e lui è sparito, e trova sempre un nascondiglio imprevedibile. Lui non disprezza la bontà del cane, non ci fa sopra dell’ironia come gli intellettuali sul libro Cuore, la rispetta e ci si insinua per avere sicurezze di vita. Code gonfie, gobbe, soffiate, sono mezzi di difesa e anche lì… vedere un gatto infuriato è sempre più interessante di un povero cane che digrigna i denti tenuto a forza da un guinzaglio, perché il cane sciolto molto spesso gira al largo da quelle palle di fuoco.
Tutte queste riflessioni mi fanno tornare ai miei fratellini Mingo e Minina. Li rivedo spiati con compiacimento da mia madre e da me. Lui sopra un buffet della nostra sala da pranzo, al lavoro su un grosso panettone, lei sotto, in tutta la sua grazia, a ricevere grosse briciole e uvette. Lei faceva i danni più pesanti ai soprammobili, passeggiando distratta sul marmo del camino o sui tavolini del salotto, e lui ci guardava attonito con i suoi grandi occhi d’oro, stupito che fossimo così ingenui a pensare di trovarla dopo il massacro. Lei aveva capito che il suo pelo era una soffice massa, ma le sue ossa erano sottili e le permettevano di sparire fra lenzuoli, tende o pullovers. Era una piccola strega fortissima e, come spesso le femmine, gli sopravvisse. Mingo ne fece solo una molto grossa nella sua candida vita, una gran pipì sui disegni di laurea di mio fratello. Al fatto seguì una sceneggiata. Mio fratello, disperato, un po’ crollava su una sedia, un po’ cercava il gatto per ucciderlo, ma la sorellina l’aveva portato in un luogo sicuro. Io lo difendevo con le argomentazioni più assurde, i disegni non si lasciano sul letto, almeno si chiude la porta, dovevi già averli portati alla commissione, la pipì del gatto porta fortuna. Mio fratello mi guardava con occhi vitrei, gli sembravo così spudorata che gli avevo tolto la parola.
La mamma propendeva per il gatto, ma si affannava intorno ai disegni con asciugamani di spugna e poi telefonò a una tintoria per avere consigli su come togliere l’odore, perché Mingo era un gatto intero. Non ricordo la fine dello spettacolo, comunque mio fratello divenne ingegnere con tutte le lodi. Io devo aver sostenuto che i disegni erano stati benedetti.
Mingo, nel trambusto degli sfollamenti, fu messo in pensione presso la portiera di un nobile palazzo. Aveva a sua disposizione una portineria come non siamo più abituati a vederne. Nella penombra del pianterreno milanese c’era un lungo tavolo di noce massello dove la posta era adagiata in vassoi di peltro. C’era un pavimento veneziano su cui una pipì non avrebbe fatto danni visibili, un portiere in divisa e lei, la portiera, una donnina sempre in ordine che parlava bene. Mingo purtroppo è sparito in una notte di bombardamenti. Eppure lui e la sorellina li avevano sempre previsti. Quando tutti e due correvano a nascondersi, si era certi che dopo qualche minuto sarebbe suonato l’allarme, e non ho bisogno di aggiungere che erano gli anni di guerra. Con la pace, le case ricostruite e l’inizio della mia carriera, ho un po’ trascurato la specie. I rapporti sono ripresi con la casa in campagna e, anche se li ricordo distintamente, non ho riallacciato quella convivenza totale che soltanto ora ho finalmente potuto riprendere. Con Roro, Arturo e Lola, siamo effettivamente una famiglia. Due stanno dormendo sul mio letto e lei è sotto, dove c’è ancora un tappeto arrotolato dall’estate. Già, ma di questi due ce ne sono di cose da dire.
Chi è Ernesto
Chi è Ernesto? Apparentemente un gatto. Certamente ha tutto del gatto. È bianco con macchie e coda striate, una sulla testa come un ciuffo di capelli, bellissimi baffi e grandi occhi verdeazzurri. Noi soli sappiamo che un occhio è cieco. Malattie infantili, frequenti nei gatti di campagna, perché in campagna è nato. Gracilino, ha dato infinite pene alla sua mamma elettiva. Ha fatto ogni sorta di cure, anche l’aerosol.
A questo punto, per lui, quella bella fanciulla bionda, che canta arie così difficili e acrobatiche, è veramente la sua mamma. Va al di là della consuetudine di definirci mamme, zie, nonne, soprattutto per nostro piacere. Per Ernesto quella signora l’ha creato. La prima volta che la mamma l’ha lasciato, per lavoro poveretta, prevenendo tutte le sue necessità, si è innescato in lui un rancore restio a ogni persuasione, e da quel momento ha deciso di non servirsi mai più della cosiddetta lettiera.
Scomoda decisione. Ma in quell’innesco rancoroso si è forse definito il suo carattere. Originale perlomeno. Anche se dalla mamma è venuto questo affronto imperituro, lui ama soltanto lei, gli altri provvedano a pulire. Gli è stata presa una compagna (sono entrambi sterilizzati), una splendida gattona soffice, educata, un carattere conciliante, propensa a non raccogliere sfide, si direbbe anglosassone. Ernesto ha vissuto molto bene con lei e adesso che sta da me per qualche guaio di salute, mostra altrettanta buona disposizione nei riguardi della mia Lola. Ma non sono tanto i suoi dati biografici che ci interessano, è il suo carattere. Vai a capirlo un cattivo carattere, non è così semplice. Ernesto è scontroso con tutti, si direbbe che ami la solitudine. Accetta senza muovere neanche un orecchio, lievi carezze di buonanotte, ma se cerchi di sollevarlo il suo soffio è furibondo, le piccole zanne sono pronte a mordere, il suo cuore batte forte. Sta ore al sole raggomitolato e da lì passa al cuscino di casa nella sua solitaria astrazione.
Potrebbe giocare, detesta Zeffirino e non ama molto neanche me. È riconoscente, penso. Ma no, riconoscente è la sua mamma perché l’ho curato quando lei non c’era. La sua mamma, quando c’è, può fare di lui qualunque cosa, e quando lo vedo disteso col musino abbandonato in mezzo ai suoi capelli biondi, le zampe penzoloni e il respiro tranquillo, ho la certezza che sia per lui la sospensione di una sofferenza. Si direbbe che lui faccia scorta di quell’amore come del grasso per l’inverno. Quando lei se ne va, non la segue, si accascia pago, con quella scorta può aspettare, i suoi nodi interiori si sono momentaneamente sciolti; inutile accarezzarlo, Ernesto è altrove col cuore e con la mente. Il cattivo carattere è penoso prima di tutto per chi ce l’ha e non è neanche così facile definire in che cosa consista. Perché cattivo? Perché non fa comodo agli altri, o a chi ce l’ha? È definibile o vago? Transitorio o permanente? Transitorio mi pare difficile, perché su questa presunta cattiveria si basa una personalità, del gatto come dell’uomo. Nasce da un malessere che genera insofferenza. Osservo Ernesto quando, credendosi inosservato, va ai suoi piattini per mangiare, mi guardo bene dal passargli accanto, smetterebbe subito e si allontanerebbe forse per tutto il giorno. Non per paura, per fastidio, forse pensa: “Possibile che non capiscano che quando mangio voglio star solo!” E perché questo bisogno di isolamento quando sa di essere amato? È un suo male profondo, che se da un lato lo fa soffrire, dall’altro lo fa rispettare, direi temere, se non fosse che è un gatto che conosciamo da molti anni. Ernesto ha quindici anni, peraltro portati bene, e mai in questo tempo è stato considerato semplicemente “il gatto”. Ha una sua personalità scabrosa così evidente che non si può non notare. Ha le stesse caratteristiche dell’umano di cattivo carattere, definizione semplificata. Non sai se soffrono o se li fai soffrire, se ti odiano o se ti amerebbero se tu non volessi chiarire la faccenda, la rabbia sottile, inesplosa è un loro modo di sentire. Per l’uomo di cattivo carattere, il malcontento è più rigoroso certamente che per Ernesto. Coinvolge la sua vita nei minimi particolari, i rapporti sociali, il cibo, la famiglia, l’estate come l’inverno. Non riesce a non recedere di fronte a una possibilità di semplice soddisfazione. Prova un piacere amaro nel negare. Cosa? Tutto, tutto quello che potrebbe soddisfarlo, dare una realtà al suo successo nella vita. Non bisogna per questo cessare di amarlo, sarebbe favorire il suo male di vivere, anche se non sempre l’amore trova la via; il maggior trionfo dell’umano di cattivo carattere, è essere insofferente all’amore. L’amore appiana, l’amore comprende, l’amore perdona. Per carità. Un cattivo carattere vuole essere in colpa, non vuole essere capito, che non si travalichi il mistero del suo malessere, lui non vuole analizzare se stesso e tanto meno permette agli altri di farlo. La pace degli altri, se è eccessiva la disprezza, se è normale lo annoia. In fondo, il cattivo carattere porta a sopravvalutarsi nel migliore dei casi, nel peggiore lo attendono guai seri, la depressione, l’isolamento.
