Un giovane in divisa da caporale accorse rapidamente da Pugaèëv: «Leggi a voce alta», disse l'usurpatore, dandogli il foglio. Ero oltremodo curioso di sapere che cosa fosse saltato in mente al mio precettore di scrivere a Pugaèëv. Il primo segretario si mise a leggere, sillabando a voce alta, quanto segue:

«Due vestaglie, una di calicò e una di seta a righe, sei rubli».

«Come sarebbe a dire?», disse, aggrottando le sopracciglia, Pugaèëv.

«Ordina di continuare a leggere», rispose tranquillamente Savél'iè.

Il primo segretario continuò: «Una divisa di panno verde fino, sette rubli. Pantaloni bianchi di panno, cinque rubli.

Dodici camicie di tela d'Olanda coi polsini, dieci rubli. Una cassetta da viaggio con il servizio da tè, due rubli e mezzo...».

«Che sono queste ciance?», interruppe Pugaèëv. «Che c'entro io con le cassette da viaggio e i pantaloni coi polsini?».

Savél'iè si raschiò la gola ed iniziò a spiegare. «Questo qui, vedi, bàtjuška, è l'elenco della roba del padrone rubata dai banditi...».

«Quali banditi?», domandò minaccioso Pugaèëv.

«Scusate: ho detto male», rispose Savél'iè. «Banditi o no, i tuoi ragazzi comunque hanno rovistato e portato via tutto.

Non t'irritare: anche il cavallo, che ha quattro zampe, inciampa. Comanda piuttosto di leggere fino in fondo».

«Leggi fino in fondo», disse Pugaèëv. Il segretario continuò:

«Una coperta d'indiana, un'altra di taffetà imbottita d'ovatta, quattro rubli. Una pelliccia di volpe, foderata di ratina scarlatta, quaranta rubli. E ancora un pellicciotto di lepre, offerto a tua grazia nella locanda, quindici rubli».

«E poi che cos'altro?», gridò Pugaèëv, mandando lampi dagli occhi di fuoco.

Confesso che temetti per il mio povero precettore. Voleva lanciarsi di nuovo in spiegazioni, ma Pugaèëv lo interruppe: «Come hai osato importunarmi con simili sciocchezze?», gridò, strappando il foglio dalle mani del segretario e gettandolo in faccia a Savél'iè. «Vecchio scemo! Li hanno derubati: capirai che disgrazia! Piuttosto, vecchiaccio, devi pregare Dio in eterno per me e i miei ragazzi dal momento che tu e il tuo padrone non penzolate insieme con i miei disertori... Il pellicciotto di lepre! Te lo do io il pellicciotto di lepre! Lo sai o non lo sai che posso farti scuoiare vivo per farne pellicciotti?».

«Come credi», rispose Savél'iè; «ma io sono un uomo sottomesso, e devo rispondere dei beni del padrone».

Pugaèëv fu preso, evidentemente, da un attacco di magnanimità. Si girò e partì senza più dire neanche una parola.

Švàbrin e gli anziani lo seguirono. La banda uscì dalla fortezza in buon ordine. Il popolo andò ad accompagnare Pugaèëv.

Rimasi nella piazza solo con Savél'iè. Il mio precettore teneva in mano il suo elenco e la considerava con aria di profonda desolazione.

Vedendo la mia buona intesa con Pugaèëv, aveva pensato di utilizzarla a nostro vantaggio, ma il suo ingegnoso progetto non era andato in porto. Mi preparavo a insultarlo per la sua sollecitudine fuori posto, ma non potei trattenermi dal ridere. «Ridi, signore», rispose Savél'iè; «ridi; ma quando dovremo rifornirci daccapo di tutto, vedremo, allora, se ci sarà da ridere».

Avevo fretta di andare a casa del pope per vedere Mar'ja Ivànovna. La moglie del pope mi venne incontro con una notizia dolorosa. Quella notte a Mar'ja Ivànovna era venuta la febbre forte. Giaceva priva di conoscenza e delirava. La moglie del pope mi accompagnò nella sua stanza. Mi accostai silenziosamente al letto. L'alterazione del suo viso mi colpì. L'ammalata non mi riconobbe. Rimasi a lungo davanti a lei, senza ascoltare né padre Geràsim, né la sua buona moglie, che, credo, cercavano di consolarmi. Cupi pensieri mi rendevano inquieto. La situazione della povera orfanella indifesa, lasciata in mezzo a quei rivoltosi malvagi, e la mia propria impotenza mi terrorizzavano. Švàbrin, Švàbrin soprattutto straziava la mia immaginazione. Investito di potere dall'usurpatore, al comando della fortezza in cui restava la sventurata fanciulla - innocente oggetto del suo odio, egli poteva decidersi a tutto. Che cosa dovevo fare? Come prestarle aiuto? Come liberarla dalle mani dello scellerato? Rimaneva una sola possibilità: decisi di partire immediatamente per Orenbùrg, al fine di affrettare la liberazione della fortezza Belogórskaja, e di contribuirvi in tutti i modi. Mi congedai dal pope e da Akulìna Pamfìlovna, raccomandandole caldamente quella che consideravo già mia moglie. Presi una mano della povera fanciulla e la baciai, coprendola di lacrime. «Addio», mi disse la moglie del pope, accompagnandomi; «addio, Pëtr Andréiè. Speriamo di rivederci in tempi migliori. Non ci dimenticate e scriveteci spesso. Povera Mar'ja Ivànovna, a parte voi ormai non ha più alcuna consolazione, né tutela».

Uscito sulla piazza mi fermai un momento, guardai la forca, m'inchinai ad essa, uscii dalla fortezza e mi avviai a piedi per la strada di Orenbùrg, accompagnato da Savél'iè che non mi si staccava di un passo.

Camminavo, assorto nelle mie riflessioni, quando a un tratto sentii dietro di me lo scalpitare di un cavallo. Mi volto e vedo: dalla fortezza stava arrivando al galoppo un cosacco, che teneva un cavallo baschiro per le briglie e mi faceva dei segni da lontano. Mi fermai e presto riconobbi il nostro sottufficiale. Dopo averci raggiunti al galoppo egli scese dal suo cavallo e mi disse, porgendomi le briglie dell'altro: «Vossignoria! Il nostro padre vi dona un cavallo, e una pelliccia tolta dalle sue spalle»

(Alla sella era legato un pellicciotto di montone.) «E poi», aggiunse balbettando il sottufficiale, «vi fa dono di mezzo rublo...

ma io l'ho perso lungo la strada; abbiate la bontà di perdonarmi». Savél'iè lo guardò di traverso e borbottò: «L'ha perso lungo la strada! Allora che cosa ti tintinna in petto? Svergognato!». «Che cosa mi tintinna in petto?», obiettò il sottufficiale, senza turbarsi affatto. «Dio ti protegga, vecchietto! È il morso che sbatte, non il mezzo rublo». «Bene», dissi, interrompendo il diverbio. «Ringrazia da parte mia chi ti ha mandato, e il mezzo rublo perso cerca di raccoglierlo sulla via del ritorno e tienitelo per bere». «Molto obbligato, vossignoria», rispose lui, facendo girare il cavallo; «pregherò Dio in eterno per voi». Dette queste parole tornò indietro al galoppo, tenendosi una mano sul petto, e di lì a un minuto era sparito dalla nostra vista.

Indossai il pellicciotto e montai a cavallo, facendo salire Savél'iè dietro di me. «Lo vedi, signore», disse il vecchio,

«non è stato inutile dare quella supplica al furfante: il ladro si è vergognato, anche se questo ronzino spilungone baschiro e il pellicciotto di montone non valgono neanche la metà di quello che loro, le canaglie, ci hanno rubato, e di quello che tu stesso ti sei degnato di regalargli; ma giungono a proposito, e da un cane cattivo puoi sempre ricavare almeno un ciuffo di peli».

X • L'ASSEDIO DELLA CITTÀ

Occupate le montagne e i prati verdi,

Dall'alto, come un'aquila, sulla città lanciava sguardi.

Dietro il campo fece costruire per i cannoni un tavolato piatto,

E, nascosti i fulmini lì dentro, ordinò di portarlo sotto la città di notte.

Cheràskov

Avvicinandoci a Orenbùrg vedemmo una folla di forzati con le teste rasate e i visi sfigurati dalle tenaglie del carnefice. Lavoravano presso le fortificazioni, sotto la sorveglianza degli invalidi della guarnigione. Alcuni rimuovevano con carretti l'immondizia che riempiva il fossato, altri scavavano la terra con le vanghe; sul terrapieno i muratori portavano i mattoni e riparavano le mura di cinta. Davanti alla porta le sentinelle ci fermarono e chiesero i nostri passaporti. Non appena il sergente udì che arrivavo dalla fortezza Belogórskaja, mi condusse direttamente alla casa del generale.

Lo trovai in giardino. Stava osservando i meli, spogliati dalla brezza autunnale, e con l'aiuto del vecchio giardiniere li stava avvolgendo con cura nella paglia per tenerli al caldo. Il suo viso era l'immagine della tranquillità, della salute e della bonomia. Fu contento di vedermi e prese a interrogarmi sui terribili avvenimenti dei quali ero stato testimone. Gli raccontai tutto. Il vecchio mi ascoltava con attenzione e intanto recideva i rami secchi. «Povero Mirónov!», disse, quando ebbi terminato il mio doloroso racconto. «Mi dispiace per lui: era un buon ufficiale. Anche madame Mirònova era una brava signora, e che maestra nel salare i funghi! E che ne è di Maša, la figlia del capitano?». Risposi che era rimasta nella fortezza, affidata alle cure della moglie del pope. «Ahi, ahi, ahi!», osservò il generale. «Male, molto male. Sulla disciplina dei briganti non si può fare alcun affidamento. Che ne sarà della povera fanciulla?». Risposi che la fortezza Belogórskaja non era lontana e che, probabilmente, sua eccellenza non avrebbe indugiato a inviare l'esercito per liberare i suoi poveri abitanti. Il generale scosse la testa con aria di sfiducia. «Vedremo, vedremo», disse. «Di questo avremo ancora tempo di parlare. Vieni a prendere una tazza di tè da me, ti prego: oggi ci sarà un consiglio di guerra. Tu ci puoi dare notizie sicure su quella canaglia di Pugaèëv e sul suo esercito. Adesso, intanto, va' a riposarti».

Andai nell'alloggio che mi era stato assegnato, dove Savél'iè già spadroneggiava, e mi misi ad aspettare con impazienza l'ora stabilita. Il lettore potrà facilmente immaginare che non mancai di presentarmi al consiglio che tanto doveva influire sulla mia sorte. All'ora fissata ero già dal generale.

Vi trovai uno dei funzionari di città, che era, se ricordo bene, il direttore della dogana, un vecchietto grasso e rubicondo in caftano di broccato. Cominciò a pormi domande sulla sorte di Ivàn Kuzmìè, che chiamava compare, e interrompeva spesso il mio discorso con domande complementari e osservazioni edificanti, che, se non rivelavano in lui un uomo esperto d'arte militare, almeno mettevano in luce sagacia e intelligenza naturale. Intanto si erano raccolti anche gli altri convocati. Fra loro, oltre al generale, non c'era neppure un militare. Quando tutti si furono seduti e a ciascuno fu offerta una tazza di tè, il generale espose il problema in modo chiaro e particolareggiato: «Adesso, signori», continuò, «resta da decidere il modo in cui agire contro i ribelli: offensivamente o difensivamente? Ognuno di questi mezzi ha i suoi vantaggi e svantaggi.

L'offensiva offre maggiore speranza di sterminare più rapidamente il nemico; l'azione difensiva è più sicura e meno pericolosa... Dunque, cominciamo a raccogliere i voti secondo l'ordine legale, cioè partendo dai gradi meno elevati. Signor alfiere!», continuò, rivolgendosi a me. «Vogliate esporci il vostro parere».

Mi alzai, e dopo aver dapprima descritto brevemente Pugaèëv e la sua banda, affermai che l'impostore non aveva mezzi per resistere alle armi regolari.

Il mio parere fu accolto dai funzionari con palese malevolenza. Essi vi vedevano la sventatezza e l'audacia di un giovane. Si sollevò un mormorio, e io sentii distintamente la parola «moccioso» pronunciata da qualcuno a mezza voce. Il generale si rivolse a me e disse con un sorriso: «Signor alfiere! I primi voti ai consigli di guerra abitualmente vengono dati a favore delle mosse offensive; questa è la regola. Ora continuiamo a raccogliere i voti. Signor consigliere di collegio! Vogliate esporci la vostra opinione!».

Il vecchietto in caftano di broccato finì di bere in fretta e furia la sua terza tazza di tè, considerevolmente allungata col rum, e rispose al generale: «Io penso, vostra eccellenza, che non si debba intervenire né con l'offensiva, né con la difensiva».

«Come sarebbe a dire, signor consigliere di collegio?», replicò il generale stupefatto. «Altri mezzi la tattica non ne offre: un movimento è offensivo o difensivo...».

«Vostra eccellenza, agite con la corruzione».

«Eh-eh-eh! La vostra opinione è molto sensata. Le mosse corruttrici sono consentite dalla tattica, e noi terremo conto del vostro consiglio. Si potrà promettere per la testa di quel farabutto... una settantina di rubli o addirittura cento... dal fondo segreto...».

«E allora», interruppe il direttore della dogana, «che io sia un montone kirgizo, e non un consigliere di collegio, se questi ladri non ci consegneranno il loro atamàn, legato mani e piedi».

«Ci rifletteremo su e ne riparleremo», rispose il generale. «Comunque, in ogni caso bisogna prendere anche misure militari. Signori, votate secondo l'ordine legale».

Tutti i pareri si manifestarono contrari al mio. Tutti i funzionari parlarono dell'inaffidabilità delle truppe, dell'incertezza dell'esito, di prudenza e via dicendo. Tutti ritenevano più ragionevole restare al riparo dei cannoni, dietro solide mura di pietra, che non tentare la fortuna delle armi in campo aperto. Infine il generale, dopo aver ascoltato tutti i pareri, tolse la cenere dalla pipa e formulò il seguente discorso:

«Signori miei! Devo dichiararvi che da parte mia io sono perfettamente d'accordo con l'opinione del signor alfiere, dal momento che tale opinione è fondata su tutte le regole di una sana tattica, che preferisce quasi sempre i movimenti offensivi a quelli difensivi».

A questo punto si arrestò e si mise a caricare la pipa. Il mio amor proprio esultava. Guardai orgogliosamente i funzionari che bisbigliavano fra loro con aria di disappunto e di agitazione.

«Però, signori miei», continuò, emettendo, insieme con un profondo sospiro, una densa ondata di fumo di tabacco, «io non ho il coraggio di assumermi una responsabilità così grande, visto che l'affare concerne la sicurezza delle province affidatemi da sua maestà imperiale, la mia graziosissima Sovrana. Per cui concordo con la maggioranza dei voti, la quale ha deciso che la cosa più ragionevole e sicura sia quella di aspettare l'assedio dentro la città, e di respingere gli assalti del nemico con la forza dell'artiglieria e (se sarà possibile) con delle sortite».

I funzionari a loro volta mi guardarono con aria beffarda. Il consiglio si sciolse. Non mi restava che compiangere la debolezza dell'onorato guerriero, che, contrariamente alle sue convinzioni, s'era risolto a seguire i pareri di gente incompetente e inesperta.

Qualche giorno dopo questo memorabile consiglio venimmo a sapere che Pugaèëv, fedele alla sua promessa, si stava avvicinando a Orenbùrg. Vidi l'esercito dei ribelli dall'alto delle mura della città. Mi sembrò che il loro numero si fosse decuplicato dai tempi dell'ultimo assalto, al quale avevo assistito. Avevano con loro anche l'artiglieria, presa da Pugaèëv nelle piccole fortezze da lui già assoggettate. Ricordando la decisione del consiglio previdi una lunga reclusione fra le mura di Orenbùrg, e quasi ne piangevo dalla rabbia.

Non starò a descrivere l'assedio di Orenbùrg, che appartiene alla storia, e non alle cronache familiari. Dirò in poche parole che tale assedio, per l'inavvedutezza delle autorità locali, fu disastroso per gli abitanti, i quali patirono la fame e miserie di ogni sorta. È facile rendersi conto di come la vita a Orenbùrg fosse la più insopportabile. Tutti aspettavano nello sconforto che la propria sorte si decidesse, tutti gemevano per il rincaro dei prezzi, che effettivamente era fortissimo. Gli abitanti si abituarono alle palle di cannone che si abbattevano nei loro cortili; perfino gli assalti di Pugaèëv non suscitavano più la curiosità generale. Morivo dalla noia. Il tempo passava. Lettere dalla fortezza Belogórskaja non ne ricevevo. Tutte le strade erano tagliate. La lontananza da Mar'ja Ivànovna mi stava diventando insopportabile. L'assenza di notizie sulla sua sorte mi tormentava. La mia unica distrazione consisteva nelle scorrerie. Grazie a Pugaèëv avevo un buon cavallo, col quale dividevo il mio poco cibo e sul quale mi recavo ogni giorno fuori dalle mura a scambiare fucilate coi cavalieri di Pugaèëv. In queste scaramucce di solito avevano la meglio i malfattori, sazi, ubriachi, e dotati di buoni cavalli. La magra cavalleria di città non poteva batterli. A volte usciva in campo anche la nostra affamata fanteria, ma la neve alta le impediva d'intervenire con successo contro i cavalieri sparsi. L'artiglieria tuonava invano dall'alto del terrapieno, ma in aperta campagna s'impantanava e non attaccava per via dello spossamento dei cavalli. Tale era il quadro delle nostre operazioni militari! Ed ecco quello che i funzionari di Orenbùrg chiamavano prudenza e ragionevolezza!

Un giorno che ci riuscì non si sa come di disperdere e scacciare un gruppo piuttosto folto, piombai su un cosacco che era rimasto isolato dai suoi compagni; ero già pronto a colpirlo con la mia sciabola turca quando a un tratto egli si tolse il berretto e gridò: «Buongiorno, Pëtr Andréiè! Come ve la manda Dio?».

Lo guardai e riconobbi il nostro sottufficiale. Fui immensamente contento di vederlo. «Salve, Maksìmyè», gli dissi.

«È tanto che manchi dalla fortezza Belogórskaja?».

«No, non è tanto, bàtjuška Pëtr Andréiè; ne sono tornato appena ieri. Ho una letterina per voi».

«Dov'è?», gridai, quasi avvampando.

«L'ho qui», rispose Maksìmyè, mettendosi la mano sul petto. «Ho promesso a Palàška che in qualche modo l'avrei fatta pervenire a voi». Mi porse un foglio ripiegato e galoppò subito via. Io lo dispiegai e lessi trepidante le seguenti righe: A Dio è piaciuto di privarmi all'improvviso del padre e della madre: sulla terra non ho parenti, né protettori. Ricorro a voi sapendo che mi avete sempre voluto bene e che siete pronto ad aiutare chiunque. Prego Dio che questa lettera vi giunga in qualche modo! Maksìmyè ha promesso di farvela avere. Palàška ha sentito dire anche da Maksìmyè che egli vi vede spesso da lontano sul campo, e che voi non avete alcuna cura di voi stesso e che non pensate a quelli che fra le lacrime pregano Dio per voi. Sono stata ammalata a lungo, e quando sono guarita Alekséj Ivànoviè, che ha il comando qui da noi al posto del povero babbo, ha forzato padre Geràsim a consegnarmi a lui, mettendogli paura con Pugaèëv. Vivo nella nostra casa sotto vigilanza.

Alekséj Ivànoviè mi vuole costringere a sposarlo. Dice di avermi salvato la vita, perché ha nascosto l'inganno di Akulìna Pamfìlovna quando lei ha detto ai banditi che ero sua nipote. Ma io preferirei morire piuttosto che diventare la moglie di un uomo come Alekséj Ivànoviè. Mi tratta con molta crudeltà, e minaccia che se non ci ripenserò e non acconsentirò mi porterà nell'accampamento del bandito, e dice che subirò la stessa sorte di Lizavéta Chàrlova. Ho pregato Alekséj Ivànoviè di lasciarmi riflettere. Ha accettato di aspettare altri tre giorni, ma se di qui a tre giorni non lo sposerò non avrà più alcuna pietà.

Bàtjuška Pëtr Andréiè! Voi siete il mio unico protettore; fate qualcosa per me poverina. Pregate il generale e tutti i comandanti che ci mandino al più presto dei soccorsi, e venite voi stesso, se potete. Rimango la vostra fedele povera orfana Mar'ja Mirónova

Dopo aver letto questa lettera per poco non impazzii. Mi precipitai in città, spronando senza misericordia il mio povero cavallo. Strada facendo meditavo ora questo ora quello per liberare la povera fanciulla, ma non riuscivo a escogitare nulla. Arrivato al galoppo in città, andai dritto dal generale e irruppi in casa sua.

Il generale camminava su e giù per la stanza, fumando la sua pipa di schiuma. Vedendomi si fermò. È probabile che il mio aspetto l'avesse colpito; chiese con premura il motivo del mio precipitoso arrivo.

«Vostra eccellenza», gli dissi, «ricorro a voi come a un padre; per amor di Dio, non respingete la mia preghiera: si tratta della felicità di tutta la mia vita».

«Che c'è, bàtjuška?», domandò il vecchio stupefatto. «Cosa posso fare per te? Parla».

«Vostra eccellenza, ordinatemi di assumere il comando di una compagnia di soldati e un mezzo centinaio di cosacchi, e mandatemi a liberare la fortezza Belogórskaja».

Il generale mi guardava fisso, supponendo, probabilmente, che fossi diventato pazzo (e in questo quasi non si sbagliava).

«Come sarebbe? Liberare la fortezza Belogórskaja?», disse infine.

«Vi garantisco il successo», risposi infervorato. «Purché mi lasciate andare».

«No, giovanotto», disse lui scuotendo la testa. «A una così forte distanza il nemico potrebbe facilmente tagliarvi fuori da ogni comunicazione col centro strategico principale, e riportare su di voi una vittoria totale. Le comunicazioni soppresse...».

Mi spaventai vedendo che si lasciava andare a considerazioni militari, e mi affrettai a interromperlo.

«La figlia del capitano Mirónov», gli dissi, «mi scrive: chiede aiuto; Švàbrin vuole costringerla a sposarlo».

«È mai possibile? Oh, questo Švàbrin è un grandissimo Schelm, e se mi capita fra le mani lo farò processare in ventiquattr'ore, e lo fucileremo sul parapetto della fortezza! Ma per il momento bisogna pazientare...».

«Pazientare!», gridai fuori di me. «Ma nel frattempo egli sposa Mar'ja Ivànovna!...».

«Oh!», replicò il generale. «Questa non è ancora una gran disgrazia: è meglio per lei al momento essere la moglie di Švàbrin: lui ora può offrirle protezione; quando invece lo avremo fucilato, allora, se Dio vorrà, le troveremo il fidanzatino. Le vedovelle graziose non restano senza marito; cioè, volevo dire che una vedovella trova marito prima di una fanciulla».

«Preferisco morire», dissi furioso, «piuttosto che cederla a Švàbrin!».

«Ah, ah, ah, ah!» disse il vecchio. «Ora capisco: tu, allora, sei innamorato di Mar'ja Ivànovna. Oh, è un'altra faccenda!

Povero ragazzo! Comunque non posso assolutamente darti una compagnia di soldati e mezzo centinaio di cosacchi. Questa spedizione sarebbe irragionevole; non ne posso assumere la responsabilità».

