16
Un mese dopo
— Ci occorre un alleato.
La voce stentorea del conte fermò la mano di suo genero a mezz’aria, sorprendendolo nell’atto di portarsi alle labbra il calice di vino. Con una smorfia, Aimery ripose la coppa senza più toccarla, la bocca improvvisamente pervasa da un senso di disgusto.
Il vecchio era tornato.
Fermo sulla soglia del grande salone, con ancora addosso la polvere e la fatica del viaggio che da Londra lo aveva riportato a Gaskell Manor, lord Seraphin sembrava un sovrano giunto a reclamare il proprio regno.
Aimery serrò la mascella, alzandosi rispettosamente in piedi.
Fece scivolare lo sguardo alle spalle del suocero, dove la sagoma massiccia del capitano Jonas si stagliava come un’ombra nera. Quel braccio che il Drago di Kingsden gli aveva slogato era adesso posato con naturalezza sull’elsa della spada, come se insieme a quella ferita sia il conte sia il mercenario avessero voluto dimenticare ogni recente disavventura.
A dare la misura del potere di un signore era la forza delle spade pronte al suo comando, e Seraphin poteva vantarne di bene affilate, esperte e spietate.
Aimery serrò la mascella, rammaricandosi per l’ennesima volta che l’ingaggio offerto al vincitore della Grande Mischia fosse stato rifiutato.
“Mi servono uomini che siano fedeli a me solo, dalla fama di grandi guerrieri, temuti e imbattibili” pensò. “Mi serve un potere che sia soltanto mio, altrimenti continuerò a essere una stella che aspetta il tramonto del sole, e la notte di Seraphin sembra non arrivare mai.”
Pensò a Rosalyn, che si era ritirata presto nelle sue stanze, come faceva ormai ogni sera.
Con un broncio annoiato la sua insopportabile e irresistibile sposa si lagnava ancora della partenza di Jamie Lamartes e del suo amico bardo, dicendo che la musica, la cortesia e l’arguzia avevano lasciato il maniero insieme a loro.
“Starà scrivendo come sempre a quella finta monaca della sua amica” immaginò Aimery con una punta di irritazione.
L’aveva lasciato attonito sapere che Arabelle Moore, quella ragazzina silenziosa e senza patrimonio, fosse riuscita a ottenere tutto: la riconoscenza del re, un castello, delle terre e le nozze con Bryan Fitzlance.
Rosalyn era estasiata dagli straordinari successi della sua amica, neanche fossero stati suoi, ripromettendosi che i loro rispettivi figli crescessero insieme, come scudieri dello stesso cavaliere oppure educande nel medesimo convento.
Lord Seraphin attraversò il salone con il passo sicuro di chi finalmente è tornato a casa, e quel ritorno segnava anche l’inevitabile conclusione delle giornate dorate vissute da Aimery fino a quel momento. Si era goduto Gaskell Manor come se ne fosse stato l’unico signore, tra battute di caccia e lunghe cavalcate, le notti scaldate dalla vivace passione di Rosalyn.
Adesso che aveva assaggiato il vino del potere, era difficile prenderne la brocca solo per riempire la coppa di un altro.
Il conte raggiunse il suo posto, a capo di una tavola apparecchiata con arrosti e pagnotte calde. Il capitano Jonas andò a sedersi vicino al braciere acceso, mentre i suoi uomini occupavano la sala unendosi alle altre guardie per una partita a dadi. Aimery colse la tensione tra gli armigeri di Gaskell, alla vista di quei mercenari che si mescolavano tra loro come lucci voraci tra i piccoli pesci di uno stagno. Anche i cani brontolarono sordamente, sollevando le zanne dagli ossi che stavano spolpando.
Ma quando Seraphin sedette sul suo scanno sembrò quasi che il tempo ricominciasse a scorrere, tra l’indaffarato andirivieni di paggi e fantesche, che portavano in tavola boccali e vassoi, e le puntate al gioco dei soldati.
— Bentornato, mio signore — disse Aimery, infilzando con il suo pugnale il pezzo di carne migliore per porgerlo al suocero.
Seraphin gli lanciò un’occhiata penetrante e il genero si chiese fino a che punto sapesse leggere dentro di lui. Se pure avesse visto fino in fondo alle sue ambizioni, sapeva che non se ne sarebbe adontato: al contrario, era più probabile provasse orgoglio e compiacimento.
Così resse il suo sguardo, fissandolo a propria volta alla ricerca di qualche segno di stanchezza o cedimento in quel volto che sembrava una vecchia maschera di granito.
Non ne trovò, ammise tra sé con lieve inquietudine.
— Ti sei rammollito, Aimery — sentenziò Seraphin.
Il giovane sussultò, punto sul vivo.
— Ah, tu non capisci? Questo è grave, figlio mio, perché fascino e cervello sono le tue uniche ricchezze: perdi l’uno o l’altro e giuro sulla tomba di mio fratello che troverò un modo per mozzarti le mani prima che tu possa allungarle sulla dote di Rosalyn.
Aimery deglutì, sforzandosi di sorridere.
— Deduco che il vostro viaggio a Londra non sia stato profittevole come ci auguravamo.
Seraphin trasse un respiro profondo, appoggiandosi allo schienale e chiudendo per un momento gli occhi.
Aimery si chiese se il vecchio stesse enumerando tra sé i fallimenti inanellati negli ultimi tempi, uno dopo l’altro.
Le casse del feudo erano vuote e il loro principale creditore era ancora vivo e difficilmente raggiungibile: dopo essere fuggito Aronne il giudeo non aveva fatto ritorno a Lincoln e nessuno sapeva dove si trovasse. Nessuno, ovviamente, che non fosse ebreo.
Il Plantageneto non aveva mostrato particolare compiacimento per come i St Etienne si erano presi cura di suo figlio Geoffrey, e il dono che Seraphin aveva preparato per lui, la più bella fanciulla del Regno, a detta di chi aveva avuto la fortuna di vederla, l’aveva pubblicamente umiliato, scivolandogli dalle dita per rifugiarsi tra le braccia del Drago di Kingsden.
Aimery avrebbe quasi potuto riderne, se la sfortuna dei St Etienne non fosse ormai diventata indissolubilmente anche la propria.
— Ti è piaciuto essere il signore del feudo in mia assenza, figliolo? — gli domandò Seraphin d’un tratto, facendo cenno alla coppiera di riempirgli il calice. — Sì, ho saputo delle tue prodezze da giovane signore: queste terre non conoscevano un lord tanto vigoroso dai tempi delle scorribande di mio fratello.
Aimery si tese, riconoscendo nel tono del suocero un velo di accusa.
— Badate, signore, non tollero mancanze di rispetto neanche da voi — lo avvertì, facendo per alzarsi in piedi, ma la mano forte del capitano Jonas lo trattenne, posandosi minacciosamente sulla sua spalla.
Sorpreso, Aimery mise mano alla spada, ma ancora il mercenario lo anticipò afferrando l’elsa e impedendogli di sguainarla.
Le guardie nella sala scattarono in piedi, due fronti che si guardarono in cagnesco.
Aimery provò quasi un brivido di piacere all’idea di uomini pronti a battersi in suo nome, ma bastò un cenno del vecchio conte per sedare gli animi e fargli comprendere quanto fosse effimero il suo potere.
— Siedi, figlio mio, e parliamo — disse, mentre il suo capitano si allontanava. — Mi credi davvero così meschino da risentirmi perché hai cacciato nei miei boschi e amministrato la giustizia in mia vece? No, niente affatto. Goditi la tua giovane età e cerca solo di non seminare troppi bastardi.
Aimery sorrise, mentre l’ira lasciava il posto a quella disinvolta, vellutata indolenza che aveva fatto la sua fortuna a corte.
— Signore, sopravvalutate le mie forze: vostra figlia non mi lascia energie da dedicare ad altre donne.
— Rosalyn non è stupida. Si diverte come una bambina che gioca a fare la principessa, ma non commettere mai l’errore di crederla una sciocca. Capricciosa senza dubbio, ma non fatua. Continuerà ad attrarti nel suo letto e a sfiancarti finché non le avrai messo il tuo erede in pancia.
— Ho tutta l’intenzione di renderla presto madre — rispose Aimery a denti stretti.
Seraphin annuì.
— Questo è un bene — approvò il conte. — Il nostro albero ha bisogno di nuovi virgulti. Nel frattempo come bravi giardinieri, dobbiamo preparare il terreno a quei futuri germogli. Siamo stati spinti ai margini! — concluse con voce tesa, conficcando con rabbia la lama del suo pugnale nel ripiano della tavola.
Aimery sussultò, corrucciandosi come di fronte a un infausto presagio.
Se il suo gelido e sempre controllato suocero arrivava ad atti di quel genere, voleva dire che la loro situazione era critica.
— Cosa volete dire? — chiese a bassa voce, appoggiandosi alla tavola.
— Quello che ho detto. Come hai intuito, il mio viaggio a Londra non è stato fortunato quanto speravamo. Non sono riuscito a incontrare il re... e la regina non vuole ricevermi.
Aimery sospirò, scoccandogli un’occhiata di biasimo.
— Forse alla nostra signora è giunta voce della rosellina che volevate mettere nel letto del suo sposo. Eleonora è una donna di immenso fascino, ma pur sempre dieci anni più vecchia di suo marito. Credo che questo la renda assai suscettibile al pensiero di una rivale.
— Per questo sarai tu a partire per Londra. Tornerai a corte e farai i nostri interessi. Richiama a te quel ragazzo, il giovane Lamartes: ha un occhio straordinariamente acuto nel dipingere il quadro di ogni situazione.
Aimery sorrise: la prospettiva di tornare accanto al suo signore e di fare ciò che gli riusciva meglio, l’ambasciatore, il diplomatico, il seduttore di uomini e donne, gli infondeva un senso di euforia.
— Sta bene — acconsentì, facendo per alzarsi in piedi, ma il suocero lo trattenne ancora.
— Non è tutto — lo avvertì. — Hai sentito ciò che ho detto entrando in questa sala? Ci serve un alleato.
Aimery si accigliò.
— Non siamo più in guerra, mio signore, e la danza delle alleanze ha cambiato il suo campo d’azione: dalle armi all’alcova. Avete un’unica figlia ed è già sposata. Qualche graziosa nipote? Una pupilla? Quale mercanzia avete da gettare sul banco del commercio matrimoniale?
— Nulla di spendibile, ormai — mormorò Seraphin, accarezzando il calice e parlando come tra sé e sé. Rialzò la testa, fissando il genero negli occhi. — Ma a questo, figlio mio, contribuirai tu.
Aimery si tese.
— Volete già impegnare i figli che io e Rosalyn genereremo? Non è insolito, ma sono contrario: lo trovo di pessimo auspicio. Come già vi ho detto, non si scommette mai con la vita di un bambino.
— Lord De Lacroix è superstizioso! — lo derise Seraphin con una smorfia ironica. — Non temere, non l’ho dimenticato. Mi riferivo a qualcos’altro: hai ancora una parente. Vive sotto il mio tetto, mangia il mio cibo e tesse insieme alle mie fantesche.
Aimery sbatté le palpebre, fissandolo con incredulità.
— State parlando di Sarah?
Il conte sorrise.
— Perché no? È una donna libera, virtuosa e anche avvenente.
— È sterile! — affermò Aimery alzando la voce. Seraphin inarcò un sopracciglio e il genero deglutì, ritrovando il controllo. — È sterile — ripeté con più calma. — È stata sposata per dieci anni e non ha mai concepito.
— Non mi risulta che lord Ravency abbia avuto figli con altre donne, e dunque come possiamo davvero pronunciarci sulle capacità di quella puledra? Forse era lo stallone ad avere problemi con la monta e lei era semplicemente una sposa fedele.
Aimery distolse lo sguardo, a disagio nel sentir parlare della cugina in tali termini. Preferiva pensare a lei come alla creatura pura e intatta della sua infanzia, che lo aveva ricoperto delle attenzioni e dell’affetto che sua madre, l’algida lady De Lacroix, non gli aveva mai prestato.
— Le sei molto legato, e agli occhi di un promesso sposo questo vostro affetto consolida una parentela in fin dei conti non tanto stretta. Sarebbe stato meglio che fosse tua sorella, ma una cugina è tutto ciò che abbiamo, e vedremo di farcela bastare.
— Dunque volete che si sposi? — concluse Aimery articolando a fatica ogni parola.
Seraphin lo studiò con attenzione.
— Sembra che questa prospettiva ti turbi. Devo dedurne che la gelosia di Rosalyn non fosse poi la fantasia di una ragazzina insicura? Come ho detto, mia figlia non è una stupida.
Aimery rabbrividì, perché quello che suo suocero insinuava gli sembrava sacrilego come un incesto.
— Ho giurato che avrei avuto cura di lei, che l’avrei protetta come sangue del mio sangue. Mi chiedo se un nuovo matrimonio la renderebbe felice. Mi chiedo se...
— La felicità di lady Ravency non è sulla lista delle nostre priorità — lo interruppe Seraphin in tono pragmatico. — E poi credi che una donna nelle sue condizioni possa contare su un ventaglio di partiti? Provvidenzialmente a Londra mi si è presentata l’occasione per stringere gli accordi del caso. Un barone su al nord è morto da poco, e l’uomo di fiducia del nuovo signore era a corte per cercargli una sposa.
— Avete deciso senza consultarmi? — sibilò Aimery cupo in volto, controllando a stento la rabbia.
Seraphin allontanò bruscamente il calice davanti a sé e il vino si rovesciò, macchiando la tavola come scure gocce di sangue. Si appoggiò al bracciolo dello scanno per incontrare lo sguardo del genero: i suoi occhi trafissero quelli di Aimery come dardi.
— Sei ancora nelle grazie del Plantageneto e farai bene a restarci, ma sappiamo entrambi che la simpatia di un sovrano è più mutevole del cielo di marzo. Hai avuto mia figlia, la sua dote e nozze che saranno ricordate nelle cronache. Un giorno avrai le mie terre e il mio titolo. Credevi che fosse tutto gratuito? Che bastasse il tuo fascino e qualche guizzo d’ingegno? Piaci a Rosalyn, ma se avessi semplicemente voluto l’allegria di mia figlia le avrei comprato un giullare, non un marito. — Seraphin parlava, senza un sorriso, senza scherzare. I lumi sulla tavola rendevano i suoi capelli rossi simili a lingue di fuoco, spolverate dalla cenere dell’età. — Adesso, giovane normanno, è giunto il momento di cominciare a pagare.
Aimery tacque per qualche istante, prima di allungare la mano sul tavolo, un movimento che Seraphin studiò con curiosità, quasi aspettandosi di vederlo afferrare il pugnale.
Invece prese il calice, fissando il vino come si diceva che facessero i Celti per leggere il futuro.
— Credo che Sarah potrà trovare vera gioia in un nuovo matrimonio. Sarà felice di tornare a essere ciò che è sempre stata: la signora di un castello. In verità Ravency era troppo vecchio per lei, invece questo barone...
— Rothford — disse il conte. Un nome dal suono duro tipico degli antichi Sassoni. Ad Aimery suggeriva la neve e il ferro delle montagne. Uomini temprati come le armi che impugnavano. Quel matrimonio avrebbe procurato loro nuovi guerrieri e un sicuro commercio con il nord.
— Rothford — ripeté Aimery con una smorfia, come se quel nome puzzasse già di armenti. — Un barone di pastori. Almeno potrò dire a mia cugina che sposa un giovane, questa volta?
Seraphin annuì.
— Lord Hedrick Rothford ha meno di trent’anni. Le esequie di suo nonno gli hanno impedito di partecipare al nostro torneo.
Aimery sospirò, portandosi il calice alle labbra. Bevve il vino, cercando di assaporare il gusto di tutto ciò che un giorno sarebbe stato suo.
— Immagino che Sarah sarà contenta. Dopotutto, una donna come lei può essere solo una moglie o una monaca. E chi mai sceglierebbe il convento? Non lady Arabelle, non Jamie Lamartes... e neppure voi, mio caro padre.
Seraphin socchiuse gli occhi, percorsi da un bagliore quasi metallico.
— Io non ho mai scelto nulla. Ho solo e sempre fatto ciò che sono stato chiamato a fare.
— È proprio vero ciò che dicono le mie donne: lady Ravency fila con una tale abilità che il suo arcolaio prende lana e restituisce oro.
La voce di Rosalyn raggiunse Sarah oltre il ritmico lavorio del pedale, dell’arco e del rocchetto: lo strumento a cui sedeva ogni giorno per ore, ma senza neppure vederlo.
I raggi in legno ruotavano veloci e lei, guardandoli, si ricordava di respirare, di porgere il filo per la torcitura, sforzandosi di non pensare, di dimenticare. Senza riuscirci.
I suoi occhi erano sempre asciutti e la sua mano ferma.
Era tornata a vestire il nero del lutto, nascondendo i capelli sotto il velo.
Dalla notte in cui Christian l’aveva lasciata, dal desiderio che aveva espresso allontanandolo, Sarah non aveva più pianto.
Non aveva più neppure sfiorato le rose che lui le aveva donato, dall’alba della loro prima volta insieme. Ma sapeva sempre dove fossero quei fiori: tra le pagine del suo bene più prezioso. La sera, prima di coricarsi, prendeva il libro tra le mani, ma fino ad allora era stata così brava da resistere alla tentazione di aprirlo e sfregarsi contro la guancia i petali che si erano seccati.
Avvertiva la sua assenza intensamente come aveva sempre sentito la sua presenza.
“Ha colmato un vuoto che non sapevo di avere” ammise tra sé.
Ma alla fine Christian se n’era andato, come aveva annunciato fin dall’inizio: facendola disperare e facendosi odiare. Ma quell’odio era durato poco. Una tristezza intensa era sbocciata in lei come un fiore velenoso, le radici attecchite tra i frammenti del suo cuore spezzato.
A volte riusciva a non pensare a lui. Poi, però, sussultava, ascoltando il silenzio.
Non c’era mai stato silenzio quando Christian era a Gaskell Manor.
C’erano state la musica, le canzoni intonate dalla sua voce roca e magnifica, che sotto la pelle le insinuavano mille brividi. C’erano stati risate, ansiti, gemiti, confidenze, segreti sussurrati, grida di piacere e frasi dal suono esotico e dal significato incomprensibile, parole come formule magiche.
Non era più stata lady Ravency, ma solo Sarah.
Era stata la sua qamar, anche se non aveva mai saputo cosa volesse dire.
Un paggio arpeggiò una delle melodie che Christian aveva saputo far piangere al suo liuto: le note erano lacrime che Sarah sentì salirle in gola, minacciando di soffocarla.
Così si sedeva e filava dall’alba al tramonto senza fermarsi mai, cullata dal lamentoso frinire dell’arcolaio.
Anche adesso che Rosalyn si era avvicinata, vestita dell’oro e del rosso che la rendevano simile a uno spirito del fuoco, Sarah continuava a muovere il pedale e torcere il filo che si avvolgeva intorno al rocchetto. L’arco girava e girava. Le sembrava l’unico segno del tempo che scorreva: quello e le matasse che andavano a formarsi una dopo l’altra, raccolte in un cestino che si riempiva e si svuotava di continuo.
L’estate era alle porte: l’aria era più calda e più fragrante, le giornate più luminose e lunghe.
Sarah sedeva con le spalle alla finestra e dentro di sé sentiva un gran freddo.
— Le mie donne dicono che sembrate vittima di un incantesimo — aggiunse Rosalyn, passeggiando intorno a lei e scrutandola con attenzione. — E io continuo a dire che sia un gran peccato che mastro Christian abbia rifiutato di restare al mio servizio: avrebbe saputo comporre una canzone sulla vostra malinconia. La bella vedova che tesse la lana in fili preziosi, finché un nobile cavaliere non spezzerà il sortilegio della sua tristezza! — fantasticò romanticamente la giovane dama. — Sarebbe una bella favola, non credete, cugina?
Sarah le sorrise tristemente.
Nella sua favola il protagonista non era stato un cavaliere, ma un genio. Un jinn, si corresse, e il ricordo di Christian che le sussurrava all’orecchio quella parola fece battere più forte il suo cuore.
— Sono troppo vecchia per le favole.
Rosalyn si imbronciò, lasciando andare il tessuto pesante del suo bel vestito per afferrarle imperiosamente le mani.
Sussultando Sarah perse il filo e tolse il piede dal pedale.
— Vi siete rovinata le dita lavorando senza fermarvi mai! — constatò Rosalyn esasperata. — Non mangiate quasi niente e siete pallida come una morta. Avete deciso di ammalarvi? Vostro marito vi manca al punto che siete determinata a raggiungerlo nella tomba?
Sarah abbassò lo sguardo, un gesto che la giovane dama interpretò come pudore, ma che era di vergogna.
L’accorato rimprovero di Rosalyn la costringeva a guardarsi con occhi nuovi e a stupirsi di ciò che era diventata: apatica, inappetente, silenziosa e smagrita.
Un fantasma che si consumava, ripetendo ogni giorno gli stessi gesti.
“Se solo Rosalyn sapesse chi è che mi manca e a chi penso... Lord Ravency capirebbe, ma sarebbe l’unico.”
Rosalyn sospirò, le labbra strette in una smorfia, pensierosa come se stesse riflettendo su cosa dire.
— Arabelle si è sposata, avete saputo? Con sir Bryan Fitzlance! Sono davvero felice per la mia amica. E poi quel cavaliere aveva un modo di guardarla... come una tigre affamata.
Sarah annuì, raccogliendosi compostamente le mani in grembo.
— Sono certa che lady Arabelle sarà felice. Con lo sposo giusto una donna può trovare nel matrimonio grande gioia e serenità.
Un breve applauso seguì alle sue parole.
— Mi compiaccio, cugina — disse Aimery, posandosi le mani sui fianchi e attraversando la stanza della filatura in poche falcate.
Rosalyn gli andò incontro con la schiena dritta e il mento alto, come una regina che accoglie il suo re. Passò le braccia intorno al collo del marito, attirandolo a sé e baciandolo sfacciatamente sulla bocca.
Sarah rise piano, divertita dall’impetuosità della fanciulla e dall’imbarazzo contegnoso di Aimery. Poi pensò a Christian e ai tre desideri che le aveva concesso. Si chiese cosa sarebbe accaduto tra loro se lei avesse avuto il temperamento imperioso di Rosalyn: non avrebbe espresso desideri, ma strillato ordini.
Non gli avrebbe detto di andarsene per non essere distrutta, ma gli avrebbe ordinato di restare o lo avrebbe distrutto lei.
“E Christian se ne sarebbe infischiato, perché non era, non è e non sarà mai un uomo da accettare imposizioni. Quel gioco gli era venuto a noia. Io gli ero venuta a noia. Se gli avessi chiesto di restare ancora, sarebbe rimasto un altro giorno, forse altri due; poi sarebbe scomparso senza dirmi nulla, come uno sbuffo di fumo da una lampada magica.”
Con un sospiro Sarah fece per tornare al suo arcolaio, ma Aimery la trattenne.
— Dolce cugina, vorrei parlarti.
Sarah gli sorrise. L’affetto che provava per lui si era rivelato come un dono a sorpresa: lo aveva creduto amore, scoprendo invece un altro sentimento non meno intenso, ma diverso. Era un affetto che racchiudeva tutti i ricordi della sua infanzia e una fiducia incondizionata.
Rosalyn uscì, lasciandoli soli in quella camera che era il vero cuore del castello, perché là ogni giorno si radunavano le donne di Gaskell Manor.
Tessevano le vesti per l’anno a venire, e insieme alla lana filavano anche il destino di chi viveva tra quelle alte mura.
Come diceva l’antico adagio, il lord comandava sul feudo, ma la lady comandava sul lord.
Tuttavia l’unica donna a cui il conte Seraphin sembrava disposto a inchinarsi era la Santa Vergine.
“Gaskell Manor è rimasto a lungo senza la sua signora e Rosalyn è ancora così giovane...” pensò Sarah.
— Cosa vuoi dirmi, Aimery? — lo incoraggiò, notando il suo nervosismo: aveva il volto teso e continuava a passarsi la mano tra i bei riccioli castani: un’abitudine che si portava dietro fin da bambino.
— Sono preoccupato per te.
Sarah sospirò, sentendosi stringere il cuore.
— Prima la tua sposa... ora tu. Finirete per viziare questa vecchia signora! — lo ammonì scherzosamente.
— Tu non sei vecchia — obiettò Aimery. — Sei una donna speciale, ricca di talenti. Conosci il governo della casa, sai occuparti con grazia di tutti, siano servi, mercanti, preti o aristocratici. Sei una signora, Sarah. Lo sei sempre stata.
Quelle parole, che fino a un mese prima l’avrebbero fatta emozionare, questa volta le ispirarono soltanto un sommesso senso di conforto.
— Sei un adulatore, Aimery.
— Sono solo sincero, e sono stato troppo a lungo cieco.
Lei lo guardò sorpreso.
— Cieco?
— Ed egoista — aggiunse lui con un sospiro. — Non avrei dovuto trattarti come ho fatto: modellando la tua vita a seconda dei miei bisogni. Sei sempre stata troppo indulgente con me, cugina, e io ne ho approfittato. Non ho pensato al tuo bene come avrei dovuto.
Sarah scosse il capo risoluta, alzandosi in piedi e correndo ad abbracciarlo.
— Tu sei la mia famiglia! — gli ricordò, prendendogli il volto tra le mani. — Sei stato il mio bambino e il cavaliere da sogno che è apparso alla soglia dei Ravency, illuminando un giorno triste. Non hai mai mancato nel darmi il tuo affetto.
Aimery le prese le mani, trattenendole nelle proprie.
— Ma se avessi pensato al tuo bene, al tuo futuro, adesso non saresti così: triste e rassegnata. La tua vita non è finita, sei ancora giovane e più bella di quanto io abbia mai voluto ammettere... e non mi piace immaginare come possono vederti gli uomini, ma non devo continuare a essere cieco ed egoista.
Sarah arretrò di un passo liberandosi dalla sua stretta pervasa da un nefasto presentimento.
— Cosa vuoi dirmi, cugino? Mi stai mandando via? — gli domandò con un filo di voce.
— Potresti essere la signora di un castello e... — cominciò Aimery, ma lei lo interruppe con un singulto atterrito. Un altro viaggio? Altre nozze? Un altro estraneo da sposare? Si sentì girare la testa e d’un tratto le sembrò di avere di nuovo tredici anni.
— No, non voglio! — gridò sconvolta, prendendosi la testa tra le mani e dominando a stento l’impulso improvviso di vomitare.
Aimery la fissò sconcertato.
— Sarah, io non capisco... ma davvero vorresti restare per sempre a Gaskell Manor?
Lei sbarrò gli occhi, percorsa da un brivido gelido.
Come Rosalyn l’aveva costretta a guardare il suo attuale presente, così Aimery adesso la obbligava a riflettere su un futuro di cui, semplicemente, si era dimenticata.
Le venne quasi da ridere, pensando che, dopotutto, le fantesche non sbagliavano nel crederla vittima di un sortilegio: Christian l’aveva stregata al punto di farle pensare unicamente al tempo che avevano trascorso insieme. Lui se n’era andato, ma tutto di quel luogo glielo ricordava: la stanza dove dormiva, la lampada a olio che accendeva la sera, il fiorire delle rose, le braci nel camino, ogni anfratto, ogni scala, ogni arazzo che la portava a chiedersi quali segreti si nascondessero dietro un drappeggio.
Come aveva giurato a se stessa, non aveva più pianto per lui, ma per lui stava smettendo di vivere.
Fece un respiro profondo, ricordandosi che non aveva più tredici anni e non era più una bambina da molto tempo.
Era una donna, e la vita continuava.
E la vita di una donna poteva continuare soltanto con il monastero o con il matrimonio.
Più calma e di nuovo padrona di sé, si raccolse le mani in grembo, incontrando serenamente lo sguardo di Aimery.
— Un matrimonio? Dunque è di questo che sei venuto a parlarmi? Desideri che mi sposi?
— Tu sei nata per essere una castellana, cugina. Hai tanto da offrire a un uomo.
Le labbra di Sarah si incresparono in una piega amara, pensando all’uomo a cui avrebbe offerto tutto di se stessa e che di sé, invece, non aveva voluto concederle nulla.
“Sarà in altre piazze, ad altre corti, a incantare un nuovo pubblico, a suonare per altri potenti, a sedurre un’altra donna, che si innamorerà follemente di lui solo per essere lasciata... o forse con lei resterà. Con lei avrà dei figli. La chiamerà qamar, le dirà cosa significa e le rivelerà anche il nome di sua madre.”
Sarah deglutì.
— E immagino, caro cugino, che tu sappia già chi potrebbe essere quest’uomo.
Aimery annuì.
— Il barone Hedrick Rothford.
Sarah respirò profondamente.
Udire il nome del suo futuro sposo non le aveva suscitato niente, ma non aveva più l’età per le paure dell’infanzia, né per i sogni a occhi aperti.
Il tempo delle favole era finito.
Forse un marito e un castello lontano avrebbero restituito un senso alla sua vita. Le avrebbero dato qualcos’altro a cui pensare e nuovi ricordi da costruire.
Stendendo le cocche dell’abito, si piegò in una riverenza.
Aimery sembrò interdetto da quell’improvvisa accettazione.
— Sono felice che vediamo le cose nello stesso modo — le disse schiarendosi la voce. — Non desideri chiedermi nulla del tuo promesso? Dove si trova esattamente la sua terra o che aspetto abbia? Questa volta è un giovane avvenente.
Sarah annuì, intenerita dalla premura del cugino.
— Sono certa che lord Rothford sia il migliore degli uomini. Se così non fosse, non lo avresti scelto per me.
Aimery non rispose, guardandola con un’intensità che la commosse.
— Non potrò accompagnarti, cugina. Devo partire per Londra: gravi affari reclamano la mia presenza.
— Non angustiarti per questo. Sono una donna adulta, non una vergine che devi condurre all’altare.
Aimery le sorrise. Chinandosi verso di lei le diede un bacio.
Tempo dopo Sarah avrebbe ripensato a quel momento con il cugino, ricordando con straordinaria chiarezza soprattutto il bacio che le aveva dato: le sue labbra calde di uomo che le si posavano sulla guancia, indugiando alcuni attimi prima di ritrarsi.
Con un bacio Giuda Iscariota aveva accompagnato il suo tradimento.
17
Nella sala conviviale di Kingsden la voce di lord Benjamin si levò come inasprita da una brutta sorpresa.
— Hedrick Rothford?
Jamie alzò lo sguardo dalla missiva dove aveva letto delle nozze imminenti di lady Sarah, e che recava anche l’ordine di mettersi immediatamente in viaggio.
Avvicinò la pergamena alla fiamma di una candela. Il foglio prese fuoco, accartocciandosi.
Jamie aprì le dita, lasciandolo cadere in una ciotola di terracotta, dove terminò di consumarsi.
Bruciare la corrispondenza era stato un insegnamento di suo padre, la donnola rossa: uno dei pochi che Jamie aveva scelto di seguire. E comunque, quando leggeva un testo, ogni parola gli restava nella memoria come se fosse stata impressa a fuoco.
Nell’aria si sciolsero alcuni arpeggi.
