Epilogo.
L'autunno si concluse rapidamente e seguì un inverno che sembrava non dovesse mai finire. Persino il marmo del monumento al poeta Tommaso Grossi pareva desiderare un po' di sole, di calore, di primavera.
Quando fu il momento, i merli, intenti alla fabbrica del primo nido, si insediarono sugli ippocastani della piazza. E proprio come loro, confermando ciò che di lui pensava suor Speranza, anche il dottor Aloisio Fastelli volle godersi quel tepore. Anziché leggere il giornale seduto in poltrona per tirare l'ora dell'ambulatorio, uscì verso le due di un pomeriggio che prometteva bene e andò a sedersi su una panchina della piazza, godendo il panorama, dalla montagna chiazzata qua e là di verde al lago non più grigio. Silenzio quasi totale tutto intorno.
Di chiacchiere avrebbe fatto il pieno di lì a un'oretta.
Accarezzava la colorata fantasia di starsene sulla panchina per
tutto il pomeriggio come un qualunque sfaccendato, quando una voce
alle sue spalle lo richiamò alla realtà.
«Ecco il dottore!»
Chi andava a rompergli le balle, a rovinare l'incanto? Non si girò.
Messaggio chiaro, via, lasciarlo in pace! Ma l'importuno, aggirata
la panchina, gli si parò davanti. Il Sansicario. Dentro di sé il
Fastelli si scusò per averlo maltrattato. Non lo meritava. Anzi,
era stato comprensivo, buono, generoso. E come spesso capita ai
buoni di cuore, adesso forse pagava un dazio immeritato: da qualche
tempo infatti il Fastelli leggeva notizie poco rassicuranti sulla
Banca del Credito Orobico. Marcava male, insomma.
«Si riposa?» chiese il Sansicario.
«In attesa di andare al lavoro», rispose il Fastelli. Il direttore
approvò con un cenno del capo. Poi, sempre stando in piedi, le mani
strette dietro la schiena, diede uno sguardo panoramico. Infine
sospirò una folata d'aglio.
«Mi mancherà questo posto.»
«Se ne va?» chiese il dottore.
«Abbandono la nave prima che affondi del tutto», disse il
direttore.
«Avrà sentito, immagino...»
E mosse pollice e indice per confermare le meste notizie che
riguardavano la banca di cui dirigeva la filiale. Il Fastelli
confermò senza parlare: sì, aveva intuito qualcosa.
«E dove va di bello?» chiese tanto per tenere viva la
conversazione. Lo sguardo del Sansicario si incupì: «Cernusco
Lombardone», disse dolente. Come fossero il nome e il cognome di
una disgrazia. Gli occhi scuri del Sansicario si fissarono sulla
panchina, sul posto vuoto a lato del Fastelli. Fu lì per aprire la
bocca, per dire che quella destinazione non lo faceva assolutamente
felice, che il regista del suo destino aveva deciso così, che alla
sua età non poteva permettersi né di fare troppo lo schizzinoso né,
men che meno, di restare senza lavoro. Per dire anche, forse, che
in quel luogo dove aveva passato alcuni anni lasciava un pezzo di
cuore. Però non disse niente. Il Fastelli a quel punto si alzò e
allungò la mano.
«Allora arrivederci e buona fortuna.»
Il Sansicario ricambiò il gesto e si girò incamminandosi alla volta
della banca. Ma, fatti due o tre passi, mentre il dottore si era
seduto, tornò indietro. Dapprima strinse le labbra a culo di
gallina: «Io...». Aloisio Fastelli aveva presente il modo di
procedere del direttore quando parlava, a spizzichi e bocconi.
«Si?» interloquì. Il Sansicario levò gli occhi al cielo, poi li
fissò sulla sponda opposta del lago: «Non so se la cosa le può
interessare», disse.
«Ma cosa?» fece il Fastelli cercando di intercettarne lo
sguardo.
«Posso sedere?» chiese il direttore sempre parlando con la sponda
di là.
«Le panchine sono di tutti», sentenziò il Fastelli.
«Grazie», rispose il direttore. Fissando adesso la cima della
montagna che aveva di fronte, riprese a parlare: «Lei ricorda gli
eventi dell'autunno scorso, la faccenda dell'estratto conto?». Come
poteva averla dimenticata?, buttò lì il Fastelli.
