31. Opere e omissioni
Big Lou si protese sul bancone. «Sì» disse. «È molto interessante quel che dici, Matthew. Sostieni che spesso non c’è niente che possiamo fare, ma io non sono certa che sia proprio così. E non mi riferisco solo a questa guerra. Parlo del mondo in generale. Si può davvero affermare che non possiamo fare niente per le cose che non approviamo, quando a farle è il governo? Ne sei sicuro?»
«Si può votare» intervenne Angus. «Cacciare il governo.» Ci rifletté un attimo, prima di aggiungere: «Certo, avete mai provato a cacciare i laburisti dal Governo scozzese? Eh?»
«Forse è perché la gente li vuole» rispose Big Lou. «Io, almeno, sì. Comunque, si può votare. Ma ogni quanto se ne ha l’occasione? E anche in quei casi, può darsi che non ci sia una gran scelta.»
«Almeno, però, uno ha fatto quel che poteva» disse Matthew, che non aveva mai votato, nemmeno una volta in vita sua, per apatia o per indecisione. «Quando ha votato, intendo.»
Big Lou si disse d’accordo, ma il problema non riguardava solo il voto. C’erano molte altre cose che si potevano fare, secondo lei. Si poteva scrivere ai politici. Donare soldi a favore di certe cause. Scendere in strada a manifestare. Le opportunità non mancavano. Lo fece presente a Matthew e Angus, e poi aggiunse: «Ma la domanda vera, ragazzi, è questa: abbiamo il dovere di agire per impedire il realizzarsi delle cose che non ci piacciono? È giusto restarsene con le mani in mano, purché non si contribuisca a peggiorare la situazione?»
Angus scambiò un’occhiata con Matthew. Non si era ancora abituato alle riflessioni filosofiche di Big Lou e la trattava con leggera condiscendenza. Matthew se n’era accorto. Voleva farglielo notare, ma non aveva ancora trovato l’occasione. Più tardi, però, gliene avrebbe parlato.
«Mi verrebbe da pensare» disse Angus «che siamo più responsabili delle nostre azioni che di ciò che non facciamo. Se non sono stato io a iniziare una cosa, non so se sia mio dovere fermarla.»
«Ah, davvero?» rispose Big Lou. «Davvero?»
Cyril guardò Big Lou e poi il suo padrone. Come tutti i cani, si sforzava di capire cosa stesse accadendo nel mondo degli esseri umani, ma interpretarlo era molto difficile e Cyril distolse lo sguardo. Il suo era un mondo di pavimenti e oggetti bassi, di odori; un’intera stanza era un mondo di odori che aspettavano solo che i cani li individuassero e li archiviassero per un uso futuro.
Angus accettò la sfida di Big Lou. «Sì, davvero. Ne sono abbastanza certo. Non incolpatemi di ciò che non ho fatto. Semplice. Non l’ho provocata io la crisi missilistica di Cuba. All’epoca ero già in circolazione, sì. Ma non l’ho provocata io.»
Big Lou sorrise. «Può darsi, ma lascia che ti racconti una cosa che ho appena letto.» Si interruppe, guardando dritto in faccia Angus Lordie. «Vuoi sentirla?»
Angus annuì con cortesia. «Le sue parole sono musica, o eccellentissima Lou» rispose. «Siamo tutt’orecchi, non è vero, Matthew?»
«Bene» attaccò Lou. «La cosa che ho letto è questa, un capitolo di un libro di filosofia, si intitola ’Il caso dei due zii cattivi’. Proprio così, il titolo è questo.»
Si chinò sul bancone e proseguì. «Ci sono lo zio A e lo zio B. Ciascuno di loro ha un nipote, un bambino di circa otto anni, diciamo. Se il ragazzino muore prima di loro, gli zii erediteranno una grossa somma.
«Un giorno, lo zio A va a trovare il nipotino. Arriva a casa e scopre che i genitori del piccolo sono usciti per un qualche motivo e hanno lasciato il bambino a casa da solo.»
«Improbabile» commentò Angus sorridendo a Matthew. «I genitori non lasciano in casa da soli i bambini di otto anni. Non di questi tempi.»
Lou sospirò. «È un racconto, non dimenticatelo. Ai filosofi piace raccontare aneddoti. Non devono essere veri per forza. Comunque, lo zio A sale di sopra e scopre che il nipotino ha deciso di fare il bagno. La porta del bagno è aperta e lui entra, vede il bambino dentro la vasca e decide, su due piedi, di affogare il povero piccino. E così fa, sapendo che in quel modo erediterà tutti i soldi.»
«Dio santo!» esclamò Angus Lordie.
«Già» disse Big Lou. «Non uno zio simpatico. Ecco cosa fa lo zio B. Quel giorno va a casa di suo nipote e si trova nella stessa identica situazione. Quando lo zio B va di sopra, in un’altra casa, vede la porta del bagno aperta ed entra per vedere che succede. Suo nipote è nella vasca, ma con la testa sott’acqua. Capisce che il bambino è scivolato, ha battuto la testa e ha perso i sensi, finendo sott’acqua. Capisce che se non lo tirerà fuori – un gesto semplicissimo – nel giro di poco il bambino affogherà. Si rende conto, però, che in quel caso lui riceverà tutti quei soldi. Perciò non muove un dito.»
«Resta lì così, senza far niente?» chiese Matthew.
«Eh, già» rispose Big Lou. «Resta lì così. Ecco qua lo zio B. Se ne sta lì senza muovere un dito.»
Per qualche istante calò il silenzio. Il racconto aveva colpito in modo insolito sia Matthew che Angus Lordie. Sembrava quasi una storia vera; come se avessero sentito una notizia scioccante riportata dai giornali. Cyril, turbato dal silenzio, sollevò lo sguardo dal pavimento e fissò il padrone. Poi guardò di nuovo le caviglie di Matthew, si grattò l’orecchio e richiuse gli occhi.
«Dunque» riprese Big Lou rompendo il silenzio. «Ecco cosa bisogna decidere. Lo zio A, che agisce, è più cattivo dello zio B, che non fa nulla? Mi hai appena detto, Angus, che siamo responsabili solo delle cose che facciamo e non di quelle che omettiamo di fare. Così hai detto. Non negarlo. Perciò vuoi dire che lo zio B non ha fatto niente di male? È questo che intendi?» Si interruppe. «E poi, spiegami questo: lo zio A è più cattivo dello zio B, o non c’è differenza tra loro? Eh? Forza. Dimmi.»
Angus guardò il tavolo.
«Lasciami riflettere» rispose.
32. I due zii cattivi: possibili soluzioni
Mentre Angus Lordie rifletteva, Big Lou, con le labbra arricciate in un sorriso quasi impercettibile, gli preparò un altro caffè. Sapeva che cosa pensava Angus di lei: che era solo una donna che faceva il caffè ai clienti. Big Lou c’era abituata. Quando stava ad Arbroath, la consideravano solo una ragazzotta – aveva sentito proprio quelle parole da uno dei suoi parenti maschi –, e una che era solo una ragazzotta non poteva aver niente di interessante da dire su nessun argomento. Ad Aberdeen, poi, dove aveva lavorato per anni in una casa di riposo, la Granite Nursing Home, era stata solo una delle inservienti, una donna che dava una mano, faceva le pulizie, rifaceva i letti. Nessuno le aveva mai lasciato intendere che potesse essere anche qualcos’altro.
Matthew fissava il soffitto in silenzio e pensava agli zii. Quando avevo otto anni sarebbe stato tanto facile per uno dei miei zii affogarmi, si disse. Ma quale dei due zii sarebbe stato più probabile che l’affogasse? Lo zio Willy di Dunblane, quello che aveva un’azienda agricola e che lo portava sempre su per la collina col trattore a guardare le pecore? Oppure lo zio Malcolm, che stava a ovest, dirigeva un porticciolo ed era appassionato di vela? Lo zio Willy poteva affogarlo nel bagno antiparassitario delle pecore, su al recinto più alto, e nessuno avrebbe visto niente. Sarebbe stata una morte solitaria, sotto gli ampi cieli del Perthshire, e lui avrebbe chiuso gli occhi per sempre davanti all’erica e al grigio screziato delle pietre che componevano il recinto. Ma lo zio Willy era un decano della Kirk, la chiesa scozzese, e non avrebbe mai affogato nessuno, men che meno suo nipote. No. Non sarebbe mai stato lo zio Willy.
E lo zio Malcolm avrebbe potuto buttarlo a mare, dal suo yacht? si chiese. Difficile. Eppure, ora che ci pensava, lo zio Malcolm era irascibile e, in via del tutto ipotetica, avrebbe potuto affogarlo in un accesso di rabbia. Matthew si ricordò di quella volta in cui gli aveva fatto da mozzo al largo di Colonsay e aveva buttato via gli avanzi della colazione dal cucinino di bordo. Era molto più giovane, allora, e aveva rovesciato in mare prima il fondo di un paio di tazze di tè, e poi il contenuto di un’altra tazza appoggiata accanto al lavello. Dentro quest’ultima, purtroppo c’era la dentiera dello zio, immersa nella soluzione detergente, e i denti erano finiti in mare. Perduti. Lo zio gliene aveva dette quattro, delle urla strane, di sole gengive, che lo avevano spaventato. Sì, nel suo caso il principale sospettato era lo zio Malcolm.
Tutt’a un tratto Angus Lordie batté le mani, facendo trasalire Cyril, che si drizzò in piedi. «Lo zio A» esclamò. «Lo zio B è scagionato. Lui non ha fatto niente, no? E il bambino sarebbe affogato anche se lui non fosse stato presente. Perciò non l’ha provocato lui, l’annegamento. Invece lo zio A l’ha causato direttamente.»
Big Lou lo ascoltò attentamente. «Ah» disse. «Allora si riduce tutto a chi provoca cosa? È così?»
«Esatto, cara la mia cogitabonda Lou» replicò Angus. «Eccoti la risposta che cercavi.»
«Forse se lo zio B avesse...» iniziò Matthew, ma Big Lou lo interruppe.
«Perciò è una questione di cause» insistette. «Ma il problema è questo. Potrei dirti, con certezza, che la mancata azione dello zio B ha causato l’annegamento tanto quanto l’azione diretta dello zio A. Mi capisci?»
Angus Lordie fece per un istante una faccia confusa. Gli sta bene, si disse Matthew. Era un grave errore trattare Big Lou con condiscendenza, e Angus lo stava per scoprire.
Big Lou cercò lo straccio e diede una pulita al bancone. «Vedi, non c’è motivo per non considerare le omissioni cause altrettanto efficaci delle azioni dirette. Semplicemente, è sbagliato pensare che una mancata azione non possa essere la causa di qualcosa... può, eccome. Solo che la nostra idea di causa è legata al concetto di causalità fisica, fatta di spinte e controspinte. Ma c’è dell’altro, meno evidente.»
«Insomma, non c’è differenza tra lo zio A e lo zio B?» chiese Matthew.
«In effetti no» rispose Big Lou. «Il libro che sto leggendo dice che la gente comune – l’uomo della strada – dirà sempre che lo zio A è peggio, mentre il filosofo tende a vedere le due azioni come prive di reali differenze.» Terminata la frase, guardò Angus Lordie.
Angus prese la tazzina di caffè e finì le ultime gocce. Poi disse: «Be’, Lou, sono davvero sorpreso. Dovrò riflettere su quanto hai detto. Potresti avere ragione».
«Ho ragione» ribatté Big Lou.
«Forse» insistette Angus, cercando il sostegno di Matthew, ma senza successo. Guardò Cyril, che ricambiò direttamente il suo sguardo, senza però dare altro segno di sé.
Fu Matthew a parlare: «Potrebbe esserci una differenza, però. Tra le cose che si fanno sull’onda del momento e quelle che si compiono dopo averci riflettuto».