Chinai la testa, la disperazione s'impossessò di me. All'improvviso un'idea mi balenò in testa: di che cosa si trattasse il lettore lo vedrà nel capitolo seguente, come dicono i romanzieri antichi.

XI • IL SOBBORGO RIBELLE

A quell'ora il leone era sazio, sebbene di natura

sia efferato.

«Come mai ti degni di venire nel mio antro?»,

chiese affettuosamente.

A. Sumarókov

Lasciai il generale e m'affrettai al mio alloggio. Savél'iè mi accolse con le sue solite ramanzine. «Hai proprio bisogno, signore, di confonderti coi briganti ubriachi! Ti sembra una cosa da signori? Che ne sai? Puoi rovinarti per niente. Ancora ancora andassi contro i turchi o contro gli svedesi, ma fa vergogna dire contro chi vai!».

Interruppi il suo discorso per chiedergli: quanti soldi avevo in tutto? «Ti basteranno», rispose con aria soddisfatta.

«Per quanto le canaglie abbiano frugato, sono comunque riuscito a tenerli nascosti». E così dicendo estrasse dalla tasca un lungo borsellino intessuto, pieno di monete d'argento. «Bene, Savél'iè», gli dissi, «adesso dammene la metà; e il resto prendilo per te. Vado alla fortezza Belogórskaja».

« Bàtjuška Pëtr Andréiè!», disse il buon precettore con voce tremante. «Abbi timor di Dio; come fai a metterti in viaggio di questi tempi, quando i briganti non lasciano passare da nessuna parte? Abbi pietà almeno dei tuoi genitori, se non ne hai di te stesso. Dove devi andare? Perché? Aspetta un pochino: arriveranno le truppe, acchiapperanno le canaglie; allora te ne potrai anche andare in capo al mondo».

Ma la mia intenzione era irremovibile.

«È tardi per ragionare», risposi al vecchio. «Io devo andare, non posso farne a meno. Non te ne crucciare, Savél'iè: Dio è misericordioso; magari ci rivedremo! Bada di non farti scrupoli e di non risparmiare. Compra quello che ti sarà necessario, anche se costasse tre volte di più. Di questo denaro te ne faccio dono. Se entro tre giorni non sarò tornato...».

«Ma che dici, signore?», m'interruppe Savél'iè. «Io lasciarti partire da solo! Non te lo sognare neppure. Se hai già deciso di andare, io magari a piedi ma ti verrò dietro, mica ti abbandonerò. Che io debba restare senza di te dietro una muraglia di pietra! Sono forse ammattito? Fa' come vuoi, signore, ma io non mi staccherò da te».

Sapevo che con Savél'iè c'era poco da discutere, e gli consentii di prepararsi per il viaggio. Mezz'ora dopo montai sul mio buon cavallo, e Savél'iè su un ronzino magro e zoppo, che gli aveva dato gratuitamente uno degli abitanti della città, non avendo più di che nutrirlo. Arrivammo alle porte della città; le sentinelle ci lasciarono passare; uscimmo da Orenbùrg.

Cominciava a imbrunire. Il mio cammino passava lungo il sobborgo di Berdà, rifugio di Pugaèëv. La strada maestra era coperta di neve, ma per tutta la steppa si vedevano le orme dei cavalli, ogni giorno rinnovate. Avanzavo di buon trotto.

Savél'iè riusciva a stento a seguirmi da lontano e mi gridava continuamente: «Più piano, signore, in nome di Dio, più piano. Il mio maledetto ronzino non ce la fa a star dietro al tuo diavolo dalle zampe lunghe. Dove corri? Ancora ancora andassi a un banchetto, ma tu rischi di andare sotto una scure, se non stai attento... Pëtr Andréiè... bàtjuška Pëtr Andréiè!... Non ti rovinare!... Signore onnipotente, il figlio dei padroni andrà a finire male!».

Presto si misero a brillare i fuochi di Berdà. Ci avvicinammo ai burroni, fortificazioni naturali del sobborgo. Savèl'iè non mi si staccava di dosso, e continuava le sue lamentose implorazioni. Speravo di aggirare il sobborgo senza incidenti, quando all'improvviso scorsi nella penombra proprio davanti a me forse cinque contadini armati di randelli: era un avamposto del rifugio di Pugaèëv. Ci chiesero il chi va là. Non conoscendo la parola d'ordine, avrei voluto superarli in silenzio, ma essi mi circondarono immediatamente, e uno afferrò il mio cavallo per le briglie. Io sfoderai la sciabola e colpii il contadino sulla testa; il berretto lo salvò, tuttavia barcollò e si lasciò sfuggire di mano le briglie. Gli altri rimasero sconcertati e fuggirono; io approfittai di quel momento, spronai il cavallo e partii al galoppo.

L'oscurità della notte che si approssimava avrebbe potuto preservarmi da ogni pericolo, ma a un tratto, guardandomi indietro, vidi che Savél'iè non era con me. Il povero vecchio, col suo cavallo zoppo, non ce l'aveva fatta a sfuggire ai briganti.

Che fare? Dopo averlo aspettato per qualche minuto ed essermi accertato che era stato fermato, girai il cavallo e tornai indietro per trarlo in salvo.

Avvicinandomi al burrone sentii da lontano del chiasso, grida e la voce del mio Savél'iè. Andai più veloce e presto mi ritrovai nuovamente fra i contadini di guardia che mi avevano fermato qualche minuto prima. Savél'iè si trovava in mezzo a loro. Avevano tirato il vecchio giù dal suo ronzino e stavano per legarlo. Il mio arrivo li riempì di gioia. Mi si gettarono addosso con un grido e in un istante mi tirarono giù da cavallo. Uno di loro, evidentemente il capo, ci dichiarò che ci avrebbe subito condotti dal sovrano. «E il nostro bàtjuška», aggiunse, «è libero di comandare che siate impiccati subito, o che si aspetti la luce del sole». Io non opposi resistenza; Savél'iè seguì il mio esempio, e le sentinelle ci condussero via con aria trionfante.

Passammo il burrone e facemmo ingresso nel sobborgo. In tutte le izbe erano accesi i fuochi. Frastuono e grida echeggiavano ovunque. Per la strada incontrai una quantità di gente, ma nessuno, nell'oscurità, fece caso a noi, né riconobbe in me un ufficiale di Orenbùrg. Ci condussero direttamente a una casetta che si trovava all'angolo di un crocicchio. Davanti alla porta c'erano qualche botte di vino e due cannoni. «Ecco il palazzo», disse uno dei contadini; «vi annunceremo subito». Entrò nella casetta. Diedi un'occhiata a Savél'iè; il vecchio si faceva il segno della croce, recitando fra sé una preghiera. Aspettai a lungo; finalmente il contadino tornò e mi disse: «Va': il nostro bàtjuška ha comandato di far entrare l'ufficiale».

Entrai nella capanna, o nel palazzo, come la chiamavano i contadini. Era illuminata da due candele di sego, e i muri erano tappezzati di carta dorata; per il resto le panche, la tavola, il lavamano sospeso a una cordicella, l'asciugamano a un chiodo, la pala per il forno nell'angolo e l'ampio focolare ingombro di pentole di terracotta, - tutto era come in una qualsiasi casa di contadini. Pugaèëv sedeva sotto le immagini sacre, con un caftano rosso, un berretto alto e le mani altezzosamente sui fianchi. Gli stavano accanto alcuni dei suoi compagni più importanti, con un'aria di finta adulazione. Si vedeva che la notizia dell'arrivo di un ufficiale da Orenbùrg aveva destato nei rivoltosi una forte curiosità, e che si erano preparati a ricevermi con solennità. Pugaèëv mi riconobbe al primo sguardo. La sua gravità simulata sparì all'istante. «Ah, vossignoria!», mi disse animandosi. «Come stai? Come mai Dio t'ha portato qui?». Risposi che viaggiavo per una questione personale e che i suoi uomini mi avevano fermato: «Per quale questione?», mi domandò. Io non sapevo che cosa rispondere. Pugaèëv, supponendo che non mi volessi spiegare in presenza di testimoni, si volse ai suoi compagni e ordinò loro di uscire. Tutti obbedirono, ad eccezione di due, che non si mossero dal posto. «Parla liberamente davanti a loro», mi disse Pugaèëv: «a loro non nascondo nulla». Guardai di traverso i fiduciari dell'impostore. Uno di loro, un vecchietto gracile e curvo con la barba bianca, non aveva in sé niente di particolare, tranne un nastro azzurro a tracolla sul gabbano grigio. Invece non dimenticherò mai il suo compagno. Era alto di statura, massiccio e largo di spalle, e mi sembrava avesse all'incirca quarantacinque anni. La folta barba rossiccia, gli occhi grigi scintillanti, il naso senza narici e alcune macchie rossastre sulla fronte e sulle guance conferivano al suo largo viso butterato un'espressione indefinibile. Portava una camicia rossa, una veste kirgiza e pantaloni a sbuffo da cosacco. Il primo (come appresi in seguito) era il caporale disertore Beloboródov; il secondo - Afanàsij Sókolov (soprannominato Chlopùša) - un criminale deportato che era scappato tre volte dalle miniere siberiane. Nonostante i sentimenti che mi sconvolgevano completamente, la compagnia in cui mi ero ritrovato così per caso distraeva violentemente la mia immaginazione. Ma Pugaèëv mi ricondusse a me chiedendomi: «Di': per quale necessità sei partito da Orenbùrg?».

Mi venne in mente una strana idea: mi sembrò che la provvidenza, nel condurmi per la seconda volta da Pugaèëv, mi desse l'opportunità di mettere in azione il mio proposito. Decisi di approfittarne e, senza aver avuto il tempo di riflettere su quanto avevo deciso, risposi alla domanda di Pugaèëv:

«Stavo andando alla fortezza Belogórskaja per liberare un'orfana che laggiù viene oltraggiata».

Gli occhi di Pugaèëv mandarono scintille. «Chi dei miei uomini osa oltraggiare un'orfana?», gridò. «Valesse tanto oro quanto pesa, non sfuggirà alla mia giustizia. Di': chi è il colpevole?».

«Švàbrin è il colpevole», risposi. «Tiene prigioniera quella fanciulla che tu hai visto, ammalata, dalla moglie del prete, e vuole sposarla a forza».

«Gliela farò vedere io a Švàbrin», disse minacciosamente Pugaèëv. «Imparerà che cosa vuol dire fare di testa propria con me e offendere il popolo. Lo impiccherò».

«Consentimi di dire una parola», disse Chlopùša con voce rauca. «Hai avuto fretta di nominare Švàbrin comandante della fortezza, e ora hai fretta d'impiccarlo. Già hai offeso i cosacchi, mettendo un nobile alla loro testa; ora non spaventare i nobili, giustiziandoli alla prima calunnia».

«Non c'è né da averne pietà, né da favorirli!», disse il vecchietto con la fascia azzurra. «Far giustiziare Švàbrin non sarebbe male, ma non sarebbe male neppure interrogare a dovere il signor ufficiale sulle ragioni per cui s'è degnato di farci visita. Se lui non ti riconosce come sovrano, non può cercare giustizia da te; se invece ti riconosce perché è rimasto fino ad oggi a Orenbùrg con i tuoi inimici? Perché non ordini piuttosto di condurlo alla cancelleria e di accendere là un focherello? A me pare che sua grazia ci sia stata mandata dai comandanti di Orenbùrg».

La logica del vecchio bandito mi sembrò piuttosto convincente. Un gelo mi attraversò tutto il corpo nel pensare in che mani mi trovassi. Pugaèëv notò il mio turbamento. «Allora, vossignoria?», mi disse ammiccando. «Il mio feldmaresciallo pare dica le cose come stanno. Che ne pensi?».

L'ironia di Pugaèëv mi restituì il coraggio. Risposi tranquillamente che mi trovavo in suo potere e che era libero di fare di me quello che gli pareva.

«Bene», disse Pugaèëv. «Ora dimmi in che stato è la vostra città».

«Grazie al cielo», risposi, «va tutto bene».

«Va tutto bene?», ripeté Pugaèëv. «Ma se la gente muore di fame!».

L'usurpatore diceva la verità, ma io, per dovere di giuramento, cominciai a assicurarlo che erano tutte voci infondate, e che a Orenbùrg c'erano provviste a sufficienza di ogni genere.

«Lo vedi», riprese il vecchietto, «che ti dice in faccia le bugie? Tutti i fuggiaschi sono concordi nel testimoniare che a Orenbùrg c'è la fame e una moria generale, che vi si mangiano le carogne e pare loro una gran cosa, e sua grazia assicura che c'è di tutto in abbondanza. Se vuoi impiccare Švàbrin, impicca alla stessa forca anche questo giovanotto, per non far invidia a nessuno».

Le parole di quel vecchio maledetto sembrava facessero tentennare Pugaèëv. Per fortuna Chlopùša si mise a contraddire il suo compagno.

«Basta, Naùmyè», gli disse. «Per te bisognerebbe solo strozzare e sgozzare. Che razza di eroe guerriero sei? A guardarti, reggi l'anima coi denti. Hai tu stesso un piede nella fossa, e ammazzi gli altri. Non ti basta il sangue che hai sulla coscienza?».

«E tu che santo sei?», replicò Beloboródov. «Da dove ti viene questa pietà?».

«Certo», rispose Chlopùša, «anch'io ho peccato, e questa mano» (strinse il pugno ossuto e, rimboccandosi le maniche, scoprì un braccio villoso), «è anch'essa colpevole d'aver sparso sangue cristiano. Ma io ho ucciso l'avversario, non l'ospite; a un crocicchio aperto o in una foresta oscura, non in casa, seduto accanto alla stufa; con la mazza e la scure, non con calunnie da donnetta».

Il vecchio si voltò dall'altra parte e borbottò le parole: «Narici strappate!...».

«Che vai bisbigliando lì, vecchio barbogio?», gridò Chlopùša. «Te le do io le narici strappate; aspetta, che il giorno arriverà anche per te; se Dio vuole, anche tu annuserai le tenaglie... E intanto bada che non ti debba strappare la barbetta!».

«Signori generali!», esclamò solennemente Pugaèëv. «Smettetela di bisticciare. Non sarebbe un guaio se tutti i cani di Orenbùrg dimenassero le zampe sotto la stessa trave di forca; il guaio è se i nostri mastini si azzannano fra loro. Su, fate la pace».

Chlopùša e Beloboródov non proferirono parola e si guardarono cupamente. Vidi la necessità di cambiare un discorso che per me si poteva concludere in modo assai svantaggioso, e, voltandomi verso Pugaèëv, gli dissi con aria allegra: «Ah! Mi ero dimenticato di ringraziarti per il cavallo e il pellicciotto. Senza di te non sarei arrivato fino in città e sarei gelato per strada».

Il mio espediente riuscì. Pugaèëv si rallietò. «Il debito è bello quando vien pagato», disse, ammiccando e socchiudendo gli occhi. «Adesso invece raccontami, cos'hai a che fare con quella ragazza che Švàbrin offende? Non sarà mica la fiamma del tuo cuore ardimentoso? Eh?».

«È la mia fidanzata», risposi a Pugaèëv, vedendo il tempo tornato al bello e non trovando necessario celare la verità.

«La tua fidanzata!», gridò Pugaèëv. «Perché non l'hai detto prima? Allora ti sposeremo e banchetteremo alle tue nozze!». Poi, rivolgendosi a Beloboródov: «Ascolta, feldmaresciallo! Io e sua signoria siamo vecchi amici; andiamo piuttosto a cenare, la notte porta consiglio. Domani vedremo che cosa farne di lui».

Avrei ricusato volentieri l'onore che mi veniva offerto, ma c'era poco da fare. Due giovani cosacche, figlie del padrone dell' izba, apparecchiarono la tavola con una tovaglia bianca, portarono del pane, zuppa di pesce, qualche fiasco di vino e di birra, e io mi ritrovai per la seconda volta alla mensa di Pugaèëv e dei suoi terribili compagni.

L'orgia alla quale assistetti involontariamente si protrasse fino a tarda notte. Infine l'ebbrezza cominciò a vincere i commensali. Pugaèëv si mise a sonnecchiare, seduto com'era; i compagni si alzarono e mi fecero cenno di lasciarlo stare. Uscii insieme con loro. Per ordine di Chlopùša una sentinella mi condusse alla cancelleria, dove trovai anche Savél'iè, e dove mi lasciarono insieme con lui, sbarrati dentro. Il mio precettore era così sbalordito alla vista di quanto succedeva che non mi fece nessuna domanda. Si coricò al buio e sospirò e gemette a lungo; alla fine si mise a russare ed io mi lasciai andare a riflessioni che non mi consentirono di prender sonno neanche per un istante. La mattina mi vennero a chiamare da parte di Pugaèëv.

Andai da lui. Davanti alla sua porta c'era un carro coperto, trainato da tre cavalli tartari. La gente si accalcava sulla strada.

Nell'ingresso incontrai Pugaèëv: era vestito da viaggio, in pelliccia e berretto kirgizo. I commensali della sera prima lo circondavano, assumendo un atteggiamento servile che contrastava fortemente con tutto quello di cui ero stato testimone il giorno avanti. Pugaèëv mi salutò allegramente e mi ordinò di montare sul carro insieme con lui.

Prendemmo posto. «Alla fortezza Belogórskaja!», disse Pugaèëv al tartaro dalle spalle larghe che guidava la trojka in piedi. Il mio cuore prese a battere forte. I cavalli si mossero, il campanello tintinnò, il carro volò via di corsa...

«Ferma! Ferma!», echeggiò una voce che conoscevo fin troppo bene, e vidi Savél'iè che ci correva incontro. Pugaèëv fece fermare. « Bàtjuška, Pëtr Andréiè!», gridava il precettore. «Non mi abbandonare in vecchiaia in mezzo a questi masc...».

«Ah, vecchio barbogio!», gli disse Pugaèëv. «Dio ci ha fatto incontrare un'altra volta. Avanti, siediti a cassetta».

«Grazie, sovrano, grazie, buon padre!», diceva Savél'iè, mettendosi a sedere. «Che Dio ti conceda cent'anni di salute per aver raccolto e dato pace a me, che son vecchio. Tutta la vita pregherò Dio per te, e non parlerò più del pellicciotto di lepre».

Quel pellicciotto di lepre poteva finire per irritare sul serio Pugaèëv. Per fortuna l'impostore o non sentì, o non fece caso all'allusione fuori posto. I cavalli partirono al galoppo; la gente per strada si fermava e s'inchinava fino alla cintola.

Pugaèëv faceva cenni col capo a destra e a sinistra. Di lì a un minuto uscimmo dal sobborgo e filammo su una strada piatta.

È facile immaginarsi che cosa provassi in quel momento. Nel giro di qualche ora avrei rivisto colei che ormai consideravo perduta per me. Mi immaginavo il momento del nostro incontro... Pensavo anche all'uomo nelle cui mani si trovava la mia sorte, e che per uno strano concorso di circostanze era misteriosamente legato a me. Ripensavo agli accessi di crudeltà, alle abitudini sanguinarie di colui che si spacciava come il salvatore della mia diletta! Pugaèëv non sapeva che era la figlia del capitano Mirónov; Švàbrin, esasperato, poteva svelargli tutto; Pugaèëv poteva apprendere la verità anche in un altro modo... E allora che ne sarebbe stato di Mar'ja Ivànovna? Un brivido freddo mi attraversò il corpo, mi si drizzarono i capelli...

A un tratto Pugaèëv troncò le mie riflessioni domandandomi: «Che cos'è, vossignoria, che ti rende pensieroso?».

«Come faccio a non essere pensieroso?», gli risposi. «Sono un ufficiale e un nobile; fino a ieri mi battevo contro di te, e oggi viaggio con te sullo stesso carro, e la felicità di tutta la mia vita dipende da te».

«E allora?», domandò Pugaèëv. «Hai paura?».

Risposi che, essendo già stato graziato una volta da lui, speravo non solo nella sua clemenza, ma anche nel suo aiuto.

«E hai ragione, quant'è vero Iddio hai ragione», disse l'impostore. «Hai visto come ti guardavano storto i miei ragazzi; il vecchio insisteva anche oggi a dire che sei una spia, e che bisogna torturarti e impiccarti, ma io non ho ceduto», aggiunse, abbassando la voce affinché Savél'iè e il tartaro non potessero sentirlo, «ricordando il tuo bicchiere di vino e il pellicciotto di lepre. Vedi che non sono ancora un bevitore di sangue, come dicono i vostri di me». Ricordai la presa della fortezza Belogórskaja, ma considerai inopportuno contraddirlo, e non replicai niente.

«Che cosa dicono di me a Orenbùrg?», domandò Pugaèëv, dopo essere stato zitto per un po'.

«Dicono che spuntarla con te è piuttosto difficile; non c'è che dire: ti sei fatto conoscere».

Il viso dell'impostore raffigurò l'amor proprio soddisfatto. «Sì!», disse con aria allegra. «Faccio la guerra come si deve. Lo sanno da voi a Orenbùrg della battaglia di Juzéeva? Quaranta generali uccisi, quattro armate fatte prigioniere. Che ne pensi: il re di Prussia potrebbe competere con me?».

La presunzione del brigante mi parve divertente.

«E tu che ne pensi?», gli dissi, «te la caveresti con Federico?».

«Con Fëdor Fëdoroviè? Come no! Coi vostri generali me la cavo, e loro l'hanno battuto. Finora le mie armi sono state fortunate. Dammi tempo, e vedrai come marcerò su Mosca».

«Pensi di marciare su Mosca?».

L'usurpatore restò un po' sovrappensiero e disse a mezza voce: «Lo sa Dio. La mia strada è stretta; libertà ne ho poca.

I miei ragazzi fanno i furbi. Sono dei ladri. Devo tenere l'orecchio teso: alla prima avversità riscatterebbero il loro collo con la mia testa».

«Lo vedi!», dissi a Pugaèëv. «Non faresti meglio a staccarti da loro per tempo, ricorrendo alla clemenza dell'imperatrice?».

Pugaèëv ridacchiò con amarezza. «No», rispose; «è tardi perché io mi penta. Per me non ci sarà grazia. Continuerò come ho iniziato. Chissà? Magari riuscirò! Griška Otrép'ev ce l'ha fatta a regnare su Mosca».

«Ma lo sai com'è andato a finire? L'hanno buttato dalla finestra, sgozzato, bruciato, con le sue ceneri hanno caricato il cannone e sparato!».

«Ascolta», disse Pugaèëv con una specie di selvaggia ispirazione. «Ti racconterò una fiaba che mi raccontava da piccolo una vecchia calmucca. Un giorno l'aquila domandò al corvo: "Dimmi, uccello-corvo, come mai tu vivi al mondo trecent'anni, e io in tutto solo trentatré?". "Perché, bàtjuška", le rispose il corvo, "tu bevi il sangue vivo, mentre io mi cibo di carogne". L'aquila pensò: allora proviamo anche noi a nutrirci così. Bene. Volarono insieme aquila e corvo. Ecco che videro un cavallo morto; scesero e gli si posarono sopra. Il corvo cominciò a beccare e a lodare il cibo. L'aquila beccò una volta, beccò una seconda, sbatté un'ala e disse al corvo: "No, fratello corvo, piuttosto che nutrirsi trecent'anni di carogne, meglio saziarsi una volta di sangue vivo, e poi sia quel che Dio vorrà!". Che te ne pare della fiaba calmucca?».

