TEORIE USATE COME SCUDO
Le opinioni difese con maggiore energia sono proprio quelle non giuste, e che tuttavia concordano col nostro sistema educativo. Trasformare un'asserzione inesatta in un dogma protegge l'individuo da un doloroso risveglio (A. Miller, 1988 a, cap. 7). A questa funzione corrispondono anche le teorie freudiane sulla sessualità infantile, sul complesso d'Edipo e sull'istinto di morte. Inizialmente Freud aveva scoperto, nel corso di terapie praticate in parte ancora coll'ausilio dell'ipnosi, che tutte le sue pazienti e i suoi pazienti erano stati bambini maltrattati, e che gli raccontavano la loro storia nel linguaggio dei sintomi (Freud, 1896). Dopo aver comunicato queste sue scoperte alla cerchia degli psichiatri, si ritrovò completamente isolato, con delle nozioni che nessuno dei suoi colleghi intendeva condividere. Non riuscì a sopportare a lungo quest'isolamento. Alcuni mesi dopo, nel 1897, definì i racconti fattigli dai pazienti a proposito degli abusi sessuali subiti, come delle semplici fantasie da riferire alle loro precoci pulsioni. Il sonno dell'umanità, disturbato per breve tempo, potè a quel punto proseguire.
Ogni persona che si confronti col problema del maltrattamento dei bambini e osservi fino a che punto quest'esperienza sia rimossa e negata dagli altri, è fortemente scossa e resa insicura; perché allora dovrebbe chiedersi: ma allora, in cosa consiste il mio caso? Se le vittime dei peggiori maltrattamenti sono in grado di negarli così recisamente, come posso essere sicuro che la memoria non inganni me? Anche Freud si pose questa domanda, quando era ancora aperto alla comprensione dei problemi e non si era ancora corazzato contro di essi mediante una costruzione teorica. Gli si profilarono svariate ipotesi, fra cui quella di pesanti risentimenti nei confronti di suo padre, come si può leggere in una lettera diretta a Fliess:
Purtroppo mio padre è stato uno di questi perversi, e si è reso colpevole dell'isteria di mio fratello (le cui condizioni sono tutte identificazioni) e di alcune delle sorelle più giovani. Il fatto che questo rapporto si riscontri tante volte mi rende spesso perplesso (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, 1986, n. 120). Chiunque può verificare su se stesso quali apprensioni scatenerebbero simili accuse rivolte al proprio padre. E tanto più pericolosi dovevano essere simili pensieri cent'anni fa. Forse Freud avrebbe ugualmente trovato la forza di verificare l'ipotesi riguardante suo padre, se avesse potuto disporre dell'appoggio anche di una sola persona. Tuttavia il suo più stretto e fidato interlocutore, Wilhelm Fliess, non seppe apprezzare la scoperta di Freud. Suo figlio però, Robert Fliess, divenuto più tardi psichiatra e psicoanalista, ha pubblicato tre libri che contengono materiale assai istruttivo a proposito di abusi sessuali commessi da genitori sui loro stessi figli. E Robert Fliess ha impiegato molti decenni per scoprire infine che anche lui, all'età di due anni, aveva subito un abuso sessuale da parte del padre e che questo evento coincideva temporalmente col momento in cui Freud si era discostato dalla verità. Nei suoi libri ha pubblicamente esposto la sua storia personale proprio perché era convinto che fosse stato suo padre a dissuadere Freud dallo sviluppare ulteriormente la teoria del trauma. Il figlio ritiene (R. Fliess, 1973) che, dopo quanto gli era accaduto, quella teoria avrebbe scatenato nel padre, Wilhelm Fliess, dei complessi di colpa. £ difficile giudicare, dall'esterno, fino a che punto questa supposizione sia esatta.
Oltre a questa, esiste tutta un'altra serie di spiegazioni del tradimento della verità compiuto da Freud nel 1897. Hanno tutte in comune il fatto di attribuire ad alcuni aspetti della vita privata di Freud la causa di questo passo gravido di conseguenze.
Può anche darsi che tutti questi fattori abbiano svolto un ruolo più o meno significativo e che si sorreggessero anzi a vicenda. Sta di fatto, comunque, che soggiacevano tutti all'effetto del comandamento 'Non devi accorgerti', che ci impedisce, ancora oggi, di vedere ciò che i genitori fanno ai loro figli. Nonostante l'imperativo di questo comandamento, ci sono stati in passato alcuni terapeuti — come Sandor Ferenczi e Robert Fliess, per esempio — che hanno tentato di sottrarvisi. Tuttavia, è quasi impossibile pervenire a una simile indipendenza e chiarezza di visione senza mettere in discussione i propri genitori, senza le intense sofferenze causate da questo crollo d'illusioni, senza l'aiuto e l'assistenza di altri che vorrebbero a loro volta superare la propria cecità o che lo abbiano già fatto. In fondo, quindi, non è il caso di meravigliarsi (anche se le conseguenze sono state fatali) che Sigmund Freud, 90 anni fa, si sia piegato a questo comandamento, alle sue paure e alla rimozione.
Lo stesso ha fatto in seguito Wilhelm Reich nello sviluppare la teoria che doveva aiutarlo a superare le sue sofferenze di bambino precocemente e costantemente violato nella sfera sessuale. Anziché riesplorare il male prodotto dall'essere stato ingannato dalla persona adulta di cui aveva fiducia e dall'aver dovuto subire questo male senza potersene difendere, Wilhelm Reich ha sostenuto per tutta la sua vita, fino alla psicosi: ero io che lo volevo, io ne avevo bisogno, ogni bambino ne ha bisogno!
Tutta la comprensione che possiamo riservare a Reich e a Freud non ci deve tuttavia impedire di constatare che Freud, con la sua teoria delle pulsioni, ha arrecato all'umanità un danno grave. Invece di prendere sul serio la propria angoscia, si è schermato dall'angoscia con l'aiuto di teorie. Fondando per di più una scuola e dogmatizzando le sue tesi, ha istituzionalizzato la negazione della verità, tanto da fornire alle menzogne della pedagogia una apparente legittimità scientifica. E questo perché i dogmi di Freud coincidevano con la diffusa concezione secondo cui il bambino è malvagio e cattivo per natura, e deve essere educato al bene dagli adulti. Questa perfetta coincidenza con la pedagogia ha a sua volta conferito alla psicoanalisi un'alta considerazione sociale, tanto che l'inesattezza dei suoi dogmi è rimasta a lungo inosservata (A. Miller, // bambino inascoltato, nota a pag. 9 e pagg. 19-51).
L'avallo pedagogico di queste teorie è così forte che nemmeno il movimento delle donne è riuscito a scorgerne l'effetto fuorviante. Ed è stato così possibile che la teoria delle pulsioni sia stata considerata come un progresso — e non come un rifiuto di guardare alla verità dei maltrattamenti infantili — anche da donne impegnate.