Big Lou lo guardò con aria interessata. «Può darsi» commentò.
«Perciò, in questo caso» proseguì Matthew, «lo zio A ha avuto un po’ di tempo, magari un minuto o due, per rifletterci. E poi ha agito. Lo zio B ha agito, o meglio non ha mosso un dito, spontaneamente.»
Angus Lordie liquidò quell’affermazione con uno sbuffo. «Non funziona. Hanno esattamente lo stesso tempo per pensare alla cosa. Lo zio A ci pensa mentre sta tenendo la testa del bambino sott’acqua. Lo zio B mentre resta lì a guardare il povero piccolo che affoga. Secondo me non c’è differenza.»
Big Lou avrebbe voluto schierarsi con Matthew, ma non poteva. «Sì» ammise con un briciolo di riluttanza nella voce. «Probabilmente Angus ha ragione... su questo. Ma non hai torto nemmeno tu, Matthew, se ci riferiamo alla maggior parte delle nostre azioni. Ci dev’essere una differenza tra le cose che si fanno d’impulso e le azioni frutto di una lunga riflessione.»
«E tu che ne pensi, Lou?» chiese Angus. «C’è una differenza tra lo zio A e lo zio B, secondo te? Cosa dice quel tuo libro?»
«Accennava una possibile risposta» disse Big Lou. «Ma più che altro poneva la questione. Nei libri non sempre ci sono le risposte, sai. A volte si limitano a porre le domande.»
Angus sorrise. «Perciò vuoi dire che non ci sono certezze?»
«Proprio così» rispose Big Lou.
«A parte la morte e le tasse» intervenne Matthew. «Non dice così il proverbio?»
«In Italia molti non pagano le tasse» osservò Angus. «Conoscevo un pittore di Napoli che non le aveva mai pagate... mai. Un ottimo pittore, tra l’altro.»
«E come è andata a finire?» chiese Matthew.
«È morto.»
33. Bertie fa la prima mossa
Nei giorni successivi al giro in George Street con sua madre, Bertie si era concentrato sul suo piano. Acquistare da Aitken and Niven la giacca della Watson era possibile solo con la collaborazione del bambino che abitava dietro l’angolo.
Purtroppo c’era una difficoltà già in partenza: lui non sapeva dove stesse di preciso il suo nuovo amico. L’aveva visto in un’unica occasione, e anche se il bambino gli aveva detto come si chiamava – Paddy – non aveva precisato dove abitasse. Quando Bertie gliel’aveva chiesto, aveva indicato in direzione della fine di Fettes Row, proprio dietro l’angolo, ma non gli aveva detto il numero.
Non gli aveva detto neppure come faceva di cognome, cosa che gli avrebbe permesso di consultare l’elenco del telefono. Perciò Bertie non poteva far altro, se lo voleva contattare, che aspettare in strada nella speranza che comparisse.
E anche qui sorgeva un problema. Bertie era autorizzato a uscire da solo in Scotland Street e Drummond Place, a patto che non attraversasse le strade trafficate e che Irene sapesse di preciso dove sarebbe andato. Questa concessione gli permetteva di stare a sedere sui gradini davanti al portone del 44 e osservare la gente che entrava e usciva di casa. Gli consentiva anche di piazzarsi in fondo a Scotland Street Lane, nella speranza di vedere uno dei centauri che di tanto in tanto uscivano rombando dal garage di motociclette d’epoca (irraggiungibile).
A Bertie piacevano i motociclisti e ogni tanto loro lo salutavano con la mano o con un cenno del capo. Avrebbe voluto avere una moto come quelle, con la quale andare alle partite di rugby, e da grande, pensava, avrebbe fatto proprio così.
A sua madre la cosa non sarebbe andata giù, ovviamente: diceva che le motociclette erano trabiccoli rumorosissimi – peggio delle auto – e che se fosse stata lei il sindaco di Edimburgo, ne avrebbe vietato la circolazione. Ma anche se fosse riuscito a mettere le mani su una moto, sua madre avrebbe comunque cercato di guastargli il divertimento, rifletté Bertie. I motociclisti portavano abiti di pelle, a volte con degli stemmi; sua madre l’avrebbe costretto a portare una salopette di pelle, e tutti gli altri centauri gli avrebbero riso dietro.
Se Paddy abitava in Fettes Row, doveva andare a cercarlo lì. Ma c’erano comunque degli ostacoli. Anche se una parte di Fettes Row gli era accessibile, l’altra – dove stava Paddy – era al di là di Dundas Street, e di attraversare Dundas Street non se ne parlava nemmeno.
Bertie faticò per trovare una soluzione. Non poteva dire a sua madre che voleva andare all’altro capo di Fettes Row, perché gliel’avrebbe proibito all’istante. Se avesse detto una bugia, cosa che non voleva fare – perché era un bambino sincero (a parte il vizio di fornire di tanto in tanto un nome falso) –, di sicuro si sarebbe tradito arrossendo. Perciò avrebbe dovuto trovare un giro di parole che gli consentisse l’attraversamento di Dundas Street.
«Posso andare fin giù a Royal Crescent?» chiese un pomeriggio.
Irene sollevò appena lo sguardo dal libro che stava leggendo, una nuova biografia di Melanie Klein. Per un attimo si chiese come avrebbe risposto la Klein, se qualcuno le avesse chiesto il permesso di andare in Royal Crescent. Troppo semplice rispondere di sì. Forse avrebbe chiesto: Perché vuoi andare in Royal Crescent?
«Perché?» disse Irene.
Bertie alzò le spalle. «Voglio giocare.»
Irene tornò a guardare il libro. Il biografo era arrivato al punto in cui le teorie kleiniane sul gioco stavano per essere discusse in un importante convegno a Londra. Melanie era preoccupata per le conseguenze di un possibile attacco da parte dei freudiani più ortodossi, convinti che si fosse allontanata troppo dall’ovile. Il ritmo del resoconto, con tutti i suoi intrighi, si stava facendo serrato.
«Va bene, Bertie. Gioca pure. E poi forse possiamo parlare del modo in cui hai giocato. Ti andrebbe? Potresti raccontare alla mamma dei tuoi giochini?»
Bertie corrucciò le labbra. Non erano affari suoi come giocava. Bertie voleva giocare a prendersi, ma lei diceva che era un gioco troppo violento, e lui non riusciva mai a trovare qualcuno con cui giocarci. Ma non voleva discuterne, al momento; un vago assenso sarebbe stata la scelta migliore.
«E poi vado fino in fondo alla strada e torno indietro» aggiunse.
Ogni parola di quella frase era stata studiata e provata, e la pronunciò in modo impeccabile. Era la verità, dopo tutto, e non c’era bisogno di vergognarsi o di arrossire per quello che aveva detto. Royal Crescent e Fettes Row, a rigore, erano vie diverse, ma in un senso più ampio erano la stessa strada, perché Fettes era la continuazione di Royal Crescent. E il pezzo di Fettes Row che si trovava dall’altra parte di Dundas Street poteva a buon diritto essere considerato la stessa via della parte da questo lato. Perciò gli era parso abbastanza ragionevole dire che sarebbe andato in fondo alla strada, pur sapendo che Irene avrebbe potuto fraintendere le sue parole. Un bambino non era responsabile dei fraintendimenti di sua madre, pensò. Sarebbe stato davvero esagerato.
Irene annuì. «Sta’ attento» disse. «E non stare fuori troppo.» Fece una pausa e alzò lo sguardo dal libro. «Hai fatto gli esercizi d’italiano, oggi, Bertie?»
Bertie si era premurato di fare gli esercizi prima, per evitare che diventassero una scusa per rovinare il suo piano.
«Sì, sì» rispose. «Ciao, mamma!»
«Ciao, ciao, bambino» mormorò Irene, prima di tornare a Melanie Klein. Era un classico, rifletté, che le forze istituzionali cercassero di screditare gli sviluppi più innovativi del movimento psicanalitico internazionale. Un vero classico.
Per un attimo lasciò vagare la mente. Anche il dottor Fairbairn era stato una specie di pioniere – seppure in epoche più recenti – con la sua teoria degli attacchi isterici giovanili. Ma le sue teorie dovevano aver incontrato una forte opposizione quando aveva pubblicato il suo saggio su Wee Fraser.
Presumibilmente c’erano persone invidiose del suo successo, pronte a denigrarlo perché si rodevano di rabbia per quello che Fairbairn era riuscito a ottenere. Ce n’era sempre di gente così, pensò Irene. Infastidita dalla fortuna, o dalla felicità altrui. Gente che permetteva all’invidia, la più corrosiva delle emozioni umane, di indurla a fare commenti sprezzanti.
In questo modo non facevano altro che aumentare il totale dell’infelicità del mondo e avvizzire i loro cuori fino a deformarli.
34. Bertie si prepara ad attraversare Dundas Street
Bertie uscì dal portone del 44 di Scotland Street nello stato di estrema sovreccitazione mentale e sensoriale che si accompagna alle imprese pericolose, o a quelle proibite. Non aveva mentito a sua madre – di questo era sicuro – ma al tempo stesso quello che intendeva fare era decisamente al di fuori degli accordi esistenti tra loro.
Per un attimo pensò: Attraverserò Dundas Street, da solo, e colse fino in fondo l’enormità di quell’avventura. Quello stato di fervida attesa doveva essere simile a quello con cui Adamo aveva allungato la mano per cogliere la mela, pensò Bertie, anche se, come tutti i bambini, e gli uomini, sapevano, era stata tutta colpa di Eva. Perciò, se lui infrangeva le regole, ovviamente era tutta colpa di sua madre, che le aveva stabilite.
Quell’idea gli diede coraggio, e iniziò a percorrere Royal Crescent sorridendo, prima di imboccare Fettes Row con il suo fatidico incrocio con Dundas Street. Sapeva che la missione si sarebbe potuta rivelare inutile, che poteva non esserci traccia di Paddy, e che avrebbe potuto fare ritorno senza aver ottenuto nulla. Ma se non altro era il primo passo per portare a termine il suo piano; prima o poi sarebbe riuscito a incontrare Paddy, ne era sicuro, e a fargli quella proposta. E Paddy avrebbe accettato, senza dubbio. Era proprio il bambino adatto: andava a pesca sulle Pentland Hills e prendeva le trote; per un bambino che faceva cose del genere, il compito che voleva affidargli Bertie sarebbe stato una passeggiata.
Bertie aveva deciso di fare su e giù per Fettes Row per una mezz’oretta, nella speranza di veder spuntare Paddy. Era un pomeriggio caldo, frutto dello strascico d’estate in cui Edimburgo si stava crogiolando, e non era improbabile che Paddy uscisse a giocare in strada. Anche in caso contrario, comunque, Bertie si era portato un pezzetto di gesso, con il quale lasciargli un messaggio sugli scalini che conducevano a una delle case di Fettes Row. PADDY, avrebbe scritto, TROVIAMOCI IN SCOTLAND STREET PRESTO. URGENTE. SEGRETO. BERTIE.
Quella frase l’avrebbe attirato, pensava Bertie. Nessun bambino sarebbe riuscito a resistere a un messaggio del genere. Poi Bertie pensò: ma Paddy era capace di leggere? Se non era capace – ed era la cosa più probabile – allora non sarebbe servito a niente scrivere il messaggio. Quella conclusione lo scoraggiò un po’; non era facile, capì, essere più avanti degli altri. E anche questo non era colpa sua, pensò irritato: si tornava sempre lì, a sua madre. È lei che mi ha rovinato la vita. È lei.