«Arguta», gli risposi. «Ma vivere d'assassinio e saccheggio per me significa beccare le carogne».

Pugaèëv mi guardò meravigliato e non rispose niente. Tacemmo entrambi, immergendoci ognuno nei propri pensieri.

Il tartaro intonò una mesta canzone; Savél'iè, sonnecchiando, dondolava a cassetta. Il carro volava sulla piatta strada invernale... All'improvviso scorsi il piccolo villaggio sulla riva scoscesa dello Jaìk, con la palizzata e il campanile - e un quarto d'ora dopo facemmo ingresso nella fortezza Belogórskaja.

XII • L'ORFANA

Come il nostro melino

Non ha cime né gemme,

La nostra principessina

Non ha babbo né mamma.

Nessuno a vestirla,

Nessuno a benedirla.

Canzone nuziale

Il carro si accostò alla scalinata della casa del comandante. La gente aveva riconosciuto la sonagliera di Pugaèëv e correndo si accalcava dietro di noi. Švàbrin accolse l'impostore sulla gradinata. Era vestito da cosacco e si era lasciato crescere la barba. Il traditore aiutò Pugaèëv a scendere dal carro, manifestando con vili espressioni la propria gioia e devozione.

Vedendomi si confuse, ma si riprese prontamente e mi tese la mano dicendo: «Anche tu dei nostri? È un pezzo che avresti dovuto!». Io gli volsi le spalle e non risposi nulla.

Ebbi una stretta al cuore quando ci ritrovammo nella stanza che conoscevo da tanto tempo, dove era rimasto attaccato al muro il diploma del defunto comandante, come un doloroso epitaffio ai tempi passati. Pugaèëv sedette sullo stesso divano sul quale, a volte, sonnecchiava Ivàn Kuzmìè, addormentato dal brontolio della consorte. Švàbrin stesso gli portò della vodka.

Pugaèëv ne bevve un bicchierino e gli disse, indicandomi a lui: «Offrine anche a sua signoria». Švàbrin mi si accostò col vassoio, ma io gli voltai le spalle per la seconda volta. Sembrava a disagio. Con la sua solita perspicacia aveva certamente intuito che Pugaèëv era scontento di lui. Al suo cospetto era spaventato, ma guardava me con diffidenza. Pugaèëv s'informò delle condizioni della fortezza, delle voci che circolavano sulle truppe nemiche e via dicendo, e a un tratto gli domandò a bruciapelo: «Dimmi, amico, che fanciulla tieni agli arresti in casa tua? Mostramela un po'».

Švàbrin si fece pallido come un morto. «Sire», disse con voce tremante... «Sire, non è agli arresti... è malata... è a letto in camera sua».

«Allora conducimi da lei», disse l'impostore, alzandosi. Tirarsi indietro era impossibile. Švàbrin accompagnò Pugaèëv nella stanza di Mar'ja Ivànovna. Io li seguii.

Švàbrin si fermò sulla scala. «Sire!», disse. «Voi avete il potere di esigere da me quello che volete, ma non fate entrare un estraneo nella stanza da letto di mia moglie».

Io fremetti. «Dunque sei sposato!», dissi a Švàbrin, pronto a farlo a pezzi.

«Zitto!», m'interruppe Pugaèëv. «Questo è affar mio. E tu», continuò, rivolgendosi a Švàbrin, «non fare il furbo e non t'intestardire: che sia o no tua moglie, io porto da lei chi voglio. Seguimi, vossignoria».

Davanti alla porta della stanza Švàbrin si arrestò di nuovo e disse con voce rotta: «Sire, vi avverto che ha la febbre alta, è già il terzo giorno che delira incessantemente».

«Apri!», disse Pugaèëv.

Švàbrin cominciò a frugarsi nelle tasche e disse che non aveva preso con sé la chiave. Pugaèev diede un calcio alla porta; la serratura saltò; la porta si aprì, e noi entrammo.

Diedi un'occhiata e mi sentii gelare il cuore. In terra, con un vestito a brandelli da contadina, sedeva Mar'ja Ivànovna, pallida, magra, scapigliata. Davanti aveva una brocca d'acqua, coperta da una fetta di pane. Vedendomi, trasalì e lanciò un grido. Quello che allora mi successe non lo ricordo.

Pugaèëv guardò Švàbrin e gli disse con un sogghigno amaro: «Niente male il tuo lazzaretto!». Poi, avvicinandosi a Mar'ja Ivànovna: «Dimmi, colombella, perché tuo marito ti punisce? Di che cosa ti sei macchiata di fronte a lui?».

«Mio marito!», ripeté lei. «Lui non è mio marito. Io non sarò mai sua moglie! Ho deciso piuttosto di morire, e morrò, se non mi salveranno».

Pugaèëv lanciò a Švàbrin uno sguardo minaccioso: «E tu hai osato ingannarmi!», gli disse. «Lo sai, canaglia, che cosa ti meriti?».

Švàbrin cadde in ginocchio... In quel momento il disprezzo soffocò in me tutti i sentimenti d'odio e di collera.

Guardavo con ripugnanza il nobile che strisciava implorante ai piedi di un cosacco fuggiasco. Pugaèëv si raddolcì. «Per questa volta ti grazio», disse a Švàbrin, «ma sappi che alla prima colpa ti sarà ricordata anche questa». Poi si volse verso Mar'ja Ivànovna e le disse affettuosamente: «Esci, bella fanciulla; ti concedo la libertà. Io sono il sovrano».

Mar'ja Ivànovna gli lanciò una rapida occhiata e intuì di aver davanti l'assassino dei suoi genitori. Si serrò il viso con tutt'e due le mani e cadde priva di sensi. Mi slanciai verso di lei, ma in quel momento s'insinuò molto audacemente nella stanza la mia vecchia conoscente Palàška, e cominciò a prendersi cura della sua signorina. Pugaèëv uscì dalla stanza, e noi tre scendemmo in salotto.

«Allora, vossignoria?», disse ridendo Pugaèëv. «Abbiamo messo in salvo la bella vergine! Che ne pensi, non sarebbe il caso di mandare a chiamare il prete e di fargli celebrare le nozze della nipote? Io magari farò da compare, Švàbrin da cavaliere d'onore; faremo baldoria, berremo, e serreremo la porta!».

Accadde quello che temevo. Švàbrin, sentendo la proposta di Pugaèëv, andò fuori di sé. «Sire!», gridò preso da frenesia. «Sono colpevole, vi ho mentito; ma anche Grinëv v'inganna. Questa ragazza non è la nipote del prete di qui: è la figlia di Ivàn Mirónov, che è stato giustiziato durante la presa di questa fortezza».

Pugaèëv mi puntò addosso i suoi occhi infuocati. «Come sarebbe?», mi chiese interdetto.

«Švàbrin ti ha detto il vero», risposi con fermezza.

«Tu questo non me l'avevi detto», osservò Pugaèëv, il cui viso s'era adombrato.

«Giudica tu stesso», gli risposi, «se era possibile dichiarare davanti ai tuoi uomini che la figlia di Mirónov è viva.

L'avrebbero sbranata. Niente l'avrebbe salvata!».

«Anche questo è vero», disse ridendo Pugaèëv. «I miei ubriaconi non avrebbero risparmiato la povera fanciulla. Ha fatto bene la comare moglie del prete a ingannarli».

«Ascolta», continuai, vedendo che era ben disposto. «Come chiamarti non lo so, né voglio saperlo... Ma Dio mi è testimone che ti ripagherei volentieri con la vita per quello che hai fatto per me. Solo non chiedermi quello che è contrario al mio onore e alla mia coscienza cristiana. Tu sei il mio benefattore. Porta a termine quanto hai iniziato: lasciami andare con la povera orfana dove Dio ci condurrà. E noi, dovunque tu sia e qualunque cosa ti succeda, ogni giorno pregheremo il Signore per la salvezza dell'anima tua peccatrice...».

Sembrava che l'anima brutale di Pugaèëv fosse commossa. «Sia pure come tu dici!», disse. «Se si deve giustiziare si giustizi, se si deve graziare si grazi: questa è la mia abitudine. Prenditi la tua bella, portala dove vuoi e che Dio vi conceda amore e giudizio!».

A questo punto egli si rivolse a Švàbrin e gli ordinò di consegnarmi un lasciapassare per tutte le barriere e le fortezze in suo dominio. Švàbrin, completamente annichilito, stava lì come impalato. Pugaèëv andò a ispezionare la fortezza. Švàbrin lo accompagnò, io invece restai con la scusa che dovevo prepararmi alla partenza.

Corsi nella stanza di sopra. La porta era chiusa. Bussai. «Chi è?», chiese Palàška. Dissi il mio nome. La cara vocina di Mar'ja Ivànovna risuonò da dietro la porta. «Aspettate un momento, Pëtr Andréiè. Mi sto cambiando. Andate da Akulìna Pamfìlovna: vi raggiungerò immediatamente».

Obbedii e andai a casa di padre Geràsim. Tanto lui che la moglie uscirono per corrermi incontro. Savél'iè li aveva già avvisati. «Buon giorno, Pëtr Andréiè», disse la moglie del pope. «Dio ci ha concesso di rincontrarci. Come state? Vi ricordavamo ogni giorno. E Mar'ja Ivànovna quante ne ha patite in vostra assenza, colombella mia!... Ma dite, caro Pëtr Andréiè, come siete riuscito a intendervela con Pugaèëv? Com'è che non vi ha fatto fuori? Bene, grazie allo scellerato almeno di questo». «Basta, vecchia», la interruppe padre Geràsim. «Non spifferare tutto quello che sai. Non c'è salvezza eterna nelle molte parole. Bàtjuška Pëtr Andréiè! Entrate, siate il benvenuto. Da quanto, da quanto tempo non ci vedevamo».

La moglie del pope cominciò a offrirmi quel che le aveva mandato Iddio. E intanto non la smetteva di parlare. Mi raccontò in che modo Švàbrin li avesse costretti a consegnargli Mar'ja Ivànovna; come Mar'ja Ivànovna piangesse e non volesse separarsi da loro; come Mar'ja Ivànovna fosse sempre rimasta in contatto con lei attraverso Palàška (una ragazza in gamba, che faceva rigare dritto anche il sottufficiale); come ella avesse consigliato a Mar'ja Ivànovna di scrivermi la lettera, e via dicendo. Io a mia volta le raccontai brevemente la mia storia. Il pope e la moglie si fecero il segno della croce sentendo che Pugaèëv era al corrente del loro inganno. «Dio ci guardi!», diceva Akulìna Pamfìlovna. «Che Dio scacci via la nuvola. Ma bravo, Alekséj Ivànyè; non c'è che dire: un bel mascalzone!». In quell'attimo stesso la porta si aprì, e Mar'ja Ivànovna entrò con un sorriso sul volto pallido. Aveva abbandonato il suo costume da contadina ed era vestita come prima, in modo semplice e aggraziato.

Le afferrai la mano e a lungo non potei articolare parola. Tacevamo entrambi col cuore gonfio. I padroni di casa si resero conto che avevamo altro per la testa e ci lasciarono. Restammo soli. Tutto fu dimenticato. Parlavamo e non riuscivamo a saziarci di parlare. Mar'ja Ivànovna mi raccontò tutto quello che le era capitato dopo la presa della fortezza; mi descrisse tutta l'atrocità della sua situazione, tutte le prove a cui l'aveva sottoposta l'infame Švàbrin. Ricordammo anche i tempi felici di una volta. Piangevamo tutt'e due... Infine cominciai a esporle i miei progetti... Restare nella fortezza che era in dominio di Pugaèëv e comandata da Švàbrin per lei non era possibile. Non c'era da pensare neanche a Orenbùrg, sottoposta a tutte le sciagure di un assedio. Lei non aveva al mondo neppure un parente. Le proposi di recarsi in campagna dai miei genitori. Al principio esitò: l'indisponibilità a lei nota di mio padre nei suoi riguardi la spaventava. Io la rassicurai. Sapevo che mio padre avrebbe considerato una fortuna e si sarebbe fatto un dovere di ospitare la figlia di un valoroso soldato, caduto per la patria. «Cara Mar'ja Ivànovna!», dissi infine. «Io ti considero mia moglie. Assurde circostanze ci hanno unito indissolubilmente: niente al mondo ci può separare». Mar'ja Ivànovna mi ascoltò semplicemente, senza falso imbarazzo, senza obiezioni affettate. Sentiva che il suo destino era unito al mio. Ma ripeté che non sarebbe stata mia moglie senza il consenso dei miei genitori. E io non la contraddissi. Ci baciammo appassionatamente, sinceramente - e in tal modo fra noi tutto fu deciso.

Un'ora dopo il sottufficiale mi portò il lasciapassare, firmato dagli scarabocchi di Pugaèëv, e mi invitò da parte sua a recarmi da lui. Lo trovai pronto a mettersi in viaggio. Non posso esprimere quello che sentivo nel separarmi da quest'uomo terribile, mostro, malfattore per tutti tranne che per me. Perché non dire la verità? In quel momento mi sentivo attratto a lui da una forte simpatia. Ardevo dal desiderio di strapparlo dall'ambiente dei banditi che capeggiava, e di salvargli la testa, finché c'era ancora tempo. Švàbrin e il popolo che si affollava attorno a noi m'impedirono di esprimere tutto quello di cui avevo il cuore colmo.

Ci separammo da amici. Pugaèëv, scorgendo nella folla Akulìna Pamfìlovna, la minacciò col dito e strizzò un occhio in modo eloquente; poi salì sul carro coperto, diede ordine di andare a Berdà, e quando i cavalli si mossero si sporse ancora una volta dal carro e mi gridò: «Addio, vossignoria! Magari un giorno ci rivedremo». Effettivamente ci rivedemmo, ma in quali circostanze!...

Pugaèëv partì. Guardai a lungo la bianca steppa sulla quale correva a precipizio la sua trojka. La gente si disperse.

Švàbrin scomparve. Io tornai alla casa del pope. Tutto era pronto per la nostra partenza; non volevo indugiare ancora. I nostri averi furono tutti caricati sulla vecchia carretta del comandante. I vetturini attaccarono in un attimo i cavalli. Mar'ja Ivànovna andò a congedarsi dalle tombe dei genitori, sepolti dietro la chiesa. Avrei voluto accompagnarla, ma lei mi pregò di lasciarla sola. Dopo qualche minuto ritornò, versando quiete lacrime in silenzio. La carretta fu fatta avanzare. Padre Geràsim e sua moglie uscirono sulla scalinata. Sul carro coperto salimmo in tre: Mar'ja Ivànovna con Palàška ed io. Savél'iè si arrampicò a cassetta. «Addio, Mar'ja Ivànovna, colombella mia! Addio, Pëtr Andréiè, chiaro falchetto nostro!», diceva la buona moglie del prete. «Buon viaggio, e che Dio conceda felicità a tutti e due!». Partimmo. Alla finestra della casa del comandante vidi Švàbrin in piedi. Il suo viso esprimeva una rabbia tetra. Io non volevo trionfare sul nemico sconfitto, e volsi gli occhi da un'altra parte.

Finalmente uscimmo dalla porta delle mura e lasciammo per sempre la fortezza Belogórskaja.

XIII • L'ARRESTO

«Non adiratevi, signore: il mio dover m'impone

D'accompagnarvi subito in prigione».

«Prego, sono pronto: ma confido

Che mi lasciate prima spiegare tal disguido».

Knjažnìn

Riunito in modo così inatteso alla fanciulla che amavo, per la quale ancora al mattino ero così tormentosamente preoccupato, non credevo a me stesso e immaginavo che tutto quanto mi era accaduto non fosse che una vuota visione di sogno. Mar'ja Ivànovna guardava pensosa ora me, ora la strada, e sembrava che non fosse ancora riuscita a riaversi né a tornare in sé. Tacevamo. I nostri cuori erano troppo provati. Inavvertitamente dopo un paio d'ore ci ritrovammo nella fortezza più vicina, anch'essa in potere di Pugaèëv. Qui cambiammo i cavalli. Dalla velocità con cui li attaccavano, dalla precipitosa sollecitudine del cosacco barbuto, nominato comandante da Pugaèëv, vidi che, grazie alla chiacchiera del vetturino che ci aveva portati, mi prendevano per un favorito di corte.

Procedemmo oltre. Scese il crepuscolo. Ci avvicinammo a una cittadina dove, stando alle parole del barbuto comandante, si trovava un forte distaccamento, che andava a unirsi all'usurpatore. Fummo fermati dalle sentinelle. Alla domanda: chi va là - il vetturino rispose a voce alta: «Il compare del sovrano con la sua padroncina». Di colpo una folla di ussari ci circondò con terribili imprecazioni. «Esci fuori, compare del diavolo!», mi disse un baffuto maresciallo. «Avrai una bella lavata di testa, tu e la tua padroncina!».

Scesi dal carro e chiesi di essere condotto dal loro capo. Vedendo un ufficiale, i soldati smisero d'insultarmi. Il maresciallo mi condusse dal maggiore. Savél'iè mi veniva appresso borbottando di tanto in tanto fra sé: «Eccoti il compare del sovrano! Dalla padella alla brace... Signore onnipotente! Come andrà a finire?». Il carro ci seguiva al passo.

Nel giro di cinque minuti arrivammo a una casetta, fortemente illuminata. Il maresciallo mi lasciò sotto sorveglianza e andò ad annunciarmi. Tornò subito, dichiarandomi che sua eccellenza non aveva tempo di ricevermi, e che ordinava di mettere me in prigione, e di condurre da lui la padroncina.

«Come sarebbe a dire?», gridai infuriato. «È diventato pazzo?».

«Non posso saperlo, vossignoria», rispose il maresciallo. «So solo che sua signoria illustrissima ha ordinato di condurre vossignoria in prigione, e di accompagnare la signora da sua signoria illustrissima, vossignoria!».

Mi precipitai su per la scalinata. Le sentinelle non pensarono a trattenermi, ed io entrai di corsa nella stanza dove cinque o sei ufficiali ussari giocavano d'azzardo. Il maggiore teneva il banco. Quale non fu la mia sorpresa quando, guardandolo, riconobbi Ivàn Ivànoviè Zùrin, che un giorno mi aveva vinto al biliardo nella locanda di Simbìrsk!

«Possibile?», gridai. «Ivàn Ivànyè! Tu?».

«To', to', to', Pëtr Andréiè! Qual buon vento? Da dove vieni? Salve, amico. Non vuoi puntare una carta?».

«Ti ringrazio. Fammi piuttosto assegnare un alloggio».

«Ma quale alloggio? Resta da me».

«Non posso: non sono solo».

«Be', porta qui anche il compagno».

«Non sono con un compagno; sono... con una signora».

«Con una signora! E dove l'hai pescata? Ehe, amico!». (Così dicendo Zùrin fischiò in modo tanto eloquente che tutti sghignazzarono, ed io mi smarrii completamente).

«Be'», continuò Zùrin, «sia pure. Avrai un alloggio. Ma è un peccato... Avremmo fatto baldoria come ai vecchi tempi... Ehi! ragazzo! Com'è che non portano qui la comarella di Pugaèëv? O fa la testarda? Dille che non abbia paura: che il signore è splendido; non le farà alcun male, e dalle uno spintone come si deve».

«Ma che cosa dici?», dissi a Zùrin. «Quale comare di Pugaèëv? È la figlia del defunto capitano Mirónov. L'ho liberata dalla prigionia e ora l'accompagno nella proprietà di mio padre, dove la lascerò».

«Come! Allora sei tu quello che mi stavano annunciando adesso? Scusa! Ma come sarebbe a dire?».

«Poi ti racconterò tutto. Ma adesso, per amor di Dio, rassicura quella povera fanciulla che i tuoi ussari hanno impaurito».

Zùrin diede subito disposizioni. Uscì lui stesso in strada a scusarsi davanti a Mar'ja Ivànovna dell'equivoco involontario e comandò al maresciallo di assegnarle il miglior alloggio della città. Io restai a dormire da lui.

Cenammo, e quando restammo noi due soli gli raccontai le mie avventure. Zùrin mi ascoltava con grande attenzione.

Quando ebbi finito scosse la testa e disse: «Tutto questo, amico, va bene; solo una cosa non va: chi diavolo te lo fa fare di sposarti? Io, ufficiale onesto, non ti voglio ingannare: credimi, il matrimonio è una follia. Di', ti vedi a star dietro a tua moglie e a far da balia ai ragazzini? Ma lascia perdere. Da' retta a me: rompi i legami con la figlia del capitano. La strada per Simbìrsk l'ho sgomberata io, ed è sicura. Mandala domani sola dai tuoi genitori, e tu resta nel mio distaccamento. Non hai interesse di tornare a Orenbùrg. Se ricadrai nelle mani dei rivoltosi difficilmente te la caverai un'altra volta. Così la vertigine amorosa passerà da sé, e tutto andrà per il meglio».

Anche se non ero del tutto d'accordo con lui, sentivo comunque che un debito d'onore richiedeva la mia presenza nell'esercito dell'imperatrice. Decisi di seguire il consiglio di Zùrin: mandare Mar'ja Ivànovna in campagna e rimanere nel suo reparto.

Savél'iè si presentò per spogliarmi; io gli annunciai che doveva prepararsi a mettersi in viaggio il giorno dopo con Mar'ja Ivànovna. Cominciò a intestardirsi. «Ma che dici, signore? Come faccio a lasciarti? Chi ti starà appresso? Che diranno i tuoi genitori?».

Conoscendo la caparbietà del mio precettore, mi proposi di persuaderlo con la dolcezza e la sincerità. «Amico mio, Archìp Savél'iè!», gli dissi. «Non ti rifiutare, sii il mio benefattore; qui non avrò bisogno di un domestico, e non sarò tranquillo se Mar'ja Ivànovna si metterà in viaggio senza di te. Servendo lei tu servi anche me, perché ho deciso fermamente, non appena le circostanze lo consentiranno, di sposarla».

A questo punto Savél'iè batté le mani con un'aria di indescrivibile sorpresa. «Sposarla!», ripeté. «Il bambino vuole sposarsi! e che ne dirà il babbo, e la mamma cosa ne penserà?».

«Acconsentiranno, vedrai che acconsentiranno», risposi, «quando avranno conosciuto Mar'ja Ivànovna. Confido anche su di te. Il babbo e la mamma ti credono: tu ci farai da intermediario, non è vero?».

Il vecchio era commosso. «Oh, bàtjuška mio Pëtr Andréiè!», rispose. «Anche se hai pensato di sposarti un po'

prestino, Mar'ja Ivànovna è una signorina così buona che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire l'occasione. E sia come vuoi tu!

L'accompagnerò, quell'angelo di Dio, e riferirò servilmente ai tuoi genitori che una fidanzata del genere non ha bisogno neanche della dote».

Ringraziai Savél'iè e andai a dormire nella stessa stanza di Zùrin. Accalorato ed emozionato com'ero, mi persi in chiacchiere. Zùrin all'inizio chiacchierava con me volentieri, ma a poco a poco le sue parole si fecero più rare e slegate; alla fine, invece di rispondere a non so che domanda, si mise a russare fischiando. Io tacqui e presto seguii il suo esempio.

