LA SITUAZIONE NEL 1990

 

 

 

Sono passati circa dieci anni da quando sono stati pubblicati i miei primi libri: // dramma del bambino dotato (1979), La persecuzione del bambino (1980), // bambino inascoltato (1981). Ciò nonostante, i fatti e le considerazioni che vi facevo, basandomi sull'esperienza di una prassi pluriennale, non hanno perso di valore né — purtroppo — di attualità. Quello che è radicalmente cambiato è il mio atteggiamento — allora pieno di speranza — nei confronti della psicoanalisi: psicoanalisi dalla quale mi sono infine, nel 1988, anche ufficialmente distaccata, uscendo dalle società psicoanalitiche elvetica e internazionale. A questo passo mi hanno portata la convinzione che la teoria e la prassi psicoanalitiche cercano di sminuire o di rendere irriconoscibili le cause e le conseguenze dei maltrattamenti inflitti ai bambini (fra l'altro definendo fantasie quelli che sono invece fatti concreti), e la constatazione che i trattamenti psicoanalitici possono essere pericolosi (come si è dimostrato nel caso mio) perché cementano anziché dissolvere il disorientamento risalente agli anni dell'infanzia.

Dieci anni fa non me ne rendevo ancora completamente conto, perché lo studio della filosofia, e poi lo studio e la pratica della psicoanalisi mi hanno a lungo impedito di prendere coscienza di molti dati di fatto. Solo quando sono stata pronta a rinunciare alle mie rimozioni, a liberare la mia infanzia dalla prigione costituita di opinioni pedagogiche e di teorie psicoanalitiche, solo quando ho rifiutato le ideologie dell'oblio e del perdono e mi sono alleata con la bambina maltrattata che ero stata, e ho imparato a dar libero corso ai sentimenti coll'aiuto della terapia cui mi sono sottoposta, soltanto allora ho scoperto la mia storia personale, fino a quel momento nascosta.

Nei libri che ho pubblicato dopo il 1985 ho descritto il cammino che ho percorso per arrivare alla mia storia passata e alle mie nuove convinzioni: Bilder einer Kmdheit (1985) [Immagini di un'infanzia], L'infanzia rimossa (1988), Der gemiedene Schlùssel (1988) [La chiave accantonata], Abbruch der Schurigemauer (1990) [Abbattere il muro del silenzio]. I primi tre di questi libri costituiscono le fasi di una evoluzione: perché solo mentre li scrivevo ho cominciato a esplorare sistematicamente storie di infanzie, la mia compresa. Solo grazie al lavoro che ho svolto per scrivere questi libri e, più tardi, anche grazie ai successi di una terapia cauta, sistematicamente svelatrice cui mi sono sottoposta, ho potuto vedere quello che nei vent'anni della mia attività di psicoanalista — e nonostante le critiche che già allora muovevo alla teoria delle pulsioni — non ero riuscita a scorgere.

Mi sento in debito di quest'informazione alle lettrici e ai lettori, perché apprendo dalle loro lettere che alcuni di loro, purtroppo, dopo la lettura dei miei primi libri, si sono decisi a volgersi alla pratica della psicoanalisi oppure a sottoporsi a un'analisi, e questo nella supposizione che la mia posizione coincidesse con quella dell'odierna psicoanalisi.

Questa supposizione è assolutamente errata e fuorviante. L'edificio dottrinale della psicoanalisi è rimasto immutato negli ultimi dieci anni, e non conosco personalmente nessuno che, avendo fatte proprie le mie convinzioni, quelle che ho sempre espresso nei miei libri, ritenga ancora di potersi qualificare come un seguace della psicoanalisi. Secondo me è anche impossibile, perché un terapeuta che abbia saputo trovare un accesso emozionale alla propria infanzia — e lo ritengo indispensabile — non può restare cieco di fronte al dato di fatto oggettivo che la psicoanalisi cerca invece di impedire a ogni costo proprio questo approccio. Se capita — ancora spesso e a torto — che io sia qualificata come una psicoanalista, questo avviene soltanto perché non sempre lo vengo tempestivamente a sapere, così da poter rettificare quest'asserzione.