Christian suonava il liuto accompagnando con la musica la danza delle fiamme tra gli alari del camino.
Le novità di Gaskell Manor sembravano lasciarlo indifferente: il ritorno di Aimery De Lacroix a corte, l’eloquente silenzio riguardo gli esiti del soggiorno londinese del conte Seraphin, per finire con la sorprendente novità del matrimonio di lady Ravency.
Nulla di quanto riportato nella pergamena letta a voce alta da Jamie sembrava aver toccato il bardo, chiuso in un’indifferenza decisamente insolita per lui, che aveva sempre mostrato interesse per tutto.
Jamie portò lo sguardo sul signore di Kingsden, seduto a capotavola, fissando l’antica ustione che gli sfigurava la parte sinistra del viso.
“Un drago nella sala grande e un drago che spiega le sue ali dalla torre più alta del castello” rifletté pensando allo stendardo issato sul mastio, che annunciava la presenza del lord schioccando al vento.
Lord Benjamin indossava i comodi abiti di lana del guerriero a riposo, la spada sempre al fianco e la sua cetra riposta sotto un drappo in un angolo.
La sua tunica era nera del nero dei Lionfield, ma ricamata con il drago rosso che era sempre stato il suo vessillo.
Tra gli artigli della creatura mitologica, sull’ampio torace dell’uomo, pendeva un gioiello insolito: una moneta d’oro assicurata intorno al collo da un cordoncino di cuoio.
Prima di sedersi alla destra del marito, lady Shayla aveva sfiorato con una carezza quello strano monile, lasciando intuire un significato segreto che apparteneva soltanto a loro.
Il drago e la sua sposa componevano un quadro da cui era difficile distogliere lo sguardo, dove la bellezza straordinaria di lei, così carnale eppure al contempo quasi ultraterrena, si accompagnava al volto devastato di lui.
— Hedrick Rothford — confermò Jamie. — Voi lo conoscete, signore? L’unica cosa che so dei Rothford è che, durante la guerra, andavano a letto Blois per svegliarsi l’indomani Angiò.
— Questo si può dire di molti nobili inglesi, compreso Seraphin St Etienne. Ragazzo, tu parli di suo nonno, il vecchio Rothford. Io ho conosciuto il giovane.
— Nonno? — ripeté Jamie, senza celare la sorpresa.
Benjamin annuì.
— La guerra tra Stephen e Maud si è presa tutta una generazione. I padri hanno perso i figli e i figli sono cresciuti senza padri.
— È vero. Basta pensare a lord Edward Torquil: perse il suo primogenito, il padre di sir Richard. Oppure a lord Wolfer Ashton, quello che chiamano il vecchio lupo sassone. Anche suo figlio è caduto in guerra, il padre dei gemelli Warren e Warrick.
Jamie sospirò.
“Senza le tentazioni della guerra, anche io e mia sorella Bethany avremmo ancora un padre?”
— Ashton, il lupo sassone — mormorò Benjamin pensosamente. — Sì, lo conosco di fama quel vecchio di ferro e ghiaccio. Gli Ashton e i Rothford possiedono feudi confinanti.
— Interessante! — esclamò Jamie incuriosito. — Anche Rothford è un nome sassone... Immagino che il legame di alleanza tra il vecchio Wolfer e il defunto barone Rothford fosse molto forte.
Benjamin schioccò la lingua, dissentendo.
— Si odiavano con tutta la tenacia che solo due vecchi testardi sono capaci di dimostrare. Non hai mai sentito quel che si dice di loro? È più facile amare la peste che un Ashton, ed è comunque più facile amare un Ashton che un Rothford.
— Veramente no — rispose Jamie corrucciandosi. — Sapete qualcosa su lord Hedrick? Lady Sarah è stata premurosa e gentile con me: prego che il Signore voglia ricompensarla con la fortuna di un buon marito.
La bocca di Benjamin assunse una piega amara.
— Non definirei fortunata nessuna donna destinata al talamo nuziale di Hedrick Rothford.
La melodia suonata da Christian stonò una nota.
Jamie inarcò un sopracciglio: il bardo aveva mancato un arpeggio.
Lady Shayla si mordicchiò nervosamente le belle labbra.
— C’è la volontà di Seraphin St Etienne dietro questo matrimonio. Mi chiedo se al posto di lady Sarah non dovessi esserci io....
“No, questo mai” avrebbe potuto risponderle Jamie. “Voi, signora, eravate destinata a un re.”
Rimase in silenzio, mentre lord Kingsden posava la mano destra su quella della sua sposa.
— Non avere paura, rosa preziosa.
— Vicino a te non c’è nulla che possa farmi paura — rispose lady Shayla. Il violetto dei suoi occhi bellissimi si sfumò come un cielo sul far della sera. Sorrise al marito, e nel loro scambio di sguardi per Jamie fu come assistere a un incantesimo.
Si schiarì la voce.
— Avete combattuto contro Hedrick Rothford?
— No, eravamo sullo stesso fronte — ricordò Benjamin. — Si batté bene, con quella ferocia che può far passare la brutalità per coraggio. I problemi nacquero dopo la battaglia. Mancò poco che la spada di Hayden gli aprisse la gola.
— Cosa volete dire? — domandò Jamie, rabbrividendo al pensiero dell’ira del suo tutore.
Benjamin lo fissò negli occhi.
— Cos’è in grado di risvegliare il leone dormiente? Cosa può fargli dimenticare di avere di fronte un alleato, perfino un principe reale?
Un’intensa sensazione di malessere pervase lo scrivano.
Conosceva la risposta, perché ne era stato testimone con i suoi stessi occhi proprio a Kingsden, tra quelle belle sale, tanti anni prima da sembrargli i ricordi di un’altra vita.
— Hedrick Rothford voleva costringere una donna a giacere con lui — indovinò.
Benjamin abbassò lo sguardo, l’espressione temibile e incupita nel rievocare quello spiacevole episodio.
— Avevamo preso una roccaforte e tra gli ostaggi c’era anche la famiglia del castellano: sua moglie e una figlia ancora ragazzina.
— E Rothford volle per sé la signora?
Benjamin scosse il capo.
— No, gli piacciono le fanciulle, dimenticando...
— Dimenticando che in presenza del leone dormiente nessuno tocca donne e bambini — concluse Jamie, la schiena percorsa da gocce di sudore freddo.
Chiuse gli occhi un istante, ricordando la presa di Kingsden, il sangue e la morte.
Il giovane leone era venuto per riconquistare la sua tana, per far scontare alla donnola rossa il prezzo del suo tradimento.
Ricordava sua sorella Bethany sbattuta a terra da un soldato.
Ricordava anche che quel soldato era morto.
— Alcuni uomini cambiano, con il tempo...
Lord Benjamin inarcò un sopracciglio.
— Lo credi davvero, ragazzo?
Jamie reclinò il capo contro lo schienale dello scanno, lo stomaco annodato da un senso di nausea.
Il vino nella sua coppa gli sembrò sangue.
Ne bevve un sorso.
— Peggiorano — ammise. — Lady Sarah è una donna molto sfortunata.
Lady Shayla strinse la mano del marito.
— Il mondo è pieno di mostri e i peggiori sono quelli vestiti di pelle umana — mormorò.
Jamie abbassò lo sguardo.
Mostri generati dal sonno della ragione.
Mostri generati da altri mostri.
Nel vino della coppa, per un istante, gli sembrò di intravedere il volto di suo padre.
Guardò meglio: era il suo riflesso.
Con un brivido allontanò da sé il calice.
Christian smise di suonare in uno stridore disarmonico di note.
Si alzò in piedi, abbandonando la sala sotto lo sguardo sorpreso degli astanti, come un servo non avrebbe mai osato fare. Ma nessuno dei presenti lo considerava tale e dal bel volto di lady Shayla trasparì una sincera preoccupazione.
— Non capisco. Qualcosa non va?
— Nessuno capisce Christian — rispose Jamie asciutto. — E credetemi, signora: in lui sono davvero molte le cose che non vanno.
Sdraiato sul tetto, le braccia incrociate dietro la testa, Christian guardava il cielo di Kingsden.
Quella notte era nera come il petrolio.
Quella notte non c’era la luna.
Da quando aveva lasciato Gaskell Manor non aveva più pensato a lady Sarah.
Mai una volta, da quel “vattene!” che le aveva strappato dalle labbra, dopo tanti gemiti, sospiri e baci.
Nel lasciare la stanza di lei, l’aveva sentita piangere. Aveva sempre saputo che l’avrebbe fatta piangere.
Ma le lacrime erano solo uno spreco d’acqua.
Presto avrebbe asciugato i suoi begli occhi e la vita l’avrebbe portata all’unico futuro possibile per una donna del suo rango: alla pace di un monastero oppure agli agi di una bella casa, accanto a un marito vero e circondata da tanti bambini.
Di questo Christian non aveva mai dubitato.
Lady Sarah faceva parte del passato, e lui era sempre stato abile a riporre i ricordi in tanti diversi scrigni, che sigillava senza più sfiorarli.
Dopo averla lasciata, mentre partiva da Gaskell Manor al seguito di Jamie Lamartes, Christian aveva guardato l’ultimo sesto di luna nel cielo perlaceo dell’alba.
Per il tempo di un respiro aveva immaginato un’alternativa, un futuro diverso... Ma poi quell’attimo era trascorso. Ridendo di sé, si era detto che nella vita reale gli amori impossibili duravano il tempo di una canzone.
Lei era una dama nata per governare un castello. Lui un bastardo, dannatamente felice e fiero di essere ciò che era.
Aveva proseguito lungo l’unica via che conosceva.
Aveva viaggiato insieme a Jamie ed era giunto a Kingsden.
Aveva ritrovato due volti conosciuti a Deerstone: quello sfregiato di sir Benjamin e il musetto delizioso della giovane lady Elise.
Aveva conosciuto Dylan, uno spavaldo scudiero dai capelli biondissimi, orgoglioso di servire il drago e convinto di diventare un giorno il più grande cavaliere d’Inghilterra.
Aveva incontrato lady Shayla, la più bella rosa del regno, e aveva visto in lei una donna capace di guardare oltre le apparenze.
Così aveva continuato a vivere la sua vita senza mai pensare a lady Sarah.
E tuttavia ogni notte la sognava. In quei sogni la ricordava e la desiderava, rivivendo ogni momento trascorso con lei e dentro di lei.
La mattina si risvegliava rabbioso e frustrato.
Dimenticava quei sogni durante il giorno, ma la notte tornavano a visitarlo. Ogni notte. Come la luna.
— Rothford — mormorò, tracciando nella mente la strada che da Kingsden conduceva al nord.
Quanto aveva udito a cena, l’aspro giudizio di lord Benjamin, lo rodeva come un tarlo.
La voce della ragione lo ammoniva che il destino di lady Ravency non lo riguardava, ricordandogli l’aureo principio su cui aveva forgiato la sua vita: non voltarti mai e continua sempre per la tua strada.
Ma qualcos’altro gli si contorceva dentro, lo tormentava, lo rendeva nervoso e irrequieto.
Semplicemente non era più possibile proseguire oltre.
Le labbra di Christian si piegarono in un sorriso storto.
“Il girovago è libero di vagabondare ovunque voglia. E adesso ciò che voglio, qamar, è vedere dove ti trovi e conoscere il tuo sposo. Guarderò e tu non mi vedrai. Se troverò la tua felicità, me ne andrò. Se troverò qualcos’altro... è rimasto ancora un desiderio nella lampada magica.”
Il giorno seguente Jamie cercò Christian nelle cucine e in ogni stanza, scalinata e anfratto di Kingsden.
Non lo trovò, e non si stupì che fosse scomparso.
Con un sospiro uscì all’aperto, offrendo il volto al vento dell’estate. Respirò un profumo di grano e di sole, la fragranza dei fiori che sbocciavano nel giardino del castello.
Uscì dal mastio, camminando sul prato verde come per allontanarsi dalla malinconica oppressione che quel luogo inevitabilmente gli ispirava.
Kingsden era un passato a cui preferiva non pensare, ma che lo avrebbe accompagnato per sempre.
“Quel passato mi ha reso ciò che sono.”
Lasciò scorrere lo sguardo sui campi, offrendo alla terra il suo saluto.
I ragazzi di stalla stavano preparando il carro che lo avrebbe portato a Londra, dove lo aspettava Aimery De Lacroix, dove Re Henry gli aveva detto che avrebbe avuto il piacere di rivederlo.
Jamie chiuse gli occhi, respirando fino in fondo quell’aria pura e profumata.
Il vento gli scompigliava i capelli, agitando le sue vesti semplici da guerriero senza spada, da studioso con le mani macchiate d’inchiostro.
— Messer Jamie è mattiniero! Un ricordo della sua vita monastica? — lo riscosse una voce fresca di ragazzina.
Prestando il giusto orecchio, in quella voce Jamie poteva cogliere una sfumatura tagliente, come se chi aveva parlato mescolasse verità e buone maniere per prendersi gioco di chi la stava ascoltando.
Elise di Deerstone era davanti a lui, sottile come un giunco e con i lunghi capelli biondi sciolti fino ai fianchi.
Era una bambina, Jamie lo sapeva, ma lo sguardo penetrante dei suoi occhi chiari induceva quasi a dimenticarsene. In quel momento sembrava, piuttosto, una creatura senza età: aveva l’abito in disordine e la gonna piena di fiori, che teneva tesa di fronte a sé come un cestino.
Sotto l’orlo sollevato fino alle ginocchia magre si vedevano le sue gambe dritte e snelle.
Tra i verdi ciuffetti d’erba tenera spuntavano i piedini nudi.
La fanciulla ebbe la buona grazia di arrossire.
— Mia signora — la salutò Jamie con garbo. — Forse dentro il mio cuore mi sento ancora un monaco.
Elise spalancò gli occhi.
— Ma non lo siete più! Lord Hayden ha detto che avete rinunciato all’abito.
Jamie sorrise.
— È vero. Ma come avete sagacemente intuito, le vecchie abitudini sono dure a morire. E voi? Qual è la vostra scusa?
Elise ondeggiò da un piede all’altro, un affascinante miscuglio di sfacciataggine e innocenza.
— Raccolgo fiori per distillarne l’olio. L’ho imparato da lady Delyth, sapete?
— La strega scalza — disse Jamie, rammaricandosi di non avere ancora avuto l’occasione di incontrare la leggendaria madre di lady Lianne.
Un cipiglio contrariato si incise tra le sopracciglia bionde di Elise.
— Non è una strega! È una donna molto saggia e sapiente. Vive come le comanda il cuore, e io ho deciso che seguirò il suo esempio.
Per qualche sconosciuta ragione la battagliera vivacità di quella ragazzina lo divertì enormemente.
— E dunque avete pensato di cominciare gettando via le vostre scarpe? — la punzecchiò.
Elise si morse le labbra.
— Non credevo che avrei incontrato qualcuno a quest’ora... tanto meno voi — si giustificò goffamente, tormentando tra le dita il tessuto della gonna. — Lady Delyth mi ha insegnato a ricavare le essenze profumate dai fiori. Così avrei avuto qualcosa da fare per compiacere lady Shayla.
— Ed è un’impresa difficile compiacere la vostra signora?
Elise sbatté le palpebre.
— Lady Shayla? Oh, no! Mi perdona sempre tutto... Non so neanche come faccia. Vi garantisco che la sua pazienza supera perfino la sua bellezza!
Jamie scoppiò a ridere all’accorata dichiarazione della ragazzina.
— Dunque a Kingsden vivono una santa e un’apprendista strega?
Elise si imbronciò, scoccandogli un’occhiataccia.
— Non ho detto questo.
Jamie sorrise, stranamente incapace di mettere fine a quell’incontro.
— È vero quel che si dice? Che lady Delyth legge il futuro nelle fiamme?
Elise fece spallucce.
— Non saprei. A me il futuro non l’ha predetto.
— No?
La fanciulla scosse il capo.
— Non ho voluto.
— Non vi piacerebbe sapere a chi andrete sposa un giorno?
Lei sollevò il mento, guardandolo dritto negli occhi.
— Io so già chi sposerò: non ho alcun dubbio!
— Ah! — esclamò Jamie, annuendo pensosamente. — E lui lo sa?
Elise abbassò appena il capo, le guance rosse e lo sguardo messo in ombra dalle lunghe ciglia. Era un’espressione molto femminile e molto adulta, di una seduzione inconsapevole.
— Ditemelo voi, messere.
Jamie sentì un brivido sfiorargli la pelle, guardando quella sorprendente ragazzina dai capelli sciolti e le gambe nude.
— Posso solo dire: che Dio lo aiuti!
Elise sussultò e nei suoi occhi glauchi a Jamie sembrò di vedere l’ombra delle lacrime.
— Vi state burlando di me! — esclamò oltraggiata. — Siete...
Il giovane alzò le mani in segno di pace.
— Perdonatemi, mia signora. Non vorrei mai che ci lasciassimo in malanimo.
Elise parve disorientata.
— Lasciarci? Perché dite così?
— Sono in partenza, mia piccola lady. Vado a Londra. Lord De Lacroix attende il suo scrivano. Vogliamo salutarci in amicizia?
Elise non rispose. Per un momento ci furono solo il soffio del vento e il profumo dei fiori raccolti.
Poi, d’un tratto, lasciò andare la gonna: giunchiglie, narcisi e papaveri si sparsero ai loro piedi come macchie di colore. Un istante dopo era contro il petto di Jamie, le braccia strette intorno al suo collo e la bocca premuta con forza sulla sua.
Lui rimase immobile: non la strinse a sé, ma neppure l’allontanò.
Le labbra di Elise erano morbide e calde e il suo corpo più soffice di quanto il suo aspetto da ragazzina e il suo abito abbondante lasciassero indovinare. Jamie sentì aderire le curve delicatamente accennate del seno appena sbocciato.
Poi Elise si scostò, indietreggiando sulle gambe malferme, le guance rosse e gli occhi luminosi come stelle.
— Questo era il mio primo bacio — gli confessò con il respiro affannoso. — Così non vi dimenticherete di me.
Corse via e Jamie non fece nulla per trattenerla, guardando il manto dei suoi lunghi capelli biondi sciolti al vento.
Si sfiorò le labbra.
Il primo bacio di Elise.
“Era anche il mio, piccola lady.”
18
— Fate attenzione!
Sarah trasalì all’avviso gridato dall’uomo, voltandosi mentre la cinghia che assicurava il suo bagaglio al dorso del mulo cedeva.
L’armigero riuscì a trattenere il baule, evitando che si spaccasse contro le rocce, rovesciando in mezzo al fango i tessuti preziosi che conteneva.
Lini, sete, damaschi, abiti e biancheria da camera che Sarah aveva filato e ricamato con le sue mani.
Il suo respiro si sciolse come una nuvola bianca nell’aria fredda che li circondava.
Serrò meglio i lembi del suo mantello, il cappuccio di lana ben tirato a coprirle la testa e osservò il luogo che stava attraversando, in sella a un palafreno che procedeva lentamente, esausto come la sua padrona.
Lo zoccolo del cavallino scivolò su una pietra rotta e Sarah si morse il labbro per non gridare alla fitta dolorosa che quel sussulto improvviso provocò ai suoi muscoli contratti.
Consolò l’animale con una carezza gentile sul collo bianco e grigio, mentre uno stalliere provvedeva a controllargli la zampa.
— È un miracolo che non si sia azzoppato. Per San Cristoforo, non ho mai visto strade così mal tenute!
Sarah sospirò, d’accordo con quel giudizio.
Le sembrava di essere in viaggio da una vita, sentendo fin dentro le ossa la polvere delle strade, la paglia secca e spesso infestata di pulci dei giacigli di fortuna per la notte. Ma più si addentrava nelle terre del suo promesso sposo, più avrebbe desiderato che la destinazione fosse ancora molto lontana da raggiungere, oltre quei borghi trascurati e i volti duri e stanchi dei popolani che li guardavano passare con disinteresse.
Si soffiò sulle dita intirizzite dal freddo.
Era come se l’estate non volesse giungere tra quelle colline rocciose, i fitti alberi e le montagne.
Guardò le cime dei monti ancora imbiancate di neve, un alternarsi di spruzzi candidi e macchie scure. Sembrava una terra senza sole, tanto sorgeva tardi e tramontava presto. E la bruma non si dissolveva mai.
Deglutì, osservando quella fredda foschia lattiginosa che era ovunque, quasi che Dio, terminati i colori della sua tavolozza, avesse deciso di coprire con un velo sporco un’opera che giudicava incompiuta.
Rabbrividì, tirando a sé le redini.
— Cerchiamo un monastero dove trascorrere la notte. Quando la nebbia si infittirà non vedremo più niente — ordinò, scrutando con diffidenza la boscaglia, dove terminava il sentiero che stavano percorrendo.
Improvvisamente da quelle ombre tetre si levò una risata.
Il cuore di Sarah sussultò.
Gli uomini bestemmiarono atterriti, ponendo subito mano alla spada, ma indietreggiando come nel timore di essere aggrediti da una frotta di spiriti maligni.
Le frasche si aprirono, lasciando comparire un drappello armato due volte più numeroso della scorta di Sarah. Erano vestiti di ferro, lana e cuoio, con i colori dei Rothford, notò lei.
Stranamente, invece di rassicurarla l’arrivo di quegli uomini le ispirò un vago senso di allarme.
Forse erano solo la stanchezza del viaggio e il nervosismo al pensiero di incontrare il suo promesso sposo, si disse. La nebbia che avvolgeva quei luoghi sembrava aver pervaso anche la sua anima, confondendo le sue emozioni e lasciandola preda di cattivi presagi.
Uno dei nuovi arrivati si fece avanti, spingendo la sua cavalcatura con un colpo di talloni.
— Lady Ravency? Vi aspettavamo. Il nostro signore Hedrick ci ha mandato a prendervi. Io sono Roland.
Qualcosa in quelle parole non piacque a Sarah: forse era il tono, forse la scelta dei termini. Era un giovane dalle guance lisce, ma la fredda determinazione nel suo sguardo compensava la mancanza degli anni per essere al comando di quel piccolo esercito.
Sarah aveva creduto che Hedrick sarebbe venuto personalmente per accogliere la sua sposa.
— Sir Roland — rispose con un cenno del capo, notando un inatteso guizzo di tensione nella mascella dell’armigero.
Abbassò gli occhi sugli stivali del capitano, senza trovarvi gli speroni dorati che erano simbolo del cavalierato.
— La mia investitura avverrà il giorno delle vostre nozze — spiegò Roland con voce melliflua, intuendo i suoi pensieri.
Sarah deglutì.
Quella storia le piaceva sempre meno.
Roland spronò nuovamente il cavallo, spingendolo intorno al palafreno di Sarah in uno stretto cerchio.
Con espressione imperturbabile, lei attese che il capitano terminasse il suo scrutinio.
Sentiva i suoi occhi su di sé e le sue gambe le sfiorarono la gonne, dato il poco spazio concesso da quella stradina angusta.
Deglutì a fatica, mentre la rabbia per quell’umiliante esame minacciava di soffocarla.
Espirò lentamente un soffio bianco che si sciolse nel freddo della sera che andava calando.
Fissò negli occhi il capitano. Dopo un momento Roland distolse lo sguardo, rivolgendosi ai suoi uomini.
— A Rothford Hall! — ordinò in tono solenne.
Sarah non si mosse.
— Capitano, i miei uomini sono stanchi per il lungo viaggio. Desidero che sostino in un convento, rifocillati dalle mani delle buone monache.
Di nuovo una risata seguì alle sue parole, e Sarah si accigliò mentre i soldati del luogo facevano volgari gesti di scongiuri.
Roland le sorrise.
— Signora, il convento più vicino si trova verso est, a un giorno di viaggio. E non chiederei asilo laggiù neanche se avessi alle calcagna un’orda vichinga — disse, tra i cori d’assenso dei suoi uomini. — In quel convento vive il diavolo.
— Vi prendete gioco di me! — ribatté Sarah incredula, ma negli occhi di Roland non traspariva nessuna indulgente allegria. C’era nella sua risata una nota sgradevole, come se ridesse di lei, consapevole di qualcosa noto soltanto a lui.
— Sono qui solo per eseguire gli ordini del mio signore — scandì il capitano, sorridendo ancora. A un suo cenno gli uomini avanzarono, ponendosi con sorprendente rapidità tra il cavallo di Sarah e la scorta che l’accompagnava.
— Signora! — esclamò una delle sue guardie, mentre tutti mettevano mano alla spada.
Il terrore afferrò il cuore di Sarah come una morsa.
— No! — gridò con fermezza, e gli uomini, miracolosamente, obbedirono al suo comando.
Incontrando lo sguardo sfuggente del capitano, Sarah comprese di avere appena sventato una strage.
— Signora, noi siamo stati incaricati di proteggervi — obiettò un soldato.
— Ma non da suo marito — ribatté un altro. — Il conte mi ha pagato per scortare lady Ravency fino alle terre dei Rothford. Loro sono i soldati di Hedrick Rothford, quindi davanti a Dio e agli uomini il mio dovere l’ho compiuto — concluse, segnandosi con la croce e sputando a terra.
Le sue parole furono seguite da un mormorio d’assenso sempre più unanime.
Sarah annuì, inghiottendo il nodo che le si era formato in gola.
— Tornate a Gaskell Manor — li congedò.
Vedere quegli uomini posare a terra il suo bagaglio, girare i cavalli e andarsene, alcuni a malincuore, non avrebbe dovuto farla sentire tanto sola e abbandonata.
— Annacquato sangue del sud! È il nord a generare i veri uomini — disse il capitano con disprezzo. — Uomini che non prendono ordini da una donna.
— Dite davvero? — replicò Sarah freddamente. — Eppure al sud si racconta di una fanciulla che ha saputo proteggere la sua terra e la sua gente, in un castello più a nord ancora di dove ci troviamo adesso.
Roland schioccò la lingua.
— Parlate di Lianne di Deerstone? Sì, conosco anch’io la storia della cerbiatta che ha ammansito il leone dormiente. Credete pure nelle favole, se ciò vi aggrada, mia signora — disse quasi facendole una concessione, prima di precederla lungo la via, mentre il resto del drappello le si disponeva intorno.
A Sarah non restò altro che seguirlo, incapace di liberarsi dalla gelida impressione di essere più una prigioniera che una protetta.
— C’è oro in quella vostra grossa scatola? — le domandò il capitano.
Sarah si irrigidì, a disagio.
— No, solo tessuti che ho filato con le mie mani.
— Peccato.
— A lord Hedrick piace l’oro? — gli domandò Sarah, cercando di scoprire qualcosa di più sul suo promesso sposo, ma quasi temendo le risposte che avrebbe ottenuto.
Roland scrollò le spalle.
— A chi non piace l’oro, signora? Monete d’oro, calici d’oro, speroni d’oro... — S’interruppe, fissandola in un modo che la fece sentire a disagio. — Anche i vostri capelli sono d’oro.
Lei si sforzò di sorridergli con altera freddezza.
— Dite che gli piaceranno, allora?
Roland sorrise, un sorriso che a Sarah non piacque, così come lo sguardo con cui la percorse.
“È un ragazzino. Forse cerca soltanto di essere galante...”
— Mia lady, come potreste mai dispiacere a un uomo? — rispose l’uomo, e rise.
Non era di suo gusto.
Sarah lo comprese con assoluta certezza quando gli occhi di lord Hedrick incontrarono i suoi, mentre assiso sullo scanno rialzato della sala grande la riceveva come un re che dà udienza a una postulante.
— Mio signore, ecco lady Sarah Ravency — la annunciò il capitano Roland, facendosi da parte come per assistere a uno spettacolo che prometteva di divertirlo.
Sarah deglutì, fissando di sottecchi il resto del pubblico presente: soldati, vecchie fantesche e giovani fanciulle. Volti tetri che le ricordarono uno stormo di corvi appollaiati sui rami in attesa di vedere cadere a terra una carcassa da beccare.
Si fece coraggio, avanzando verso il barone.
Aimery aveva detto il vero: Hedrick Rothford era giovane. Non come il suo fidato e sardonico capitano, ma certamente più di quanto i suoi radi capelli color ruggine suggerivano. Li portava cortissimi, facendo quasi pensare a un voto monastico, ma Sarah intuiva che fosse più una scelta dettata dal desiderio di non apparire stempiato. Continuò a camminare verso di lui, sotto uno sguardo che la rendeva consapevole dei propri abiti impolverati, del mantello sgualcito, del viso e delle mani che non le era stato dato il tempo di lavarsi.
Un giovane avvenente, aveva detto Aimery, e non si poteva dire che avesse esagerato, ma nell’avvenenza di lord Hedrick lei non riusciva a trovare nessuna attrattiva, al momento. La paura, lo sconcerto e l’inquietudine che la dominavano da quando era stata privata della sua scorta la inducevano a chiedersi se non fosse solo un grottesco, bruttissimo sogno.
“Sono stanca” si disse Sarah. “Il viaggio mi ha provata più di quanto immaginavo. E per questo vedo ogni cosa sotto la luce peggiore. Non c’è nulla di sbagliato. Non c’è nulla che non vada. Lord Hedrick è un brav’uomo e il suo castello ha solo bisogno della presenza di una dama. Per questo sono qui. Dobbiamo conoscerci, e troveremo un modo per andare d’accordo. Questo posto diventerà migliore e chi vi abita sarà felice. Sarà come al castello di lord Ravency. Non c’è nulla che non vada. Aimery ha deciso questo matrimonio e lui mi ha sempre voluto bene.”
Nonostante fosse seduto, lord Hedrick era un uomo imponente, ma c’era nelle sue proporzioni qualcosa di sgraziato che faceva pensare a un toro, più che a un possente frisone da battaglia.
La sua pelle chiara era cosparsa di lentiggini, che rendevano il suo volto uno strano contrasto di fanciullezza e maturità.
Sulla guancia destra c’era il segno indelebile di una vecchia ferita: il taglio netto che una lama nemica gli aveva lasciato dallo zigomo al mento.
Le sue labbra erano carnose e rosee, ma ogni suggestione di sensuale dolcezza era annientata dalla freddezza dei suoi occhi. C’era nel suo sguardo un’assenza di calore, un’indefinibile e sottesa crudeltà che la fecero rabbrividire intimamente.
Lord Hedrick Rothford era giovane, avvenente, circondato da un’aura di vigore... e Sarah, semplicemente, trovava insopportabile il pensiero che le si avvicinasse.
Sussultò quando il barone si alzò in piedi, venendole incontro.
Si riscosse, piegandosi in una rispettosa riverenza e attese che le tendesse la mano, aiutandola a rialzarsi.
Attese invano.
Trasalì quando lui le strappò bruscamente di dosso il mantello.
— Roland, ma il vecchio conte non aveva promesso una fanciulla? — disse, passeggiandole intorno e scrutandola da capo a piedi, in lenti cerchi sempre più stretti come Sarah aveva sentito dire che facessero gli squali.
— Niente fanciulla e niente oro — rispose il capitano, accennando al baule da viaggio. — Però, mio signore, bisogna riconoscerlo: la vostra sposa ha davvero dei magnifici capelli!