Molte persone sono tuttora del parere che non si debba addebitare a Freud la colpa della distanza dalla realtà, dell'imprecisione e dell'inaffidabilità di certi psicoanalisti: e questo perché Freud è stato, dopo tutto, un geniale scopritore. Lo stesso si sostiene a proposito di C.G. Jung: i padri sono idealizzati a spese dei 'figli' e delle 'fìglie'. Non sono stati questi ultimi però a inventare la psicoanalisi; è stata inventata dai 'padri' che, nell'elevare il rifiuto della verità a dogma, hanno reso difficile ai 'figli' e alle 'fìglie' l'uso degli occhi e delle orecchie. Hanno avuto poche occasioni per contraddire con le loro esperienze le asserzioni del 'padre', e questo perché non è consentito confutare un dogma. Il dogma vive della paura dei fedeli di perdere l'appartenenza al gruppo. Il suo potere deriva da questa paura, ed è a questo potere che bisogna ascrivere il dato oggettivo che degli individui 'lavorino' per trenta o quarant’anni, giorno dopo giorno, sulle vittime dei maltrattamenti infantili senza nemmeno cogliere la realtà dei fatti, al punto che neanche i loro pazienti riescono poi ad approdare alla verità. Poiché i giochetti a base di parole, associazioni d'idee e speculazioni mentali sono esplicitamente orientati a cogliere presunte 'fantasie' dei pazienti, mantenendosi indifferenti ai loro sfondi reali, i risultati non difettano soltanto della necessaria precisione e affidabilità, ma non possono nemmeno essere verificati (A. Miller, // bambino inascoltato, pagg. 243-250).
La dogmatizzazione della teoria delle pulsioni è, secondo me, da considerare come una colpa dello stesso fondatore della psicoanalisi. Quando una persona descrive il discostarsi dalla realtà come un importante passo in avanti scientifico e fonda una scuola che conferma gli allievi nella loro cecità, allora non si tratta più di un affare privato. Si tratta — anche quando è compiuta inconsapevolmente — d'una violazione degli interessi dell'umanità. Ed è appunto questa, in sostanza, la premessa della violazione: non si compirebbe se gli individui fossero pienamente consapevoli della loro condizione, della loro storia e della loro responsabilità.
Negli ultimi anni ho imparato più che in tutto il resto della mia vita a capire qual è la condizione del bambino nella nostra società e in che cosa consiste il blocco mentale che condiziona i pensieri e i sentimenti delle persone che esercitano la psicoanalisi. Spesso questi blocchi fanno sì che i pazienti siano sottoposti a un prolungato trattamento che non ha altra funzione che quella di cementare l'originaria colpevolizzazione del bambino, tanto da non poter quasi portare ad altro che a forme di depressione. La migliore via d'uscita per sottrarsi a simili depressioni croniche è quella di volgersi a propria volta alla professione di psicoanalista; in questo modo la cementazione mediante teorie che preservano dalla verità può proseguire: a spese altrui, naturalmente.
La psicoanalisi si fregia a torto delle qualifiche di 'progressista' e 'rivoluzionaria', alle quali si aggrappa similmente a quanto fa coi suoi dogmi. Al giorno d'oggi un giovane non consentirebbe probabilmente a un bisnonno di novant'anni di dirgli che cosa è progressista e che cosa non lo è. Però consente che siano gli analisti a dirglielo in nome di Freud e non si rende conto che le concezioni che postula risalgono ad almeno novant'anni prima e non sono state da allora quasi cambiate: perché un dogma non può essere modificato. E, tramite l'influsso che gli analisti esercitano sui loro pazienti, l'effetto di questi dogmi si allarga anche fuori dagli ambiti specialistici e impedisce l'accesso alla realtà.
Sento esprimere spesso l'opinione secondo cui, se è stato portato alla luce il fenomeno degli abusi sui bambini, lo dobbiamo alla psicoanalisi. Ed è sulla base di simili errori che comprendo quanta confusione c'è in questo settore: perché è proprio la psicoanalisi che ha impedito e impedisce di comprendere il fenomeno. Non mi stupisco della confusione, perché, per lungo tempo, nemmeno io sono riuscita a venirne a capo. Non che credessi nei dogmi, ma non mi ero accorta della funzione che svolgono: non consentono di prendere in seria considerazione fatti nuovi e di ammettere passate omissioni.
Fra le molte lettere che ricevo e che confermano questa mia tesi, c'è anche lo scritto di un noto analista il quale mi ha fatto sapere di aver avuto solo raramente a che fare con vittime di abusi sessuali nell'arco dei quarant’anni della sua pratica psicoanalitica. Alcune donne gli avrebbero sì riferito di violenze sessuali, tuttavia, nel corso del lavoro analitico, sarebbe 'emerso' che si trattava di fantasie basate su desideri infantili di indurre il padre a compiere quegli atti solo per potersene poi av-valere nei confronti della madre. Questo psicoanalista sosteneva inoltre — richiamandosi ad autori come Fenichel e Nunberg — che ogni bambino si abbandonerebbe a rapporti di natura sessuale coi genitori se l'incesto non fosse tabù. Complessi di colpa e nevrosi s'instaurerebbero solo perché la società vieta simili rapporti, creando proprio con i divieti l'insorgere di difficoltà. Questo scambio di idee e molte altre lettere mostrano con spaventosa evidenza fino a che punto la psicoanalisi classica è arrivata nella negazione della realtà. Infatti, secondo le asserzioni dello storico statunitense dei fenomeni psichici Lloyd de Mause, già nel 1986 si valutava che più della metà delle donne statunitensi fossero state nell'infanzia vittime di abusi sessuali (L. de Mause, 1987).
Viviane Clarac racconta nel suo libro (1985) di essere stata violentata all'età di 5 anni da suo padre, un diplomatico di rango elevato, e di avere poi subito per altri dieci anni i suoi abusi sessuali. All'età di 25 anni non ce la fa più a sostenere in solitudine questo segreto e si rivolge a un centro d'assistenza per donne vittime di violenze. L'assistente cerca di spiegarle che queste 'relazioni incestuose' sono abbastanza diffuse e che non è il caso che si vergogni del piacere che ne ha tratto. La speranza di Viviane di trovare aiuto risulta così delusa: fissa un altro appuntamento con il centro di assistenza, ma poi non ci va. A che scopo, del resto? Tante donne ci tornano invece, e consentono che si continui a disorientarle per tutta la vita.
Non so come mai proprio questa terapeuta abbia poi concepito delle formulazioni che rendono inconoscibili gravi forme di abuso sui bambini e ingannano le loro vittime. Non so quali fattori personali abbiano causato la sua cecità, però so come mai non è capace di capirla e da dove ha desunto le sue opinioni. Perché io conosco queste opinioni dall'educazione che è stata impartita a me stessa e dall'insegnamento che ho seguito per diventare psicoanalista: mi è sempre stato detto che i genitori sono innocenti. Si è così fortemente dominati da questa concezione che molte persone non si rendono conto né di che cosa significhi, né di quali siano le conseguenze sulla vittima qualora l'abuso d'autorità e l'inganno vengano definiti innocenti 'relazioni' incestuose o 'fantasie'. Nessuno è in grado di figurarsi, col solo ausilio dell'immaginazione, l'orrore cui sono quotidianamente e realmente esposti certi bambini. Freud ha sbarrato la porta che da accesso alla percezione dei maltrattamenti compiuti sui bambini, e ha poi nascosto così bene le chiavi da renderle introvabili per svariate generazioni.
