Poi è arrivato settembre e la luce cominciava a scemare. Cosí un sabato, prima di muovermi verso un piccolo vernissage organizzato da Luigi, sono tornato a osservare il tramonto sul belvedere del Gianicolo.

Il tempo era buono, la temperatura gradevole, assenza di vento, solo qualche addensamento di nubi, alle 19,40 il sole era già sotto l’orizzonte e la luce residua descriveva due archi. Il primo, alla base, di colore giallo, ampio, come se il sole avesse fatto un grosso respiro e si fosse gonfiato, prima di immergersi – e chissà perché pensavo all’aggettivo struggente –, e l’altro, piú piccolo, di colore arancione: ho sperato che diventasse rosso brace, ma niente – ecco vedi, ho pensato ancora, non ce la fa, per questo è struggente.

Intorno alle venti il sole è andato via, e un piccolo puntino luminoso, Mercurio, ha brillato di luce riflessa, poi è sparito, e proprio davanti al mio sguardo ecco Saturno e poi, perfettamente allineato, sulla parallela, è apparso Marte. Alle 20,15 i due pianeti si sono accesi di luce, piú grandi e con i contorni netti.

Incredibile, ho avuto la sensazione di essere già a Natale, poi ancora avanti col tempo, un mese dopo, il 22 gennaio, il mio compleanno, cinquant’anni, dunque un anno solo prima dei cinquantuno, il set point della felicità.

È cosí che funziono. Mi proietto in avanti, il presente non mi basta e nemmeno me lo godo. Tanto per dire: l’estate comincia il 21 giugno, il solstizio d’estate, no? Il giorno piú lungo dell’anno, appunto, ma già il 22 le giornate cominciano ad accorciarsi, di poco, impercettibilmente, dicono i manuali. Una legge fisica. Non che mi ricordassi esattamente come funziona la questione, ma Amedeo una mattina – era molto presto –, dopo vari smadonnamenti, mi aveva ricordato che l’asse di rotazione della Terra e il piano dell’orbita non sono perpendicolari, s’incontrano invece con un angolo di circa 23,5 gradi, e quindi, aveva precisato dopo qualche mugugno, nel nostro emisfero, e per tutto l’inverno, il Sole sale ogni giorno un po’ piú del Sole di ieri (rispetto all’orizzonte), fino ad arrivare all’altezza massima il 21 giugno, per poi iniziare la sua inesorabile discesa. Aveva detto cosí: inesorabile. Lui da astrofisico aveva usato l’aggettivo giusto: inesorabile. E il tutto si conclude solitamente il 21 o il 22 dicembre, quando il ciclo ricomincia.

– Hai capito? – m’aveva chiesto, perché il mio silenzio dall’altro capo del filo era tangibile. – Ricomincia, tutto ricomincia.

– Ho capito solo inesorabile, cioè… – e avevo consultato Google. – «Contro cui nulla può la volontà dell’uomo».

Cosí, sul Gianicolo, ore 20,30, Marte e Saturno ormai bassi sull’orizzonte – li ho visti sparire, in alto Altair e Vega –, ho acceso la moto e via verso il vernissage di Luigi. La sua installazione alla Biennale era stata un successo, buone critiche e tanti inviti internazionali, cosí aveva affittato un locale per dare una festa, una cosa ristretta, solo una trentina di persone. Ricco buffet, vino in calici di vetro, divani, angoli in cui appartarsi, ampie finestre per poter fumare in pace, un paio di dj davanti a un computer e su un piccolo palco due chitarre e un violino.

Però, particolare importante: per accedere alla festa bisognava indossare degli occhiali con una speciale videocamera, simili ai Google Glass, realizzati per l’occasione, e poi a fine party compilare un modulo. Poteva sembrare una stranezza – eravamo tutti eleganti e non sempre gli occhiali facevano pendant con il vestito –, ma Luigi c’aveva già spiegato che stavamo partecipando a una festa sperimentale, un gioco, e insomma: tranquilli e divertitevi, bevete, fumate, fate quello che vi pare.

I due dj vestivano con colori troppo sgargianti, anni Ottanta, e credo che la mise fosse un omaggio all’installazione di Luigi – il corpo – e comunque tenevano la musica a basso volume, un sottofondo. A un certo punto è partita Collider di Jon Hopkins, suoni techno, notturni, inquieti, e allora, spinto dal basso ansimante e ripetitivo, ho preso un bicchiere di vino bianco e mi sono diretto verso i quattro angoli della sala, uno dopo l’altro, cosí, per avere un buon punto di osservazione: c’erano Paola con Augusto (e ridevano, ridevano), Giacomo che accordava una chitarra (s’era tinto i capelli? erano meno bianchi), Luigi e Alessandra (e qualche amante di Luigi), vari hipster e tante ragazze. E dopo un po’ che girovagavo mi sono unito casualmente a un gruppetto di persone, due ragazze e un ragazzo, li conoscevo di vista, stavano parlando di sentimenti e allora:

– Che si dice? – ho chiesto.

E poi ho cercato di fare l’intellettuale, e allora un mio classico: la magic washing machine di Hans Rosling. La lavatrice ha fornito tempo libero alle donne e cosí, mentre la nonna di Rosling lavava i panni per tre giorni (anche mia nonna) al fiume, sua madre grazie alla lavatrice ha guadagnato tempo, e cosa ha detto al giovane Rosling? Leggiamo un libro. Dunque dalla lavatrice non escono solo i panni puliti ma anche i libri.

– Se pensate, – mi guardavano con questi occhiali e io guardavo loro, – che negli anni compresi tra… – tra…? Ho preso il cellulare, mi ero annotato dei dati. – … il 1870 e il 1950, la percentuale mondiale della popolazione in grado di leggere e scrivere è cresciuta da un quarto a metà, mentre dal 1950 al 2000 è arrivata a quattro quinti… E il progresso è stato particolarmente incoraggiante per le donne, – le due ragazze si sono messe a ridere perché leggevo. – Tutto fa pensare che la prossima esplosione creativa sarà femminile.

Poi ho domandato a tutti – molto piú sciolto, grazie al vino e la techno di Jon Hopkins, ora andava Breathe This Air: – Adesso che condividiamo le ambizioni creative, possiamo abbandonare i vecchi ruoli uomo/donna e goderci rilassati il rapporto d’amore? Voglio dire: i sentimenti post lavatrice contengono una notevole promessa di felicità… – saliva la musica, saliva, – … la vecchia idea di Platone: siamo liberi, dobbiamo essere felici. E insomma la questione è: siamo piú liberi di mia nonna? Sí?

Sí sí, dicono tutti.