— Ti piacciono, Roland? — domandò il barone in tono gioviale, uno schermo sottile sotto cui lei sentì ribollire la collera. Con un movimento fulmineo Hedrick Rothford snudò il pugnale. Sarah urlò sentendosi afferrare brutalmente per la treccia. Il suo cuore smise di battere, mentre raggelata vedeva saettare la lama. Un istante dopo era di nuovo libera, e tremando si prese la testa tra le mani: le sue dita trovarono solo ciocche corte, recise malamente all’altezza della nuca. Attonita, fissò i suoi lunghi capelli, stretti nel pugno dell’uomo che doveva diventare suo marito.
Lord Hedrick gettò la treccia bionda ai piedi del suo capitano.
— Ecco a te, Roland! E adesso dimmi se vale le trenta spade a cui ho rinunciato per averla.
Sarah sgranò gli occhi, fissando lord Rothford senza capire.
Trenta spade?
Era stato questo il suo prezzo?
Suo cugino... il bambino che aveva tenuto sulle sue ginocchia... il cavaliere che aveva giurato l’avrebbe protetta per sempre... Aimery l’aveva venduta per trenta spade?
Trenta spade... Trenta denari.
Il barone la scrutava ancora, ma d’un tratto la linea dura che gli arricciava le labbra si rilassò e la sua bocca si schiuse quasi con stupore.
Qualcosa cambiò nel suo sguardo, e Sarah si sentì ancora più atterrita.
— Signora, adesso sembrate molto più giovane — mormorò lui quasi tra sé, incantato.
Fece per venirle vicino, ma prima che potesse toccarla la mano di Sarah si era già mossa come di propria volontà, ignorando gli occhi morbosamente incuriositi del pubblico intorno a loro e la tetra realtà di appartenere a quell’uomo.
Lo schiaffeggiò in pieno volto con tutta la forza che aveva.
Il sussulto degli astanti seguì l’eco del ceffone, mentre il barone vacillava più per la sorpresa che per il colpo. Poi il capitano cominciò a ridere. E tutti risero.
Sarah vide l’espressione di lord Hedrick trasformarsi, diventare una spaventosa maschera di furia.
— Tacete! — tuonò, e il castello ripiombò nel silenzio.
Poi le fu subito addosso, afferrandola per un braccio e strattonandola come una bambola, mentre la trascinava via.
Sarah si dimenò, lo graffiò, cercò di ribellarsi, completamente dimentica della compostezza e del decoro che le erano stati inculcati fin dalla più tenera età. L’istinto di sopravvivenza sovrastava in lei i ricordi di tutta una vita.
Attraversarono i corridoi, stanze e scale, ma nel terrore che l’accecava tutto si perse in una sfocata nebbia grigia. Infine Hedrick spalancò una porta, spingendola bruscamente dentro una camera.
Sarah si guardò intorno spaesata. Ciò che vide le ricordò la cella di una torre, con le pareti spoglie, un giaciglio, un candeliere e nient’altro.
Da una feritoia con le inferriate spioveva l’ultimo chiarore prima della notte.
Si voltò per fronteggiare il barone, gridando selvaggiamente quando lui la strinse a sé.
Gli piantò le unghie nelle braccia e scalciò con violenza, cercando di liberarsi.
Quando l’uomo la schiacciò a terra, il terrore per un istante la paralizzò.
Sentì la lingua di Rothford bagnarle il collo, le sue mani lacerarle le vesti, palpandola rudemente ovunque, attraverso la stoffa sottile della chemise che un sudore ghiacciato le aveva incollato addosso.
Una viscida sensazione di disgusto la travolse, facendole venire voglia di piangere.
— Non so cosa mi sia preso — le ansimò Hedrick all’orecchio. — Non mi piacciono le femmine ribelli. Mi piacciono fresche, docili e piene di timore. Eppure... dannazione, devo averti! — tagliò corto, armeggiando con i lacci delle brache.
Sarah gridò il suo rifiuto a pieni polmoni, sentendo l’eccitazione di lui contro la curva delle natiche. Venne rovesciata brutalmente sulla schiena.
— Mi piacciono le femmine che piangono, non quelle che si dibattono.
— Le lacrime sono soltanto uno spreco d’acqua! — sibilò Sarah a denti stretti. Scalciando come una forsennata, riuscì a piantargli una ginocchiata all’inguine. Le sue dita trovarono qualcosa di freddo, pesante e metallico: il candeliere.
Lo afferrò, brandendolo con disperazione, e colpì il suo aggressore con un grido pieno d’ira.
Rothford la lasciò andare, rotolando giù da lei e portandosi una mano al volto.
Sarah si affrettò a rifugiarsi in un angolo, tenendo tesa di fronte a sé quell’arma improvvisata, così inaspettatamente temibile tra le sue mani.
Entrambi ansimavano.
Entrambi si fissavano, studiandosi con rabbiosa cautela.
Infine Hedrick si alzò in piedi.
Sembrava più calmo, di nuovo padrone di sé, e questo spaventò Sarah più della sua frenesia selvaggia.
— Potrei chiamare i miei uomini: ti terrebbero ferma e con le cosce aperte — la avvertì, sputando a terra un grumo di sangue. — E poi, dopo avere finito, potrei lasciarti a loro.
Sarah dominò l’istinto di vomitare, tenendo salda la presa sul candeliere.
— Ma la vergogna della mia lady sarebbe la mia vergogna — aggiunse l’uomo, piegandosi inaspettatamente in un inchino. — Adesso ti lascerò con i tuoi pensieri, dolce moglie. Mi dicono che una sposa ha sempre bisogno di un po’ di tempo per stare sola con se stessa. Quando ci rivedremo, ne sono certo, sarai docile e farai tutto ciò che tuo marito ti ordinerà — concluse con un sorriso che le fece accapponare la pelle.
Uscì, sbarrandosi la porta alle spalle.
Sarah non seppe dire per quanto rimase ferma contro la parete, con il candeliere tra le mani e lo sguardo fisso sull’uscio chiuso.
Alla fine le cedettero le gambe e scivolò a terra, seminuda e tremante, con il corpo che le faceva male ovunque e lo spirito a pezzi.
Scoppiò a piangere.
“Com’è possibile che sia successo tutto questo?” si chiese disperata, cercando maldestramente di asciugarsi le guance. “Oh, Vergine Santa, questo è un incubo!”
Strinse con forza il candeliere tra le braccia, rannicchiandosi tra il pavimento e la parete.
Deglutì spaventata, con gli occhi sempre fissi sulla porta, attenta a ogni rumore che le annunciasse l’arrivo di qualcuno.
Ma non venne nessuno a portarle una coperta, altri vestiti o del cibo. E neppure dell’acqua, né per lavarsi né per bere.
Per tre giorni Sarah non vide nessuno.
L’impiccato ondeggiava dalla corda come un fantoccio, gli occhi beccati dai corvi e la pelle decomposta dall’umidità dell’aria.
Appesi ai rami pendevano molti di quei tristi, grotteschi pupazzi, come se a Rothford Hall ogni albero si fosse trasformato in una forca.
— Non si vedevano questi spettacoli, ai tempi del vecchio barone — sentenziò il pastore, guidando il gregge nella stalla e scandendo il tempo con il suo bastone.
Il viandante, che l’aveva seguito dai campi fino al borgo, sedette pazientemente a terra, la schiena appoggiata contro un sasso e il cappuccio calato sul volto fino agli occhi.
Era stato un incontro fortuito, il loro, ma di cui il pastore rendeva grazie a Dio.
Nonostante l’iniziale diffidenza che ogni sconosciuto giustamente suscitava, il forestiero si era rivelato una compagnia piacevole, negli ultimi giorni di pascolo, mentre spostandosi da un prato all’altro si percorreva a ritroso la via di casa.
Il viandante gli aveva medicato la ferita che gli tormentava la gamba da settimane: un graffio da nulla, per un uomo della sua tempra, ma che non voleva saperne di guarire. Negli ultimi giorni, poi, aveva cominciato a puzzare come l’inferno.
Il forestiero aveva preso il coltello, l’aveva passato sulla fiamma e poi gli aveva inciso la carne tumefatta. “Mi ha fatto gridare come un marmocchio” ricordò il pastore con una fitta di vergogna. Poi aveva lavato il taglio con un liquido dall’odore nauseabondo, ricucendolo con ago e filo, neanche fosse stata una fanciulla alle prese con il corredo.
— Se dici a qualcuno che mi hai visto piangere, giuro che ti ammazzo — lo avvertì nuovamente il pastore, tuttavia consapevole di dovergli la gamba, e con essa, il lavoro e la vita.
Il viandante rise tra sé per quello strano ringraziamento.
— Le mie labbra sono sigillate, e comunque ti sono grato per avermi condotto a Rothford Hall.
— Ma che ci vai a fare al castello?
Il forestiero gli mostrò il liuto.
— Sono un menestrello. Mi è giunta voce che il giovane lord Rothford sta per sposarsi. Gradirà della musica per allietare la sua festa di nozze.
Il pastore sbuffò contrariato, prendendo un pezzo di pane e formaggio e offrendolo al suo compagno.
— Un pasto caldo puoi rimediarlo anche stando nella stalla insieme a me. Al tuo posto cercherei fortuna altrove: non aspettarti una grande accoglienza da master Hedrick.
— Master Hedrick?
Il pastore rabbrividì.
— Lord Hedrick — si corresse. — Tu non fare il mio errore: non chiamarlo mai in altro modo. Un forestiero come te ci metterebbe poco a diventare carne per i corvi.
— Alcuni lord liberano i prigionieri, una volta ereditato il titolo. Altri li impiccano. Una maniera come un’altra per svuotare le prigioni e farsi conoscere dal popolo.
— Se lo dici tu, menestrello — tagliò corto il pastore, mettendo in ordine gli attrezzi e chiudendo con cura il recinto delle bestie.
— Siete uomini duri, da queste parti — constatò il bardo pensieroso. — Qui vicino dimora il vecchio lord Ashton, e anche lui...
— Parla con rispetto del lupo sassone! — lo ammonì il pastore fermamente. — Wolfer Ashton è un uomo legato alle vecchie usanze. Nelle sue terre non accade niente di quello che vedrai qui. Non accadrà neppure quando lui chiuderà gli occhi e uno dei gemelli erediterà il suo scanno. Perché anche Warren e Warrick sono lupi, non un verro come quello che... — L’uomo s’interruppe, serrando la mascella in una smorfia tesa.
Continuò a riordinare la stalla, perché quando lavorava non pensava. Pensare era pericoloso, e i ricordi facevano male.
Il bardo masticò lentamente il boccone.
— Conosci i gemelli Ashton?
— Tutti conoscono tutti da queste parti.
— Li conosce anche il tuo nuovo signore?
Il pastore sogghignò.
— Lord Hedrick ha conosciuto Warrick Ashton. E non lo ama.
— E che cosa ama lord Hedrick, oltre alle impiccagioni?
— La caccia. Cavalcare il suo stallone. Ama le fanciulle molto giovani. Ama l’obbedienza. Ama essere temuto. E non perdona che si rida in sua presenza.
— Vedrò di suonare per lui solo canzoni molto tristi — promise il bardo. — Dunque le cose stanno così? E i padri di questi luoghi sono tutti lenoni o poveri disperati? E tu, amico mio, cos’hai scelto di essere?
Il pastore trasalì, fissando i suoi occhi durissimi in quelli azzurri e indagatori del forestiero.
Appesa a un chiodo c’era una bambola intagliata nel legno.
— Né l’uno né l’altro — rispose infine, posando lo sguardo su quel vecchio giocattolo da bambina. — Mi sono strappato il cuore dal petto, ma so che la mia Aisley è al sicuro ad Ashton Castle, sotto la protezione di lord Wolfer.
19
Il cervo era un magnifico esemplare di maschio adulto, e la sua mole copriva oltre metà del tavolo del salone maggiore di Rothford Hall.
Con il ginocchio umilmente piegato sul pavimento, Christian guardava la bestia abbattuta, osservando l’uomo che provvedeva a scuoiarla con rapidità ed efficienza.
Hedrick Rothford sapeva come adoperare il coltello, e anche la spada, la lancia da guerra e l’alabarda, a giudicare dalle sue spalle ampie e dalle braccia nerborute.
— Cos’altro mi hai portato, Roland? — domandò il barone con disinteresse.
Il capitano estrasse il pugnale, trafiggendo un pezzo delle frattaglie, che il suo signore aveva gettato in un secchio, e facendolo arrostire sul braciere.
— Questo saltimbanco se ne andava in giro per le vostre terre, mio lord. Giura di strimpellare bene e di conoscere una montagna di storie. Non sarebbe un bel modo per allietare il giorno del vostro matrimonio?
Hedrick si voltò, il coltello stretto in pugno e le braccia insanguinate fino ai gomiti.
— Un buffone? — esclamò con disprezzo, la bocca piegata in una smorfia. — All’ultimo che non ha saputo compiacermi ho servito la sua lingua come ricompensa per i suoi servigi.
A quell’avvertimento Christian si sentì salire alle labbra almeno una decina di risposte, una più sarcastica dell’altra.
— Mio signore, allietarvi rappresenta una sfida degna d’essere cantata a sua volta — disse infine, tenendo lo sguardo basso.
Hedrick parve sorpreso.
Si avvicinò e con il piatto della lama del coltello gli fece sollevare il volto.
— Il tuo nome?
— Christian.
— Ti prendi gioco di me? — gli chiese il barone scrutandolo. — Cristiani lo siamo tutti.
— È così che mi chiamava mio padre... quando si ricordava di avermi intorno. Semplicemente sono uno che non conta molto, uguale a tutti gli altri.
Hedrick abbassò la lama.
Christian accennò al cervo sul tavolo.
— Degno di un re!
Il barone annuì compiaciuto.
— Solo un grande cacciatore poteva abbatterlo.
— Lord Wolfer Ashton ve l’ha inviato come dono di nozze?
Hedrick sussultò, scrutandolo con sguardo penetrante.
— Come sai che non sono stato io a cacciarlo?
Christian accennò ai posteriori della bestia, dov’era impresso il marchio di un arco teso pronto a scoccare.
— Perché quello, mio signore, è lo stemma degli Ashton.
Le labbra carnose di lord Hedrick si curvarono in un sorriso.
— Potevi tacere e adularmi, e non l’hai fatto.
— Perché ricorrere alle menzogne, quando posso usare la verità?
Il barone parve rasserenarsi. Con espressione quasi divertita andò a sedersi sul suo scanno e gli fece cenno di avvicinarsi.
Il bardo si alzò in piedi e sedette a gambe incrociate sulla tavola, nella parte non intrisa dal sangue del cervo, tra il barone e il suo trofeo.
— Non è un dono di nozze — spiegò Hedrick. — Il vecchio lupo me l’ha inviato per commemorare la morte di mio nonno.
— Un grande sassone che ne saluta un altro — osservò Christian.
Hedrick fece una smorfia.
— Due folli reliquie di un tempo che non esiste più — sentenziò. — Si sono odiati per una vita e adesso l’uno piange la morte dell’altro. E questo sarebbe un onore? Se lord Wolfer avesse davvero voluto onorarmi mi avrebbe mandato in catene quel figlio di puttana di suo nipote Warrick — aggiunse con astio, sfregando la cicatrice che gli tagliava trasversalmente la guancia destra.
Christian mise mano al liuto.
— Volete ascoltare di Warrick Ashton e di come venne disarcionato durante il torneo di Gaskell Manor? Volete ascoltare della polvere che mangiò, del fango che inghiottì e di come il suo volto venne ridotto a una maschera di sangue?
Hedrick sorrise, mettendosi comodo.
— Canta per me, menestrello. Questa storia mi piace!
— In verità, mio signore, credevo che avrei dovuto intonare strofe d’amore per le orecchie gentili di una dama. Ho male inteso o il vostro capitano ha detto che state per sposarvi?
La bocca del barone si indurì.
— Canterai ciò che io voglio quando lo voglio, che ad ascoltarti ci siano dame, principi o cardinali — lo ammonì tetro. — Comunque è vero. La mia signora è giunta a Rothford Hall, ma tu non la vedrai. Nessuno la vedrà, finché lady Sarah non avrà imparato il giusto rispetto da portare a suo marito — aggiunse, gli occhi improvvisamente accesi da una luce viva e le guance imporporate da una violenta emozione.
Christian abbassò lo sguardo, posò le dita sulle corde e cominciò a suonare.
20
Una musica.
Nell’oblio a cui lord Hedrick sembrava averla condannata a Sarah parve di cogliere il suono lontano di un liuto. Sulle sue note la travolse un fiume di ricordi e, per il tempo di un respiro, fu come risvegliarsi da un lungo sonno.
L’incubo era finito e lei avrebbe aperto gli occhi nel suo letto a Gaskell Manor.
Ci sarebbero stati il fuoco nel camino e la sua lampada a olio sul tavolino, come sempre.
Un singhiozzo le salì alla gola riarsa dalla sete.
Ci sarebbe stato Christian sdraiato al suo fianco sotto le coltri.
L’avrebbe stretta tra le braccia, sussurrando parole che trasformavano ogni timore in un sogno, accarezzando il suo corpo come se gli appartenesse.
Christian...
Aprì gli occhi, sussurrando quel nome senza un filo di voce. Vide le quattro pareti spoglie della prigione dov’era stata rinchiusa e il suo respiro si sciolse come nebbia nella penombra. Raggomitolata in un angolo, si strinse addosso quanto restava del suo abito, tremando di freddo. Si trovava sempre a Rothford Hall, dove illusioni e veglia stavano cominciando a confondersi gli uni nell’altra. Tese l’orecchio a quel silenzio che all’inizio aveva ascoltato piena di timore.
Non udì nessuna melodia, ma il consolante picchiettio della pioggia.
Stava piovendo.
“Acqua!” pensò con un sussulto.
Si affrettò ad alzarsi, lottando contro la debolezza che la intorpidiva, le membra fiaccate dal freddo e dalla fame.
Raggiunse la feritoia, sporgendosi con le braccia tese oltre l’inferriata. La sensazione semplice e meravigliosa di quelle gocce sulla sua pelle le fece venir voglia di piangere. Si sentiva sporca. Si sentiva esausta. Attese che la coppa delle sue mani si riempisse d’acqua. Si ritrasse con troppa impazienza e gran parte del liquido raccolto andò sprecato. Gemette, suggendo avidamente ciò che restava: poche gocce che non le portarono il sollievo tanto desiderato. Ripeté gli stessi gesti più volte in punta di piedi, schiacciata contro la parete, febbrilmente protesa a raccogliere come una mendicante l’elemosina che il cielo le concedeva.
Prendendosi il volto tra le mani bagnate le sembrò di vedere ciò che era diventata: scalza e vestita di stracci, maleodorante, i capelli recisi malamente e lo stomaco che le doleva per la fame. Si accasciò contro la parete, la fronte appoggiata alla roccia dura e fredda, mordendosi le labbra e soffocando i singhiozzi che la squassavano, sopraffatta dalla disperazione e dalla rabbia.
Le vennero in mente storie tetre, di donne sepolte vive da padri crudeli, amanti gelosi e consorti vendicativi. Donne che le canzoni popolari avevano trasformato in martiri, in fantasmi, in moniti con cui le governanti spaventavano le fanciulle in età da marito. Figure sospese tra l’incubo e la commiserazione. Era quello il suo destino? Scomparire nel nulla, completamente dimenticata, e mai nessuno che potesse sapere ciò che le era accaduto e che aveva patito? Ad Aimery sarebbe giunta la notizia della sua morte, prima o poi, e chissà se avrebbe pianto per lei...
Serrò con forza i denti, soffocando un ringhio che era pura rabbia. Aimery aveva promesso di prendersi cura di lei. Aveva sempre detto di amarla come la sua famiglia. Come aveva potuto regalarla a un uomo come Hedrick Rothford?
“No, non mi ha donata a lui” si disse, pervasa da un’amarezza annichilente. “Mi ha venduta. Per trenta spade.”
Scosse il capo, cercando di bere ancora e di rinfrescarsi, per quanto possibile. Ma era tutto inutile: le sembrava di avere le spine nella gola e si sentiva impolverata, sudata e sporca. Guardò con desolazione la paglia marcia della stuoia sul pavimento, la lordura che era andata raccogliendosi. Anche ai gatti di casa veniva riservata una lettiera, ma a lei quel lusso non era stato concesso.
Chiuse gli occhi umiliata, scossa da brividi di cocente vergogna.
Le facevano male mani e braccia e il suo corpo era segnato dai lividi e dalle abrasioni della lotta contro lord Rothford. Aveva sbagliato a ribellarsi e respingerlo? C’era chi diceva che la collera del marito era sempre colpa della moglie e qualunque punizione l’uomo infliggesse, la donna era andata a cercarsela.
Sentì una violenta ondata di nausea risalirle su per la gola e dovette piegarsi a terra, ansimando e stringendosi il ventre con le braccia.
“Ma lui non è mio marito e io non sono sua moglie!” ricordò fermamente a se stessa. “Sono una prigioniera, e se proverà ancora a toccarmi userò quel candeliere per spaccargli la testa.”
La raggelò un improvviso rumore di passi, oltre la porta chiusa della sua cella.
Sbarrò gli occhi, mentre il cuore sembrava volerle scappare dal petto.
Afferrò con forza tra le mani quel candelabro che era diventato la sua sola difesa, in preda al panico al pensiero che lord Hedrick fosse tornato. L’avrebbe sopraffatta, questa volta. L’avrebbe schiacciata a terra con l’ansimante brutalità che Sarah ricordava. Ricordava anche la pesantezza delle sue mani e il tocco viscido della sua lingua contro la pelle. Dominò a stento la voglia di mettersi a urlare. Avrebbe lottato contro di lui, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile. Alla fine l’avrebbe avuta come gli era stato riconosciuto il diritto di fare, e Sarah tremava inorridita da ciò che aveva minacciato di farle dopo...
Deglutì, faticosamente come se avesse inghiottito dei bioccoli di lana.
Lui era il signore del maniero e lei una forestiera che gli era stata venduta.
La sete, la fame e la disperazione erano avversarie contro le quali non sapeva come combattere.
Aimery, che doveva proteggerla, non l’avrebbe salvata.
Non l’avrebbe salvata nessuno.
La porta si aprì e Sarah trattenne il fiato, riconoscendo il capitano Roland.
Gli occhi del giovane soldato la percorsero con attenzione, dai corti capelli scarmigliati fino all’orlo della sottoveste lurida, oltre la quale si intravedevano i piedi. Osservò le sue guance rigate di lacrime e polvere, il pallore emaciato che il digiuno e la paura le avevano lasciato addosso.
Arricciò le labbra in un ghigno di divertito disgusto.
— Signora, avete un aspetto orribile!
Sarah gli rispose con uno sguardo sprezzante.
— I vostri occhi sono disperati, ma lucenti come acciaio — aggiunse, avanzando di alcuni passi e accostando la porta alle sue spalle in uno spiraglio che parve a Sarah un raggio di speranza.
Come se le avesse letto nel pensiero, Roland scosse il capo.
— Scappate e master Hedrick vi darà la caccia come a un daino nella sua foresta — l’avvertì. — E poi ragionate: dove potreste andare? Siete in un castello che non conoscete e in una terra che non conoscete. Non avete amici qui. Non avete nessuno.
Quelle parole la fecero trasalire, avvelenandola con la loro logica.
Non poteva scappare.
Non poteva fare niente.
Tuttavia quella consapevolezza, invece di farla crollare, accrebbe la sua determinazione.
— Vi manda lord Rothford? — azzardò freddamente, sollevando il candeliere. — Siete venuto per uccidermi?
Il capitano si fermò, alzando le mani in segno di pace.
— Quando vuole qualcuno morto, lord Hedrick non rinuncia al piacere di occuparsene personalmente — le disse in un tono che Sarah non comprese se voleva essere di rassicurazione o di minaccia. — No, signora, sono qui perché, se ci fermiamo a riflettere insieme, converrete che io sono la cosa più simile a un amico che abbiate, adesso.
Sarah lo fissò con la stessa fiducia che avrebbe riservato a un serpente.
— Cosa volete?
— La fine di questo inutile ritardo — rispose Roland. — Quanto credete ancora di resistere, chiusa qui dentro senza cibo né acqua? Una donna del vostro rango, abituata a essere servita, agli agi e al conforto di un letto caldo, un camino acceso e buone pietanze in tavola? — le domandò, muovendo una mano per sganciare dal cinturone la borraccia. Sarah lo scrutò con diffidenza, guardandolo stapparla e poi portarsela alle labbra per bere una generosa sorsata.
— Ah! — esclamò il capitano con una smorfia di soddisfazione. — Succo di mele allungato con acqua e vino bianco. Sembra nettare! Immagino che abbiate sete, signora. Nella sala maggiore vi attendono un boccale colmo e una tavola apparecchiata con arrosti e pane caldo.
Sarah sentì lo stomaco contrarsi e la gola serrarsi come in una morsa. Deglutì faticosamente.
— Cosa volete, capitano? — gli domandò ancora.
— Voglio solo la felicità del mio signore — rispose lui con innocenza, avanzando di un passo nel chiarore che spioveva dall’esterno, oltre le sbarre della feritoia. Indossava abiti di qualità eccellente, ma troppo grandi per la sua misura, così aveva dovuto rimboccare le maniche e l’orlo dei calzoni. Erano vesti di seconda mano appartenuti a lord Hedrick, comprese Sarah. Prima che potesse accorgersene Roland si era mosso, disarmandola del candeliere e afferrandola per il collo in una stretta inclemente. Sarah boccheggiò, scalciando, ma l’uomo ignorò la sua reazione, inchiodandola alla parete della torre.
— Voglio che lo sposiate! — sibilò contro il suo volto, gli occhi gelidi e le labbra questa volta senza sorriso. — Andrete da lui, vi inginocchierete umile e contrita ai suoi piedi e gli direte che il vostro unico desiderio è diventare la sua sposa.
— No! — protestò Sarah.
Roland la scrollò con forza.
— Lo sposerete! — ribadì crudelmente. — E il giorno delle vostre nozze io avrò l’investitura che mi è stata promessa. Non sarò più un servo della gleba. Mai più! Voglio i miei speroni d’oro. Me li sono guadagnati, in questi anni.
— Oh, sì, immagino quanti orfani e quante vedove avrete protetto! — lo derise Sarah. — Comunque, io non lo sposerò!
Roland la lasciò andare, spingendola per terra.
— Allora morirete, signora — sentenziò con fredda noncuranza. — Ma vi avverto che non sarà una fine rapida né misericordiosa. Languirete qui dentro per la fame, il freddo e la sete. E io dovrò partire per un nuovo viaggio, andando in cerca di un’altra femmina che non sia importante per nessuno.
Si inginocchiò accanto a lei, per accarezzarle una guancia con un tocco stranamente delicato.
— Sarebbe un gran peccato, lady Sarah. Voi mi piacete molto. Implorate il perdono di lord Hedrick, sposatelo e giacete con lui come sapete fare voi donne: a gambe aperte e con gli occhi chiusi, pensando a chissà cosa.
Nauseata, Sarah cercò di sfuggire a quella carezza e a quelle parole pronunciate tanto dolcemente. Roland non glielo permise, affondando le dita tra i suoi capelli corti e costringendola a guardarlo.
— Fatelo! — la incalzò. — E potrei convincere lord Hedrick ad affidare a me la vostra punizione, invece che al resto degli uomini. Vi tratterei bene, signora... come un vero cavaliere!
Sarah guardò quel volto giovane e dall’aria allegra, con i capelli che gli si arricciavano sulla fronte, le labbra sorridenti e gli occhi colmi di spietata ambizione.
Raccogliendo le sue forze, gli sputò in faccia.
Roland si ritrasse imprecando e Sarah si rannicchiò, aspettando un colpo che però non giunse.
Quando riaprì gli occhi, il capitano era ancora davanti a lei.
Prese la borraccia che aveva con sé, rovesciandone lentamente il contenuto a terra.
Gli occhi di Sarah si riempirono di lacrime a quell’ostentato, crudele spreco.
— Ho aspettato anni... posso attendere ancora qualche altro giorno — sentenziò Roland uscendo dalla stanza. — Ma vi avverto: il tempo renderà voi meno testarda e lui più vendicativo. E anche me.
Rimasta nuovamente sola, Sarah appoggiò la fronte contro la pietra gelida del pavimento, desolata e in pena. Non poteva vincere e non poteva resistere ancora a lungo, ma ogni possibilità per il futuro le appariva anche peggiore della cella dove si trovava adesso. Che vita avrebbe mai avuto accanto a un mostro che si circondava di altri mostri? E se un giorno fosse rimasta incinta? Rabbrividì, incapace di rispondersi. Chiuse gli occhi con un sospiro, lasciandosi sprofondare in un’incoscienza nera e confortante.
All’improvviso le sembrò nuovamente di udire una musica lontana.
— Christian... — sussurrò.
Perse i sensi e sognò il suo volto.
21
Nell’aria di Rothford Hall si respirava la paura. E la paura, Christian lo sapeva, aveva sugli uomini l’effetto di una droga.
Lord Hedrick aveva ingozzato la sua gente come si diceva che il vecchio Imam della montagna avesse fatto con i suoi mangiatori d’erba: l’uno aveva usato il terrore e l’altro l’hashish, ma entrambi avevano ottenuto seguaci che mai li avrebbero traditi o delusi.
L’Imam aveva trasformato i suoi adepti in assassini. Rothford aveva mutato gli abitanti del suo castello in topi che si nascondevano spaventati al pensiero della sua collera.
Roland era l’unico che non aveva il timore di ridere in faccia al suo signore, ma Hedrick trattava il giovane capitano come un lord fa con il suo cane prediletto: allentava la catena promettendo qualche prelibato boccone, addestrandolo come più gli faceva comodo.
Christian si accigliò.
Tra tanti ratti il capitano non gli sembrava un mastino, ma una faina.
Una vecchia delle cucine, che Christian aveva fatto ubriacare con un po’ di vino e qualche complimento, gli aveva raccontato della nobile signora tanto stupida da sfidare master Hedrick, schiaffeggiandolo davanti a tutta la sua corte. La megera si era messa a ridere, certa che l’altera lady avrebbe presto abbandonato le sue pose sdegnose. Master Hedrick sapeva come sottomettere chiunque, anche se la doma gentile l’aveva riservata unicamente al suo cavallo prediletto. Master Hedrick diceva che la gente, e soprattutto le donne, aveva meno intelligenza del suo splendido sauro. Lady Sarah Ravency, la straniera, non sarebbe stata diversa da tutte le femmine che l’avevano preceduta.
— Perché dovrebbe essere altrimenti? — aveva concluso duramente la vecchia avvinazzata. — Perché questa forestiera dovrebbe essere più speciale o più fortunata di mia nipote? Che soffra come ha sofferto lei e come hanno sofferto tutte. E poi i Rothford sono maledetti — aveva aggiunto, ingollando un’altra sorsata di vino che le aveva sciolto sempre più la lingua. — Il diavolo si è incarnato in uno di loro, sotto le spoglie di una bambina. Dannate anche le monache che se la sono presa in seno.
Christian le aveva ceduto l’intera fiasca, lasciandola con il suo odio incancrenito.
Aveva già saputo tutto ciò che gli interessava: dove il barone aveva rinchiuso la sua sposa.
— Dunque sei qui, qamar — mormorò, posando la mano sulla parete esterna della cella.