Ancora oggi capita raramente di sentire un freudiano dire: «Come è stato possibile non vedere tutto questo? Per novant'anni ci siamo limitati ad ascoltare quelli che sono stati a suo tempo dei bambini maltrattati, e non abbiamo fatto altro che rafforzarli nelle loro rimozioni. Volevano credere che non era loro successo niente, e si aggrappavano ai sintomi. E noi ci siamo alleati con la menzogna!» Invece dicono quasi tutti, in coro: «Freud non ha mai contestato che l'abuso sessuale possa talvolta realmente verificarsi, in aggiunta alle fantasie (!), ma le vittime di queste situazioni si rivolgono raramente a un analista. » E invece lo fanno, purtroppo. Ci vanno, a schiere, e continuano poi a tornarci. Tornano dagli analisti per lunghi periodi e pagano profumatamente pur di non scoprire la verità e di poter risparmiare i genitori. Si distendono sul divano quattro volte alla settimana, raccontano quel che passa loro per la mente e aspettano il miracolo che non avviene mai e che non si vuole che accada. Perché il miracolo verrebbe con la verità, ed è proprio la verità che è vietata.
Una donna di 79 anni mi ha scritto dagli Stati Uniti di essersi sottoposta per quarantanni, presso otto analisti diversi, ad analisi a causa delle gravi depressioni di cui soffriva. Solo quando ha letto i miei libri ha capito di aver subito nell'infanzia dei gravi abusi. Ma nel corso di tutte le analisi non le era stato consentito di arrivarci. Gli analisti ai quali si era rivolta avevano cercato le cause dell'asserito crudele comportamento dei genitori nella vita pulsionale della paziente e difeso i suoi genitori. La donna citava l'ultima frase del mio libro La persecuzione del bambino: «Infatti l'anima umana è praticamente indistruttibile e, finché il corpo resta in vita, le rimane sempre la possibilità di risorgere dalle proprie ceneri.» E poi proseguiva: «Mi sento, per la prima volta, autenticamente viva da quando mi sono liberata di quei sensi di colpa, da quando non mi sforzo più di perdonare inconcepibili crudeltà.»
La teoria delle pulsioni e le gravi conseguenze che determina sono soltanto alcuni dei molti esempi per dimostrare la negazione della realtà. La società si è da sempre difesa dalle possibilità di prendere coscienza dei maltrattamenti inflitti ai bambini. Nel diciottesimo secolo c'è stata per qualche tempo la moda di scrivere autobiografie. Quanto emerge da quegli scritti, a proposito dell'infanzia, è spaventoso. Però è significativo che queste confessioni siano poi presto cadute di moda e siano state sostituite da teorie psicologiche e sociologiche, ma soprattutto da teorie pedagogiche fuorvianti e ostili alla vita. Il pedagogo Cari Heinz Mallet menziona in un suo appassionante libro (1987) un gran numero di scritti di pedagogia per dimostrare le conseguenze delittuose di queste teorie. Molti dei mali che oggi infliggiamo ai bambini sarebbero perfettamente evitabili se la nostra società adulta — genitori, medici, insegnanti, operatori sociali e altri — fosse meglio informata sulla condizione del bambino, sulle conseguenze dei maltrattamenti e soprattutto sui fatti concreti. C'è stata una grande cesura nella mia esistenza quando ho capito che anche le teorie psicoanalitiche contribuivano a rendere impossibile la diffusione di queste informazioni, e a impedire quindi anche la conoscenza dei maltrattamenti che sono inflitti ai bambini.
L'argomentazione di Freud non avrebbe mai avuto successo se la maggior parte delle persone non fosse cresciuta con quella stessa tradizione radicata in sé. Forse i suoi successori si sarebbero accorti presto che ciò che ha l'aspetto d'un'argomentazione non lo è affatto. Quando Freud scrive che è inverosimile che esistano tanti padri perversi, e definisce quindi i racconti delle sue pazienti come fantasie, la sua non è un'argomentazione, bensì un infantile rifiuto della realtà che culmina nella frase: «Mio padre, al quale voglio tanto bene, è un uomo grande e buono. Non può aver fatto nulla di male, e per me sarebbe del resto inconcepibile: infatti, per vivere, ho bisogno di credere che mi vuole bene, che mi protegge, che non abusa di me e che è consapevole della sua responsabilità.»
Chi ha una qualche confidenza con famiglie in cui si sono verificati abusi sessuali su bambini, sa che non è detto che i padri che abusano sessualmente dei loro figli debbano necessariamente apparire in pubblico come dei perversi. La loro perversione si limita spesso esclusivamente all'ambito familiare. La società punisce solo i pedofili che non hanno figli propri. Ma poiché il figlio proprio è considerato alla stregua di una proprietà privata, si consente che nell'ambito familiare ogni genere di comportamento deviante, assurdo e perverso distrugga indisturbato la vita altrui senza che nessuno ci faccia caso. Se poi un giorno la figlia violentata finisce in una clinica, affetta da schizofrenia, e il suo psichiatra le somministra massicce dosi di farmaci perché si riduca al punto di saperne anche meno di prima, non apprenderà mai che è stato sostanzialmente il comportamento del padre a spingerla nella pazzia. Perché, per salvare l'immagine paterna, per guardare alla propria infanzia come a un'esperienza positiva, non deve sapere la verità. E preferisce 'perdere' la ragione.
Prima di pubblicare il mio primo libro, ho tenuto una conferenza sul conformismo degli psicoanalisti e sulle intuibili vicende delle loro infanzie. Dopo la conferenza, mi è stato chiesto: «Non vorrà per caso sostenere sul serio che tutti gli psicoanalisti sono stati dei bambini maltrattati?» La mia risposta: «Non lo posso sapere, lo posso soltanto supporre. Direi tuttavia che colui che si mette nella condizione di non dover più negare gli abusi commessi ai danni dei bambini, che sono così diffusi e che ha sicuramente sperimentato anche nella propria famiglia, non può esercitare la psicoanalisi. Perché a quel punto le teorie psicoanalitiche perdono ogni senso.»
La mia supposizione si è in seguito avvalorata quando ho appreso che ci sono degli analisti che non sono nemmeno in grado di ricordare bene i primi diciassette anni della loro esistenza e non vi scorgono alcunché d'allarmante. La conseguenza, di fronte a una così massiccia rimozione della propria infanzia e pubertà, è che si fa di tutto, che si è costretti a fare di tutto per evitare che i pazienti possano ridestare le sofferenze rimosse nell'analista. Freud ha offerto loro, in questo senso, i mezzi necessari, e gli analisti in difficoltà ricorrono a questi mezzi come un tossicodipendente ricorre alla droga. E pagano questa droga con la propria cecità.
Una giornalista mi ha riferito che uno psichiatra in pensione, già primario d'una grande clinica, le ha detto: «Non è il caso che si agiti tanto a proposito dei maltrattamenti dei bambini; il bambino sopravvive senza grandi difficoltà a quelli che lei definisce maltrattamenti, perché i bambini sono degli artisti della sopravvivenza.» Quel medico aveva indubbiamente ragione nel fare questa affermazione: ma è tragico che non conoscesse, evidentemente, il prezzo che si paga per questa sopravvivenza. E non sapeva nemmeno di aver egli stesso dovuto pagare questo prezzo e di farlo pagare ad altri. Perché si è confrontato per quarantanni coi suoi pazienti, uomini e donne, ha prescritto loro dei medicinali, ha detto loro parole buone e non ha mai capito che le gravi condizioni psicotiche che aveva modo d'osservare ogni giorno non erano altro che tentativi di raccontare, col linguaggio dei sintomi, i maltrattamenti e i disorientamenti subiti nell'infanzia.