Royal Crescent, una strada su cui affacciavano alti palazzi nel classico stile della New Town, era tranquilla mentre Bertie la percorreva. Un gatto lo osservò dal tettuccio di un’auto, valutando con gli occhi stretti a fessura quale grado di minaccia potesse rappresentare per il suo quieto vivere e la sua sicurezza. Ma Bertie non era certo minaccioso, e il gatto richiuse gli occhi. Poi una donna uscì da un portone e rimase per un attimo in cima ai gradini mentre Bertie passava. Il bambino sollevò lo sguardo e lei sorrise.
«Vai da qualche parte?» chiese in tono amichevole.
Bertie restò inchiodato dov’era. «Sì» rispose.
La donna continuava a sorridere. «Non combinare marachelle» aggiunse.
Bertie rimase immobile. Come faceva a saperlo? Qualcosa l’aveva tradito, come il naso di Pinocchio quando diceva le bugie? Gli adulti lo capivano al volo?
«No, no» mormorò.
«Bene» rispose la donna e si girò armeggiando con le chiavi. Bertie proseguì, a passo più lento, più circospetto. Ora si cominciava a intravedere la fine del primo tratto di Fettes Row; lì in fondo c’era Dundas Street, con il suo traffico. Passò un autobus che risaliva la strada diretto in centro, con il motore che faticava per vincere la pendenza. Alle sue spalle, un furgoncino azzurro aspettava il momento buono per superarlo. Il traffico sembrava intenso.
Quando arrivò all’angolo, le ombre dei palazzi lasciarono spazio a un fiotto di sole. Bertie si fermò sul bordo del marciapiede e guardò la carreggiata piena di veicoli di Dundas Street. Per un attimo, secondo un’abitudine radicata, guardò verso l’alto, di fianco a sé, aspettandosi di trovarci la figura familiare di un adulto, sua madre o suo padre. Era così che si attraversava la strada – insieme a un adulto – con la mano in quella dei grandi, sicuri e guidati. Ma di adulti non ce n’erano, adesso: né madre, né maestra, né psicoterapeuta. Bertie era solo. Deglutì a fatica e chiuse gli occhi per un istante. Nessuno gli aveva insegnato le basi dell’attraversamento di una via trafficata. Doveva aspettare che non ci fossero macchine all’orizzonte e poi attraversare piano piano? Il problema era che così sarebbe potuto rimanere lì per sempre: c’erano sempre auto in vista su quella strada.
Guardò su per la collina. Le auto scendevano più veloci di quelle che salivano. Questo voleva dire che se avesse trovato un varco nel traffico in discesa, non sarebbe importato più di tanto che cosa saliva, perché quei veicoli ci avrebbero comunque messo di più a raggiungerlo. Ma quanto ci sarebbe voluto? Era difficile valutare la velocità esatta del traffico, e anche se gli autobus sembravano avanzare molto lentamente, per alcune auto era vero tutto il contrario. In effetti, mentre stava sul marciapiede, una macchinetta rossa gli passò davanti così veloce che se avesse sbattuto gli occhi, gli sembrò, non avrebbe nemmeno fatto in tempo a vederla. Quella macchina l’avrebbe investito di sicuro, se fosse arrivata rombando dall’angolo di Henderson Row mentre lui stava attraversando.
Per qualche istante Bertie valutò se abbandonare la missione. Sarebbe stato facile girarsi e tornare sui suoi passi – passi ancora innocenti, a quel punto – fino a Scotland Street, a casa. Così non avrebbe fatto niente di male e avrebbe potuto guardare sua madre e raccontarle per filo e per segno quel che aveva fatto. Era andato fino in fondo alla parte sicura di Fettes Row... tutto lì. Comportarsi così, però, equivaleva alla resa più totale. Se non aveva il coraggio neanche di attraversare Dundas Street, come avrebbe trovato il coraggio di fare qualsiasi altra cosa? E Gavin Hastings? pensò. Avrebbe avuto paura di attraversare Dundas Street a sei anni, lui? No. S’immaginò che Gavin Hastings avesse attraversato di corsa Dundas Street in molte occasioni, da bambino: doveva aver corso, e poi fatto un saltello battendo i tacchi, in modo che chiunque lo vedesse potesse annuire con l’aria di chi la sa lunga e dire: «Guarda quel bambino! Un giorno giocherà a rugby in nazionale!» Bertie fece un bel respiro. Decise di correre.
35. A metà strada
Peter Backhouse, musicista e appassionato di vecchie ferrovie, quel pomeriggio si trovava per caso a camminare lungo Dundas Street. Aveva trascorso un’ora a provare con grande soddisfazione sull’organo della chiesa di St Giles i brani di Olivier Messiaen e Herbert Howells che avrebbe eseguito durante il concerto «St Giles alle sei», la domenica successiva. C’era una tale quiete nella musica, una tale calma, l’antidoto perfetto alla frenesia della vita moderna. Ora, mentre tornava all’Accademia per le prove pomeridiane del coro da camera, pensò a ciò che lo aspettava. Niente Messiaen e Howells per il coro – almeno, non oggi – ma una ripassatina veloce di Stand by Me e So It Goes, che il gruppo aveva già cantato e che avrebbe riprovato volentieri: due pezzi strappalacrime, se si era di umore sentimentale... come capitava spesso ai genitori, durante i concerti scolastici.
Era arrivato al punto in cui Cumberland Street incrocia Dundas Street, quando si accorse che stava succedendo qualcosa. Aveva dato un’occhiata all’orologio – una controllatina fugace per assicurarsi di essere ancora in anticipo sulle prove del coro – e per un qualche motivo, forse per lo stimolo inconscio che danno le cose intraviste ma non notate, si girò sulla destra e vide un bambino, con una salopette color fragola, che era scattato all’improvviso in mezzo alla via. Per un attimo Peter Backhouse pensò che avesse tirato un pallone in strada e stesse correndo per recuperarlo – era quel genere di movimento rapido e deciso – ma poi il bambino esitò, fece ancora qualche passo e si bloccò.
Oliver Sacks ha fatto notare che chi è protagonista di momenti di estremo pericolo spesso riferisce di un rallentamento del tempo. Si vede il pericolo, magari ci si trova davanti alla prospettiva di finire annientati, ma ci si sente come se si avesse moltissimo tempo per reagire. I pochi secondi di pericolo passano a rilento, e alla mente di chi è coinvolto sembrano minuti. Quel pomeriggio parve andare proprio così. A Peter Backhouse, il bambino sembrò rimanere immobile per un tempo straordinariamente lungo, abbastanza per spostarsi dal percorso di un autobus che gli stava per piombare addosso mentre lui se ne stava fermo, impietrito per un istante, in mezzo alla strada. L’autobus lo superò arrancando, e alcune facce dal finestrino seguirono la scena del bimbo impalato come una statua in mezzo al traffico. Poi le macchine, una delle quali rallentò sbandando, per evitare un piccolo scarto del bambino.
Peter Backhouse gli gridò: «Non muoverti!» Guardò in su, verso il traffico in arrivo; il semaforo all’angolo con Great King Street era diventato verde e un fiume di veicoli sembrava gettarsi a rotta di collo verso il ragazzino, mentre in contemporanea altre macchine salivano dalla direzione opposta. Peter si guardò alle spalle e decise che doveva mettersi in mezzo alla strada a fermare il traffico, nella speranza che gli automobilisti gli dessero retta e permettessero al bambino di completare la traversata. Ma un’auto era già arrivata al punto in cui si trovava lui, superando di slancio il bambino immobile. Forse non lo vedevano; forse pensavano che stesse aspettando per passare e che sapesse esattamente quel che stava facendo.
Poi, d’improvviso, una macchina svoltò a gran velocità l’angolo dietro di lui e si lanciò troppo veloce giù per la strada, con il guidatore forse distratto e ignaro del bambino in mezzo alla via, quel bambino che ora sembrava quasi aver superato l’indecisione e il panico per lanciarsi e proseguire nell’attraversamento. Peter Backhouse gridò e fece per balzare in avanti, ma fu preceduto da un altro, un uomo sceso dal marciapiede opposto. Quell’uomo, che stava risalendo Dundas Street, aveva visto la scena e aveva reagito. Lanciandosi una rapida occhiata alle spalle, si era gettato in strada, evitando di un soffio un furgoncino di passaggio, ed era corso in mezzo alla carreggiata, dove aveva afferrato il bimbo terrorizzato e lo aveva sollevato di peso, togliendolo dalla traiettoria della macchina in arrivo. Poi, tenendolo ancora tra le braccia, era tornato sul bordo della strada, al sicuro. Un’auto inchiodò, e l’autista gli gridò qualcosa – un complimento, un’espressione di sollievo, un’offerta di aiuto –, ma il soccorritore gli fece segno che era tutto a posto, e l’uomo ripartì. Dall’altro lato della strada Peter Backhouse scosse la testa, tirando un gran sospiro di sollievo. Poi si incamminò di buona lena per andare alle prove del coro. Stand by Me, appunto! Appropriatissima.
Bertie, tremante di paura e sull’orlo delle lacrime, stava sul marciapiede accanto al suo salvatore, con l’aria umiliata.
«Ti è passata troppo vicino per stare tranquillo» disse l’uomo. «Dovresti attraversare al semaforo, sai. È a quello che serve l’omino verde.»
Il tono non era scortese, e Bertie sollevò lo sguardo su di lui per un istante. Era un viso familiare, ma Bertie non sapeva bene chi fosse. L’uomo sorrise. «Dove abiti?» chiese.
Bertie indicò verso Scotland Street.
«Be’, credo che dovresti tornare a casa» disse l’uomo. «Ti senti bene? Che ne dici?»
Bertie annuì. Gli avevano insegnato a ringraziare sempre e se ne ricordò. «Grazie mille» disse. «Grazie di avermi salvato.»
«Di niente» rispose l’uomo con un sorriso. «Sono sicuro che avresti fatto lo stesso per me, se ci fossi stato io là in mezzo.»
«Non lo so» disse Bertie.
«Sono sicuro di sì.»
Bertie ricambiò il sorriso. Dopo essersi avviato su Cumberland Street, si girò una volta per salutare con la mano l’uomo, che lo stava osservando per assicurarsi che proseguisse sano e salvo. Era stata un’esperienza bruttissima e umiliante... e gli aveva messo una paura tremenda. Se non ci fosse stato quel signore gentile a salvarlo, chiunque fosse, adesso sarebbe stato spiaccicato per terra; o forse dentro un’ambulanza a sirene spiegate, che lo portava all’ospedale. O magari prima lo avrebbe portato nello studio del dottor Fairbairn, che lo avrebbe interrogato a lungo sul perché volesse attraversare Dundas Street. Era possibile, pensò Bertie. Non c’era mai niente di semplice.
In Dundas Street le cose erano ritornate rapidamente alla normalità, come capita nelle città quando succede qualche imprevisto. Poche persone avevano assistito alla scena: uno era Peter Backhouse, al quale però era sfuggito un particolare. L’aveva notato, invece, un’anziana signora che per caso stava guardando dalla finestra più o meno sopra il punto dello scampato incidente. Aveva visto tutto, e ora era al telefono con la sua amica a Trinity.
«Effie» disse, affannata. «Effie, non crederai mai a quello che ho appena visto, proprio qui, sotto la mia finestra. C’era un bambino piccolo fermo in mezzo a Dundas Street, in preda al panico. Ed è stato salvato, strappato dalle fauci della morte da... Be’, non ci crederai, davvero Effie. Era Jack McConnell, Primo ministro di Scozia. Sì! Davvero! Dovevi vedere che confusione! Ma il Primo ministro se n’è andato alla chetichella, perciò non credo che vorrà che la cosa finisca sui giornali. Bocca chiusa, quindi, Effie. Non vogliamo che finisca sullo ’Scotsman’, vero?»