La mattina dopo andai da Mar'ja Ivànovna. Le comunicai i miei progetti. Li trovò ragionevoli e si trovò subito d'accordo con me. Il reparto di Zùrin doveva lasciare la città quel giorno stesso. Non c'era da perder tempo. Mi separai da Mar'ja Ivànovna, dopo averla affidata a Savél'iè e aver consegnato a lei una lettera per i miei genitori. Mar'ja Ivànovna scoppiò a piangere. «Addio, Pëtr Andréiè!», disse a bassa voce. «Se ci sarà dato o no rivederci, lo sa solo Iddio, ma non vi dimenticherò mai; fino alla tomba tu solo resterai nel mio cuore». Non potei rispondere nulla. Avevamo gente attorno. Non volevo abbandonarmi in loro presenza a dar sfogo alle mie preoccupazioni. Infine ella partì. Io tornai da Zùrin mesto e silenzioso. Voleva rendermi allegro; io pensavo a distrarmi: trascorremmo la giornata in modo chiassoso e scatenato, e la sera ci mettemmo in marcia.

Era la fine di febbraio. L'inverno, che aveva complicato le operazioni militari, stava per finire, e i nostri generali si preparavano ad agire in collaborazione. Pugaèëv continuava il suo assedio sotto le mura di Orenbùrg. Nel frattempo, intorno a lui, i reparti si riunivano e si avvicinavano da ogni parte al covo dei malfattori. I villaggi ribelli, alla vista delle nostre truppe, si sottomettevano; dappertutto bande di briganti fuggivano davanti a noi, e tutto lasciava presumere una rapida e felice conclusione.

Presto il principe Golìcyn, sotto le mura della fortezza Tatìšèeva, batté Pugaèëv, disperse le sue turbe, liberò Orenbùrg e sembrava avesse inferto alla rivolta l'ultimo colpo decisivo. Zùrin fu inviato in quel periodo contro una banda di baschiri ribelli, che si dispersero prima che li avessimo avvistati. La primavera ci assediò in un villaggetto tartaro. I fiumicelli strariparono, e le strade si fecero impraticabili. Nella nostra inattività ci consolavamo al pensiero che questa noiosa e meschina guerra contro i briganti e i selvaggi presto sarebbe finita.

Ma Pugaèëv non era stato catturato. Apparve nelle fabbriche siberiane, vi raccolse nuove bande e riprese a commettere misfatti. Si sparsero di nuovo notizie sui suoi successi. Venimmo a sapere della devastazione delle fortezze siberiane. Presto la notizia della presa di Kazàn' e della marcia dell'impostore su Mosca mise in allarme i comandanti dell'esercito, che sonnecchiavano incuranti confidando nell'impotenza dell'infame ribelle. Zùrin ricevette l'ordine di oltrepassare il Volga.

Non starò a descrivere la nostra campagna e la fine della guerra. Dirò brevemente che la miseria era pervenuta agli estremi. Passavamo attraverso villaggi devastati dai rivoltosi, ed eravamo costretti a sequestrare ai poveri abitanti quello che erano riusciti a salvare. L'amministrazione non c'era più da nessuna parte: i proprietari cercavano rifugio nei boschi. Le bande dei briganti commettevano crimini ovunque; i capi dei singoli distaccamenti punivano e graziavano a loro piacimento; le condizioni di tutta la vasta regione in cui infuriava l'incendio erano terribili... Dio ci risparmi di vedere una rivolta russa, irragionevole e spietata!

Pugaèëv fuggiva, inseguito da Ivàn Ivànoviè Mìchel'son. Presto venimmo a sapere della sua totale sconfitta.

Finalmente Zùrin ricevette la notizia della cattura dell'impostore, e allo stesso tempo anche l'ordine di fermarsi. La guerra era finita. Finalmente potevo andare dai miei genitori! Il pensiero di riabbracciarli, di rivedere Mar'ja Ivànovna, della quale non avevo nessuna notizia, mi animava d'entusiasmo. Saltavo come un bambino. Zùrin rideva e diceva, stringendosi nelle spalle:

«No, con te non c'è niente da fare! ti sposerai e ti rovinerai scioccamente!».

Ma intanto uno strano sentimento avvelenava la mia gioia: il pensiero del bandito, schizzato dal sangue di tante vittime innocenti, e dell'esecuzione che lo aspettava, senza volere mi tormentava: «Emeljà, Emeljà!», pensavo indispettito;

«perché non ti sei infilzato su una baionetta o non sei capitato sotto la mitraglia? Tu non avresti potuto trovare niente di meglio». Che volete farci? Il pensiero di lui era per me inscindibilmente legato al pensiero della grazia che mi aveva concesso in uno dei momenti tremendi della sua vita, e della liberazione della mia fidanzata dalle mani dell'infame Švàbrin.

Zùrin mi diede una licenza. Qualche giorno dopo avrei dovuto ritrovarmi in mezzo alla mia famiglia, avrei rivisto la mia Mar'ja Ivànovna... A un tratto fui colpito da un fulmine a ciel sereno.

Il giorno fissato per la mia partenza, nello stesso istante in cui mi accingevo a mettermi in viaggio, Zùrin entrò nella mia izba tenendo in mano un foglio, con un'aria estremamente preoccupata. Sentii qualcosa pungermi il cuore. Mi spaventai, senza sapere io stesso di che cosa. Egli mandò fuori il mio attendente e dichiarò che aveva da parlarmi. «Che c'è?», domandai preoccupato. «Una piccola contrarietà», rispose, porgendomi il foglio. «Leggi che cosa ho ricevuto proprio adesso». Mi misi a leggere: era un ordine segreto a tutti i singoli comandanti di arrestarmi, in qualsiasi luogo mi si trovasse, e di mandarmi sotto sorveglianza a Kazàn', davanti alla commissione inquirente istituita per l'affare Pugaèëv.

Mancò poco che il foglio mi cadesse dalle mani. «Non c'è niente da fare!», disse Zùrin. «Il mio dovere è di obbedire al comando. Probabilmente la voce dei tuoi viaggi amichevoli con Pugaèëv è arrivata in qualche modo al governo. Spero che la cosa non avrà alcun seguito e che ti giustificherai davanti alla commissione. Non ti scoraggiare e parti». Avevo la coscienza pulita; non temevo il processo, ma l'idea di rimandare l'istante del dolce incontro, magari di qualche mese in più, mi terrorizzava. Il carretto era pronto. Zùrin mi salutò amichevolmente. Mi fecero prendere posto sul carro. Insieme con me montarono due ussari dalle sciabole sguainate, e mi avviai lungo la strada maestra.

XIV • IL PROCESSO

Il rumore del mondo è un'onda del mare.

Proverbio

Ero certo che la colpa di tutto fosse nella mia arbitraria assenza da Orenbùrg. Potevo giustificarmi facilmente: le incursioni non solo non erano mai state proibite, ma anzi venivano incoraggiate a tutta forza. Potevo essere accusato di eccessiva foga, non di disobbedienza. Ma i miei rapporti amichevoli con Pugaèëv potevano essere attestati da un'infinità di testimoni e dovevano sembrare alquanto sospetti. Per tutta la strada riflettei sugli interrogatori che mi aspettavano, meditai le mie risposte e decisi di dichiarare davanti alla corte tutta la verità, ritenendo che questo fosse il modo più semplice di giustificarsi, e allo stesso tempo anche il più sicuro.

Arrivai a Kazàn', devastata e incendiata. Per le strade, al posto delle case, giacevano mucchi di carbone e affioravano muri affumicati senza tetti né finestre. Queste erano le tracce lasciate da Pugaèëv! Fui condotto alla fortezza, rimasta intatta in mezzo alla città incendiata. Gli ussari mi consegnarono all'ufficiale di guardia. Egli fece chiamare il fabbro. Mi misero ai piedi una catena e la serrarono ermeticamente. Poi mi condussero in prigione e mi lasciarono solo in una cella stretta e buia, con le pareti nude e una finestrella protetta da un'inferriata.

Un simile esordio non lasciava presagire niente di buono. Tuttavia non perdevo né il coraggio né la speranza. Ricorsi al conforto di tutti gli afflitti e, dopo aver assaporato la dolcezza della preghiera, che si effondeva da un cuore puro ma tormentato, mi addormentai placidamente senza preoccuparmi di quanto mi sarebbe accaduto.

Il giorno dopo il guardiano del carcere mi svegliò annunciandomi che ero richiesto dalla commissione. Due soldati mi condussero attraverso il cortile nella casa del comandante, si arrestarono in anticamera e mi lasciarono accedere da solo nelle stanze interne.

Entrai in una sala piuttosto spaziosa. Dietro un tavolo coperto di fogli erano sedute due persone: un generale d'una certa età, dall'aspetto freddo e austero, e un giovane capitano della guardia, sui ventotto anni, d'aspetto molto gradevole, destro e disinvolto nei modi. Presso la finestra, a un tavolo separato, sedeva il segretario con la penna dietro l'orecchio, curvo sulla carta, pronto ad annotare le mie dichiarazioni. L'interrogatorio ebbe inizio. Mi chiesero il nome e il grado. Il generale s'informò: non ero per caso il figlio di Andréj Petróviè Grinëv? E alla mia risposta replicò duramente: «Peccato che un uomo così onorevole abbia un figlio tanto indegno!». Io risposi con calma che qualsiasi fossero le accuse che gravavano su di me, speravo di confutarle con una sincera esposizione della verità. La mia sicurezza non gli fu gradita. «Sei sveglio, amico», mi disse, aggrottando le sopracciglia; «ma ne abbiamo visti ben altri!».

Allora il giovane mi domandò: in quale occasione e in quale periodo ero entrato al servizio di Pugaèëv, e per quali incarichi ero stato utilizzato?

Risposi indignato che io, come ufficiale e nobile, non potevo essere entrato al servizio di Pugaèëv, e non potevo aver accettato da lui nessun incarico.

«Come mai allora», replicò il mio interrogatore, «questo nobile e ufficiale è il solo ad essere stato risparmiato dall'impostore, mentre tutti i suoi compagni sono stati brutalmente assassinati? Come mai questo stesso ufficiale e nobile banchetta amichevolmente coi rivoltosi, riceve dal capo dei malfattori regali, una pelliccia, un cavallo e mezzo rublo in denaro? Com'è nata un'amicizia così strana e su che cosa è fondata, se non sul tradimento o almeno su un'infame e delittuosa viltà?».

Restai profondamente offeso dalle parole dell'ufficiale della guardia, e mi accalorai a giustificarmi. Raccontai come aveva avuto inizio la mia conoscenza con Pugaèëv nella steppa, durante la tempesta di neve; come al tempo della presa della fortezza Belogórskaja lui mi avesse riconosciuto e graziato. Dissi che il pellicciotto e il cavallo, è vero, non mi ero fatto scrupolo di accettarli dall'impostore, ma che avevo difeso fino all'estremo la fortezza Belogórskaja contro il malfattore. Infine mi appellai anche al mio generale, che poteva testimoniare il mio impegno durante lo sciagurato assedio di Orenbùrg.

Il vecchio arcigno prese dal tavolo una lettera aperta e si mise a leggerla ad alta voce:

«Alla richiesta d'informazioni da parte di vostra eccellenza riguardo al tenente Grinëv, che sarebbe implicato nell'attuale insurrezione e che sarebbe entrato col malfattore in rapporti non consentiti dal regolamento e contrari ai doveri imposti dal giuramento, ho l'onore di dichiarare: il detto tenente Grinëv ha prestato servizio a Orenbùrg dall'inizio di ottobre dello scorso anno 1773 fino al 24 febbraio di quest'anno, giorno in cui si allontanò dalla città, e da quel momento non si è più presentato al mio comando. Si sente dire, però, dai disertori, che egli è stato nel sobborgo di Pugaèëv e che si è recato insieme con lui alla fortezza Belogórskaja, dove in precedenza aveva prestato servizio; per quanto riguarda la sua condotta posso...»

A questo punto interruppe la lettura e mi disse austeramente:

«Che cosa dirai adesso a tua discolpa?».

Avrei voluto continuare come avevo cominciato, e spiegare il mio legame con Mar'ja Ivànovna con la stessa sincerità che avevo dimostrato in tutto il resto. Ma a un tratto sentii un'irresistibile ripugnanza. Mi venne in mente che, se l'avessi nominata, la commissione l'avrebbe convocata a rendere spiegazioni, e l'idea di mescolare il suo nome alle turpi calunnie dei malfattori e di far pervenire lei stessa a un confronto con loro - questa terribile idea mi travolse al punto che esitai e mi confusi.

I miei giudici, che sembrava si fossero messi ad ascoltare le mie risposte con una certa benevolenza, alla vista del mio turbamento tornarono ad essermi ostili. L'ufficiale della guardia chiese che fossi messo a confronto col principale delatore. Il generale ordinò di chiamare il malfattore del giorno avanti. Mi voltai con prontezza verso la porta, aspettando la comparsa del mio accusatore. Dopo qualche minuto si udì uno strepitare di catene, la porta si aprì, ed entrò Švàbrin. Fui sbalordito dal suo cambiamento. Era terribilmente magro e pallido. I suoi capelli, poco tempo prima neri come la pece, si erano completamente sbiancati; la lunga barba era arruffata. Ripeté le sue accuse con voce fioca ma ferma. Stando alle sue parole ero stato mandato da Pugaèëv a Orenbùrg in qualità di spia; ogni giorno uscivo per qualche scaramuccia al fine di trasmettere resoconti scritti su tutto quello che succedeva in città; che infine ero passato apertamente dalla parte dell'impostore, e avevo girato di fortezza in fortezza, tentando in tutti i modi di rovinare i miei compagni-traditori, per occupare i loro posti e approfittare delle ricompense elargite dall'impostore. Lo ascoltai in silenzio ed ero contento di una cosa sola: il nome di Mar'ja Ivànovna non era stato pronunciato dall'infame malvivente, o perché il suo amor proprio soffriva al pensiero di colei che l'aveva rifiutato con spregio, o perché in cuor suo si celava una scintilla di quello stesso sentimento che spingeva anche me a tacere, - comunque fosse, il nome della figlia del comandante di Belogórsk non fu pronunciato in presenza della commissione. Divenni ancora più fermo nelle mie intenzioni, e quando i giudici mi chiesero come avrei potuto argomentare contro le deposizioni di Švàbrin, risposi che mi attenevo alla mia prima versione e che non potevo aggiungere nient'altro a mia giustificazione. Il generale ci fece portare fuori. Uscimmo insieme. Guardai quietamente Švàbrin, ma non gli dissi una parola. Egli ridacchiò malignamente e, sollevando le sue catene, mi superò e affrettò i passi. Fui ricondotto in carcere e da allora non fui più convocato a interrogatori.

Non fui testimone di tutto quello di cui mi rimane d'informare il lettore, ma l'ho sentito raccontare così spesso che ogni minimo dettaglio mi si è impresso nella memoria e che mi sembra di avervi assistito non visto.

Mar'ja Ivànovna fu accolta dai miei genitori con quella franca cordialità che contraddistingueva le persone di vecchio stampo. Essi videro una grazia di Dio nel fatto che avevano modo di ospitare e circondare d'affetto una povera orfana. Presto le si affezionarono sinceramente, visto che era impossibile conoscerla senza volerle bene. Il mio amore non appariva più a mio padre un semplice capriccio, e la mamma non desiderava altro che il suo Petrùša sposasse la cara figlia del capitano.

La notizia del mio arresto sbalordì tutta la mia famiglia. Mar'ja Ivànovna aveva raccontato in modo così semplice ai miei genitori della mia strana conoscenza con Pugaèëv, che essa non solo non li aveva preoccupati, ma spesso li spingeva a riderne di cuore. Il babbo non voleva credere che io fossi rimasto coinvolto nell'ignominiosa rivolta, il cui fine era di rovesciare il trono e di sterminare la classe nobiliare. Egli interrogò rigorosamente Savél'iè. Il precettore non nascose che il padrone era stato ospite di Emél'ka Pugaèëv, e che il malvivente gli aveva offerto i suoi favori, ma giurava di non aver sentito parlare di alcun tradimento. I vecchi si misero l'anima in pace e attesero con impazienza buone notizie. Mar'ja Ivànovna era fortemente angosciata, ma taceva perché dotata in massimo grado di discrezione e di prudenza.

Passarono diverse settimane... All'improvviso il babbo ricevette da Pietroburgo una lettera da parte del nostro parente principe B***. Il principe gli scriveva di me. Dopo il solito preambolo gli annunciava che i sospetti sulla mia partecipazione alle trame dei ribelli, ahimè, erano risultati fin troppo fondati, che mi sarebbe spettata una pena esemplare, ma che l'imperatrice, per riguardo ai meriti e all'età avanzata di mio padre, aveva deciso di graziare il figlio colpevole e, sottraendolo a una pena infamante, aveva ordinato soltanto di deportarlo in una regione sperduta della Siberia in esilio perpetuo.

Tale colpo inatteso mancò poco che uccidesse mio padre. Egli perse la sua usuale fermezza, e il suo dolore (di solito muto) si effuse in amari lamenti. «Come!», ripeteva, fuori di sé. «Mio figlio ha partecipato alle trame di Pugaèëv! Santo Dio, che cosa mi tocca vedere! L'imperatrice gli risparmia l'esecuzione! E questo per me sarebbe un sollievo? Terribile non è l'esecuzione: il mio quadrisavolo morì sul patibolo, difendendo quello che considerava il luogo sacro della sua coscienza; mio padre fu perseguitato insieme con Volýnskij e Chrušèëv. Ma che un nobile tradisca il suo giuramento, si unisca a banditi, assassini, a servi fuggiaschi!... Onta e vergogna sulla nostra stirpe!...». Spaventata dalla sua disperazione, la mamma non osava piangere davanti a lui e cercava di ridargli animo parlando della falsità di queste voci, della volubilità dei pareri della gente.

Mio padre era inconsolabile.

Mar'ja Ivànovna si tormentava più di tutti. Poiché era sicura che avrei potuto scagionarmi non appena lo avessi voluto, ella intuiva la verità e si considerava colpevole della mia sciagura. Nascondeva a tutti le sue lacrime e sofferenze, e al tempo stesso pensava ininterrottamente ai mezzi con cui salvarmi.

Una sera il babbo era seduto sul divano e sfogliava le pagine dell'Almanacco di corte, ma i suoi pensieri erano altrove, e la lettura non produceva su di lui il solito effetto. Fischiettava una vecchia marcia. La mamma faceva in silenzio una maglia di lana, e le lacrime di tanto in tanto cadevano sul lavoro. All'improvviso Mar'ja Ivànovna, seduta anche lei lì a lavorare, dichiarò l'assoluta necessità di andare a Pietroburgo, e pregò le fosse data quest'opportunità. La mamma ne fu desolata. «Che bisogno hai di andare a Pietroburgo?», disse. «Mar'ja Ivànovna, non vorrai mica abbandonarci anche tu?». Mar'ja Ivànovna rispose che tutta la sua sorte futura dipendeva da quel viaggio, che andava a cercare protezione e aiuto da persone potenti, come figlia di un uomo rimasto vittima a causa della sua fedeltà.

Mio padre chinò la testa; qualsiasi parola che potesse ricordare il supposto delitto del figlio gli pesava e gli sembrava un pungente rimprovero. «Va', màtuška!», le disse con un sospiro. «Non vogliamo essere d'impedimento alla tua felicità. Che Dio ti conceda un buon fidanzato, non un traditore macchiato d'infamia». Si alzò e uscì dalla stanza.

Mar'ja Ivànovna, rimasta sola con la mamma, le illustrò in parte i suoi progetti. La mamma l'abbracciò fra le lacrime e pregò Dio che l'impresa avesse un esito felice. Mar'ja Ivànovna fu preparata per il viaggio, e qualche giorno dopo partì con la fedele Palàška e il fedele Savél'iè, che, strappato a forza da me, si consolava perlomeno all'idea di servire la mia promessa sposa.

Mar'ja Ivànovna arrivò felicemente nel quartiere di Sófija e, saputo a una stazione di posta che la Corte si trovava a quel tempo a Càrskoe Selò, decise di fermarsi là. Le fu assegnato un angolino dietro un tramezzo. La moglie del mastro di posta si mise subito a parlare con lei, dichiarò di essere la nipote del fuochista di corte, e la mise a parte di tutti i misteri della vita di corte. Raccontò a che ora l'imperatrice abitualmente si svegliava, beveva il caffè, passeggiava; quali dignitari si trovavano in quel momento presso di lei; di che cosa si era degnata di parlare il giorno prima a tavola, chi riceveva la sera, - in una parola, la conversazione di Anna Vlàs'evna valeva diverse pagine di memorie storiche, e sarebbe stata preziosa per i posteri. Mar'ja Ivànovna la ascoltava attentamente. Andarono in giardino. Anna Vlàs'evna le raccontò la storia di ogni viale e di ogni ponticello, e, dopo aver passeggiato a sazietà, tornarono alla stazione di posta molto soddisfatte l'una dell'altra.

L'indomani mattina di buon'ora Mar'ja Ivànovna si svegliò, si vestì, e andò pian piano in giardino. Era un bellissimo mattino, il sole illuminava le cime dei tigli, già ingiallite alla fresca brezza autunnale. Il vasto lago riluceva immobile. I cigni al loro risveglio uscivano maestosamente nuotando da sotto i cespugli, che ombreggiavano la riva. Mar'ja Ivànovna s'incamminò per uno splendido prato dov'era stato appena eretto un monumento in onore delle recenti vittorie del conte Pëtr Aleksàndroviè Rumjàncev. All'improvviso un cagnolino bianco di razza inglese abbaiò e le corse incontro. Mar'ja Ivànovna si mise paura e si arrestò. In quello stesso istante si udì una gradevole voce femminile: «Non abbiate paura, non morde». E Mar'ja Ivànovna vide una dama seduta su una panchina di fronte al monumento. Mar'ja Ivànovna si sedette all'altra estremità della panchina. La dama la fissava, e Mar'ja Ivànovna, dopo averle lanciato da parte sua qualche occhiata di sbieco, fece in tempo a esaminarla da capo a piedi. Indossava un abito bianco da mattina, una cuffia da notte e un corpetto imbottito. Poteva avere una quarantina d'anni. Il suo viso, pieno e colorito, esprimeva importanza e tranquillità, mentre gli occhi azzurri e il leggero sorriso avevano un incanto indicibile. La dama ruppe il silenzio per prima.

«Voi non siete di qui, non è vero?», disse.

«Proprio così: sono arrivata appena ieri dalla provincia».

«Siete arrivata coi vostri parenti?».

«No, signora. Sono arrivata sola».

«Sola! Ma siete ancora così giovane».

«Non ho né padre né madre».

«Siete qui, certamente, per qualche motivo».

«Proprio così, signora. Sono venuta a porgere una supplica all'imperatrice».

«Siete orfana: probabilmente avrete da lamentarvi di qualche ingiustizia od oltraggio?».

«Nient'affatto, signora. Sono venuta a chiedere grazia, e non giustizia».

«Permettetemi di domandarvi, chi siete?».

«Sono la figlia del capitano Mirónov».

«Del capitano Mirónov! Quello stesso che era comandante di una delle fortezze di Orenbùrg?».

«Proprio così, signora».

La dama sembrava commossa. «Scusatemi», disse con voce ancor più affettuosa, «se m'intrometto nei vostri affari, ma capito spesso a corte; illustratemi in che cosa consiste la vostra supplica, e magari riuscirò ad aiutarvi».

Mar'ja Ivànovna si alzò e la ringraziò con rispetto. Tutto nella dama sconosciuta attirava senza volere il cuore e infondeva fiducia. Mar'ja Ivànovna estrasse dalla tasca un foglio ripiegato e lo porse alla sua sconosciuta protettrice, che si mise a leggerlo fra sé e sé.