Per sua fortuna questo non è successo a Ernesto. Lui in braccio alla mamma butta via le sue scaglie astiose e la sua pelliccia torna morbida e bianca come un ermellino.
Un gatto felice
Ho un gatto felice, si chiama Zeffirino. Lui è il vento che è nel suo nome. Un bellissimo gatto comune, un po’ tigrato, un po’ bianco. Un naso minuscolo un po’ all’insù, due occhi verde acqua immensi. Ha la bellezza degli esseri felici. Se cammina (raramente), tiene la coda dritta che denuncia la sua presenza in mezzo ai mobili. In genere corre, salta, attraversa l’aria come un piccolo missile. Abito a un pianterreno, con un piccolo giardino. Al mattino appena si apre la porta, lui è il primo, un delizioso proiettile di pelo, scavalca il cancelletto con una velocità irriconoscibile anche a un cronometro, ha degli amici fuori, dei prati, degli anfratti. Se piove torna subito, senza rancore verso il cielo, nelle belle giornate di sole tarda un po’. Qualche sabato sera d’agosto ha dormito fuori. Il cane e gli altri due gatti di casa, se si avvicina troppo lo aggrediscono. Zeffirino ride e viene da me o cambia semplicemente posto. Non si arrabbia, non si risente, non ne soffre, perché è felice. Lui si sente circondato d’amore, oltre che dal mio, dall’amore della natura che lo ha fatto bello, agile, sereno, che gli ha fatto conoscere l’erba dei prati, il sole, il pesce nel suo piattino, la sabbia della sua lettiera. Zeffirino sa divertirsi da solo, ama infilarsi negli armadi di nascosto, rovistare fra i vestiti, grattare una poltrona, rincorrere la sua coda. Dato per scontato che il muso del gatto è la più bella faccia vivente, Zeffirino che mi guarda dalla sua poltrona o che si presenta al cancello con aria interrogativa, è il compimento della bellezza. Perché la sua bellezza è miniata dalla felicità. La maggior parte degli animali è infelice. Un’infinita parte a ragione, ma anche quelli amati da un padrone, quelli che hanno una casa, i pasti regolari, le passeggiate, collari preziosi, nomi indimenticabili. C’è un’ombra malinconica nel fondo dei loro occhi e se non è malinconia è ansia. Anche il cane più fortunato vive nella paura dell’abbandono, un timore implacabile che li spinge a strani accorgimenti pur di avere la visuale fissa sul padrone. Il gatto nasconde questo dubbio ansioso dietro uno sguardo enigmatico, qualche volta ostile. È il suo costituzionale “non fidarsi” contro la fiducia insensata del cane. Ma credo che questo alternarsi di sentimenti, o vogliamo chiamarli stati, in cui un certo animo c’entra sempre, è in qualsiasi animale che sulla terra vive con l’uomo. Torno a Zeffirino. Nei suoi occhi limpidi non c’è che la gioia di essere un gatto, quel gatto, con quella mamma (io), quei soci astiosi, quella casa, quella cuccia. Mi sembra l’unico animale senza dubbi di sopravvivenza. Non credo che la bellezza provochi incoscienza, semmai una vertigine passeggera, per il timore di sprofondare nell’abisso della sua fine. Questo dubbio non sfiora Zeffirino, non solo perché è un gatto, ma perché se ne frega. Tutto il suo essere sembra dimostrare che la felicità è congenita. Ci si nasce. È l’attitudine a considerarla una piccola cosa, un piccolo mistero, una piccola pausa. Chi è nato felice trova quell’attimo prezioso anche in mezzo alle peggiori bufere. Il dolore, la miseria, la rabbia, non escludono la felicità se è nella tua natura.
Uno psichiatra burlone potrebbe studiare Zeffirino per poi rifarsi sui suoi clienti in difficoltà. La sua straordinaria capacità di non sentirsi mai escluso, la sua attesa di soddisfazioni dietro una porta chiusa (non può essere diversamente, c’è del buono dietro), il suo saper dosare le effusioni secondo chi è destinato a riceverle, la sua serena attesa che smetta di piovere, il suo disinteresse per il cibo che prima o poi consumerà. C’è un equilibrio rasserenante in questo gatto, che dispensa luminosamente il suo felice modo di esistere.
L’espressione corrente (anche troppo) “non c’è problema” indica il bisogno quotidiano di rassicurarci contro probabili ostacoli. Io credo che più che i problemi veri e propri, spesso scansabili, siano da temere i portatori di problemi. È un handicap frequente, doloroso, ma soprattutto fastidioso. Soprattutto per gli altri, perché il portatore crede di essere l’unico ad averne, misconoscendo ai suoi simili lo stesso diritto. Spesso chi ha problemi se ne sente investito come da un titolo. A Zeffirino interessano ben altri titoli: “Il più bel gatto del quartiere, il più buon carattere di casa, il terrore degli uccellini…”; e per quello che riguarda il naso: “Il più bel nasino di Roma”. I suoi occhi sereni non nascondono i suoi pensieri: “Con Lola ci vuole pazienza, è anziana…”, “Chissà perché questo Ernesto mi soffia, senza parlare che fa la pipì sul bel parquet di mamma…”, “I portieri mi adorano… è una sicurezza”.
Per Zeffirino non ci sono problemi. È felice.
Un Eden di gatti
Il cinema ha spesso messo insieme panorami di anime, dando per scontato che l’anima vesta gli stessi abiti del corpo da vivo e che muovano in gruppo da un fondo infinito, in un corale bisbiglio che un organo sottolinea con note tenute. Ebbene, io voglio immaginare un panorama di gatti trapassati, ognuno ovviamente con la sua pelliccia e un concerto di miagolii in cui ognuno riprende al volo quello dell’altro, come da vivi acchiappavano mosche e farfalle… Mi circondano con le code dritte e sento ancora lungo le gambe la loro impalpabile presenza. Intendiamoci, questa leggerezza l’avevano anche da vivi e per quella loro facoltà di muoversi attutiti, sono sempre assomigliati ai fantasmi. Mi rendo conto che tutti mi sono appartenuti e che nessuno mi vuole rimproverare qualche cosa. Ma saranno anime di gatti, visto che non sono ancora autorizzati ad averne una? (Mentre l’uomo ne è così spudoratamente in possesso da immaginarsi sopra una nuvoletta anche nelle pubblicità televisive). Allora diciamo che voglio soltanto immaginare un panorama di gatti, un Eden di baffi e code e polemicamente ne scelgo due ancora ben viventi e vi racconto la loro storia.