Improvvisamente gli tornò alla mente una poesia ascoltata molto tempo prima, cantata nella lingua di un’altra vita.
Bacio questa parete e quest’altra.
Non è per le case l’Amore che ha preso il mio cuore
Ma per Chi in queste case dimora.
Erano i versi che un povero pazzo aveva scritto sulla sabbia. Eppure immaginando Sarah oltre il muro che li divideva, Christian sfiorò con le labbra quella fredda roccia grigia.
Accarezzò tra le dita il chiavistello che sbarrava la porta dall’esterno.
Era una robusta e rozza serratura: un gioco da bambini per qualcuno che aveva scassinato i forzieri di un sultano.
Fece saltare il meccanismo con l’aiuto di un vecchio amico a cui non era più dovuto ricorrere da molti anni: un lucido, contorto e sensibile fil di ferro.
La porta si aprì senza un lamento.
La cella era pregna di un odore che per un istante riportò Christian indietro nel tempo: nella disperazione di una prigione dove aveva creduto che lo avrebbero lasciato a marcire.
Si scosse, varcando la soglia della stanza.
Sul lurido pavimento giaceva Sarah.
Sembrava un giglio gettato nel fango, raggomitolata come un gattino, gli abiti ridotti a stracci, magra e pallida.
Christian le si inginocchiò accanto, sfiorandole il volto, allontanandole dalla fronte un ciuffetto dei capelli adesso troppo corti.
Aveva le labbra screpolate e il volto segnato dalle prove a cui era stata sottoposta.
Era diversa da come l’aveva ricordata e sognata ogni notte, eppure bellissima anche in quel momento.
Gli risvegliava dentro un desiderio di fiamme nere e devastanti che per placarsi avrebbero richiesto sangue. Tanto sangue.
Lei si mosse, gemendo piano. Aprì gli occhi e Christian le sorrise, pronto a tapparle la bocca nell’istante in cui avesse gridato. Ma Sarah non lo fece. Rimase immobile, fissandolo con occhi sgranati che gli diedero l’impressione di riflettersi nell’argento.
Non gli piacque quel che vide.
Ma ancor meno gli piaceva lo stato in cui si trovava.
Sarah sollevò una mano verso il suo volto, esitando a toccarlo, quasi temendo che potesse dissolversi, rivelandosi un’illusione.
— Sono veramente qui, qamar — la rassicurò.
Lei soffocò un singhiozzo e si gettò tra le sue braccia.
Per un momento Christian la tenne stretta a sé, lasciandola tremare contro il proprio petto, lasciandole piangere le lacrime che non si poteva permettere di sprecare.
Affondò le mani nei suoi capelli, rovesciandole la testa all’indietro. La fissò in quegli occhi pieni del dolore di una donna e dello smarrimento di una bambina.
— Ho conosciuto il tuo promesso sposo, mia signora, e devo dirti che i tuoi gusti in fatto di uomini sono enormemente peggiorati.
— Tu sei qui! — sospirò Sarah, scuotendo il capo incredula. — Com’è possibile? Perché sei qui?
Christian le rivolse quel sorriso che lei aveva imparato a riconoscere e temere nello stesso tempo.
— Ti è rimasto ancora un desiderio: l’ultimo — le ricordò lui. — Non lascio mai niente in sospeso e, dunque, qamar, adesso dimmi cosa desideri: qualunque cosa sia l’avrai — le promise, offrendole su un piatto d’argento la testa di chi le aveva inflitto tutto quello.
— Io... io... — balbettò Sarah confusa.
— Sì, qamar? Dimmi cosa vuoi — la incoraggiò lui. “Dammi un nome” aggiunse tra sé.
D’un tratto lei sembrò decidersi.
— Portami via con te — disse fermamente. — È questo che voglio: restare insieme a te.
Christian rimase in silenzio, lasciando che quelle parole continuassero a vibrare nel lucido acciaio degli occhi di lei.
Tremante, esausta ma determinata, Sarah aspettava una risposta in bilico tra l’incubo e la speranza.
Christian fece per scostarsi e subito lei rafforzò la stretta intorno al suo collo.
Le accarezzò i capelli biondi, sottili e morbidi come i petali di un fiore. Poi le porse una borraccia colma d’acqua presa dalla sua sacca.
Sarah quasi gliela strappò di mano, portandosela alle labbra.
— Bevi piano — la ammonì Christian, senza però stupirsi della rapidità con cui lei svuotò l’intera borraccia.
Anche lui aveva conosciuto il tormento della sete.
Sospirando, Sarah si abbandonò di nuovo contro il suo petto.
— Portami via con te — sussurrò, chiudendo gli occhi. — Voglio restare con te. Ti prego.
— Non devi pregare.
Sarah sollevò le palpebre, ricordando quelle parole e ciò che sempre era seguito tra loro, dopo.
Christian sentiva il sangue bruciare. Aveva voglia di lei. Aveva voglia di uccidere. Prese qualcos’altro dalla sua sacca e Sarah schiuse docilmente le labbra al tocco delle sue dita, lasciandosi imboccare.
Un’espressione di sorpresa meraviglia le comparve sul volto.
— Che cos’è? — domandò, mentre la zolletta le si scioglieva in bocca, nutriente e dolcissima.
— Sale arabo — rispose lui dandogliene un’altra. — Un miele che non ha bisogno di api.
— Sembra una magia — sussurrò Sarah, incantata.
Christian sorrise appena.
— Questa magia, qamar, salvò i guerrieri della Santa Croce durante l’assedio di Antiochia — le raccontò, liberandosi con delicata fermezza dal suo abbraccio.
Sarah cercò di mettersi in piedi. Le tremavano le gambe e Christian le posò una mano sulle spalle.
— Devi restare. Quando avrò... — cominciò a dirle, ma lei lo interruppe, in preda al panico. Si aggrappò disperatamente alla sua giubba, scuotendo la testa.
— No, no! — protestò allarmata. — Ti prego, non lasciarmi qui! Non lasciarmi...
Christian la fece tacere con un bacio, dolce come lo zucchero con cui l’aveva ristorata e salato dalle lacrime che le avevano rigato il viso.
Sarah gli rispose con la disperazione dell’assetata che era, come se le sue labbra fossero una sorgente e lei avesse bisogno di bere e bere e bere...
Infine Christian si ritrasse, poggiando la fronte contro la sua.
— Tornerò presto — le promise, cedendole il mantello. — Cerca di dormire. Riposa — le ordinò, rimboccando i lembi della cappa intorno a lei come una coperta. — Recupera le forze, perché ti serviranno.
Sarah strinse la lana calda tra le dita, sussultando come colta da un timore improvviso.
— No, non posso tenerlo! Quando lord Rothford e il capitano Roland lo vedranno, sapranno che mi stai aiutando. Saresti in pericolo e...
Christian le posò un dito sulle labbra.
— Non torneranno prima di me. Non li vedrai e non ti vedranno.
Sarah annuì, facendosi coraggio.
— Christian? — lo trattenne un’ultima volta, sussurrando esitante il suo nome. — Sei venuto per me... per salvarmi...
— Non guardarmi in quel modo, qamar — la ammonì lui. — Non sono un eroe e non sono un cavaliere.
— Tu sei un genio — disse Sarah, gli occhi che brillavano come due stelle. — Un jinn.
— Un jinn — confermò lui, indugiando con le dita sulla pelle delle sue guance, sempre così deliziosamente morbida. Le catturò il mento, facendole sollevare lo sguardo. — Hai pronunciato il tuo desiderio e adesso io lo esaudirò — le promise. “A modo mio” aggiunse tra sé.
— Mi porterai via? Mi terrai con te?
Christian provò un brivido rovente come il fuoco che gli stava divampando nelle vene.
Sentiva crescere la voglia di lei.
Sentiva crescere la voglia di sangue.
Sorrise ferocemente.
— Tu sei mia, qamar. Tu mi appartieni, Sarah.
22
— Che diavolo fai qui, saltimbanco?
Christian si irrigidì, apostrofato in tono secco.
Il sole era tramontato su Rothford Hall, segnando il termine di una lunga e laboriosa giornata e l’inizio di una notte più lunga e laboriosa ancora.
Un sinistro sorriso piegò le labbra del bardo, riconoscendo il capitano Roland.
Sedette sul pavimento, scomposto come un ubriaco, lungo il vestibolo che conduceva alla cella di lady Sarah.
Guardò di sottecchi il giovane soldato, notando i suoi occhi accesi di eccitazione e le guance imporporate.
“Non occorre chiederti cosa sei venuto a fare tu” pensò Christian freddamente.
Il capitano aveva l’intenzione di fare una nuova visita a lady Ravency.
Per sfogare la propria collera.
Per spezzare la sua inaspettata resistenza.
Christian distese le gambe di fronte a sé in modo casuale, impedendogli di procedere lungo il corridoio.
— Riposavo, signore.
— Guardami, girovago!
Christian obbedì, reclinando il capo all’indietro e percorrendolo con lo sguardo. Notò le armi che portava: la spada al fianco e il pugnale da lancio assicurato a una cinghia, di traverso sul torace.
Rispose con un sorriso all’espressione accigliata del capitano.
Così lord Hedrick voleva che si presentasse Roland: con quel titolo altisonante, che l’assenza del cavalierato trasformava in una facezia.
Ma sempre meglio di aguzzino o tirapiedi, si disse Christian, sostenendo lo sguardo del soldato. Quello era un uomo a cui piaceva guardare gli altri dall’alto in basso, e se non nascevi già in alto dovevi arrampicarti con astuzia e determinazione.
Nello sguardo da faina del capitano Christian non vedeva difettare né l’una né l’altra.
— Hai scelto un posto ben strano dove passare la notte, vagabondo.
— Voi dite? — domandò Christian con innocenza, alzandosi faticosamente in piedi.
Roland lo guardò barcollare con disprezzo.
— Sei ubriaco! — sentenziò, allontanandolo da sé con uno spintone quando le gambe malferme di Christian lo portarono a scontrarsi con lui.
Il bardo rise, fermandosi al centro del corridoio, mentre il capitano indietreggiava disgustato.
— Lord Hedrick è stato molto generoso con me — dichiarò con voce impastata.
— Sì, i tuoi racconti lo hanno compiaciuto — ammise Roland. — Dunque eri presente al torneo di Gaskell Manor?
— Signore, c’era tutto il mondo a quel torneo! — esclamò Christian, spalancando le braccia.
Roland d’istinto posò la mano sull’elsa.
Il bardo rise ancora, accennando un inchino.
— Avete paura di me, signore? Mi lusingate!
Il capitano arrossì, punto sul vivo, e allontanò la presa dalla spada.
— Non mi fido delle coincidenze — rispose in tono guardingo. — Mi pare un caso molto curioso che a Rothford Hall sia comparso tu poco dopo l’arrivo della signora del mio signore, proprio da Gaskell Manor.
— La signora del tuo signore io la ricordo — confermò Christian, continuando a muoversi con la sua andatura da ubriaco. Roland indietreggiava, mantenendo le distanze. — Seria e virtuosa. Non amava le mie canzoni, però.
— Perché ti trovi qui?
Christian si strinse nelle spalle.
— Vorrei farle cambiare idea, suonando per lei.
Roland lo scrutò da capo a piedi.
— Ma non hai con te il liuto, e neppure quella sacca che ti porti sempre addosso. Allora perché te ne vai in giro a ficcanasare? Lord Hedrick taglia la lingua ai menestrelli che non lo soddisfano. Vuoi sapere cosa faccio io con il naso di chi è troppo curioso?
Christian scosse il capo, come se stesse riflettendo seriamente sulla questione.
— Il mio naso sta benissimo dove si trova: qui sulla mia faccia — rispose in tono gioviale. — Che mi dite del vostro?
Roland si accigliò, senza capire.
Le labbra di Christian si piegarono in un sorriso storto.
— Non sentite odore di bruciato, capitano?
Dopo un attimo di incertezza, Roland corse ad affacciarsi a una feritoia.
Ciò che vide lo fece sbiancare.
— Per tutti i diavoli!
Sguainò la spada d’istinto, ma quando si voltò Christian era già alle sue spalle.
Gli bloccò il braccio, inchiodandolo alla parete.
Roland si raggelò, incontrando il suo sguardo. Quelli non erano gli occhi di un ubriaco: erano pezzi di ghiaccio azzurro, dove vide la propria condanna a morte.
— Aspetta! — lo implorò. — Sei qui per la donna, vero? Sì, è così. L’avevo capito, rendimene atto! La vuoi? D’accordo, per me non ci sono problemi. Ci saranno altre femmine per il barone. Guarda che siamo uguali: anch’io vengo dal basso. Ma a te, amico mio, servirà qualcuno che copra le tue tracce. Credi di potertene andare così dopo avere sottratto l’osso da sotto il naso a master Hedrick? Lascia che ti aiuti. Lascia che...
Smise di parlare quando la sua mano sinistra tastò la fodera del pugnale trovandola inaspettatamente vuota.
Christian sorrise sardonico, mostrandogli irridente il coltello che gli aveva sottratto quando lo aveva urtato, poco prima.
— Cercavi questo?
Roland divenne paonazzo.
— Gran figlio di... — s’interruppe e un singulto sfuggì dalle sue labbra di ragazzino crudele.
Un filo di sangue gli rigò il mento. Christian fece una smorfia.
— Voi cavalieri, o aspiranti tali! Con le vostre belle loriche di ferro a proteggervi il ventre e il torace e non sapete, ad esempio, del grande nastro rosso che dall’inguine vi scende nella coscia — disse, ritraendo il coltello.
— Perché?
Christian lo fissò freddamente.
— Perché non si nega mai da bere a chi ha sete.
Il soldato ridacchiò, chiudendo gli occhi.
— Sembri un prete, girovago, ma io non ho mai creduto in Dio.
Christian alzò lo sguardo. Il cielo si colorava di bagliori scarlatti, come sfiorato da lunghe dita rosse.
— Io neanche.
23
Sarah sussultò all’improvviso spalancarsi della porta. Ansimò, fissando con apprensione la sagoma slanciata ferma sull’uscio.
— Vieni, qamar — disse Christian, e lei sentì tremare il cuore.
In quelle ultime ore era caduta in un sonno senza sogni, profondo e stranamente riposante. Si era risvegliata ancora imprigionata, sporca, affamata e con i capelli tagliati corti. Terrorizzata, si era chiesta se il ricordo di Christian in quella cella, che la dissetava, la nutriva e la baciava non fosse soltanto uno scherzo crudele della sua mente vacillante.
Poi aveva sentito il caldo abbraccio della lana intorno al suo corpo, quel mantello che lui le aveva ceduto, pregno del suo odore, con la promessa di tornare a prenderla.
Ci si era avvolta come in un bozzolo di speranza... e poi aveva cominciato a temere per lui.
E se lo avessero catturato?
E se lo avessero scoperto?
Saperlo in pericolo era una tortura peggiore della fame e della sete a cui lord Rothford l’aveva condannata.
Si alzò in piedi, correndogli incontro. Avrebbe voluto gettargli le braccia al collo, stringersi a lui, rifugiarsi contro la solida rassicurazione del suo corpo.
Gli occhi ormai abituati alla penombra le permisero di distinguere la sua espressione: sembrava una maschera di pietra.
Le ricordò la loro ultima volta insieme, quando le si era presentato come un reietto, un bugiardo e un assassino e l’aveva costretta ad ammettere che lo desiderava lo stesso, sempre e comunque.
L’aveva costretta a mandarlo via, ma prendendosi il suo cuore.
Sarah raccolse le forze e il coraggio, fermandosi accanto a lui, silenziosa e vigile.
Christian non l’avrebbe accolta tra le sue braccia, cullandola con parole di conforto.
Non c’era dolcezza né indulgenza in lui, in quel momento: aveva ghiaccio nello sguardo e nervi tesi.
Non l’avrebbe confortata... ma l’avrebbe salvata.
Sebbene scalza e vestita di stracci, nel cuore del castello di un uomo senza pietà, si scoprì improvvisamente a pensare che non era Christian a essere in pericolo: era bene che Hedrick Rothford cominciasse a tremare.
— Andiamo — la esortò lui.
Sarah guardò oltre la soglia.
Non stava solo lasciando la sua prigione, ma anche il suo passato e la vita come l’aveva conosciuta fino ad allora.
Non ci sarebbe stato ritorno. Non voleva che ci fosse un ritorno.
Avanzò senza esitare, sussultando quando Christian chiuse la porta alle loro spalle, facendo scattare il chiavistello.
— Perché? — gli domandò senza capire.
— Perché quando il tuo sposo verrà a cercarti dovrà fermarsi e aprirla. E perderà tempo.
— Pochi attimi — osservò Sarah.
Christian sorrise e nel buio il candore dei suoi denti baluginò come le zanne di una belva. Era il sorriso famelico che le faceva battere il cuore, tremando di aspettativa.
— Qamar, la vita stessa può cambiare, in pochi attimi.
Sarah rabbrividì, percorrendolo con lo sguardo e notando la spada che aveva assicurata al fianco.
— Quell’arma è del capitano Roland — sussurrò, riconoscendola.
— A lui ormai non serve più — fu la laconica risposta di Christian, e la precedette lungo il vestibolo.
Sarah si affrettò a seguirlo. Lui si muoveva con la felpata leggerezza di un gatto, ma neppure i suoi piedi nudi facevano rumore sul gelido lastricato.
Percorsero il vestibolo e svoltarono, fermandosi di fronte a una pesante porta di legno massiccio. Quando Christian l’aprì, Sarah temette che i vecchi cardini cigolassero, facendoli scoprire, invece la soglia si schiuse silenziosa davanti a loro.
Era la camera di una dama, comprese Sarah, mentre i suoi occhi si posavano sul letto drappeggiato dal baldacchino. Poi vide un tavolino, una sedia, una cassapanca e un arcolaio. Il braciere era spento e il caminetto pulito e vuoto come se da molti inverni non conoscesse l’ardore delle braci. La polvere copriva ogni cosa come un velo di seta.
— È la stanza della lady del castello — sussurrò Sarah.
Le sembrava di spiare la grotta di una fata.
Le sembrava di guardare uno specchio dove non desiderava affatto riflettersi.
Christian confermò la sua impressione con un assenso distratto, raggiungendo la parete e facendo scorrere la mano con sicura destrezza sul vecchio arazzo tessuto chissà quando e da chissà quale donna sassone.
— Vieni — le disse, scostando il drappo e tendendole la mano.
Sarah gli corse accanto e quando l’arazzo ricadde dietro le loro spalle le sembrò di sprofondare dentro la roccia. Il suo fiato si spezzò nell’opprimente oscurità dell’anfratto, mentre il suo olfatto veniva aggredito da una mescolanza di polvere e muffa. L’umidità era tale che le sembrò che il castello stesse piangendo e che a bagnarle la pelle fossero le sue lacrime. Tese le mani, afferrando nel buio un lembo della giubba di Christian.
— È una cripta! — sussurrò impressionata.
— È un labirinto — la corresse lui, e una scintilla scoccò nel buio.
Sarah sbatté le palpebre al chiarore improvviso della candela.
Christian la teneva tesa di fronte a sé, facendole da guida in quell’angusto percorso scavato nelle viscere del maniero, fatto di poca aria, terra e pietra.
Sarah sentiva il muschio sotto i piedi. Ignorò lo squittio delle piccole creature che zampettavano lungo i margini dell’anfratto.
— Come riesci a orientarti? — gli domandò, incapace di intuire cosa guidasse i suoi passi in una direzione rispetto un’altra.
— Nel modo più antico e più efficace — rispose lui, sollevando due dita e mostrandole il candido filo di lana che lentamente andava ad avvolgersi in un gomitolo nella sua mano.
Sarah trattenne il fiato, il cuore scaldato dalla fiducia e dell’ammirazione per quell’uomo pieno di risorse, imprevedibile e inafferrabile.
Forse era davvero un jinn, ma sicuramente anche un genio.
— Questa lana è tua, signora. L’ho trovata nel baule che custodiva le tue cose.
Sarah sorrise, provando un pizzico di orgoglio al pensiero che in qualche modo era riuscita a dare anche lei un contributo alla loro fuga.
— Non saprei immaginare un uso migliore!
Christian ridacchiò, compiaciuto dal suo spirito.
Proseguirono in silenzio per un tempo che Sarah non avrebbe saputo quantificare, scendendo scale e svoltando di cunicolo in cunicolo. Le sembrò che fosse trascorsa tutta la notte quando finalmente uscirono all’aperto, da una postierla che dava sul camminamento di ronda di un piccolo bastione secondario. Si appoggiò alle merlature, reclinando indietro il capo per respirare a piene boccate l’aria pura. Guardò il cielo schiarito dai raggi infuocati del sole e si sporse in punta di piedi per osservare la foresta nella penombra che andava schiarendosi. Sotto di loro il fiume rumoreggiava, sfiorando lentamente i fianchi della torre, sinuoso come un serpente dalle scaglie argentee e luccicanti.
Si guardò intorno nel timore che le guardie piombassero loro addosso all’improvviso. Invece, stranamente non si vedeva nessuno: né soldati, né fantesche, né paggi.
— Dove proseguiremo?
— Dall’unica via possibile — rispose Christian con asciutta logica, posandole le mani intorno alla vita. Sarah sbatté le palpebre, fissandolo interdetta.
Lui sorrise in un modo che non la tranquillizzò.
— Coraggio, qamar. L’incendio non durerà per sempre.
— Incendio? — ripeté lei confusa.
Riportò lo sguardo all’orizzonte. Spalancando gli occhi comprese che non era il sole a illuminare il cielo nero di Rothford Hall. Nella notte, alte lingue di fuoco liberavano nell’aria fumo e scintille dorate, crepitando tra le grida dei servitori che si affrettavano a portare secchi d’acqua, gli ordini berciati dalle guardie e le risate isteriche di chi si lasciava andare alla paura e a un grottesco divertimento.
— Hai bruciato il castello! — esclamò Sarah, sgomenta.
— Che esagerazione! Solo il fienile.
— Ma perché?
— Perché con tutti gli uomini impegnati a spegnere il fuoco, la nostra via è libera. Perché nessuno si accorgerà che tu non ci sei e che io non ci sono. Perché un amico era disposto ad aiutarmi, e adesso si starà godendo questo grandioso spettacolo con una bambola tra le mani e il pensiero rivolto alla figlia lontana. Perché questo ci darà tempo. Perché distrarrà lord Hedrick... e anche te.
Sarah si corrucciò.
— Anche me?
Christian le sfiorò le labbra con un rapido bacio e lei chiuse gli occhi, scossa da un brivido a quel tocco leggero, così caldo e inaspettato.
— Ana asif, qamar — le sussurrò in un tono stranamente dispiaciuto.
Poi, sollevandola di peso, la spinse nel vuoto oltre le mura.
24
Lo sconcerto assalì Sarah, impedendole di gridare.
Come in un sogno vide le merlature del bastione allontanarsi e dissolversi nella notte rischiarata dal fuoco dell’incendio.
Vide Christian tuffarsi dietro di lei con un’eleganza di cui il suo volo doveva essere del tutto privo, paralizzata come si sentiva.
Poi non vide altro, sprofondando sotto la superficie del fiume e sparendo inghiottita dalle acque. Urlò con tutto il fiato che il terrore le aveva soffocato in gola. Il suo grido si disperse tra le onde, formando tante bollicine argentee. Sgranò gli occhi, guardandole fuggire in alto, correre verso un velo traslucido che risplendeva di un soffuso lucore.
Quel velo era sopra di lei che galleggiava sott’acqua, tra i pesci e le alghe.
Sentiva le dita della corrente scivolarle tra i capelli, accarezzarle la nuca e il capo con la premura di un’ancella. Sentiva l’acqua ovunque: impregnava il mantello e la sottoveste lurida, scorreva sulla sua pelle come a volere lavare via tutti gli orribili ricordi dei suoi giorni in cella. La mancanza d’aria la colpì dolorosamente in fondo al petto e in lei riaffiorò un istinto antico che la indusse a sbattere le gambe e agitare le braccia.
Durante l’infanzia aveva imparato a nuotare nel mare che bagnava le coste normanne. Si spinse verso la superficie, emergendo per prendere un profondo respiro. Cominciò a nuotare, una bracciata dietro l’altra, stringendo i denti, tremando per il freddo e per l’emozione.
Quando finalmente raggiunse la riva opposta al castello crollò esausta, senza la forza di issarsi sulle braccia e trascinarsi fuori.
Una presa forte la circondò, portandola sull’erba asciutta.
— Christian — mormorò Sarah flebilmente, tossendo e annaspando.
Lui le era accanto, fradicio come lei, ma con un sorriso divertito sul volto.
— Mi hai stupito, qamar! Speravo che riuscissi a stare a galla, ma non avrei scommesso che sapessi nuotare tanto bene.
Sarah fu sopraffatta dal desiderio di picchiarlo.
Alzò un braccio per colpirlo, ma lui le catturò il polso. Lei era troppo stanca per cercare di liberarsi.
— Piano, piano, sirenetta — la blandì, sollevandola tra le braccia. — Il viaggio è ancora lungo.
— Ho freddo — ammise Sarah, rannicchiandosi contro il suo petto e cercando il calore della sua pelle.
— Lo so, ma devi resistere. Adesso dobbiamo allontanarci — stabilì Christian, strappandole di dosso gli abiti zuppi per avvolgerla in una coperta sorprendentemente asciutta.
Sarah sbatté le palpebre, scoprendo così che si erano addentrati nel bosco dove, legato a un albero, li aspettava un cavallo dall’aria mansueta. C’erano alcune coperte arrotolate sul suo dorso, e la sacca di Christian, con il suo liuto e le sue arti magiche, era legata alla sella.
La fece salire in groppa, sistemandosi dietro di lei, e facendo partire l’animale con un tocco di talloni.
Sarah socchiuse gli occhi, reclinando il capo sulla sua spalla. Respirò la fragranza della sua pelle, quell’odore maschio e buonissimo che apparteneva solo a lui.
— Mi hai salvata — sussurrò. — Grazie.
Lui sorrise beffardo, incitando il cavallo al galoppo.
— Qamar, si potrebbe anche dire che ti ho rapita.
Hedrick Rothford guardava le fiamme divorare il suo fienile, sentendo il loro calore alitargli sul viso.
Le lingue infuocate che si srotolavano verso il cielo stranamente lo fecero pensare alla sua sposa: qualcosa di comune e semplice come la fiammella di una candela, come la brace che ardeva obbediente nel camino, poteva inaspettatamente ribellarsi, dimostrando una forza selvaggia e distruttiva.
Provò una fitta all’inguine. Non riusciva a spiegarselo, perché in verità lady Sarah non era il genere di femmina di suo gusto. Gli piacevano giovani, fresche e inesperte: fanciulle impazienti di compiacerlo e timorose di scontentarlo. E quando le possedeva per primo, com’era suo diritto fare, quando amministrava la giustizia, decidendo della vita e della morte, allora sentiva davvero di essere il padrone. Era nato per quello, lo sapeva lui e lo sapevano gli altri. Vedeva come lo guardavano quando attraversava a cavallo il feudo: lo temevano come si teme Dio, e baciavano la sua mano accettando ogni suo volere rispettosamente e di buon grado. Insetti, tutti quanti.
Scandì un ordine e i suoi uomini balzarono indietro, evitando la trave arroventata che crollò a terra in uno spruzzo di faville. Era stata chiamata tutta la gente del castello, che aveva formato una colonna fino al fiume. I secchi passavano di mano in mano, attingendo l’acqua per spegnere l’incendio. Con una smorfia soddisfatta Hedrick guardò le fiamme che venivano circondate e domate: si rattrappivano, abbassando la testa come una bestia in trappola.
Nuovamente pensò a Sarah. Una sua pari, per quanto si poteva considerare pari una donna. Una signora, una lady, non una popolana il cui unico fine era, ovviamente, quello di servirlo.
All’improvviso sentì bruciare sulla guancia la sua vecchia cicatrice. Se la sfregò, assalito da uno sgradevole ricordo: la contadinella incontrata in mezzo ai boschi, Aisley dagli occhi verdi e la bocca come una fragola, che quel bastardo di Warrick Ashton gli aveva sottratto, lasciandolo umiliato, sconfitto e sfregiato per sempre.
Un giorno avrebbe ammazzato Warrick e si sarebbe scopato a morte la sua preziosa servetta, si ripromise, ma per il momento al centro dei suoi pensieri c’era lady Ravency.
L’aveva creduta umile e obbediente, perché ogni moglie tale dev’essere con suo marito; invece gli si era opposta con un ardore guerriero che gli aveva fatto ribollire il sangue, mettendolo nell’inconsueta situazione di non sapere come trattarla.
Voleva punirla, sottometterla, la desiderava discinta e vinta ai suoi piedi come tutte le altre femmine che aveva avuto.
Ma lei non era come tutte le altre femmine: lei doveva essere la sua sposa. E dunque la desiderava anche vestita dei begli abiti che indossavano le principesse: vederla come una regina nelle stanze ormai in disuso appartenute a sua madre.
Voleva picchiarla per la sua imperdonabile insolenza.
Voleva baciare le sue mani e chiamarla “mia signora”.
Era una tortura che non lo portava a niente, solo a bruciare di un desiderio inappagato e a procrastinare il momento in cui l’avrebbe rivista.
Aveva dato ordine non le fossero portati né acqua né cibo né fuoco.
Che soffrisse come stava facendo soffrire lui!
Un grido lo distolse dai suoi pensieri, talmente inorridito e straziante che indusse anche gli uomini a interrompere il lavoro.
— Che accade? — chiese.
L’incendio era ormai domato, così fece cenno di spegnere le ultime braci sfrigolanti. Distolse lo sguardo dalla carcassa scheletrica del fienile per portarlo sulla vecchia comparsa all’ingresso del maniero. Accasciata per terra nascondeva il volto nel grembiule.
— Parla! — la incalzò spazientito.
— Il capitano Roland... il capitano Roland... — balbettò quella tra i singhiozzi, come una povera demente.
Pervaso da un brutto presentimento, Hedrick superò la vecchia, entrando nella torre del mastio a passo deciso. Alcuni dei suoi uomini lo seguirono in silenzio, come piaceva a lui. Altre donne gli indicarono la strada, rincantucciate per terra come fantocci tremanti. Hedrick si accigliò, riconoscendo il percorso che conduceva alla stanza dove aveva messo sotto chiave lady Sarah.
Accelerò il passo, fermandosi bruscamente alla vista del cadavere riverso per terra in una pozza di sangue. Con la pelle diafana e gli occhi sbarrati, Roland sembrava una statua di cera.
— Per tutti i diavoli, master Hedrick! Ma chi può avere fatto questo? — domandò atterrita una delle guardie.
Hedrick si voltò a guardarlo e il soldato impallidì, profondendosi in mille scuse per quell’appellativo errato.
— Mio signore... mio lord... io non volevo... io...
Hedrick gli fece cenno di tacere, ponendo fine a quel patetico borbottio.
Insetti. Nient’altro che insetti.
Sfiorato da un brivido di freddo, proseguì velocemente fino alla cella di Sarah.
Picchiò contro il legno massiccio della porta.
— Mia lady! — chiamò con voce tonante, senza avere risposta. Dall’anello di chiavi che portava alla cinta cercò febbrilmente quella giusta, affrettandosi ad armeggiare con il chiavistello.