– Tuttavia, – ho ripreso, – l’amore, quello su cui facciamo affidamento per la nostra felicità, è un sentimento relativamente giovane. Mia nonna si è sposata con mio nonno per mettere insieme la dote. Voglio dire… – Mi seguivano? Pareva di sí. Una ragazza ha chiuso gli occhi, si stava abbandonando alla musica o alle mie parole, alla musica credo. – L’amore sta nascendo ora, nell’era post lavatrice. Una volta ho letto una lettera della posta del cuore: una lettrice si presenta e dice: buongiorno, mi chiamo Giovanna e ho un dottorato di ricerca, dice cosí, come fosse un cognome. Frequenta un ragazzo con cui va tutto bene, ma una sera lui la bacia solo sulla fronte e se ne va a dormire. Lei ci resta un po’ male. Il giorno dopo, per caso (lei dice), consulta la cronologia del pc del ragazzo e che scopre? – Faccio una pausa per creare suspense. – Che la sera prima il ragazzo, dopo averle dato la buonanotte, ha guardato siti porno. Domanda: ma perché mai un ragazzo preferisce il corpo virtuale di una pornostar a quello in carne e ossa della sua ragazza?

– Perché siete delle merde, – ha risposto una delle due ragazze, e poi mi ha dato la mano: – Rosaria.

– Ma se ci pensate bene, – ho continuato io stringendo la mano a Rosaria, – ci potrebbe essere un’altra spiegazione: il ragazzo guarda i porno perché le pornostar non hanno il dottorato di ricerca, e nemmeno lo richiedono. Dunque i sentimenti post lavatrice potrebbero causare conflitti perché gli antichi codici maschio/femmina stanno mutando, e con essi anche l’idea di felicità, perciò bisogna fare i conti con nuovi conflitti.

E qui il ragazzo del gruppo – a guardarlo meglio aveva il suo fascino, il modo in cui teneva il bicchiere, e il maglione leggero e slabbrato, jeans e stivaletti Blundstone… mi stava antipatico – ha detto che con le donne adotta una tecnica semplice: le fa parlare tanto, e funziona. Gli ho sorriso, e lui mi ha sorriso, ma continuava a starmi antipatico.

– Giovanni, – e mi ha teso la mano, una stretta forte.

– Antonio.

– Voi donne vi state trasformando, – ha continuato Giovanni e guardava Rosaria accigliato, – in persone complicate.

Io intanto notavo un’incredibile quantità di stivaletti Blundstone. Del resto, anche io li indossavo.

– Cioè, qua ormai si sono creati ruoli ancora piú fissi che in passato: o avete problemi e volete essere ascoltate, o fate ridere e volete che ridiamo, – Giovanni era serio. – Anzi, piú avete problemi piú fate ridere, ma non ridete di voi stesse, no, sfottete gli altri.

– Cioè, – ho chiesto. – Non ti piacciono le donne spiritose?

– Perché, a te piacciono? – mi ha sorriso di nuovo.

– A me sí, – ho risposto. – Siccome sono stato un adolescente brutto…

– Sei stato? – si è inserita Rosaria.

– Hai visto? – è intervenuto Giovanni. – Lui dice una cosa e loro subito puntualizzano, vabbè, Antonio è brutto, e allora?

– E allora, – ho ripreso io, – siccome sono brutto ho cercato di far ridere le donne, e quindi, sai, ora mi fa piacere se una donna mi fa ridere, mi rilassa molto.

– Ora? – ha chiesto Rosaria, e mi ha fatto l’occhiolino.

Giovanni ha alzato le spalle: – Vogliamo dire la verità? Le donne che fanno ridere sono il contrario esatto dell’erotismo, anche perché il sesso è una cosa seria.

– Veramente siete voi uomini che vi state trasformando, – la ragazza che aveva chiuso gli occhi adesso li aveva aperti. Monica: si è presentata con un sorriso. Wow, ho pensato, non ha le Blundstone. – Cioè, vi siete visti? Maschi in giro non ce ne sono. Spariti, – e ha guardato Giovanni.

Io mi sono sentito in difficoltà. Dunque per richiamare l’attenzione ho chiesto:

– Ma maschi belli o maschi in generale?

Nessuno ha riso, solo Giovanni ha abbozzato un sorriso, ma è rimasto concentrato su Monica.

– O sono sposati, – ha continuato Monica, – e vabbè, oppure sono single ma hanno un sacco di ex che ancora rimpiangono. Cioè, so’ disperati, piangono per amore. Sapete la quantità di maschi che piange per amore? Una cosa insopportabile. Vogliono essere consolati. Soffrono, e la cosa terribile è che diventano impotenti. E te lo dicono subito, sai che allegria. Cioè, siccome hanno sofferto tanto, sono diventati impotenti, e ti usano. Ti usano come pornostar… fanno la prova con te.

Guardavo Monica, di fianco a me, non so se mi piaceva.

– E vogliamo parlare di quelli che per conquistarti ti parlano d’amore? – ha ripreso Monica, dopo aver sorseggiato il suo vino. – Una cosa che tempo fa era riservata a noi donne: noi parliamo d’amore perché vogliamo convincere il partner che siamo affidabili…

– Hai il dottorato? – le ho chiesto.

– Sí, certo, in biologia evolutiva, – e ha continuato infervorandosi, – ora sono gli uomini a parlarne, lunghe nottate a parlare d’amore e poi finalmente si va a letto e allora…

– E allora? – chiediamo in coro.

– Niente, non succede niente. Parlano d’amore e non fanno l’amore.

– Secondo me è tutta colpa delle mamme, – ha detto una ragazza che si era avvicinata al nostro gruppetto da un paio di minuti. Aveva i capelli raccolti in uno chignon e tenuti da un fermaglio d’osso, molto raffinato. – Ciao a tutti: Anna.

Anna… ho stretto gli occhi… chi è…?

– Vabbè, – ha detto Monica. – Sempre colpa nostra.

– Colpa vostra, certo, – Giovanni ha fatto cenno di sí con la testa.

– Ci sono certe mamme, – ha insistito Anna, – premurose e possessive. Confondono i figli a forza di sbaciucchiamenti. Li trattano come principini. A volte le vedo, al parco, i bambini se ne stanno tranquilli a giocare. Ora tu sai che la regola è semplice: i bambini giocano e tu guardi, attenta. I bambini si allontanano e ti guardano, tu fai segno che sí, puoi andare, il bambino si rassicura e si avvia per la sua nuova strada. Poi capita che cade, e allora corre da te e tu l’abbracci. Se cade e corre da te, e tu l’abbracci, è semplice, lui si rassicura e di nuovo ci riprova. Altrimenti no.

– Sei psicologa evolutiva? – ho chiesto.

– No, laurea in lettere classiche, ma per ora baby-sitter, periodaccio guarda, vabbè… Comunque certe mamme, per loro esigenza narcisistica, mentre parlano con le amiche corrono ad abbracciare il figlio, senza una ragione, solo per far vedere quanto amano i bambini e che brave mamme sono. E se lo sbaciucchiano, e tu vedi ’sto bambino che non sa cosa è successo, si guarda intorno: perché mamma mi bacia? sono caduto? c’è un pericolo? che avrò fatto di male? Li vedo e mi immagino dei futuri adulti confusi…

– Ohhh! – ha esclamato Giovanni soddisfatto, e Anna lo ha guardato.

Cazzo, ho pensato, mi sta mettendo in ombra.

– … adulti che non sanno amare, perché non hanno capito la regola semplice: se cadi ti abbraccio, ma se non cadi non pretendere baci.

– Attenti con la mamma… so’ meridionale… – ho detto per tornare al centro dell’attenzione.