Dapprincipio leggeva con aria attenta e benevola, ma all'improvviso il suo volto cambiò, e Mar'ja Ivànovna, che aveva seguito con gli occhi tutti i suoi movimenti, si spaventò dell'espressione severa di quel viso, un istante prima così gradevole e tranquillo.

«Intercedete per Grinëv?», disse la dama con freddezza. «L'imperatrice non può perdonarlo. Si è unito all'impostore non per ignoranza o leggerezza, ma da immorale e pericoloso farabutto».

«Ah, non è vero!», gridò Mar'ja Ivànovna.

«Come non è vero!», replicò la dama, avvampando completamente.

«Non è vero, giuro su Dio che non è vero! Io so tutto, vi racconterò tutto. Solo per me si è esposto a tutto quello che gli è capitato. E se non si è discolpato davanti alla corte è solo perché non voleva coinvolgere me». A questo punto ella raccontò accalorandosi tutto quello che è già noto al mio lettore.

La dama l'ascoltò fino in fondo con attenzione. «Dove alloggiate?», le domandò poi; e, sentito che era da Anna Vlàs'evna, aggiunse con un sorriso: «Ah! la conosco. Addio, non parlate a nessuno del nostro incontro. Spero che la risposta alla vostra lettera non si faccia attendere a lungo».

Detto questo si alzò ed entrò in un viale coperto, mentre Mar'ja Ivànovna tornò da Anna Vlàš'evna, colma di radiosa speranza.

La padrona di casa la rimproverò per la passeggiata autunnale troppo mattutina, che, stando alle sue parole, poteva nuocere alla salute di una giovane fanciulla.

Portò il samovàr e davanti alla sua tazza di tè si stava appena accingendo a riprendere gli interminabili racconti sulla corte, quando all'improvviso una carrozza di corte si arrestò davanti all'ingresso, e un valletto entrò con l'annuncio che l'imperatrice favoriva d'invitare la signorina Mirónova.

Anna Vlàs'evna restò stupefatta e cominciò a brigare. «Oddio, misericordia!», gridò. «L'imperatrice vi vuole a corte.

Come avrà saputo di voi? E come farete, màtuška, a presentarvi all'imperatrice? Credo che non sappiate neanche fare un passo all'uso di corte... Non sarebbe il caso che vi accompagnassi? Almeno per qualcosa potrei mettervi in guardia. Come farete ad andarvi in abito da viaggio? Non si potrebbe mandare a prendere dalla levatrice il suo vestito giallo con la crinolina?». Il valletto dichiarò che l'imperatrice desiderava che Mar'ja Ivànovna andasse sola e vestita così com'era. Non ci fu niente da fare: Mar'ja Ivànovna salì in carrozza e andò a palazzo, accompagnata dai consigli e dalle benedizioni di Anna Vlàs'evna.

Mar'ja Ivànovna presentì che la nostra sorte sarebbe stata decisa; il cuore le batteva forte e le veniva meno. Qualche minuto dopo la carrozza si arrestò davanti al palazzo. Mar'ja Ivànovna salì trepidante su per la scala. La porta si spalancò davanti a lei: attraversò una lunga fila di magnifiche stanze vuote; il valletto le faceva strada. Infine, arrivati a una porta chiusa, egli disse che l'avrebbe annunciata immediatamente, e la lasciò sola.

Il pensiero di vedere l'imperatrice faccia a faccia la spaventava al punto che riusciva a fatica a reggersi in piedi. Un minuto dopo la porta si aprì, ed ella entrò nella stanza da toletta dell'imperatrice.

L'imperatrice era seduta davanti alla sua toletta. Diversi cortigiani le stavano intorno, e lasciarono ossequiosamente passare Mar'ja Ivànovna. L'imperatrice le si rivolse amabilmente, e Mar'ja Ivànovna riconobbe in lei la stessa dama con la quale si era confidata in tutta sincerità pochi minuti prima. La sovrana la chiamò a sé e le disse con un sorriso: «Sono contenta di aver potuto mantenere la mia parola e di aver esaudito la vostra preghiera. La faccenda è conclusa. Sono convinta dell'innocenza del vostro fidanzato. Ecco la lettera che voi stessa v'incaricherete di portare al vostro futuro suocero».

Mar'ja Ivànovna prese la lettera con mano tremante e piangendo cadde ai piedi dell'imperatrice, che la sollevò e la baciò. L'imperatrice le parlò ancora. «So che non siete ricca», disse, «ma io sono in debito di fronte alla figlia del capitano Mirónov. Non vi preoccupate del futuro. Mi assumo l'incarico di provvedere io al vostro patrimonio».

Dopo aver confortato la povera orfana, la sovrana la congedò. Mar'ja Ivànovna ripartì sulla stessa carrozza di corte.

Anna Vlàs'evna, che aspettava ansiosamente il suo ritorno, la tempestò di domande, alle quali Mar'ja Ivànovna rispondeva in qualche modo. Anna Vlàs'evna, anche se restò scontenta della scarsa memoria di lei, l'ascrisse alla timidezza provinciale e la perdonò magnanimamente. Quel giorno stesso Mar'ja Ivànovna, senza aver avuto neppure la curiosità di dare un'occhiata a Pietroburgo, tornò indietro in campagna...

Qui s'interrompono gli appunti di Pëtr Andréeviè Grinëv. Da racconti tramandati in famiglia si sa che venne liberato alla fine del 1774, per un ordine firmato dall'imperatrice; che assistette all'esecuzione di Pugaèëv, il quale lo riconobbe nella folla e gli fece un cenno con la testa, che un momento dopo, morta e insanguinata, veniva mostrata al popolo. Poco tempo dopo Pëtr Andréeviè si sposò con Mar'ja Ivànovna. I loro discendenti prosperano nel governatorato di Simbìrsk. A trenta verste da

*** si trova un villaggio appartenente a dieci proprietari. In una delle ali della casa padronale è esposta una lettera autografa di Caterina II, sotto vetro e in cornice. È indirizzata al padre di Pëtr Andréeviè e contiene l'assoluzione di suo figlio e lodi alla mente e al cuore della figlia del capitano Mirónov. Il manoscritto di Pëtr Andréeviè Grinëv è stato recapitato a noi da uno dei suoi nipoti, il quale ha saputo che eravamo impegnati in un lavoro riguardante i tempi descritti da suo nonno. Abbiamo deciso, col permesso dei parenti, di pubblicarlo a parte, dopo aver scelto un'epigrafe adatta per ogni capitolo ed esserci presi la libertà di cambiare qualche nome proprio.

19 ottobre 1836

L'editore

APPENDICE A «LA FIGLIA DEL CAPITANO»

CAPITOLO OMESSO

Ci stavamo avvicinando alle rive del Volga; il nostro reggimento fece ingresso nel villaggio di *** e vi si fermò a pernottare. Lo stàrosta mi annunciò che sull'altra riva tutti i villaggi erano insorti, le bande di Pugaèëv si aggiravano ovunque.

Questa notizia mi mise una forte inquietudine. Dovevamo attraversare il fiume la mattina del giorno dopo. Mi prese l'impazienza. Il villaggio di mio padre si trovava a trenta verste dalla parte opposta del fiume. Chiesi se si poteva trovare un traghettatore. Tutti i contadini erano pescatori; di barche ce n'erano tante. Mi recai da Grinëv e gli annunciai il mio proposito.

«Sta' attento», mi disse. «È pericoloso andare da soli. Aspetta fino al mattino. Attraverseremo il fiume per primi e porteremo in visita dai tuoi genitori cinquanta ussari per ogni evenienza».

Restai fermo nel mio proposito. La barca era pronta. Vi salii con due rematori. Essi sciolsero gli ormeggi e presero a remare.

Il cielo era chiaro. La luna splendeva. Il tempo era sereno. Il Volga scorreva placido e regolare. La barca, dondolando mollemente, scivolava veloce sulle onde scure. Sprofondai nei miei sogni. Trascorse all'incirca mezz'ora. Avevamo già raggiunto il centro del fiume... quando a un tratto i rematori presero a bisbigliare fra loro. «Che c'è?», domandai, tornando in me. «Non lo sappiamo, lo sa Dio», risposero i rematori, guardando dalla stessa parte. I miei occhi presero la stessa direzione e scorsi nell'oscurità qualcosa che navigava giù lungo il Volga. L'oggetto sconosciuto si avvicinava. Ordinai ai rematori di fermarsi e di aspettarlo. La luna si celò dietro una nuvola. Lo spettro navigante si fece ancora più confuso. Ormai mi era vicino, e io continuavo a non distinguerlo. «Ma che cosa sarà mai», dicevano i rematori. «Una vela non pare, alberi di barca non paiono...». A un tratto la luna spuntò da dietro la nuvola e illuminò un terribile spettacolo. Ci stava venendo incontro una forca, fissata su una zattera, tre corpi pendevano dalla trave. Mi prese una curiosità morbosa. Volli guardare i volti degli impiccati.

Su mio ordine i rematori agganciarono la zattera con un rampone, la mia barca andò a urtare contro la forca galleggiante. Io spiccai un salto e mi ritrovai fra i terribili pali. La luna chiara illuminava i volti sfigurati di quegli infelici. Uno di essi era un vecchio cuvàš, un altro un contadino russo, un giovane robusto e sano sui vent'anni. Ma, data un'occhiata al terzo, restai sbalordito e non riuscii a trattenere un'esclamazione di pena: era Van'ka, il mio povero Van'ka, che per stupidità aveva seguito Pugaèëv. Sopra di loro era stata inchiodata una tavoletta nera, sulla quale era stato scritto a grandi caratteri bianchi: «Ladri e rivoltosi». I rematori guardavano indifferenti e mi aspettavano trattenendo la zattera con il rampone. Salii nuovamente in barca. La zattera continuò a scendere giù per il fiume. La forca nereggiò a lungo nell'oscurità. Infine scomparve, e la mia barca approdò a una riva alta e scoscesa.

Regolai generosamente il conto coi rematori. Uno di loro mi condusse dal capo del villaggio che si trovava vicino al traghetto. Entrai insieme con lui nell' izba. Il capo, sentendo che avevo bisogno di cavalli, mi accolse piuttosto rudemente, ma la mia guida gli disse sottovoce qualche parola, e la sua rigidezza si trasformò immediatamente in una premura frettolosa. In un momento la trojka fu pronta, montai sul carro e ordinai di condurmi al nostro villaggio.

Galoppavo sulla strada maestra, lungo villaggi addormentati. Temevo una cosa soltanto: di essere fermato per la strada. Se il mio incontro notturno sul Volga dimostrava la presenza dei ribelli, esso era stato anche la prova di una forte reazione del governo. Ad ogni buon conto avevo in tasca il lasciapassare che mi aveva rilasciato Pugaèëv, e l'ordine del colonnello Grinëv. Ma non incontrai nessuno, e al mattino intravidi il fiume e il boschetto di abeti, dietro il quale si trovava il nostro villaggio. Il vetturino frustò i cavalli, e un quarto d'ora dopo facevo ingresso a ***.

La casa padronale si trovava all'altra estremità del villaggio. I cavalli andavano a briglia sciolta. A un tratto in mezzo alla strada il vetturino si mise a frenarli. «Che c'è?», chiesi spazientito. «Una barriera, signore», rispose il vetturino, fermando a fatica i suoi cavalli infuriati. Effettivamente vidi uno sbarramento e una sentinella con un grosso randello. L'uomo mi si avvicinò e si tolse il cappello chiedendo il passaporto. «Che vuol dire?», gli chiesi, «perché c'è uno sbarramento qui? A chi fai la guardia?». «Veramente, bàtjuška, siamo in rivolta», rispose, grattandosi la nuca.

«E dove sono i vostri signori?», gli domandai con una stretta al cuore...

«Dove sono i nostri signori?», ripeté il contadino. «I nostri signori sono nel granaio».

«Come nel granaio?».

«Sì, Andrjùška, l'amministratore locale, li ha messi in catene, e li vuole condurre dal nostro bàtjuška-sovrano».

«Dio mio! Apri lo sbarramento, stupido. Invece di startene a sbadigliare!».

La sentinella indugiava. Io saltai giù dal carro, lo colpii (me ne accuso) all'orecchio e spostai io stesso la barriera. Il mio contadino mi guardava stupidamente sconcertato. Salii nuovamente sul carro e ordinai di galoppare verso la casa padronale. Il granaio si trovava in cortile. Davanti alla porta sbarrata c'erano due contadini anch'essi coi randelli. Il carro si fermò proprio davanti a loro. Io saltai giù e fui loro addosso. «Aprite la porta!», dissi. Il mio aspetto doveva essere terribile.

Comunque fuggirono tutti e due, dopo aver gettato via i randelli. Tentai di far saltare il chiavistello, e di forzare la porta, ma la porta era di quercia, e il massiccio chiavistello impossibile da rompere. In quel momento un giovane contadino robusto uscì dall' izba della servitù e con aria insolente mi chiese come osassi fare quel baccano. «Dov'è Andrjùška l'amministratore?», gli gridai. «Chiamatelo, che venga da me».

«Io sono Andréj Afanàs'eviè, e non Andrjùška», mi rispose, mettendosi orgogliosamente le mani sui fianchi. «Che vi serve?».

Invece di rispondergli lo afferrai per la collottola, e trascinandolo verso la porta del granaio, gli ordinai di aprirla.

L'amministratore fece per intestardirsi, ma la «paternale» per vie di fatto ebbe il suo effetto anche su di lui. Egli tirò fuori la chiave e aprì il granaio. Mi precipitai oltre la soglia e in un angolo buio, fiocamente illuminato da una stretta fessura aperta nel soffitto, vidi mia madre e mio padre. Avevano le mani legate, e i ceppi ai piedi. Mi precipitai ad abbracciarli e non riuscii a pronunciare una parola. Mi guardavano entrambi stupefatti, - tre anni di vita militare mi avevano cambiato al punto che faticavano a riconoscermi. La mamma trasalì e si sciolse in lacrime.

A un tratto sentii una voce cara, che conoscevo. «Pëtr Andréiè! Siete voi!». Rimasi di stucco... mi voltai e vidi nell'angolo opposto Mar'ja Ivànovna, anche lei legata.

Mio padre mi guardava in silenzio, senza osar credere ai propri occhi. La gioia riluceva sul suo viso. Mi affrettai a tagliare con la sciabola i nodi dei loro lacci.

«Salve, salve, Petrùša», mi diceva mio padre, stringendomi al cuore, «grazie al cielo, quanto ti abbiamo aspettato...».

«Petrùša, mio caro», disse la mamma. «Il Signore è riuscito a portarti fin qui! Stai bene?».

Avevo fretta di tirarli fuori dalla prigione, ma, avvicinatomi alla porta, la trovai chiusa un'altra volta. «Andrjùška», gridai, «apri!». «Come no», rispose l'amministratore da dietro la porta. «Resta lì anche tu. Così impari a fare baccano e a trascinare per la collottola i funzionari dell'imperatore!».

Cominciai a ispezionare il granaio, in cerca di qualche mezzo per uscirne.

«Non ti dar da fare», mi disse il babbo. «Non sono un padrone che consente di entrare e uscire dai suoi granai attraverso pertugi da ladri».

La mamma, rallegrata per un attimo dalla mia comparsa, cadde nella disperazione vedendo che anche a me toccava condividere la rovina di tutta la famiglia. Ma io mi sentivo più tranquillo da quando mi trovavo con loro e con Mar'ja Ivànovna. Avevo con me la sciabola e due pistole, ero ancora in grado di sostenere un assedio. Grinëv doveva arrivare in tempo quella sera stessa e liberarci. Comunicai tutto questo ai miei genitori e riuscii a tranquillizzare la mamma. Essi si abbandonarono completamente alla gioia dell'incontro.

«Allora, Pëtr», mi disse mio padre, «ne hai combinate abbastanza, e io sono stato proprio adirato contro di te. Ma non serve rivangare il passato. Spero che tu ti sia riveduto e che abbia finito di sfogarti. So che hai prestato servizio come si conviene a un degno ufficiale. Grazie. Mi hai consolato in vecchiaia. Se ti sarò debitore della mia liberazione, la vita mi sarà doppiamente gradita».

In lacrime gli baciai la mano e guardai Mar'ja Ivànovna, che era così rallietata dalla mia presenza da sembrare assolutamente felice e tranquilla.

Verso mezzogiorno sentimmo un chiasso incredibile e delle grida. «Che vorrà dire?», disse mio padre, «non sarà già arrivato il tuo colonnello?». «Impossibile», risposi. «Non sarà qui prima di sera». Il chiasso aumentava. Veniva dato l'allarme.

Alcuni uomini a cavallo galoppavano in cortile; in quel momento dalla stretta fessura aperta nel muro spuntò fuori la testa canuta di Savél'iè, e il mio povero precettore enunciò con voce lamentosa: «Andréj Petróviè, Avdót'ja Vasìl'evna, bàtjuška mio Pëtr Andréiè, màtuška Mar'ja Ivànovna, che guaio! I banditi sono entrati nel villaggio. E sai, Pëtr Andréiè, chi ce li ha portati? Švàbrin, Alekséj Ivànyè, che il diavolo se lo prenda!». Sentendo il nome detestato, Mar'ja Ivànovna batté le mani e restò immobile.

«Ascolta», dissi a Savél'iè, «manda qualcuno a cavallo al traghetto di *** incontro al reggimento degli ussari, e ordina d'informare il colonnello del pericolo in cui ci troviamo».

«Ma chi posso mandare, signore! Tutti i ragazzi sono insorti, e i cavalli sono stati tutti presi! Oddio! Sono già in cortile, e stanno arrivando al granaio».

In quel momento dietro la porta echeggiarono alcune voci. In silenzio feci cenno alla mamma e a Mar'ja Ivànovna di allontanarsi in un angolo, sguainai la sciabola e mi appiattii contro la parete proprio accanto alla porta. Il babbo prese le pistole, le caricò e si mise accanto a me. Scattò il chiavistello, la porta si aprì ed apparve la testa dell'amministratore. Lo colpii con la sciabola e lui cadde, ostruendo l'entrata. In quello stesso istante il babbo sparò in direzione della porta. La folla che ci assediava corse via lanciando maledizioni. Io tirai dentro il ferito e serrai la porta dall'interno. Il cortile era pieno di uomini armati. Fra loro riconobbi Švàbrin.

«Non abbiate paura», dissi alle donne. «C'è una speranza. E voi, bàtjuška, non sparate più. Terremo di riserva le ultime munizioni».

La mamma pregava Dio in silenzio; Mar'ja Ivànovna le stava accanto, aspettando con angelica tranquillità l'esito della nostra sorte. Dietro la porta si udivano minacce, insulti e maledizioni. Io restavo al mio posto, pronto a sciabolare il primo spavaldo. All'improvviso i banditi si azzittirono. Sentii la voce di Švàbrin, che mi chiamava per nome.

«Sono qui, che cosa vuoi?».

«Arrenditi, Bulànin, è inutile che tu faccia resistenza. Abbi compassione dei tuoi vecchi. Con la testardaggine non ti salverai. Vi raggiungerò prima o poi!».

«Provaci, traditore!».

«Non mi metterò in mezzo inutilmente, né sacrificherò i miei uomini. Ma farò incendiare il granaio, e allora vedremo che cosa farai, Don Chisciotte di Belogórsk. Adesso è ora di pranzo. Tu stattene qui a riflettere a tempo perso. Arrivederci, Mar'ja Ivànovna, non mi scuso davanti a voi: probabilmente non vi annoierete al buio col vostro cavaliere».

Švàbrin si allontanò e lasciò delle sentinelle davanti al granaio. Noi stavamo zitti. Ciascuno di noi rifletteva fra sé, senza osar comunicare all'altro i suoi pensieri. Io mi immaginavo tutto quello che era capace di fare Švàbrin incattivito. Di me stesso quasi non mi preoccupavo. Devo confessarlo? Neppure la sorte dei miei genitori mi terrorizzava tanto quanto il destino di Mar'ja Ivànovna. Sapevo che la mamma era adorata dai contadini e dai servi e che anche il babbo era amato, nonostante la sua severità, perché era giusto e conosceva le vere esigenze delle persone a lui sottomesse. La loro rivolta era un errore, una momentanea ubriacatura, e non la dimostrazione del loro scontento. In questo caso era possibile una grazia. Ma Mar'ja Ivànovna? Quale sorte le riservava quell'uomo corrotto e privo di coscienza? Non osavo soffermarmi su questo orribile pensiero e mi preparavo, che il Signore mi perdoni, piuttosto a ucciderla che vederla per la seconda volta nelle mani del crudele nemico.

Trascorse all'incirca un'altra ora. Nel villaggio si diffondevano le canzoni degli ubriachi. Le nostre sentinelle li invidiavano e, indispettiti contro di noi, ci insultavano e spaventavano parlandoci di torture e di morte. Noi aspettavamo le conseguenze delle minacce di Švàbrin. Alla fine ci fu un gran movimento in cortile e udimmo di nuovo la voce di Švàbrin.

«Allora, ci avete pensato su? Vi arrendete di vostra spontanea volontà?».

Nessuno gli rispose. Dopo aver aspettato un po', Švàbrin si fece portare della paglia. Qualche minuto dopo il fuoco divampò, illuminò il buio granaio, e il fumo cominciò a penetrare da sotto le fessure della soglia. Allora Mar'ja Ivànovna mi si avvicinò e, dopo avermi preso una mano, disse a bassa voce:

«Basta, Pëtr Andréiè! Non rovinate voi stesso e i vostri genitori per me. Fatemi uscire. Švàbrin mi ascolterà».

«Neanche per sogno», gridai con impeto. «Ma lo sapete che cosa vi aspetta?».

«Al disonore io non sopravvivrò», rispose lei tranquilla. «Ma, forse, salverò il mio liberatore e la sua famiglia, che ha accolto me, povera orfana, con tanta magnanimità. Addio, Andréj Petróviè. Addio, Avdót'ja Vasìl'evna. Voi siete stati per me più che dei benefattori. Beneditemi. Perdonatemi anche voi, Pëtr Andréiè. Siate certo che... che...». A questo punto ella scoppiò in lacrime e si coprì il viso con le mani... Ero come impazzito. La mamma piangeva.

«Non dire sciocchezze, Mar'ja Ivànovna», disse mio padre. «Chi ti lascerà andare sola dai banditi! Siedi qui e taci. Se dobbiamo morire, morremo tutti insieme. Ascolta, che cosa dicono ancora là fuori?».

«Vi arrendete?», gridava Švàbrin. «Vedete? Fra cinque minuti sarete arrostiti».

«Non ci arrenderemo, bandito!», gli rispose il babbo con voce ferma.

Il suo viso, coperto di rughe, era animato da una straordinaria energia, gli occhi scintillavano minacciosamente sotto le bianche sopracciglia. E, rivolgendosi a me, disse:

«È ora!».

Egli aprì la porta. Il fuoco irruppe e serpeggiò lungo le travi tenute insieme dal muschio secco. Il babbo sparò con la pistola e fece un passo oltre la soglia in fiamme, gridando: «Seguitemi tutti». Io afferrai per mano la mamma e Mar'ja Ivànovna, e le condussi velocemente all'aperto. Sulla soglia giaceva Švàbrin, colpito dalla vetusta mano di mio padre; la folla dei briganti, messa in fuga dalla nostra sortita improvvisa, riprese subito coraggio e si mise a circondarci. Io feci in tempo ad assestare ancora qualche colpo, ma un mattone lanciato con precisione mi prese in pieno petto. Caddi e per un minuto persi conoscenza. Quando rinvenni vidi Švàbrin, seduto sull'erba insanguinata, e davanti a lui tutta la nostra famiglia. Mi sostenevano sotto le braccia. La folla dei contadini, dei cosacchi e dei baschiri ci circondava. Švàbrin era orribilmente pallido.