L'esperta di medicina legale Elisabeth Trube-Becker sostiene (1987), sulla base delle più recenti ricerche, che a fronte di un caso segnalato di abuso sessuale su bambini, si devono contare altri cinquanta casi non segnalati. Se si aggiungono i casi di maltrattamenti fisici e psichici che non sono soprattutto di natura sessuale, si arriva alla necessaria conclusione che i delitti compiuti ai danni dei bambini costituiscono il più diffuso tipo di crìmine in assoluto. Un'ulteriore riflessione ci porta inevitabilmente alla spaventosa constatazione che milioni di esperti (medici, giuristi, psicologi, psichiatri e operatori sociali) hanno a che fare con le conseguenze di questi delitti, senza realizzare o senza poter dire di che cosa si tratta.
Se considero questa situazione a occhi aperti, sono contenta di non temere il rischio di trasformarmi in una statua di sale, e di avere invece la possibilità, da persona moderna, di continuare a denunciare circostanze di fatto devastanti, e anzi di suscitare la crescente attenzione altrui.
È una possibilità che anche Elisabeth Trube-Becker sembra voler prendere in considerazione. Non teme di essere chiara e precisa, e di chiamare per nome i fatti con cui si confronta ogni giorno. Non ricorre a teorie astruse o a compiacenti ideologie, che servirebbero solo a schermarsi rispetto alla verità e a confondere i fatti. Ecco cosa scrive:
Le dimensioni occulte relative agli abusi sessuali compiuti su bambini sono molto più grandi di quelle relative ad altre forme di maltrattamento. Per un caso denunciato di abuso sessuale di un bambino, ce ne sono venti che non vengono scoperti. E quando si tratta di fatti che avvengono nello stretto ambito familiare, il rapporto è addirittura di 1 a 50.
Neanche nella letteratura specializzata si riferisce — o in minima parte soltanto — di reati sessuali ai danni di bambini, e quando lo si fa, si giudica raro il fenomeno e si indica nel bambino il responsabile. Si rimanda alla sessualità e alla fantasia del bambino, e più in generale ci si rifa a Freud e al cosiddetto complesso d'Edipo, che recentemente è stato messo assai in dubbio — e a ragione — dai ricercatori.
Si sostiene che il bambino mente, benché sia assodato che un bambino nell'età prepuberale — la vittima più frequente di violenze sessuali — non mente quasi mai, se non altro perché non è nella condizione di inventare con la fantasia ciò che non ha mai sperimentato.
Certo, nemmeno il bambino è un essere asessuato. Ha sensibilità e stimoli. E curioso. Desidera e ha bisogno di affetto, contatto fisico e tenerezza. Ma gli adulti non devono mai sfruttare per abusi di natura sessuale il naturale bisogno che il bambino ha di calore umano e di simpatia, oltre che di vantaggi materiali. La responsabilità di quello che accade è sempre dell'adulto e mai del bambino, al contrario di quanto è stato di recente sostenuto perfino da una sentenza del tribunale di Kempten (luglio 1984). I giudici hanno riconosciuto all'imputato, come circostanza attenuante, il fatto che l'iniziativa a commettere il delitto sarebbe 'partita' e sarebbe poi stata 'portata avanti fino a un certo limite dalla sua giovane vittima' : e si trattava di una bambina di sette anni!
Ma perché tanti di questi crimini rimangono nascosti?
Perché l'abuso sessuale ai danni dei bambini è ancora oggi considerato come un fenomeno estremamente raro, che non vai quasi la pena di menzionare?
Le cause sono diverse e diversamente articolate.
1. Spesso la vittima del delitto è un bambino piccolo, oppure l'abuso sessuale comincia già sul lattante o nell'età della primissima infanzia, in un periodo cioè in cui il bambino non è ancora nella condizione di esprimersi.
Quando padri manipolano i genitali dei loro figli, quando madri si approfittano di un lattante per fare delle fotografie pornografiche (caso specifico), non si tratta che dell'inizio d'una forma crescente di violenza sessuale che si può poi protrarre per molti anni senza che nessuno se ne accorga. Nessun individuo assennato può davvero pensare di trovarsi dinanzi a un fatto isolato ed episodico quando gli si mostra — come è avvenuto nell'inchiesta «Sessualità oggi» — il caso d'un uomo che infila un dito nella vagina d'una bambina di sei mesi per verificare 'se la piccola ci sta già'.
2. Il bambino più grandicello ha paura di denunciare i fatti, soprattutto se a commetterli è stato il padre. L'autorità paterna e le relative minacce impediscono al bambino di rivolgersi ad altri in cerca di aiuto. E a chi potrebbe del resto rivolgersi il bambino, se proprio la persona che dovrebbe proteggerlo stravolge in modo criminale la fiducia riposta in lui?
3. Se una bambina riesce a confidarsi, la si accusa di essere una bugiarda (si consideri che il 90% delle vittime sono bambine) o la si giudica come la parte responsabile — e tale infatti per lo più essa stessa si considera — oppure la si insulta addirittura chiamandola 'piccola puttana'. L'altro più stretto parente, la madre, la induce a ritrattare le accuse, altrimenti la famiglia ne sarebbe rovinata e sarebbe privata di colui che la sostenta. Un bambino di cui si abusi sessualmente troverà assai di rado, in queste condizioni, la forza psichica necessaria per parlare, tanto più che in molti bambini insorge dell'odio nei confronti del proprio corpo, cui attribuiscono la 'colpa' di tutto quello che accade loro. «La colpa è tutta del mio corpo. Se non lo avessi, papa non potrebbe più toccarmi» (Charlotte Vale Allen, citata da A. Miller, 1983). Perfino certi collaboratori di uffici per l'assistenza all'infanzia, inesperti di questi problemi, reagiscono così alle notizie che apprendono: «La colpa sarà stata certo del bambino».
4. Anche il comportamento della madre — che teme di perdere colui che provvede al mantenimento della famiglia o che ha paura del marito — contribuisce a celare i fatti, tanto più che spesso si trova, in famiglia, in una posizione subalterna o è completamente all'oscuro di ciò che avviene durante la sua assenza.
5. Se si ricorre al consiglio di un medico, questi, per lo più, si guarderà bene dal considerare le conseguenze di abusi sessuali fra le ipotesi diagnostiche. I medici si dimostrano del tutto ingenui e scettici di fronte all'abuso sessuale d'un bambino, e non ravvisano nemmeno nei disturbi del comportamento le conseguenze di maltrattamenti sessuali.
Gli psicologi e gli psicoterapeuti relegheranno le affermazioni del bambino soprattutto nell'ambito della fantasia, esattamente come ha fatto Freud: «Freud si è spaventato di fronte alla realtà» (A. Miller, 1983).
6. La generalizzata indifferenza nei confronti dell'individuo più debole, ma anche l'impaccio degli adulti che non sanno come regolarsi, sono altri fattori che contribuiscono a impedire che questi delitti siano scoperti.