In un’arena estiva, una mia giovane amica cantante raccolse tre micetti, li mise in un cartone e li portò a casa. Tre orfanelli, ma forse la mamma spiava dietro un sasso e tirava un sospiro di sollievo come tante colleghe a due gambe… Due erano bellissimi, ma c’era il solito brutto anatroccolo. Nei primi due giorni l’infelice, una lei, rischiò di morire. Soffiava piccoli respiri da una boccuccia pallida e sembrava che ci dicesse: “Se mi tolgo di mezzo, avrete un problema in meno”. Una piccola dose di antibiotici e decise di restare fra noi. Il giorno in cui fu in grado di dichiararsi fuori pericolo e cominciò istintivamente a tenersi appartata, ma sempre nella mia area, capii che più che un brutto anatroccolo era una Cenerentola e mi parve di sentire nell’aria i sonagli della carrozza del principe. La chiamavo Cunegonda perché mi faceva pensare a una figurina medievale in bilico su una guglia di una cattedrale, detta Cuni. Aveva a disposizione un ron-ron abnorme per il suo corpicino e quando mi saliva in grembo non ammetteva di essere spodestata, piantava in qualsiasi tessuto le sue unghiette trasparenti e prendeva una espressione determinata. Del resto il suo piano era quello di riuscire socialmente e non tralasciò alcun particolare per arrivarci. Pulitissima, discreta, affettuosa coi potenti, silenziosa quando occorreva, senza pulci, aveva assistito impassibile alla partenza dei bellissimi fratellini che una signora tedesca aveva preso. Molto soddisfatta di aver scelto i due belli, la tedesca sentenziava concetti che avrebbero dovuto umiliarci, sulle sue abilità nell’allevare gatti contro le nostre doti comuni, e più parlava più il motore di Cuni andava su di giri e le unghiette si conficcavano nelle mie spalline. Voleva dirmi all’orecchio: “Io resto, io resto, che gioia!” mentre la tedesca si allontanava con i due fratellini. E arrivò la carrozza dorata. Era il fuoristrada di una mia bellissima amica, la situazione che Cunina aspettava. Una padrona bella, elegante, intelligente, regista, una villa di raro buon gusto, sulle morbide altezze di Cetona, in quell’Umbria rara e molto bene abitata. Prese il titolo di Cunegonda da Cetona e ci vive felice con la figlia Dorina. È diventata molto bella come quelle dive del cinema che raccontano: “Da bambina ero addirittura brutta,” e le foto lo confermano. Quando mi vede, credo che mi riconosca e che dica alla figlia: “È la zia principessa che mi ha fatto da madrina”. Un po’ mitomane lo è sempre stata. Non ha abituato la figlia a entrare in casa. Solo lei, quando viene la sua bella signora, la frastorna con i suoi potenti ron-ron e la trattiene sulla poltrona con le sue unghiette da arrampicatrice. Ha a disposizione anche una domestica e un giardiniere.
Ora estraggo dal gruppo la storia dell’ultima arrivata e già partita. Una mattina piovosa, in campagna, ho una casa sul lago di Bracciano, troviamo sui gradini del cimitero un gattino bianco. Un abbandono diabolico. Quale cuore non si sarebbe sentito in una morsa, trovando una piccola vita abbandonata sulla soglia delle ombre? Forse qualcuno non aveva raccolto il presagio ed era andato oltre, ma noi no, e il gattino l’ha capito. Ci ha guardato sicuro e ci è venuto incontro. I gattini che si trovano, sono tutti nelle stesse condizioni ed è soltanto per scrupolo che uno va a farsele dire dal veterinario. Mi chiedo perché non tengo un pronto soccorso “gatto-trovato”. Hanno occhi lacrimosi, pancino pieno di vermi, qualche parassita, ecc. Il veterinario servì comunque a rivelarci che era una gattina e non un gatto, come avevo affermato alla prima occhiata. È bianca, pelo lungo, una gran sfumatura rosata sulla schiena, occhi azzurri, colori da alta moda. Mi ero abituata all’idea che si chiamasse Faustina, ma non è più così. Nei venti giorni che è stata con noi era già rifiorita e aveva messo in evidenza il suo carattere. La tenevo in una casetta in giardino con i suoi piattini, la sabbia e una pallina. Giocava tutto il giorno come una mattarella e si sentiva sbattere la palla contro le pareti di legno, come se ci fosse stato dentro un gigantesco tarlo. Quando le aprivo la porta, si arrampicava con rapidità vertiginosa sopra un pero, la cercavo e lei mi chiamava dal tetto, chiamavo aiuto per prenderla e lei era già rientrata nella sua casa. Una monellina così gioiosa e così bella che già mi rodeva la tortura di sistemarla e, sotto sotto, mi ritenevo destinata a tenermela con gli altri. Fortunatamente un’insperata richiesta. L’amico di un amico stava per comperare un gattino bianco per la sua ragazza. Del mio amico mi fido, animalista convinto. Ho dettato il mio indirizzo, con tale ricchezza di particolari che ci sarebbe arrivato anche… non so quale tara citare, per non trovare la mia casa. Ho preparato Faustina anche se non c’era molto da aggiungere alla sua grazia. Le ho comperato un corredo. Non dò mai un gatto o un cane senza un corredino, piattino, lettiera, una confezione di pappe, un sacco di sabbia, un piccolo pronto soccorso. Il mio amico è un bel ragazzo abitualmente in vesti femminili, molto coscienzioso e fedele ai suoi impegni, lo aspettavo per un caffè. Oltre una certa dilazione sull’orario del caffè non posso andare e verso le tre lo bevvi senza agitarmi, conosco la sua serietà. Alle quattro, leggermente ansiosa, squillò il telefono.
“Stai tranquilla, stiamo venendo, ma c’è molto traffico, vanno tutti al mare…”
“Come al mare, tesoro? Noi siamo, per spiegarci, al nord di Roma…”
“Oh, Dio… allora torno indietro”.
“Prendi il raccordo nell’altro senso…”
“No, il raccordo mi confonde… inverto… ho capito”.
Quell’inversione mi spaventò. Era col cellulare e per fortuna aveva di che ricaricarlo perché mi chiamava ogni mezz’ora da luoghi sconosciuti. Fece, credo, il giro del Lazio, finché mi disse: “Siamo sulla Cassia… a posto”.