Con una mano si comprimeva il fianco ferito. Il suo viso esprimeva sofferenza e rabbia. Egli sollevò lentamente la testa, mi guardò e disse con voce fioca e inarticolata: «Impiccate lui... e tutti... tranne lei...».

Immediatamente la folla dei furfanti ci circondò e ci trascinò gridando verso il portone. Ma all'improvviso essi ci lasciarono e si dispersero; nel portone faceva ingresso a cavallo Grinëv, e dietro di lui l'intero squadrone con le sciabole sguainate.

I rivoltosi si disperdevano in tutte le direzioni; gli ussari li inseguivano, sciabolavano e facevano prigionieri. Grinëv saltò giù da cavallo, s'inchinò al babbo e alla mamma e mi strinse forte la mano. «Sono arrivato in tempo, allora», ci disse.

«Ah! ecco la tua fidanzata». Mar'ja Ivànovna arrossì fino agli orecchi. Il babbo gli si avvicinò e lo ringraziò con aria tranquilla, eppure commossa. La mamma lo abbracciò, chiamandolo angelo liberatore. «Vogliate favorire da noi», gli disse il babbo e lo condusse in casa nostra.

Passando accanto a Švàbrin, Grinëv si arrestò. «E questo chi è?», domandò, guardando il ferito. «È il comandante, il capo della banda», rispose mio padre con una certa fierezza, che rivelava il vecchio soldato, «Dio ha aiutato la mia mano decrepita a punire il giovane malfattore e a vendicare su di lui il sangue di mio figlio».

«È Švàbrin», dissi a Grinëv.

«Švàbrin! Molto piacere. Ussari! prendetelo! E dite al nostro medico che gli fasci la ferita e vegli su di lui come sulla pupilla del suo occhio. Bisogna assolutamente presentare Švàbrin alla commissione segreta di Kazàn'. È uno dei criminali più importanti, e le sue deposizioni devono essere fondamentali».

Švàbrin lo fissò con uno sguardo estenuato. Sul suo viso non si rifletteva altro che il dolore fisico. Gli ussari lo portarono via su un mantello.

Entrammo nelle stanze. Mi guardavo intorno con trepidazione, ricordando gli anni dell'infanzia. In casa non era cambiato nulla, tutto si trovava al posto di prima. Švàbrin non aveva permesso di saccheggiarla, conservando in tutta la sua depravazione uno spontaneo disgusto per l'avidità disonesta. I servi apparvero in anticamera. Essi non avevano partecipato alla rivolta e gioivano di tutto cuore della nostra liberazione. Savél'iè era trionfante. Bisogna sapere che durante lo scompiglio, provocato dall'attacco dei briganti, egli era corso nella stalla, dove stava il cavallo di Švàbrin, l'aveva sellato, portato fuori pian piano, e grazie al trambusto era riuscito a fuggire inosservato fino al traghetto. Aveva incontrato il reggimento che riposava già da questa parte del Volga. Grinëv, appreso da lui che eravamo in pericolo, aveva ordinato di montare a cavallo, di precipitarsi da noi, al galoppo - e, grazie a Dio, era arrivato a tempo.

Gli ussari tornarono dall'inseguimento dopo aver fatto qualche prigioniero. Furono rinchiusi in quello stesso granaio in cui noi avevamo sostenuto il memorabile assedio.

Grinëv insistette perché la testa dell'amministratore fosse esposta per qualche ora su una pertica accanto all'osteria.

Ci ritirammo ognuno nella propria stanza. I vecchi avevano bisogno di riposo. Non avendo dormito tutta la notte, io mi gettai sul letto e mi addormentai profondamente. Grinëv andò a dare le sue disposizioni.

La sera ci riunimmo in salotto attorno al samovàr, chiacchierando allegramente del pericolo scampato. Mar'ja Ivànovna serviva il tè, io mi sedetti al suo fianco e mi occupai esclusivamente di lei. I miei genitori sembravano assistere bonariamente ai nostri scambi di tenerezza. Quella sera rivive ancora oggi nel mio ricordo. Io ero felice, totalmente felice, e sono molti forse i momenti così nella misera vita umana?

Il giorno dopo fu riferito al babbo che i contadini si erano presentati a fare penitenza nel cortile padronale. Il babbo uscì incontro a loro sulla scalinata. Alla sua comparsa i contadini si misero in ginocchio.

«Allora, scemi», disse loro, «come vi è venuto in mente di ribellarvi?».

«Siamo colpevoli, signor nostro», risposero a una sola voce.

«E bravi, sono colpevoli. Fanno le marachelle, e non ne sono contenti neppure loro. Vi perdono per la gioia che Dio mi ha dato di rivedere mio figlio Pëtr Andréiè».

«Siamo colpevoli, abbiamo torto davvero!».

«Bene, la spada non taglia la testa che ammette la sua colpa. Dio ci ha concesso il bel tempo, sarebbe ora di raccogliere il fieno; e voi, razza di sciocchi, che cosa avete fatto tre giorni interi? Stàrosta! Manda tutti quanti a falciare il fieno, e fa' in modo, birba rossa, che per il giorno di Il'jà tutto il fieno sia raccolto in covoni. Filate!».

I contadini s'inchinarono e andarono a lavorare come se niente fosse.

La ferita di Švàbrin si rivelò non mortale. Fu mandato con una scorta a Kazàn'. Vidi dalla finestra come lo adagiavano sul carro. I nostri sguardi s'incontrarono, lui reclinò la testa, e io mi allontanai in fretta dalla finestra. Temevo di mostrarmi esultante di fronte alla disgrazia e all'umiliazione del nemico.

Grinëv doveva proseguire oltre. Io mi decisi a seguirlo, benché desiderassi ancora restare qualche giorno in famiglia.

Alla vigilia della partenza andai dai miei genitori e secondo l'uso del tempo mi gettai ai loro piedi, chiedendo loro la benedizione per il mio matrimonio con Mar'ja Ivànovna. I vecchi mi fecero alzare e con lacrime di gioia mi espressero il loro consenso. Condussi a loro Mar'ja Ivànovna pallida e trepidante. Ci benedirono... Non starò a descrivere quello che sentivo. Chi si è trovato nella mia situazione mi capirà senza spiegazioni; quanto a chi non ci si è trovato, posso solo compiangerlo e consigliargli, finché ne avrà ancora il tempo, d'innamorarsi e di ricevere la benedizione dai genitori.

Il giorno dopo il reggimento si riunì. Grinëv si congedò dalla nostra famiglia. Eravamo tutti sicuri che le operazioni militari si sarebbero interrotte presto; speravo di sposarmi entro un mese. Mar'ja Ivànovna, salutandomi, mi baciò davanti a tutti. Montai a cavallo. Savél'iè mi seguì ancora una volta, e il reggimento partì.

Guardai a lungo da lontano la casa di campagna che nuovamente abbandonavo. Un cupo presentimento mi angosciava. Qualcosa mi diceva che non tutte le disgrazie erano ancora finite per me. Il cuore presentiva una nuova tempesta.

Non starò a descrivere la nostra partenza e la fine della guerra di Pugaèëv. Attraversavamo i villaggi da lui saccheggiati, e senza volere privavamo i poveri abitanti di quello che i briganti avevano loro lasciato.

Essi non sapevano a chi obbedire. Dappertutto era stata abolita qualsiasi forma di governo. I proprietari si erano rifugiati nei boschi. Le bande dei briganti compivano misfatti ovunque. I comandanti dei singoli reparti, spediti all'inseguimento di Pugaèëv, che allora era già in fuga verso Ástrachan', punivano a loro piacimento colpevoli e innocenti... Le condizioni di tutta la regione in cui aveva infuriato l'incendio della rivolta era terribile. Che Dio ci scampi dall'assistere a un'insurrezione russa, assurda e impietosa. Coloro che concepiscono nel nostro paese impossibili rivolgimenti, o sono giovani, e non conoscono il nostro popolo, oppure sono persone dal cuore duro, per le quali la testa altrui vale mezzo copeco, e anche il proprio collo a malapena uno intero.

Pugaèëv scappava, inseguito da Iv.Iv. Mìchel'son. Presto venimmo a sapere della sua disfatta totale. Finalmente Grinëv ricevette dal suo generale la notizia della cattura dell'impostore, e insieme anche l'ordine di fermarsi. Finalmente potevo tornare a casa. Ero in visibilio; ma uno strano sentimento offuscava la mia gioia.

VIAGGIO AD ARZRU'M AL TEMPO DELLA CAMPAGNA DEL 1829

PREFAZIONE

Poco tempo fa mi è capitato fra le mani un libro, pubblicato a Parigi l'anno scorso, nel 1834, con il titolo: Voyages en Orient entrepris par ordre du Gouvernement Français. L'autore, descrivendo a modo suo la campagna del 1829, conclude le sue riflessioni con queste parole:

« Un poète distingué par son imagination a trouvé dans tant de hauts faits dont il a été témoin non le sujet d'un poème, mais celui d'une satyre».

Di poeti che avessero partecipato alla campagna turca non conoscevo che A.S. Chomjakóv e A.N. Murav'ëv. Si trovavano entrambi nell'armata del conte Dìbiè. Il primo aveva scritto all'epoca diverse bellissime poesie liriche, il secondo alcune meditazioni sul suo viaggio ai luoghi santi, che gli avevano suscitato un'impressione tanto forte. Ma non ho letto nessuna satira sulla campagna di Arzrùm.

Non avrei mai potuto immaginare che si trattasse di me se nello stesso libro non avessi trovato il mio nome fra quelli dei generali di un corpo speciale del Caucaso. « Parmi les chefs qui la commandaient (l'armée du Prince Paskewitch) on distinguait le Général Mouraviev... le Prince Géorgien Tsitsevaze... le Prince Arménien Beboutof... le Prince Potemkine, le Général Raiewsky, et infin - M. Pouchkine... qui avait quitté la capitale pour chanter les exploits de ses compatriotes».

Lo confesso: queste righe del viaggiatore francese, nonostante gli epiteti lusinghieri, per me sono state molto più indisponenti degli insulti delle riviste russe. Cercare l'ispirazione mi è sempre sembrata una bizzarria ridicola e assurda: l'ispirazione non si trova cercandola; è lei che deve trovare il poeta. Andare alla guerra per cantarne i futuri atti eroici sarebbe stato per me da un lato troppo presuntuoso, dall'altro troppo indecente. Non mi immischio a dar giudizi su cose militari. Non è affar mio. Può darsi che la coraggiosa traversata del Sagan-lu, il movimento col quale il conte Paskéviè tagliò i contatti del seraskìr con Osman-Pascià, la sconfitta di due corpi d'armata nemici nel giro di ventiquattr'ore, la rapida marcia su Arzrùm, tutto questo, coronato da pieno successo, può anche darsi che sia assolutamente degno di derisione agli occhi di gente versata nell'arte militare (come, per esempio, il console commerciale Fontanier, autore del viaggio in Oriente); ma io mi sarei vergognato di scrivere satire sul glorioso condottiero, che mi ha affettuosamente accolto all'ombra della sua tenda e che ha trovato il tempo, in mezzo a tante gravi preoccupazioni, di accordarmi una lusinghiera attenzione. L'uomo che non ha bisogno della protezione dei potenti, ne apprezza la cordialità e l'ospitalità, dal momento che non può pretendere altro da loro.

Un'accusa d'ingratitudine non deve essere lasciata senza replica, come una critica meschina o una stroncatura letteraria. Ecco perché mi sono deciso a far stampare questa prefazione e a pubblicare i miei appunti di viaggio: vi è tutto quello che ho scritto sulla campagna del 1829.

A. Puškin

I

Le steppe - Una kibìtka calmucca - Le acque del Caucaso - La strada militare della Georgia - Vladikavkàz - Funerale osseta -

Il Térek - La gola di Dariàl - Il valico delle montagne innevate - Primo sguardo sulla Georgia - Gli acquedotti - Chozrev-Mirza - Il governatore di Dušét.

... Da Mosca mi mossi verso Kalùga, Belëv e Orël, e percorsi in tal modo duecento verste in più; in compenso vidi Ermólov. Egli vive ad Orël, nelle cui vicinanze si trova la sua proprietà. Giunsi da lui alle otto del mattino e non lo trovai in casa. Il mio vetturino mi disse che Ermólov non andava da nessuno, ad eccezione del padre, vecchio semplice e timorato; gli unici che non riceveva erano i funzionari della città, mentre a chiunque altro l'accesso era libero. Un'ora dopo mi ripresentai da lui. Ermólov mi accolse con la sua consueta gentilezza. Al primo sguardo non trovai in lui la minima somiglianza coi suoi ritratti, dipinti abitualmente di profilo. Viso tondo, occhi grigi, di fuoco, capelli bianchi a spazzola. La testa di una tigre su un torace erculeo. Un sorriso sgradevole, perché innaturale. Ma quando si concentra e si acciglia ecco che diventa bellissimo e ricorda in modo sorprendente un ritratto poetico dipinto dal Daw. Indossava un cekmén' circasso verde. Alle pareti del suo studio erano appese sciabole e pugnali, ricordi del suo comando nel Caucaso. Evidentemente mal sopporta il suo ozio. Diverse volte attaccò a parlare di Paskéviè, e sempre con sarcasmo; parlando della facilità delle sue vittorie lo paragonava a Giosuè, dinanzi al quale le mura cadevano al suono delle trombe, e chiamava il conte di Erivàn conte di Gerico. «Dovesse imbattersi», diceva Ermólov, «in un pascià non dico intelligente, non dico esperto, ma solo caparbio, per esempio il pascià che aveva il comando a Šumljà, - e Paskéviè sarebbe perduto». Riferii a Ermólov le parole del conte Tolstój, secondo il quale Paskéviè aveva operato così bene nella campagna di Persia che un uomo intelligente non aveva altra scelta se non agire peggio per distinguersi da lui. Ermólov si mise a ridere, ma non era d'accordo. «Si sarebbero potuti risparmiare uomini e spese», disse.

Penso che stia scrivendo o voglia scrivere le sue memorie. Non è soddisfatto della Storia di Karamzìn; desidererebbe che una penna fiammeggiante descrivesse il passaggio del popolo russo dalla nullità alla gloria e alla grandezza. Delle memorie del principe Kùrbskij mi parlò con amore. Criticò molto i tedeschi. «Fra una cinquantina d'anni», disse, «si penserà che nell'attuale campagna di guerra ci sia stata un'armata ausiliaria prussiana o austriaca, al comando di questo e quel generale tedesco».

Trascorsi da lui un paio d'ore. Era seccato di non ricordare il mio nome per intero. Se ne scusò con tanto di complimenti. La conversazione toccò diverse volte la letteratura. Dei versi di Griboédov disse che la loro lettura fa venir male alle mascelle. Sul governo e la politica neanche una parola.

Mi si prospettava di passare per Kursk e per Chàr'kov, ma svoltai sulla strada diretta per Tiflìs, sacrificando un buon pranzo nella locanda di Kursk (il che non è un'inezia nei nostri viaggi), e senza lasciarmi prendere dalla curiosità di visitare l'università di Chàr'kov, che non vale il ristorante di Kursk.

Fino a Eléc le strade sono orribili. Il mio calesse affondò diverse volte in un fango degno di quello di Odessa. Mi capitò di non fare più di cinquanta verste in ventiquattr'ore. Finalmente vidi le steppe di Vorónež e rotolai in libertà sulla verde pianura. A Novoèerkàssk trovai il conte Pùškin, che stava andando anche lui a Tiflìs, e prendemmo accordi per viaggiare insieme.

Il passaggio dall'Europa all'Asia si fa d'ora in ora più percettibile: le foreste scompaiono, le colline si appianano, l'erba s'infittisce e rivela un maggior rigoglio della vegetazione; si scorgono uccelli sconosciuti ai nostri boschi; le aquile si posano sui cumuli di terra che indicano la strada maestra, come se stessero di guardia, e osservano superbe il viaggiatore; per i fertili pascoli

Vagano superbe

Mandrie d'indomite giumente.

I calmucchi si accampano intorno alle capanne delle stazioni di posta. Nei pressi delle kibìtke pascolano i loro mostruosi, irsuti cavalli, che già conoscete dai bellissimi disegni di Orlóvskij.

Giorni fa ho visitato una kibìtka calmucca (di vimini intrecciati, ricoperta di feltro bianco). Tutta la famiglia si accingeva a fare colazione; la casseruola bolliva al centro, e il fumo usciva da un'apertura fatta alla sommità della kibìtka. Una giovane calmucca, tutt'altro che brutta, cuciva, fumando tabacco. Mi sedetti accanto a lei. «Come ti chiami?». «***». «Quanti anni hai?». «Dieci e otto». «Che stai cucendo?». «Un pantalone». «Per chi?». «Per me». Mi porse la sua pipa e si mise a far colazione. Nella marmitta cuoceva il tè con grasso di montone e sale. Mi offrì la sua scodella. Non volli rifiutare e mandai giù un sorso cercando di non tirare il fiato. Non credo che la cucina di un altro popolo possa produrre qualcosa di più disgustoso.

Chiesi qualcosa per mandarlo giù. Mi fu dato un pezzetto di giumenta disseccata; e fui contento anche di questo. La civetteria calmucca mi spaventò; mi affrettai a uscire dalla kibìtka e ad abbandonare la Circe delle steppe.

A Stàvropol' scorsi all'estremità del cielo delle nuvole che avevano colpito il mio sguardo esattamente come nove anni prima. Erano sempre le stesse, sempre allo stesso posto. Sono le cime nevose della catena del Caucaso.

Da Geórgievsk deviai per le Acque calde. Vi trovai grandi cambiamenti. Ai miei tempi i bagni si trovavano in capannine tirate su alla svelta. Le sorgenti, per la maggior parte nel loro stato primitivo, zampillavano, fumavano e scorrevano giù dalle montagne in varie direzioni, lasciandosi dietro tracce bianche e rossastre. Noi attingevamo l'acqua bollente con un ramaiolo di corteccia o con un fondo di bottiglia rotta. Ora vi erano stati costruiti magnifici bagni e delle case. Un viale con i tigli appena piantati corre lungo il pendio del Mašùk. Dappertutto stradine pulite, panchine verdi, aiuole regolari, ponticelli, padiglioni. Le sorgenti sono state rivestite di pietra; alle pareti dei bagni sono state affisse le prescrizioni della polizia; dappertutto ordine, pulizia, eleganza...

Lo ammetto: le acque del Caucaso ora offrono più comodità, ma rimpiansi il loro stato selvaggio di una volta; rimpiansi i ripidi sentieri sassosi, i cespugli e i precipizi senza riparo sui quali a volte m'inerpicavo. Lasciai con tristezza le acque e tornai verso Geórgievsk. Presto sopraggiunse la notte. Il cielo terso si cosparse di miriadi di stelle. Viaggiavo lungo la riva del Podkùmok. Qui capitava che sedessimo insieme con A. Raévskij, dando ascolto alla melodia delle acque. Il maestoso Béštu, nero, sempre più nero, si profilava in lontananza, circondato dai monti suoi vassalli, e infine scomparve nell'oscurità...

Il giorno dopo proseguimmo e arrivammo a Ekaterìnograd, che un giorno era stata sede della luogotenenza generale.

Da Ekaterìnograd parte la strada militare georgiana; il servizio di posta s'interrompe. Si noleggiano i cavalli fino a Vladikavkàz. Viene fornita una scorta di cosacchi e di soldati di fanteria e un cannone. La posta viene spedita due volte alla settimana, e i viaggiatori si uniscono ad essa: si chiama occasione. Non dovemmo aspettare a lungo. Il postale arrivò il giorno dopo, e il mattino successivo alle nove eravamo pronti per partire. Sul luogo di raccolta si riunì tutta la carovana, composta da cinquecento persone o giù di lì. Cominciarono a rullare i tamburi. Ci movemmo. In testa procedeva il cannone, circondato da soldati di fanteria. Dietro si stendeva la fila di carrozze, calessi, carri delle mogli dei soldati, che si trasferivano da una fortezza all'altra; ancora dietro scricchiolava un convoglio di carri locali a due ruote. Ai lati correvano mandrie di cavalli e branchi di buoi. Accanto a loro galoppavano le guide nagài in mantelli di feltro coi lacci. Tutto questo al principio mi piaceva molto, ma non tardò a stancarmi. Il cannone avanzava a passo d'uomo, la miccia fumava, e i soldati vi accendevano la pipa. La lentezza della nostra marcia (il primo giorno percorremmo solo quindici verste), il caldo insopportabile, la scarsezza di provviste, i giacigli che non davano pace, infine lo scricchiolio ininterrotto dei carri nagài finirono con l'esasperarmi. I tartari si vantano di questo scricchiolio, e dicono che loro vanno in giro da persone oneste, senza aver bisogno di nascondersi. Per questa volta, però, avrei preferito viaggiare in una compagnia meno rispettabile. La strada era piuttosto monotona: pianura, e sui lati colline.

All'estremità del cielo le cime del Caucaso, che ogni giorno appaiono più alte. Fortezze, sufficienti per questa regione, con un fossato che chiunque di noi avrebbe saltato in altri tempi senza rincorsa, coi cannoni arrugginiti, che non hanno sparato dai tempi del conte Gudóviè, e il terrapieno crollato, per il quale gironzola una guarnigione di galline e di oche. Nelle fortezze qualche capannella in cui ci si può procurare a fatica una decina di uova e del latte acido.

Il primo luogo degno di nota è la fortezza di Minarét. Avvicinandosi ad essa la nostra carovana passò per un'incantevole vallata, in mezzo a tumuli sepolcrali, ricoperti di tigli e di platani. Sono le tombe di alcune migliaia di morti appestati. Abbondavano fiori variopinti, generati dalla cenere infetta. Sulla destra splendeva il Caucaso innevato; davanti s'innalzava un'enorme montagna boscosa, dietro la quale si trovava una fortezza. Intorno a questa erano visibili le tracce di un aùl distrutto, che si chiamava Tatartùb e che una volta era stato il villaggio principale della Grande Kabardá. Uno snello minareto solitario testimonia l'esistenza del villaggio scomparso. Esso si leva leggero fra mucchi di pietre, sulla riva di un torrente prosciugato. La scala interna non è ancora crollata. Salii su su fino a una piattaforma dalla quale non si ode più la voce del mullah. Vi trovai alcuni nomi sconosciuti, incisi sui mattoni da viaggiatori amanti di gloria.

La nostra strada divenne pittoresca. I monti si protendevano sopra di noi. Sulle loro cime passavano lentamente greggi appena visibili che sembravano insetti. Distinguemmo anche il pastore, magari un russo fatto prigioniero e invecchiato in schiavitù. Incontrammo ancora tumuli, ancora rovine. Due, tre monumenti sepolcrali si ergevano sul bordo della strada. Vi erano seppelliti, secondo l'usanza dei circassi, i loro cavalieri. Un'iscrizione tartara, l'effigie di una sciabola, un marchio, incisi sulla pietra, sono lasciati ai nipoti predatori in memoria di un antenato predatore.