Intanto era arrivato Amedeo – e subito mi ha guardato: non rispondo a domande di fisica – e dopo aver detto che aveva capito la trama della nostra conversazione, si è abbandonato a una dichiarazione shock: – Io penso che il sesso come garanzia di felicità sia sopravvalutato.

Io e Giovanni ci siamo accarezzati la barba.

Luigi, che si era avvicinato, ha alzato le mani e ha girato i tacchi, come a dire: non mi riguarda.

– È di questo che state parlando, no? – ha chiesto Amedeo. – Desiderio e sesso, cose contingenti, estemporanee. E se sono estemporanee come fate a fare affidamento su di loro per la felicità. Una cosa cosí importante come la felicità può essere in balia del desiderio, o dei sentimenti, che tra l’altro sono labilissimi? Fate un semplice esperimento mentale, pensate a una pena d’amore adolescenziale e pensate di incontrare oggi il vostro io diciassettenne, nemmeno lo riconoscereste: ma sono io questo scemo che piange per amore?

Le ragazze ascoltavano Amedeo con attenzione e ho avuto la sensazione netta che io e Giovanni fossimo ormai fuori gioco.

– Il sesso e i sentimenti sono uno strumento per guardare in alto, non in basso, – e tutti noi a queste parole di Amedeo abbiamo alzato gli occhi al soffitto, – per salire, ascendere, arrivare a guardare il cielo. Quand’ero bambino ero triste, mi arrovellavo su tutto, forse per questo ho cominciato a contemplare le stelle in una notte d’estate: ho alzato lo sguardo, e alzando lo sguardo mi sono come sollevato da terra, da me stesso, dai miei tormenti. Alzare lo sguardo è un’avventura, è amore, ma amore come conoscenza e conoscenza come avventura: non puoi concentrarti sui singoli e parziali gradini della scala, devi metterli insieme per ascendere: la felicità sta nella ricerca.

In quel momento è ripassato Luigi che mi ha sussurrato in un orecchio: lascia sta’, Amedeo ha acchiappato di brutto, non c’abbiamo piú speranza per stasera.

A quel punto Anna con un gesto deciso si è sfilata il fermaglio d’osso, ha scosso tre volte la testa, un, due, tre, e incredibile: sono venuti giú i suoi capelli, neri, lucenti, bellissimi, si appoggiavano sulle spalle e le contornavano il seno, si è trasformata, e anche se aveva ’sti occhiali sembrava una sirena che galleggiava sulle note della musica. Anna, certo! Mi sono ricordato: quella di cui parlava Luigi mentre spaccava tutto.

– Sí, concordo con Amedeo, – ha annuito Anna, – però, la felicità… – mentre parlava ha cominciato ad aggiustarsi i capelli, due gesti veloci e sicuri ed ecco apparire una coda di cavallo alta e gonfia, coda che, fissata con un elastico, ha preso a oscillare e sembrava un pendolo. C’era una connessione tra quel pendolo e le parole di Amedeo? – … Insomma, non credo che la felicità abbia a che fare solo con la forza della ricerca, della conoscenza… credo che, non so, se vedessi una stella cadente… – e ha abbassato leggermente la voce, – sí, chiederei che si avverassero i nostri desideri, va bene… ma chiederei anche di aver piú fiducia nelle mie debolezze, nelle mie fragilità… In fondo anche l’acciaio è fragile…

– Eh no, – ha detto Giovanni, – fragile, l’acciaio no…

– Fragile, fragile, – ha detto Amedeo.

– In effetti, – ho chiosato io: mi ricordavo di averlo letto da qualche parte, avrei dovuto consultare Google, ma non potevo tirare fuori un’altra volta il cellulare.

– Fragile, sí, – ha precisato Anna. – Perché è un cristallo!

– Un cristallo? – ha domandato Giovanni.

– Sí, – ha risposto Amedeo, – noi tendiamo ad associare il cristallo al diamante, alle gemme trasparenti e sfaccettate, ma l’acciaio è fatto di reticoli cristallini opachi, questa è la differenza.

– Ecco, siamo come l’acciaio, se mi passate la similitudine, – ha continuato Anna, – nei reticoli dei cristallini ci sono delle dislocazioni, cioè delle fratture, delle imperfezioni, ora è proprio grazie a queste dislocazioni che l’acciaio è cosí speciale, è duro, tagliente, perché cambia forma.

– Sí, – ha aggiunto Amedeo, – grazie a una discontinuità atomica. L’acciaio è plastico, quando pieghiamo un oggetto di acciaio stiamo semplicemente spostando una dislocazione.

– Per la felicità quindi dobbiamo essere fragili, – ha concluso Anna, – capaci di commuoverci come i bambini, a volte la forza è niente, se stringi il pugno per combattere non hai niente in mano, se sei aperto alla commozione, sei debole, cioè flessibile, come un ramoscello… la felicità è solo una declinazione della commozione.

– Ma anche tu hai un dottorato? – ho chiesto.

– Noooo… faccio la baby-sitter.

– Ah, sí, scusa, me l’hai detto, sí…

La conversazione poi si è spenta perché Giacomo ha fatto segno ai dj di abbassare la musica, e per richiamare l’attenzione ha accennato i primi accordi di Start Me Up dei Rolling Stones – con la chitarra acustica non veniva male –, e mi sono defilato, ho scambiato due battute con Paola, che era contenta, aveva passato una bella estate, e ora produceva una web serie comica con Augusto.

Poi Giacomo ha annunciato a tutti: una mia scoperta.

Ed è arrivata Sandra Cheli, vestita di nero, capelli raccolti, trucco un po’ pesante sugli occhi, ma piú ordinata e presente.

Ho cercato Luigi con gli occhi e lui ha fatto una faccia come a dire: embè?

Allora ho incrociato lo sguardo di Alessandra che stava bevendo vino, e lei mi ha sorriso.

Giacomo ha preso la chitarra, Sandra pure, e ha cominciato a cantare – Gabriella Ferri. Vecchie canzoni romane, arrangiate di nuovo, una era Canto de’ malavita, e c’aveva questo ritornello: e mo sto dentro, come ti posso amare?

Incredibile, ho pensato, sul palco Sandra Cheli era completamente diversa, adulta, non cantava ma interpretava ogni parola, saliva e scendeva di tonalità tra i versi, e piano piano siamo stati tutti avvolti dalla sua voce.

Poi ha cominciato a cantare Ciccio formaggio, che è una canzone allegra, una macchietta, e invece Sandra trascinava le parole, se le mangiava: se me vuliss bene veramente… un po’ da ubriaca, una sorta di giaculatoria.

Ma guarda, pensavo, ma guarda il dolore come può volare attraverso una canzone.

Sono andato vicino a Luigi:

– Ma cazzo!

– Essí.

– Ma è brava!

– Eh!

– Ma scusa… Alessandra che dice?

– Che dice? Non lo so, sta bevendo, eccola lí…

– La vedo, la vedo, ma che dice di Sandra, cioè è successa la rivoluzione… due mesi fa…

– Mah, siamo qui, restiamo qui, io e Alessandra, anzi, siamo piú forti, è stata una bella estate, poi la Biennale…

Eravamo spalla a spalla, e bevevamo vino rosso, guardando la compagnia che si divertiva, ma a quel punto Luigi ha posato il bicchiere, si è girato verso di me, si è tolto gli occhiali alla Google Glass e fissandomi:

– Che ti avevo detto?

