L'ALTO PREZZO DELLA MENZOGNA

 

 

 

Perché è così difficile descrivere la vera, reale, autentica situazione d'un bambino piccolo? Ogni qual volta cerco di farlo, mi si oppongono argomenti che servono — tutti — a evitare che si debba capire questa situazione, a renderla invisibile o, nel migliore dei casi, a definirla 'soggettiva'. L'opinione della persona interessata è sempre soggettiva, si pensa. L'interessato vede solo l'ingiustizia che gli è stata arrecata, non sa le ragioni per cui è stato trattato in un certo modo, e questo specialmente se l'interessato è un bambino. Del resto, come si può pretendere che un bambino sia capace di giudicare la situazione nel suo complesso, per esempio di capire, di rendersi conto dello stato di necessità dei genitori, quando è lui stesso a provocarli alla violenza!

Si continua a cercare e a trovare la corresponsabilità del bambino. Per questa ragione si parla di maltrattamento di bambini solo nei casi d'una brutalità estrema, e anche allora con riserve, mentre si pone in dubbio o si nega addirittura completamente il vasto spettro dei maltrattamenti psichici. Così le voci delle vittime, non appena si fanno sentire, sono messe a tacere, e la verità — l'intera obiettiva verità dei fatti — rimane all'oscuro.

A quali assurde conseguenze tutto questo porti, lo si è potuto osservare in occasione d'un servizio apparso nel 1987 sul settimanale «Stern». Quando il figlio del famigerato massacratore Hans Frank — il governatore generale nazionalsocialista della Polonia dal 1939 al 1945 — ha condannato senza riserve i delitti del padre, senza sminuirli, senza relativizzarli e senza sentirsi colpevole di questa pubblica denuncia, ha scatenato un'ondata di rabbia e d'indignazione. I lettori hanno scritto, fra l'altro: «Qualunque cosa Hans Frank abbia fatto, il suo delitto più vergognoso è indubbiamente consistito nel mettere al mondo quel mostro perverso che è suo figlio.» Perché «chiunque potrebbe, anzi dovrebbe scrivere un articolo simile, ma non il figlio. Così facendo, egli ha operato nello stesso modo disumano di suo padre». Si definisce insomma disumano e profondamente spregevole il fatto che il figlio di un massacratore non sia disposto a idealizzare il padre, a tacere la verità e a tradire se stesso. Indubbiamente la tribuna pubblica non è il luogo più adatto per procedere a un confronto con i propri genitori: a un confronto che sia tale da poterne trarre anche un beneficio personale. Per far rivivere le sensazioni dell'infanzia abbiamo bisogno di una persona in grado di assisterci consapevolmente, e non dell'odio compatto e irriflesso di quelli che sono stati un tempo dei bambini maltrattati e che ora, da adulti, si identificano totalmente responsabili dei maltrattamenti. Esporsi in questo modo al pubblico, indifesi, con i propri sentimenti infantili, può sembrare una specie di autopunizione che si va a cercare quando ci si senta ancora, e nonostante tutto, colpevoli delle considerazioni critiche che si formulano; può sembrare, quindi, che si accolga la reazione d'odio come una specie di punizione meritata. Molti figli e molte fìglie falliscono nel tentativo del confronto, esponendosi alla crudeltà del pubblico esattamente come un tempo si erano trovati esposti all'arbitrio di genitori inconsapevoli e incapaci di affetto; oppure cercando di accattivarsi le simpatie del pubblico coll’assicurare i lettori d'essere disposti a perdonare tutto ai genitori che li hanno maltrattati. Però, stando alle dichiarazioni di Niklas Frank, nel caso del suo articolo non si è trattato d'una personale resa dei conti né d'una privata catarsi, bensì di un atto politico. Ha solo voluto denunciare ciò che suo padre e altri padri nella stessa epoca avevano fatto, tutti senza il benché minimo scrupolo di coscienza, armati solo di molte parole vuote. E in effetti la sua denuncia potrebbe aiutare singole persone a vedere le menzogne in mezzo a cui viviamo, e alle quali nessuno fa caso perché ci siamo ormai abituati. Però, anche ammesso che questo gli sia in qualche caso riuscito, molti hanno ugualmente tentato di reprimere in tutti i modi la verità, ricorrendo a ogni argomento possibile e immaginabile, prendendo perfino pubblicamente partito a favore del massacratore e contro suo figlio. Il tragico è che questa forma di repressione non era nemmeno necessaria, perché il potere degli adulti sui bambini, consolidato nel corso dei millenni, è così grande da funzionare perfettamente anche senza ulteriori conferme. Nella mia generazione il bambino ha imparato a identificarsi totalmente con la prospettiva dei genitori e a non metterla mai in discussione. In tutti gli scrittori che conosco si può osservare che, nonostante qualche occasionale scatto di ribellione, finiscono poi col difendere i genitori dai loro stessi rimproveri. Spesso i rimproveri mossi ai genitori implicano paure mortali, e questo non solo a causa di effettive minacce di morte che si possano aver subite, ma anche perché per un bambino piccolo la perdita dell'amore della persona che gli è più vicina rappresenta già di per sé un pericolo mortale. E l'antica paura rimossa continua ad agire sull'adulto, e i segnali di pericolo precocemente immagazzinati possono conservare effetto per tutta la vita. Io ho imparato da un ragazzine di dodici anni fino a che punto un bambino di quest'età può solidarizzare con un adulto, benché — contrariamente all'adulto — disponga ancora della libertà di accorgersi dei fatti. La scena si è svolta in un ristorante. Stavo discutendo con un insegnante la nuova normativa sui mezzi correzionali del cantone di Zurigo. Il ragazzo, seduto accanto a noi, è rimasto per un po' ad ascoltare. Noi eravamo indignati perché le punizioni corporali dei bambini, in precedenza del tutto vietate, erano state reintrodotte dalla nuova legge nei casi in cui si verificasse la seguente condizione: «Quando è l'allievo che provoca l'insegnante». Ritenevamo entrambi che questa clausola spalancasse di fatto le porte al maltrattamento legalizzato, perché l'insegnante può sempre sostenere d'essere stato provocato dall'allievo, e perché la legge stabiliva che quest'asserzione andava veri-ficata esclusivamente da parte delle autorità scolastiche e non dall'autorità giudiziaria. Ed è noto che, nella maggior parte dei casi, la scuola protegge e garantisce soprattutto l'insegnante.