“Ma è la Cassia bis oppure…”
“La Cassia, c’è un ospedale, tante case…”
Non era, ma aveva già chiuso. Arrivò nel buio più fitto, tanto che gli andai incontro con una torcia e constatai la veridicità della scena del Rigoletto quando dicono: “In tanto buio lo sguardo è nullo…”
La notte di per sé è veramente nera se non c’è la luna. Ed ecco i fari. Faustina è subito piaciuta. Ha familiarizzato immediatamente coi lunghi capelli del mio amico mentre il nuovo padrone le comunicava che si sarebbe chiamata Cassandra, detta Cassi, in ricordo anche delle Cassie percorse. Baci e abbracci e sono partiti, neanche il tempo per un piccolo trattenimento. Faustina se n’è andata con una gaia miagolatina frettolosa e ho saputo che ha dormito tranquilla in una gabbia da cane per tutto il viaggio, che ritengo non sarà stato breve. Ora vive felice e coccolata, mi dicono vivacissima e ci credo. Contrariamente a Cunegonda, è andata incontro al suo destino senza premeditazione. “Chi mi prende, mi deve voler bene per forza, sono molto carina e molto simpatica”.
Qualcuno forse prenderà me per pazza.
Ebbene no. Gli animali mettono becco nel loro destino, anche quelli effettivamente col becco. Un preconcetto di superiorità fa sì che noi non gli prestiamo molta attenzione, ma molto più spesso di quello che si creda, loro si programmano.
Arturo
Il gatto Arturo è un personaggio. Lo si dice spesso di tipi che non mette conto giudicare tali. È un’osservazione facile e attuale. Basta che uno faccia qualche sciocchezza e la ripeta con apparente distrazione, e dicono: “Che personaggio!” Se ruba nei supermarket o viaggia con l’autostop, se veste di cotone anche d’inverno o porta il cappello anche a letto, se non legge mai il giornale o non ricorda in che anno siamo, è un personaggio. Non fa parte di alcun pezzo teatrale, offre solo il suo spettacolino personale di scarso interesse. Viviamo in una ridda di personaggi, una puttana, un travestito, un presentatore televisivo, una massaggiatrice, un leader di partito, anche una portiera attaccabrighe, sono tutti personaggi da quando gli aggettivi originale, cretino, fesso, ignorante, esibizionista o ridicolo hanno fatto posto a “personaggio”.
Ma ripeto che il gatto Arturo, il mio gatto, è un personaggio perché in una drammaturgia gattesca avrebbe un ruolo classico, un grande carattere. È bianco con la coda (lunghissima) e qualche macchia tigrata, occhi fra il giallo e il verde, è alto, molto lungo, molto snello, il muso è piuttosto affilato, è stato castrato per assicurare un freno alle sue copiose energie che l’avrebbero perso al mio amore e ai suoi comodi. Arturo è intelligentissimo, più intelligente che furbo, molto sentimentale, capace di affetti tenaci, espressi con cuore di cane e complicità di gatto. Con un gesto molto maschile, tenero ma deciso, allunga la sua zampa, la destra in genere, per accarezzarmi una guancia, con le unghie ben rientrate e quando lo sente opportuno, o me ne ritiene meritevole, ci mette anche un piccolo bacio con la linguetta rasposa o con un leggero morso delle sue zanne. Sì, i canini (senza offesa) di Arturo sono due vere zanne, lunghe e lucenti che, quando le mostra, cambiano ma di poco la sua espressione pacifica. Arturo è un gatto trovato. Avere e amare un animale trovato aggiunge una spina d’oro al suo mistero. Ci si scopre spesso a interrogarli con un monologo senza risposta, ma non per questo meno intrigante. Arturo è nato certamente in campagna, è entrato un giorno in casa nostra, deve avere sempre saputo che ci abitava un gatto molto simile a lui, si è messo a dormire su un divano, ben arrotolato, sicuramente ha badato a mettere la sua macchiatura in modo che sembrasse quella dell’altro, e così si è concesso una bella dormita lunga un pomeriggio. Chissà da dove veniva? Se aveva mangiato? Ognuno di noi passando deve aver detto: “Ernesto dorme ancora,” l’altro gatto.
La sua tenacia, fatta di resistenza passiva, sprazzi di educazione, fame reale, più i suoi gesti affettuosi già citati e una robusta voce dove la celebre sillaba miao è ben chiaramente pronunciata, tutti questi particolari, vere qualità, hanno determinato la sua entrata in famiglia. Arturo è molto buono, che nel suo cuoricino alberghino sentimenti squisiti è fuor di dubbio, è generoso, non si sopravvaluta, è soltanto talvolta vittima della sua forza. Si sa che l’intelligenza unita alla forza produce guai, il genio deve essere debole e il forte stupido. Arturo mette queste due doti al servizio di se stesso, ma non sempre il suo interesse collima con quello di casa. Apre con la sua robusta zampa qualsiasi forziere che per lui si identifica con qualsiasi frigorifero. Io credo che gli riuscirebbe anche un colpo miliardario, ma un fascio di banconote ha per lui meno interesse di una coscia di pollo. Il mio affetto per lui si è ulteriormente consolidato vedendolo lavorare; si è creato fra noi un complice legame da personaggi da Beggars opera. Arturo si espone anche per la sua compagna Lola, che andiamo a presentare subito di seguito, e la mia immaginazione tutta a suo favore me lo fa immaginare con un berretto, due bretelle e il suo bravo piede di porco, mentre in realtà col solo aiuto della zampa smuove la pesante porta del frigo come gli ho visto fare non più tardi di stamattina. Lui è un lavoratore, sembra che compia queste imprese di scasso su commissione e che non voglia venir meno alla fiducia dei suoi impresari. E chi sono? I gatti, questa grande popolazione definita ladra per semplificazione e della cui fama si sente responsabile. Mette nel suo lavoro tanta attenzione e una così precisa abilità, gesti rapidi e meticolosi che compie senza curarsi minimamente della mia presenza, Anzi, ho colto un suo rapido sguardo di traverso che voleva certamente dire: “Ancora un attimo, madame, e si aprirà, stia tranquilla”. Il successo dell’impresa gli interessa forse più del malloppo. Mi ritirerei comunque quando lui e Lola si spartiscono il bottino, lo voglio immaginare come un ladro gentiluomo piuttosto che come un gangster. La sua “pupa” comunque è Lola, un rapporto di pura, grande amicizia.
Lola era una ragazza madre che portava in pancia gattini già morti quando si è presentata alla porta. Si è guadagnata giorno per giorno (tre in tutto) lo spazio in casa, è stata liberata dal triste carico e di quella avventura non serba alcun ricordo. Non solo perché è un gatto. Conosco tanti casi analoghi nelle leonesse come nelle donne. Dimenticare è una legge quando ricordare sarebbe un blocco per esistere. Negli occhi verde prato di Lola non c’è traccia di quei cadaverini, c’è forse nella sua morbida silhouette appena un po’ sfasciatella… Fra lei e Arturo c’è un rapporto stupendo, tendo a rifarmi ai modelli di comportamento umani perché in fondo non si sa da che parte stia il modello. È, come ho detto, un’amicizia, ma l’amicizia fra un uomo e una donna, come fra un gatto e una gatta, ha un valore particolare, c’è alla base una civile intelligenza, non possono essere due tipi qualunque, non c’è spettro di sessualità nella serietà che mette Arturo a lavare la faccia di Lola, né civetteria in Lola nel girare la testa per porgere meglio le orecchie, due colleghi d’università piuttosto che due saltimbanchi. Eppure ognuno ha serbato le caratteristiche del suo sesso nel rapporto, sulle quali modella la sua vita. Lola passa ore sui davanzali interni delle finestre, seduta da gatta, con la coda ben arrotolata, guarda nel vuoto e sembra sovrappensiero, ma se deponi nella stanza una borsa vuota, una scatola aperta, anche un sacchetto di plastica, ti volti e lei ci è già entrata, ci si adagia e ci dorme come un piccolo cuscino smosso appena ogni tanto da una scrollatina. Arturo giace lungo stirato sul divano, con le zampe penzoloni nel vuoto, se gli posi vicino il cane, lo spia, quando lo sente russare gli si deposita sopra e sprofonda nel sonno totale. Hanno ritmi concomitanti, ma lui da maschio, lei da femmina. Arturo si precipita a tavola, lei arriva con un leggero ritardo come se fosse andata a cambiarsi. Lei non vuota il piatto, lui lo lustra e spesso finisce anche quello di lei. Escono insieme, in genere Lola rientra prima e Arturo più tardi, ma se succede il contrario, Arturo la aspetta visibilmente agitato. Lei rientra, o vado io a cercarla, e riprende la sua vita senza dargli spiegazioni, e lui le gira intorno un po’ indispettito, facendomi sempre pensare a due colleghi affezionati e zitelli, magari in vacanza in una pensione di montagna. Osservare gli animali aiuta la fantasia, smuove i ricordi e ne mette insieme i pezzetti.