– Che mi avevi detto?

– Come sarebbe finita la storia?, mi chiedesti. Eravamo a luglio, al bar del Gianicolo.

– E chi si ricorda…

– Fai lo scrittore e non ti ricordi un cazzo. Comunque io ti dissi che Sandra avrebbe trovato la sua strada… eccola lí, sentila… e che il periodo brutto di Giacomo sarebbe finito, infatti: il film è fatto, va al festival di Torino, se ne parla già bene. E cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di…

– Di soffrire da giovani… sí, questo lo so…

– E Paola ha avuto la sua visione, – Luigi me l’ha indicata, stava chiacchierando con un tizio vicino a noi, e lei come se avesse avuto un radar si è girata verso Luigi e si sono guardati, intensamente, e poi Luigi ha detto solo: – È vero Paola?

Ha cominciato a ridere e Paola l’ha seguito all’istante, e quella risata aveva qualcosa di intimo: vedi i grandi amori, mi sono detto, i veri amori fanno questo effetto.

Allora ho detto a Paola:

– Certo che un romanzo d’amore potrebbe finire cosí, con questa vostra risata…

– Sí, – ha detto. Poi ha ricominciato a parlare con il tizio, ma dopo un attimo si è girata verso di me:

– Però attento a quello che scrivi, non vorrei che passasse il messaggio che tutto è bene quello che finisce bene… non è cosí!

– Vabbè, brindiamo, – ho detto io. – A chi brindiamo?

– A Susanna, – ha detto Anna che si era avvicinata a noi. E Paola ha sorriso.

– A Susanna allora! – e ho pensato: ma chi è Susanna? E volevo chiederlo, poi niente, Sandra Cheli cantava e siamo stati tutti rapiti finché in una pausa ho chiesto a Luigi:

– E Paola? L’ho vista rilassata…

– È incinta.

– Che dici?

– Di Augusto.

– Ma…

– Susanna, si chiamerà Susanna.

– Ahh, ecco…

– Vabbè, Susanna o non Susanna, loro due non si amano, ma Paola desiderava un figlio. Quindi… sí, credo sia felice, per il momento…

– E dici che non si amano?

– Li vedi, – me li ha indicati, – sembrano contenti ma sono fragili.

– Ma la fragilità è forza… com’è che ha detto Anna? Quella con i capelli lunghi… ma era lei quella che nominavi quel giorno…?

– Sí sí, – ma poi mi ha fatto segno: c’è Alessandra… – Però meglio essere forte in amore, conviene. Due mesi fa stavo nei casini, poi ho ripreso il controllo. Se sei forte lo sono anche le persone che sono vicine a te… e per farlo devi seguire il tuo piacere, tanto in un modo o nell’altro è sempre cosí, no?

Erano le 23,45 quando Sandra Cheli ha cantato una vecchia ninna nanna: e fai la ninna nanna pupo bello, ti canterei il meglio che nel mondo si sia mai cantato a un ragazzino, e mentre le note andavano, mamma canta e nun se stanca, io ho preso Stellarium e l’ho puntato verso il soffitto, c’era la luna calante – giú in basso, ancora nascosto il sole la illuminava – poi Vega, Altair, le stelle dell’autunno, e l’ho fatto, ho unito i trattini e ho visto Perseo, il Toro, i Pesci, e sotto la Balena, e ancora la mia costellazione, l’Acquario, poi con l’altra opzione ho costruito le figure e ancora Perseo, lo scudo da una parte e la testa della Medusa dall’altra, il Toro, disteso, le corna allungate sulla sinistra, Pegaso con le ali, e ancora la mia costellazione, l’Acquario, cosí mi sono detto, eh sí, andiamo al 22 gennaio 2017, quando avrò 51 anni, come sarà il cielo? Eccolo: Sirio e Rigel allineate, luminosissime, e Betelgeuse poco piú in alto, uniamo i trattini e… c’è il Cane e la Bussola, la Bussola, ho pensato, vedi, tre stelle in successione, bassa visibilità, difficile individuarla, e ho letto seduta stante: fu introdotta da Nicolas-Louis de Lacaille nel diciottesimo secolo, quando scorporò la gigantesca costellazione della Nave Argo, famosa per la storia di Giasone e dei suoi Argonauti. Quindi, questa costellazione è la bussola di quella nave, ahh vedi, mi sono detto, e allora andiamoci a prendere questo vello d’oro, e ci vuole la bussola, da ora, per gli anni che verranno, sarà obbligatoria, per orientarci, per sottrarci al caos, proprio perché siamo fragili – e mi sentivo inspiegabilmente fragile – ma siamo forti se perlomeno sappiamo dove guardare, o no?

E poi mi hanno chiamato e non c’ho piú pensato e dopo un po’ abbiamo riconsegnato gli occhiali, riempito un modulo, risposto a delle domande, dato un voto alle ragazze della festa. E si sono spente le luci. Ah, e poi, sí, mi sono ritrovato da solo in una notte settembrina.

Il giorno dopo ho raggiunto Luigi nel suo studio per commentare un po’ la festa.

Avevo ancora in testa l’immagine della nave di Argo e del vello d’oro, insomma, rispetto alla sera precedente mi sentivo piú forte, e stavo introducendo la questione quando Luigi – l’ho trovato al pc che stava guardando delle clip – ha tagliato corto e mi ha presentato Roberto, uno dei due dj.

Tuttavia, che strano, ieri sembrava appunto un dj, vestito con quel tipico sfavillio anni Ottanta, oggi un nerd: nemmeno avevo notato la pancia prominente.

Roberto si è presentato con un ampio sorriso: non era un dj, ma uno psicologo cognitivo, lavorava con Luigi, e quella di ieri non era una festa, ma un esperimento.

Infatti Luigi m’ha detto: – Guarda, ti faccio vedere le bozze del mio prossimo lavoro, altro che Argo, qui noi dobbiamo smontare i miti, smontare è l’unico modo per sondare le nostre viscere profonde.

Cosí ho guardato le viscere, cioè le bozze, voglio dire, lo schermo, e c’eravamo noi, tutti noi che avevamo partecipato alla serata. Cos’è? Il filmino della festa?

E sí, eravamo noi: i soggetti dell’esperimento. Ebbene? Luigi aveva intenzione di fare una grande installazione interattiva, soggetti da esperimento appunto, quello della sera prima era una specie di numero zero. – Ci dovrò lavorare tanto, – m’ha detto. L’idea gli era venuta in estate dopo il casino con la madre e con Alessandra, quando s’era cominciato a porre il problema di chi siamo noi, sballottati da umori e bloccati dai vecchi ricordi.

– In sostanza sto collaborando con un’équipe di psicologi, – Roberto mi ha di nuovo fatto un sorriso, meno ampio questa volta.

Sullo schermo scorrevano scene della festa della sera precedente, erano in soggettiva, e ci credo, avevamo quella specie di Google Glass.