La conversazione sulla legge relativa ai mezzi di correzione interessava evidentemente il ragazzo — che non conoscevamo ma che era seduto al nostro stesso tavolo — tanto è vero che a un certo punto ha detto: «Però ci sono davvero dei casi in cui l'insegnante è provocato dall'allievo, e allora occorre intervenire con una punizione. » Gli abbiamo chiesto se ricordava un caso del genere e lui ci ha detto che recentemente si era verificato un episodio del genere proprio nella sua classe. Un allievo aveva disturbato la lezione ed era stato allontanato dalla classe. Gli ho domandato che cosa era avvenuto prima di quel momento. Il ragazzo lo ricordava esattamente: l'insegnante aveva attribuito a quell'allievo la colpa di un fatto commesso non da lui ma da un altro. L'allievo accusato non aveva voluto denunciare il suo compagno, però aveva insistito nell'affermare ripetutamente la propria innocenza. L'insegnante non gli aveva creduto e l'allievo ne era stato molto amareggiato.

Gli ho fatto osservare che questa amarezza era stata evidentemente la causa della successiva provocazione. Ma il ragazzo ha reagito con indignazione, replicando: «Un insegnante potrà pure sbagliarsi qualche volta e commettere un errore! Bisogna comprenderlo e non approfittarne per disturbare la lezione.»

Questo parteggiare senza riserve per l'adulto non costituisce certo un'eccezione fra gli scolari ligi e disciplinati, allo stesso modo di come si dimostrano sempre comprensivi coi loro genitori. La citazione che segue mostra in modo particolarmente evidente fino a che punto di autonegaziòne e di autoumiliazione questa comprensione può portare. Mia madre era sempre ferma e coerente di carattere. Non era il tipo da esibire la tenerezza che pure aveva nel cuore, non mi coccolava mai e non mi consentiva alcuna forma di mala creanza; però non mi intimoriva nemmeno con atteggiamenti arbitrari e violenti, e mi dava la consapevolezza che non c'era nessuno al mondo che mi amasse più di lei. Come massimo premio per una straordinaria prova di virtù potevo aspettarmi da lei, tutt'al più, un bacio in fronte: ma quest'attestazione faceva su di me un effetto così profondo che mio padre se ne accorgeva subito, appena entrava nella stanza.

Mia madre mi puniva solo raramente, e cercava però anche sempre d'indurmi a comprendere le ragioni della mia mancanza: ed era un predicatore penitenziale così abile che io alla fine mi ritrovavo sempre contrito e del tutto convinto di dover fare ammenda. Le sono oggi ancora grato di questo suo modo di procedere, perché mi ha insegnato a estirpare dalla coscienza quelle scorie che possono risultare dannose per la schiettezza del carattere. Se c'era una mia mancanza da espiare in modo più serio, allora mi legava per un'ora o anche più alla gamba d'una sedia o del tavolo. Lo faceva usando solo del filo da cucito, ma il rispetto che avevo per mia madre era tale che non osavo mai tentare di strapparlo. E lei, da parte sua, non mi liberava da quei legacci nemmeno se veniva qualcuno in visita. Oppure poteva capitare, a seconda della portata della mia mancanza, che mi legasse attorno al capo un paio d'orecchie d'asino fatte di rigida carta pentagrammata, che io dovevo poi continuare a indossare anche durante il pranzo e la cena.

Quando veniva a tavola il mio buon papa, s'accorgeva ovviamente di quelle orecchie di Mida anche più facilmente che del bacio in fronte, e i nobili tratti del suo volto assumevano un'espressione così afflitta che mi sentivo trafiggere l'animo. In un'occasione in particolare, quando arrivò con la testa fasciata per un mal di denti, la sua espressione mi commosse fino alle lacrime. Povero papa! Stava male e, per di più, doveva subire quell'affronto a causa di suo figlio. Non riuscii a buttar giù un boccone, benché a tavola ci fosse il pasticcio fatto secondo l'autentica ricetta bavarese; mia madre però lasciò le orecchie d'asino dov'erano (W. von Kùgelgen, 1970, pagg. 49 segg.). Debbo questa citazione a un mio ignoto lettore, il quale ha precisato nella sua lettera che si trattava d'una spaventosa conferma della esattezza delle mie tesi. È da presumere che si riferisse alla tesi secondo cui l'adulto conserva nella memoria le umiliazioni patite come provvedimenti necessari per il suo bene, e si attiene a ogni costo all'idea di essere stato amato dai genitori che lo seviziavano.

Anche persone che abbiano dimostrato al mondo intero l'alto grado della loro intelligenza soggiacciono a quest'errore quando tengono nascosta, accuratamente sotto chiave, la portata reale di ciò che pure sanno. Così, per esempio, Arthur Schopenhauer ha scritto di suo padre:

L'eccellente mio genitore [...] era un uomo severo e schietto e, pur essendo portato a svolgere con particolare perspicacia i suoi commerci, era di una correttezza, di una coerenza e di una rettitudine immacolate. Non credo che vi sia parola adatta per esprimere tutto quello che gli devo [...] Per questo, finché vivrò, conserverò sempre nel cuore i meriti inesprimibili e i gesti di bontà del migliore dei padri, e terrò sempre sacra la sua memoria...

Questo 'migliore dei padri' aveva scritto un giorno al figlio Arthur, quando questi aveva appena 12 anni:

Ho voluto che tu imparassi a renderti gradito al prossimo [...] E per quanto attiene al camminare e allo star seduto diritto, ti consiglio di chiedere a chiunque abbia dei rapporti con te di darti uno schiaffo quando tu, sopra pensiero, dovessi farti sorprendere in atteggiamenti sgraziati. È così che apprendono le buone maniere anche i figli dei principi, senza temere il dolore d'un breve momento pur di non apparire goffi P tutta la loro vita. Non c'è nulla che possa aiutarti meglio (A. Schopenhauer, 1987).