Anzi, da quella storia aveva appreso una lezione: controllare,
come non aveva mai fatto in vita sua, gli estratti conto, visto che
anche le banche potevano sbagliare.
«Come tutti, naturalmente», aggiunse poi, non volendo offendere
nessuno.
«Certo, certo», approvò il direttore.
«Ma quella volta non ci fu alcun errore. E ci tenevo a
dirglielo.»
«Ma», sbottò il Fastelli, «se proprio lei mi aveva
assicurato...»
«Certo, certo, io», lo interruppe il Sansicario.
«Ma non ci fu errore.»
Né la prima volta né la seconda.
«Ne deriva che non le ho raccontato bugie e che la banca non ha
sbagliato.»
«Mi perdoni», osò il dottore. Ma non capiva. Con i numeri non si
poteva imbrogliare. In quel caso erano cinquantotto milioni oppure
cinquecentottantamila lire.
«Giusto o sbagliato?»
«Giusto», approvò il Sansicario.
«Capisco quello che vuole dire. Ma deve tener conto del fatto che i
soldi non sono... che ne so... non sono come questi ippocastani,
fermi, impossibili da spostare. I soldi, se mi intende, sono
mobili.»
«Varrebbe a dire?» chiese il Fastelli, talmente interessato che
non sentiva più l'aglio del direttore.
«C'erano, allora, quei cinquantotto milioni?» insisté. Il
Sansicario dondolò il capo.
«C'erano. La prima volta.»
«Il primo estratto conto era corretto?»
«Diciamo che il saldo era corretto.»
«Va bene, non è che me ne intenda più di tanto, quindi...» cercò di
semplificare il dottore. Il Sansicario non glielo permise.
«C'è una bella differenza invece», affermò. Tenendo conto che i
soldi sono mobili.
«E che la signora Antonia Cervicati aveva un delegato.»
Già, il delegato. Il quale, però, non aveva mai, ma proprio mai,
approfittato della situazione, confermò il direttore. Sino a quella
mattina.
«La mattina in cui la donna morì, poche ore prima che lei venisse
in banca da me per la seconda volta, si presentò allo sportello e
operò un trasferimento di conto per la cifra di cinquantasette
milioni e quattrocentoventimila lire, giocando sul tempo.
Noi non sapevamo che la Cervicati fosse morta, altrimenti avremmo bloccato il conto.»
«Capisco», disse il Fastelli. Ma gli sfuggiva un particolare:
perché quella cifra e non tutto, già che c'era? «Semplice», rispose
il direttore. Anche se l'aveva capito dopo, dopo aver dato
un'occhiata, insospettito e curioso, ai movimenti di quel
conto.
«Cinquantasette milioni e quattrocentoventimila lire», disse il
direttore, «ci rifletta un momento.»
«Direttore», confessò il Fastelli, «gliel'ho già detto che coi
numeri...»
Ma era semplice, anche questa volta.
«Per lasciare sul conto della Cervicali una cifra,
cinquecentottantamila lire, alla quale basta aggiungere un paio di
zeri per fare cinquantotto milioni. Una volta appresa la notizia di
quel bel pacchetto di milioni, il delegato ha agito in fretta e
bene, prendendo tutti in contropiede e cautelandosi, in caso di
contestazioni, con la storia dell'errore della banca. Ipotesi resa
credibile dal secondo controllo sul saldo...»
Quindi anche lui sul momento era stato turlupinato, ragionò il
Fastelli, fatto su insieme con la superiora, il bidello...
«Tutto regolare quindi?» chiese il dottore.
«Assolutamente», confermò il Sansicario. Nient'altro che un
movimento bancario.
«Quell'uomo aveva una delega, esercitava un diritto.»
Aveva ragione il direttore, ragionò il Fastelli. Non restava altro
da fare: i complimenti.
«E bravo Ernesto!» mormorò.
«Come dice?» chiese il Sansicario.
«Niente...» divagò Aloisio Fastelli.
«Dicevo così, tanto per dire.» Era tutto, ormai. Il direttore si
alzò.
«Chissà come sarà a Cernusco Lombardone», disse poi chiudendo
definitivamente la porta sul passato.
«Il nome è tutto un programma», osservò il dottore, alzandosi pure
lui e avviandosi con il direttore, entrambi ubbidienti al richiamo
dei rispettivi orari di apertura.
Fine.