– Vorrei mostrare, – Luigi muoveva il dito indice a mo’ di bacchetta da prestigiatore, – quello che veramente siamo.

– E sentiamo, – ho detto io scettico, – chi siamo?

– Per saperlo, – Luigi ha fatto una pausa come se stesse per dire una cosa importante, – dobbiamo capire cosa volevamo prima di entrare in questa festa, quello che veramente desideravamo e come ci siamo mossi per ottenerlo, le strategie messe in atto: ecco quello che siamo. Quindi ho chiesto a tutti di raccontare il loro pensiero ricorrente, quello che gli girava per la testa prima di entrare alla festa. A te no, sennò partivi con le tue digressioni…

– …

– Per esempio, c’era un tizio (e non ti dico chi) che voleva assolutamente contattare un altro tizio (e non ti dico chi) per un lavoro: ebbene, è molto interessante capire come si è mosso. Siamo davvero soggetti da esperimento: siamo quello che vogliamo e siamo quello che mettiamo in atto per raggiungere l’obiettivo.

– Uhm.

– Ti faccio vedere una cosa, cosí per capire, – e ha smanettato con il computer. – Eccoti. Questo sei tu! Con gli occhiali, no? Sono fatti apposta per sapere dove guardano i tuoi occhi. Eccoti in azione, baldanzoso, che parli di sentimenti post lavatrice: ma che volevi davvero? Cioè, veramente desideravi comunicare agli altri il cambiamento culturale?

Nemmeno ha aspettato la mia risposta.

– Guarda cosa e chi hai puntato prima di iniziare a parlare, quando hai fatto il giro panoramico ai quattro angoli della stanza, vecchia tattica casertana, – mi ha dato un pizzicotto sulla guancia destra.

– E dài, – ho detto.

In effetti, l’applicazione era interessante: il mio sguardo veniva segnato con dei trattini, un po’ come Stellarium, quando i trattini uniscono le stelle e formano le costellazioni.

– Tipo, – ha detto Luigi, – prendi Rosaria… Era di fronte e l’hai attentamente misurata con lo sguardo… c’ha un bel culo obiettivamente.

Scrutavo Rosaria – anche se non ricordavo di averlo fatto in quel modo – e tratteggiavo dapprima la linea che unisce la scapola sinistra con quella destra, poi i miei occhi, velocissimamente, scendevano giú e disegnavano i fianchi, poi salivo su e comparavo i fianchi con la linea delle spalle. Ricercavo una specie di proporzione aurea tra spalle e fianchi. Facevo quest’operazione, inconsciamente, decine di volte, con altre donne, anche con Monica, ma di lei non ero molto convinto.

L’applicazione permetteva anche di conteggiare i millesimi di secondo che dedicavo ad ogni ragazza – non solo schiena e culo, ma anche fianchi e seno, angoli delle labbra, incavo del pube, caviglie e polpacci, rotondità del ventre, ed eventualmente tatuaggi e piercing – e, secondo Luigi, i due psicologi vestiti da dj, monitorando in diretta le mie occhiate, potevano sapere, e prima che io ne fossi cosciente, quale ragazza era stata selezionata dal mio sguardo e quale scartata.

Quindi non mi ero imbattuto casualmente nel terzetto, Rosaria, Monica e Giovanni, che parlavano di sentimenti, no: avevo valutato le qualità elementari. Chi siamo? Fianchi, culo, capelli, questa è la nostra benzina, poi certo, accendiamo il fuoco.

– La prova, – mi spiegava Roberto, che aveva assunto la tipica cadenza di uno psicologo, lenta e un po’ avvolgente, – è il voto dato alle ragazze.

I due psicologi, in veste di dj, stavano già osservando il nostro comportamento, erano in grado di anticipare il voto che poi avremmo dato solo osservando chi guardavamo e per quanto tempo.

– E solo dal tempo di scrutamento? – ho chiesto.

– Scrutamento non se po’ senti’, – mi ha corretto Luigi. – Ma che cazzo! Fai lo scrittore… tracciamento dello sguardo è il termine tecnico.

Dunque, Roberto alla console ne sapeva piú di me, io stavo decidendo e ancora non lo sapevo, ma Roberto sí.

– Stai già decidendo e non lo sai. Voglio dire, nel preciso momento in cui sei entrato nella stanza, – spiegava Luigi, – il tuo sguardo ha misurato, in pochi secondi, decine di ragazze. Con alcune, quelle che soddisfacevano le tue misure auree, hai iniziato una conversazione… Le altre no, le hai scartate, e si vede: hai evitato il piú semplice scambio di battute. L’algoritmo sapeva quello che tu ancora non sapevi… cioè, prima scegliamo, poi ci ragioniamo.

C’erano anche i maschi nella partita. Mi ha fatto vedere un’altra clip: – Guarda… – ha detto con una pausa studiata. – Hai misurato anche loro.

– Ehh vab… bè… – ho balbettato, – e qui cr… crolla il sistema… no!

– Che scherzi? Hai misurato anche loro: ampiezza del torace, villosità, robustezza della mascella, sedere, addominali, pancetta… hai puntato anche al pacco.

– …

– Paura, eh? È un meccanismo di controllo: quali uomini potevano renderti la caccia difficile, sottrarti territorio, e quali ti risultavano inoffensivi. E chi hai misurato?

– Giovanni.

– Giovanni, sí, ma all’inizio, hai stretto alleanza con lui, volevi blandirlo e poi sfidarlo e vincere, ma è arrivato Amedeo, e vabbè, siete amici, pensavi che non fosse un problema e invece ha stracciato tutti con la sua storia sull’amore, e infatti: osserva le ragazze alla fine come lo tracciano. Come sono interessate all’astrofisica… ’sto video potrebbe essere una pubblicità per convincere i riluttanti a iscriversi a Fisica: gli scienziati acchiappano! Siamo branchi di scimmie… – diceva Luigi soddisfatto di sé. – Guarda invece gli altri maschi… vedi la differenza… li hai scartati. Capito?

E questa era la mia scheda, poi c’era quella di Luigi, che però ha messo le mani avanti: – Sono parte in causa, quindi dovrò fare altri esperimenti, perché siano attendibili.

Per adesso, dati i risultati, Luigi nella sostanza sosteneva che le donne che lui aveva scelto con lo sguardo erano in ovulazione.

– Anche qui, – ha spiegato Roberto, – è una questione di scelta inconscia, c’entra la disponibilità femminile, la voce, la cadenza, lo sguardo… la qualità della pelle, la battuta pronta… insomma, la disponibilità.

Ebbene, Luigi se ne accorgeva: – Questo è il motivo, – si è inserito, – perché mi ricordo ancora le mestruazioni delle mie fidanzate. E ti dirò di piú: posso dimostrarti che la prima volta che ho scopato con la maggioranza della mie donne, era durante il periodo fertile, capito?

– Mi sa che le femministe non gradirebbero…

– Infatti, io non lo racconto, però tu che sei uno scrittore coraggioso…

– Ma non funziona, – ho detto, – altrimenti adesso usciamo fuori e dovremmo riconoscere le donne in estro… dài.