Un bambino che non sia spaurito non s'ingobbisce a tavola. Invece il bambino che abbia dovuto subire 'amorevolmente' gli schiaffi e gli insulti del padre 'severo e schietto', spesso non saprà liberarsi per tutta la vita d'una spina dorsale curva perché questa rimane l'unica espressione della sua paura. Non ci sono schiaffi che possano correggere l'atteggiamento d'un ragazzo che se ne sta ingobbito. Però gli schiaffi possono trasformare quell'atteggiamento in una solida corazza che non esprime più la reale situazione della vittima, bensì la slealtà del nuovo persecutore che è stato in questo modo creato. Franz Kafka è fra i pochi scrittori della sua epoca che sia stato capace di mettere in discussione i suoi genitori. In una lettera al padre, di più di cento pagine, cerca di spiegare le sue rimostranze, di articolare la sua angoscia e di renderla comprensibile al padre. È vero che il padre di Kafka non ha poi mai letto questa lettera, tuttavia Kafka l'ha scritta, facendo delle affermazioni che — nella loro dimostrazione di consapevolezza — vanno molto più in là di quanto persone in condizioni analoghe siano mai state in grado di dire. Mi sono chiesta com'è stato possibile che Franz Kafka — che pure, come dimostrano le opere e i diari, dovette precocemente fare a meno di calore umano, autentica simpatia, tranquillità e protezione — sia poi stato ugualmente capace di chiamar per nome la condizione in cui si era trovato e, più in generale, di rendersi conto delle proprie sofferenze. Mi sono posta questa domanda perché so che i bambini maltrattati e gravemente trascurati, che non abbiano conosciuto altro che crudeltà e violenza, non dubitano poi nemmeno della giustezza del trattamento che è stato loro inflitto. Però Kafka ha avuto la fortuna di trovarsi al fianco, nel periodo della pubertà, una sorella di nove anni più giovane, Ottla, la quale gli ha dato modo, per la prima volta in vita sua, di sentire di essere una persona degna d'amore. Grazie a quest'esperienza ha capito che non era colpa sua se doveva fare a meno d'amore, bensì, molto semplicemente, perché i suoi genitori non lo amavano.

La simpatia e la comprensione di Ottla hanno consentito a Kafka di criticare i suoi genitori; tuttavia questa critica non è andata oltre la sfera razionale. Non è mai arrivata fino a quella autentica percezione dei sentimenti che gli avrebbe consentito di spezzare la corazza dell'autoaccusa e di ribellarsi anziché di ammalarsi di depressione e tubercolosi. Benché Kafka, nella lunga lettera al padre, riesca a descrivere come quel padre si comportava con suo figlio, questo non è bastato per consentirgli di pervenire fino al punto di una liberazione, perché alla fine è proprio lui che tradisce il bambino che era stato in passato. Lo abbandona, assumendo il punto di vista dell'adulto, muovendo rimproveri al bambino, togliendogli di nuovo la parola. Il padre banalizza e ridicolizza quello che il figlio dice. E il figlio è pronto ad assecondarlo: «Così naturalmente, nella realtà dei fatti, le cose non possono dunque correlarsi come le prove esposte nella mia lettera», è la sua conclusione. E io constato nella conclusione della lettera di Kafka la subordinazione al nostro sistema di valori, nel quale un'accusa coerente e precisa rivolta ai genitori, anche quando si attiene alla realtà dei fatti, è considerata come uno dei maggiori peccati. Franz Kafka si è fedelmente assoggettato a questo sistema di valori, benché sia stato in più momenti sul punto di coglierne, almeno a livello razionale, il carattere amorale e ostile all'infanzia. Però non ha mai osato confrontarsi emotivamente coi genitori. Vittima dei suoi sensi di colpa, si è ammalato di tubercolosi tanto da morirne all'età di 41 anni (cfr. A. Miller, // bambino inascoltato, pagg. 255 segg.).

Si potrebbe dimostrare con innumerevoli esempi tratti dalla letteratura universale quanto sia difficile vedere e denunciare la pur evidente colpa dei propri genitori. Ne esaminerò uno per tutti, il dramma Lungo viaggio verso la notte (1967) di Eugene O'Neill, di cui citerò lunghi brani per consentire di capire la situazione in cui si trova un figlio adulto nella sua famiglia.

L'autore, probabilmente per semplice intuizione, scopre connessioni che in sostanza spiegano esaurientemente le ragioni per cui in una certa famiglia il primo figlio diventa un alcolizzato, il secondo muore ancora bambino e il terzo morirà di tubercolosi. È difficile dire se O'Neill abbia saputo vedere con chiarezza le cause che pure egli stesso espone. Ritengo, semmai, che sia stato in grado di elencarle, come il ragazzine dodicenne che ho menzionato prima, ma che anche lui avrebbe rinnegato queste cognizioni se lo si fosse indotto ad approfondirle in modo più diretto. La mia supposizione si basa sul fatto che l'autore descrive bensì con comprensione razionale il destino dei figli, ma senza la partecipazione emotiva e la simpatia che invece sono palesemente percettibili nella descrizione dei genitori. Anche i personaggi del dramma condividono con l'autore la solidarietà nei confronti dei genitori visti come vittime. Benché i figli assumano un atteggiamento critico e siano in grado di formulare delle accuse, non abbandonano mai la prospettiva dei genitori. Alla fin fine considerano la loro sorte come un fallimento personale e se ne sentono responsabili. Capiscono, vogliono capire perché il padre è diventato un avaro. Lo amano e sono disposti a perdonargli tutto. Solo a se stessi non sanno perdonare nulla. Non è loro consentito capire perché sono diventati quelli che sono. E dal momento che approvano, immedesimandosi emotivamente, tutto quello che i genitori fanno, i figli non trovano più l'oggetto su cui scaricare la loro rabbia. La collera, pur giustificata, è rimossa, e in questa forma rimossa continua a roderli, incontrollata, fino alla totale autodistruzione nella malattia e nel vizio. Cito il lungo dialogo fra padre (Tyrone) e figlio (Edmund) dal quarto atto. Illustra la disperata, solitària lotta di Edmund per arrivare alla verità contro la menzogna, contro gli antichi e risaputi modi di dire, contro le fatiscenti facciate e contro il rifiuto della realtà. E dimostra contemporaneamente le ragioni per cui questa lotta è necessariamente destinata al fallimento: Edmund è sempre solo. Qualunque cosa cerchi d'esprimere, non gli si da retta. Non gli rimane altro da fare che immedesimarsi emotivamente in quel bambino vecchio e ignaro che è suo padre.

TYRONE (irritato, per ripicco) In quanto a questo, dato che insisti tanto a giudicare le cose in base a quello che racconta lei quando non è a posto col cervello, ti dico che se tu non fossi nato, a quest'ora lei mai... (Si ferma, pieno di vergogna).

EDMUND (di colpo affranto, disfatto) Oh sì, lo so che lo pensa, papa.

TYRONE (subito pentito, protesta) Non è vero! Al contrario, ti ama, e molto, come nessuna madre ha mai amato il figlio! Ho detto così solo perché m'avevi fatto venire una rabbia del diavolo col tuo rispolverare il passato, e col dirmi che mi odi...[...] Non lasciarti scoraggiare troppo, ragazzo, dalle brutte notizie che hai ricevuto oggi. Tutti e due i dottori hanno garantito che se segui attentamente le norme di quel posto dove andrai, in sei mesi sarai guarito, al massimo in un anno.

EDMUND (duro in volto nuovamente) Non prendermi in giro. Tu non ci credi.

TYRONE (con eccessiva veemenza) Ma è naturale che ci credo! Perché non dovrei, quando sia Hardy che lo specialista...?