36. Ramsey Dunbarton
In alto sopra la città, sui pendii salubri delle Braids, Ramsey Dunbarton stava davanti alla finestra del suo studio, a guardare la distesa dei tetti e le colline del Fife, più in là. Era una vista con cui conviveva da quasi quarant’anni e la conosceva in tutte le sue sfumature. D’inverno, quando la luce era tenue, le colline all’orizzonte diventavano ammassi informi di un grigio chiaro e si distinguevano a stento dalle nuvole che passavano a folate sopra di loro. D’estate e d’autunno invece spiccavano monticelli di verde e viola dai contorni netti, pieghe del terreno che sembravano, in modo così ingannevole, quasi a portata di mano. E c’era sempre quell’ampio cielo del Nord, imprevedibile, con le nuvole mutevoli che senza sosta si muovevano e si dividevano a seconda del vento.
Ramsey era, per temperamento, un uomo del Nord. Ogni volta che viaggiava verso sud, in Inghilterra o in Francia, si sentiva a disagio; percepiva dentro di sé che le cose erano troppo luminose, e impolverate... quasi che il sole mettesse a nudo qualcosa nelle campagne e le facesse impallidire. E a quelle latitudini l’aria era stagnante, pensava; stagnante e opprimente. Ramsey amava la luce scozzese, pura e limpida, e tagliente. Gli piacevano le lunghe serate fresche d’estate e il buio accogliente dei giorni invernali. Amava la Scozia proprio così com’era: di poche pretese, fredda, e talvolta visibile solo per metà. «Non sono un tipo mediterraneo» aveva detto una volta a sua moglie Betty. E lei lo aveva guardato e aveva sospirato. No. E di certo, si era detta, nemmeno lei.
In piedi davanti alla finestra, Ramsey pensava alla giornata che lo attendeva. Erano le dieci e mezzo del mattino e si era già occupato del giornale e della posta. Visto che c’erano poche notizie degne di nota, non ci aveva messo molto a finire il giornale, e la posta non era andata meglio. C’era un catalogo di rose proveniente da Aberdeen: era sua abitudine ordinare sempre le rose ad Aberdeen, perché le rose del Nord, più resistenti, attecchivano bene a Edimburgo. Compra a nord e pianta a sud, diceva spesso Ramsey, e il successo del suo roseto testimoniava della saggezza di quella condotta. Si poteva applicare anche alle persone, aveva pensato ogni tanto: quelli di Aberdeen se la cavavano bene quando si trasferivano a sud.
Poi era arrivato il bollettino spedito dalla segretaria della locale Associazione dei conservatori, in cui erano riportati i programmi di diversi eventi sociali. Il ballo di qualche mese prima, certo, era stato piacevolissimo, sebbene l’affluenza, aveva fatto notare qualcuno – sei persone – fosse stata un po’ deludente. La segretaria, impossibilitata anche lei a partecipare, incoraggiava gli iscritti a rendere il ballo dell’anno seguente un successo ancora maggiore, e aggiungeva che si sarebbe fatto un tentativo di assicurarsi i servigi di un’altra orchestra. «Sull’esibizione del complesso, ci sono pervenuti commenti molto critici, che sono stati inoltrati al comitato organizzatore del ballo (convocato da Sasha e Raeburn Todd)» scriveva la segretaria. «Uno dei nostri soci ha sollevato la seguente questione: è ammissibile che un complesso permetta alle proprie idee socialiste di interferire con la sua esibizione durante un evento per il quale viene pagato? È una domanda assai pertinente, e ritengo che si debbano prendere provvedimenti. Se qualcuno conosce un complesso di ceilidh di idee conservatrici, ci contatti il prima possibile, in modo da prenotarlo per l’anno prossimo. Finora non sono arrivate proposte.»
Ramsey Dunbarton lesse il resoconto con interesse. Era lui il socio che aveva sollevato la questione dell’esibizione del complesso ed era lieto di sapere che la sua lamentela era stata accolta. A suo parere c’erano state molte cose che non avevano funzionato nell’organizzazione del ballo. Tanto per cominciare, qualcuno aveva cercato di mettere lui e Betty in un tavolo separato da quello degli altri quattro partecipanti. Era un’idea ridicola, e Ramsey aveva risolto la questione in breve, con il semplice espediente di unire i due tavoli. Poi c’era la questione della lotteria, in merito alla quale si sentiva ancora un po’ contrariato. Gli iscritti avevano donato alcuni premi davvero generosi, ed era indispensabile che la lotteria venisse condotta in modo corretto. Non era convinto che le cose fossero andate così, anzi era certo che Sasha Todd, che aveva organizzato la cosa, avesse in realtà aggiustato l’estrazione in modo che i premi più ambiti andassero a lei e alla sua famiglia. In particolare, Ramsey aveva notato che la donna si era assicurata di pescare il pranzo con Malcolm Rifkind e Lord James, il premio che anche a lui sarebbe piaciuto di più vincere. Difficilmente si sarebbero divertiti granché i due politici, a doversi sorbire un intero pranzo con lei, ascoltandola cianciare delle cose di cui parlava di solito. Era una donna molto superficiale, a suo parere, e non sarebbe stata in grado di fare conversazione su nulla d’interessante.
Con lui, al contrario, avrebbero potuto parlare di cose che capivano e apprezzavano.
Le riflessioni di Ramsey sul bollettino vennero interrotte dall’entrata di Betty nel suo studio.
«Il caffè, caro» disse porgendogli la tazza con un pezzetto di pastafrolla appoggiato sul bordo del piattino.
«Dio ti benedica, Betty» disse Ramsey prendendo la tazza.
«Immerso nei tuoi pensieri?» chiese la moglie. «Al solito.»
Ramsey sorrise. «Politica» rispose. «Leggevo il bollettino. Mi ha fatto pensare alla politica.»
Betty annuì. «Saresti stato un politico meraviglioso, Ramsey» disse. «Mi sono chiesta spesso cosa sarebbe successo se fossi entrato in Parlamento. Sono sicura che saresti arrivato fino al vertice, o abbastanza vicino.»
«Non lo so, Betty» rispose Ramsey. «La politica è una cosa sporca. Non so se avrei avuto abbastanza stomaco. Sono molto sgarbati tra loro, sai. E non appena ne hanno l’occasione, si pugnalano alle spalle.»
Betty annuì. «Certo, se fossi entrato in politica, adesso saresti seduto a scrivere le tue memorie. Sembra che non facciano altro, oggigiorno.»
Ramsey si voltò e guardò sua moglie. «Le memorie?» chiese.
«Sì. Le tue memorie di politico.»
Ramsey posò la tazza. «Betty, c’è una cosa di cui avevo intenzione di parlarti» disse. «La questione delle memorie.»
Betty lo guardò con aria interrogativa. «Sì?»
Ramsey abbassò lo sguardo, con fare quasi modesto. «È curioso che tu abbia parlato di memorie» disse a bassa voce. «In effetti, le sto scrivendo. E sono già arrivato a buon punto.»
Per un attimo, Betty tacque. Poi batté le mani. «Meraviglioso, tesoro! Meraviglioso!»
Ramsey sorrise. «E ho pensato che forse ti andava di sentirne qualche estratto. Stavo cercando il coraggio di proportelo.»
«Non vedo l’ora» disse Betty. «Fammi sentire subito qualcosa. Vado a prendere dell’altro caffè e poi ci mettiamo qui seduti.»
«Non è che farà scintille» disse Ramsey con modestia, «ma credo che la mia storia sia interessante quanto quella di chiunque altro.»
«Anche di più» rispose Betty. «Di più.»
37. La storia di Ramsey Dunbarton: parte I – Gli inizi
Ramsey Dunbarton, dopo avere scartabellato un fascio di fogli, guardò sua moglie da sopra gli occhiali da lettura. «Non ti annoierò con la parte sull’infanzia» disse. «La scuola e tutto il resto. Il periodo della scuola non è stato ricco di eventi: non mi succedeva praticamente niente e non vale quasi la pena di parlarne. Perciò comincerò da quand’ero un giovanotto. Quando avevo venticinque anni. T’immagini com’ero, a venticinque anni, Betty?»
Betty sorrise civettuola. «E come potrei dimenticarmelo? È l’anno in cui ci siamo conosciuti.»
Ramsey aggrottò la fronte. «No, mi spiace, tesoro. Non è l’anno in cui ci siamo conosciuti. Quello è successo quando ne avevo ventisei, non venticinque. Me lo ricordo benissimo. Avevo appena finito il praticantato da Shepherd and Wedderburn ed ero stato assunto in un altro studio. Me lo ricordo benissimo.»
Betty bevve un sorso di caffè. «E me lo ricordo molto bene anch’io, tesoro. Avevi venticinque anni perché mi ricordo, ce l’ho proprio chiaro in testa, di essere venuta alla festa del tuo ventiseiesimo compleanno, cosa che non avrei potuto fare se non ti avessi già conosciuto. Di solito non si va alle feste di compleanno di persone che non si conoscono ancora, non credi?»
Ramsey posò il fascio di fogli. «Quella festa – e volevo parlarne nelle mie memorie – non era quella del ventiseiesimo compleanno. Era quella del ventisettesimo. Non ho festeggiato i ventisei anni perché, se fai mente locale, avevo le tonsille infiammate ed ero alla Royal Infirmary a farmele togliere. Ricordo di aver ricevuto dall’ufficio un biglietto in cui mi auguravano pronta guarigione e insieme buon compleanno. Era firmato dal socio anziano, e l’ho conservato. Ero felicissimo di averlo ricevuto.»
Betty arricciò le labbra. Per un attimo parve sul punto di parlare, ma poi rimase in silenzio.
«Propongo di smetterla di discutere» proseguì Ramsey. «Se vuoi andare a cercare il pelo nell’uovo sui dettagli delle mie memorie, allora non so se sia produttivo leggertele.»
Betty scattò sulla difensiva. «Non cercavo il pelo nell’uovo, come dici tu. Volevo solo che il resoconto storico fosse accurato. Sono cose importanti. Immagina come sarebbe il mondo se i libri di memorie fossero ingannevoli. Bisogna essere precisi.»
«E io lo sono» ribatté Ramsey. «Sto controllando ogni singolo fatto che metto sulla carta. Ho consultato i miei diari, e sono pieni di appunti, se proprio vuoi saperlo. Sono andato in biblioteca per assicurarmi che tutto quel che dico sugli eventi contemporanei sia vero. Sto seguendo un preciso metodo storico.» Si interruppe, poi aggiunse stizzito: «Non voglio certo ingannare i posteri, Betty».
Betty ci pensò un momento. Era sicura di aver ragione sul fatto che il compleanno fosse il ventiseiesimo e non il venticinquesimo, ma le parve meglio lasciar perdere, anche se era un grave errore da parte di suo marito. «Certo che non li vuoi ingannare, Ramsey» disse conciliante. «Non parliamone più. Venticinque anni, ventisei... più o meno è lo stesso. Vai avanti, tesoro. Ti ascolto.»
Ramsey Dunbarton prese di nuovo in mano il fascio di fogli e si schiarì la voce. «Avevo venti... ero più o meno a metà dei venti. Avevo terminato da poco i miei anni di praticantato ed ero stato ammesso nella Società dei procuratori legali dell’Alta Corte. Per me era un grande onore, visto che mi autorizzava ad aggiungere la sigla PL dopo il cognome. Non persi tempo, devo ammettere, e mi feci subito stampare carta intestata e biglietti da visita nuovi. Ero orgoglioso di quel titolo e devo confessare che trovavo molto irritante chi faceva finta di non sapere che cosa volesse dire PL. (Uno ebbe persino la faccia tosta di chiedermi se ero un ’perito lacustre’!) ’Chi vive a Edimburgo’ precisavo sempre ’certe cose dovrebbe saperle. Lei non si aspetterebbe che un romano sappia cos’è una guardia svizzera?’