– Ennò, – è intervenuto Roberto con piglio da professore, – mica le donne vogliono trasmettere consapevolmente queste informazioni, non è che diventano lordose come gli animali…

– Lordose?

– Sí, si indica cosí una posizione particolare che agevola il coito… vabbè, non lo fanno perché altrimenti sai che violenze carnali.

– Eh!

– E infatti, vogliono trasmettere informazioni solo ai maschi di qualità…

– Vabbè.

– No aspetta, – Luigi ha ripreso a muovere l’indice come un bacchetta, – stamattina abbiamo fatto la controprova: abbiamo chiesto, sempre per gioco…

– Naturalmente, – ho detto.

– E ti pare… insomma, abbiamo chiesto alle ragazze informazioni sul ciclo: ebbene, alcune erano in estro. Poi abbiamo chiesto a queste ultime se ieri sentivano maggiore desiderio sessuale e hanno risposto…

– Di no, – l’ho anticipato.

– Di no, certo. Perché una cosa è la biologia, altra cosa è la cultura di questa società…

– Borghese… – ho completato di nuovo.

– Borghese, sí!

– E quindi…?

– E quindi, la controprova…

– Cioè, – ha detto Roberto schiarendosi la voce, – ieri abbiamo invitato tutte le donne della festa a scegliere indumenti su un catalogo on line. Quelle che non erano in ovulazione hanno scelto prodotti non sexy, quelle in ovulazione e che intervistate oggi, bada bene, hanno detto di non sentire alcun desiderio sessuale, ieri hanno scelto prodotti molto sexy…

– Capito? – ha commentato Luigi infervorato. – L’amore, la monogamia, la fedeltà, il tradimento, i casini… hai voglia a scrivere trattati, hai voglia a mettere insieme amore e felicità, la biologia conta! Noi maschi produciamo spermatozoi in continuazione. Nell’altro sesso, la materia è limitata, fin dall’inizio: gli ovuli quelli sono, non ne vengono prodotti di piú, quindi, per forza la biologia deve mostrare la sua forza strategica, la cultura addolcisce tutto ciò.

– Uhm, interessante… – ho concesso. – E tu vorresti mettere insieme tutto questo…?

– Devo capire come, ma sí. Siamo soggetti da esperimento, desideriamo ma non sappiamo nemmeno cosa. Siamo orgogliosi quando prendiamo una decisione e invece semplicemente abbiamo notificato una scelta fatta prima a livello inconscio.

Poi Roberto ha spiegato che questi studi – e qui ha assunto uno tono ancora piú serio, anche la postura era cambiata, stava piú diritto, gli occhi fissi su di me, mi metteva un po’ di soggezione – erano la conseguenza di un famoso esperimento, quello di Libet.

Che non ricordavo… eppure ne avevo scritto, porca miseria, ma dove? Ho annuito, come per dire, certo che lo so, e tuttavia all’improvviso mi sono bloccato: magari se ne accorge che sto mentendo. Oh, questo è psicologo cognitivo: e se mi sta tracciando a mia insaputa?

– Molte delle nostre scelte sono inconsce, – mi spiegava intanto Roberto, – o meglio: è possibile che decidiamo inconsciamente e poi successivamente la coscienza, a cose fatte, interviene e notifica la scelta.

Io allora ho pensato a Platone: l’anima è la sede della razionalità, l’anima è libera (non condizionata dagli dèi), e dunque dobbiamo usare la ragione per fare delle scelte ed essere felici. Però questa idea di Platone presuppone la presenza di una coscienza razionale che, dopo aver vagliato e controllato tutte le opzioni a disposizione, liberamente e razionalmente sceglie.

– E quindi, – continuava Roberto, – se la coscienza fosse un giudice che esaminati imparzialmente tutti gli atti emette la sua sentenza, allora c’è il rischio di non fare piú un passo. Invece, piú prosaicamente, la nostra coscienza assomiglia a un ufficio stampa: prima facciamo le scelte e poi arriva la coscienza a giustificarle.

– Ah!

– Questa ipotesi del resto, – Roberto si stava accendendo, – è suffragata da molti esperimenti. Ce n’è uno che prevede, – pausa, silenzio, – la disposizione di due collant perfettamente identici su uno scaffale. Dei volontari sono invitati a scegliere. Per una tendenza naturale in genere ci orientiamo sui prodotti sulla nostra destra, – bias destrimano, cazzo, mi sono detto, questo lo sapevo, – e dunque quando chiedevano: perché hai scelto quel prodotto di destra, le persone inventavano delle storie per giustificare la scelta, anche quando sapevano che i due prodotti erano identici. Un autoinganno: dunque, cerchiamo la verità o una buona giustificazione?

Qui è intervenuto Luigi:

– Ti ricordi Giovanni ’u Fredd’?

– Sí…

– Giovanni il freddo, – Luigi ha tradotto per Roberto, – è uno di Caserta, grande esperto di processi decisionali. Uno che per lavoro, e lo fa per grosse aziende, elabora complicati diagrammi dove ti mostra tutte le conseguenze delle tue scelte, sono grafici bellissimi… Una volta l’ho incontrato, stava tutto teso. Gli avevano appena offerto un posto a Cambridge e non sapeva decidersi. Vabbè, gli ho detto io, affida la scelta a uno dei tuoi grafici… Mi ha risposto: e dài non scherzare, è una cosa seria.

Abbiamo riso.

– Ah, poi è andato a Cambridge, perché, guarda caso, si è innamorato di una ragazza inglese, ma poi è tornato, perché si è lasciato con la ragazza. Gli ho chiesto: ma perché vi siete lasciati? E lui: ma che ne so, non c’ho capito niente…

– E dunque, – ho chiesto, – la felicità?

– La felicità? – Roberto c’ha pensato, poi ha detto: – Non so… io direi … non so, forse tu che sei scrittore, forse, c’hai pensato piú di me.

Ormai siamo alla fine di questa storia e c’è solo un altro episodio da raccontare.

Dopo l’incontro con Luigi e Roberto, sono tornato a casa, ma la notte al solito non riuscivo a dormire. La tachicardia e l’ansia, chissà.

Pensavo all’anno passato, agli intrighi vissuti, alle emozioni che avevano guidato il cammino fin lí, con tutto il carico: i fallimenti, le volte che non hai dato la risposta giusta, eppure era semplice, ex post. Se ci ripensi (la risposta, la battuta, il motto, e quindi, in sostanza, la decisione) ti doveva venire in mente con facilità: che la tua vita sia un accumulo di riposte esatte date nel momento sbagliato?

Cosí mi sono alzato dal letto che sennò mi veniva il panico, sono sceso, dovevo muovermi un po’. Per strada non c’era nessuno, ancora il vento dal mare, leggero, sul collo come un soffio, i lampioni già spenti, ho camminato fino al Gianicolo e sul belvedere ho alzato gli occhi: e l’ho vista, e sí, la bellezza del cielo, bellezza che fa pure rima con tristezza: stava arrivando l’autunno. Le 3,20 di notte, luna calante, Giove basso, la costellazione dei Gemelli parallela all’orizzonte. Poi ho intercettato una stella cadente e mi è venuta in mente un’invocazione laica: stella cadente illuminami… quando ha vibrato il cell.