EDMUND Tu sei convinto che sto per morire.

TYRONE Menzogne! Sei matto!

EDMUND (con acuta e beffarda amarezza) Quindi, perché sprecare del denaro? E così mi spedisci in un sanatorio di stato...

TYRONE (con colpevole imbarazzo) Che sanatorio di stato? £ il sanatorio di Hilltown, per quello che ne so. E tutt'e due i dottori hanno detto che è il posto migliore per te.

EDMUND (sprezzante) Migliore per i soldi che sei disposto a dare! E cioè niente o quasi niente. Non mentire, papa. Lo sai benissimo che il sanatorio di Hilltown è una istituzione statale! [...] Negalo se è vero.

TYRONE Ma non è vero il modo con cui vedi la cosa! E che c'è di male, poi, se è dello stato? Niente. Lo stato ha tanti di quei soldi da poter costruire un sanatorio cento volte più attrezzato della migliore casa di cura privata. E perché non dovrei avvantaggiarmene? £ nel mio diritto... e nel vostro. Siamo dei cittadini. Io sono un contribuente. Ci sono anche i miei soldi, lì dentro... Mi ammazzano di tasse...

EDMUND (con acre ironia) Già, per una proprietà valutata centinaia di migliaia di dollari. [...] Ammettilo e non mentire! (Con aumentata intensità) Diavolo, papa, dal giorno che m'imbarcai e che dovetti mantenermi da solo, me ne resi conto di quello che voleva dire sgobbare per una paga misera, e sentirsi sfiniti, affamati, ed essere costretti a sdraiarsi sulle panchine d'un parco perché non sai dove andare a dormire. Per questo ho cercato di essere comprensivo con te. Sapevo quante difficoltà avevi dovuto affrontare da ragazzo e ho cercato di lasciar perdere tante cose. È che se uno non fa così, ammattisce in questa famiglia della malora! Dio, ho cercato anche di tenere conto di tutte le balorde scemenze che ho commesso io! Ho cercato di convincermi, come mamma, che tu non puoi fare a meno di essere quello che sei, quando si tratta di soldi. Ma, dio buono, questa volta hai passato tutti i limiti. Mi fai venir da vomitare! E non per il modo schifoso con cui ti comporti con me. Me ne infischio, di questo! Anch'io, a modo mio, t'ho trattato malamente, e più d'una volta. Ma quello che m'impressiona è che tu abbia il coraggio di fare davanti a tutti la figura del vecchio spilorcio quando tuo figlio ha la tubercolosi! Non lo sai che Hardy parlerà, e che lo verrà a sapere tutta la gente di questa dannata cittadina! Ma papa, non hai nemmeno un po' d'amor proprio di vergogna? (Sì sfoga con rabbia) Ma non credere che lascerò la cosa finire così! Non ci penso nemmeno d'andare in un maledetto sanatorio di stato per farti risparmiare qualche dollaro pidocchioso e per consentirti di comperare un altro po' di terra inutile! Vecchio tirchio... (La suavocerocae tremante di rabbia è soffocata da un accesso di tosse thè lo scuote a lungo).

TYRONE (durante la requisitoria del figlio si è come rattrappito sulla sedia, m un atteggiamento che rivela, più che collera, tormentato pentimento. Balbetta) Calmati! Non parlarmi così! Sei ubriaco! Non faccio caso a quello che dici... Finiscila di tossire, ragazzo. Ti sei agitato tanto per nulla. Chi ti ha detto che dovrai andare per forza a Hilltown? Andrai dove ti sembrerà meglio. Non me ne importa un accidente di quanto potrà costare. L'unica cosa che m'interessa è che tu ti rimetta. E non mi chiamare un vecchio tirchio, perché non voglio che i medici mi prendano per un milionario da mungere. (Edmund ha smesso di tossire. Ha un aspetto stanco e sofferente. Il padre lo osserva con viva apprensione) Hai l'aria stanca, ragazzo. Prenditi un buon corroborante.

E ora, visto che il potere non riesce ad affermarsi, che non c'è altro argomento con cui sostenere la vergogna, visto che il figlio non si lascia distogliere così facilmente dalla verità, si ricorre all'ultima arma: il padre si appella alla compassione e alla comprensione del figlio, ne dimentica la malattia e s'immerge totalmente nella propria infanzia. È un'arma che evidentemente non ha mai mancato di avere effetto sul figlio. Il bambino dimentica subito la propria angoscia e si trasforma immancabilmente nel sostegno dei genitori che piangono sulle loro sofferenze.

EDMUND (afferra la bottiglia e si riempie il bicchiere fino all'orlo. Con voce fioca) Grazie.

TYRONE (si mesce una grossa dose di whisky, vuotando la bottiglia, e la beve. China il capo osservando stralunato le carte sulla tavola. Con aria distratta) Chi è di mano? (Con voce sorda, senza risentimento) Vecchio tirchio. Bah, forse hai ragione. Forse non posso fare a meno di esserlo. [...] Da bambino ho appreso per la prima volta il valore del denaro e mi è venuta la paura di finire all'ospizio. Da allora non mi sono più sentito sicuro del domani. Ho sempre temuto che le cose potessero cambiare e che potessi perdere da un momento all'altro tutto quello che possedevo. D'altro canto, più terra hai e più ti senti sicuro. Sarà irragionevole, ma per me è così. Le banche falliscono e i tuoi soldi spariscono, ma la terra è là, puoi sentirtela sotto i piedi. (Assume improvvisamente un tono di sprezzante sufficienza.) Hai appena detto che capisci quanto ho dovuto lottare io da ragazzo. Un accidente di niente capisci! E come potresti? Tu hai avuto tutto... bambinaie, scuole, collegio, anche se poi non ci sei voluto restare. Non t'è mai mancato da mangiare, da vestire. Oh, lo so, per un po' di tempo hai lavorato duramente anche tu, e hai fatto un piccolo assaggio di quello che significa star lontano da casa e senza un soldo, in paesi stranieri, e per questo ti stimo. Ma per te non è stato altro che un'avventura romantica. Un gioco.

EDMUND (con cupo sarcasmo) Sì, specie quando ho tentato di suicidarmi da Jimmy il Prete, e ci sono anche quasi riuscito.

TYRONE Non avevi la testa a posto. Nessuno dei miei figli sarebbe capace di... Eri ubriaco.

EDMUND Ero lucidissimo. Era questo il guaio. E m'ero deciso appunto dopo non aver fatto altro che pensare.