«Quella domanda di solito li zittiva, e spero che si sentissero umiliati a sufficienza da andare a casa a controllare cosa significasse la sigla. Non volevo mettere in imbarazzo nessuno, certo, e bisogna andarci piano nell’indicare agli altri la loro ignoranza. Però ci sono dei limiti, e credo che non sapere cosa significhi PL sia uno di questi.
«Una delle caratteristiche più importanti della Società dei procuratori legali è che è sempre stata riservata perlopiù agli avvocati degli studi di Edimburgo, e nemmeno di tutti quelli della città. Ci può essere qualche membro che pratica altrove, persino in posti come Pitlochry, ma in questi casi è del tutto evidente che si tratta in realtà di tipi edimburghesi. D’altronde è giusto che sia così, visto che la Società ha la sua sede a Edimburgo, e venne fondata da avvocati edimburghesi per i propri pari e per nessun altro. Gli avvocati di Glasgow hanno le loro associazioni e possono benissimo iscriversi a quelle, se lo desiderano... e sono certo che alcune sono organizzazioni perfettamente rispettabili e valide, pur non potendoci mettere la mano sul fuoco. Insomma, ho sempre avuto scarsa stima di chi mette in dubbio le nostre importanti istituzioni, come la Società dei PL, benappunto, oppure la Compagnia degli Arcieri reali. A criticarle di solito sono gli invidiosi, che cambierebbero subito registro se fossero ammessi a farne parte.
«In quel periodo lavoravo come assistente nello studio di Ptarmigan Monboddo, uno studio legale molto rinomato a Edimburgo. C’erano otto soci e tre assistenti, compreso me. Il mio principale, il defunto signor Fergus Monboddo, mi disse che se avessi giocato bene le mie carte sarei potuto diventare socio nel giro di cinque anni. Era possibile, disse, diventare soci anche più in fretta, ma per farcela avrei dovuto sposare una delle figlie del socio anziano, e questo – disse Fergus – sarebbe stato chiedere troppo. Pensavo che fosse una battuta, e mi era parsa davvero di cattivo gusto; ero sorpreso che il socio di uno studio legale di Edimburgo si esprimesse così. Scoprii in seguito che il signor Monboddo diceva cose del genere solo dopo essersi bevuto un bicchierino di sherry e imparai perciò a distinguere tra le cose che diceva in tutta serietà e le altre. Sono sempre stato dell’idea che non si debbano mai imputare a un uomo le cose che dice dopo la mezzanotte, o dopo uno o due bicchieri di qualche alcolico.
«Si dà il caso che non nutrissi alcun desiderio di sposare una figlia del socio anziano, perché avevo appena conosciuto la donna di cui ero deciso a ottenere la mano. Era la mia adorata moglie Betty, con cui sono felicemente sposato da tanti anni. Anche se è passato ormai tanto tempo, ho un ricordo molto vivido del giorno in cui ci incontrammo, nella sala da tè Brown Derby di Princes Street. È stato il giorno più importante della mia vita, credo, e oso a malapena immaginare cosa sarebbe potuto succedere se non fossi andato lì, d’impulso, e non avessi conosciuto la persona che mi avrebbe trasformato la vita.»
Sentendo quelle parole, Betty sorrise. Era così gentile da parte sua, un gesto così galante. Eppure si sbagliava di nuovo, temeva lei. Non era successo al Brown Derby, ma da Crawford. Non osò correggerlo ancora, perciò annuì, allegra, e lo invitò a proseguire. Il corteggiamento era stato appassionato, e lei si chiese se avrebbe parlato anche di quello!
38. La storia di Ramsey Dunbarton:
parte II – Il corteggiamento
«Furono giorni molto speciali» lesse Ramsey Dunbarton. «Avevo capito quasi all’istante che quella era la ragazza che volevo sposare, ma a quell’epoca alle donne bisognava fare un bel po’ di corte, prima di sentirsi in diritto di porre la fatidica domanda. Certo, conoscevo persone che si erano fidanzate molto in fretta, ma di solito si trattava di tipi piuttosto svelti, e anche se io mi considero una persona audace, non mi sarei certo definito svelto.
«Andavamo spesso al cinema, al Dominion di Church Hill, e qualche volta alla Playhouse, dove c’era un bellissimo organo. Lo strumento saliva da una botola nel pavimento, con l’organista già seduto alla tastiera, a suonare con tutta l’energia che aveva in corpo. Era uno spettacolo meraviglioso e credo che abbia contribuito non poco all’atmosfera romantica di quegli incontri. C’erano anche i cinegiornali, ovviamente, e uscivamo dal cinema non solo divertiti ma anche informati sulle notizie più rilevanti. Non sarebbe un’idea malvagia reintrodurre i cinegiornali, ma sospetto che la gente oggi si metterebbe a ridere o non starebbe attenta. Nessuno prende più sul serio queste cose.
«Un’altra delle nostre mete più amate era Cramond, dove facevamo belle passeggiate, se il tempo lo consentiva. Cramond a quei tempi era un posto molto romantico e le coppie di fidanzati ci andavano alla ricerca di un posto in cui stare soli e parlare del futuro. A noi piaceva passeggiare lungo la spiaggia, osservare le beccacce e altri uccelli marini. Guardavamo anche le navi nel Forth, provenienti da Rosyth oppure da Leith. All’epoca c’era un traghetto passeggeri che scendeva da Kirkwall e Aberdeen, il St Rognvald. Era di proprietà della North of Scotland, Orkney and Shetland Shipping Company, e una volta ebbi il privilegio di viaggiare a bordo di quell’imbarcazione. Aveva una splendida sala da pranzo ricoperta di pannelli di legno. Ci consideravamo fortunati anche quando vedevamo la Pharos, la nave che i sovrintendenti della Northern Lighthouses adoperavano per andare a ispezionare i fari. Era una nave splendida. Mi sarebbe piaciuto davvero essere un sovrintendente della Northern Lighthouses, ma non mi hanno mai invitato. È questo il problema, qui a Edimburgo: per essere membri di qualcosa di importante, che dia autentiche soddisfazioni, come la Compagnia degli Arcieri reali o la commissione della Northern Lighthouses (senza contare i Cavalieri del Cardo!), bisogna che qualcuno ti inviti. Perché non si può fare domanda? mi chiedo io. Certo, ci sarebbero richieste di ogni genere da parte di candidati indesiderabili, ma le potrebbero filtrare i funzionari pubblici i quali, in base alla mia esperienza, hanno un’idea piuttosto chiara di chi è desiderabile e chi no!
«C’era anche la Gardyloo, ovviamente, la chiatta che portava le acque reflue delle fogne fuori dalla città e le rovesciava nel Firth. Usciva ogni giorno e tornava dopo qualche ora, piuttosto alleggerita. Una volta, molti anni dopo... mi pare alla fine degli anni Settanta, andammo di nuovo a passeggiare a Cramond e vedemmo quella chiatta. Betty me la indicò e mi chiese cosa pensavo che trasportasse quella strana imbarcazione. Io le risposi che pensavo fosse carica di ghiaia estratta da una cava più a sud, vicino a North Berwick. Sapevo che non era così, ma non potevo dirle cosa stava succedendo in realtà. È stata l’unica occasione in cui ho mentito a Betty, e in seguito ho ammesso la verità. Lei mi ha detto che avevo fatto la cosa giusta, perché di sicuro quella rivelazione avrebbe guastato il romanticismo della nostra passeggiata, se lei avesse saputo qual era il vero carico della Gardyloo.
«Il nostro amore sbocciò, cosa di cui ero sicuro, e alla fine Betty mi invitò ad accompagnarla a Broughty Ferry, dove abitavano i suoi genitori. Ci accordammo per andare fin lassù in macchina, una domenica, pranzare con loro e tornare in città in tempo per la cena.
«Non dimenticherò mai quel primo incontro con i suoi genitori. Qualsiasi giovane, ovviamente, era intimidito all’idea di incontrare i genitori della sua promessa sposa, e io mi sentivo parecchio teso mentre ci avvicinavamo alla porta di casa loro. Betty doveva aver percepito il mio nervosismo, perché mi diede una piccola pacca sull’avambraccio e mi rassicurò: mi sarebbero piaciuti. ’Piacciono a tutti’ aggiunse. ’Sono persone buone.’
«E aveva proprio ragione. Mi fecero sentire immediatamente uno di famiglia, e sembravano sapere tutto di me e della mia carriera. Suo padre disse che gli piacevano gli avvocati, e che sarebbe diventato anche lui avvocato se non gli avessero chiesto di occuparsi dell’azienda di famiglia, una fabbrica di marmellate a Dundee. Era stato suo padre a fondarla, al ritorno da Calcutta, dov’era agente per la fabbrica di iuta di un cugino.
«Dopo mangiato le signore si ritirarono, lasciando me e il padre di Betty in sala da pranzo. Avevamo parlato di ogni genere di cose, a tavola, ma ora la conversazione parve arenarsi. Guardai fuori dalla finestra, nella speranza di vedere qualcosa su cui fare un commento, ma non c’era niente d’insolito da vedere. Un ampio giardino, pieno di rododendri; ma non mi venne in mente nulla da dire su quei fiori. Perciò rimasi zitto.
«Alla fine fu il padre di Betty a parlare. Mi guardò per un attimo, quasi per valutarmi, e poi disse: ’Che ne pensi della marmellata?’
«Sulle prime non sapevo come rispondere. La marmellata mi piaceva, ma non ero certo che fosse quello il punto della domanda.
«Dovette cogliere la mia confusione, perché poco dopo si spiegò meglio. ’Intendo dire questo: credi sia un settore in cui potresti lavorare? Cioè, se qualcuno ti offrisse un posto in questo campo.’
«Non ero preparato a una domanda del genere. Avevo l’impressione che mi stesse sondando, per scoprire se ero pronto a dedicarmi agli affari della loro famiglia, e la cosa mi parve un po’ prematura, dato che non avevo ancora annunciato la mia intenzione di chiedere la mano di Betty. Supposi però che fosse una mossa saggia da parte sua. Se voleva accasare Betty, forse aveva pensato che l’offerta di una partecipazione nei suoi affari mi avrebbe spinto a chiederla in moglie. Più ci pensavo, in effetti, più mi convincevo che era questo che aveva in mente.
«Ma dovetti essere sincero. Non avevo niente contro il settore delle marmellate, ma non pensavo di volergli dedicare la mia vita. Sicuramente è un campo gradito a molte persone, ma a me piaceva la legge e avevo lavorato sodo per diventare procuratore legale. Non volevo buttar via tutto solo per amore della marmellata.
«Gli spiegai che pensavo di continuare a esercitare l’attività legale. Annuì – un po’ abbacchiato, mi parve – e mi disse che si aspettava una risposta del genere. ’Il nostro non è il settore più affascinante del mondo’ mi disse. ’Ma sai una cosa? A me piace da morire. Assaporo ogni istante. La marmellata è stata tutta la mia vita. Proprio così.’»
39. La storia di Ramsey Dunbarton:
parte III – Ulteriori successi
«Io e Betty ci sposammo a St Giles, dove mio padre era uno dei decani. Poi ci trasferimmo nella nostra prima casa da sposati, una villetta a schiera in fondo a Craiglea Drive, a Morningside. Non era una casa grande, ma per noi era perfetta, visto che eravamo sul lato rivolto al sole della via e alla mattina la luce inondava le finestre del soggiorno. Ciò significava, ovviamente, che il giardino, sul lato opposto, non riceveva tanto sole quanto avrei desiderato, e credo che sia stato quello il vero motivo che ci spinse a traslocare, sei anni dopo. So che alcuni hanno insinuato che fosse perché non trovavamo quell’angolo di Craiglea Drive abbastanza ’grandioso’ per noi, ma non era affatto così, e sono lieto di avere l’occasione di mettere a tacere queste voci.