Quando la serratura scattò, quasi buttò giù la porta nell’impeto di aprirla.
Si fermò al centro della stanza.
Vuota.
In quella maledetta cella non c’era nessuno.
I suoi uomini si avvicinarono alla soglia cautamente, guardando nella cella e poi guardandosi l’un l’altro.
Hedrick serrò rabbiosamente i pugni.
D’un tratto lo colse un pensiero improvviso.
— Dov’è il bardo? Lo avete visto? — domandò ai suoi uomini, che sussultarono scuotendo il capo come un ottuso gregge di pecore.
Hedrick sentì la collera montargli dentro lentamente, scalzando a fatica l’incredulità che ovattava quelle recenti, assurde scoperte.
— Lord Rothford!
Si voltò a quel richiamo, mentre i soldati si scansavano per far passare lo stalliere.
— Perdonate — disse il ragazzo cadendo in ginocchio. — Perdonate se vi disturbo. Perdonate se mi presento qui, ma ho pensato che questa notizia non potesse attendere. Ho pensato...
— Pensa di meno e parla di più! — tagliò corto Hedrick afferrandolo per il davanti della maglia e scrollandolo con forza. — Che hai da dire?
Lo stalliere deglutì.
— Il vostro cavallo...
— Demon? Che diavolo è successo a Demon?
— Non si trova — rispose il ragazzo. — Mio signore, io credo che lo abbiano rubato.
Hedrick soffocò il grido ferino che gli era salito in gola.
Gli sembrò che mille lingue di fuoco gli esplodessero davanti agli occhi, nel continuo divampare di un incendio che adesso si chiedeva se fosse stato casuale...
Colpì violentemente al volto lo stalliere, che si accasciò a terra senza un lamento, portandosi le mani alla faccia. Poi uscì dalla cella, e i suoi uomini si accalcarono gli uni sugli altri per liberargli il passo.
Si fermò accanto al corpo di Roland, strattonando via la ragazza che si era chinata per chiudergli gli occhi.
— Gli uomini di Rothford Hall tengono i loro occhi aperti anche nella morte — sentenziò cupamente.
Quel bardo... Dio, lo avrebbe scuoiato vivo!
Si era preso gioco di lui, aveva ammazzato il suo cane prediletto, aveva osato rubare la sua sposa e il suo destriero.
Un sorriso terrificante gli piegò le labbra.
Ma quel saltimbanco aveva commesso un tragico errore.
I Rothford erano tutti grandi cacciatori, e Demon lasciava tracce che avrebbe potuto seguire anche di notte e con gli occhi bendati.
25
Sarah si svegliò nuda, avvolta in una coperta asciutta e sulla confortevole morbidezza di un covone di paglia. Sbatté le palpebre disorientata, osservando l’ambiente sconosciuto che la circondava, rischiarato dalla luce danzante di un fuocherello.
Era una casupola di legno e terra battuta, con quattro pareti e un tetto di frasche.
Un casino da caccia.
Notò il suo mantello disteso ad asciugarsi al tepore delle fiamme, insieme alla sua sottoveste e agli abiti di lana e cuoio che appartenevano a Christian.
Anche lui sedeva davanti al fuoco, con solo una coperta annodata intorno ai fianchi.
“È qui con me... davvero?” si domandò Sarah, ancora incredula.
Lo guardò in silenzio, incantata.
I suoi capelli ormai asciutti sembravano riccioli di seta e d’ebano. Il chiarore delle fiamme gli baciava la pelle, facendola risplendere come bronzo lucidato. I muscoli scolpiti delle braccia si flettevano ritmicamente, mentre era intento ad affilare la spada con la cote.
Gli occhi di Sarah si fermarono sulla schiena che lui le volgeva. Le spalle virili, la linea definita dei dorsali, le cicatrici lasciate dai colpi crudeli di chissà quale frusta...
— Sei sveglia — disse a un tratto Christian, facendola sussultare.
L’aveva salvata. L’aveva baciata, posseduta e conosceva tutti i suoi segreti, ma la sua voce e un suo sguardo riuscivano ancora a farla trasalire.
— Sono sveglia — confermò.
— Mangia qualcosa — disse Christian accennando senza voltarsi all’involucro posato vicino a lei.
Con lo stomaco che brontolava per la fame, Sarah ne sciolse i lembi, sentendosi venire l’acquolina in bocca al profumo invitante di carne secca, macerata nella salvia e nel limone.
Divorò quelle striscioline, leccandosi le labbra e le dita senza darsi pensiero delle maniere richieste a una dama nel consumare il suo pasto.
Ingollò una sorsata d’acqua dalla borraccia, dicendosi che no, non si sentiva affatto una lady. Era una fuggiasca, una donna scappata dal marito scelto per lei insieme al suo... Al suo amante?
Poteva davvero permettersi di pensarla così?
Con un sospiro, si abbracciò le gambe contro il petto, guardando Christian che continuava a prendersi cura delle sue armi con la disinvolta competenza di un guerriero esperto.
Sapeva di amarlo fin da Gaskell Manor, e sapeva anche che ormai non avrebbe più amato nessun altro.
“Ma io cosa sono per lui? E come devo pensare a lui?” si domandò, posando la fronte contro le ginocchia e dondolandosi, come faceva da bambina per consolarsi da sola, consapevole che nessuno l’avrebbe abbracciata.
Gli spiragli delle travi lasciavano intravedere la notte. Sembrava non volersi concludere mai.
A rompere il silenzio c’erano soltanto i rumori del bosco, gli sbuffi del cavallo, lo schioccare delle fiamme e lo stridore della cote. Quest’ultima tacque d’un tratto.
Christian si voltò verso di lei e Sarah, improvvisamente imbarazzata, cercò di coprirsi il più possibile con quanto aveva addosso.
Lui la percorse con lo sguardo, sorridendo beffardo di quella manifestazione di pudore.
Si alzò in piedi, avvicinandosi a lei senza curarsi di trattenere la coperta, che si allentò e cadde, lasciandolo nudo. Sarah deglutì, senza riuscire a impedirsi di guardarlo, affascinata dall’elegante prestanza del suo corpo, dalla sicura consapevolezza con cui si muoveva, del tutto a proprio agio.
Ricordava le notti trascorse ad accarezzare la sua pelle abbronzata, scoprendone ogni segno, ogni cicatrice, ogni dettaglio che componevano il suo mistero.
E ricordava anche i suoi occhi che la guardavano, le sue mani che la toccavano dove non l’aveva mai toccata nessuno, le sue carezze che la facevano fremere e la sua lingua che la faceva piangere di piacere.
Lo ricordava contro di lei e dentro di lei.
Voltò il capo, rannicchiandosi per evitare il suo sguardo. Non voleva che la guardasse adesso.
Si sentiva più nuda di quanto mai fosse stata davanti ai suoi occhi, così senza i suoi lunghi capelli.
I suoi capelli erano stati la cosa più bella che avesse mai avuto. La sua migliore attrattiva. La sua unica attrattiva.
A Christian erano sempre piaciuti i suoi capelli.
Ma non li aveva più... le erano stati tagliati brutalmente.
Se prima non vi aveva dato importanza, adesso ne soffriva perché era davanti ai suoi occhi.
Senza i suoi capelli si sentiva così brutta...
Sussultò al tocco delle labbra di Christian sulla pelle, nel punto tenero dove il collo si congiungeva alle spalle.
Sentì la delicata pressione dei denti, e poi il languido indugiare della lingua.
— Perché così timida, qamar? — le domandò, sussurrando contro il suo orecchio. — Perché così spaventata?
Sarah scosse il capo senza rispondergli, mentre le mani di Christian si insinuavano sotto la coperta, stringendola a sé e facendola aderire contro la sua erezione.
Lei singhiozzò, sentendosi tremare. Nonostante tutto, sentendosi bagnare.
Le sue dita la liberarono della coperta, e Sarah chiuse gli occhi.
Danzavano sulla sua pelle, abili e leggere come il tocco di un vero giocoliere.
Sfioravano i lividi che marchiavano le sue braccia, i segni violacei che le erano sbocciati sulla schiena e sulle cosce.
Christian li accarezzava con la delicatezza che avrebbe riservato ai petali di un fiore.
— Cos’è accaduto, qamar? Il tuo sposo non ha avuto la pazienza di attendere la vostra prima notte di nozze? — le domandò in un sussurro dolce, ma in cui lei sentì l’acciaio tagliente di una lama.
Scosse la testa, illanguidita dalle sue carezze. Reclinò il capo all’indietro contro la sua spalla, sentendo il suo torace contro la schiena e la sua eccitazione indugiare nella curva delle natiche.
— Lui ha provato a costringermi. Io non volevo, non volevo... — gli confidò, rabbrividendo al riaffiorare di quegli orribili ricordi.
Christian le baciò la nuca, continuando ad accarezzarla.
Le sue mani le scivolavano sulle guance, sulla gola, sulle braccia. Si intrecciarono alle sue mani e poi le lasciarono andare. Proseguirono sul suo ventre e lì si separano: una per posarsi sul suo seno, l’altra per fermarsi tra le sue gambe.
— Non puoi avere paura di questo. Non con me. L’abbiamo fatto molte volte e ti è sempre piaciuto, qamar. Ti piacerà anche adesso.
Sarah singhiozzò, tremando tra le sue braccia.
La sua voce, le sue carezze, la sua vicinanza e il suo odore le facevano desiderare intensamente essere presa da lui.
— Non so perché volesse... Diceva che non gli piacevo e che era rimasto deluso. Mi ha tagliato i capelli e mi ha trascinata in quella stanza, mi ha sbattuta a terra, mi ha strappato i vestiti e io... io... — La sua voce si spezzò in un singulto quando le dita di Christian si insinuarono tra le sue cosce, accarezzandola, schiudendola, scivolando su di lei e dentro di lei. — Ho afferrato un candeliere e l’ho colpito.
Christian si interruppe sorpreso, sollevando la testa.
Rise divertito contro il suo orecchio, un suono basso e roco che le scese dentro il cuore.
— Una vera guerriera! — esclamò ammirato, mordicchiandole il lobo.
Lei rabbrividì, sollevando le braccia e piegandole all’indietro per affondare le mani tra i suoi capelli. Li scarmigliò, stringendo tra le dita i suoi ricci.
Bruciava e si sentiva al limite.
— Christian! — lo chiamò implorante, girando il capo per cercare le sue labbra.
Lui la baciò dolcemente, esplorandole la bocca, lento e paziente come stava facendo con il suo corpo.
La scosse un brivido che andò a morire tra le sue cosce.
— Ti prego! — mormorò tormentata, spingendo il bacino contro di lui.
— Non devi pregare — le ricordò Christian abbracciandola.
Sarah trattenne il fiato, sentendolo tutto intorno a lei. Un attimo dopo la sollevò e fu dentro di lei. Completamente. Le sfuggì un grido di sorpresa ed estasi che lui raccolse sulla propria bocca, baciandola adesso con la disperata esigenza con cui si muoveva in lei e con lei. Sarah sentì la loro passione divampare come un fuoco che si alimentava di ogni bacio, sospiro e carezza. Cresceva e la travolgeva, facendole perdere il controllo e facendogli perdere il controllo.
Caddero insieme sulla paglia, e Christian la adagiò di schiena, sdraiandosi sopra di lei, cingendosi i fianchi con le gambe, tornando a baciarla e tornando in lei.
Sarah lo accolse stringendolo tra le braccia come se non volesse lasciarlo andare mai, accarezzandogli la schiena e le sue cicatrici.
Raggiunsero l’apice come una deflagrazione nella quale le sembrò di aver gettato il terrore e il dolore degli ultimi giorni.
Rimasero abbracciati nel silenzio e nella penombra del fuoco che ormai languiva.
Pelle contro pelle e cuore contro cuore.
Sarah nascose il volto contro il suo, sfiorando appena con la lingua l’umidore che gli velava la gola.
— Qamar — sussurrò lui, ancora ansimante, mentre passava le dita tra le sue corte ciocche bionde.
— Mi dispiace — sussurrò lei.
— Per cosa?
— I miei capelli. Ti piacevano, e adesso sono così...
Lui la fece tacere posandole un dito sulle labbra.
Le accarezzò delicatamente, gonfie com’erano per i baci che si erano scambiati.
Sarah lo guardò in silenzio: i suoi occhi nella penombra sembravano quasi neri e più impenetrabili che mai.
— Fatima — disse infine Christian, la risposta a una domanda che lei non comprese subito quale fosse. — Mia madre si chiamava Fatima.
Sarah si strinse a lui, con gli occhi pieni di lacrime e il cuore straordinariamente leggero.
Le sembrava quasi che le avesse detto “ti amo”.
26
Hedrick divelse con un colpo di spada il lungo ramo nodoso che gli ostacolava il passaggio.
Alle sue spalle i cavalli sbuffarono nervosamente, tradendo il timore che serpeggiava nei loro cavalieri.
Il barone affondò gli speroni nei fianchi della bestia che, più saggia di molti uomini, evitò di lamentarsi, proseguendo lestamente lungo la via adesso libera.
Il sole del nuovo giorno era alto nel cielo e i suoi raggi spiovevano nel fitto della foresta come una pioggia di frecce luminose.
Il volto di Hedrick non rivelava nessuna emozione, mentre avanzava in quell’intreccio di vecchi alberi, frasche e cespugli che circondavano Rothford Hall.
Un brivido gli scivolò lungo la schiena, avvertendo il piacere della caccia. E cacciare la preda umana aveva tutto un altro e più inebriante sapore.
Ricordò la fanciulla che aveva inseguito in quello stesso bosco: correva come una cerbiatta, mentre i rovi le graffiavano le gambe e le sue vesti si impigliavano tra i rami.
Si era divertito a concederle un certo vantaggio, illudendola di potergli sfuggire e mettersi in salvo, per poi incitare Demon e divorare con una breve galoppata la patetica distanza da lei guadagnata.
L’aveva fatta cadere a terra. Le aveva chiesto il suo nome e lei aveva risposto di chiamarsi Aisley.
Era uno dei divertimenti nell’inseguire prede umane: gli animali non parlavano. Gli animali non supplicavano né cercavano di guadagnarsi la sua clemenza.
Gli animali avevano dignità.
Aisley, scarmigliata e senza fiato, aveva gridato aiuto, quando lui le era salito sopra.
Gli sarebbe dovuta essere grata per l’onore che le concedeva e rivolgersi a lui chiamandolo “mio signore”, ma Aisley aveva rivolto quel titolo a qualcun altro, sussurrando il nome di Warrick Ashton con occhi scintillanti.
Il cuoio dei guanti di Hedrick scricchiolò per la forza con cui le sue mani strinsero le redini. Non aveva ancora potuto vendicarsi di Warrick, della preda che gli aveva sottratto e dello sfregio che gli aveva lasciato sul viso. Ma avrebbe fatto pratica sul bardo: la sua punizione sarebbe diventata una leggenda nera. Nessuno sfuggiva al lord di Rothford Hall. Nessuno toccava ciò che era suo.
Il pensiero di lady Sarah la sua disobbediente, perfida sposa, rese fuoco vivo il suo sangue. Non pensava più a lei come alla sua signora, ma come a una prigioniera: la sua sgualdrina.
Si guardò intorno. I rami spezzati erano il segno del passaggio di Demon. Sulla terra umida c’erano le impronte dei suoi ferri. Hedrick sorrise. Era vicino, sempre più vicino. Poteva già sentire sulle labbra il buon sapore della rivalsa. E del sangue.
In sella dietro a Christian, con le braccia strette intorno alla sua vita, Sarah osservava in silenzio la foresta che stavano attraversando. Era come un cupo labirinto: il verde intenso delle fronde, il marrone annerito della corteccia, il muschio, le foglie e i sassi. Ma a sorprendere il suo sguardo c’erano anche il violetto delle campanule, il candore dei biancospini e le intense sfumature delle rose selvatiche. Nell’aria ancora inumidita dalla rugiada mattutina si sprigionavano profumi come dalle magiche ampolle di un erborista.
Sarah respirava a pieni polmoni, sentendosi viva. Sentendosi libera. Nei viaggi compiuti in vita sua, ad accompagnarla c’era sempre stata una scorta armata e lei si muoveva su un carro coperto oppure in sella a una docile giumenta. Indossava abiti pesanti, con guanti di capretto, stivali conciati finemente e cappe bordate di pelliccia.
Questa volta viaggiava insieme a un solo uomo, aveva perso le scarpe, aveva solo una sottoveste lisa e un mantello maschile. Ma non si era mai sentita più al sicuro e a proprio agio di così.
Quando sarebbero arrivati? Dove stavano andando? Dove l’avrebbe portata Christian?
Non lo sapeva e neppure le importava. Dopo il terrore e la sofferenza degli ultimi giorni, dopo gli stenti, le minacce, il freddo, la fame e la fuga lungo i cunicoli più nascosti di un castello, dopo un volo nel vuoto, un tuffo nel fiume e una galoppata nella notte, si sentiva stranamente pervasa da una calma sconosciuta.
Christian era con lei, e questo bastava a infonderle fiducia.
Appoggiò la fronte contro la sua schiena.
— Stanca, qamar? — le domandò lui voltandosi per guardarla.
Lei scosse il capo, sorridendogli.
Gli occhi del bardo la studiarono per un istante, mentre continuava a guidare la loro cavalcatura con la mano di chi è abituato a galoppare anche senza reggere le briglie, tutt’uno con l’animale come un centauro.
— Non possiamo fermarci. Il barone ormai avrà scoperto la tua sparizione e la mia assenza. Ci starà dando la caccia.
Lei annuì.
— Lo so. Proseguiamo.
Quando passarono sotto un albero di mele, Christian sollevò un braccio, staccando un frutto.
Il ramo si piegò, scrollando su di loro una pioggerella di rugiada.
Sarah rise divertita, offrendo il volto a quelle gocce leggere, impalpabili come le benedizioni gettate su una sposa.
Christian le porse la mela e lei l’addentò con gusto.
Aveva un sapore pungente e selvatico, ma indugiava dolcemente sulla sua lingua, facendole venire voglia di un altro assaggio e poi di un altro ancora.
Come i baci di Christian.
Le rimase il torsolo, che gettò al margine della via. Una lepre uscì da un cespuglio, annusando incuriosita quel boccone inatteso.
Sarah rise ancora, deliziata da quell’immagine.
— Non farlo, qamar — l’ammonì Christian con voce bassa.
Lei lo guardò senza capire.
— La tua risata — si spiegò lui, voltandosi e guardandola in un modo che le fermò il respiro in gola. — Mi fa venire voglia di tirarti giù dal cavallo e prenderti contro una di queste querce. Oppure darti un assaggio di ciò che ho imparato da quelli che chiameresti i barbari del deserto — aggiunse, bruciandola con la lenta carezza dei suoi occhi chiari. — In sella ci vivono, dormono, ammazzano e si accoppiano.
Sarah non rispose. Stava tremando, e non di paura. Sfiorò con le dita la sua schiena, posandovi il palmo e percorrendola come se stesse accarezzando il mantello di una belva. Risalì verso la nuca, affondandogli le dita nei capelli.
Christian socchiuse gli occhi: due spiragli azzurri, attenti e sornioni sotto il tocco delicato della sua mano.
— Tu puoi farmi tutto quello che vuoi — gli disse Sarah sommessamente.
Il cavallo sbuffò, le orecchie puntute frementi, innervosito dalla tensione che percepiva nel suo cavaliere.
Christian si scosse, afferrando la mano di Sarah e allontanandola da sé. Non la lasciò andare, però, trattenendola tra le dita e sfiorandone il palmo con una guantata carezza, e lei si sentì percorrere da un brivido, mentre quel tocco lieve le irradiava nel sangue un fuoco che sembrava volerla risvegliare.
— Sei un sorprendente controsenso, qamar: così docile e così pericolosa — le disse, portandosi la sua mano alle labbra.
Sarah deglutì, alla sensazione vellutata della sua lingua sulla pelle.
— Christian, io... — S’interruppe, sentendosi improvvisamente troppo insicura e timida. — Tu mi hai salvata.
— No — dissentì lui. — Io ti ho rapita, non dimenticarlo.
Lei sospirò.
— Perché dici così?
Christian sogghignò, lo sguardo percorso da un bagliore quasi sacrilego.
— Perché non sono un cavaliere e neppure uno dei santi guerrieri che riempiono le favole della tua religione. Forse l’unica cosa che volevo era sentire ancora una volta il tuo corpo sotto il mio. Forse voglio venderti a qualche principe del deserto: con la tua bellezza di luna e d’oro faresti salire oltre le stelle le offerte di un’asta.
Risentita, lei si sottrasse alla sua presa, picchiando i pugni contro la sua schiena.
Lui rise, sottomettendola con facilità irrisoria.
Beffandosi delle sue proteste, si impossessò della sua bocca con un bacio che era miele e veleno, predominio e seduzione.
Sarah cercò di resistergli... inutilmente.
Schiuse le labbra per lui, cedendo e rispondendogli.
Si chiese perché facesse così, respingendola per poi attrarla, nella crudele tortura a cui la fiamma sottopone la falena.
Christian la lasciò andare, con il fiato corto e l’espressione impenetrabile. Tornò a guidare il cavallo, spronandolo ad accelerare il passo senza più guardarla.
— Sei un bastardo — sussurrò Sarah, restando ferma sulla sella, composta e dignitosa come la lady che era stata educata a essere.
— Un gran bastardo — concordò Christian asciutto, tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé. — E più di quanto tu possa immaginare.
Poi affondò i talloni nei fianchi del cavallo.
— Adesso tieniti forte. Dobbiamo sbrigarci.
Li aveva raggiunti.
Erano in trappola.
Erano suoi.
Hedrick soffocò una risata, mentre le tracce si facevano sempre più evidenti, esplicite come le profferte di una puttana.
Gli uomini faticavano a tenere il passo, ma non gli importava: che mangiassero la sua polvere. Non aveva bisogno di loro. Non aveva bisogno di nessuno. Sarah e il bardo...
Il pensiero di averli tra le sue mani quasi lo fece impazzire.
Li voleva come non aveva mai voluto nessuno... tranne forse Warrick Ashton.
Ma questa volta non ci sarebbe stato nessun vecchio lord a frapporsi tra lui e il proprio divertimento.
Con quale dei due avrebbe cominciato? Con la sua sposa traditrice o con il serpente che gli si era annidato in seno?
Incitò il cavallo a superare con un balzo il tronco abbattuto che ostruiva il sentiero.
Sentì l’ebbrezza del vento sul volto, mentre il tempo era scandito dai battiti accelerati del suo cuore. Sarebbe piombato sui due fuggiaschi come un falco. Li avrebbe colpiti come una maledizione divina. Sarebbero impazziti di terrore. Sarebbero stati suoi. Si sarebbero arresi, implorando subito pietà? Si sarebbero intestarditi a battersi? Per l’inferno, moriva dall’impazienza di scoprirlo.
Il cavallo atterrò con eleganza, impennandosi sulle zampe posteriori come nel ritratto di un condottiero. Hedrick rise, chiamando a raccolta i suoi uomini. Sguainò la spada... e il suo braccio si fermò a mezz’aria, mentre la piccola radura davanti ai suoi occhi si rivelava vuota.
C’era solo Demon che, legato a un albero, agitava il capo, segnando la terra con i suoi zoccoli.
— Per Dio, lord Rothford, hanno usato il vostro cavallo come un’esca! — esclamò sconcertata una delle guardie.
— Sì, spingendoci su una falsa pista — aggiunse un altro.
— Il povero animale sarà impazzito di terrore all’odore dell’incendio — dedusse l’ultimo soldato.
Per loro fortuna, nessuno dei tre commise l’errore di sghignazzare. Stupidi come bestie, ma degli animali avevano anche l’istinto di sopravvivenza.
Hedrick smontò da sella, avvicinandosi al suo magnifico stallone. Lo liberò, accarezzandogli il muso e sussurrandogli all’orecchio parole tranquillizzanti.
Demon si calmò, riconoscendo il suo tocco e la sua voce, sfregandosi contro la sua mano.
— Eccoci di nuovo insieme. Hai sempre saputo che ti avrei ritrovato, vero? Sì, lo sapevi... e anche chi ti ha rubato lo sapeva. Hai avuto paura? Per questo hai permesso che ti portassero via da me? — gli domandò Hedrick con voce suadente, facendo scorrere la mano guantata sul mantello lucido. — Sei sempre stato splendido. Superbo e splendido — aggiunse dolcemente.
E con un colpo improvviso di spada gli squarciò la gola.
Gli uomini sussultarono, sorpresi e inorriditi.
Demon rantolò di dolore, gemendo e lamentandosi mentre il sangue ruscellava dal suo collo possente.
Piegò le zampe, crollando a terra, scalciando e agitandosi sempre più lentamente.
Infine, con un ultimo sbuffo straziato, smise di muoversi, rassegnato, annegando nel suo stesso sangue.
Hedrick lo guardò negli occhi: lucenti pezzi d’onice inesorabilmente pervasi dal fantasma della morte.
— Questo succede a chi mi tradisce e mi inganna — sentenziò, pensando a lady Sarah e al bardo...
Christian.
Sì, si era guadagnato il diritto di essere chiamato per nome.
Dovunque fosse andato, lui lo avrebbe trovato.
Il desiderio che lo aveva guidato fino a quel momento si era trasformato nel furore bianco dell’ossessione.
Il sole stava scomparendo dietro le montagne quando Christian trasse a sé le redini del cavallo, interrompendo finalmente quella interminabile cavalcata.
Sarah sollevò il capo dalla sua schiena, contro la quale aveva finito con l’abbandonarsi.
Era esausta, ma aveva negato di sentirsi stanca ogni volta che lui gliel’aveva chiesto.
Si era fatta forza, stringendo i denti per non lasciarsi sfuggire neanche un lamento, anche se il corpo le doleva in ogni parte e si sentiva sul punto di svenire sulla sella.
Dall’alba al tramonto avevano cavalcato senza fermarsi mai, attraversando boschi e campi abbandonati, sempre tenendosi lontani da poderi e fattorie.
Nessuno doveva essere testimone del loro passaggio, per il bene di tutti.
“Al povero diavolo che gli raccontasse di averci visto il tuo lord Hedrick darebbe una moneta d’oro come ricompensa, e poi un cappio per punirlo di non averci catturato” aveva detto Christian.
— Siamo arrivati.
Quelle parole la rianimarono, ispirandole curiosità.
— Dove siamo? — gli domandò, cercando di guardare oltre la sua spalla.
Nelle ombre proiettate dal tramonto distinse le linee austere di una roccaforte sormontata da una croce.
Sbatté le palpebre, fissando le mura scoscese, la cima aguzza del campanile e il fumo sottile che si levava verso il cielo dal comignolo delle cucine.
— Un monastero! — esclamò, ricordandosi improvvisamente di ciò che le aveva detto il capitano Roland. — È quello che chiamano il convento del diavolo?
— Molto brava! — si complimentò Christian. — Sì, è esattamente quell’abbazia. Tra le sue mura potrà pure esserci il diavolo, ma lì avremo la speranza di un’amica.
— Un’amica? — ripeté Sarah stupita.
— Qamar, la madre badessa di quel monastero è Bethany Lamartes, la sorella di Jamie Lamartes.
27
Nei mosaici delle cattedrali o sui bassorilievi delle chiese le sante erano ritratte sempre nella stessa posa: nobili e ieratiche, con gli occhi rivolti al cielo e le mani congiunte in preghiera.
La madre superiora Bethany Lamartes decisamente non sembrava una santa.
In ginocchio nell’orto, con le mani affondate nella terra e i piedi nascosti in un vecchio paio di robusti stivali, lavorava con l’instancabile tenacia di un agricoltore.
Aveva il crocifisso intorno al collo, una piccola zappa in mano e il velo raccolto in un nodo, com’era costume delle contadine perché non fosse d’intralcio nel lavoro.
La monaca si alzò con un sospiro, passandosi il braccio sulla fronte accaldata.
— Una terra dura come il cuore degli uomini — sentenziò, riponendo gli attrezzi in un cesto e passandosi le mani sul grembiule stretto in vita.
— Una terra di guerrieri e pastori, non di contadini, fedele all’Antico Testamento — interloquì il bardo con voce pacata.
Bethany si voltò, osservando il forestiero.
Si era presentato alla sua porta insieme a una donna che sembrava fuggita dall’inferno.
Le labbra le si arricciarono in una smorfia di ironia al pensiero di come i creduloni chiamavano il suo convento: monastero del diavolo.
— Cosa ne sai delle mie pecore? — domandò Bethany, fissando lo sguardo negli occhi chiari dello straniero. Un trovatore, un cantastorie girovago. In cuor suo non poté impedirsi di provare dell’indulgenza. In rime farsesche e versi sfacciati gli uomini trovavano il coraggio di raccontare la verità, come diceva sempre il suo caro fratellino Jamie.
— Mi risulta che la loro lana sia molto pregiata. La sposa del leone dormiente l’ha scelta per tessere il suo arazzo più bello — rispose lo sconosciuto.
Bethany sussultò, scrutandolo con più attenzione ancora.
— Ti sei presentato alla guardiola come un cristiano, ma solo adesso comprendo ciò che intendevi davvero: tu sei Christian di Deerstone.
— Signora, io non appartengo a nessun luogo.
Un sorriso misterioso sfiorò le labbra della badessa.
— Sei esattamente come Jamie ti ha descritto nelle sue lettere. E non chiamarmi signora. Io sono sorella Bethany.
— Così sia — acconsentì Christian, abbassando umilmente il capo.
La suora andò a sedersi sui gradini del porticato, sfilandosi gli stivali infangati per calzare i sandali che l’ordine richiedeva. Si tolse il grembiule e intanto, sistemandosi il velo, osservò Christian con curiosità.
— Jamie mi ha scritto che siete stati compagni di viaggio e che nella battaglia contro i pirati del nord la tua sapienza medica ha salvato la vita del nostro tutore.
— Madre superiora, messer Lamartes mi ha detto poco di voi, ma vedo che avete gli occhi dello stesso colore — disse il bardo, piegando rispettosamente il ginocchio a terra.
Bethany sorrise.
— Non hai altro da dirmi? Solo che io e mio fratello abbiamo lo stesso sguardo?
Christian scosse il capo.
— Non lo stesso sguardo. Il vostro è tiepido come la terra che coltivate, che germoglia, sfama i suoi figli e, sebbene nascosta, vive e produce sempre. Gli occhi di vostro fratello possono sembrare quelli smarriti di un cucciolo, ma in realtà hanno la durezza della selce.
Con il mento posato sulla mano chiusa a pugno, Bethany ascoltava le parole del girovago.
— Chi è la donna che viaggia con te, mastro Christian?
— Lady Sarah Ravency.
— Questo nome non mi è nuovo... Non è la sposa destinata al nuovo barone di Rothford Hall?
L’unica risposta del bardo fu un sorriso colpevole.
Un cipiglio pensieroso si disegnò tra le sopracciglia di Bethany.
— Immagino che non sia stata trattata con dolcezza... ma non importa. Come un marito tratta la moglie non è affar nostro e ciò che Dio unisce non è potere degli uomini dividere.