I circassi ci odiano. Li abbiamo scacciati dai loro pascoli liberi; i loro aùl sono stati rasi al suolo, intere tribù sterminate. Si vanno addentrando sempre più profondamente nelle montagne, e di lì dirigono le loro incursioni. L'amicizia dei circassi pacificati è infida: sono sempre pronti ad aiutare i loro confratelli rivoltosi. Lo spirito della loro cavalleria selvaggia è sensibilmente decaduto. Attaccano raramente i cosacchi di pari numero, mai la fanteria, e fuggono alla vista di un cannone. In compenso non si lasciano mai sfuggire l'occasione di attaccare un reparto debole o una persona indifesa. Non c'è quasi alcun modo di renderli tranquilli fintanto che non saranno disarmati, come sono stati disarmati i tartari di Crimea, cosa straordinariamente difficile a realizzarsi, a causa delle faide ereditarie e delle vendette di sangue che regnano fra loro. Il pugnale e la sciabola sono membra del loro corpo, e il bimbo comincia a prenderne possesso prima di balbettare. Per loro l'omicidio è un semplice movimento del corpo. I loro prigionieri li mantengono in vita nella speranza di un riscatto, ma li trattano in modo terribilmente disumano, li costringono a lavorare al di sopra delle loro forze, li nutrono di pasta cruda, li picchiano quando salta loro per la testa, e li fanno sorvegliare dai loro ragazzini, che per una sola parola hanno il diritto di mutilarli con le loro sciabole da bambini. Di recente era stato preso un circasso pacificato, che aveva sparato contro un soldato.

Si giustificava dicendo che il suo fucile era stato carico troppo a lungo. Che fare con un popolo simile? Bisogna sperare tuttavia che la conquista della riva orientale del Mar Nero, tagliando fuori i circassi dal commercio con la Turchia, li costringa a riavvicinarsi a noi. L'influenza del benessere può favorire il loro addomesticamento: il samovàr sarebbe un'innovazione importante. Esiste un mezzo più potente, più morale, più conforme alla cultura del nostro secolo: la predicazione del Vangelo.

Di recente i circassi hanno adottato la fede maomettana. Essi sono stati trascinati dal fanatismo attivo degli apostoli del Corano, fra i quali si è distinto Mansùr, uomo fuori del comune, che per lungo tempo ha istigato il Caucaso alla ribellione contro il dominio russo, e infine, catturato da noi, è morto nel monastero di Solóvki. Il Caucaso attende i missionari cristiani.

Ma è più facile per la nostra pigrizia spandere, invece della parola viva, lettere morte e mandare libri muti a gente che non sa né leggere né scrivere.

Raggiungemmo Vladikavkàz, una volta Kapkàj, vestibolo delle montagne. Esso è circondato da villaggi osseti. Ne visitai uno e capitai a un funerale. Intorno a una capanna si accalcava della gente. In cortile sostava un carro attaccato a due buoi. I parenti e gli amici del morto affluivano da tutte le parti e piangendo ad alta voce entravano nella capanna, battendosi la fronte coi pugni. Le donne stavano in piedi, composte. Il cadavere fu portato fuori su un mantello di feltro...

...like a warrior taking his rest

With his martial cloak around him;

e deposto su un carro. Uno degli ospiti prese il fucile del defunto, ne soffiò via la polvere dallo scodellino e lo posò accanto al corpo. I buoi si mossero. Gli ospiti seguirono sui carri. Il corpo doveva essere seppellito in montagna, a una trentina di verste dal villaggio. Purtroppo nessuno poté spiegarmi queste cerimonie.

Gli osseti sono la razza più povera fra i popoli abitanti nel Caucaso; le loro donne sono bellissime e, a quanto si dice, molto ben disposte verso i viaggiatori. Alla porta di una fortezza incontrai la moglie e la figlia di un detenuto osseta. Gli stavano portando il pranzo. Sembravano entrambe tranquille e coraggiose; tuttavia quando mi avvicinai abbassarono tutte e due la testa e si coprirono con le loro càdre stracciate. Nella fortezza vidi degli ostaggi circassi, ragazzi vivaci e belli. Tirano continuamente scherzi e scappano dalla fortezza. Sono tenuti in condizioni pietose. Girano in stracci, seminudi, in uno stato di disgustosa sporcizia. Su alcuni ho visto dei ceppi di legno. Probabilmente gli ostaggi rimessi in libertà non rimpiangono il loro soggiorno a Vladikavkàz.

Il cannone ci lasciò. Continuammo il viaggio con la fanteria e i cosacchi. Il Caucaso ci accolse nel suo santuario.

Sentimmo un rumore sordo e vedemmo il Térek, che si diramava in varie direzioni. Noi procedemmo lungo la riva sinistra. Le sue onde rumorose mettono in moto le ruote dei bassi mulini osseti, simili a cucce di cani. Quanto più c'inoltravamo nelle montagne, tanto più stretta diventava la gola. Il Térek, compresso, getta con strepito le sue onde torbide da una parte all'altra delle rocce che gli sbarrano il cammino. La gola si snoda lungo il corso del fiume. Le basi rocciose dei monti vengono levigate dalle sue acque. Io camminavo a piedi e mi fermavo ogni istante, sbalordito dal cupo incanto di quella natura. Il tempo era coperto; le nuvole si trascinavano pesanti intorno alle cime nere. Il conte Puškin e Šernvàl, guardando il Térek, rievocavano l'Imatra, e davano la preferenza al tonante fiume del Nord. Io, invece, non potevo paragonare nulla allo spettacolo che mi si presentava.

Senza arrivare a Lars rimasi indietro al convoglio, incapace di staccare gli occhi dalle enormi rocce fra le quali il Térek dirompe con indescrivibile furore. A un tratto mi corse incontro un soldato, gridando da lontano: «Non vi fermate, vostra eccellenza, vi uccideranno!». Questo avvertimento, poiché non vi ero abituato, mi parve alquanto strano. Il fatto è che i briganti osseti, al sicuro in questo stretto passaggio, sparano al di là del Térek sui viaggiatori. Il giorno prima del nostro passaggio essi avevano assalito in questo modo il generale Bekóviè, che era riuscito a fuggire via al galoppo in mezzo ai loro spari. Su una roccia si vedono le rovine di un castello: sono tenute insieme dalle capanne degli osseti pacificati, come fossero nidi di rondine.

A Lars ci fermammo a pernottare. Vi trovammo un viaggiatore francese, che ci terrorizzò sulla strada che ci attendeva. Ci consigliava di lasciare le vetture a Kobi e di proseguire a cavallo. Con lui bevemmo per la prima volta del vino di Kachétija da un puzzolente burdjùk, ricordando i banchetti dell' Iliade: E in otri caprini il vino, nostra consolazione!

Qui trovai una copia imbrattata de Il prigioniero del Caucaso, che, confesso, rilessi con grande piacere. Tutto ciò è debole, giovanile, imperfetto; ma molte cose sono indovinate ed espresse con precisione.

L'indomani mattina ripartimmo. Prigionieri turchi riparavano la strada. Si lamentavano del cibo che veniva loro dato.

Non riuscivano in nessun modo ad abituarsi al pane nero russo. Questo mi ricordò le parole del mio amico Šeremétev di ritorno da Parigi: «Si vive male, amico, a Parigi: da mangiare non c'è niente: non riesci a procurarti il pane nero!».

A sette verste da Lars si trova il posto di guardia di Dariàl. La gola porta lo stesso nome. Le rocce si levano da entrambe le parti in pareti parallele. Il passaggio è così stretto, così stretto, scrive un viaggiatore, che non solo vedi, ma ti sembra anche di sentire l'oppressione. Un frammento di cielo come un nastro azzurreggia sulla vostra testa. I ruscelli che cadono dall'alto della montagna in piccoli rivoli, che lanciano spruzzi, mi ricordavano il ratto di Ganimede, uno strano quadro di Rembrandt. Per di più anche la gola è illuminata perfettamente nel suo gusto. In alcuni punti il Térek corrode la base stessa delle rocce, e sulla strada, a mo' di diga, sono state ammucchiate delle pietre. Non lontano dal posto di guardia è stato coraggiosamente gettato un ponticello attraverso il fiume. Quando ci stai sopra ti sembra di essere in un mulino. Il ponticello trema tutto, e il Térek fa il rumore delle ruote che muovono la macina. Su una roccia a picco di fronte al Dariàl si vedono le rovine di una fortezza. La leggenda narra che in essa si nascondesse una certa imperatrice Dàrija, che avrebbe dato il suo nome alla gola: è una favola. Dariàl, in antico persiano, significa porta. Secondo la testimonianza di Plinio, la porta del Caucaso, erroneamente chiamata del Caspio, si trovava qui. La gola era chiusa con una porta vera, di legno, con cerniere di ferro. Sotto di essa, scrive Plinio, scorre il fiume Diriodoris. Nello stesso punto era stata eretta anche una fortezza per contenere le incursioni di tribù selvagge e così via (date un'occhiata al viaggio del conte I. Potocki, le cui dotte ricerche sono appassionanti quanto i romanzi spagnoli).

Da Dariàl partimmo per il Kazbék. Vedemmo la Porta della Trinità (un arco formato nella roccia da un'esplosione di polvere da sparo) - sotto di essa un tempo passava la strada, mentre adesso vi scorre il Térek, che cambia di frequente il suo letto.

Poco lontano dal villaggio di Kazbék valicammo il Burrone furioso, che in tempo di forti piogge si trasforma in torrente impetuoso. A quell'epoca era completamente secco e risuonava solo del suo nome.

Il villaggio di Kazbék si trova ai piedi del monte Kazbék e appartiene al principe Kazbék. Il principe, un uomo sui quarantacinque anni, è più alto di un capofila del reggimento Preobražénskij. Lo trovammo in un duchàn (così si chiamano le taverne georgiane, che sono molto più povere e non meno sporche di quelle russe). Sulla porta stava disteso un panciuto burdjùk con le sue quattro gambe divaricate. Il gigante ne sorbiva il vino rosso locale non fermentato e mi fece alcune domande, alle quali risposi con la deferenza dovuta al suo titolo e alla sua statura. Ci separammo da grandi amici.

Fanno presto ad attutirsi le impressioni. Erano passate appena ventiquattr'ore, e già il ruggito del Térek e le sue mostruose cascate, già i dirupi e gli abissi non attiravano più la mia attenzione. L'impazienza di arrivare a Tiflìs ormai mi dominava completamente. Passavo davanti al Kazbék con la stessa indifferenza con cui una volta ero passato in nave davanti al Èatyrdàg. È anche vero che il tempo piovoso e nebbioso m'impediva di vedere la sua mole innevata che, secondo l'espressione di un poeta, sorregge la volta celeste.

Si attendeva il principe persiano. A una certa distanza da Kazbék ci vennero incontro diversi calessi che ingombrarono la strada già stretta. Fino a che le vetture non si districarono, l'ufficiale del convoglio ci annunciò che stava scortando un poeta di corte persiano e, poiché gliene espressi il desiderio, mi presentò a Fazil-Khan. Con l'aiuto dell'interprete avevo già dato inizio a un saluto all'orientale, ma quale fu la mia vergogna quando Fazil-Khan rispose alla mia affettazione fuori posto con una semplice, intelligente cortesia da persona garbata! Egli sperava di vedermi a Pietroburgo; si dispiaceva che il nostro incontro sarebbe durato così poco, ecc. Fui costretto con vergogna a lascia perdere quel tono di buffonesca gravità, e a ridiscendere alle solite formule europee. Ecco una lezione alla nostra tendenza russa alla canzonatura. D'ora in avanti non starò a giudicare un uomo dalla sua papàcha di montone e dalle unghie dipinte.

Il posto di guardia di Kobi si trova proprio ai piedi del monte della Croce, che dovevamo oltrepassare. Ci fermammo a pernottare lì e ci mettemmo a pensare in che modo compiere questa terribile impresa: lasciar perdere le vetture e sellare dei cavalli cosacchi, o mandare a chiedere dei buoi osseti? A ogni buon conto scrissi a nome di tutta la nostra carovana una richiesta ufficiale al signor Èiljàev, comandante in quella zona, e andammo a dormire in attesa dei carri. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, sentimmo del rumore, grida, e assistemmo a uno spettacolo straordinario: diciotto paia di buoi scarni e di piccola taglia, incitati da una folla di osseti seminudi, tiravano a stento la leggera carrozza viennese del mio amico O***. Questo spettacolo dissipò immediatamente tutti i miei dubbi. Decisi di rimandare indietro la mia pesante carrozza pietroburghese a Vladikavkàz e di andare a cavallo fino a Tiflìs. Il conte Puškin non volle seguire il mio esempio. Preferì attaccare un'intera mandria di buoi al suo calesse, carico di provviste di ogni genere, e valicare così, maestosamente, la catena innevata. Ci separammo e io andai col colonnello Ogarëv, addetto alla sorveglianza delle strade locali.

La strada passava attraverso la zona franata che era crollata alla fine di giugno del 1827. Casi simili si verificano di solito ogni sette anni. Un'enorme massa di terra, precipitando, aveva riempito la gola per una versta e arginato il Térek. Le sentinelle che stazionavano più in basso avevano sentito un fragore spaventoso e avevano visto il fiume abbassarsi rapidamente, e in un quarto d'ora acquietarsi completamente ed esaurirsi. Il Térek impiegò due ore buone a farsi strada attraverso la frana. Tanto la frana era stata terribile!

Salivamo rapidamente sempre più in alto. I nostri cavalli s'impantanavano nella neve molle, sotto la quale gorgogliavano i ruscelli. Guardavo sorpreso la strada e non intravedevo la possibilità di percorrerla su ruote.

In quel momento sentii un sordo rimbombo. «È una valanga», mi disse il signor Ogarëv. Mi voltai indietro e vidi da una parte una massa di neve che s'era staccata e che scendeva lentamente dal pendio. Le piccole valanghe qui non sono rare.

L'anno scorso un vetturino russo stava salendo sul monte della Croce; una valanga si era staccata: quella massa spaventosa s'era abbattuta sul suo veicolo, aveva inghiottito carro, cavallo e uomo, aveva oltrepassato la strada ed era rotolata nell'abisso con la sua preda. Raggiungemmo la vetta della montagna. Vi era stata posta una croce di granito, vecchio monumento restaurato da Ermólov.

Qui i viaggiatori di solito scendono dalle vetture e vanno a piedi. Poco tempo fa vi è passato un console straniero, tanto debole da farsi bendare gli occhi; l'avevano accompagnato sottobraccio, e quando gli avevano sfilato la benda egli s'era inginocchiato, ringraziando Dio, ecc., cosa che aveva molto colpito le guide.

Il passaggio istantaneo dal Caucaso minaccioso alla graziosa Georgia è estasiante. L'aria del sud a un tratto comincia a soffiare sul viaggiatore. Dall'alto del monte Gut si apre la valle di Kajšaùr con le sue rocce abitate, i suoi giardini, la sua trasparente Aràgva, che serpeggia come un nastro d'argento, - e tutto questo in forma ridotta sul fondo di un abisso di tre verste, lungo il quale passa una strada pericolosa.

Scendevamo nella valle. La luna nuova apparve nel cielo sereno. L'aria serale era calma e tiepida. Passai la notte sulla riva dell'Aràgva, in casa del signor Èiljàev. Il giorno dopo mi separai dal cortese padrone di casa e proseguii il viaggio.

Qui cominciò la Georgia. Luminose vallate, irrigate dall'allegra Aràgva, sostituirono le gole tenebrose e il minaccioso Térek. Invece delle nude rocce mi vedevo attorno verdi montagne e alberi da frutta. Gli acquedotti testimoniavano la presenza della civiltà. Uno di questi mi colpì per la perfezione dell'illusione ottica: sembrava che l'acqua scorresse lungo il monte dal basso verso l'alto.

A Pajsanaùr mi fermai per cambiare i cavalli. Qui incontrai un ufficiale russo, che accompagnava un principe persiano. Presto sentii il suono dei sonagli, e tutta una fila di muli, legati uno all'altro e caricati all'asiatica, sfilò lungo la strada.

Mi avviai a piedi, senza aspettare i cavalli, e a mezza versta da Ananùr, su una curva della strada, incontrai Chozrev-Mirza. Le sue vetture erano ferme. Lui stesso si sporse fuori dalla sua carrozza e mi fece un cenno con la testa. Qualche ora dopo il nostro incontro il principe fu assalito dai montanari. Sentendo il fischio delle pallottole, Chozrev saltò fuori dalla carrozza, montò a cavallo, e partì al galoppo. I russi che lo scortavano si stupirono del suo coraggio. Il fatto è che il giovane asiatico, non abituato alla carrozza, vedeva in essa piuttosto una trappola che un rifugio.

Arrivai a piedi fino a Ananùr, senza avvertire stanchezza. I miei cavalli non arrivavano. Mi dissero che per la città di Dušét non rimanevano più di dieci verste, e mi rimisi in cammino a piedi. Ma non sapevo che la strada era in salita. Queste dieci verste contavano come venti buone.

Venne la sera; io continuavo a camminare, salendo sempre più in alto. Smarrire la strada era impossibile, ma a tratti il fango argilloso, formato dalle sorgenti, mi arrivava fino al ginocchio. Ero completamente esausto. L'oscurità aumentò. Sentivo ululare e abbaiare i cani e me ne rallegravo immaginando che la città non fosse lontana. Ma mi sbagliavo: abbaiavano i cani dei pastori georgiani, e ululavano gli sciacalli, bestie comuni da quelle parti. Maledicevo la mia impazienza, ma non c'era niente da fare. Finalmente avvistai delle luci e intorno a mezzanotte mi ritrovai in prossimità di case ombreggiate da alberi. Il primo passante si offrì di accompagnarmi dal sindaco e per questo pretese da me un abàz.

La mia apparizione dal sindaco, un vecchio ufficiale originario della Georgia, fece grande effetto. Chiesi in primo luogo una stanza in cui potessi spogliarmi, in secondo luogo un bicchiere di vino, in terzo luogo un abàz per il mio accompagnatore. Il sindaco non sapeva come accogliermi, e mi sbirciava perplesso. Vedendo che non si affrettava ad esaudire le mie richieste, cominciai a spogliarmi davanti a lui, chiedendo scusa de la liberté grande. Per fortuna mi trovai in tasca il foglio di viaggio, prova che ero un pacifico viaggiatore, e non Rinaldo Rinaldini. Il benedetto cartiglio sortì subito il suo effetto: la camera mi fu assegnata, il bicchiere di vino portato, e l' abàz sborsato alla mia guida con un paterno rimprovero per la sua cupidigia, che recava offesa all'ospitalità georgiana. Mi gettai sul divano, sperando dopo la mia impresa di sprofondare in un sonno da paladino: macché! le pulci, che sono molto più pericolose degli sciacalli, mi assalirono e non mi diedero pace per tutta la notte. Al mattino il mio servitore mi si presentò e mi annunciò che il conte Puškin aveva felicemente valicato coi buoi le montagne innevate ed era arrivato a Dušét. Dovevo affrettarmi! Il conte Puškin e Šernval' vennero a trovarmi e mi proposero nuovamente di proseguire il viaggio insieme. Lasciai Dušét con la piacevole prospettiva di passare la notte seguente a Tiflìs.

La strada continuava a essere gradevole e pittoresca, sebbene vedessimo di rado tracce di popolazione. A qualche versta da Garciskàl attraversammo il Kurà su un ponte antico, ricordo delle spedizioni romane, e di buon trotto, o di tanto in tanto anche al galoppo, ci dirigemmo verso Tiflìs, dove senza accorgercene ci ritrovammo intorno alle undici di sera.

II

Tiflìs - I bagni pubblici - Hassan, l'uomo senza naso - Usanze georgiane - Canzoni - Il vino di Kachétija - Il motivo del caldo -

Il carovita - Descrizione della città - Partenza da Tiflìs - Notte georgiana - Panorama dall'Armenia - La doppia tappa - Un villaggio armeno - Gergéry - Griboédov - Il Bezobdàl - La sorgente minerale - Tempesta in montagna - Pernottamento a Gùmry - L'Araràt - La frontiera - Ospitalità turca - Kars - Una famiglia armena - Partenza da Kars - L'accampamento del conte Paskéviè.

Mi fermai in una locanda e il giorno dopo mi recai ai famosi bagni di Tiflìs. La città mi parve molto popolata. Le costruzioni asiatiche e il bazar mi ricordarono Kišinëv. Per le strade strette e tortuose correvano gli asini con le ceste sui fianchi; i carri tirati dai buoi ostruivano la strada. Armeni, georgiani, circassi, persiani si accalcavano su una piazza di forma irregolare; in mezzo a loro alcuni giovani funzionari russi passavano a cavallo su stalloni di Karabàch. All'ingresso dei bagni era seduto il tenutario, un vecchio persiano. Egli mi aprì la porta, entrai in una stanza spaziosa, e che cosa vidi? Più di cinquanta donne, giovani e vecchie, semisvestite o del tutto svestite, sedute e in piedi si svestivano e vestivano su panche disposte lungo le pareti. Io mi fermai. «Andiamo, andiamo», mi disse il padrone, «oggi è martedì: il giorno delle donne. Non fa niente, non è un guaio», «Certo che non è un guaio» gli risposi, «al contrario». La comparsa degli uomini non produsse alcuna impressione. Esse continuarono a ridere e a chiacchierare fra loro. Neanche una che s'affrettasse a coprirsi con la sua càdra, neanche una che smettesse di spogliarsi. Sembrava che fossi invisibile. Molte di loro erano effettivamente bellissime e confermavano l'immaginazione di T. Moore:

... a lovely Georgian maid,

With all the bloom, the freschen'd glow

Of her own country maiden's looks,

When warm they rise from Teflis' brooks.

Lalla Rookh

In compenso non conosco nulla di più repellente delle vecchie georgiane: sono streghe.

Il persiano m'introdusse nei bagni: l'acqua sorgiva bollente, ferroso-sulfurea, si versava in una profonda vasca, intagliata nella roccia. Da che son nato non ho mai trovato, né in Russia né in Turchia, niente di più lussuoso dei bagni di Tiflìs. Ne darò una descrizione dettagliata.

Il padrone mi affidò alle cure di un inserviente tartaro. Devo confessare che non aveva il naso; questo non gli impediva di essere un maestro nel suo mestiere. Hassan (così si chiamava il tartaro senza naso) cominciò col farmi distendere sul tiepido pavimento di pietra; dopo di che prese a torcermi le membra, a tirarmi le articolazioni, a battermi forte col pugno; non provavo il minimo dolore, ma anzi un incredibile sollievo. (Gli inservienti asiatici qualche volta si lasciano prendere dall'entusiasmo, vi saltano sulle spalle, vi scivolano coi piedi lungo le costole e vi ballano sulla schiena alla russa, e sempre bene). Dopo di che mi strofinò a lungo con un guanto di lana e, dopo avermi versato addosso un forte getto d'acqua calda, cominciò a lavarmi con un sacchetto di tela insaponata. Sensazione indefinibile: il sapone scorrendo vi avvolge come aria!

(N.B.: il guanto di lana e il sacchetto di tela devono essere assolutamente introdotti nei bagni russi: gli intenditori saranno grati di quest'innovazione). Dopo il sacchetto Hassan mi fece immergere nella vasca, e con questo ebbe termine la cerimonia.

A Tiflìs speravo di trovare Raévskij, ma, saputo che il suo reggimento si era già messo in marcia, decisi di chiedere al conte Paskéviè il permesso di raggiungere l'armata.

Mi trattenni a Tiflìs circa due settimane e feci conoscenza della società locale. Sankóvskij, l'editore delle «Notizie di Tiflìs», ebbe modo di raccontarmi molte cose interessanti su questa regione, sul principe Ciciànov, su A.P. Ermólov, e così via.