«Una delle principali attrattive di quella casa erano le molte gradevoli passeggiate che si potevano fare nei dintorni. Se si arrivava in cima alla strada e si girava a destra, e poi subito a sinistra, ci si trovava davanti ai cancelli di Craig House. Era uno splendido palazzo, costruito in origine per ospitare un ospedale, ma più simile a una grande residenza di campagna. Aveva un salone magnifico, cui a volte i pazienti potevano accedere per cene e pranzi di gala, e un giardino molto vasto. Come molti del quartiere, mi godevo il privilegio di girare per quel giardino, ammirando lo splendido panorama. Io e Betty abbiamo passato molte ore felici a camminare in quel giardino quando abitavamo in Craiglea Drive, e quando ci passo davanti in macchina, adesso, ripenso a quei giorni e non riesco a non sentirmi un po’ triste. Penso ai poveri degenti dell’ospedale, alla loro infelicità, e al fatto che un tempo ci prendevamo cura degli altri con maggior dignità di adesso. A quei tempi, se eri malato ti accoglievano volentieri in ospedale. Ti mettevano a tuo agio e ti chiamavano per nome e cognome. Oggi, la prima cosa a cui pensano è come mandarti via il prima possibile; poi ti sbattono in un reparto misto di uomini e donne, come se la privacy non contasse più niente. A volte rifletto su ciò che abbiamo perduto, nella nostra società, e su come è successo. Ma se ne parlo, la gente fa una risatina di scherno e mi dà dell’antiquato e del conservatore. Facciano pure. Almeno mi posso consolare con la consapevolezza di avere sempre – sempre – chiamato le persone Signor e Signora tal dei tali, senza mai avere la presunzione di una familiarità che non mi avevano concesso.
«Quando ce ne andammo da Craiglea Drive, venimmo a stare sulle Braids, nella casa in cui saremmo rimasti per molti anni e in cui abitiamo tuttora. Non sono un vagabondo; mi piace mettere radici. Abitare quassù era perfetto per noi, con l’aria buona e il panorama stupendo, e negli anni abbiamo creato un giardino davvero notevole. A un certo punto avevamo addirittura pensato di proporre il nostro giardino per l’apertura al pubblico nell’ambito del progetto ’Giardini di Scozia’, ma non me la sentii di fare una cosa che i vicini avrebbero potuto considerare eccessiva o pretenziosa. La maggior parte dei giardini aperti al pubblico sono piuttosto grandi, legati a residenze di campagna di notevoli dimensioni, ma c’è posto anche per giardini piccoli e raccolti, che possono rivelarsi veri gioielli se progettati e curati con attenzione e buon gusto.
«Betty ci teneva molto ad aprire il giardino al pubblico, ma alla fine io decisi che non sarebbe stato saggio. ’Bisogna tenere un profilo basso’ le dissi. ’Se si alza troppo la testa, c’è sempre gente pronta a sparare a zero.’
«Lei parve sorpresa e disse che forse stavo esagerando. È d’indole così buona, credo, da non riuscire a immaginare che gli altri possano essere perfidi. Ma io della natura umana ho conosciuto tanti aspetti, e so bene che in giro c’è gente che non vedrebbe l’ora di mettere in giro voci contro di me. Mi era già capitato quando mi ero proposto come membro dell’Associazione per la conservazione del paesaggio locale, e avevo suggerito che le mie competenze in materia legale si sarebbero potute rivelare utili, nel caso fossero state presentate richieste per piani di sviluppo edilizio discutibili. Mi giunse all’orecchio che secondo un paio di vicini la mia offerta era la prova che pensavo di saperne più di loro in fatto di procedure burocratiche. Ingiusto, davvero. Non avrei mai sottinteso una cosa simile: mi ero offerto solo per rendermi utile alla comunità.
«Ma ci sono persone a cui il bene comune non interessa; si lasciano consumare dall’invidia per chiunque sia un po’ più intraprendente di loro. Non voglio puntare il dito contro nessuno, ma credo che ci siano un paio di politici scozzesi che forse si sono macchiati della colpa di nutrire sentimenti del genere nei loro petti peraltro generosi. Ma le frecciate politiche non sono di mio gusto, e non intendo dire altro in proposito!
«Il tempo passava davvero in fretta. Io e Betty non abbiamo avuto figli. Per entrambi è stata una delusione, lo so, e vorrei tanto che fosse andata diversamente. Ma siamo stati fortunati in molti altri modi; non voglio soffermarmi sulle cose che potremmo aver perso. Abbiamo vissuto una vita fortunata, io e Betty, arricchita da una dose di emozioni ben superiore alla norma. Vorrei raccontarvene una parte, e illustrarvi in particolare alcuni dei miei casi legali più emozionanti, parlarvi di quando interpretai il duca di Plaza-Toro nei Gondoliers al Church Hill Theatre, del mio scatenato amico Johnny Auchtermuchty e di quella volta in cui giocai a bridge insieme a nientemeno che Angus, il defunto duca di Atholl.»
40. Il piano di Bertie prende le mosse
Mentre tornava in Scotland Street dopo la sua sfortunata sortita in Dundas Street – sfortunata perché era rimasto bloccato in modo così ignominioso e terrificante in mezzo al traffico, eppure fortunata, dato che era stato soccorso da un noto politico che per caso stava risalendo la collina proprio in quel momento – Bertie si sentiva profondamente abbattuto. Non aveva escogitato molti piani nella sua breve vita – tutta la pianificazione era appannaggio di sua madre – e questo progetto, del quale si era tanto compiaciuto, era naufragato sul nascere. Mentre rincasava, tastando nella tasca il pezzetto di gesso che pensava di usare per lasciare un messaggio al suo potenziale collaboratore, Paddy, decise che forse era inutile ribellarsi. Aveva l’impressione che, per quanto lui provasse a opporsi, sua madre l’avrebbe sempre superato in astuzia. Per di più lei aveva anche un alleato potente, nella persona del dottor Fairbairn. Era un’impresa disperata, si disse Bertie, cercare di assumere il controllo della propria vita di fronte a due avversari così abili. Forse, come un prigioniero di guerra, doveva tenere un profilo basso e attendere l’ora della liberazione. Sarebbe arrivata a diciott’anni, quando – a quanto aveva capito Bertie – si diventava adulti, si poteva andare via di casa e fare quel che si voleva. Compiuti i diciotto, perciò, si poteva abbandonare la salopette color fragola, se si voleva, e vestirsi secondo i propri gusti. Bertie non vedeva l’ora: mancavano solo dodici anni.
Bertie era immerso in questi pensieri quando voltò l’angolo di Drummond Place e sentì un rumore venire dalla sua destra, dai giardini in mezzo alla piazza. Era un rumore strano, a metà tra un fischio e il verso di un gufo, e per un attimo si chiese se qualche uccellino insolito si fosse perduto e si fosse stabilito su uno degli alberi.
Bertie si fermò e osservò i cespugli. Di nuovo quel suono, seguito stavolta dalle frasche che si aprivano. Dall’interno, mezzo accovacciato e mezzo in piedi, spuntò Paddy, il bambino che Bertie sperava di vedere in Fettes Row.
«Bertie!» lo chiamò. «Presto! Vieni qui!»
Bertie, senza quasi aspettare di vedere se arrivava qualche macchina, ma pur sempre attento a non calpestare le righe, scese dal marciapiede e attraversò la strada. In un attimo entrò dal cancelletto socchiuso del giardino. Paddy lo chiamò ancora, e scostò i rami del grosso cespuglio in cui si era nascosto.
«Ciao» gli disse mentre Bertie lo raggiungeva. «Questo è il mio osservatorio speciale. Puoi venirci quando vuoi. Si vede tutto quello che succede. E nessuno vede te!»
«Bellissimo» disse Bertie, aggiungendo in italiano: «Magnifico...» Ma si corresse subito. «Stupendo!»
«Già» rispose Paddy. «Ma non dirlo a nessuno. Non voglio che ci venga nessun altro, qui dentro.»
«Certo che no» disse Bertie. «Solo io e te. Come una di quelle logge massoniche.»
Paddy lo guardò confuso. «Logge... massoniche?»
«Sì. Dove si trovano gli uomini... uomini adulti» spiegò Bertie. «Si mascherano e vanno in questi circoli segreti, dentro le case.»
«Che cosa strana» rispose Paddy. «E cosa fanno?»
«Non lo so di preciso» disse Bertie. «Non si fanno vedere da nessuno. E le femmine non sono ammesse.»
«Giusto. Le femmine rovinano sempre tutto.»
Bertie ci pensò un attimo. Non conosceva molte femmine... in effetti l’unica era quella bambina che si chiamava Olive, la sua compagna di scuola. Era simpatica, lei, si disse, e non era proprio convinto che rovinasse tutto. Era Olive che l’aveva aiutato a rialzarsi, quando Tofu l’aveva spinto per terra, ed era stata lei a consolarlo dicendogli che Tofu alla fine sarebbe sparito per il suo vegetarianesimo forzato.
«Ci sono delle ragazze simpatiche» disse Bertie. «Ce n’è una che si chiama Olive...»
«Mai sentita» tagliò corto Paddy. «E comunque, non parliamo di femmine. Parliamo d’altro.»
Bertie colse la palla al balzo. «Ho avuto un’idea bellissima» disse tutto d’un fiato. «Ho bisogno del tuo aiuto per un piano che ho ideato. Tu puoi andare dove vuoi?»
«Sì» rispose Paddy. «Dove mi pare, basta che torno per le sei. Sono liberissimo.»
«E tua... tua madre? Lei non...?» Era così difficile dirlo per Bertie, ma gli sembrava una cosa così straordinaria, così impossibile, che un bambino potesse essere libero da sua madre, che gli serviva una conferma.
«Mia madre è tranquilla» disse Paddy con un’alzata di spalle. «Dice che i bambini devono divertirsi. E anche a lei piace divertirsi. Lo dicono tutti, è divertentissima.»
Bertie sgranò gli occhi. «E tuo papà? Lui cosa dice?»
«È tranquillo anche lui» disse Paddy. «Mi porta a pesca sulle Pentland. Te l’ho detto, no? E gli piace anche bere. Si diverte un sacco.»
Bertie guardò Paddy con ammirazione mista a invidia. Era così che ci si doveva sentire a diciott’anni, pensò. Ma non serviva a niente crogiolarsi nei rimpianti per ciò che non era; aveva un piano da spiegare a Paddy, e nei minuti seguenti gli illustrò nei dettagli cosa voleva che facesse. Paddy lo ascoltò con attenzione e poi annuì entusiasta. «Come bere un bicchier d’acqua» rispose. «Ritiro i soldi al posto tuo e ti compro la giacca... e la cravatta. Poi te le porto qui e le lascio sotto il cespuglio... nel nostro posto. Le prendi quando vuoi. Facile.»
«Ti farò un regalo per tutto questo disturbo» disse Bertie. «Puoi tenerti dieci sterline.»
«E se facciamo venti?» ribatté Paddy.
Bertie ci pensò un attimo. Venti sterline erano un sacco di soldi, ma era sicuro che Paddy avrebbe fatto tutto quel che gli aveva promesso, e in fondo era un piano importante. «Va bene» rispose Bertie. «Puoi tenertene venti.»
«Bene. Allora dammi il bancomat e il codice.»
Bertie si mise la mano in tasca e tirò fuori la tessera. «Il numero è facile da ricordare» disse. «È la data di nascita di Mozart.»
Paddy lo fissò. «Di chi?»
«Di Mozart.»
Paddy continuò a fissarlo. «In che squadra giocava?» chiese.
Bertie scoppiò a ridere. Che battuta divertente. Poi si fermò. Forse Paddy non l’aveva capita.