Gli uomini esitano a parlare dell'abuso sessuale commesso sui bambini, per timore d'essere considerati anche loro dei presunti criminali: una paura che ho avvertito spesso, nel corso di parecchi colloqui.
Il tema affrontato è subito 'accantonato'. Risulta penoso il fatto stesso di considerare gli abusi sessuali ai danni di bambini nell'ambito delle reali possibilità.
7. Se si arriva a un procedimento giudiziario, s'instaura spesso la sensazione che, nel caso d'incesto, si tratti comunque d'un fenomeno assai raro.
Ed è stupefacente con quanta discrezione si proceda — oggi come in passato — nei confronti del responsabile. Non si pensa affatto, o quasi, alla vittima: e cioè al bambino. Lo si sottopone a tutte le ispezioni possibili e immaginabili, e poi lo si squalifica comunque come poco attendibile. La tendenza prevalente è addirittura quella di giustificare soprattutto i padri, e di colpevolizzare il bambino per poter banalizzare il delitto.
8. Si presume che il fatto in sé avvenga senza uso di violenza: senza vittima e senza colpevole, insomma. Si tende perfino a far credere che la stessa grande quantità di bambini che subiscono azioni di pedofilia sessuale è lì a dimostrare che si tratta, dopo tutto, d'un fenomeno assolutamente comune e che non comporta di solito conseguenze dannose: il che avviene, secondo me, solo perché non ci si vuole far caso.
Può anche darsi che, contrariamente a quanto avviene negli episodi di maltrattamenti corporali di altra natura, solo in pochissimi casi siano rilevabili i segni fisici d'un abuso sessuale; ma le turbe comportamentali di più o meno grave rilevanza che possono insorgere anche più tardi e influire sulla vita successiva sono lì a dimostrare che l'abuso sessuale, specialmente quando ne è colpevole il padre, non è subito senza conseguenze. I medici e i periti giudiziari sono investiti del problema dell'abuso sessuale su un minore solo quando vi siano lesioni degli organi genitali, nei casi di gravidanze prodotte da incesto (che al giorno d'oggi sono spesso interrotte prima ancora che ci si debba occupare delle loro cause), di fronte all'insorgere di malattie veneree o di altre tracce dell'abuso, e nel caso in cui ne derivi la morte del minore.
9. Secondo il parere di diversi autori e di molti psicoterapeuti, la 'sollecitazione' a compiere il crimine è spesso individuata nel comportamento delle bambine: una tesi di per sé già assurda quando si tratti di lattanti o di bimbette in tenerissima età, sempre che non si contestino loro a titolo di 'colpa' la pelle liscia e tenera delle cosce o lo sgambettare quando si cambiano loro i pannolini. Si afferma perfino, fra l'altro, che le vittime infantili dei delitti sessuali sono 'interessate in modo non comune' alla sessualità, e sono spesso d'aspetto avvenente, attraente, seducente... Povero delinquente! Com'è dunque possibile attribuirgli delle colpe? A questo proposito va solo aggiunto che il comportamento delle bambine, le quali — nella sicurezza teoricamente rappresentata dalla ristretta cerchia familiare — esercitino in qualche modo le loro arti di seduzione, è assolutamente normale, e non autorizza né all'incesto, né all'abuso sessuale da parte di estranei, e men che meno costituisce una sollecitazione perché degli adulti si abbandonino a iniziative sessuali che di regola non sono avviate dalla bambina ma dall'uomo adulto, che se ne deve assumere tutta la responsabilità. Non è ammissibile che un adulto si approfitti del naturale bisogno che un bambino ha di tenerezza, calore umano e simpatia, di carezze e anche di vantaggi materiali, per abbandonarsi a pratiche sessuali. Ciò nonostante la colpa di quel che accade non è ricercata nell'adulto responsabile, ma sempre nel bambino o anche nella madre: e naturalmente si trova anche il modo di dimostrarla.
Sono proprio gli psicologi che maggiormente tentano di rovesciare il rapporto vittima-responsabile, di trasformare cioè colui che si abbandona a pratiche sessuali in vittima della seduzione del bambino: questa è una inversione arbitraria delle responsabilità, le quali — devo sottolinearlo ancora una volta — ricadono invece sempre sull'adulto.
10. Infine si sostiene che le istituzioni statali non sono autorizzate a intromettersi nella sfera dell'intimità familiare. La famiglia è tabù. E tale deve restare a ogni costo: anche se a farne le spese è il bambino. La protezione rappresentata dalla famiglia continuerebbe comunque a essere il miglior rifugio per il bambino. Principio che si può senz'altro approvare, a patto che la famiglia protegga davvero il bambino, gli consenta di svilupparsi liberamente, a patto che questi possa fidarsi illimitatamente degli altri componenti il nucleo familiare e che il suo diritto all'integrità fisica e psichica sia accettato dagli altri membri della famiglia; non invece quando il potere dell'adulto si esplica nell'abuso e il bambino è costretto a soddisfare pretese sessuali dei genitori o di altre persone.
L'incesto è la forma più diffusa di abuso sessuale praticata ai danni dei bambini e anche quella più gravata dall'omertà, alla quale contribuiscono l'imperativo del silenzio, il silenzio sui fatti e anche il mutismo degli altri familiari [...] Muovendo da pochi e isolati casi, è insorta soprattutto presso gli psicologi la convinzione che l'incesto sia raro e si verifichi solo in ambienti di bassa condizione socio-economica, a livello di classi sociali inferiori cioè, ove sarebbe connesso alla pratica di altre violenze, all'alcolismo, alla disoccupazione ecc. È un punto di vista che non può essere condiviso alla luce delle risultanze medico-legali: l'incesto si verifica in tutti gli strati sociali, senza eccezioni riferibili alla religione o al gruppo etnico; ma non c'è statistica dei crimini che se ne occupi. E nei primi anni di vita ne sono vittime bambini d'entrambi i sessi [...]. Secondo Baurmann (1983), il 90% delle vittime di stupri sono bambine o ragazze, due terzi delle quali d'età compresa fra i 5 e i 15 anni [...]. Secondo Kempe (1980) i casi d'incesto sarebbero notevolmente aumentati negli Stati Uniti, e questo varrebbe anche per l'area europea. È più probabile invece che nella nostra epoca sia solo più facile aver notizia e denunciare questi episodi. Si comincia a riflettere di più sul fenomeno e 'le figlie non tacciono più' (A. Miller, 1983). E sono proprio i casi d'incesto quelli che possono protrarsi anche per degli anni, e se ne ha notizia solo quando il padre si oppone alla volontà della figlia ormai adulta di lasciare la casa dei genitori, e la terrorizza, la picchia o addirittura la uccide.
Facendosi adulta, la figlia riesce di norma a stabilire contatti anche al di fuori dell'ambito familiare, a farsi degli amici e a confidarsi con loro, sempre che disponga ancora di sufficiente forza di carattere per assumere comportamenti attivi. Rafforzata nei suoi propositi, trova poi anche il coraggio di lasciare la casa paterna, tanto che il rapporto incestuoso fra padre e figlia viene necessariamente a cessare. Non se ne parla più, non c'è statistica che lo abbia registrato, né — tanto meno — lo si può più penalmente perseguire. A volte, lasciata la casa dei genitori, la ragazza trova il coraggio di parlare dell'abuso al quale è stata per anni assoggettata, di rompere il silenzio che le è stato imposto e anche di denunciare il caso. Il desiderio di lasciare l'ambito familiare può avere però conseguenze anche mortali, esattamente come l'opposizione alla prepotenza: un giovane ha ucciso la sorella di 16 anni che gli si voleva sottrarre, ha sessualmente abusato di lei quando era già morta e infine ha strangolato il fratellino di 10 anni perché era stato testimone dell'accaduto.