Arturo mi ama clamorosamente, ho già detto delle sue carezze, basta un niente di invito perché mi si piazzi in grembo, passa con la sua notevole mole sui fogli e prima di disturbarlo ci penso un po’, perché mettersi comodo per lui è un lavoro.
Lola mai, mai sulle ginocchia, mai sul giornale, ma è così complice col suo sguardo compiacente, guarda lui che si è sistemato vistosamente come se volesse dirgli: “Eh, professore, sempre il solito grossier”. Più di una volta Arturo è rimasto chiuso in un armadio e ci ha fatto il finimondo, Lola ha riposato un’intera notte fra le mie scarpe senza lasciarvi traccia.
Perché i due grandi amici sono un uomo e una donna, per dire un gatto e una gatta, e il loro equilibrio psichico e sentimentale è basato sulla distinzione dei sessi.
Cani di teatro
I cani di teatro sono stati per secoli piccoli. Qualcuno è passato alla storia e, tramutato in pietra, vigila sopra qualche tomba romantica. È difficile che chi sta per qualche verso nel teatro non abbia o non abbia avuto un cane. E badate bene, non, come si crede, perché rientra nelle tradizioni dei vezzi, ma perché il cane è un conforto alla sua solitudine di fondo. La vita di teatro ha senza dubbio le caratteristiche della provvisorietà, una vita dove qualcosa deve sempre succedere, una vita di missive che devono arrivare, che oggi chiameremmo telefonate. Il telefonino teatrale è il più febbrile in entrata come in uscita. Il successo è provvisorio come l’attesa, la fama è incerta come l’anonimato. È una realtà tutta psicologica, un assurdo assediato da ritmi che non sai se invidiare o detestare. Il cagnolino si è sempre insediato in quelle case sull’acqua come un tramite con la vita degli altri, benché in senso negativo, quasi polemico. Il cagnolino di teatro curato, vezzeggiato, bardato anche con gioielli (non sempre finti), ritratto con nastri sulle orecchie, nutrito in modo dissennato in piatti dai colori assortiti nel camerino della padrona, libero di dormire sulla poltrona del maestro o di accucciarsi sotto il baldacchino del soprano, proprio lui, quell’esserino privilegiato, è lì a ricordare che “fuori” si sta molto peggio. “Padroni, la vostra vita vi sembra fasulla, l’avvenire un’incognita, oh, avere una famiglia, sedere per una volta coi figli intorno a un desco, morire fra le loro braccia, non ci pensate e ringraziate il vostro Dio”. Ora anche questo piccolo essere complementare e quasi simbolico, ha subìto nel tempo la sua evoluzione estetica e ambientale. Se mi permetto di non risalire con le mie favole oltre gli anni Cinquanta, è perché non ho prima di quelli che una conoscenza per sentito dire o tramite letture. Non ero ancora in teatro. Ma dai Cinquanta in poi sono documentata e posso asserire senza tema di smentita che chi si insedia più prepotentemente fra le quinte è il barboncino. Non il barbone che non per niente ha dato il nome alla pittoresca e infelice specie dei miserabili senza casa. Non dico che non ci siano stati barboni ben curati e ben alloggiati, ma spesso il barbone è vissuto con un piattino di latta fra i denti, un tamburello sulla testa, vicino ai cenci maleodoranti del suo sfruttatore che niente gli ha impedito di amare.
Barboncini ho detto, minimi detti toy (giocattolo), o medi.
Molte ragioni lo hanno portato alla ribalta. È leggero e fantasioso, ha un pelo che dà soddisfazione ai parrucchieri, non ha sensi di colpa o del ridicolo, ha vita lunga (salvo imprevisti) e una vecchiaia ben portata, al contrario per esempio del bassotto che gli ha un po’ conteso il primato, ma è caduto proprio sulla vecchiaia obesa. Si incanutisce, questo sì, ma un sapiente cachet può addolcire questo oscuro monito per le padrone e spesso poi è bianco di natura. Il barboncino è stato il cane superstar anche per gli uomini di teatro. Mentre, per esempio, il pechinese degli anni Venti era quasi impensabile vedergli muovere le zampette a fianco di celebri pantaloni, il caniche (termine francese quasi esclusivamente usato nei suoi anni d’oro) ha diviso la sua dedizione equamente fra i due sessi di istrioni. Usciva felice con lui a soddisfare le sue necessità mentre lei dormiva, ha vegliato le lacrime dell’abbandono sia di un papà invecchiato che di una mamma troppo facile a concedersi, ha altezzosamente accettato i servizi della cameriera di lei come del fedele cameriere di lui, sul suo corpicino disgraziatamente irrigidito hanno pianto senza ritegno tenori come soprani, primedonne come capocomici. Tutti ricordiamo la loro presenza discreta nei più celebri camerini e nessuno di noi ha osato chiedere spiegazioni quando li vedevamo apparire solo in fotografia, bene in vista, con un’orchidea e una cornice d’argento, fra copioni o spartiti e ceroni. In genere, in questo caso, ce n’era un altro nella cuccia e la cameriera che avvertiva: “Però non è come lui”.