41. Il piano di Irene per Bertie
Paddy fu di parola. Il giorno dopo l’incontro fortuito tra i due bambini nel loro nuovo punto di ritrovo ai giardini di Drummond Place, Bertie trovò ad attenderlo sotto il cespuglio prefissato un pacchetto avvolto con cura nella carta di Aitken and Niven. Irene gli aveva dato il permesso di uscire a giocare ai giardini per un quarto d’ora prima della lezione di yoga a Stockbridge, e lui ne aveva approfittato per recuperarlo. Armeggiando con la corda che Paddy gli aveva legato intorno, Bertie l’aveva aperto e ne aveva ammirato il contenuto. Sotto i suoi occhi c’era una giacca della Watson, nuovissima, color prugna, con tanto di cravatta e, infilata con cura nel taschino del blazer, la carta del suo conto «junior» ora un po’ più prosciugato.
Era importantissimo assicurarsi che Irene non vedesse la giacca, quindi Bertie doveva fare attenzione e introdurla in casa di nascosto. L’impresa si rivelò più facile del previsto: quando aprì la porta, Irene era al telefono, e lui riuscì a sgattaiolare lungo il corridoio fino in camera sua, dove infilò il pacchetto sotto il letto. Era stato facile, ma comunque rischioso, e sentì che gli batteva forte il cuore, mentre se ne stava sulla porta ad ascoltare per qualche istante i discorsi di sua madre. No, non l’aveva sentito; non sospettava niente.
La voce di Irene scendeva fino a lui dall’altro capo dell’appartamento. «Non c’è dubbio, ce la può fare di sicuro» diceva. «È molto avanti, sa.»
Bertie fece una smorfia. Stava parlando di lui... anche stavolta. E in che cosa era abbastanza avanti? Di sicuro non nel rugby.
Ci fu qualche istante di silenzio, mentre la voce all’apparecchio diceva qualcosa. Poi Irene riprese: «La sua età? Cosa c’entra la sua età?»
Silenzio di nuovo. Poi la replica di Irene: «Be’, è una regola assurda. In effetti Bertie non ha ancora compiuto sei anni, d’accordo, ma le sue capacità intellettuali sono quelle di un bambino molto, molto più grande. Ci sono parecchi diciottenni che non stanno al pari con lui, sa? Bertie potrebbe andare all’università, se volesse».
Bertie si sentì strizzare lo stomaco da un nodo gelido di paura. Adesso lo voleva mandare all’università, prima ancora di cominciare le elementari! Che ingiustizia. Avrebbe dovuto andarsene di casa, vivere in uno studentato e farsi da mangiare da solo. E all’università non ci sarebbero stati bambini della sua età, avrebbero avuto tutti diciott’anni, o anche di più. E gli altri studenti avrebbero riso della sua salopette... poco ma sicuro. Sarebbe stato l’unico universitario costretto a mettere la salopette.
«Sì» continuava Irene. «Dico sul serio. Potrebbe laurearsi facilmente. Parla già l’italiano correntemente. Non lo sto imbottendo di nozioni, per usare le sue parole... e comunque è un modo di dire ridicolo, questo. Esiste una cosa che si chiama naturale curiosità intellettuale, sa?»
La voce all’altro capo impiegò un po’ a rispondere, perché Irene rimase in silenzio per diversi minuti. Poi, piuttosto bruscamente, disse arrivederci e riattaccò.
Bertie si ritirò in camera sua, chiuse la porta e si sdraiò sul letto a fissare il soffitto. Era l’unica superficie bianca nella camera tutta rosa, perché sua madre non se l’era sentita di montare sulla scala per tinteggiarla quando aveva ridipinto le pareti. Le fissò. Era sicuro che Paddy non ce l’aveva, una cameretta rosa, e nemmeno Jock, quello con cui aveva quasi fatto amicizia e che sarebbe stato suo fratello di sangue se non fosse intervenuta sua madre. Vivevano in camere normali, loro, con le macchinine e i palloni da calcio e altre cose del genere. Non avevano una madre come la sua, che chiamava quella camera «il suo spazio».
Tutt’a un tratto la porta si aprì e sulla soglia comparve Irene. Bertie avrebbe voluto che bussasse prima di piombargli in camera, e una volta gliel’aveva chiesto, ma lei si era messa a ridere. «Ma dai, Bertie! Vuoi davvero che bussi prima di entrare nel tuo spazio? E perché mai?»
«Perché è buona educazione» rispose lui. «Lo si dovrebbe sempre fare prima di entrare nello spazio di un altro. Bisognerebbe bussare.»
«Ma ricordati che io sono la tua mamma» disse Irene. «E tu sei Bertissimo. Non hai segreti per la mamma, vero Bertie?»
Bertie aveva fissato il pavimento, pensando ai suoi segreti. Sì, ce li aveva eccome, e gli sarebbe piaciuto averne anche di più. Sua madre non conosceva i suoi pensieri segreti, i suoi pensieri di libertà. Non sapeva del suo piano, che ora si stava per compiere. Ed era un bene che non ne sapesse niente. Pensava di sapere tutto di lui: invece no, non quanto credeva lei. Era una soddisfazione enorme per lui. Mamma ignorante, pensò, con gusto. Mamma all’oscuro!
In quel momento, in piedi sulla soglia, Irene abbassò gli occhi su Bertie e sorrise. «È l’ora dello yoga» disse allegra. «Se ci sbrighiamo, possiamo fermarci a bere un caffellatte.»
Bertie fece un gran sospiro. Non ci voleva andare, a yoga. Non gli piaceva stare sdraiato a pancia in giù con la schiena inarcata a far finta di salutare il sole. E non voleva inspirare profondamente e trattenere il fiato, mentre la maestra di yoga contava fino a venticinque. Non ne vedeva proprio il motivo.
«Non è che lo yoga mi piaccia molto» disse a bassa voce. «Non potrei smettere e restare a casa?»
Irene lo guardò severa. «Ma certo che ti piace lo yoga, Bertie. Ti piace un sacco.»
«Invece no. Lo detesto.»
«Sciocchezze» disse lei. «Non puoi detestare lo yoga. È impossibile detestarlo. E sarà meglio che ti sbrighi. Di questo passo non ci arriveremo mai.»
Bertie sospirò e si trascinò giù dal letto.
«Mi vuoi mandare da qualche parte, mamma?» chiese.
Irene inarcò un sopracciglio. «Perché me lo chiedi, Bertie?»
«Perché lo voglio sapere» rispose lui. «Voglio sapere cosa mi succederà.»
«Be’, in effetti, ho un piccolo piano che ti riguarda» disse Irene. «Ma non è il momento di parlarne.»
Bertie la guardò. Ce l’ho anch’io un piccolo piano, si disse. E tu non lo sai, brutta vecchia...
Si trattenne. Non voleva pensare certe cose di sua madre. Desiderava volerle bene, lo desiderava davvero. Ma si stava rivelando difficile.
42. La fuga di Bertie
Bertie si portò a scuola la giacca della Watson, ripiegata e ficcata in fondo allo zainetto. Aveva una spiegazione pronta per sua madre, nel caso gli avesse chiesto perché lo zaino sembrava così pieno, ma Irene pareva avere altro per la testa quella mattina e fece poca attenzione a Bertie mentre salivano sull’autobus.
«C’è qualcosa che ti rende triste, mamma?» le chiese mentre l’autobus arrancava risalendo il Mound.
Irene, che guardava fuori dal finestrino, si girò verso il figlio e sorrise. «No, Bertie. La mamma non è triste. La mamma sta pensando.»
«E a cosa?» chiese lui. «Al dottor Fairbairn?»
Irene rimase senza fiato. «E perché diavolo dovrei pensare al dottor Fairbairn?» sbottò. Stava proprio pensando a lui, ovviamente, e per la precisione alla sua giacca di lino blu, ma non si aspettava che Bertie lo indovinasse. Forse era quella, la straordinaria telepatia famigliare di cui aveva letto da qualche parte. E se Bertie fosse stato un sensitivo? si chiese. Non che certe cose fossero più che sciocchezze per gonzi. Aveva tirato a indovinare... tutto lì. Stava pensando anche lui al dottor Fairbairn – pura coincidenza – e questo l’aveva spinto ad attribuire a lei i suoi pensieri, un fenomeno molto comune, ricordò: il transfert dei nostri stati mentali sugli altri.
Bertie non rispose. Voleva che sua madre fosse felice, ma gli sembrava che il principale ostacolo fosse proprio lei. Se solo avesse smesso di preoccuparsi per lui; se solo avesse smesso di pensare ai motivi per cui le persone facevano le cose; se solo avesse accettato cose e persone per quello che erano. Ma Bertie sapeva che era inutile aspettarselo. Se Irene avesse smesso di costringerlo a fare le cose, cosa le sarebbe rimasto nella vita? Aveva poche amiche, a quanto ne sapeva Bertie. Sì, c’era qualche signora con cui chiacchierava volentieri al Floatarium, ma non le vedeva mai altrove e loro non venivano mai a casa, in Scotland Street. In effetti, a casa loro in Scotland Street non veniva mai nessuno, a parte uno dei colleghi d’ufficio di suo padre, che ci andava una volta al mese per giocare a scacchi. Era possibile che suo padre avesse altri amici, sul lavoro, ma Bertie non ne era certo. Una volta gliel’aveva chiesto e aveva ricevuto una risposta piuttosto singolare. «Amici, Bertie? Amici? Io e tua madre siamo amici, no? Me ne servono altri?»
Bertie pensava di sì, ma non l’aveva detto. Una cosa di cui era certo era che non sarebbe diventato come i suoi genitori, da grande. Compiuti i diciott’anni, non sarebbe andato dallo psicoterapeuta, né a galleggiare in una vasca. Camera sua avrebbe avuto le pareti bianche, magari persino nere, ma di certo non rosa. E non avrebbe mai parlato italiano. Ci sarebbero stati parecchi cambiamenti, si disse.
Irene accompagnò Bertie da Bruntsfield all’ingresso della scuola. Poi gli diede un bacio e lui rimase per qualche istante a osservarla mentre risaliva la strada. Era ora di muoversi. Dopo aver dato un’occhiata intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse, sfrecciò lungo la prima parte del vialetto della scuola, poi svoltò all’improvviso e attraversò di corsa il giardino, dritto verso un piccolo capanno addossato al muro di mattoni che recintava il cortile. Era il ripostiglio dove il giardiniere teneva rastrelli, forconi e altri attrezzi vari. Bertie aveva effettuato un sopralluogo accurato e sapeva che il giardiniere non lo chiudeva a chiave. Aprì la porta e s’infilò dentro.
La trasformazione richiese non più di qualche minuto. Al posto della salopette color fragola e della camicia a quadretti ora sfoggiava una bella camicia bianca con cravatta, pantaloni corti quasi del colore giusto, e la splendida giacca nuova della Watson. Ficcò i vestiti vecchi nello zainetto e li nascose sotto un secchio arrugginito rovesciato e appoggiato per terra. Poi, dopo aver sbirciato dalla finestra coperta di ragnatele per assicurarsi di poter uscire senza problemi, aprì la porta del capanno e fece di corsa la breve distanza che lo separava dal cancello.
Era ora di portare a compimento la prima fase del suo piano. Dalla tasca del suo blazer nuovo, Bertie estrasse un bigliettino scritto con cura che aveva falsificato la sera prima. Dopo essersi guardato intorno in cerca di un viso noto, trovò Merlin, uno dei suoi compagni di classe.
«Per piacere, dai questo biglietto alla signorina Harmony» disse Bertie, ficcando la busta in mano a Merlin. «Non dirle che te l’ho dato io. Mettilo sulla cattedra e basta.»
Merlin guardò la busta e poi Bertie. «Perché hai quei vestiti buffi?»
«Perché sì» rispose Bertie.