Non è affatto vero che il bambino, nei suoi primi anni di vita, fosse esposto a un clima di abusi sessuali solo nell'antichità: è un fenomeno che si protrae fino a tutto il diciannovesimo secolo. Baciare e succhiare il petto del bambino, toccargli i testicoli, i capezzoli e gli organi genitali, leccargli la pelle, violare la sfera anale dei maschietti, vendere dei bambini ai bordelli per pedofili e altre pratiche quasi inimmaginabili erano e sono ancora all'ordine del giorno: tutte manifestazioni di pedofilia che vengono favorite ogni volta che si nega o si sminuisce la loro perseguibilità penale.
Va detto che, anche nella nostra epoca, i bordelli in cui si sfruttano e si torturano sessualmente bambine non sono soltanto una triste prerogativa di alcuni paesi asiatici, anche se è lì che il fenomeno è più diffuso. Si sa di bambine thailandesi tenute prigioniere in questi bordelli, e costrette alla prostituzione mediante droghe e violenze fisiche. Secondo quanto hanno riferito sette bambine sopravvissute, il 30 gennaio del 1984, all'incendio di uno di questi bordelli, erano trattate come schiave. Le piccole non potevano mai lasciare l'edificio, e venivano incatenate l'una all'altra quando una di loro tentava di fuggire. Una di queste bambine ha raccontato a un medico, all'ospedale, di essere stata quotidianamente costretta, ogni giorno fra le 18 e le 5, ad avere rapporti sessuali con almeno dodici uomini, e questo sin da quando l'avevano portata via dal suo villaggio all'età di due anni. I principali clienti di questi bordelli sono soprattutto turisti europei, i quali, per l'appagamento dei propri stimoli sessuali, si servono di bambini e bambine che sono costretti a prostituirsi. A Hong Kong esistono delle prostitute di cinque anni [...]. La prostituzione infantile rappresenta un problema anche negli stati industrializzati. L'Unicef calcola che in tutto il mondo siano due milioni i bambini di entrambi i sessi che soggiacciono a varie forme di sfruttamento sessuale. Ed è una cifra che non comprende gli abusi sessuali che avvengono in famiglia. Elisabeth Trube-Becker descrive le pesanti conseguenze degli abusi patiti nell'infanzia e fornisce esempi sconvolgenti. La sua elencazione va tuttavia integrata con riferimento allo stato di inconscia costrizione interiore che induce, più tardi, le vittime a ripetere le esperienze rimosse su altre creature inermi, a meno che una persona consapevole non le aiuti a far riemergere quanto è stato rimosso.
Ho imparato su me stessa, dalla terapia cui mi sono sottoposta, che i sentimenti di colpa che mi erano stati imposti mi portavano a una rimozione sempre più accentuata ogni qual volta cercavo di confrontarmi dentro di me coi miei genitori: sentimenti di colpa che mi vietavano l'accesso alla realtà e bloccavano la possibilità di esperire le sofferenze patite. Solo quando sono stata messa in grado di dubitare della mia presunta colpa, sono riaffiorate le sensazioni di allora. E solo quando ho potuto sentire che i miei genitori mi avevano ignorata, non presa sul serio, disprezzata senza che vi fosse stata colpa da parte mia, sono riuscita a rendermi conto di cosa mi era accaduto. Ho compreso che non era compito mio imporre a loro il senso della responsabilità, che non potevo io, una lattante, rendere i miei genitori capaci di amare. L'unica cosa che sono stata capace di fare è stato di mostrar loro la mia disponibilità: far capire che mi si poteva sfruttare e che non avrei mai reagito con delle recriminazioni. La vita, allora, non mi dava altra possibilità.
Quando ho compreso la funzione di blocco esercitata da questi complessi di colpa, mi sono accorta che operavano e m'impedivano di dormire ogni qual volta emergeva in me un frammento di quei traumatici ricordi. Il giorno dopo tendevo a negare di nuovo tutto quello che io stessa avevo scoperto il giorno prima. Dimenticavo, mi sentivo costretta a rimangiarmi tutto, oppure mi sentivo una miserabile per il solo fatto di aver potuto pensare qualcosa di così spaventoso sul conto dei miei genitori. E in queste circostanze riacquistava effetto la stessa regola che aveva costretto Freud a tradire le sue scoperte.
Molti terapeuti constatano ripetutamente questa resistenza nei loro pazienti, e l'interpretano erroneamente come una prova che non è possibile ristabilire la realtà dei fatti. Del resto lo stesso paziente non è sicuro che quelli che descrive siano ricordi autentici oppure solo fantasie. La lotta interiore che avviene nel bambino per conservare l'immagine del buon papa o della buona mamma può essere così intensa che non solo il paziente, ma anche tutto il suo ambiente divenga vittima del disorientamento. L'opinione di Freud che si possa inventare anche qualcosa di peggio dei fatti realmente esperiti ha creato molti guasti anche nel mio caso. Avrei tanto voluto credere che tutti quei segnali m'ingannassero, che in fondo non fosse successo nulla di così grave, e che malvagio e ingiusto fosse solo il mio sospetto. Ho tanto desiderato che la psicoanalisi avesse ragione, perché volevo conservare intatta l'immagine dei genitori amorevoli.
Col passare del tempo ho compreso che l'idea che i bambini inventino dei traumi è assurda. Chiunque può verificare la legge di natura secondo cui l'essere umano sfugge il dolore, e non lo cerca. Cerca il piacere invece, la gioia, la tranquillità. E il masochismo non costituisce un'eccezione alla regola, poiché esso è una forma di costrizione che induce a farsi di nuovo del male solo perché quello patito in passato rimanga rimosso. Il masochista che, in cambio di denaro, si fa frustare da una prostituta, e vuole, durante questo trattamento, restar seduto su un vaso da notte, si comporta in questo modo perché agisce sotto la costrizione di riprodurre il trauma dell'educazione alla pulizia e di conservare a ogni costo la rimozione di questo ricordo. Un'altra legge della vita è questa: l'idealizzazione dei genitori coll'ausilio della fantasia e della rimozione aiuta il bambino a sopravvivere. Attribuire del male alle persone amate, con cui si hanno le relazioni più immediate, contraddice l'istinto naturale di difesa e quindi una legge di vita. Se ne deduce necessariamente che il bambino non inventa mai dei traumi. Anzi: per sopravvivere, deve renderne sopportabile il dolore con l'aiuto della fantasia.