– Ma dove sei??

– Al Gianicolo… sto…

– Non voglio nemmeno sapere che stai a fare.

– Stavo pensando a come strutturare un libro sulla felicità…

– Non lo voglio sapere, ti ho detto! – la voce di Daniela era limpida.

– No, ascolta: siamo in estate, l’attesa dolce del mare, sembra che non possa accadere nulla e invece tutto precipita, i miei personaggi collassano, si trovano a vivere situazioni che non avevano previsto, come reagiranno? Che strategie metteranno in atto per recuperare l’equilibro? Sentiranno di essere bloccati, paralizzati in un conflitto tragico, o cercheranno un rimedio? Otterranno quello che vogliono e riusciranno a essere felici? Ma siamo davvero liberi di cercare un rimedio o tutto avviene per caso?

– Sono le tre di notte… volevo solo sapere se eri fuggito.

– No, sto qua, sul belvedere del Gianicolo.

– Va bene, porta i cornetti quando ti ritiri.

Questa storia è cominciata dall’alto e ora il cielo si riprende la parola. Con Stellarium mi sono posizionato sul Sole – è un’opzione molto utile e bella – e da quella posizione ho visto, qui e ora, la Terra. Eccola, tra Urano, appena un puntino, e Marte, in basso, piú grande e naturalmente rosso, e le costellazioni, quelle ne vedevo tante, i Pesci, la Balena, l’Acquario, il Capricorno, il Tucano, il Sagittario.

E nonostante la distanza, a ben vedere, eccoci: i soggetti dell’esperimento. Ognuno di noi con il suo compito da svolgere e con pochi watt a disposizione, ce la mettiamo tutta, e pianifichiamo, costruiamo storie. Riteniamo di essere padroni della situazione, diciamo: io sono, io voglio, e con sicurezza pensiamo di controllare gli accidenti.

Quando siamo messi di fronte a un bivio ci chiediamo, a seconda delle convenienze, se è meglio essere deontologici o consequenzialisti, spesso difendiamo le nostre scelte, ci giustifichiamo. Se falliamo ci dichiariamo nichilisti, oppure diamo la colpa alla nostra natura umana, cosí corrotta. Altre volte guardiamo alla natura, affinché ci liberi dalle catene della civiltà o cerchiamo di studiare la natura per liberarci dalle sue braccia, e allora misuriamo.

E sempre in questo affanno cerchiamo di essere felici. Ma davvero la felicità è una variabile indipendente da altri fattori? Si è felici da poveri, disoccupati, si è felici quando non si è amati, si felici quando si è deboli? Si è felici quando si è da soli?

Forse la felicità non è lo scopo della vita, ma proviamo felicità quando raggiungiamo un obiettivo.

Tuttavia, si fa presto a dire obiettivo. Se non siamo totalmente liberi, se mentre diciamo io il nostro io ha scelto a nostra insaputa, se la genetica ha orientato il nostro comportamento e le contingenze ci legano a un carro (anche se crediamo di procedere autonomamente), allora come facciamo a raggiungere i nostri obiettivi?

Il fatto è che soprattutto in alcune notti di settembre si vede che non siamo padroni del nostro destino. Non del tutto. Perché dall’alto i protagonisti di questa storia, e di tutte le storie, ci appaiono eccome, anche piú definiti, con i contorni netti. I due protagonisti si chiamano tempo e caos. Sono loro i nostri avversari: ci rendono fragili.

Allora ho accelerato il tempo, è possibile con Stellarium – altra fantastica opzione. Ora gli anni correvano, pochi secondi valevano un anno, e dal Sole, il mio punto di osservazione, ruotava tutto, la Terra appariva e spariva, i pianeti si allineavano e si disallineavano, un attimo e via, le costellazioni si spostavano verso destra e si dissolvevano davanti ai miei occhi.

E siccome tutte, proprio tutte le orbite si potevano calcolare grazie ai principî di Newton, mi sono immaginato a ottant’anni, sí, mi sono detto morirò a ottant’anni, nel 2046, a quest’ora, e mi sono visto sul Sole – il Sole che mi accoglierà non certo in gloria –, Venere di fronte e me e quante costellazioni attorno: la Vergine, il Corvo, il Cratere, il Leone, il Cancro, i Gemelli, il Cane Minore con Procione che splendeva e sotto il Cane Maggiore, con Sirio, splendeva anche lei e dunque… vista la bellezza del firmamento ma anche l’insensatezza, l’assurdità, la comicità, la tragedia della vita, cosa possiamo fare? Un bilancio, no?

Avevo tredici anni e frequentavo le medie dai Salesiani, e sapete com’è, a quell’età, i primi impulsi sessuali, le curiosità verso il proprio corpo, le pratiche faccio da me… e dunque un prete, Don del Pozzo, preoccupato dell’andazzo, prese me e un mio amico in disparte e ci ammoní severamente: vi taglio le mani! E ricordatevi – ci disse – che un minuto di piacere non vale l’eternità passata all’inferno. Dopo l’avvertimento, tornando a casa, il mio amico mi chiese: ma come si fa a farlo durare un minuto?

A distanza di anni, qui al Gianicolo in fondo sto ancora cercando di rispondere alla domanda di quel mio amico. Come prolungare il piacere? E come orientarlo, trasformarlo in un sentimento di calma e pace oceanica, una specie di unguento che rilassi il corpo e spalanchi i sensi?

In terza media mi ruppi il braccio. Destro – sarà stata la maledizione di Don del Pozzo.

Non riuscivano ad aggiustarmelo e cosí dovetti subire la mia prima operazione. L’anestesia, il risveglio, quel senso di malessere, tutto questo potevo sopportarlo, quello che mi faceva soffrire, invece, era la degenza. Mi avevano detto che mi avrebbero tenuto dentro tre giorni, invece il terzo giorno cambiarono idea: altri due giorni, per controlli.

Piansi disperato per venti minuti, un senso di prostrazione mai provato, tanto che alla fine mi addormentai. Quando mi svegliai mio padre mi disse: dài, veloce, che andiamo via. Pensavo di sognare. Ho firmato, mi disse, mi sono preso io la responsabilità, andiamo. Non mi vestii nemmeno, me ne andai in pigiama, e il tragitto dall’ospedale di Maddaloni a casa mia – un tragitto orribile, con le cave in lontananza, le discariche a cielo aperto –, quel percorso mi sembrò bellissimo, e per molti giorni mi sentii felice.

Sentire la felicità e descriverla non è facile, il dolore è piú facile da raccontare. Comunque, in sintesi, la bruttezza mi sembrava bellezza.

Erano gli anni Settanta e di quel decennio mi sono rimaste due cose stampate in mente: la presa di posizione di mio padre – aveva capito che stavo soffrendo e dunque doveva far qualcosa per me – e l’idea che senza un periodo di sofferenza non si può essere felici.

Queste due concezioni, saldate insieme, mi hanno rovinato il decennio successivo. Perché cominciai a pensare che le ragazze che soffrivano esigevano qualcuno che si prendesse una responsabilità e che le portasse fuori da quella valle di lacrime.

Quello ero io. Potevo farle felici.