— Non erano ancora sposati — precisò Christian.
La badessa sospirò.
— Posso comprendere, tuttavia è consuetudine che un uomo disponga come meglio crede della sua promessa sposa.
— Com’è consuetudine che i soldati dispongano come meglio credono di una preda di guerra.
La suora trasalì. Nell’espressione addolorata che incrinò il suo volto Christian intravide la fanciulla che era stata quando aveva vissuto la presa della sua casa, e da giovane principessa si era ritrovata schiava. Ma era stata anche salvata e protetta.
Era diventata una regina, sebbene seduta su gradini di pietra, con le mani indurite dai calli e la gonna inzaccherata.
— Adesso comprendo perché piaci tanto a Jamie: siete uguali, voi due.
Il bardo inarcò un sopracciglio a quella sorprendente osservazione.
— Oh, lo siete — insistette Bethany. — Entrambi spietati. Entrambi privi di scrupoli, di esitazioni o dubbi nel perseguire ciò che volete o in cui credete. Colpite al cuore il vostro avversario senza bisogno di armi — aggiunse con un sospiro, alzandosi in piedi. — Spero solo che un giorno anche Jamie possa trovare qualcosa da difendere.
— Reverenda madre... — cominciò a dire il bardo, ma con un gesto lei fermò la sua ammenda.
— Jamie è l’unico amore che mi è rimasto su questa terra. Potrei negare aiuto a qualcuno che gli somiglia così tanto? A qualcuno che lui mi ha sempre presentato come suo amico? Puoi restare, Christian di Nessun Dove. Può restare anche lady Sarah, ma ti avverto: presto il barone verrà a cercarvi anche qui. Non sarà una favola nera a tenere fuori da queste mura lord Rothford.
Il bardo annuì.
— Vi ringrazio, reverenda madre. Prometto che questa sosta sarà breve.
Bethany lo percorse con uno sguardo indagatore, precedendolo lungo il vestibolo che conduceva alla foresteria del chiostro.
— E poi dove andrai con la tua lady?
Christian non rispose.
Sarah si rigirò tra le coperte pulite.
Con il volto affondato nel guanciale, ripensò all’ospitalità che le monache le avevano concesso: un bagno caldo, una tunica pulita, un pasto nutriente e infine un letto morbido.
Mentre quelle meraviglie si susseguivano una dopo l’altra, lei aveva provato il desiderio di mettersi a piangere. Era scivolata sotto le coperte, chiudendo gli occhi nella stanzina che le era stata assegnata. Improvvisamente l’aveva travolta tutta la stanchezza di quel lungo giorno di viaggio... e poi anche la paura: per la prima volta da quando erano fuggiti da Rothford Hall, Christian non era con lei.
Il cuore le era balzato in gola, ed era scesa dal letto, correndo alla porta... e lì fermandosi, dandosi della sciocca. Quella notte non potevano certo dormire insieme, e in ogni caso lei non aveva niente da temere.
“Ma lui sarà ancora qui, domani mattina?” si era chiesta con un brivido di apprensione.
Si era risposta di sì.
Non l’avrebbe lasciata. Non adesso.
“Devo riposare e recuperare le forze. E anche lui.”
Il loro viaggio non era terminato.
“Dove andremo? Cosa faremo?”
Sarah non sapeva rispondersi, ma non riusciva neppure a guardare così in là nel futuro.
Senza chiedersi altro, era caduta in un sonno greve e privo di sogni.
Fu un raggio di sole a svegliarla, scivolando come una libellula tra le imposte serrate della finestrella.
Un nuovo giorno. Un nuovo viaggio?
Si voltò per scendere dal letto, sussultando nello scoprire improvvisamente di non essere sola.
In piedi accanto al suo giaciglio, c’era una fanciulla di età indefinibile, alta e sottile. La tunica informe del convento la avvolgeva dal collo fino agli zoccoli pesanti.
Aveva i capelli corti e ricciuti che la luce del mattino sfumava di un insolito color ruggine. Gli occhi erano scuri, neri e impenetrabili come quelli di una statua. Il viso era corrucciato in un’espressione inquisitoria, ma addolcita dalla bocca carnosa e naturalmente rossa.
— Chi sei? — domandò Sarah.
La ragazzina sorrise fieramente.
— Io sono il diavolo!
Sarah sbatté le palpebre, credendo di non avere capito bene.
— Il diavolo?
La fanciulla annuì, posandosi le mani sui fianchi con aria pretenziosa.
Sarah notò che aveva le unghie rosicchiate.
— Tu, invece, vieni dall’inferno come dicono? — domandò la ragazzina, dondolandosi sui talloni e riuscendo a non fare rumore sul pavimento di pietra.
“Deve avere imparato da molto tempo come camminare senza che nessuno si accorga di lei” dedusse Sarah.
— Vengo da Rothford Hall.
L’altra fece spallucce.
— E non è la stessa cosa? — domandò, saltando sul letto di Sarah. La gonna della tunica risalì un po’ per quel movimento scomposto, mostrando due gambe lunghissime, dritte e sottili come quelle di una cerbiatta.
— Quanti anni hai, diavoletto?
Lei arrossì, come se fosse abituata a fare domande, anche con insistenza e petulanza, ma non a rispondere.
— Non lo so bene — ammise. — Forse quattordici... forse quindici... Il nonno diceva che ero nata nell’inverno più freddo degli ultimi vent’anni. Ma se chiedi a due contadini qual è stato l’inverno più freddo sono capaci di darsele di santa ragione, dicendo uno un anno e uno un altro.
Sarah sorrise.
— E chi era tuo nonno?
— Il barone Rothford — rispose la fanciulla con innocenza.
Sarah si sentì gelare il sangue nelle vene.
— Oh, non Hedrick, sia chiaro! — si affrettò a precisare la ragazzina. — Quello è solo mio cugino, anche se adesso tutti lo chiamano barone. È da lui che sei scappata? Non preoccuparti, non dirò niente a nessuno. Ti ha fatto del male? È sempre stato un odioso ammasso di sterco.
— Qual è il tuo nome?
— Mary — rispose la fanciulla.
— È un onore incontrarvi, lady Mary Rothford — recitò Sarah alzandosi e facendo un inchino.
Mary sgranò gli occhi.
— Come siete elegante! — sospirò, improvvisamente intimidita. — Sembrate una dama anche con la tunica delle monache, scalza e con i capelli corti.
Sarah le sorrise, prendendola per mano.
— Anche voi siete una lady.
Mary scosse il capo, stringendole brevemente le dita tra le proprie, prima di saltare a terra con un balzo, lanciandosi verso la porta.
— No. Io sono il diavolo: lo sanno tutti! — affermò testardamente, indugiando un momento sull’uscio della cella. — Addio, mia lady, e siate prudente: Hedrick è cattivo e cocciuto. Non vi lascerà andare facilmente — l’avvertì, scomparendo poi lungo uno dei tanti corridoi che si intrecciavano all’interno del monastero.
Uscita dalla stanza, Sarah s’incamminò per il vestiboli, lasciandosi guidare dall’intuito e dai ricordi della sera prima.
Sapeva che Mary aveva ragione riguardo le probabili intenzioni di lord Rothford.
Il barone l’avrebbe inseguita non perché la desiderasse, ma perché non poteva tollerare l’insulto che gli era stato arrecato, coprendolo di ridicolo agli occhi di tutta l’Inghilterra.
“Preferirebbe sapermi morta piuttosto che libera” rifletté, uscendo all’aperto e alzando il volto al caldo sole estivo.
Proseguì verso le stalle, meravigliandosi che il pensiero di lord Hedrick, furioso e sulle sue tracce non la spaventasse. Sollevò le mani di fronte al viso e le guardò: erano fragili e sottili, segnate dal lavoro all’arcolaio. Ma non tremavano. Le strinse a pugno, sorpresa dalla determinazione di cui si sentiva pervasa.
— Bene alzata, qamar.
Sarah sussultò, portandosi le mani al petto.
Sotto la tettoia delle scuderie, Christian era intento a strigliare il loro cavallo.
Posò la spazzola, osservandola, e Sarah si sentì improvvisamente insicura.
Era lui a darle coraggio, ma sapeva anche sottrarle qualunque certezza.
— Ho incontrato una fanciulla dai capelli rossi — gli raccontò.
Le labbra di Christian si incresparono in un sorriso ironico.
— Il diavolo di Rothford Hall? Anche sorella Bethany mi ha parlato di lady Mary.
Sarah annuì, allungando una mano per posare una carezza sul muso grigio del cavallino.
Non era una bestia di razza, ma l’affetto riconoscente che Sarah già gli portava lo rendeva ai suoi occhi il più nobile dei destrieri. Un amico prezioso. Un compagno di avventura.
— Perché la chiamano in questo modo? Mi è sembrata una creatura semplice e spontanea.
— Perché è indemoniata — rispose Christian asciutto.
Sarah lo fissò incredula.
— Non parli sul serio, vero?
Lui sogghignò.
— A volte lady Mary cade a terra. Il suo corpo trema e la bocca le si riempie di schiuma. Gli antichi Greci l’avrebbero onorata come una sacerdotessa delfica, prediletta dagli Dei. Per i vostri preti è un’anima dannata, posseduta dal demonio.
Sarah abbassò lo sguardo.
— Mi dispiace, povera piccola. Deve avere sofferto tanto.
— Le brave monache la coccolano come una figlia. A soffrire saremo noi, qamar, se il tuo sposo ci raggiunge. Immagino che a quest’ora abbia già ritrovato il suo cavallo e compreso che abbiamo percorso la strada opposta.
Sarah annuì, pronta a seguirlo, pronta ad andare ovunque lui avesse deciso.
— Con un po’ di fortuna raggiungeremo Kingsden in pochi giorni e da lì arrivare a Gaskell Manor sarà ancora più facile.
Sarah si raggelò a quelle parole. Il suo cuore mancò un battito per poi cominciare a correre come se volesse fuggirle dal petto.
— Gaskell Manor? — ripeté con un filo di voce.
Christian annuì.
— Informato dei modi barbari con cui Rothford ti ha trattato, confido che il tuo adorato Aimery si ravveda e giunga a più saggi consigli — ragionò, stringendo le cinghie della sella e sistemando con cura tutto l’occorrente per riprendere il viaggio. — Quando sarai nuovamente sotto la sua ala protettrice...
— No! — gridò Sarah con tutte le sue forze, sussultando per la violenza con cui il diniego le proruppe in gola.
Ansimò, portandosi le braccia intorno allo stomaco, sopraffatta da un’ondata di nausea, sollevando il volto per incontrare lo sguardo di Christian.
Lui la fissava sorpreso. Probabilmente gli sembrava una pazza.
— No, no, no! — ripeté, respirando pesantemente.
Sollevò una mano, posandogliela sul petto. Strinse convulsamente le dita nella sua giubba, come se fosse un’ancora di salvezza.
— Non voglio tornare a Gaskell Manor, non voglio tornare da Aimery! Io non voglio rivederlo mai più. Mai più, capisci?
— Qamar...
Lei si ritrasse come se si fosse ustionata. Gli voltò le spalle, passandosi stizzosamente il dorso delle mani sulle guance rigate dalle lacrime.
“Non voglio piangere per questo... Non voglio piangere davanti a lui” si rimproverò, furente con se stessa, ma sopraffatta da un dolore lancinante. Era come una ferita aperta cosparsa di sale.
— Aimery aveva il dovere di proteggermi, di avere cura di me. Io mi fidavo di lui e credevo che avrebbe scelto solo il meglio per me, perché mai avrei dubitato che mi volesse bene. Invece mi ha tradita. Mi ha venduta! Non è più niente per me e non voglio vederlo mai più! Io... io... — Sarah tacque, mordendosi le labbra.
Christian la fece voltare verso di sé, prendendole il volto tra le mani e costringendola a sollevare il mento.
Sarah trattenne il fiato. Si sentiva totalmente indifesa davanti a lui.
— I tuoi occhi sono come acciaio forgiato da un fabbro. Potresti uccidere un uomo con un simile sguardo — mormorò Christian, asciugando con il pollice la traccia delle lacrime.
Sarah abbassò le palpebre, sospirando per i baci che lui posò sulle sue ciglia.
— Ho espresso il mio desiderio. Voglio restare con te. Hai detto che sono tua. Hai detto che ti appartengo — disse, sussurrando quei ricordi sulle sue labbra, in punta di piedi, stretta contro di lui.
— Attenta a quel che desideri — mormorò Christian, baciandola con languore, pian piano, con tutta calma.
Come se la stesse assaggiando.
Infine si ritrasse, percorrendola con lo sguardo da capo a piedi.
Sospirò, gli occhi accesi da un bagliore indecifrabile.
— Qamar, dovremo trovarti qualcos’altro da indossare.
28
La notte era animata dalla musica di sistri e tamburelli, che percossi e agitati liberavano un ritmo tribale e trascinante.
Alla luce del falò, la danzatrice era conturbante come una fiamma.
Portava i capelli sciolti alla maniera di una vergine, ma non c’era nulla di innocente nell’ondeggiare delle sue chiome, folte e pesanti, che frustavano l’aria come aspidi nere.
Levò le braccia al cielo con sensuale abbandono, contorcendosi come se gli sguardi degli astanti fossero mani protese ad accarezzare il suo corpo.
Seduta con il resto della compagnia, nel cerchio che si era formato intorno al fuoco, Sarah comprese che la donna si stava offrendo insieme alla sua danza per gli occhi di uno solo dei presenti.
Guardando oltre le teste ricciute dei bambini, vide Christian con la schiena appoggiata a un masso, le gambe pigramente distese di fronte a sé, intento a osservare la danza come un principe nomade. L’otre di vino passava da un uomo all’altro, ma quando giunse tra le sue mani, lo porse al vicino senza berne neanche un goccio.
Sarah aveva ancora in bocca il gusto della birra con cui aveva pasteggiato quella sera, con pane secco, carne macerata e frutta, ma all’improvviso sentì irrancidire il ricordo di quel sapore, guardando Christian e la danzatrice, notando l’indolenza con cui lui seguiva le profferte sempre più sfacciate dell’altra.
La donna muoveva i fianchi alludendo a un atto d’amore.
Era vestita di stracci, tuttavia irradiava il potere femminile e consapevole di un’autentica regina.
Non erano circondati dalle colonne di un palazzo, ma solo da alberi, cespugli e rocce. Mancavano gli arazzi, i tappeti e le stuoie, ma avevano l’erba e la terra, qualche coperta stesa, fogliame e frasche. Le fragranze di ginepro e fiori selvatici non bruciavano negli incensieri, ma aleggiavano nella fresca brezza che seguiva il levarsi della luna.
Nelle ombre notturne, le fiamme, la musica, gli applausi e le risate ebbre di vino trasformavano in una magica corte di elfi e folletti quel variegato bivacco di mercanti, pellegrini e saltimbanchi, uomini, donne e bambini riuniti per la maggior sicurezza che offriva viaggiare in un’unica compagnia.
I piedi nudi della danzatrice battevano il terreno in passi aggraziati e seducenti, e la sua gonna si sollevava, ora accarezzandole le gambe, ora rivelandole, strappando sussulti eccitati al pubblico.
Sarah serrò con forza i pugni, notando che quei passi, così casuali e così opportuni, la stavano avvicinando sempre di più a Christian.
Con le braccia conserte sul torace e l’espressione indecifrabile sul volto in penombra, lui sorrise per qualcosa che disse il suo vicino. Sorrise anche la danzatrice, le labbra rosse tinte di carminio e la pelle ambrata madida di sudore. Il seno prosperoso assecondava il respiro sollecitato dall’incalzare della danza, coperto da una chemise lisa che nel gioco dei chiaroscuri era un invito a immaginarla nuda.
Sarah si alzò in piedi, allontanandosi dai bambini che le si erano radunati intorno da quando lei e Christian si erano uniti a quella compagnia itinerante.
Nessuno sembrò notarla: gli occhi di tutti erano fissi sullo spettacolo che proseguiva, sempre più selvaggio, sensuale e irresistibile.
Eppure Sarah, questa volta, non si sentiva invisibile, muovendosi leggera tra le ombre come una lince che aveva puntato il suo bersaglio.
Un alito di vento scivolò tra i suoi corti capelli biondi, scompigliandoli, ma non aveva freddo.
Il sangue le scorreva nelle vene incandescente, ribollendo di una rabbia densa e velenosa, dell’istinto primordiale di gridare in faccia a quella sfrontata: “Non guardarlo! Non osare! Lui è mio”.
Si inginocchiò in silenzio accanto a Christian, spiando il suo profilo elegante, le labbra rilassate in un’espressione di disinteresse e l’azzurro dello sguardo incupito dalle ciglia appena abbassate.
— Cosa succede, qamar? — le domandò senza guardarla.
Sarah si morse le labbra, spostando lo sguardo da lui alla danza.
— Non credevo ti fossi accorto che mi ero avvicinata — gli rispose altrettanto sottovoce.
Finalmente Christian si voltò verso di lei.
— Ti ho visto separarti dai bambini. Non avresti dovuto — le disse, quasi un sommesso rimprovero mentre riportava, con disappunto di Sarah, lo sguardo sulla danza. — In mezzo a loro sei al sicuro.
Lei gli si avvicinò, posandogli la testa sulla spalla, sollevando una mano per affondarla nei suoi capelli neri.
— Non sono al sicuro qui con te? — bisbigliò e negli occhi di lui, per un istante, ebbe il piacere di vedere la sorpresa.
Questo le diede coraggio, inebriandola come una coppa di vino.
Si sollevò, ignara degli sguardi di tutti ma ben consapevole di quello della danzatrice, e le scoccò un’occhiata di avvertimento, da donna a donna. Mentre si sedeva sul grembo di Christian, d’un tratto non si sentì più goffa o impacciata, meno desiderabile di quella bruna bellezza che fendeva la notte con le seducenti movenze della sua danza.
Le diede le spalle, lasciando che tutto scomparisse, e incontrò lo sguardo di Christian.
Era la sua donna; gli apparteneva come lui apparteneva a lei.
Lui le posò le mani sui fianchi, lasciandola fare con divertita curiosità, aspettando di scoprire cos’avesse in mente.
Sarah sospirò, chiudendo gli occhi e poggiando la fronte contro quella di lui, respirando l’odore e i profumi della foresta e degli arbusti che bruciavano.
Sentiva la musica, lo stormire delle fronde e, più forte di tutto, il battito del proprio cuore.
Fece scivolare le mani dai suoi capelli alle guance, appena ispide della barba che sempre meno di frequente aveva occasione di radersi. Ma questo le piaceva: accresceva il suo fascino selvaggio, e poi era eccitante sentire quella carezza virile e pungente scivolare sulla sua pelle, dalla gola al seno, dal ventre alle cosce...
La percorse un brivido che la fece arrossire, sciogliendola di desiderio, accentuato dalla posizione in cui si trovava: sfacciatamente inginocchiata sui suoi fianchi, così vicini e divisi unicamente dalle brache che entrambi indossavano.
Al principio quell’abbigliamento maschile l’aveva fatta morire di vergogna: in camicia e calzoni si era sentita più indecente che se fosse stata nuda.
Ma poi, sotto la necessità, aveva cominciato ad assaporare una certa audacia: era soltanto l’ennesima regola a cui contravveniva.
Aveva infranto tutti i dettami imposti a una donna, e adesso seguiva soltanto il suo cuore.
Lo baciò sulla bocca, schiudendo le labbra come lui le aveva insegnato, lambendo le sue in punta di lingua, chiedendo timidamente il permesso di entrare.
All’agitarsi dei sistri, l’aria sembrò incendiarsi del tintinnio di mille campanelle.
Si strinse a Christian, posando il seno contro il suo torace e passando le braccia intorno al suo collo.
Gli accarezzò i capelli, indugiando in quel bacio che lui le lasciava condurre. Esplorò la sua bocca sfiorando la tagliente carezza dei suoi denti perfetti, trovando la sua lingua e intrecciandola alla propria. Iniziò una danza privata che annientava qualunque altra esibizione.
Infine si ritrasse, con le labbra roventi e il fiato rotto, sentendo il pungolo di un desiderio appena risvegliato.
Piegando il capo all’indietro, Christian la guardò negli occhi. Le sue mani le scivolavano ritmicamente lungo la schiena, su e giù.
Riflessa nel suo sguardo, per un momento Sarah si sentì unica e speciale, pervasa di un potere che le dava sicurezza e forza.
Poi un sorriso irriverente increspò la bocca del bardo.
— Qamar, hai dimenticato che tutti quanti, in questa compagnia, sono convinti che tu sia un ragazzo?
Sarah sgranò gli occhi, colta da un senso di imbarazzata mortificazione. Guardò gli abiti maschili che la vestivano, e che assieme ai suoi capelli corti le davano l’aspetto di un giovane stalliere. La musica si era fermata e gli sguardi di tutti erano posati su di loro con un misto di scandalo, divertimento e lascivia.
Con le guance in fiamme, Sarah nascose il volto contro il torace di Christian.
— È una fortuna che tra loro non ci sia un uomo di chiesa: gli avresti offerto l’occasione per una predica vigorosa contro la depravazione della carne — osservò lui con una risatina, passando le dita tra le ciocche sottili della sua zazzera bionda.
Sarah chiuse gli occhi, rilassandosi a quella carezza, quando una sgradevole zaffata di sudore e profumo scadente le fece arricciare il naso.
Un mercante si era avvicinato a loro, grasso e con la tunica chiazzata di vino e di unto.
A Sarah non piacque il modo in cui la stava fissando.
— Possiedi un cucciolo molto grazioso, bardo! Ti pagherei bene se me lo concedessi per il resto della notte — propose l’uomo con un lampo cupido negli occhi porcini.
Sarah si raggelò disgustata tra le braccia di Christian, mentre le sue dita tra i capelli continuavano a confortarla e l’altra mano, non vista, si stringeva intorno all’elsa della spada.
— Non mi piace condividere nulla e sono molto geloso di ciò che è mio — rispose Christian asciutto, mostrando i denti in un sorriso per niente amichevole.
L’uomo fece spallucce, allontanandosi con aria delusa e il passo barcollante.
Christian lo osservò tornare nuovamente al suo posto.
I musici ripresero a picchiare le mani sui loro tamburelli, dando il via a nuove danze.
Christian si alzò in piedi con Sarah tra le braccia.
Guardando oltre la sua spalla, lei vide l’accampamento scomparire dietro un velo di edera e frasche. Sospirando, sfregò il naso contro il suo collo.
— Shukran — gli disse.
Christian si fermò, guardandola sorpreso.
Sarah sorrise timidamente. — Vuol dire grazie, se non sbaglio.
— Non sbagli — confermò lui a bassa voce.
— Grazie per avermi protetta. Grazie per tutto quello che fai. Shukran, Christian.
— Come lo sai? — le domandò, rimettendola in piedi.
Sarah gettò indietro la testa. Oltre il verde cupo delle foglie e il nero intrecciarsi dei rami, il cielo era terso e la luna splendeva come una lanterna incantata.
— Ho imparato ascoltandoti — rispose, socchiudendo gli occhi e prestando orecchio ai suoni del bosco. La musica giungeva sempre più attutita e dallo stagno poco distante le rane gracidavano, i grilli frinivano e i voli delle lucciole erano filamenti di stelle.
Sarah respirò il profumo della notte. Si incamminò tra i cespugli, sfiorando con le mani le corolle dei fiori addormentati.
— Le parole che dici nella tua lingua hanno un suono suggestivo — aggiunse sorridendogli. — Alcune le ripeti più spesso di altre. Molte non so cosa significhino... come qamar. Me lo dirai, un giorno? Altre credo di averle capite... come ana asif.
— Ana asfa — la corresse Christian con voce roca, avvicinandosi a lei e posandole le mani intorno ai fianchi. — Perché sei una donna, e dunque è ana asfa... Ma non hai niente di cui scusarti.
Le sue mani le scivolarono sotto l’orlo della camicia, che lasciata fuori delle brache la copriva fino a metà coscia. Sarah trattenne il fiato quando sentì le sue dita insinuarsi sotto il bordo dei calzoni, toccarle la pelle e scorrere fino a fermarsi sul davanti, allentando abilmente il laccio che li teneva chiusi.
— È eccitante l’arabo pronunciato sulle labbra dolci di una principessa bianca come il latte — sussurrò lui abbassandole le brache. Sarah rabbrividì, sentendosi bruciare. Calciò via i calzoni, restando vestita soltanto della camicia, indietreggiando sotto il suo sguardo finché un albero non fermò i suoi passi. Sentì la brezza fresca della notte accarezzarle le gambe nude, insinuarsi dove più desiderava sentire le sue mani e la sua lingua, dove desiderava sentire lui.
Christian le si parò davanti, inchiodandola.
Sarah tremò sotto il suo sguardo, per la lentezza dei gesti con cui prolungava quella tortura tanto piacevole fatta di attesa e per la quale adesso lei sentiva di non avere pazienza.
Le batteva forte il cuore e aveva voglia di lui.
— Parlami ancora, principessa — le disse Christian, solleticandole le labbra con il suo respiro.
— Bosa — mormorò Sarah, e lui con un sorriso l’accontentò, dandole un bacio dolce, leggero e stuzzicante come una tentazione.
Le sfuggì un gemito quando lui si ritrasse.
— Alf bosa, qamar — le sussurrò, scendendo con le labbra sul suo collo e sciogliendo il nastro che le teneva chiusa la camicia. — Mille baci poserò sulla tua pelle.
Sarah ansimò, affondandogli le mani nei capelli.
Strinse tra le dita i suoi serici ricci scuri, sentendosi impazzire al calore della sua bocca contro la gola, al tocco possessivo delle sue mani sotto i vestiti.
— Christian! — lo implorò, stringendo le braccia intorno al suo collo, mentre la lana sottile della camicia le scivolava lungo le spalle.
— Cosa, qamar? — le chiese lui serrando la carne compatta e candida delle sue cosce. La sollevò sopra di sé e Sarah d’istinto gli passò le gambe intorno ai fianchi.
Gettò indietro la testa, respirando a fatica quando la sua bocca le si posò sul seno. Sentì la sua lingua sfiorarle i capezzoli, prima uno e poi l’altro, così turgidi e sensibili da farle quasi male.
Christian li mordicchiò delicatamente, per poi succhiarli con passione affamata.
Sarah singhiozzò, contorcendosi senza controllo.
— Christian — lo invocò di nuovo, spingendo i fianchi contro i suoi, alla ricerca di un appagamento che lui continuava a negarle, spingendola al limite e più oltre.
Lui insinuò una mano tra loro, sciogliendosi i lacci che gli chiudevano le brache.
A Sarah si fermò il respiro quando lo sentì spingersi dentro di lei fino in fondo, pulsare e penetrarla, facendola impazzire.
In quei momenti, quando erano una cosa sola, quando si muovevano insieme, in un solo respiro, un solo battito del cuore, Sarah sentiva bruciare tutto nel fuoco: il passato, i brutti ricordi, il futuro e ogni incertezza.
Erano in fuga, diretti non sapeva dove, travestiti e nascosti, senza un riparo, senza una casa, con un uomo potente che dava loro la caccia. La sua famiglia l’aveva tradita e da loro non sarebbe tornata mai.
Eppure in quei momenti, sentendolo dentro di sé e dentro il suo cuore, mentre le fiamme le lambivano la pelle e nell’ombra delle palpebre socchiuse le sembrava che esplodessero mille stelle, Sarah non pensava a nulla. Dimenticava tutto.
Restava solo Christian, insieme a lei, tra le sue braccia e dentro la sua anima.
Le chiuse la bocca, soffocando il grido rauco e selvaggio che le era salito in gola, e Sarah gli baciò le dita e il palmo della mano, sfregando la guancia bagnata di lacrime contro il suo tocco. Christian piegò le gambe, sedendosi lentamente al suolo, tenendola accoccolata contro di sé. Assonnata, esausta e appagata, Sarah sentiva il ritmo sollecitato del suo respiro contro i capelli, il battito forsennato del suo cuore contro il proprio. Sorrise, baciandogli una guancia.
— Habibati — gli disse, chiudendo gli occhi. — Anche questa parola la dici sempre... almeno in questi momenti almeno. Habibati.
Christian le prese il mento tra le dita e lei sollevò docilmente il capo, guardandolo.
— Habibi — la corresse con voce arrochita. — Se sei tu a dirlo, allora è habibi.
— Habibi — sussurrò Sarah. — Habibi... habibi... — ripeté ancora, finché lui non la fece tacere con un bacio. — Cosa vuol dire? Non mi dirai neanche questo, vero? — sospirò, prima di addormentarsi.
Christian la guardò dormire tra le sue braccia, come gli piaceva fare a Gaskell Manor e come sempre aveva fatto da quando erano fuggiti da Rothford Hall.
Habibati... Era così che la chiamava?
Neppure se n’era mai accorto, ma Sarah non poteva avere udito da altri quella parola, anche se ne ignorava il significato. Cosa per cui Christian rendeva grazie a quel Dio in cui non credeva.
Delicatamente, quasi con timore, sfiorò con la punta delle dita le sue guance e il suo profilo.
Sarah dormiva, innocente e inconsapevole.
Habibati... ovvero mia adorata e mio tesoro.
Mio amore.
E così lo aveva chiamato anche lei, ripetendo quella parola dal suono esotico con la pericolosa incoscienza con cui si addenta un frutto proibito.
Christian avrebbe mentito, negando di avere provato un’intensa emozione nell’ascoltarla. I bellissimi occhi di lei splendevano come due gemme.
Gli aveva strappato un brivido, sorprendente, fatale e caldo, che quasi superava quello travolgente dell’orgasmo appena condiviso.
Habibi... amore mio.
Sfiorò le labbra di Sarah.
Temeva che presto su quelle sue labbra avrebbe voluto udire anche il nome che nessuno pronunciava.
Zahir.
E presto sarebbe stato anche il momento di dirle addio per sempre.
29
Gli armigeri irruppero nella taverna e fecero largo al loro signore, che varcò l’ingresso con la mano posata sul cinturone della spada.
Il passo del barone non tradiva il peso dell’armatura, né la stanchezza per il lungo vagabondare che gli aveva schizzato la lorica di sangue e fango.
Da lui si irradiava il potere consapevole di chi è nato per essere il padrone, disponendo di uomini e cose.
Calò un cupo silenzio e l’oste non tentò neppure di offrire da bere ai nuovi avventori.
Dal suo posto in disparte, nell’angolo più ignorato della locanda, Jamie Lamartes guardò lord Hedrick fermarsi al centro della sala, scuro in viso e con gli occhi gelidi di un lupo in caccia.
I suoi uomini si aggiravano per il salone rovesciando tavoli e strapazzando i poveri disgraziati presenti nella taverna. Li strappavano dai loro sgabelli per scrutarli in viso, lasciandoli andare con un violento manrovescio.
Sembravano cani rabbiosi intenti a stanare chissà quale preda.
Come nella foresta battuta dai cacciatori, anche in quella semplice osteria, unico punto di ristoro tra il borgo e l’abbazia più vicini, l’aria cominciò a mutare, a farsi febbrile e agitata.
Jamie distinse chiaramente il sentore della paura: l’odore più familiare tra gli uomini.