Un esempio istruttivo è costituito, a questo proposito, da un episodio su cui la stampa statunitense si è soffermata per mesi e mesi nel 1985: in una scuola la maggior parte dei più di trecento scolari era stata a lungo sfruttata da sette insegnanti per giochi di natura sessuale e sadica. Questi insegnanti dicevano ai bambini che i loro genitori sarebbero morti se avessero riferito loro qualcosa di quello che avveniva a scuola. Mostravano loro dei piccoli animali uccisi e dicevano: questa è la fine che farai se racconterai a casa quello che facciamo. I bambini si sono attenuti al silenzio e hanno subito a lungo quel terrore, perché non ne scorgevano una via d'uscita. Quando poi, nel 1985, la faccenda si è risaputa, i sette insegnanti — fra i quali anche la direttrice della scuola — sono finiti davanti al tribunale. Gli avvocati hanno assillato per dei mesi i bambini coi loro interrogatori, finché alla fine la maggior parte degli insegnanti è stata assolta benché i bambini avessero reso dichiarazioni concordi. Si ritenne ugualmente di aver provato che i bambini avevano mentito: i giudici non erano stati capaci di comprendere il linguaggio del bambino e il ruolo svolto dalla fantasia.
Alcuni dei bambini hanno per esempio sostenuto di aver ucciso un neonato, senza che questo racconto trovasse un riscontro autentico. Di conseguenza sono stati tutti ritenuti dei bugiardi e non si è attribuito alcun valore a quello che avevano riferito. Ai giudici non è nemmeno venuta l'idea che i bambini potessero sentire e interpretare il consenso che erano stati costretti a dare ai giochi sessuali come l'uccisione del neonato che essi stessi erano stati, e che descrivessero quindi non un fatto reale ma uno stato d'animo. L'invenzione del neonato ucciso era l'espressione d'una realtà, e più precisamente un'espressione che sminuiva la portata reale del trauma subito. E questo perché è più facile considerarsi responsabili piuttosto che sentirsi e sapersi vittime innocenti, ancora esposti al pericolo della tortura e della persecuzione. Ogni paziente s'aggrappa alle fantasie in cui si attribuisce un ruolo attivo per sottrarsi al dolore della condizione di chi è inerme e abbandonato. Preferisce addossarsi i sensi di colpa, che però lo incatenano alle nevrosi.
I fatti ricordati e attestabili mostrano spesso solo una piccola parte della sorte che un bambino ha sofferto. L'ambito maggiore è costituito da esperienze rimosse che non si possono raccontare perché non sono mai state consapevolmente vissute. Ed è un ambito che rimane inesplorato quando si ha a che fare con un terapeuta che abbia paura della realtà costituita dai maltrattamenti inflitti ai bambini. L'assicurazione "Io credo sempre ai miei pazienti" non esclude che il terapeuta non sappia intuire l'esistenza di rimozioni e dinieghi. Certo, non può scoprire, del passato concreto del paziente, più di quanto questi sia in grado di ricordare. È il paziente che deve scoprire i fatti con l'aiuto dei suoi sentimenti, che deve verificare le sue scoperte, mettere in dubbio le sue asserzioni, fino a quando perviene alla certezza: questa e quell'altra cosa sono davvero successe. Però l'ambito del possibile è infinito, ed è questo che il terapeuta deve sapere. Non c'è nulla che non sia possibile infliggere a un bambino. Questa consapevolezza conferisce al terapeuta la capacità d'accompagnare il paziente durante il suo viaggio, un viaggio che passa spesso per inferni e camere di tortura. E occorre penetrarvi continuamente, per far rivivere in tutti i dettagli le scene traumatiche, affinché l'effetto del trauma si dissolva e la ferita possa finalmente guarire.
Eppure la maggioranza dei terapeuti che ho conosciuto non sa nulla dell'esistenza di queste camere della tortura. Si limitano ad ammettere che ogni infanzia è caratterizzata anche da momenti difficili, per esempio dalle separazioni dei genitori o dalla nascita di fratelli minori, o da qualche altra 'inevitabile frustrazione'. E quando non possono definire il comportamento dei genitori se non in termini di 'inevitabili frustrazioni', allora parlano d'una 'psicosi latente' nel padre o nella madre, e così non fanno che girare ancora una volta attorno al problema dei reali maltrattamenti cui sono esposti i bambini. Certo, può anche esserci stato un comportamento psicotico da parte dei genitori, ma quel che importa è sapere che questi comportamenti restano ignorati dalla società fino a quando sono riversati esclusivamente sui figli. È indispensabile saperlo, per poter davvero accompagnare e aiutare il paziente, specialmente nei momenti in cui si ribella con ogni mezzo alla verità, che è così inconcepibile, così ostile. Però, una volta che si sappia che, di fatto, un bambino sopravvive solo grazie alla rimozione dei suoi traumi, si dovrà anche saper assistere il paziente in modo tale da indur-lo ad assumersi l'onere di scavare nelle proprie rimozioni.
Nei colloqui su abusi sessuali di bambini emerge in continuazione il problema del perché la madre d'una bambina ignori i segnali che le vengono dalla figlia, oppure perché, con il suo atteggiamento, renda impossibile alla figlia di confidarle la verità. Quest'atteggiamento della madre risulta particolarmente incomprensibile quando si apprenda che essa stessa ha subito degli abusi da bambina. Eppure è proprio in quest'informazione che sta la chiave per capire. Sono proprio le madri vittime, nell'infanzia, di lesioni analoghe — di lesioni rimosse — che sono cieche e sorde di fronte alla situazione in cui si trova la figlia. Non sopportano il ricordo della loro stessa storia e quindi abbandonano la bambina a se stessa.
Purtroppo, su questo problema, anche il movimento delle donne — che pure ha tanto contribuito a far sì che l'opinione pubblica prendesse finalmente coscienza del problema dei maltrattamenti inflitti ai bambini — soffre limiti di natura ideologica. Vede il problema solo sotto il profilo del patriarcato, dello strapotere maschile. Ma è un punto di vista semplicistico che lascia aperte molte questioni. Forse sono questioni che non ci si sente ancora in grado di sollevare, perché comprometterebbero l'immagine idealizzata della madre. Eppure bisogna chiedersi: che cosa induce l'uomo a violentare donne e bambini? Chi lo ha reso così malvagio? Secondo la mia esperienza, la responsabilità non è solo dei padri. Bisognerebbe invece anche domandarsi che possibilità ha una donna, sia pure sfruttata e umiliata, di evitare di approfittarsi di suo figlio quando deve salvaguardare il proprio interesse. Perché perfino nelle culture in cui la donna non conta niente, la società attribuisce alla madre un potere illimitato sul figlio, finché è piccolo. Inoltre occorre chiedersi quanta cosciente responsabilità può assumersi nei confronti del figlio una donna di cui il padre abbia abusato quando era bambina, e che cosa può trasmettere al figlio finché continua a rimuovere quest'episodio.
Mi sono accorta che a talune femministe non piace sentir sollevare simili questioni. Tuttavia, esse sono sconcertate quando sono costrette a dover ripetutamente constatare che le madri non proteggono le figlie stuprate, ma le abbandonano alla loro sorte o le puniscono perfino. La spiegazione più semplice è allora sempre quella della paura che incute loro il marito. E si sfugge l'altra verità: e cioè che una donna che abbia avuto un'infanzia sicura e una madre che l'abbia protetta non si mette nella condizione di sposare un uomo di cui debba aver paura e che maltratti i suoi figli. Perché le sue antenne la preserverebbero da entrambi i pericoli.