TYRONE (con stizza da ubriaco) Non ricominciare con le tue frenesie da ateo pessimista! Non m'interessano. Quello che voglio farti capire... (Sprezzante) Che ne sai tu del valore del denaro? Avevo dieci anni quando mio padre abbandonò mia madre e tornò in Irlanda a morirci. Cosa che gli capitò prestissimo. E se lo meritava. E io spero che arrostisca all'inferno. Ha scambiato il veleno per topi per farina o zucchero o qualcosa del genere. Poi si disse che non era stato uno sbaglio, ma è una menzogna. Nella mia famiglia mai nessuno ha...

EDMUND E io scommetterei che non fu un errore.

TYRONE Sempre queste tue idee morbose! Te le ha attaccate tuo fratello. Tutto quello che riesce a pensare di peggio, per lui è pura verità. Ma lasciamo perdere. Mia madre restò sola, straniera in terra straniera, con quattro bambini piccoli sulle spalle: io, una sorella appena più grande di me, e due più piccini. Due fratelli più vecchi se ne erano andati altrove. Non potevano aiutarci. Riuscivano a mala pena a provvedere a se stessi. E nella nostra povertà non c'era niente di romantico. Fummo scacciati due volte dalla miserabile baracca che chiamavamo casa, con le povere masserizie di mia madre gettate in mezzo alla strada, e la mamma e le sorelle in lacrime. Anch'io piangevo, ma cercavo in tutti i modi di non farlo vedere, perché ero l'uomo della famiglia. A dieci anni! Che scuola vuoi che ci fosse per me! Lavoravo dodici ore al giorno da un meccanico a imparare a usar la fresa. [...] Non avevamo da vestirci a sufficienza e neppure da mangiare. Ho ancora chiaro davanti agli occhi un giorno del Ringraziamento, o forse era un Natale, che mia madre ricevette un dollaro in più, forse in regalo, da uno degli yankee da cui andava a servizio. Nel tornare a casa lo spese tutto in roba da mangiare. Ricordo che ci abbracciò e ci baciò e che ci disse, con la faccia stanca tutta bagnata da lacrime di contentezza: «Che Dio sia ringraziato se per una volta in vita nostra ne abbiamo abbastanza per tutti!» (Si asciuga le lacrime) Una donna brava, affettuosa, coraggiosa. Non ce n'è mai stata una più brava e coraggiosa.

EDMUND (commosso) Sì, deve proprio esserlo stata.

TYRONE L'unica paura che aveva era di invecchiare e di finire in un ospizio. (Si interrompe. Poi aggiunge, arcigno) È allora che ho imparato a essere avaro. Un dollaro valeva molto, allora. [...] (Con veemenza) Scegli il posto che ti piace! Non curarti di quanto costa! Qualunque sanatorio io sia in grado di pagare. Dove vuoi... nel limite del ragionevole, naturalmente. (Nel sentire questa precisazione, un risolino affiora sulle labbra di Edmund. Il suo risentimento è scomparso. Il padre prosegue, ora, con studiata disinvoltura.) Ci sarebbe un altro sanatorio raccomandato dallo specialista. Pare che in tutto questo paese non ce ne sia uno migliore. Lo ha costruito un gruppo di grandi industriali, soprattutto a beneficio dei loro operai, ma tu potresti entrarci, dato che hai la residenza qui. Con la quantità di soldi che hanno, non hanno neanche il bisogno di farsi pagare molto. La retta è di soli sette dollari alla settimana, ma l'assistenza che si riceve è dieci volte superiore. (In fretta) Non che voglia persuaderti, capiscimi. Ti ripeto soltanto quello che m'è stato detto.

EDMUND (celando un sorriso. In tono casuale) Oh, ne ho sentito parlare. Sì, mi pare una cosa conveniente. Ci andrò. Così la cosa si sistema. (Improvvisamente è di nuovo affranto e disfatto. Con voce cupa) Del resto non me ne importa più niente, ormai. Lasciamo perdere. (Cambia argomento) Allora, questa partita? A chi tocca?

TYRONE (macchinalmente) Non so. A me, credo. No, a te. (Edmundgioca una carta. Il padre la piglia. Poi, mentre sta scegliendo la carta da giocare, si dimentica di nuovo della partita) Sì, forse ho avuto una lezione troppo dura dalla vita, e ho attribuito al denaro un valore esagerato. Sbaglio che m'è costato la mia carriera d'attore serio. (Triste) Non l'avevo mai detto a nessuno, figliuolo, ma stasera mi sento proprio abbattuto, mi sembra di toccare il fondo di tutto, e non vedo perché dovrei seguitare a fingere e a ripararmi dietro un falso amor proprio. [...]

EDMUND (lo osserva con comprensione, commosso. Lentamente) Papa, sono contento che tu mi abbia detto queste cose. Adesso ti conosco un po' di più.

TYRONE (con un sorriso stanco, stentato) Forse non dovevo dirtele. Forse Servirà solo a farmi sembrare più spregevole. E non è nemmeno la maniera migliore perché tu capisca il valore del denaro. (Come se la ; frase avesse automaticamente innescato un'associazione di idee, alza gli occhi al lampadario con aria di disapprovazione) Mi fa male agli occhi tutta questa .luce inutile. Ti dispiace se spengo queste lampadine? Tanto non ci servono, e non c'è nessun bisogno di arricchire l'azienda elettrica. . EDMUND (ha una gran voglia di rìdere, ma si trattiene. Compiacente) Oh no, affatto. Spegnile pure.

TYRONE (si alza, pesante e piuttosto malfermo sulle gambe. Tocca con fare incerto le lampadine. Ritorna al pensiero di prima) No, proprio non so che diavolo ci volevo fare con quei soldi. (Spegne una lampadina) Te lo giuro su ciò che ho di più sacro, Edmund, sarei felice di non avere neppure un ettaro di terra, neppure un centesimo in banca... (Spegne un'altra lampadina) Vorrei non possedere una casa e rassegnarmi all'idea dell'ospizio in vecchiaia, pur di essere stato il grande attore che potevo diventare. (Spenta la terza lampadina, rimane acceso ora solo il lume sulla tavola. Torna a sedersi, impacciato. Edmund non riesce più a contenersi e scoppia in una risata nervosa, ironica. Tyrone se ne risente) Di che accidente ridi?

EDMUND Non di te, papa. Della vita. È così dannatamente pazza.

TYRONE (borbottando) Le solite idee da disperato! Non è con la vita che bisogna prendersela! Siamo noi che... (Cita) "L'errore, caro Bruto, non si trova negli astri, ma in noi che d'essi ci rendiamo schiavi" [...].