Il cane grande è entrato in teatro con le nuove leve, ormai non più tanto nuove, che hanno trasformato, non saprei dire come, la vita teatrale. Sono i figli delle regie e degli abbonamenti, della cultura e dei classici rivisitati, dell’impegno e degli sponsors. Non si era mai visto prima del Sessantotto (diamogli un termine storico anche se inesatto), entrare in teatro un molosso napoletano o un pastore dei Pirenei, nessuno si era mai bloccato sulla porta di un camerino vedendo emergere faticosamente da un angolo una massa di muscoli e pelo, in genere con uno sbadiglio annoiato che in quei corpi colossali può sembrare una minaccia. A terra, per piatto c’è un vero bacile, vicino al loden del padrone o alla pelliccia sintetica della padrona, pendono grosse trecce di cuoio, l’ultimo in linea d’importanza della compagnia è adibito a farlo uscire. Il grande animale sembra rendersi conto del malanimo dei portieri e della paura delle mascherine, vorrebbe essere più piccolo per limitare il danno delle sue orme quando piove, non può permettersi una svista che sarebbe una grande bega per i padroni. Però questi timori, questi pensieri delicati sono solo suoi. Il padrone d’avanguardia, antica parola, lo difende con alterigia, dietro le sue scelte si intuisce il disprezzo per i piccoli yorkshire che circolano ai limiti di cartelloni più borghesi, dietro imprese che non hanno nulla di stabile né di troppo raccomandato dalle culture regionali. Lui non vorrebbe, il povero cagnone, assumere un valore simbolico e tantomeno polemico, non vorrebbe proprio rappresentare quella moda che ha soppiantato il barboncino. Si lascia cadere soffiando nel suo angolo sopra un tappeto che finisce nel camion con le scene e i bauli e pensa in cuor suo: “Francamente erano meglio le cucce fiorate di quei riccioloni che entravano anche nel baule armadio della mamma coi suoi trucchi e i suoi costumi”. Sulla scia di questo nuovo costume, in base a una scelta rigorosa che esula da mode, e tiene conto del bisogno di sfrondare le ubbie del passato, sono entrati in teatro anche i bastardi. Mi ha sempre dato sui nervi quell’aria di vanto delle attrici approdate al bastardo. Queste adorabili creature non hanno bisogno di essere lodate per assurdo, perché la loro coda è troppo lunga o le orecchie troppo pendule o i colori troppo mescolati sulla schiena; ma, ormai, il bastardo in teatro fa moda e la sua dubbia origine viene sottolineata con risate che accompagnano la definizione di “bastardone” o “bastardina”. Meno complessato del mastodontico vicino di camerino, il bastardo opera una specie di storico revival chiedendo a poco a poco i privilegi degli antichi piccoli snobs. Sembra che faccia apposta a tremare per ottenere un cappottino scozzese double face, vuole ciotole colorate dove si infila il naso comodamente, esce con la sarta e non con la comparsa e si fa spesso trovare sull’unico divano concesso alla prima donna per riposarsi quando ha due spettacoli, anche se non appartiene a lei. Della lotta di classe, la rivoluzione che ha portato il colosso in teatro, si è assunto la responsabilità il bastardo, che con astuto fiuto democratico non vede di cattivo occhio l’ingresso in compagnia di qualche piccoletto con gli antenati a posto. Lui media la convivenza fra la spocchia dei piccini e lo stupore pericoloso dei grossi, il suo buon umore, vero o finto che sia, gli vale la simpatia di tutti, lui è il capo storico di una situazione nuova e imprevedibile. Ha patrocinato una svolta inattesa, l’ingresso a teatro dei gatti, che finora erano stati soltanto visitatori rovinosi di famose “prime” andate male. Ma il gatto, forse per quegli equivoci trascorsi, non ama le scene e i camerini, preferisce starsene al caldo in albergo e detesta viaggiare.
Se questa non gli è riuscita, altre innovazioni riusciranno al bastardone-bastardina. Un paio di buoni matrimoni e sarò di razza anch’io, si dice fra sé, prevedendo che il potere non è eterno.
L’abbandono
Provo a immaginarlo. Ma peccherò di semplicità. Non tutte le menti sono all’altezza del delitto. Potrebbe essere imprevedibile, colposo si dice, forse.
“Prendiamo uno di quei cagnolini che vendono al mercato, c’è un tizio che li vende”.
“Un cane? Con tre bambini?”
“Appunto. Si divertirebbero. Si fermano sempre a guardarli… li distrae un po’ dal computer…”
“Ma ci complica la vita… i ponti, le vacanze…”
“Mica lo dobbiamo tenere sempre…”
“In questo caso…”
Il ponte si supera chiudendolo sul balcone. Ma alla prima estate tocca abbandonarlo. Nicolino, è il suo nome, non ha targhe o tracce di identificazione, non può venire in vacanza. Un impiccio in più. Si va in Sicilia. Il viaggio è lungo. La nonna non vuole cani. Cercarne un’altra è troppo chiedere, caro Nicolino, di nonna in Sicilia ce n’è una sola. I bambini, che hanno lo stesso sangue dei genitori ma la semplicità mentale dell’infanzia, è meglio tenerli all’oscuro. Ci pensa papà. Mentre si ingozzano di pizza nell’area di servizio, lo porta a fare i bisogni un po’ lontano e scappa. “Quello stupido cane è sparito… l’ho mollato un momento…” Ma all’uscita dell’autogrill è lì fuori in attesa. Il suo sguardo non è quello tenero del cane amato, è uno sguardo consapevole. Non conta troppo neanche sui bambini. Li ama un po’, con prudenza. In quella casa non si è mai sentito al sicuro, fuori ha sempre tremato. Si è abituato a guardarli bene tutti, a seguire il loro odore di gente che si lava.
“Ah, sei qui?” la voce di lui è indispettita, lo sguardo che scambia con la moglie è di intesa, una vaga intesa criminale che non ha ancora un progetto preciso.
Nicolino si infila dietro con i bambini. “No, qui davanti, con me,” gli intima la moglie che ha elaborato il piano più rapidamente del marito. Dopo una trentina di chilometri i bambini dormono con la bocca aperta. “Rallenta un po’,” sibila lei. Si apre un po’ lo sportello e un calcio butta fuori Nicolino. La macchina riparte veloce. Un bambino ha socchiuso gli occhi. Anche se ha lo stesso DNA dei genitori, gli sfugge una specie di implorazione: “Nicolino!” La mamma: “Ho aperto un pezzetto di porta perché mi si era chiusa dentro la gonna e quello stupido… era destino, troppo stupido…”
Nicolino dopo due giri sull’asfalto e qualche graffio, comincia la sua desolata e incerta passeggiata di cane abbandonato.
Diana era una bella cagna da riporto alla quale il padrone aveva dato il nome della dea della caccia. Ma ai tempi della dea, la caccia era altra cosa. Le era stato inflitto anche un timbro sulla pancia: “Perché se ti perdi ti ritrovo,” le aveva forse detto quel padrone che a lei e all’altro setter sembrava tenesse molto.
Ma la caccia non piaceva troppo a Diana. Un irresistibile istinto la spingeva a raccogliere gli uccelli caduti, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno. Era poi istinto o paura del padrone? Un uomo volgare, le sue risate con gli amici che le arrivavano nel camioncino dall’osteria, la facevano riflettere sulla sua sorte di dea declassata. Mentre il setter correva verso la preda sanguinante, Diana cercava di ignorarla e il padrone pensò ad alta voce, che era il suo modo di pensare, che la “femmina” non gli serviva più. Così Diana vide partire il camioncino col setter, i morti piumati, il padrone e i suoi amici, e si ritrovò sola, affamata (perché si mangia dopo la caccia), in mezzo a un paese sconosciuto. Io spero soltanto che sia quell’adorabile creatura che ho trovato e che, non sapendo come si chiamava, ho chiamato Amalia. C’era un timbro sulla pancia, ma era l’indirizzo di uno sconosciuto, un assassino in libertà, come tanti.
Pon-pon (l’ultimo nome che gli hanno dato) ha attraversato molte realtà. È nato povero, in una famiglia numerosa, sette fratelli e, barcollando con la pancina vuota e le gambette incerte, è finito in mano a uno zingaro. In fondo non era male, gli cedeva un po’ di pane e mortadella. “Chissà dov’è adesso,” pensa Pon-pon che allora si chiamava soltanto Can. Can è finito in mano a una signora. Una signora? È troppo anche chiamarla “donna”. Quella l’ha preso, per poche lire, pensando che le guardasse la casa. Cosciente di non doversi impegnare troppo, l’ha chiamato Fido.
Fido ha trovato molto sgradevole quella casa piena di mobili finti e pensava che era meglio la roulotte dello zingaro, ma siccome un cane si deve accontentare di mangiare, aveva sentito dire, ingoiava senza protestare i resti del pranzo della padrona e il suo intestino non se ne giovava. Per non incorrere in guai, correva fuori appena si apriva la porta. Insieme a Fido è entrato un ladro che ha preso un portamonete bisunto e una pelliccia spelacchiata, ma questo modesto bottino è stato sufficiente per inseguire Fido con ogni corpo contundente.