A volte, comprensibilmente, sono tentata dall'idea di mettere in evidenza le convinzioni cui sono oggi approdata anche nelle riedizioni dei miei primi tre libri, e di rielaborarne quindi alcune parti. Ma poi ho sempre deciso di non farlo, per non nascondere al lettore l'evoluzione che hanno subito le mie idee. Rimando dunque il lettore ai miei libri successivi, nei quali i dubbi eventualmente sorti durante la lettura dei precedenti — e le relative, apparenti, contraddizioni — sono esaurientemente affrontati, sviscerati e chiariti. Vi si trovano anche le dimostrazioni di quanto mi accingo ad affermare.

 

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La battaglia che la psicoanalisi conduce contro la verità sta gradualmente perdendo d'importanza e di significato, perché nel frattempo esistono nuove possibilità terapeutiche alle quali accenno nei miei ultimi libri. Queste terapie aprono l'accesso alla verità a chiunque voglia rinunciare alla rimozione. La psicoanalisi è dunque già fuori gioco, anche se coloro che la rappresentano non lo sanno, perché continuano a muoversi nelle autoillusioni che sorreggono il loro sistema. Però molte persone bisognose di aiuto cominciano a considerare con maggiore attenzione i loro potenziali 'aiutanti' e le loro opinioni, e non vi si abbandonano più acriticamente. È invece molto più difficile uscire dal labirinto dell'autoillusione e dell'autocolpevolizzazione nei casi in cui il trattamento psicoanalitico sia in corso ormai da anni. Io ho impiegato quindici anni per percorrere questo processo di liberazione: dal 1973, anno in cui la pittura spontanea cui mi dedicavo mi fece intuire vagamente la verità, fino al 1988, quando sono finalmente riuscita ad articolare e a esprimere questa verità senza più remore. I pazienti e gli adepti della psicoanalisi, chiusi come sono nelle loro cerchie, ermeticamente impermeabili al progresso delle conoscenze, non sanno — come anch'io ho tanto a lungo ignorato — che esiste già una possibilità di accesso alla propria infanzia: non un approccio pericoloso, disorientante, casuale, frammentario e irresponsabile (come purtroppo spesso avviene), ma coerente e sistematico, chiarificatore e teso soltanto alla scoperta della verità. Come si può del resto pretendere che lo sappiano, quando i loro maestri si rifiutano perfino di informarsi, tanto hanno paura di doversi confrontare con la loro infanzia? La terapia di cui parlo consente invece proprio di smascherare e di capire la paura della propria storia e della verità dei nudi fatti. Sigmund Freud aveva messo al bando questa paura, contestando la possibilità di un accesso verificabile alla realtà infantile, e limitando il lavoro dell'analista alle fantasie del paziente.

J. Konrad Stettbacher, terapeuta di Berna, ha descritto la terapia da lui sviluppata (e che io ho verificato su me stessa) nel saggio Se si vuole che la sofferenza abbia un senso. È una terapia che può consentire a molte persone di accostarsi sistematicamente, passo dopo passo, alla loro infanzia, e di accogliere così, di accettare la verità che avevano bandito. Chi conosce la propria storia non è più pericolosamente propenso a subire l'influsso di forme d'aiuto irreali, quali sono le ideologie, le speculazioni e le menzogne delle religioni: la cecità non serve più come corazza contro la paura. Chi sia diventato realista, non ha più bisogno di temere la realtà, né di fuggirla. E così si sfalda — per il dissolversi delle sue basi — il potere della pedagogia e delle speculazioni psicoanalitiche e filosofiche che nascondono la realtà. È un potere che deve cedere il posto alla trasparenza e alla verificabilità.