Queste considerazioni non intendono sminuire i meriti del movimento delle donne per ciò che riguarda la denuncia dei maltrattamenti cui sono esposti i bambini, ma solo sollecitarlo ad andare oltre i limiti che si è sin qui imposto. La denuncia delle menzogne è un processo che non deve essere bloccato da nuove falsità ideologiche, da illusioni o idealizzazioni. La situazione in cui si trova una donna rispetto a un marito brutale non è la stessa di un bambino piccolo. È vero, una donna, a causa dei traumi subiti nella sua infanzia, può sentirsi ancora inerme e quindi trascurare le possibilità di ribellarsi di cui pure dispone: perché non è più completamente senza difese. Anche quando i diritti che ha sono insufficienti, anche quando i tribunali si schierano dalla parte dell'uomo, una donna adulta può parlare, può riferire, cercare alleati, può anche gridare (se non è stata costretta a disimpararlo da bambina). Ma soprattutto non deve più rimuovere l'accaduto, è nella condizione di potersi addossare il peso delle sofferenze e delle umiliazioni passate senza che ciò comporti nuove lesioni. Solo nel bambino si producono traumi, perché le lesioni danneggiano un organismo che è nella fase di formazione. Ma sono ferite che possono guarire se si ha il coraggio di guardarle, oppure possono restare aperte se si è costrette a continuare a ignorarle. Queste considerazioni saranno più esaurientemente illustrate nel sesto capitolo, sulla base dell'esempio d'una famiglia.
Il movimento delle donne non perderà d'efficacia se ammetterà finalmente che ci sono anche delle madri che abusano dei loro figli. Solo la verità, anche la più scomoda delle verità, conferisce a un movimento la forza di cambiare la società, e non il sottrarsi a essa, non il negarla. Se dei mariti maltrattano le loro mogli e le mogli subiscono con rassegnazione questi maltrattamenti, allora sia la violenza esercitata dall'uomo che la sottomissione della donna sono conseguenze di maltrattamenti subiti nell'infanzia. Questo significa che i bambini piccoli, sia i maschi che le femmine, possono essere vittime di adulti di entrambi i sessi. Se donne (e uomini) sensibili, non brutali, sono incapaci di proteggere i loro figli dalle brutalità del partner, allora quest'incapacità è da ascrivere alla cecità e all'intimidazione che esse stesse (essi stessi) hanno subito nell'infanzia. Questa è la pura verità. Solo quando si scoprono tutte le radici d'una qualsiasi forma di violenza, i fenomeni possono essere analizzati senza infingimenti e abbellimenti.
Quando una terapeuta abbia imparato a considerare soltanto gli uomini responsabili d'ogni male del mondo, potrà bensì assistere le sue pazienti quando scoprono finalmente che i loro padri, nonni o fratelli hanno sessualmente approfittato di loro. Non cercherà più di distoglierle da questa verità, come fanno i seguaci della teoria delle pulsioni. Altrimenti, se resta esclusa l'altra parte della verità, quella relativa alle madri che hanno consentito che l'abuso avvenisse, che non hanno protetto la loro creatura e hanno ignorato il suo stato di bisogno, non sarà possibile scoprire nella sua interezza la realtà infantile, non la si coglierà nella sua autenticità. Finché i sentimenti del bambino non saranno considerati nella loro totalità, l'indignazione nei confronti dei maschi rimarrà inefficace e impotente. Potrà addirittura continuare a convivere con l'irrisolta fedeltà e dipendenza nei confronti del padre o di altri uomini dediti alle violenze (A. Miller, // bambino inascoltato, pagg. 88-110).
Se le madri sono difese come povere vittime, la paziente non può a sua volta scoprire che il padre o il fratello non si sarebbero mai potuti approfittare di lei se avesse avuto una madre amorosa, protettiva, con gli occhi aperti e coraggiosa. Una volta che un bambino abbia appreso dalla madre di essere degno di protezione, troverà questa protezione anche negli estranei e saprà difendersi da solo. Se ha appreso cos'è l'amore, non cadrà vittima d'un amore solo apparente. Però una bambina che sia stata solo respinta ed educata con freddezza, che non abbia mai appreso l'effetto rasserenante della tenerezza, non sa che può esistere la tenerezza disinteressata. Dovrà necessariamente accettare ogni braccio che le si offra pur di non precipitare. Accetterà perfino, in certe circostanze, l'abuso sessuale pur di trovare almeno un po' di simpatia e di non dover completamente inaridire. Se la donna adulta è successivamente messa nella condizione di poter comprendere di essere stata ingannata nel suo amore, forse si vergognerà dello stato di necessità cui ha ceduto in passato e se ne sentirà colpevole. Ma accuserà soprattutto se stessa, perché non osa accusare la madre che a suo tempo ha lasciati insoddisfatti i bisogni della bambina o li ha addirittura condannati.
Gli psicoanalisti proteggono il padre e banalizzano l'abuso sessuale che si fa del bambino ricorrendo al complesso d'Edipo oppure a quello di Elettra, mentre alcune terapeute femministe idealizzano la madre al punto da rendere più arduo l'accesso alle prime traumatiche esperienze con la madre. Entrambi gli atteggiamenti possono condurre in un vicolo cieco, perché il dissolvimento delle sofferenze e delle paure è possibile solo quando si può guardare e accettare la piena verità dei fatti.
È tuttavia possibile che si arrivi all'esclusione della verità, nel corso delle terapie, anche senza motivazioni ideologiche, e questo quando il paziente non dispone degli strumenti per la elaborazione dei propri sentimenti, per dubitare e verificare sistematicamente le proprie ipotesi. Perché nemmeno i più intensi rimproveri ai genitori lo aiuteranno a liberarsi finché la verità continuerà a restare celata. È questo il caso, per esempio, del bambino che abbia avuto un padre davanti al quale non poteva aprir bocca senza essere subito interrotto o redarguito. Potrà succedere che a un paziente del genere sfugga a lungo la possibilità di confrontarsi dentro di sé col padre e di formulare le sue accuse. I sentimenti liberati si orienteranno lì per lì contro la madre che ha terrorizzato il bambino in modo meno pesante. E può viceversa capitare che fosse il padre a incutere meno paura al figlio e che il paziente contesti al padre cose subite invece dalla madre: senza saperlo, perché gli eventi d'un tempo continuano a restargli inaccessibili. Si determina così, per autodifesa, per paura, un quadro distorto del passato. Nel corso della terapia queste distorsioni possono essere corrette se la terapia tende davvero a scoprire la verità. Allora il terapeuta sa che il paziente è nella condizione di biasimare solo il genitore col quale aveva un minimo rapporto di fiducia, e non quello di fronte al quale impietriva di paura. E gli consentirà di scoprire la verità della sua storia personale, tanto da indurlo a smettere di accusare le persone sbagliate, bensì soltanto coloro che lo abbiano davvero meritato, e soltanto per fatti che siano davvero accaduti. Perché nessuno si libera accusando persone che in realtà non gli hanno fatto niente. Il paziente che attribuisce a dei sostituti colpe vaghe, non specifiche e non circostanziate, non potrà migliorare il proprio stato, e rimarrà anzi spesso in una condizione di fatale disorientamento (A. Miller, 1988 a, pagg. 9-78). Ci si libera invece nei casi in cui ci si ribella nei confronti di colui che è il vero responsabile. E il paziente ci riuscirà tanto meglio, quanto più sarà libero da stravolgimenti ideologici e teoretici.