Così è cominciata un’altra migrazione. Un cagnolino non finisce mai di sperare e lui girovago e dolente ha seguito col suo migliore sguardo supplichevole una vecchia signora che faceva la spesa. Questa volta veramente una signora.
“Cosa fai, mi segui?” Certamente. Una bella casa piccola e confortevole. Con la cameriera a ore, un po’ scura di pelle, con mani grandi che l’hanno immerso sotto gli occhi ilari della signora in un lavabo di acqua e sapone. L’aria calda che usciva da uno strano tubo ha fatto rialzare verso il cielo il pelo del cagnolino, un’esplosione setosa e mielata per lui stesso insospettabile. Tale che la vecchia signora l’ha chiamato Pon-pon.
Pon-pon adesso riscalda le ginocchia e le giornate della vecchia signora e nella sua beatitudine, un sentimento così nuovo, ha soltanto un pensiero brutto: “Non vorrei sopravviverle”.
A cosa serve la pietà
“Pronto, buongiorno, lei non mi conosce… il suo amore per gli animali però è noto…”
“Ah, beh, certo… mi fa piacere che si sappia”.
“Direi che è una regina in questo campo, noi organizziamo una manifestazione pro animali abbandonati… lei conosce molto bene il problema e so che si adopera…”
“Sì, certo, solo che ci sono tante iniziative… questa dove sarebbe? Ah, una rete privata…” ecc.
La vistosa spiegazione si dilunga per parecchi minuti e ha connotazioni simili a tante altre; se è la rete privata, c’è in genere un nome politico a convalidarla, se è in un teatro sono amici che non puoi deludere, se è qualcosa di più ufficiale… no, le grandi reti non ti contattano perché le loro promozioni umanitarie, in questo caso animalistiche, si articolano sul grande spettacolo miliardario, la grande presentatrice, il grande allevatore, la grande soubrette col suo lupo, il comico col suo serpente. Lo scopo è sempre nobile, ma la rete deve rispettare l’etica del palinsesto. Gli animali che si prestano a predicare in favore dei loro simili, in queste occasioni sudano sotto le luci e con loro l’allevatore che li sta tenendo a bada con una polpettina e una tirata di guinzaglio.
Però dopo una vita di buona condotta, viene anche un senso di noia. Perché bisogna prodursi davanti a un centinaio di persone per dire che non si devono abbandonare gli animali? A cosa può servire questo incasso più che modesto e soprattutto a chi? Non sarà un pretesto per farti fare uno spettacolo gratis? Non è meglio sbrigarsela da soli, quando si tratta di cose morali? Interrogando gli sguardi di quei cani in televisione, si raccoglie un messaggio critico: non vogliamo che i nostri diritti passino attraverso la pietà. Miei cari, ringraziamo il cielo che c’è almeno quella e la cosa non riguarda solo voi, guardatevi intorno… dite piuttosto che è veramente disturbante, e vi capisco, che la pietà, una volta accertate le ragioni dei vostri diritti, passi attraverso la TV e non attraverso il cuore – o il cervello, precisa il San Bernardo che sta colando bava ai piedi del suo accompagnatore. Lo guardo e dalla sua testona emerge il ricordo di tutti i cani con cui ho lavorato. Se dico cani, sono veri cani, e loro sono i primi a chiedersi perché la qualifica della loro specie debba essere sinonimo di cattivo attore. Loro, in genere, se sono scritturati sono bravissimi: proprio trent’anni fa ho lavorato in una commedia in cui era previsto un cane. La commedia era Luv e il cane avrebbe dovuto attaccarsi ai pantaloni di un protagonista che era Walter Chiari, nel personaggio anche lui di un randagio come il cane, sul ponte di Brooklyn. Si provava da circa un mese quando alle soglie del debutto è arrivato il cagnolino. Era un bastardino bianco e fulvo e veniva da una specie di negozio. Mi ricordo che, mentre avvenivano trattative economiche fra il suo proprietario e l’amministratore, e spiegazioni, diciamo così, artistiche fra il medesimo e il regista, il cagnolino si guardava intorno come per prendere visione della scena e dei suoi compagni. Mentre gli altri parlavano, lui aveva già stabilito la sua personale trattativa. Si era legato affettivamente con la sarta (con la quale poi convisse fino alla morte) e professionalmente con Walter col quale aveva la sua scena. Lui gli stava già facendo vedere i pantaloni di scena, una fiutatina, una corsa e il piccolo Ricki si sedette con l’aria di dire: “Tutto qui? Ho capito”. Ed era vero. Non ha mai sbagliato un colpo.
Stava felicemente in sartoria con la sua nuova amica, cordiale però con tutti, faceva la sua scena, usciva a ringraziare, ci salutava e se ne andava a casa. I due membri più professionali della compagnia. Ricordo che una sera venne un vigile del fuoco a chiedere se c’era l’autorizzazione per tenere il cane in scena. Walter mise fine alla discussione fra il pompiere e l’amministratore. “Scusi capo, l’ha visto fumare?” “Chi?” il pompiere chiese sbalordito. E Walter: “Ma… il cane” “No”. “Bene, allora è in regola. Se lo vede fumare, gli dia pure la multa”.
Ricki rientrò nel suo camerino veramente seccato.
Ho lavorato con un bassotto nel film Crimen. Il bellissimo esemplare era il cane di Silvana Mangano. Era bravo e discreto come la sua indimenticabile padrona. Non faceva pesare il fatto di arrivare solo in una bella macchina e di essere tenuto con più riguardo di noi attori. Io avevo l’ingrato ruolo di volerlo far perdere. In coppia con Nino Manfredi gli dicevamo: “Abbi pazienza, se fosse per noi… ma ti pare che si cercherebbe di seminarti o di infilarti a tradimento in un autobus… non dir niente a mamma”. Lui non si preoccupava affatto. Sapeva che dietro l’angolo c’era qualcuno a sua disposizione. Tremavo al pensiero che avrei avuto una scena in cui dovevo tentare di affogarlo. Per quelle tradizionali anomalie del cinema, la scena che prevedeva questo atto insano e anche la mia caduta in acqua mentre il cane risaliva tranquillo sul pattino, fu girata in inverno nelle acque gelide di un lago, mentre tutto il film era stato girato in una calda estate sulla Costa Azzurra. La Mangano non concesse il suo cane, un motivo in più per apprezzarla. Io mi concessi diciamo a metà, il bagno sì, ma per la nuotata, una controfigura. Venne un bassotto d’affitto e un giovanotto di professione bagnino, molto robusto, al quale furono messi a un certo punto la mia parrucca e un abitino a quadretti di alcune taglie superiori. Io e il bassotto ce la siamo cavata molto bene, ci siamo ritrovati davanti al camino di una locanda sul lago con cibo e panni caldi a raccontarci le nostre impressioni. Il giovanotto robusto prese la polmonite.
Ho lavorato con un labrador, una bellissima, grande signora tutta nera. Aveva accettato di apparire come il mio cane, padrona come me di una grande villa alle porte di Roma. Io ammiravo la sua pazienza pari alla mia nevrosi, che si manifestava pericolosamente quando sentivo dire: “Perfetto, benissimo… facciamone un’altra”.