Sankóvskij ama la Georgia e prevede per lei un brillante avvenire.

La Georgia invocò la protezione della Russia nel 1783, cosa che non impedì al famoso Aga-Mohamed di prendere e saccheggiare Tiflìs e di portarne via prigionieri i suoi ventimila abitanti (nel 1795). La Georgia passò sotto lo scettro dell'imperatore Alessandro nel 1802. I georgiani sono un popolo guerriero. Hanno dato prova del loro coraggio sotto i nostri vessilli. Le loro capacità intellettuali sono in attesa di una maggiore istruzione. In genere hanno un carattere allegro e socievole. Durante le feste gli uomini bevono e si divertono per le strade. I ragazzi dagli occhi neri cantano, spiccano salti e fanno capriole; le donne danzano la lezgìnka.

La melodia delle canzoni georgiane è piacevole. Me ne hanno tradotta una parola per parola; sembra che sia stata composta in tempi molto recenti; in essa è una certa assurdità orientale, che ha una sua dignità poetica. Eccola: Anima, da poco nata in paradiso! Anima, creata per

la mia felicità! da te, immortale, aspetto la vita.

Da te, primavera in fiore, da te, luna di due settimane,

da te, angelo mio custode, da te aspetto la vita.

Tu risplendi nel viso e rallegri col sorriso. Non voglio

possedere il mondo; voglio il tuo sguardo. Da te aspetto la vita.

Rosa di montagna, rinfrescata di rugiada! Eletta favorita

della natura! Quieto, celato tesoro! da te aspetto la vita.

I georgiani bevono - e non come noi, ma sono incredibilmente resistenti. I loro vini non sopportano l'esportazione e si guastano presto, ma sul posto sono eccellenti. Il vino di Kachétija e quello di Karabàch valgono quanto alcuni della Borgogna.

Il vino viene conservato nei maràn, enormi anfore che si tengono sottoterra. Vengono aperte con riti solenni. Di recente un dragone russo, dopo aver dissotterrato di nascosto una di queste anfore, vi era caduto dentro ed era annegato nel vino di Kachétija, come l'infelice Clarence in una botte di malaga.

Tiflìs si trova sulle rive del Kurà, in una valle circondata da montagne rocciose. Esse la riparano da ogni parte dai venti e, arroventandosi al sole, non riscaldano, ma rendono addirittura bollente l'aria immobile. Ecco la ragione delle insopportabili calure che regnano a Tiflìs, nonostante che la città si trovi solo al 41o di latitudine. Il suo stesso nome ( Tbilìs-kalar) significa città calda.

Gran parte della città è costruita all'asiatica: le case sono basse, i tetti piatti. Nella parte settentrionale sorgono abitazioni di architettura europea, e nei loro pressi cominciano a formarsi piazze regolari. Il bazar è suddiviso in varie file; le botteghe abbondano di mercanzie turche e persiane, abbastanza a buon prezzo se si tiene conto del carovita generale. Le armi di Tiflìs sono molto stimate in tutto l'Oriente. Il conte Samójlov e V., che qui si conquistarono fama di eroi leggendari, di solito provavano le loro sciabole nuove trinciando d'un colpo un montone in due parti, o staccando la testa a un toro.

A Tiflìs la maggioranza della popolazione è costituita dagli armeni: nel 1825 ve ne erano circa 2500 famiglie. Nel corso delle ultime guerre il loro numero è ancora aumentato. Di famiglie georgiane se ne contano all'incirca 1500. I russi non si considerano abitanti del luogo. I militari, rispettando il dovere, vivono in Georgia perché così è stato loro ordinato. I giovani consiglieri titolari vengono qui per acquistarsi il grado tanto bramato di assessore. Questi e quelli considerano la Georgia come un esilio.

Il clima di Tiflìs, dicono, è malsano. Le febbri di qui sono terribili; vengono curate col mercurio, il cui uso è innocuo per via del caldo. I medici lo somministrano in forti dosi ai pazienti senza alcuno scrupolo. Il generale Šipjàgin dicono sia morto perché il suo medico curante, venuto con lui da Pietroburgo, aveva avuto paura del trattamento praticato dai dottori locali, e non l'aveva applicato al malato. Le febbri di qui assomigliano a quelle della Crimea e della Moldavia, e si curano allo stesso modo.

Gli abitanti bevono l'acqua del Kurà, torbida ma piacevole al gusto. In tutte le sorgenti e in tutti i pozzi l'acqua sa molto di zolfo. Comunque l'uso del vino qui è talmente generalizzato che la mancanza d'acqua passerebbe inosservata.

A Tiflìs mi ha sorpreso lo scarso valore del denaro. Dopo aver percorso con il vetturino due strade e averlo rimandato indietro nel giro di mezz'ora, dovetti pagare due rubli in argento. Sulle prime pensai che il vetturino volesse sfruttare l'ignoranza di un nuovo venuto, ma mi dissero che il prezzo era proprio quello. Tutto il resto è caro in proporzione.

Andammo alla colonia tedesca e vi pranzammo. Bevemmo della birra fatta sul posto, di gusto pessimo, e pagammo molto caro un pranzo molto cattivo. Nella mia locanda mi davano da mangiare altrettanto a caro prezzo e male. Il generale Strekàlov, noto gastronomo, un giorno m'invitò a pranzo; disgraziatamente le pietanze venivano servite a seconda del grado, e a tavola c'erano degli ufficiali inglesi con spalline da generali. I servi saltavano il mio turno con tanto zelo che mi alzai da tavola affamato. Al diavolo il gastronomo di Tiflìs!

Aspettavo con impazienza che si decidesse la mia sorte. Finalmente ricevetti un biglietto da Raévskij. Mi scriveva di affrettarmi a Kars, perché di lì a pochi giorni l'esercito avrebbe dovuto rimettersi in marcia. Partii l'indomani stesso.

Andavo a cavallo, cambiando cavalcatura nei posti di guardia cosacchi. Intorno a me la terra era screpolata dall'arsura.

I villaggi georgiani da lontano mi sembravano bellissimi giardini, ma quando mi avvicinavo ad essi vedevo misere capanne, ombreggiate da pioppi polverosi. Il sole era tramontato, ma l'aria continuava a essere soffocante: Notti torride!

Estranee stelle!...

La luna splendeva; tutto era quieto; solo lo scalpitio del mio cavallo si diffondeva nel silenzio della notte. Cavalcai a lungo, senza incontrare tracce di abitazioni. Finalmente scorsi una capanna isolata. Mi misi a bussare alla porta. Uscì il padrone. Chiesi dell'acqua prima in russo, poi in tartaro. Lui non mi capì. Che stupefacente noncuranza! a trenta verste da Tiflìs e sulla strada che va in Persia e in Turchia, non sapeva una parola né di russo, né di tartaro.

Dopo aver trascorso la notte nel posto di guardia cosacco, all'alba proseguii. La strada passava per i monti e i boschi.

Incontrai dei tartari in viaggio; in mezzo a loro c'erano diverse donne. Stavano a cavallo, avvolte nelle càdre; di loro non si vedevano che gli occhi e i tacchi.

Cominciai a salire sul Bezobdàl, il monte che separa la Georgia dall'antica Armenia. Una strada larga, ombreggiata dagli alberi, serpeggia intorno alla montagna. Sulla cima del Bezobdàl passai attraverso una piccola gola, che si chiama, mi pare, la Porta dei Lupi, e mi ritrovai sul confine naturale della Georgia. Mi si presentarono nuovi monti, un nuovo orizzonte; sotto di me si stendevano fertili campi verdi. Diedi ancora una volta uno sguardo alla Georgia riarsa e cominciai a scendere per il dolce pendio del monte verso le fresche pianure dell'Armenia. Con indescrivibile piacere notai che l'afa era improvvisamente diminuita: il clima era cambiato.

L'uomo che mi accompagnava con i cavalli da soma era rimasto indietro. Cavalcavo da solo in un deserto fiorito, circondato in lontananza dalle montagne. Nella distrazione oltrepassai il posto di guardia dove avrei dovuto cambiare i cavalli.

Passarono più di sei ore, e io cominciai a meravigliarmi della lunghezza della tappa. Scorsi da una parte mucchi di pietre simili a capanne, e mi diressi verso di esse. Ero effettivamente arrivato in un villaggio armeno. Alcune donne in stracci variopinti sedevano sul tetto piatto di una capanna sotterranea. Mi feci capire in qualche modo. Una di loro scese nella capanna e mi portò del formaggio e del latte. Dopo essermi riposato qualche minuto ripartii, e sulla riva alta del fiume vidi avanti a me la fortezza di Gergéry. Tre torrenti con fragore e schiuma si precipitavano dall'alto della riva. Attraversai il fiume. Due buoi aggiogati a un carro salivano lungo la strada ripida. Diversi georgiani accompagnavano il carro. «Di dove siete?», chiesi loro.

«Di Teheran». - «E che cosa trasportate?». « Griboéd». Era il corpo di Griboédov assassinato, che veniva scortato a Tiflìs.

Non pensavo che avrei più rincontrato un giorno il nostro Griboédov! Ci eravamo lasciati l'anno prima, a Pietroburgo, prima della sua partenza per la Persia. Era triste e aveva strani presentimenti. Avevo cercato di tranquillizzarlo; mi aveva detto:

« Vous ne connaissez pas ces gens-là: vous verrez qu'il faudra jouer des couteaux». Supponeva che la morte dello scià e la guerra intestina fra i suoi settanta figli sarebbe stata causa di uno spargimento di sangue. Invece il vecchissimo scià è ancora vivo, ma le parole profetiche di Griboédov si sono avverate. È finito sotto i pugnali dei persiani, vittima dell'ignoranza e della slealtà. Il suo cadavere sfigurato, offerto per tre giorni al ludibrio della plebaglia di Teheran, è stato riconosciuto solo per via di una mano, una volta attraversata da un colpo di pistola.

Conobbi Griboédov nel 1817. Il suo carattere malinconico, la sua intelligenza esacerbata, la sua bontà d'animo, le stesse debolezze e i vizi, inevitabili compagni dell'essere umano, tutto in lui era straordinariamente affascinante. Nato con un'ambizione pari alle sue doti, era stato a lungo irretito da meschine necessità e dalla mancanza di notorietà. Le qualità dell'uomo di stato erano rimaste non sfruttate; il suo talento di poeta non era stato riconosciuto; per qualche tempo perfino il suo freddo e brillante coraggio erano stati messi in dubbio. Alcuni amici ne conoscevano il valore e vedevano un sorriso d'incredulità, quel sorriso stupido, insopportabile, quando accadeva loro di parlare di lui come di un uomo straordinario. Le persone credono solo alla fama, e non capiscono che in mezzo a loro può trovarsi un Napoleone che non ha comandato neppure una compagnia di cacciatori a cavallo, o un altro Descartes che non abbia pubblicato neppure una riga sul «Telegrafo di Mosca». Del resto può essere che il nostro rispetto per la gloria derivi dall'amor proprio: nel complesso della gloria, infatti, entra anche la nostra voce.

La vita di Griboédov fu oscurata da qualche nube: conseguenza di ardenti passioni e di circostanze di forza maggiore.

Egli avvertì la necessità di saldare una volta per sempre il conto con la sua giovinezza e di dare una brusca svolta alla sua vita.

Diede addio a Pietroburgo e alla vana dissipatezza, partì per la Georgia, dove trascorse otto anni in studi solitari, incessanti. Il suo ritorno a Mosca nel 1824 segnò il capovolgimento della sua sorte e l'inizio di ininterrotti successi. Il manoscritto della sua commedia Che disgrazia l'ingegno produsse un effetto indescrivibile e improvvisamente lo mise a fianco dei nostri primi poeti.

Qualche tempo dopo, la perfetta conoscenza della regione in cui era cominciata la guerra gli aprì un nuovo campo; fu nominato ambasciatore. Arrivato in Georgia, sposò colei che amava... Non conosco nulla di più invidiabile degli ultimi anni della sua vita burrascosa... La morte stessa, che lo ha colpito nel corso di un intrepido, impari combattimento, non ha avuto per Griboédov niente di terribile, niente di penoso. È stata istantanea e bellissima.

Peccato che Griboédov non abbia lasciato memorie! Scrivere la sua biografia sarebbe compito degli amici, ma le persone straordinarie da noi scompaiono senza lasciare traccia. Siamo pigri e manchiamo di curiosità...

A Gergéry incontrai Buturlìn, che, come me, stava recandosi al fronte. Buturlìn viaggiava concedendosi tutti i capricci possibili. Pranzai da lui come se fossimo stati a Pietroburgo. Stabilimmo di viaggiare insieme; ma il demone dell'impazienza s'impadronì nuovamente di me. Il mio servitore mi chiese il permesso di riposare. Partii da solo, senza neppure una guida. La strada era una sola e perfettamente sicura.

Valicata una montagna e sceso in una valle ombreggiata da alberi, vidi una sorgente d'acqua minerale, che scorreva attraverso la strada. Qui incontrai un prete armeno, che andava da Erivàn ad Achalcýk. «Che c'è di nuovo a Erivàn?», gli chiesi. «A Erivàn c'è la peste», mi rispose; «e che si dice di Achalcýk?». «Ad Achalcýk c'è la peste», gli risposi. Dopo esserci scambiati queste piacevoli notizie ci separammo.

Cavalcavo in mezzo a fertili campi e praterie in fiore. La messe ondeggiava, in attesa della falce. Ammiravo la bellissima terra, della quale la fertilità è diventata proverbiale in oriente. Verso sera arrivai a Perniké. Qui c'era un posto di guardia cosacco. Il sottufficiale mi predisse una tempesta e mi consigliò di fermarmi a pernottare lì, ma io volevo a tutti i costi raggiungere Gùmry in giornata.

Mi si prospettava il valico di montagne non molto alte, la frontiera naturale del Pasalýk di Kars. Il cielo era coperto di nubi; speravo che il vento, che si andava sempre più rafforzando, le avrebbe disperse. Ma la pioggia cominciò a picchiettare, e venne giù sempre più grossa e più fitta. Da Perniké a Gùmry si contano ventisette verste. Mi serrai le cinghie del mantello, sollevai il cappuccio sul berretto e mi affidai alla provvidenza.

Trascorsero più di due ore. La pioggia non finiva. L'acqua colava a ruscelli giù dal mio mantello appesantito e dal cappuccio inzuppato di pioggia. Alla fine un rivolo freddo cominciò a insinuarsi dentro il bavero, e presto la pioggia mi penetrò fino alle ossa. La notte era buia; un cosacco mi precedeva indicandomi la strada. Cominciammo a salire sulle montagne. Nel frattempo la pioggia cessò e le nuvole si diradarono. A Gùmry mancavano una decina di verste. Il vento, soffiando in libertà, era tanto forte che in un quarto d'ora mi asciugò completamente. Pensavo che non avrei scampato una bella febbre. Finalmente raggiunsi Gùmry intorno a mezzanotte. Il cosacco mi condusse direttamente al posto di guardia. Ci fermammo presso una tenda nella quale mi affrettai a entrare. Vi trovai dodici cosacchi, che dormivano uno vicino all'altro. Mi fecero posto; mi buttai sul mantello come privo di sensi dalla stanchezza. Quel giorno avevo percorso settantacinque verste. Mi addormentai come morto.

I cosacchi mi svegliarono all'alba. Il mio primo pensiero fu: non avrò per caso la febbre? Ma sentii che grazie a Dio ero sano e salvo; non c'era in me nessuna traccia non solo di malattia, ma neppure di stanchezza. Uscii dalla tenda all'aria fresca del mattino. Il sole stava sorgendo. Sul cielo sereno biancheggiava, innevata, una montagna a due cime. «Che montagna è quella?», domandai, stiracchiandomi, e udii in risposta: «È l'Araràt». Com'è forte l'effetto dei suoni! Guardavo la montagna biblica, vedevo l'arca approdata alla sua vetta con una speranza di rinnovamento e di vita - e il corvo e la colomba volarne fuori, simboli del castigo e della riconciliazione...

Il mio cavallo era pronto. Mi misi in viaggio con una guida. La mattinata era bellissima. Il sole splendeva.

Cavalcavamo per una vasta prateria, sopra l'erba folta e verde, bagnata dalla rugiada e dalle gocce di pioggia del giorno prima.

Davanti a noi brillava un fiumicello, attraverso il quale dovevamo passare. «Ecco l'Arpaèàj», mi disse il cosacco. L'Arpaèàj! Il nostro confine! Questo valeva l'Araràt. Galoppai verso il fiume con un sentimento inesprimibile. Non avevo mai visto una terra straniera. La frontiera aveva per me qualcosa di misterioso; fin dagli anni d'infanzia i viaggi erano stati il mio sogno preferito.

A lungo poi avevo condotto una vita nomade, errando ora al sud, ora al nord, e non mi ero ancora arrischiato fuori dai confini dell'immensa Russia. Entrai allegramente nel fiume sacro, e il buon cavallo mi portò sulla riva turca. Ma quella riva era stata già conquistata: mi trovavo ancora in Russia.

Fino a Kars mi restavano ancora settantacinque verste. In serata speravo di avvistare il nostro accampamento. Non mi fermai da nessuna parte. A metà strada, in un villaggio armeno costruito sui monti in riva a un fiumicello, al posto del pranzo mangiai il maledetto cùrek, il pane armeno cotto a forma di focaccia, fatto per metà di cenere, che ispirava tanta nostalgia ai prigionieri turchi nella gola di Dariàl. Avrei dato chissà che per un pezzo di pane nero russo, che riusciva loro tanto sgradito.

Mi accompagnava un giovane turco, un tremendo chiacchierone. Per tutta la strada chiacchierò in turco, senza preoccuparsi se lo capissi o meno. Facevo uno sforzo d'attenzione e tentavo d'indovinare. Sembrava che insultasse i russi e, abituato a vederli tutti in uniforme, dal vestito mi aveva preso per uno straniero. Quand'ecco venirci incontro un ufficiale russo. Veniva dal nostro accampamento e mi annunciò che l'esercito aveva già lasciato Kars. Non posso descrivere la mia disperazione: il pensiero che sarei dovuto tornare a Tiflìs, dopo essermi stremato inutilmente nell'Armenia deserta, mi atterriva. L'ufficiale ripartì per la sua meta; il turco riprese il suo monologo, ma ormai avevo altro per la testa. Passai dall'ambio al gran trotto e la sera arrivai in un villaggio turco che si trovava a venti verste da Kars. Saltato giù da cavallo, feci per entrare nella prima capanna, ma sulla porta apparve il padrone che mi ricacciò indietro con insulti. Risposi alla sua accoglienza con lo scudiscio. Il turco si mise a strillare; si raccolse gente. La mia guida a quanto pare interferì a mio favore. Mi fu indicato il caravanserraglio; entrai in una grande capanna simile a una stalla; non c'era posto dove potessi stendere il mantello. Cominciai a pretendere un cavallo. Mi si presentò il capovillaggio turco. A tutti i suoi discorsi incomprensibili rispondevo una cosa sola: verbana at, dammi un cavallo. I turchi non acconsentivano. Finalmente ebbi l'intuizione di mostrare loro del denaro (cosa dalla quale avrei dovuto incominciare). Mi fu immediatamente portato il cavallo, e mi fu data una guida.

Andai per un'ampia valle, circondata da montagne. Presto vidi Kars, che biancheggiava su una di esse. Il mio turco me la indicava ripetendo: Kars, Kars! e spronò al galoppo il suo cavallo; io lo seguivo, tormentato dall'inquietudine: a Kars si sarebbe dovuta decidere la mia sorte. Lì avrei appreso dove si trovava il nostro accampamento e se avrei avuto ancora la possibilità di raggiungere l'esercito. Nel frattempo il cielo si coprì di nuvole e riprese a piovere, ma io non me ne curavo più.

Entrammo a Kars. Avvicinandomi alla porta delle mura sentii un tamburo russo: battevano la diana. La sentinella mi prese il salvacondotto e si recò dal comandante. Rimasi sotto la pioggia circa mezz'ora. Alla fine mi lasciarono passare.

Ordinai alla guida di condurmi direttamente ai bagni. Andammo per strade tortuose e ripide; i cavalli scivolavano sul pessimo selciato turco. Ci fermammo davanti a una casa, piuttosto malconcia a vedersi. Erano i bagni. Il turco scese da cavallo e si mise a bussare alla porta. Nessuno rispondeva. La pioggia mi si rovesciava addosso a dirotto. Finalmente da una casa accanto uscì un giovane armeno e, dopo aver trattato col mio turco, m'invitò a entrare da lui, spiegandosi in un russo abbastanza corretto.

Mi condusse per una scala stretta nel secondo corpo della sua casa. In una stanza arredata da divani bassi e da logori tappeti sedeva una vecchia, sua madre. Ella mi si avvicinò e mi baciò la mano. Il figlio le ordinò di attizzare il fuoco e di prepararmi la cena. Io mi spogliai e mi sedetti davanti al fuoco. Entrò il fratello minore del padrone, un ragazzo sui diciassette anni. Entrambi i fratelli erano stati a Tiflìs e vi avevano vissuto qualche mese. Mi dissero che le nostre truppe s'erano messe in marcia il giorno prima e che il nostro accampamento si trovava a venticinque verste da Kars. Mi tranquillizzai completamente. La vecchia mi preparò in fretta del montone con la cipolla, che mi parve il massimo dell'arte culinaria. Ci coricammo tutti nella stessa stanza; io mi stesi davanti al camino che si andava spegnendo e mi addormentai nella piacevole speranza di vedere l'indomani l'accampamento del conte Paskéviè.

Al mattino andai a fare un giro della città. Il più giovane dei miei ospiti si offrì di farmi da cicerone. Osservando le fortificazioni e la cittadella, costruita su una roccia inaccessibile, non capivo in che modo fossimo riusciti a impadronirci di Kars. Il mio armeno mi spiegava come meglio poteva le azioni militari delle quali era stato testimone. Notando in lui una passione per la guerra, gli proposi di entrare nell'esercito con me. Accettò immediatamente. Lo mandai a cercare dei cavalli.

Apparve insieme a un ufficiale, che pretese da me una richiesta scritta. A giudicare dai tratti asiatici del suo viso non ritenni necessario mettermi a frugare nelle mie carte e cavai fuori di tasca il primo foglietto che mi capitò. L'ufficiale, dopo averlo esaminato con gravità, ordinò subito di portare a sua eccellenza dei cavalli secondo richiesta e mi restituì la mia carta: era l'epistola a una calmucca, da me abbozzata in una delle stazioni di posta caucasiche. Mezz'ora dopo partii da Kars e Artémij (così si chiamava il mio armeno) già galoppava accanto a me su uno stallone turco con un giavellotto flessibile in mano, il pugnale alla cintura, e farneticando di turchi e di battaglie.

Cavalcavo su una terra tutta coltivata a grano; intorno si vedevano villaggi, ma erano vuoti: gli abitanti erano fuggiti.

La strada era bellissima e lastricata nei punti paludosi - attraverso i ruscelli erano stati gettati dei ponti di pietra. Il terreno si alzava visibilmente - le prime colline della catena del Sagan-lu (l'antico Tauro) cominciavano ad apparire. Trascorsero circa due ore; salii su un dolce pendio e vidi improvvisamente il nostro accampamento, situato sulla riva del Kars-èaj; qualche minuto dopo ero già nella tenda di Raévskij.