Per esempio, Cristina. Bellissima, bionda, camminava sul corso e lasciava una scia dietro di sé. Io riuscii, dopo una lunghissima pusteggia – termine tecnico meridionale che significa: un corteggiamento serrato e molto poetico – a fidanzarmi con lei.

Il problema era che Cristina soffriva, e non sapeva il perché. La sua sembrava proprio una vocazione.

A Caserta si faceva l’amore tutti insieme, un amore collettivo, lungo una strada. Si fermavano le macchine, si mettevano i giornali sui vetri e si procedeva. Io e Cristina no. Cioè, io mettevo i giornali ma lei spesso cominciava a piangere. Non credo fossero i titoli tragici della provincia casertana a inquietarla.

Era tutto molto difficile, piú mi impegnavo piú facevo danni. Volevo prendermi una responsabilità, tirarla fuori dalla valle di lacrime e invece le mie parole ci trascinavano nell’abisso.

Ci lasciammo, sí, e quando ci rivedemmo anni dopo, io le chiesi: ma perché soffrivi? Lei mi rispose: ma che ne so, forse non c’amavamo.

Conveniva davvero prendersi delle responsabilità, come mio padre aveva fatto con me?

Gli anni Novanta sono stati piú allegri. Lasciando perdere l’amore e la sofferenza, le lacrime e le responsabilità, ho cominciato ad associare l’amore al sesso e il sesso al sonno.

Non che dorma durante il sesso, no. Far bene l’amore e cercare di prolungare il piacere ha però stretti punti di contatto con il dormiveglia: essere vigili ma non troppo, avere la vista sfocata, le membra flaccide. Cadere nel sonno non dopo aver fatto l’amore, ma anche prima di farlo, era diventata una specie di pratica, tutta nuova per me.

Essere altro da sé, dimentichi di tutto, il mondo è fuori, noi qui, fra poco ci addormentiamo. Questa era la strategia migliore – almeno negli anni Novanta – contro le lacrime e la sofferenza: non potevo asciugare il pianto, però un momento di pausa, una lunga dormita – prima o dopo, diciamo cosí, il pasto –, be’, quella sí, la potevo offrire.

L’amore corrispondeva quindi a una dichiarazione di debolezza.

Da quel momento mi sarei innamorato di quelle ragazze che magari al cinema calavano la testa sulla mia spalla o che a un tratto, in macchina, mentre parlavamo, s’addormentavano in maniera improvvisa, conservando solo la creanza di dire, un attimo dopo aver riaperto gli occhi: scusa, mi sono addormentata,

E siamo al decennio successivo.

Ho un ricordo in particolare, e riguarda Marianna. Aveva pochi mesi, la febbre alta, ed ero solo a casa con lei. Non mi spaventava la febbre, ma il fatto che ogni volta che cercava di addormentarsi tremasse, e il tremore la faceva svegliare. Non riusciva a dormire, piangeva, e io non sapevo come far scendere la febbre. Pensavo che non si sarebbe mai piú addormentata e dunque mai avrebbe provato la felicità, l’abbandono al sonno e all’amore.

Per tutta la notte la tenni stretta. Solo la mattina verso le cinque le scese la febbre e finalmente s’addormentò.

Feci una passeggiata, era presto, ancora il sole non era sorto, e pensai che ero felice, e non ho mai indagato se ero felice perché mia figlia dormiva o se ero felice perché fra poco anche io mi sarei addormentato.

Sono rimasto a guardare il cielo finché non ho visto l’alba. La notte era morta, ma la luce del sole era ancora cosí debole, faceva freddo, me ne stavo raggomitolato su me stesso.

Giorno e notte, vita e morte.

Chissà se il problema, non solo della libertà e della felicità, non sia tutto qui. Quello che diceva Ugo durante la premiazione: non vogliamo morire.

Mi sono avviato verso casa, Monteverde dormiva ancora, c’erano solo un paio di camion dell’immondizia e qualche runner che vorticava intorno al cancello di Villa Pamphilj, in attesa che aprisse.

I cornetti, ho pensato, adesso passo per il panificio, li prendo belli caldi e con tanta cioccolata, faccio contenti tutti, a volte basta poco.

Rimbaud, con la cancrena, ormai immobilizzato a letto, nell’ospedale di Marsiglia, grida arrabbiato alla sorella: andrò sottoterra e tu camminerai nel sole.

È questo il punto? Il nostro ribellarci alla morte? Forse la nostra idea di felicità esiste e funziona in questo modo solo per ingannare la morte. L’evoluzione ci ha insegnato delle strategie.

Una di queste è quella di non pensare al futuro. È il pungolo della morte a farci amare il presente, siamo qui e ora, divertiamoci, ridiamo, abbandoniamoci davanti a un tramonto o tra le braccia di una donna, diamo un bacio ai nostri figli mentre sono addormentati.

Ma cosí non si risolve davvero il problema. È per questo allora che cerchiamo di sopravvivere a noi stessi? Fare figli, creare opere d’arte: il ricordo di noi sopravviverà in quelli che restano, nella nostra comunità, nella famiglia. Un’altra strategia contro la morte? Ma come dice Woody Allen: non m’interessa l’immortalità attraverso l’arte, io non voglio morire.

Forse c’è un solo modo, tornare a Platone, all’inizio di questa storia, credere nell’anima, crederci o far finta, per essere liberi, per sottrarci al nostro destino mortale, quello sí determinato.

Prendi quell’esperimento: costruiscono una copia esatta di te, questa copia è cosí esatta da essere indistinguibile dall’originale, pensa i tuoi stessi pensieri, non c’è nulla che possa, neanche una molecola, marcare una differenza. Ma se ti dico: uno dei due deve morire, muori tu o la tua copia? Incredibile, risponderai sempre: meglio che muore l’altro. L’anima deve essere cosí, unica, non si può confondere con niente.

Questa strategia è ottima. Ha solo un difetto: affinché funzioni devi crederci.

E io non ci credo.

Forse la felicità è un pensiero tragico, piú la invochiamo meno ce n’è. Forse non abbiamo diritto alla felicità, meglio l’inquietudine, quel sentimento che in fondo ci fa trovare le soluzioni ai problemi.

Non resta altro da fare che dedicare questa storia a Susanna: nascerà fra poco. Sarà come noi tutti: scriverà versi sulla neve, e poi la neve si scioglierà. Ma sí, che continui a scriverli, anzi che abbia la pazienza di aspettare la prossima abbondante nevicata, e che corra con la bocca aperta per cercare di trattenere quanti piú fiocchi è possibile: i cristalli si scioglieranno in bocca ma la renderanno piú forte.

E con questi pensieri in testa sono rientrato in casa, ho aperto la porta, piano, non volevo svegliare nessuno, e sorpresa: c’erano tutti, in cucina, già svegli, mi aspettavano.

Che bello, mi sono detto.

– E i cornetti? – mi ha chiesto Marianna.

– Cazzo! – ho detto.

– Ci siamo svegliati apposta, – ha precisato Brando.

– Giuro che sono tornato a casa proprio con questo pensiero in testa.

Daniela, Brando e Marianna si sono guardati e in coro hanno detto:

– Ma questa è un’aggravante.