Era stato anche l’odore caratteristico di suo padre, da quando lord Lamartes, la donnola rossa di Kingsden, aveva saputo che un giovane leone sognava di sbranarlo.
Seduto sulla panca di legno, con i resti del pasto frugale disposti di fronte a sé, Jamie si portò alle labbra una coppa di birra, lasciando che il buon sapore del grano fermentato addolcisse l’acre spettacolo che andava consumandosi davanti al suo sguardo.
Lo raggiungevano strepiti e grida, imprecazioni e suppliche, ma era come se tutto si svolgesse oltre una nebbia fredda che lo lasciava distaccato e calmo, mentre la sua mente notava ogni cosa.
Osservava, registrava e comprendeva.
Vide il taverniere abbassare le mani sotto il bancone, nel tentativo di afferrare un’ascia, o forse una balestra. Jamie non lo seppe mai, perché prima che potesse impugnare la sua arma lord Rothford aveva già fatto un cenno ai suoi cani.
Il sorriso sulle sue labbra sensuali faceva intuire che non avesse aspettato altro.
Jamie provò pietà per l’oste, picchiato e deriso tra il paralizzato terrore degli uomini e le urla inorridite delle donne.
Venne rovesciato sul tavolo, la casacca lacerata sul davanti per esporre il torace villoso in preda a un ansito fuori controllo. Come in un presagio, Jamie intuì quanto stava per accadere: una blasfema rievocazione del martirio di Nostro Signore. Si chiese quante altre volte quella scena si fosse ripetuta negli ultimi giorni. In quante altre taverne? Quanti villaggi o fattorie?
Si alzò bruscamente in piedi e Rothford, sorpreso, fermò l’esecuzione.
Lo sguardo del barone percorse Jamie, vedendolo semplicemente per ciò che appariva: un viandante. Avvolto in un pesante mantello da viaggio, con il capo coperto dal cappuccio e stivali di cuoio consunto.
Nell’ultimo viaggio che Jamie aveva intrapreso da solo aveva indossato un saio da novizio e sandali di legno. Si era recato in visita dal suo tutore con il cuore intriso da timori la gola serrata in una morsa d’ansia.
Adesso non tremava, facendosi avanti tra povera gente atterrita, disarmato di fronte a uomini in arme, tra i tavoli e le sedie rovesciate di una taverna messa a soqquadro.
Guardando Rothford dritto negli occhi, Jamie Lamartes non provò nessuna paura.
Di questo il barone sembrò accorgersi, e un sorriso gli sfiorò le labbra tumide.
— Dunque non si trovano solo vermi a rivoltare la terra, in questo buco — osservò con enigmatico umorismo.
— Lord Rothford — lo salutò Jamie freddamente, accennando allo stemma cucito sulle giubbe dei suoi soldati. — Di solito quando gli uomini come voi decidono di darsi alla barbarie occultano il loro emblema per risparmiare disonore alla famiglia.
Il sorriso di Hedrick si fece pericoloso. Era il sorriso di chi faceva di quelle azioni un vanto.
— Non disonoro la mia famiglia, ma riabilito il mio nome — scandì, sguainando un pugnale e afferrando Jamie per il collo.
Lo sbatté con violenza contro una parete, ma lo scrivano non reagì, mentre il cappuccio gli scivolava lentamente sulle spalle.
Sentì contro la gola la carezza mortale della lama, eppure non bastò a strappargli un brivido.
Assurdamente Jamie si scoprì ad ammettere che solo una cosa era riuscita a far correre più veloce il suo sangue: il bacio di una fanciulla un po’ strega e un po’ bambina che con lui aveva voluto giocare alla donna.
Hedrick si accigliò, sorpreso da quella singolare mancanza di emozioni che non era l’apatia dei vigliacchi e neppure la rassegnazione dei martiri.
Tagliò con la lama il nastro che chiudeva il mantello di Jamie e la cappa cadde a terra come un corpo morto.
— De Lacroix — lo riconobbe osservando colori che tingevano la livrea dello scrivano. Scoppiò in una risata di feroce divertimento, riportando il pugnale alla gola di Jamie.
— Sono stato truffato dai De Lacroix. St Etienne mi aveva promesso una sposa docile e fedele, che è invece fuggita dalla mia casa come la più infedele delle cagne. Troverò il bastardo vagabondo che l’ha sedotta con le sue canzoni da due soldi e lo scuoierò come faccio con i miei cervi.
“Dunque le cose stanno così” pensò Jamie, senza esserne sorpreso.
Quando Christian era scomparso, aveva intuito dove il girovago aveva deciso di recarsi. All’improvviso anche le sue misteriose assenze a Gaskell Manor avevano assunto un senso: in quei giorni Jamie aveva cercato il bardo ovunque... tranne, ovviamente, che nel letto di lady Sarah.
Sorrise al barone.
— Mi auguro che troviate quel cantastorie, signore. Spero anzi che presto siate l’uno di fronte all’altro.
Hedrick scrutò negli occhi di Jamie, che a sua volta si concesse tutto l’agio di osservarlo, anche se aveva un muro alle spalle e un coltello alla gola.
Il volto del barone era una maschera d’alabastro: nascondeva le sue emozioni, ma si chiazzava di rosso per la violenza controllata che si esaltava a esercitare.
Jamie era felice che lady Sarah fosse riuscita a sfuggirgli.
— Potrei sgozzarti, ragazzino senza armi — disse Hedrick lentamente, osservandolo. — Tagliarti la testa e poi spedirla a Gaskell Manor per mostrare a De Lacroix e a St Etienne che cosa accade a chi crede di gabbarmi.
— Potreste — concordò Jamie. — Ma io non sono né un De Lacroix né un St Etienne.
Hedrick parve incuriosito.
— No? E chi sei allora?
“Un Lionfield” avrebbe voluto rispondere Jamie, ma rendere palese quel desiderio sarebbe equivalso a una menzogna.
— Io sono Jamie Lamartes — rispose, e un sorriso spietato piegò le labbra carnose di lord Rothford.
— La donnola rossa! — esclamò con una risata. — Sangue di traditore e sangue di un morto. Per Dio, non vale neppure la pena di sporcare il mio pugnale — aggiunse crudelmente, ma indugiando ancora con la lama sul collo.
Il suo sorriso si spense all’indifferenza con cui lo scrivano accolse quelle parole.
Qualunque cosa volesse da lui, Jamie non aveva intenzione di dargliela.
Hedrick si bagnò le labbra con la punta della lingua, abbassando infine il pugnale.
— Vi siete appena guadagnato il diritto di vivere, messer Lamartes — gli disse, lasciandolo andare. — E di assistere.
Rivolse un cenno ai suoi uomini, e Jamie comprese che il suo intervento non era servito a nulla, che tutta quella gente sarebbe comunque morta.
Un’altra strage... dell’altro sangue...
L’uomo del barone sollevò il punteruolo per inchiodare l’oste... ma una freccia lo fermò, trafiggendogli l’occhio come scoccata dal nulla.
L’armigero cadde a terra senza un lamento, mentre tutti si voltavano verso un ragazzino con l’arco teso tra le braccia, la faretra sulla schiena e un nuovo dardo già incoccato.
— Che ne pensate, mio signore? — domandò il giovane arciere.
Dall’altro capo della stanza rispose una voce maschia e divertita. — Rob, dico che le tue frecce sanno davvero girare gli angoli!
Hedrick si voltò in tempo per trovarsi alla gola la punta di una spada.
— Sir Richard Torquil! — esclamò Jamie, riconoscendo il guerriero che adesso teneva in scacco lord Rothford.
— Il vincitore del torneo di Gaskell Manor — mormorarono i presenti, osservandolo come se fosse l’incarnazione di una leggenda.
Anche gli uomini del barone sembrarono perdere tutta la loro baldanza, fissando il compagno morto a terra, il ragazzino che lo aveva trafitto e il cavaliere che aveva in ostaggio il loro signore.
Hedrick sollevò prudentemente le mani.
— Non ho nulla contro di voi, sir Torquil. Al contrario, ho saputo del vostro valore e lo apprezzo. Le gesta di vostro cugino al torneo di Almar hanno suscitato la mia ammirazione.
Un sorriso insolente increspò le labbra di Richard.
— Ah, sì? Sapete che se ne farebbe Bryan della vostra ammirazione? Io e Rob siamo arrivati fin qua seguendo la puzza di sangue che vi siete lasciato dietro. Sapete che metà dei signori del luogo hanno messo una taglia sulla vostra testa?
— Siete dei poveri pazzi — sentenziò Hedrick con rabbia a stento trattenuta. — Un marmocchio e un cavaliere... Cosa credete di fare contro di me e i miei uomini?
— Avete una bella audacia, per un uomo che parla con una spada alla gola. Di certo il sottoscritto non sarà mai ricordato come Richard il Paziente. Rob ha già dimostrato di cosa è capace. Se non volete che finiscano cadaveri anche i due disgraziati che ancora vi restano, dite loro di stare alla larga dal mio scudiero.
Hedrick deglutì, obbedendo suo malgrado.
Sir Torquil sorrise.
— Molto bene. Adesso dite loro di uscire, salire sui cavalli e allontanarsi.
Il barone lo fece e quelli obbedirono.
— Se ne sono andati — confermò Rob, guardando da una finestra.
Gli occhi azzurri di Richard Torquil si fissarono in quelli di Hedrick Rothford, il volto indurito da un’espressione di disprezzo.
— Mi chiedo che dovrei farne di questa vostra testaccia rossa. Staccarvela dalle spalle per farne omaggio a lady Sarah Ravency?
— No, sir Torquil — intervenne Jamie fermamente. — La sua vita appartiene a un altro.
Richard lasciò andare il barone controvoglia e, quando questi si fu allontanato, l’aria sembrò come risollevarsi nella locanda.
Gli uomini si alzarono da terra e le donne si asciugarono gli occhi con l’orlo del grembiule, affrettandosi per rimettere al loro posto le sedie e i tavoli rovesciati.
— Coraggio, amico! — disse Richard, afferrando il braccio dell’oste e aiutandolo a scendere dal bancone. — Ho una fame da lupi. Portami tutto quello che hai e annaffialo con della buona birra. Una coppa anche al ragazzo — ordinò, strizzando l’occhio a Rob. — Diavolo, te la sei meritata!
Una graziosa cameriera corse accanto al locandiere, sostenendolo mentre si inchinava sulle gambe traballanti.
— Ci avete salvato, giovane signore! — affermò con occhi splendenti che Jamie, sorpreso, si accorse erano puntati su di lui. — Se voi non foste intervenuto, quel malvagio avrebbe fatto uccidere mio padre!
Richard ridacchiò, allungandosi su una panca. Il suo scudiero corse a sedersi accanto a lui, ma solo dopo avere scrutato attentamente fuori dall’osteria per accertarsi che non ci fosse più traccia di Rothford e dei suoi scagnozzi.
— Siete il suo eroe, messer Jamie. Non esiste ricompensa più dolce della riconoscenza di una fanciulla.
— Siete stato voi a salvare questa gente, sir Richard. Il vostro arrivo è stato provvidenziale.
Il cavaliere scrollò il capo, puntandogli contro l’indice.
— Vi siete fatto avanti senza armi, Lamartes. L’ho già detto una volta: non saprete sollevare una spada, ma siete il più fottuto pazzo coraggioso che abbia mai incontrato. Bontà divina, ma guardatevi: neanche tremate! Avete ghiaccio nelle vene? C’è qualcosa capace di farvi paura?
Jamie sedette di fronte a lui, sfiorando l’orlo della coppa con le dita macchiate d’inchiostro.
— Lord Rothford sta inseguendo lady Sarah. Dovevano sposarsi, ma lei è fuggita — disse, cambiando argomento.
Richard annuì, passandosi una mano tra i folti capelli color oro antico.
— Ho saputo anche questa storia. Le voci corrono rapide di bocca in bocca. Ne sono rimasto sorpreso. Lady Sarah mi era sembrata una creatura remissiva e dolce. Malinconica e triste, anche. Non mi sarei mai aspettato una tale audacia da parte sua.
Le labbra di Jamie si piegarono in un sorriso storto.
— Chi può mai dire quali braci ardano sotto la cenere che sembra spenta?
— Siete un filosofo! — commentò Richard schioccando la lingua.
Lo scrivano incontrò lo sguardo del cavaliere.
— È stato Christian a far fuggire lady Sarah.
Richard per poco non si strozzò con la sua birra.
— Il vostro amico bardo? Bontà divina, questa sì che è un’avventura! È andato nella tana del cinghiale per portargli via la sposa? Ora capisco perché Rothford è così furente. Non troverà pace finché non avrà lavato l’onta... e intanto fa scontare a tutti gli altri la sua collera — considerò pensosamente, battendo poi il pugno chiuso sul tavolo di legno. — Dobbiamo andare ad aiutare il vostro amico, Lamartes! Non possiamo lasciarlo da solo.
— A Christian non serve l’aiuto di nessuno.
— Cosa volete dire?
Jamie sollevò le mani: le dita lunghe e affusolate, macchiate di nerofumo, e i palmi morbidi.
— Come vi sembrano?
Richard inarcò un sopracciglio.
— Avete le mani di un uomo d’intelletto.
Jamie annuì.
— E le vostre, invece, sono mani da guerriero, sir Torquil. E ora ditemi: avete mai osservato le mani di Christian? Assomigliano di più alle vostre o alle mie?
Richard comprese e annuì con un leggero sorriso.
— E voi, messer Jamie? Cosa fate da queste parti? Vi credevo a Gaskell Manor.
— Come io credevo voi già di ritorno al castello dei Torquil. Vengo da Kingsden, dove il drago e la rosa mi hanno raccontato del vostro tempestoso arrivo a Deerstone.
Richard gettò indietro la testa, lasciandosi andare a una fragorosa risata.
— La fama delle mie gesta mi precede, dunque. Ebbene, tornerò a casa... prima o poi. Voi, invece, siete in viaggio da solo, senza armi né scorta.
Jamie scrollò le spalle.
— La mia vita non interessa a nessuno e non porto con me nulla che valga la pena di rubare — rispose.
Poi, come colto da un’ispirazione improvvisa, sorrise al cavaliere. I loro occhi si incontrarono in uno sguardo d’intesa.
— Sto andando a Londra. Ditemi, sir Richard: vi piacerebbe venire con me?
30
Cullata dal passo del cavallo, Sarah teneva gli occhi chiusi, la guancia appoggiata contro la schiena di Christian.
Il giorno andava spegnendosi e il silenzio delle strade di campagna sembrava ritrarsi intimidito, a mano a mano che si avvicinavano ai rumori della città.
Distinse un cigolio di carri e lo sferragliare delle guardie di ronda.
Poi, all’improvviso, colse nell’aria qualcos’altro.
Un profumo che era un ricordo.
Un odore pungente di salmastro.
Sollevò le palpebre, sporgendosi dalla sella per fissare il paesaggio che si stendeva ai piedi delle colline, giù lungo il sentiero che stavano percorrendo.
Vide le mura della città, le case e le strade. Vide la gente che si affaccendava in quelle ultime ore di luce, prima della sera.
Allungando lo sguardo oltre tutto quello, scorse il mare.
Deglutì, pervasa da un senso struggente di riconoscimento, guardando quella vastità così salata da sembrare fatta di lacrime, ma che era di conforto al suo cuore come l’abbraccio di un fratello.
Si riempì gli occhi di quell’azzurro sempre in movimento, più intenso e impenetrabile al calare della notte, respirando un’aria così vibrante che la induceva a chiedersi se fino a quel momento non avesse trattenuto il fiato...
Christian trasse a sé le redini, voltandosi per leggere sul suo volto la grande emozione che la pervadeva.
Le sfiorò una guancia con il dorso delle dita, portando i suoi scintillanti occhi grigi a incontrare i propri.
— Qamar, sembra che tu stia guardando un amante che temevi perduto.
Sarah si morse le labbra.
“Allora è così che ti ho guardato, quando sei comparso nella mia cella a Rothford Hall?” avrebbe voluto chiedergli.
Riportò lo sguardo verso il mare.
— Da bambina mi addormentavo al rumore delle onde. La notte le sentivo infrangersi contro gli scogli, sotto la finestra della mia camera. Anche lord Ravency viveva vicino a un litorale. Il mare era là. Non avevo bisogno di vederlo per sapere che c’era. Poi sono partita e l’ho lasciato... ma fino a ora non avevo compreso quanto mi fosse mancato.
— Succede — mormorò Christian, spronando il cavallo a proseguire.
— Cosa vuoi dire? — gli domandò Sarah, guardando le sue spalle che sotto la lana e il cuoio della sua giubba erano fatte di muscoli possenti e pelle bronzea. Pelle marchiata dalle sue unghie per la passione delle loro notti insieme.
Una passione che non si esauriva. Bruciava anzi come i falò che illuminavano le notti del loro viaggio. Una passione che l’aveva spinta a ribellarsi, a resistere, a fuggire e a travestirsi, a vivere come non aveva mai creduto possibile.
Cos’altro sarebbe stata in grado di fare?
“Qualunque cosa” si rispose, stringendo le braccia intorno alla vita di Christian e reclinando il capo contro la sua schiena.
Sentiva il suo respiro e il battito del suo cuore.
Quel respiro e quel battito che conosceva come se fossero i propri.
— A volte comprendi l’importanza di qualcosa solo dopo esserti allontanato ed essere tornato e averla ritrovata — rispose infine Christian con voce sommessa, e Sarah avrebbe voluto vedere i suoi occhi.
Voleva abbattere il muro di ghiaccio che quell’uomo teneva alto tra loro, proprio lui che sembrava rovente e inafferrabile come le fiamme.
— Habibi — sussurrò piano, senza conoscerne il significato, ma come una vera formula magica, sapeva portargli il sorriso sulle labbra.
Christian si irrigidì, scoccandole uno sguardo indecifrabile.
— Comportati bene, qamar, e ricorda quello che sei: il mio apprendista — le ordinò, mentre si avvicinavano ai soldati che piantonavano le porte della città.
Pagò l’ingresso, accompagnandolo con una generosa mancia.
Sarah lo aveva visto guadagnare quel denaro durante il viaggio, esercitando le arti in cui era maestro. Donava al suo pubblico l’impressione che la magia esistesse davvero e che lui ne fosse depositario. Si esibiva per il loro divertimento. Suonava il suo liuto, stillando note come gocce di miele puro.
Re e regine si sarebbero contesi un artista come lui per la loro corte, ma a Christian non sembrava interessare. Non dava valore all’oro e all’argento, se non per ciò che in quel momento potevano utilmente procurare.
In sella dietro di lui, Sarah osservava incuriosita i quartieri della città portuale.
In lontananza imbarcazioni di varie dimensioni beccheggiavano dolcemente tra i moli. Il suo olfatto era solleticato dall’odore di pesce e di sale, di vecchio legno bagnato e pietra battuta dalle onde, dall’afrore umano di un vivace centro abitato.
Segnava il ritorno a casa, la fine di una giornata di lavoro e l’inizio di un tempo da dedicare agli affetti familiari.
Christian guidava il cavallo percorrendo strade sempre più silenziose, più buie e meno frequentate. Reggeva le briglie con sicurezza, senza mai esitare di fronte a un bivio, senza mai rivolgere la parola a nessuno. Sembrava seguire indicazioni note soltanto a lui, cogliendo segni che agli occhi di Sarah restavano invisibili.
Presto si addentrarono in un altro quartiere, come una città dentro la città.
— Dove stiamo andando? — domandò lei.
— Dove ti toglierai questi stracci da garzone — rispose Christian, bruciandola con uno sguardo che riuscì a farla sentire già nuda. — Dove farai un bagno e le gocce d’acqua brilleranno sulla tua pelle e tra i tuoi capelli. Dove potrai indossare una veste di seta e di lino — le promise, fermando il cavallo davanti a una casa. La porta era chiusa e le imposte sbarrate.
Christian scese, afferrando il picchiotto e bussando secondo un ritmo che Sarah non avrebbe saputo ripetere.
Dopo un tempo che parve infinito l’uscio si schiuse. Apparve un uomo in tunica, con folti capelli scuri e la barba curata a coprirgli guance e mento. Sussultando, Sarah comprese di averlo già visto tempo prima, al torneo di Gaskell Manor: era l’uomo distinto che dagli spalti, silenzioso e in disparte, osservava con attenzione il susseguirsi delle giostre. Era l’uomo che Aimery e lord Seraphin chiamavano “il giudeo”, la voce distorta dal disprezzo con cui si deve tollerare un male necessario.
Sarah lo vide sorridere di incredula felicità.
— Amico mio, ho pregato tanto di poterti rivedere sano e salvo!
— Shalom aleichem, Aronne — rispose Christian con un cenno del capo.
Poi, voltandosi verso Sarah la cinse alla vita, facendola smontare.
— Sorridi, principessa cristiana, perché godremo dell’ospitalità dei tuoi Fratelli Maggiori.
31
L’acqua addolcita da miele puro e chiodi di garofano scese lungo la gola di Christian, portandogli conforto e ristoro come tutto ciò che lo circondava nella casa di Aronne. Una delle tante che il suo ricchissimo amico possedeva in Inghilterra e nel mondo conosciuto.
Christian posò la coppa, leccandosi le labbra.
Tra le fessure della finestra chiusa si intravedeva il mare sempre più scuro, come il cielo che lentamente andava a punteggiarsi delle prime stelle.
Era il mare che aveva commosso Sarah, ma non era quello che aveva accompagnato i suoi ricordi di fanciulla, e che poi aveva attraversato seguendo De Lacroix.
Non c’era la Normandia oltre quella liquida distesa mai immobile.
Quello era il mare degli uomini del Nord, e la sua memoria di menestrello già intonava canzoni che parlavano di ghiaccio e ferro, di mostri serpentiformi che si annidavano negli abissi per vegliare sui drakkar, stritolando tra le loro spire le imbarcazioni degli incauti.
— Christian, ho temuto per te — confessò Aronne, chiudendosi alle spalle la porta della camera. — Per prudenza non ho ancora fatto ritorno a Lincoln. Temevo che il conte Seraphin, quel maiale, venisse a sapere che eri stato tu ad avvertirci e metterci in salvo. Poi mi è giunta notizia che mi stavi cercando... ed eccoti qui! Questo giorno per me è un dono del cielo.
Il bardo lo osservò e lo vide come sempre gli era apparso: forte, determinato, capace di resistere come una quercia a qualunque rovescio del destino.
“Ma Aronne non crede nel destino” si corresse. “Lui crede in Dio.”
Strinse la destra che l’amico gli offriva.
— Come sta la tua piccola regina?
Lo sguardo di Aronne si addolcì.
— Micol sarà felice di rivederti: custodisce la sfera di vetro che le hai donato come il suo più grande tesoro. Sono certo che avrà già fatto la conoscenza di... di chi ti sta accompagnando in questo tuo viaggio.
Un sorriso sfiorò le labbra di Christian alla delicatezza con cui l’amico aveva accennato a ciò che più l’aveva sorpreso: la presenza di Sarah al suo fianco.
— Non è bellissimo il mio apprendista?
— Troppo per essere davvero un maschio — rispose Aronne asciutto. — Ho riconosciuto quel volto e quegli occhi come lei sicuramente si è ricordata di me. È la lady vestita a lutto che sedeva tra i parenti dello sposo al torneo di St Etienne. Una nobildonna normanna! Cosa fa insieme a te, con i capelli tagliati corti e vestita come un ragazzo?
— È mia — rispose Christian senza esitare, con la calma di chi afferma una verità evidente e innegabile.
Aronne tacque sbalordito e il bardo scosse il capo.
— Non essere così sorpreso, amico mio. Hai sempre saputo che prima o poi sarei comparso alla tua porta e ti avrei chiesto indietro....
— Ciò che mi avevi affidato — concluse Aronne. — È giusto — ammise con un sospiro, portandosi due dita alla fronte, per poi ridere come un ragazzino. — Anche se non condivido la tua assenza di fede, sai che non sono un uomo facile alla suggestione. Eppure, non so come, una parte di me sentiva che questo giorno sarebbe arrivato, che tu saresti arrivato, e dunque dovevo tenermi pronto — gli confidò, sollevando il lume così da illuminare l’angolo più buio della stanza.
Christian assecondò il suo muto invito, entrando in quel tenue cerchio di luce. Piegò il ginocchio a terra, accompagnato dal silenzio di colui che in tanti anni era stato il custode di quel lascito.
Ad avvolgere lo scrigno c’era un drappo pesante di lana e inserti di seta che certificavano il casato di Aronne.
Christian rimosse il panno, piegandolo con rispetto.
Il legno della cassa era lucido, rinforzato sugli spigoli da borchie di metallo e chiuso da un chiavistello che forse anche a lui avrebbe richiesto un certo impegno.
Ma non ce ne fu bisogno. Aronne si sfilò una catenella dal collo, dov’era appesa una piccola chiave. Gliela porse; Christian fece scattare la serratura e sollevò il coperchio.
La lama ricurva della shamshir sembrò sorridergli.
Strinse le dita intorno all’elsa, oltre il guardamano d’oro e le pietre che la rendevano bella e letale come la più consapevole delle donne.
Fu come risvegliare un’amante dal suo sonno, sollevandola dai morbidi cuscini damascati che fino a quel momento l’avevano custodita. Fu come se il suo braccio tornasse a essere completo.
Estrasse lentamente la lama, facendola scorrere nella guaina di nero cuoio indurito dal tempo.
Era leggera come la ricordava, anche se faceva pesare la sua mano di tutte le vite che aveva preso.
Liberava una sua musica particolare quando fendeva l’aria: una melodia struggente di sangue e di battaglie, di vittorie e onore. Da troppo tempo Christian non la suonava.
Aronne lo osservava pensosamente.
— Amico mio, mi sono sempre chiesto quale espressione avrebbe avuto il tuo volto il giorno in cui fossi tornato a impugnarla. Vedo la morte nei tuoi occhi, e adesso mi domando: è così che ami? Ma, dopotutto, cos’altro è l’amore? Qualcosa che ti prende il cuore e te lo strappa via dal petto.
Christian rinfoderò la spada con un colpo secco.
Alzandosi in piedi, se l’assicurò al fianco.
— Sei un discreto veggente, amico mio, ma come poeta vali due soldi. Adesso mi serve quello che sai fare meglio. Mi serve Aronne il banchiere.
L’ebreo abbassò il capo con finta modestia.
— Come posso aiutarti a disporre finalmente della tua immensa fortuna?
Christian gli rispose e Aronne sgranò gli occhi, sconcertato.
— Tu vuoi fare cosa? Christian, hai perduto il senno?
Il bardo fece un sorriso diabolico, tamburellandosi una spalla con la lama della scimitarra.
— Aggiungilo ai tuoi pessimi versi: l’amore è pazzia. Ed è anche l’unica cosa a questo mondo che faccia sentire davvero vivi.
— Quella è la luna! Com’è bella questa notte. Lo zio dice che non è prudente aprire la finestra, però riusciamo a vederla anche così, vero, mia lady? — chiese Micol puntando il ditino verso le imposte chiuse e gettando indietro la testolina ricciuta per sbirciare meglio i frammenti di cielo.
Seduta per terra vicino alla bambina, Sarah sorrise.
Come Christian aveva detto, c’erano stati un bagno e poi una tunica pulita, morbida e frusciante, che la vestiva dal collo fino ai piedi. C’erano stati vino e birra per ristorarsi, acqua addolcita con le spezie e pietanze prelibate che una donna di nome Judith le aveva gentilmente servito.
E poi c’era Micol, dal sorriso allegro, ma con gli occhi vellutati di una malinconia che nessun bambino avrebbe dovuto conoscere.
La piccina saltellò fino al vassoio, prendendo un dolcetto e spezzandolo a metà. Ne tenne una parte per sé, offrendo il resto a Sarah.
— Grazie, piccola.
La bambina rise deliziata, le guance rosate come due mele. Si sdraiò sul tappeto, posandole la testa nel grembo.
— Piccola regina — precisò con fierezza, addentando la pasta soffice della tortina. — È così che mi chiama sempre il mago. Perché è questo che significa il mio nome, sapete, mia lady? I nomi racchiudono un grande potere. C’è il nostro passato e il nostro futuro. Custodiscono tutto ciò che siamo.
Sarah sorrise, colpita dalla grande intelligenza di quella tenera creatura.
Le accarezzò i capelli, scoprendoli incredibilmente morbidi.
Avrebbe mai accarezzato i capelli di un figlio?
Quel figlio lei lo sognava con i capelli neri e gli occhi azzurri.
Micol spinse indietro la testa, guardandola da sotto in su.
— E voi per l’appunto siete qamar. Sì, vi si addice: siete bianca e bellissima proprio come la luna.
Il cuore di Sarah mancò un battito.
— Cosa vuoi dire, Micol?
La bambina si rialzò in piedi, schiudendo appena la finestra. In quello spiraglio si vide un pezzo di cielo spolverato da stelle estive.
La luna splendeva come una perla.
— Quella è qamar. Quella è la luna — rispose orgogliosa.
Sarah strinse le mani della bambina tra le proprie, emozionata come se Dio le avesse inviato un angelo.
— Tu comprendi l’arabo? Capisci la lingua parlata da mastro Christian?
Micol arrossì a disagio, improvvisamente interessata a guardarsi i piedi.
— Non è proprio come dite... Alcune parole sì, perché lo zio me le ha spiegate o perché somigliano alla lingua dei nostri padri.
Sarah non si perse d’animo, mordicchiandosi il labbro in preda a un’irresistibile tentazione.
— Proviamo comunque. Se ti dicessi gamail? Oppure amar?
Una voce maschia e profonda anticipò qualunque risposta della bambina.
— Direi che non sono parole adatte alle orecchie della nostra piccola regina.
Pigramente inclinato sull’uscio, scalzo e con le braccia conserte, anche Christian aveva trovato un bagno ristoratore e nuovi abiti da indossare.
Ampi calzoni di seta bianca ricamata in filo d’oro, come Sarah aveva ammirato solo su pergamene istoriate dall’Oriente, gli cadevano allentati intorno ai fianchi, scendendo lungo le sue gambe in una fluttuante morbidezza. La casacca richiamava il medesimo modello e, aperta sul davanti, metteva in risalto la sfumatura bronzea della sua pelle. La luce delle candele disegnava sul petto e sui muscoli dell’addome un gioco peccaminoso di chiaroscuri.
Era bellissimo, pensò Sarah deglutendo. Non solo per quegli abiti così esotici e seducenti, ma per com’era lui, per la naturalezza con cui li indossava, come se fosse nato per sentire su di sé la carezza della seta.
Micol saltò in piedi come un grillo, correndogli incontro tutta contenta. Dalla borsettina che portava sempre con sé tirò fuori una sfera di vetro, uno degli oggetti che Christian adoperava nei suoi strabilianti giochi di destrezza, riconobbe Sarah.
Il bardo sorrise, accarezzando dolcemente i riccioli della bambina.
“Noi due insieme, una camera semplice e una creatura dai capelli scuri, innocente, fiduciosa e piena d’amore” pensò Sarah.
Avrebbe voluto possedere ancora un desiderio da esprimere...
— Adesso vai, piccola. Judith ti sta cercando per metterti a letto — disse Christian.
— Prima posso dare un bacio alla lady? — domandò Micol.