EDMUND [...] Tu hai appena finito di raccontarmi qualche fatto saliente della tua esistenza. Vuoi ascoltare i miei? Hanno tutti a che fare col mare. Eccone uno. Ero sul veliero di quella testa quadrata d'uno scandinavo. Facevamo vela per Buenos Aires. Luna piena sull'Atlantico. La nostra carretta filava a quattordici nodi. Io stavo sdraiato sul bompresso, faccia a poppa, l'acqua spumeggiava lì sotto, e gli alberi, con le vele bianche al chiaro di luna, che torreggiavano alti sopra di me. Mi inebriavo di quella bellezza e di quel ritmo armonico e per un momento mi sono smarrito... ho davvero smarrito la vita. Ero sciolto, libero! Mi sono confuso col mare, sono diventato vele bianche e spruzzi d'acqua, sono diventato bellezza e ritmo e chiaro di luna, nave e l'altissimo ciclo stellato. Non avevo né passato né futuro, appartenevo alla pace e all'unità del tutto e a una gioia primitiva, a qualche cosa di più grande della mia vita o della vita umana o della vita stessa! [...] Ed è venuto il momento dell'estasi, della libertà. La pace, la fine degli affanni, il porto definitivo, la gioia di appartenere a qualcosa di assolutamente compiuto, al di là delle pietose grette pidocchiose paure e speranze e illusioni umane!...[...] Per un attimo vedi il significato! Poi la mano lascia cadere il velo e tu resti solo, perduto nuovamente nella nebbia, e incespichi nella realtà presente, senza un motivo plausibile! (Ride, forzato) È stato un grosso sbaglio nascere uomo. Avrei avuto molta più fortuna come gabbiano o pesce. Così come sono, mi sentirò sempre un estraneo fuori posto, che non cerca e non è cercato sul serio da nessuno, che non potrà mai appartenere a nessuno, costretto a flirtare con la morte!

TYRONE (lo sta fissando, impressionato) Sì, hai proprio la stoffa di un poeta. (Contraddicendolo, con forza) Ma è follia da disperato dire che ami la morte e che nessuno ti cerca.

EDMUND (sardonico) La stoffa di un poeta. No, ho proprio paura di essere come quella bella figlia che tutti vogliono e che nessuno piglia. Tutto fumo. Quello che ho appena tentato di raccontarti, per esempio, è inconsistente. Ho parlato a vanvera. E non arriverò mai a fare di più. Se vivrò, naturalmente. Beh, se non altro sarà fedele realismo, il mio. Balbettare, parlare a vanvera è il modo d'esprimersi congeniale a noialtri, gente della nebbia.

Edmund si definisce un uomo di nebbia, dice che le sue parole sono 'tutto fumo', un parlare a vanvera, e qualifica in questo modo la poesia. Il balbettio indistinto, dunque, come espressione congeniale all'uomo di nebbia? Ogni parola acquista senso qui, se si tiene presente che a Edmund era stato fin dalla nascita vietato di vedere la verità, di coglierla con chiarezza e di esprimerla. Intuiva d'essere un figlio non desiderato, sapeva di non sentirsi a casa in nessun posto: ma non può dire esplicitamente né l'una né l'altra cosa. Il padre lo definisce 'pazzo e morboso' quando il figlio cerca di esprimere la sua angoscia, eppure sa, perché Mary glielo ha detto, che lei ha maledetto la nascita di Edmund. Cos'altro resta a un figlio che non siano il balbettio, la nebbia, lo sfogo nella 'poesia' e infine la morte? Quello che sa è stato messo al bando, entrambi i genitori cercano di toglierglielo di mente con ogni mezzo e a ogni costo. Non può spartirlo con nessuno. O'Neill sapeva di descrivere in questo dramma il suo stesso passato, e la dedica che segue lo dimostra: Per Charlotta, nel dodicesimo anniversario di nozze. Carissima: pongo nelle tue mani il manoscritto di questo dramma, nato da dolore precoce, scritto con sangue e lacrime. Un regalo davvero poco adatto, all'apparenza, per una ricorrenza felice. Ma tu capirai. Lo affido alle tue mani quale omaggio al tuo amore e alla tua tenerezza, che mi hanno dato fede nell'amore e la forza di confrontarmi infine coi miei morti e di scrivere questo dramma... di scriverlo con profonda pietà, comprensione e indulgenza per tutti e quattro gli angustiati Tyrone. Questi dodici anni, mia unica amata, sono stati un viaggio verso la luce... col tuo amore. Sai quanto ti sono grato. E quanto ti amo!

Tao House, 22 luglio 1941

Gene.

 

 

Tuttavia, la pietà, la comprensione e l'indulgenza «per tutti e quattro gli angustiati Tyrone» non sono valse ad aiutare il poeta a salvare il bambino vero dalla morte spirituale, il bambino non ancora in grado di capire e divenuto muta vittima del disorientamento e dello sradicamento dei suoi genitori. Nell'inconscio di O'Neill quel piccolo bambino, spiritualmente ucciso, che egli stesso era stato un tempo, ha continuato a vivere. Nel dramma appare nel figlio che Mary amava e che le è morto bambino, nel figlio al quale il poeta ha dato il suo stesso nome: Eugene. Eugene è il bambino morto fra i due fratelli, l'alcolizzato Jamie e il poeta tisico Edmund, e nello stesso tempo simbolo del destino di O'Neill. I fratelli interpretano la sorte del padre di Mary, da lei rinnegato, e il piccolo Eugene, condannato a fine prematura, rappresenta la morte del bambino che sapeva la verità. In fondo tutti e tre i fratelli rappresentano i diversi aspetti di quell'unico figlio sacrificato alla menzogna della madre che Eugene O'Neill portava con evidenza dentro di sé. Ha mostrato entrambi gli aspetti allo spettatore: le menzogne dei genitori e la verità del figlio. Lo spettatore può vederle. Solo al figlio rimane precluso l'accesso alla verità. L'ultima parola, nel dramma, spetta a mamma Mary, che descrive la sua tragedia. Non la tragedia autentica, non la sorte d'una bambina il cui padre era un alcolizzato poi morto di tisi. No, questa è una storia prosaica che non è consentito menzionare, nessuno in famiglia è autorizzato a parlarne. Ciò che Mary esprime alla fine del dramma, con dolcezza di sentimenti e palesemente assecondata dalla simpatia dell'autore, è una versione trasfigurata e superficiale della sua vita. Sarebbe voluta andare in convento, servire la Vergine Maria, ma la madre Elisabeth le aveva imposto un periodo di prova: «Avvenne nell'inverno dell'ultimo anno di scuola. Poi, in primavera, mi è successa una cosa. Sì, me ne ricordo. Mi sono innamorata di James Tyrone e sono stata così felice, per qualche tempo.»