“Ma guardate che il cane si stufa,” sbottavo in perfetta malafede e la canona mi strofinava la testa sulla gonna con uno sguardo incredibilmente espressivo. “Cosa protesti a fare… lo sai com’è il cinema”. Io peggioro nelle scene ripetute, soprattutto se so con sicurezza che si ripetono per faccende soltanto tecniche. Lei era sempre perfetta. Speravo che mordesse qualcuno: “Oh, qualche volta lo fa,” mi disse la sua padrona, “ma non quando lavora”. Il contrario di me.
Ho lavorato recentemente per la televisione con un piccolo pincher. Si chiama Mandarino. Lo dovevamo chiamare col nome di un vento, non ricordo quale. Il piccoletto non mi ha dato molto spago. Non ci siamo neanche accorti di come lui ha memorizzato la sua parte. Al momento di occuparsi finalmente di lui, la solerte aiuto-regista ha dovuto riconoscere che lui sapeva già perfettamente il suo percorso, non teneva in alcun conto il nome d’arte, la parte la sapeva per altre vie mentali, ma mi sembrava anche che non gliene importasse niente della mia premura di piacergli e di chiamarlo col suo vero nome.
Era lì per lavorare e non ci amava, aspettava la fine della scena per ritirarsi nel suo trasportino, mangiava solo i cibi suoi e guardava senza simpatia i bambini di scena sommersi dalle premure e dai panini di mamme interessate. Mandarino mi è rimasto in mente come si ricorda una persona seria della quale si pensa: “Avrei voluto conoscerlo meglio”.
Il paradiso degli animali
Il paradiso degli animali ha una caratteristica di proporzioni non indifferenti. Non ha alternative, non sovrasta con la sua luce un inferno o un purgatorio. È una meta unica. Perché tutti gli animali vanno in paradiso. Non c’è stato nemmeno bisogno di un patto col diavolo. Anche lui si è inchinato reverente a questa fatalità. Come compensare quella sterminata legione per una vita così precaria? Con una felice eternità. Chi ha predisposto il loro destino terreno (e sappiamo chi) non è stato generoso. Vita breve, per i più longevi come gli elefanti una proboscide per fare tutto, rughe fin dalla nascita e un peso imbarazzante da portarsi dietro. Istinti che vanno spesso contro la loro fondamentale bontà. Quindi non sarebbero punibili. Eppure la punizione per colpe del tutto naturali è pari alle punizioni rapide e inconsulte per schiere di innocenti. È pur vero che la natura, di nascosto al creatore, ha dotato gli animali di una grande dignità. Dignità nell’abbandono, dignità nei bisogni corporei, dignità nella maternità, dignità nella morte. Un animale non dà mai i numeri, come si dice in gergo umano. Chi non tradisce la sua presenza sulla terra merita il premio. E sarà il paradiso. Nel paradiso degli animali non mette piede alcun custode che non sia fornito di quattro zampe, non quattro arti, quattro zampe. È un prato sconfinato, forse. Chi ha avuto uno o più animali, li ha amati (perché c’è anche qualcuno che li ha e non li ama, vale a dire che pensa di avere in casa semplicemente un animale e cioè quasi un oggetto), fantastica con piacere sulla vita ultraterrena dei suoi amici. Non è difficile immaginare quello stemperarsi di innocenza nell’eternità. In fondo gli uomini hanno sempre immaginato il trapasso come un evento che non comporta la perdita del corpo. È inimmaginabile per la mente umana negare un aspetto fisico allo spirito. Figuriamoci per gli animali che hanno goduto così brevemente delle loro pellicce, dei loro sensi acuiti dallo spasimo della mancanza di parola, del loro fiuto premonitore. La nostra immaginazione si sbizzarrisce nel vederli integri e ringiovaniti correre in quel verde infinito. Vedo Camilla che chiacchiera con le galline e le galline hanno molto da raccontare sul genere umano, Agata gioca con una vecchia tigre, il mio dolce Arturo è un beniamino della comunità, Tamberla, quell’afgano così lungo e distratto, corre con le giraffe senza più l’angoscia di ritrovare la strada di casa, i piccoli King Charles hanno ritrovato i loro antenati regali, la loro è un’autentica corte sopra una nuvola un po’ appartata, ecco la grande Taramà, è appena arrivata e tutti le corrono incontro, la sua vita è stata lunga, quante cose da raccontare, ma forse al mio Carlotto che l’ascolta non dispiace di aver vissuto solo tre anni, qui c’è tanta libertà. Questo fantasioso gioco di memoria appaga il nostro bisogno di non pensarli finiti, un po’ per amore, un po’ per un vago senso di colpa.
Tutte le creature amate che ci hanno lasciato si sono portate con sé un nostro vago senso di colpa e per questo abbiamo immaginato il paradiso. Il paradiso dovrebbe appianare il nostro inferno e finché si è vivi un po’ d’inferno si sopporta, è forse una piccola garanzia per la pace eterna. Ma il paradiso degli animali non ha connotazioni taumaturgiche, quelle povere piccole anime non erano preparate a rispondere ad alcun ente supremo, solo al loro padrone, chi l’ha avuto. Per gli altri, al sole, al vento, alla pioggia e anche alle fucilate. La mirabile costruzione dantesca non li riguarda, anche se una gran parte di loro è fornita di ali come gli angeli e i cherubini. Credo che gli animali, finalmente liberi di disporre di se stessi, abbiano organizzato la loro vita eterna come avrebbero voluto vivere quella breve stagione sulla terra. Nessuna creatura vivente ama la libertà come l’animale, anche il ragno che tesse imperterrito la sua tela sotto gli occhi minacciosi che preparano la sua distruzione. Può essere che gli animali, al di là delle nostre fantasie, abbiano disposto gerarchie nella loro sfera eterna, perché il mondo animale va dall’insetto all’elefante, e l’insetto, già schiacciato sulla terra, finirebbe per essere schiacciato anche nell’aldilà. Una gerarchia è un’oscura parola che non appartiene all’innocenza; meglio un ordine. La libertà per l’uomo è una complicazione. Comporta cultura, idee, amore, speranza. Per l’animale è la sua natura. L’animale che sembra meno libero è il cane che ama il padrone. Ma è una scelta. È libero di amarlo, non ha dubbi, né ripensamenti. Vive una libera soggezione. Continuerà ad amarlo anche in paradiso, mentre gode disteso di una luce immutabile. “Hai amato un uomo?” chiedono increduli quelli che hanno conosciuto solo foreste, carestie, gabbie, fruste. “Sì, ma l’avevo deciso io. Se lo meritava poveretto, non aveva che me”.
Il paradiso degli animali non è forse una fantasia, perché non è una fantasia che l’animale abbia un’anima. Lui esprime gioia per le carezze che gli vengono fatte, paura per la morte che gli viene minacciata, pazienza per i lunghi inevitabili martiri. Soltanto l’uomo ha stabilito che il maiale debba vivere in mezzo al marciume per essere ucciso, la sua rosea pinguedine dovrà trovare non una redenzione, ma un compenso. Perché lui ha sofferto, ha capito di essere tradito. È questa la differenza. Da quali colpe deve essere redento un animale? Gli occhi sbarrati dei bovini che ci passano accanto ammassati in un tir ci dicono il dolore e la paura, a me rovinano una gita, ma è troppo poco. Le religioni che guidano e inquietano lo spirito degli uomini hanno accantonato e spesso negato quello degli animali. Certo per dar modo al loro beniamino di servirsi di loro in piena coscienza. Ma l’anima non è mortale e quella degli animali cerca la sua pace in quello che per tutti si chiama il paradiso.