Senza aspettare il permesso, corse accanto a Sarah per sfiorarle una guancia con le labbra.
— Buonanotte, luna argentata. Sono felice che siate qui. Il mago mi porta sempre regali bellissimi!
La porta si chiuse dietro i passi leggeri della bambina. Sarah si sentì improvvisamente consapevole di essere sola con Christian in quella che evidentemente sarebbe stata la loro camera, dentro una casa inaccessibile piena di misteri e meraviglie.
— Sei spaventata, qamar?
Sarah scosse il capo, sorridendo dolcemente.
— Qamar significa luna. È così che mi hai chiamata per tutto questo tempo.
— È così — confermò Christian, accarezzandole le guance come per saggiare sotto i polpastrelli la grana delicata della sua pelle. — Amar... Gamail... mia bella... mio fiore — aggiunse, posando la bocca sulla sua gola e trasformando in un bacio ogni significato che le rivelava.
Il respiro di Sarah cominciò ad accelerare.
Contro la sua pelle lo sentì sorridere.
— E poi... — aggiunse lui, raggiungendo il suo orecchio e sussurrando come fosse un segreto solo per loro ciò che voleva farle, che le aveva già fatto e che avrebbe fatto ancora. E ancora. E ancora...
Sarah chiuse gli occhi, scossa da brividi bollenti.
Ebbe una vertigine come sul limitare di un precipizio, eppure si sentiva davvero al sicuro solo con lui. Tra le sue braccia e sfiorata dal tocco delle sue mani.
Aveva le mani di un musicista.
Aveva le mani di un guerriero.
Improvvisamente notò l’arma che portava al fianco. Era una lama come non ne aveva mai viste, curva e sottile, con il fodero incrostato di pietre preziose.
Christian non le impedì di sfiorarne l’elsa: sciogliendo i lacci, lasciò che le sue mani si chiudessero intorno alla spada.
“Ma è davvero una spada?” si chiese Sarah, saggiandone il peso e scoprendo con incredula meraviglia che anche lei avrebbe potuto maneggiarla.
Con attenzione sciolse i sottili nastri di cuoio che legavano il fodero al guardamano.
Christian posò le mani sulle sue e la guidò con esperta fermezza, permettendole di snudare completamente l’arma.
La guaina scivolò via obbediente, rivelando l’acciaio lucido come uno specchio.
Sarah vide se stessa riflessa nella lama. Aveva gli occhi scintillanti e le guance rosse.
Si sentiva pervasa da un’emozione febbrile, come se quell’atto compiuto insieme non fosse meno intimo del fare l’amore.
— È una spada — sussurrò, sorpresa e incantata.
— È una shamshir — precisò Christian dietro di lei, posandole un bacio dietro l’orecchio. — E tu sembri una colomba al richiamo del falconiere.
Shamshir.
Sarah deglutì, mentre quella parola le portava alla mente luoghi sacri conquistati con il sangue, cavalieri che combattevano per la maggior gloria cristiana, protetti dalla fede e da una dalmatica con la croce.
Stese la scimitarra di fronte a sé.
Leggera e obbediente, la lama sembrò sorriderle al chiarore della luna e della lucerna accesa.
Sembrava un gioiello.
A paragone alle grandi spade pesanti dei guerrieri d’Occidente le sembrò un lussuoso, esotico giocattolo.
Intuendo i suoi pensieri, Christian sciolse il velo impalpabile di seta drappeggiato intorno alle sue spalle, lo gettò in aria e insieme lo guardarono scendere sulla lama della shamshir, ondeggiando come una piuma bianca.
Cadde sul filo, separandosi in due metà perfette.
Sarah strinse la presa intorno all’elsa, improvvisamente consapevole di quanto fosse letale. Bellissima e pericolosa.
— Anch’io potrei uccidere un uomo con un’arma come questa.
— Potresti — le concesse Christian, sfilandole la scimitarra dalle mani. Abilmente la fece ruotare nel pugno, stracciando l’aria in un saettare danzante di acciaio. Poi, con una movenza fluida, la fece riaddormentare al sicuro nel fodero. — Ma non lo scopriremo mai.
— Perché? — domandò lei sorpresa.
Lui le voltò le spalle, andando a sdraiarsi sul giaciglio preparato per loro. Con le braccia incrociate dietro la testa, rilassato e silenzioso nella penombra della camera, Sarah dubitò che le avrebbe risposto.
All’improvviso invece parlò, e la sua voce era paziente, vellutata, stranamente solenne. Come un giuramento.
— Qamar, quando verrà il momento sarò io a uccidere per te.
Sarah trattenne il fiato. Non fraintese a chi era destinata quella sentenza di morte, e in cuor suo ebbe paura. Non voleva mai più rivedere Rothford.
Poteva continuare a vestirsi da ragazzo, a vagabondare per il mondo, conoscendo posti nuovi e gente nuova. Ma non voleva che Christian combattesse.
Voleva che restasse con lei. Solo questo.
Restare insieme per sempre: dove e come non avevano importanza.
Come nella favola della lampada magica, l’ultimo desiderio era sempre il più importante, e nell’esprimerlo Sarah aveva lasciato parlare il suo cuore.
Christian rise piano.
— Ah, qamar, ci si abitua facilmente alle maschere, non è così? Ma le maschere sono pericolose. Fanno dimenticare. Non dimenticare chi sei, lady Sarah.
Sollevando l’orlo della tunica, lei si avvicinò lentamente e sedette accanto a lui, congiungendo le mani in grembo.
Christian la guardò pensosamente, le labbra sfiorate da un enigmatico sorriso.
— Anche a piedi nudi, con una semplice sottoveste indosso e i capelli recisi, sei ancora lady Sarah Ravency. Anche coperta di fango e cenere, avrai sempre l’eleganza di una principessa.
— E tu chi sei, Christian?
Un sorriso beffardo si disegnò sulle labbra del bardo.
— La lingua che parlo, la spada che impugno, gli amici che hai conosciuto... Suvvia, qamar, non ti sei fatta neppure un’idea?
— Tu potresti essere tutto e il contrario di tutto. Tu sei un mistero, Christian.
Lui sembrò riflettere sulle sue parole. Poi, sporgendosi verso di lei, le posò il palmo della mano sulla guancia.
— A volte non sapere è una benedizione, lady Sarah — le disse, sfiorandole le labbra con il pollice.
— Ma io voglio conoscerti — insistette lei, mentre il suo tocco sembrava cospargerle la pelle di scintille.
— Vuoi addentare il frutto della conoscenza, principessa cristiana? Non sai quanto sia amaro e velenoso — ribatté lui con voce roca, quasi feroce, sussurrando sulle sue labbra, come indeciso tra baciarla o morderla.
Sarah affondò una mano tra i suoi capelli neri.
Ancora umidi, si arricciarono sensualmente intorno alle sue dita.
Gli posò l’altra sul torace, sentendo battere il suo cuore. Avvertì il calore della sua pelle, morbida come seta cruda, e il contrarsi dei suoi muscoli.
— Dove sei nato? — gli domandò sommessamente, cercando i suoi occhi.
Nell’ombra sembravano neri come quel passato in cui si stava addentrando.
— A Gerusalemme, la santa e la desiderata! — rispose Christian in tono istrionico, abbassando le palpebre come per assaporare il piacere delle sue carezze. Dopo alcuni istanti il suo sguardo la trovò nuovamente, implacabile e spietato. — Mia madre era una schiava musulmana. Mio padre un cavaliere cristiano, giunto in Terra Santa come scudiero di Goffredo di Buglione.
Sarah sgranò gli occhi, impressionata da quella rivelazione.
— Sei figlio di un cavaliere della Santa Croce, che ha combattuto per la riconquista del Santo Sepolcro?
Le labbra di Christian si piegarono in una smorfia.
— Mi guardi come se ti avessi detto di essere sangue di re.
Sarah scosse il capo, cercando di ritrovare la parola.
No, non un re... perché di re, in verità, era pieno il mondo.
Ma gli eroi che avevano liberato Gerusalemme erano per la Cristianità un mito e una leggenda. Erano i prescelti dell’Altissimo.
Per Sarah era come se Christian fosse il figlio di un angelo.
— Tuo padre...
— Mio padre — la interruppe lui con asciutta fermezza — era convinto che per conquistarsi il paradiso bastasse spedire all’inferno il maggior numero possibile di infedeli. Poi, con il sangue che grondava dalla sua spada benedetta, si genufletteva davanti all’altare rimettendo ogni sua azione a maggior gloria di Dio.
Un’infinita tristezza pervase Sarah.
Desiderò stringerlo, abbracciarlo, bere ogni suo ricordo come da un calice. Si sdraiò accanto a lui, posando il capo sul suo petto.
— E com’era tua madre?
Dopo un lungo momento di silenzio, Christian rispose a bassa voce.
— Così bella che non saprei descriverla. La sua casa andò distrutta nella presa di Tiro. La sua famiglia venne sterminata. Era poco più di una bambina quando sfilò tra le macerie della città, sotto gli occhi dei conquistatori d’Occidente. Lo sguardo di mio padre si posò su di lei... e la volle per sé.
Sarah deglutì, stringendo un po’ più forte le braccia intorno alla vita di Christian.
Sembrava solo l’ennesima canzone del suo repertorio di menestrello, raccontata freddamente dalla sua voce di seta grezza. Ma lei temeva che quella storia non sarebbe finita come una favola.
— Cosa accadde poi?
— Quello che sarebbe accaduto anche in Occidente e in ogni parte del mondo. La natura umana, qamar, è identica ovunque. La schiava diede al suo padrone un piccolo schiavo. Nacqui io.
Lei sollevò il capo, con la gola stretta in una morsa.
— Le ferite che hai sulla schiena...
— Gli altri servi della casa mi odiavano. Odiavano me e mia madre — spiegò lui e, con una mossa fulminea, ribaltò le loro posizioni.
Sarah sbatté le palpebre disorientata, guardandolo sollevarsi sopra di sé, sonnolento e pericoloso come una tigre appena risvegliata. Christian sciolse il nastro che le teneva chiuso il corpetto della tunica, seguendo con la punta delle dita il profilo candido del suo seno. La percorse lentamente con lo sguardo e sorrise all’innegabile reazione del suo corpo.
— Odiavano la puttana dalla pelle scura e il suo perverso bastardo mezzosangue. Volevano una principessa cristiana per il loro nobile signore. Una dama bianca come la luna. Una donna come te.
Sarah rabbrividì per il piacere che le davano le sue mani e per lo strano dolore che le suscitavano le sue parole. Si guardò attraverso i suoi occhi, pensando al bambino che era stato, alla vita che aveva avuto. Distolse lo sguardo, incrociando le braccia sul petto come a volersi nascondere.
— Non farlo — le sussurrò Christian. — Non vergognarti mai di quello che sei e di come sei. Non con me.
Sarah sollevò le palpebre, guardandolo negli occhi.
— Ma cosa sono io per te?
— La luna — rispose lui come se non servissero altre parole. — Candida, bellissima e nuda. Così eri la prima volta che ti ho vista. Scintillavi d’acqua nella cornice di una finestra in pietra.
Il cuore di Sarah sussultò.
— Eri tu! — comprese con un soffio di voce. — Quella sera stavo facendo il bagno nella mia stanza e all’improvviso... — Tacque, arrossendo al pensiero di come si era inconsapevolmente offerta ai suoi occhi. Ma aveva “sentito” il suo sguardo. Le aveva bruciato la pelle e l’anima.
— Christian — sussurrò quasi con timore, come se stesse pronunciando un incantesimo.
— Così mi chiamava mio padre — confermò lui con un sorriso cinico.
Sarah gli prese il volto tra le mani, accarezzando le guance e la mascella rasate di fresco.
— E come ti chiamava tua madre?
Il silenzio era tessuto dall’alternarsi dei loro respiri, dal battito sempre più rapido del cuore di Sarah.
— Zahir — le rispose infine.
— Zahir — ripeté lei.
Un nome che la faceva pensare al vento.
Un nome che le sembrava più prezioso di un gioiello.
— Zahir — sussurrò ancora una volta, saggiandolo tra le labbra e sulla lingua. Gli sorrise, passandogli le braccia intorno al collo. — Io ti amo, Zahir — gli disse perché era giusto così, perché quelle parole le sgorgarono dal cuore e si sentiva così felice da sfiorare la più struggente disperazione.
Lui le sorrise.
— Lo so.
32
Christian le catturò i polsi, inchiodandole le braccia contro il materasso sottile del giaciglio.
Sarah lo guardava, offrendogli il suo cuore e il suo corpo. Offrendogli tutto di se stessa.
Com’era naturale aspettarsi dopo la passione ardente con cui l’aveva avuta, dopo averla salvata, liberata e protetta, dopo che l’aveva posseduta ancora e ancora, selvaggiamente, disperatamente e dolcemente, Sarah si era dimenticata di ciò che era.
Sapeva tutto ciò di cui si credeva convinta: di volerlo seguire ovunque e per sempre, vivendo come avevano fatto in quei giorni.
Credeva di poter sopportare tutto e rinunciare a tutto.
Le sfiorò le labbra con un bacio a cui lei rispose con ardente abbandono.
Christian sorrise tristemente.
Sì, lei lo credeva davvero.
Ma lui viveva nel mondo reale, sebbene donasse al suo pubblico tutte le consolanti illusioni delle favole. Perché era proprio questo che erano: illusioni.
Nel mondo reale non c’era futuro per la bella fanciulla che si credeva innamorata della bestia randagia. E l’amore era una malattia mortale che faceva impazzire il cuore e annebbiava i ricordi.
Sarah aveva dimenticato di essere una nobile dama, ma lui no.
Lei avrebbe trascorso tutti i suoi inverni al tepore di un caminetto acceso, senza che mancassero mai pane e vivande sulla sua tavola. Avrebbe indossato abiti di lana e sottovesti di lino, e ornato la chioma con nastri di seta.
I suoi capelli sarebbero ricresciuti più belli che mai, sebbene a Christian sembrasse impossibile che potesse essere più bella di quanto già gli appariva in quel momento: le ciocche corte e scarmigliate come spighe di grano, la semplice tunica slacciata e gli occhi sognanti.
Lei gli aveva detto di amarlo.
Lui le avrebbe regalato un futuro senza rinunce e senza pericoli.
Un futuro senza di lui: senza quell’oscurità che lo divorava dentro, che sapeva di sangue, sabbia e metallo, che lo spingeva a viaggiare, e a non fermarsi mai.
E se anche lei era la luna, e la luna splendeva tanto più quanto cupe erano le tenebre, Christian per la sua qamar voleva un cielo tinteggiato soltanto dall’alba.
Ma quella notte l’avrebbe tenuta con sé.
Quella notte Sarah avrebbe pagato il prezzo di tutto ciò che le avrebbe dato.
Era un bastardo egoista e dannatamente costoso: da lei si sarebbe preso la certezza che non lo avrebbe mai dimenticato.
Ogni notte da quella notte avrebbe pensato a lui. Lo avrebbe ricordato e sognato come lui l’aveva ricordata e sognata ogni notte, dopo aver lasciato Gaskell Manor.
La baciò con la disperazione di un assetato nel deserto, e lei si schiuse per lui, più dolce di un fiore. Christian sentì sotto le mani la serica morbidezza delle guance, mentre tormentava le sue labbra, le lambiva e le mordeva, finché un gemito non lo indusse a sollevarsi e guardarla. Sarah aveva le guance in fiamme e occhi che sembravano due pozze d’argento fuso. Il suo respiro era irregolare e stava già tremando.
Sorrise, pervaso da un’intensa soddisfazione maschile.
Sapeva come eccitarla con un bacio.
Sapeva dove posarle la bocca sul corpo per farla smarrire.
Avrebbe fatto l’amore con lei perché a contare davvero erano i gesti... e la musica: quella intonata dai suoi squisiti sospiri. Le posò una mano sul petto, sentendo il ritmo già folle del suo cuore e sotto il palmo la soffice consistenza del seno.
Sarah gemette, mordendosi le labbra già gonfie. Con naturale, sicura esperienza, scostò quel tessuto delicato, rivelando il cremoso candore della pelle e il capezzolo turgido e rosso come un granato. Lo sfiorò con il polpastrello del pollice e Sarah trattenne il fiato, scossa da un sussulto che la indusse istintivamente a inarcare i fianchi. Raccogliendo l’orlo della gonna, chiuse le dita intorno alla sua caviglia sottile, risalendo lungo la sua gamba con una lenta carezza. Si riempì la mano con la morbidezza della sua pelle, dal polpaccio al ginocchio, indugiando nell’incavo sensibile fino a strapparle un singhiozzo. Proseguì sulla serica compattezza della coscia e fermò la mano sul suo fianco.
Il lino candido della tunica la copriva appena, come un drappo scolpito da un artista per accrescere l’erotismo di una sensuale dea di marmo. Ma Sarah era carne viva, pulsante e calda. E la luce nel suo sguardo gli diceva che poteva farle tutto ciò che voleva, prenderla come desiderava, perché lei non aveva paura. Si fidava di lui e lo amava.
Improvvisamente la sorprese, ribaltando ancora le loro posizioni. Sedendosi sul giaciglio, la fece inginocchiare sul suo grembo, sopra di sé. Raccogliendo il lino della sottoveste, gliela sfilò dalla testa in un unico movimento fluido.
Sarah sollevò le braccia assecondandolo, sensuale e docile, ma i suoi occhi grigi si oscurarono e il rossore sulle sue guance divenne incandescente. Christian la costrinse a guardarlo sapendo che, nonostante l’avesse toccata e baciata ovunque, ancora si vergognava a sentirsi così esposta e vulnerabile. Questo lo esaltava. Gli dava l’impressione che, per quante volte potesse possederla, gli avrebbe sempre riservato l’ebbrezza e la sorpresa di una nuova, misteriosa conquista. Non aveva bisogno del vino per ubriacarsi: gli bastava lei.
Le posò le mani sulle cosce, pregustando la seta rovente e morbidissima che custodivano. La schiuse come una conchiglia, intingendo le dita nel miele che il dolce corpo di lei, sempre più teso e più eccitato, stava stillando per lui. L’accarezzò, la titillò, trovò la tenera e nascosta gemma di carne e la solleticò teneramente.
Sarah sgranò gli occhi, mentre un’emozione sempre più profonda la travolgeva, soffocandole ogni suono in gola. Spinse il bacino contro di lui, alla disperata ricerca di una fine per la tortura irresistibile che le stava infliggendo.
Gli posò le mani sulle spalle, stringendo d’istinto la seta della sua casacca. Guardandolo negli occhi, sentendosi sicura e audace, la fece scivolare con decisione giù dalle spalle. Con un sospiro si strinse a lui, il viso nascosto contro il suo collo, respirando il suo odore e sentendo la sua pelle contro la pelle. Sotto le dita sentì anche il segno delle frustate sulla sua schiena e le sfiorò con dolcezza, desiderando cancellare per sempre tutto il dolore che aveva patito. Non c’erano parole, né conosciute né straniere, ma solo un silenzio fatto di gemiti, sospiri e ansiti, come se l’amore parlasse una lingua così antica da essere nota al cuore di tutti.
Baciò il palmo che lui le aveva posato contro la guancia, sospirando quando le accarezzò i capelli, la nuca, scivolando lungo la schiena e infine chiudendosi, possessiva e salda, intorno a una natica. La sollevò appena, facendola ondeggiare. Sarah schiuse le labbra, mentre un singhiozzo disarticolato le moriva in gola. Sentì le sue dita penetrare in lei. Indugiare, ritrarsi e tornare. Poi fermarsi, trattenendola in bilico su qualcosa di incompiuto.
Due lacrime di pura emozione le rigarono le guance, e Christian le raccolse con la punta della lingua, come se di lei non volesse perdersi niente, conoscere tutto e assaggiare tutto.
Lentamente, con delicatezza, la fece sdraiare sul giaciglio, senza allontanare la mano tra le sue gambe e guardandola come se fosse un miracolo della natura.
Riprese a baciarla, sulle labbra, sulle ciglia, sulle guance, scendendo lungo la gola, e poi pian piano, un soffio dopo l’altro, fermandosi sul suo seno.
La sua bocca si chiuse intorno a un capezzolo, succhiandolo languidamente, per poi dedicarsi al suo gemello, come se quella notte dovesse durare per sempre e loro avessero tutto il tempo del mondo, come se lei non si sentisse sul punto di liquefarsi, divorata da un fuoco che la lambiva ovunque.
Christian sorrise contro la sua pelle, sentendola contrarsi, sempre più stretta e sempre più vicina. Più lui diventava dolce e paziente, più lei perdeva il controllo.
Infine si ritrasse, strappandole un diniego che era il desiderio di sentirlo ancora con sé, tra le sue braccia. La fece voltare, baciandole la nuca che i suoi capelli corti lasciavano scoperta e invitante. Le massaggiò le spalle e poi la schiena contratta. Ogni tocco delle sue mani era una saetta di piacere che l’attraversava. Sarah si sentiva annegare in un mare ribollente. Le mancava il respiro e si sentiva sul punto di rompersi. Sperò che la prendesse così, come già aveva fatto, facendola sentire peccaminosa, sfrenata. Spinse indietro la testa e chiuse gli occhi, ricevendo inaspettatamente un suo bacio.
Quella notte lei voleva guardarlo negli occhi.
Quella notte lui voleva guardarla fino in fondo all’anima.
Voltandosi sul giaciglio, Sarah lo strinse a sé, baciandolo come la baciava lui, sentendo il suo torace contro il seno, il suo corpo contro il proprio, i suoi capelli tra le dita. Sentì la sua lingua nella bocca e il suo respiro, fondersi al proprio e diventare un unico alito. Sentì la pelle nuda delle sue gambe contro le proprie, non più la seta pregiata dei suoi calzoni.
Lo sentì contro di sé e poi, finalmente, dentro di sé.
Christian si mosse in lei con la lenta sicurezza di un’onda che bacio dopo bacio, carezza dopo carezza, si trasformò in un maroso. Sarah si sentì trascinare via, naufragare, ma mentre sussultava, mentre le sembrava di morire e di rinascere, era sempre tra le sue braccia.
Lo chiamò Christian e lo chiamò Zahir.
Per lui lei era Sarah. Soltanto Sarah.
Non smise mai di baciarla e accarezzarla.
Non disse mai di amarla.
Ma quella notte fece l’amore con lei finché il sole non comparve nel cielo.
33
L’aria era pregna di sale.
Passeggiando nella zona del porto, Christian udì le strida dei gabbiani che solcavano il cielo azzurro e l’infrangersi delle onde contro le fiancate delle barche ormeggiate.
Beccheggiavano pigramente al molo, per la maggior parte gusci di noce vecchi e coriacei, il cui legno sembrava intriso di sudore, sangue e salsedine.
Si fermò, guardando l’orizzonte.
Il mare si dispiegava a perdita d’occhio come seta bagnata, in sfumature cangianti d’azzurro striate d’argento e di smeraldo.
Il quartiere brulicava di vita, tra le chiamate dei capitani e le risposte entusiaste dei marinai, che quel giorno avrebbero lavorato.
Le reti portate a terra, cariche di pescato, sembravano disperdere nella brezza il profumo degli abissi.
Christian riprese a camminare, muovendosi tra le ombre proiettate dalle prue delle navi: vecchi drakkar scandinavi, che il tramonto dell’era vichinga, la necessità e la fame avevano convertito dal saccheggio al commercio.
Un sorriso divertito sfiorò le labbra del bardo, pensando che c’era chi tra le due cose non trovava grande differenza, considerando un mercante alla stregua di un ladro.
Osservò le vele ammainate e le rune incise nel legno, come a voler portare in ogni viaggio gli incantesimi e la storia dei loro antenati.
Il lento dondolio delle barche dava l’impressione che dragoni marini sonnecchiassero sulle prue, in attesa di solcare nuovamente i flutti.
Un tempo avevano trasportato guerrieri ed esploratori. Il ferro delle armi e i trofei della conquista. Adesso le loro merci erano pesce conservato nel ghiaccio delle loro terre senza estate, grasso di foca, cuoio e pellame.
Le loro intenzioni erano meno sanguinarie, ma i loro viaggi non meno pericolosi di quelli dei loro padri.
Christian ricordò i figli del nord che avevano attaccato Deerstone, guidati da un pazzo che credeva di vivere ancora nell’era di Odino.
Molti altri, più semplicemente, erano diventati pirati, flagellando le coste germaniche e le navi che attraversavano quei mari.
Proseguendo, passò accanto ad alcuni bambini intenti a giocare tra le corde e le reti.
Oltrepassò una donna ferma sulla banchina, gli occhi fissi all’orizzonte. Avvolta in uno scialle, solenne e fiduciosa, sembrava aspettare qualcuno che non sarebbe ritornato mai.
Continuò a camminare con passo sicuro e andatura tranquilla, consapevole che qualcuno lo stava seguendo.
All’inizio era stata solo una sensazione, ma del genere che aveva imparato a non ignorare mai. Quel brivido improvviso, quel senso di irrequietezza gli avevano sempre salvato la vita. Fosse stato un altro momento, forse avrebbe sorriso. Ne sarebbe stato solo incuriosito. Ma quel giorno aveva fretta. Aronne gli aveva riportato una voce che era passata di bocca in bocca: Rothford stava arrivando.
Il barone aveva reso ancor più sinistra la già tetra reputazione della sua famiglia, attraversando le campagne inglesi feroce e brutale come un verro idrofobo.
Con la mano sull’elsa della shamshir, Christian aspettava d’incontrarlo.
Ma avrebbe scelto lui il luogo e il momento.
Doveva trovare una nave e un capitano con cui stringere accordi. Non aveva tempo da perdere.
Svoltò in un vicolo, sguainando la scimitarra.
Salendo su un davanzale, nascosto in una nicchia buia, attese che il suo inseguitore si palesasse.
Non fu necessaria molta pazienza, e appena la sagoma di un uomo comparve nella stradina, Christian gli fu addosso, trasformandosi da preda in cacciatore.
Con una spinta in mezzo alle scapole lo fece ruzzolare a terra; era così alto che gli sembrò di assistere al crollo di un gigante.
Imprecando in una lingua dai suoni frastagliati come ghiaccio, l’altro reagì con violenza. Christian lo evitò, assestandogli un colpo il faccia con l’elsa istoriata della scimitarra, e la lama sibilò nell’aria come l’attacco di un aspide.
Di nuovo il suo istinto lo mise in allerta, mentre la sua mente notava particolari che stridevano con la prima idea che si era fatto.
Quello non era uno degli uomini di Rothford.
Un brivido gli serpeggiò nel sangue, e senza distogliere gli occhi dal suo avversario, comprese che altri stavano arrivando. E non sarebbero stati dalla sua parte.
Evitando l’assalto inferocito dello straniero, lo sorprese alle spalle come in un passo di danza, costringendolo in ginocchio davanti a sé. Affondò la presa in una massa di capelli biondi come stoppa e gli tirò indietro la testa, fermando la lama contro la sua gola.
Alzò lo sguardo, fissando tre sconosciuti che sembravano rigurgitati da qualche saga norrena: alti, imponenti, con gli occhi chiari e i capelli che andavano dal rosso all’oro.
Lo fissavano sgomenti, mentre il loro compagno, in ginocchio, era immobile e silenzioso come scolpito nel ghiaccio.
Tenevano le mani sul manico delle asce e sull’elsa dei pugnali, ma stranamente nessuno dei tre sembrava intenzionato a snudare le armi.
Christian comprese che quel gruppo di scandinavi era in realtà terrorizzato da lui.
La tensione di quell’immobilità innaturale sembrò raggiungere il parossismo, pronta a spezzarsi senza lasciare intuire chi ne sarebbe uscito vivo.
Fu allora che nell’aria si levò una voce.
— Basta adesso!
Pura e cristallina, non poteva appartenere né a un uomo né a una donna.
A parlare era stato un bambino con i capelli chiari come la neve e gli occhi che sembravano acciaio di Damasco. Vestiva di cuoio e pellicce come i suoi compagni. Aveva i palmi delle mani fasciati, portava un crocifisso cristiano appeso al collo, il pugnale alla cintura e un amuleto pagano intorno al braccio.
Gli scandinavi si spostarono, facendolo passare.
Nonostante la sua giovane età, nessuno tra loro sembrava considerarlo un bambino.
Christian non ne fu sorpreso: quel ragazzino aveva ricevuto il battesimo del ferro ed era tornato a casa su un drakkar carico di morti.
Incontrò lo sguardo di quel giovane guerriero del mare e senza allontanare la shamshir dalla gola del suo prigioniero gli rivolse un cenno del capo.
— Salute a te, Svan Biorson.
Il ragazzino socchiuse gli occhi, come se il suono della sua voce fosse una musica che credeva dimenticata.
— Salute a te, mago. Ti ho riconosciuto appena ti ho visto: i tuoi capelli neri e la tua pelle come il bronzo, che il nostro sole non saprebbe mai regalare.
Christian sorrise, suo malgrado affascinato da una simile audacia.
Gli occhi di Svan si distolsero dai suoi, per posarsi sulla lama che ancora alitava sulla gola del suo compagno.
— Lascia andare Lief — gli ordinò gentilmente. — Hai la mia parola che nessuno dei miei fratelli intende nuocerti.
Christian fece scorrere lo sguardo sul resto del gruppo. Gli tornò alla mente il verso di una canzone appresa sulle coste del Mediterraneo: il mare prendeva uomini e restituiva dei.
Il mare e il deserto.
Sciolse la presa sul suo prigioniero, che barcollò appena, portandosi d’istinto la mano al collo.
Con un mezzo sorriso, Christian pensò che la promessa di quel bacio freddo lo avrebbe accompagnato per molti anni.
— Tu sei il mago del leone dormiente. Non credevo che ti avrei rivisto — disse Svan.
— No, non lo credevi perché né te né i tuoi compagni mettereste mai più piede a Deerstone, non è così? Come sta il vecchio saggio che ti accompagnava?
— Il venerabile Olaf è rimasto al nostro villaggio. Ha scritto la sua epica. Parla del tuo padrone, che da uomo si trasforma in una feroce belva ruggente. Parla anche di te e dei tuoi incantesimi.
Christian notò gli scongiuri dei compagni di Svan, intenti a guardarlo con un misto di affascinata curiosità e timoroso rispetto.
— Se temono i miei poteri, giovane Biorson, perché mi hanno attaccato?
Svan trasalì. Nell’imbarazzo che gli colorò il volto, improvvisamente sembrò dimostrare i suoi dodici anni.
— Volevano avvicinarti, non attaccarti. Ma non abbiamo grande dimestichezza su come trattare gli stregoni — ammise.
Il bardo sollevò la lama e tutti, eccetto Svan, indietreggiarono, fissando quella spada curva che sembrava ai loro occhi un artefatto magico.
— Che cosa vuoi da me, figlio del Nord?
Svan avanzò di un passo verso di lui. Mostrando le mani disarmate se le posò sul cuore, trasformando la sua richiesta in un solenne patto d’onore.
— Ti ho visto con i miei occhi salvare la vita del leone dormiente. Ti ho visto fermare il sangue che ruscellava dalla sua ferita e risanargli il braccio senza usare il fuoco né i ferri. Mago, quello stesso incantesimo io adesso ti chiedo di ripeterlo a beneficio del nostro capitano.