Queste parole concludono il dramma, mirando a tranquillizzare sentimentalmente lo spettatore che, per due ore e mezzo, ha potuto guardare bene in faccia la verità. Ma è una verità alla quale non ci si vuole attenere. Nella conclusione viene mascherata, e ciò che rimane è nebbia: la vita è difficile, ma anche bella, nello stesso tempo. Non sono andata in convento, però ho trovato un marito che amavo. Abbiamo avuto dei figli. Dopo tutto dobbiamo essere contenti di aver potuto avere tanto. Mary non si chiede: perché volevo rinchiudermi in un convento? Perché mi sono messa a bere tanto da perdere infine il controllo di me stessa? Perché i miei figli vanno in rovina? Sono domande che non può porsi. Deve continuare a restare nella confusione, nella nebbia, nella totale idealizzazione del padre. Arriva al punto che non vuoi nemmeno sentir parlare della tisi del figlio, e definisce la sua tosse come la conseguenza d'una Wgera infreddatura e vieta assolutamente ogni riferimento al vizio paterno. Lo veniamo a sapere solo da suo marito, in sua assenza. «Mio padre era un uomo meraviglioso, intelligente, forte, che mi amava più di ogni altra cosa e mi ha sempre protetta», è la versione di Mary. Ma è possibile che la figlia amata di un uomo forte e intelligente diventi una drogata che distrugge — che deve distruggere — la vita della sua famiglia? Una donna simile non c'è mai stata e non può esserci. E neanche Jslary lo è. In realtà è una delle innumerevoli donne che raccontano come se fosse realtà, a ogni costo e in ogni circostanza, la favola dello straordinario carattere del padre. Mary sosterrà per tutta la vita che il nero è bianco, e il bianco è nero, e non capirà che in questo modo spinge verso la follia non solo se stessa, ma anche i figli. Perché un bambino che sia esposto quotidianamente a una simile confusione non sa più sottrarvisi. Ha bisogno di sua madre, vuole e deve crederle. Deve quindi negare le sue stesse constatazioni e cercare l'aiuto dell'alcool o di altre droghe, visto che non c'è altra persona che lo aiuti a vedere la verità e a sopportarla. Il dialogo che segue mostra come Mary scansi la realtà e come la madre 'amorosa' neghi comprensione al figlio perfino di , Ironie alla morte, solo perché la verità potrebbe portarla a contatto di quelle sofferenze rimosse di cui ha paura. «Non devi prendertela con lui», e cioè col padre, intima a Edmund, esattamente come un tempo avevano intimato a lei. Ed Edmund, formai adulto, tenta bensì, debolmente, di ribellarsi contro simili imposizioni, ma non c'è nessuno che lo aiuti, nessuno che confermi la sua percezione della verità, tanto che i suoi tentativi "'testano vani. E tanto più lo erano stati nella sua infanzia: il bambino, allora, aveva fatto di tutto per corrispondere al desiderio della madre, aveva rinunciato perfino alla sua vita pur di diventare il figlio morto, il figlio rimpianto, l'unico che la madre avesse amato. Non conosco brano che possa descrivere con maggiore incisività di questo il potere e l'abuso del potere da parte d'una madre impotente:

EDMUND [...] Senti, mamma. Bisogna che ti parli, che tu mi ascolti o no. Devo andare in sanatorio.

MARY (allibita, come chi riceve una notizia incredibile) Andartene? (Con violenza) No! Non voglio! Come osa il dottor Hardy dare consigli di questo genere senza consultarmi? Come osa permetterglielo tuo padre? Che diritto ha? Tu sei il mio bambino! Che si occupi di Jamie, lui! (Semprepiù amaramente infiammata) So perché vuole mandarti in sanatorio. Per staccarti da me! Ha sempre cercato di farlo, in tutte le maniere. È stato geloso di tutti i miei bambini! Ha fatto di tutto per allontanarmi da loro. Ecco perché Eugene è morto. E di te è stato più geloso che degli altri. Sapeva che ti amavo di più perché...

EDMUND (convulsamente) Oh, smetti di parlare come una matta! Via, mamma! Piantala di dar la colpa a lui. E perché adesso sei così contraria a lasciarmi andare? Sono stato via tante di quelle volte, e non mi pare che ti si sia mai spezzato il cuore!

MARY (con amarezza) Temo che tu non sia, in fondo, sensibile come pensavo. (Tristemente) Potevi immaginarlo da solo, mio caro. Quando mi sono accorta che sapevi di me, purché tu non potessi vedermi, ero contenta anche di saperti in capo al mondo.

EDMUND (di schianto) Mamma! No! (Si sporge come un cieco per prenderle la mano. Ma la abbandona immediatamente, sopraffatto di nuovo dall'amarezza) Dici di volermi bene... e non vuoi neanche ascoltarmi se cerco di spiegarti il male che ho...

MARY (improvvisamente premurosissima, ma col solito distacco) Via, via. Ora sii buono! Non voglio ascoltarti perché si tratta soltanto di invenzioni di quell'ignorante di Hardy. (Lui si rinchiude di nuovo in se stesso. Lei prosegue m un tono falsamente scherzoso, ma con una punta sempre più avvertibile di risentimento) Sei come tuo padre, caro. Godi a fare delle scenate per nulla, tanto per fare il tragico. (Con un sorriso di sufficienza) Se ti dessi corda, fra poco diresti di essere sull'orlo della tomba...

EDMUND Ma si può morire per questo. Anche tuo padre...

MARY (aspra) Che c'entra mio padre, adesso? Non c'è nessun confronto. Lui aveva la tisi. (Con ira) Ti odio quando ti abbatti e diventi così pessimista! E ti proibisco di ricordarmi la morte di mio padre, hai capito?

EDMUND (la sua espressione è dura; con crudezza) Sì, ho capito, mamma. Sono stato un bel cretino a farlo! (Si alza in piedi per fissarla con uno sguardo di condanna. Amaramente) È proprio una pena certe volte, quando invece di una madre hai davanti una morfinomane! (Lei indietreggia. Il suo viso si fa di un pallore mortale. Sembra una maschera di gesso. Edmund è subito pentito di ciò che ha detto. Balbettando penosamente) Mamma, perdonami... Ero arrabbiato... Mi avevi fatto male. (C'è una pausa durante la quale si odono la sirena nella nebbia e i tocchi di campana delle navi all'ancora).

MARY (si avvicina lentamente, come un automa, alle finestre di destra e guarda fuori. Con voce atona, remota) Questa sirena spaventosa. E le campane. Chissà perché la nebbia fa sembrare triste e senza rimedio ogni cosa?

EDMUND (affranto) Io... io non ce la faccio a restar qui. Non mi va di cenare. (Si precipita fuori attraversando il salotto, mentre lei seguita a fissar la nebbia oltre la finestra. Dopo un po' si sente la porta di casa che si chiude dietro di lui. Lei allora torna a sedersi dov'era, con lo stesso sguardo inespressivo)

MARY (soprapensiero) Devo andare di sopra. Non ne ho presa abbastanza. (Si interrompe; poi con trasporto) Mi capitasse almeno, una volta o l'altra, di prenderne una dose mortale. Ma senza volerlo. Non lo farei mai di proposito. La Vergine benedetta non mi perdonerebbe. (Sente Tyrone che sta rientrando [...]) [...] Ha detto che non voleva cenare. Non ha appetito in questi giorni. (Caparbia) Ma è solo un raffreddore esti-vo. (Tyrone la fissa, scuote il capo con rassegnazione e si versa molto whisky nel bicchiere, e beve. Mary a questa vista non sa più trattenersi e scoppia in singhiozzi) Oh, James, sono così spaventata. (Si alza e lo abbraccia, nascondendo il viso sul suo petto. Tra i singhiozzi) Ho saputo che sta per morire!

TYRONE Non dire così! Non è vero! Entro sei mesi sarà guarito, me lo hanno assicurato!

MARY Ma tu non lo credi ! Lo vedo da come ti comporti. E la colpa ;è mia. Non dovevo metterlo al mondo. Sarebbe stato meglio per lui. Non gli avrei mai fatto del male, allora. Non avrebbe mai saputo che sua madre è una drogata... e non m'avrebbe odiato!

TYRONE (con voce tremante) Sta zitta, Mary, per amor di dio! Edmund ti vuole bene. Lo sa che è stata una disgrazia che ti è capitata senza che te ne rendessi conto o lo volessi. È fiero di averti per madre! {Brusco, perché ha sentito aprire la porta della dispensa) Silenzio, ora! Ecco Cathleen. Non vorrai farti vedere che piangi! [...]

In una frazione di secondo Edmund scorge l'odio che c'è dietro l’amore' della madre, e lo dice, ma nell'attimo seguente ritira ciò che ha detto e si scusa con lei, senza una ragione.

II più delle volte non facciamo caso al fatto che il bambino è privo di diritti, perché siamo cresciuti anche noi in quella condizione e la riteniamo giusta. Solo nell'invenzione poetica si può mostrare tanta verità, a patto che la si definisca contemporaneamente un 'parlare a vanvera' o addirittura 'morboso e pazzo'. Mary rappresenta la povera donna disorientata, la ragazza ingenua, la vittima della droga, e suscita compassione nello spettatore appunto perché non è più una bambina ma una madre. Però è una madre che tarpa al figlio la possibilità di vivere: gli contesta la verità che lui ha compreso correttamente, lo confonde, lo illude facendogli credere di essere amato, e pretende infine amore e rispetto in cambio. È un genere di 'amore materno' che un figlio sopporta raramente senza ricavarne dei danni. E ciò nonostante la società è cieca di fronte a queste lesioni.

La solidarietà con gli interessi dei genitori e il tradimento del bambino che si esprimono sia in Kafka che in O'Neill, sia pure in modi così diversi, si possono riscontrare in tutti gli autori che conosco, anche in quelli che passano per essere dei 'ribelli'. Esistono bensì autori teatrali, come per esempio Beckett, lonesco e Genet, nei quali mancano i gesti concilianti finali, però nei loro drammi non sono i genitori, e men che meno quelli propri, a essere sul banco degli accusati. L'accusa è rivolta alla società in quanto tale, e cioè ai genitori in una forma astratta, simbolica. Però in tutte le opere in cui gli autori accusano direttamente i genitori, danno infine a loro l'ultima parola e costringono il bambino a tacere. Questa svolta si può osservare assai bene, per esempio, nei film di Ingmar Bergman. In Fanny e Alexander ci troviamo perfino di fronte a un caso di brutali sevizie inflitte a bambini. Forse la crudeltà del padre può essere qui descritta con tanta evidenza perché appare come patrigno, mentre sullo sfondo si idealizza il buon padre morto. Però, grazie a questa distinzione, Bergman riesce almeno a mostrare l'ipocrisia dell'educazione con una verosimiglianza quale non s'era mai vista prima in un film. Purtroppo, dopo questo passo coraggioso, segue l'opera di abbellimento cui il bambino è spietatamente sacrificato perché non è in grado di difendersi, e perché vorrebbe credere anche lui in questa bellezza: la mamma è cara, la famiglia è cara, lo zio irresponsabile ama la vita e tutto finisce in gloria. Pare che a Bergman sfugga che la madre 'amorosa' abbandona di fatto i figli alla mercé d'un criminale, costringendoli ad amarlo e a rispettarlo. E quindi alla fine il bambino rimane solo, separato dalla sua verità e abbandonato dalla società rappresentata dalle persone dell'autore e degli spettatori. Un altro esempio è fornito dal dramma Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Vi si descrive un poveraccio, anche simpatico, che è stato continuamente represso dai genitori e dall'intraprendente fratello, e che di conseguenza non riesce, da adulto, a farsi valere nel suo mestiere. Si arrabatta tutta la vita per la famiglia, e infine sacrifica la sua stessa vita perché la famiglia possa vivere della sua assicurazione. In sostanza è un silenzioso eroe del nostro tempo. Dopo il funerale, la vedova e i due figli si congedano da lui, dalla sua tomba, con afflizione autentica, con malinconici ricordi e grande gratitudine. Lui è il milite ignoto, il combattente sconosciuto dell'odierna, anonima società. Ma cos'ha preceduto questa fine? All'uomo irrimediabilmente fallito non bastava che i due figli lo amassero, aveva bisogno di figli brillanti di cui poter essere fiero, per dimostrare finalmente a suo fratello e ai genitori di essere riuscito a combinare qualcosa nella vita. Il dramma mostra come questi due figli non riescono nemmeno ad approfittare delle buone qualità di cui certamente dispongono, non riescono a vivere la loro vita perché non pensano ad altro che a corrispondere alle aspettative del padre, e non ce la fanno. Il dramma mostra come e perché non avrebbero mai potuto farcela. Mostra, allo stesso modo die nel dramma di O'Neill, la lenta distruzione di due giovani esseri umani — qui a opera del padre e a causa dell'amore che gli portano — i quali trasfigurano completamente quello che lui ha fatto. Di questa trasfigurazione è infine vittima anche l'autore. Conclude il dramma in modo tale che la verità risulta infine del tutto invisibile. Ha voluto mostrare tutta la verità? Sì. Ma gli era permesso sapere quello che aveva fatto? Tendo a dubitarne, vista la conclusione.