Merlin scrollò le spalle e si spazzolò un granello di polvere dalla spalla della sua giacca color arcobaleno. «Immagino che tu abbia il diritto di essere strano» commentò.
Bertie lo ringraziò e poi varcò a passo svelto il cancello, svoltando l’angolo in direzione del George Watson’s College. Mentre camminava, ripensò al contenuto del biglietto che aveva appena affidato a Merlin. Era bravo a imitare la grafia di sua madre e pensava di essersela cavata bene. «Cara signorina Harmony» aveva scritto. «Purtroppo mio figlio Bertie ha contratto una malattia infettiva e dovrà stare a casa da scuola per un po’. Sarei venuta a parlargliene di persona, ma avevo paura di attaccarle la malattia, nel caso che ce l’abbia pure io. La prego di non preoccuparsi per Bertie, che è contentissimo e di sicuro a tempo debito tornerà in piena salute. Adesso sta facendo una cura di steroidi, come me e mio marito, per precauzione. Cordiali saluti, Irene Pollock.»
Bertie era molto soddisfatto delle frasi che aveva scritto, e pensava che avrebbero funzionato, soprattutto grazie ai dettagli medici inseriti alla fine. L’accenno a una malattia infettiva, aveva pensato, avrebbe di sicuro fatto sì che la scuola evitasse di contattare sua madre, perché le scuole stavano attentissime alle epidemie. Se tutto fosse andato secondo i piani, avrebbe potuto semplicemente tenere l’uniforme della Watson nascosta nel capanno e cambiarsi ogni mattina. C’erano così tanti bambini in giro che nessuno avrebbe notato nulla, e la Watson, a quanto ne sapeva, era una scuola molto grande. In una scuola di quelle dimensioni, nessun insegnante avrebbe fatto caso a un bambino in più, pensava, e non c’era motivo per cui non potesse concludere lì tutto il suo ciclo di studi.
Arrivò al cancello della Watson. Adesso, si disse, devi solo fare come se fossi di questa scuola. Non comportarti in modo sospetto, Bertie. Mostrati sicuro.
E Bertie si avviò con passo spavaldo lungo il vialetto della Watson.
43. Rugby!
Una volta varcate le porte del George Watson’s College, restava solo da trovare una classe adatta. In bella mostra alle pareti c’erano cartelli che indicavano da che parte erano le aule, e Bertie non fece altro che seguirne uno con la scritta PRIMA ELEMENTARE. Arrivato a destinazione, si infilò in aula insieme ad altri due bambini.
«C’è un banco libero?» sussurrò a uno dei due. «Sono nuovo.»
L’altro indicò verso il fondo dell’aula. «Quello là» disse. «C’era seduto un bambino, ma è andato via dopo il primo giorno. Si dev’essere perso nei corridoi, credo.»
Bertie lanciò un’occhiata al banco. Era perfetto per il suo scopo, dato che non voleva attirare troppo l’attenzione. Ringraziò il suo nuovo compagno, andò al banco in fondo e si sedette. Dopo un po’ arrivò la maestra, e gli alunni si misero a copiare le lettere, scrivendole sopra una linea orizzontale. Mentre i bambini svolgevano l’esercizio, la maestra si spostava tra le file di banchi, fermandosi a commentare il lavoro di ciascuno. Bertie rimase immobile a fissare il foglio sul suo banco, nella speranza che la maestra si fermasse prima di arrivare da lui. Ma non fu così, e quando sollevò lo sguardo vide che lo fissava con un’espressione sorpresa sul viso.
«Sei nell’aula giusta, caro?» gli chiese con gentilezza. «O ti sei confuso?»
Bertie la guardò e deglutì. «Mi hanno trasferito. Ero là, e ora sono qui.» Fece un gesto vago in direzione del corridoio.
«Impossibile» disse la maestra. «Dimmi, come ti chiami?»
«Bertie» sussurrò lui. «Bertie Pollock.»
«Be’, credo che ci sia stato un errore» proseguì la maestra. «Più tardi controllo in segreteria. Forse si sono scordati di dirmelo.»
«Sì» si affrettò a rispondere Bertie. «Probabilmente è andata così. Questa scuola è così grande. Dev’essere difficile tenere tutto sotto controllo.»
La maestra guardò Bertie incuriosita. «Be’, sì, suppongo che sia una scuola piuttosto grande. Ma di solito i bambini finiscono nelle classi giuste. Sono sicura che sistemeremo tutto. Non ti preoccupare!»
All’intervallo, Bertie uscì dall’aula più in fretta che poté. Non sapeva bene se sarebbe tornato nella stessa classe, perché presumibilmente la maestra avrebbe presto scoperto che non era quello il suo posto. Forse sarebbe stato meglio provare un’altra classe, magari con un’insegnante meno ficcanaso, se esisteva.
Uscì e si mise in un angolo, a guardare i giochi che stavano iniziando intorno a lui. I bambini correvano per il cortile, gridandosi dietro, divertendosi, ma nessuno gli chiese di partecipare. Bertie guardò per terra; fin lì non sembrava esserci tanta differenza tra la Watson e la Steiner. Forse in fondo tutto il suo piano non era poi così buono. Ma poi lo vide, e il cuore ebbe un sussulto. Sì, eccolo là: Jock, il coraggioso Jock, il bambino che aveva già conosciuto, quello che sarebbe diventato suo amico.
«Jock!» gridò Bertie. «Jock! Sono qui!»
Jock, che stava correndo verso il cancello con una specie di sacchetto in mano, si fermò di colpo e guardò Bertie. Sembrava perplesso.
«Già» rispose. «Sei qui.»
Bertie fece qualche passo verso il suo amico. «Sono io» disse. «Bertie. Ti ricordi?»
Jock aveva sempre l’aria perplessa. «Non proprio.»
Bertie sentì una punta di delusione, ma non la lasciò trapelare. Indicò il sacchetto che Jock aveva in mano. «Che cosa ci fai con quello?»
«Rugby» rispose Jock. «Laggiù.» Indicò un campo di gioco, dove un gruppetto di bambini iniziava a radunarsi intorno a un insegnante in tuta rossa. «Vieni anche tu?»
Bertie non esitò un attimo prima di rispondere: «Ma certo». Una pausa, poi aggiunse: «Ma non ho la divisa. Non posso giocare con la giacca».
«Negli spogliatoi» disse Jock con nonchalance «c’è sempre roba in giro. Mettiti quella che trovi.»
Bertie seguì Jock negli spogliatoi, dove trovò subito un paio di pantaloncini smessi, una maglietta strappata e infangata e un paio di scarpini che, anche se erano più grandi di diverse misure, almeno non gli facevano male agli alluci. Poi, trotterellando al fianco di Jock, si avviò sul campo per unirsi al crocchio di altri giocatori in miniatura in mezzo al prato. L’ansia che aveva provato per il rischio di essere scoperto era ormai svanita, e si sentiva pazzo di gioia. Era lì, finalmente, sul campo da rugby, in divisa da rugby, e stava per fare una partita insieme al suo amico ritrovato, Jock. Anche il signor Gavin Hastings doveva aver cominciato così, si disse, anche se lui probabilmente portava scarpe della sua misura e una maglietta senza quello strappo sulla spalla destra. Ma erano dettagli: l’importante era che stava per giocare a rugby, sull’erba vera, con bambini veri e un pallone vero.
L’insegnante divise i bambini in due squadre. Bertie sperava di giocare con Jock; invece no. Lo salutò con la mano, comunque, ma lui non rispose al saluto. Forse non mi ha visto, pensò Bertie. Forse sta già pensando alla partita.
Il maestro fischiò e la palla fu messa in gioco. Bertie non sapeva bene che fare, ma corse con entusiasmo dalla parte dell’azione. La palla venne passata a qualcuno, e la squadra di Bertie se ne impossessò. Lui gridò: «Qui!» e con sua sorpresa, il bambino che aveva la palla gliela lanciò. Ora, con il pallone tra le braccia, Bertie cominciò a correre verso i pali della porta, in lontananza. Sapeva che bisognava cercare di segnare una meta, se possibile, e che per farlo bastava correre forte e poggiare la palla per terra oltre la riga bianca.
Corse a più non posso. C’erano bambini che venivano verso di lui, ma Bertie continuava a correre. Poi un bambino – era Jock – gli si parò davanti e gli infilò con destrezza piede e caviglia tra le gambe.
Bertie cadde a terra, con la palla sotto il corpo. Jock, in piedi sopra di lui, gli assestò un calcio nelle costole e mentre si contorceva a terra agonizzante per il dolore, Bertie si accorse che gli strappavano via il pallone. Non si sentirono fischi, né obiezioni gridate a gran voce; il gioco proseguì superando Bertie.
Lui si rimise in piedi e seguì con lo sguardo l’azione, che si era spostata all’estremità opposta del campo. Cercò di dominarsi, senza riuscirci, e cominciarono a scorrergli le lacrime giù per le guance; lacrime amare, lacrime per tutto quanto: per il fallimento del suo piano, per la fine dell’amicizia con Jock, per la pura e semplice umiliazione di essere quello che era.
44. Si torna indietro
Bertie corse fuori dal cancello del George Watson’s College, esitò un istante sul bordo della strada e poi attraversò di slancio Colinton Road. Il traffico era scarso e non provò il panico che l’aveva paralizzato durante il suo recente, fallimentare tentativo di attraversare Dundas Street. Ora, con gli scarpini da rugby troppo larghi che gli sfregavano sotto le caviglie, tornò alla cieca verso Spylaw Road, nel rifugio sicuro della scuola steineriana. Era stato un errore tremendo, quella fuga in cerca di libertà; la Watson non era il posto adatto a lui e non lo sarebbe mai stato. E il rugby a cui aveva tanto desiderato giocare era un incubo di violenza, un gioco in cui persino gli amici non ci pensavano due volte prima di farti lo sgambetto e tirarti un calcio nelle costole. Alla Steiner non era così, lì i giochi aggressivi con la palla non erano visti di buon occhio.
Quando arrivò al cancello della Steiner, Bertie era esausto. La corsa dalla Watson gli aveva fatto venire il mal di milza, e il fastidioso dolore per il calcio di Jock non era ancora passato. Si era fatto anche male al polso, nella caduta, forse mentre stringeva la palla al petto. Era un dolore acuto, che sembrava andare e venire, ma che lo faceva trasalire con una smorfia ogni volta che si ripresentava.
Si intrufolò attraverso il cancello e si avviò piano verso il capanno in fondo al giardino. Non gli importava più di essere visto: non c’erano più segreti... almeno, non c’erano segreti che valesse la pena tenere. Una volta entrato nel capanno, rovesciò con un calcio il secchio in cui aveva ficcato i vestiti. Ecco la solita salopette e la camicia a quadri. Non c’erano scarpe, ovviamente, perché quelle le aveva lasciate negli spogliatoi della Watson. Andate per sempre, insieme alla sua nuova giacca color prugna e alla cravatta. Almeno quelle non gli servivano; per le scarpe, era diverso: della loro scomparsa avrebbe dovuto render conto a sua madre.
Abbandonata la divisa da rugby sul pavimento del capanno, Bertie s’incamminò verso la sua aula. La porta era chiusa, ma dal pannello di vetro riusciva a distinguere le sagome dei compagni, tutti seduti in cerchio. Un bel respiro, e poi in classe.
Quando Bertie entrò la signorina Harmony sollevò lo sguardo, gli sorrise e indicò il posto vuoto che lo attendeva.
«Sei un po’ in ritardo, oggi, Bertie» gli disse. «Ma non importa. Stiamo disegnando un po’, e so che a disegnare sei bravo!»
Bertie si sedette e si mise la testa tra le mani. Era consapevole dell’interesse dei compagni: lo sguardo fisso di Tofu, quello più discreto, e preoccupato, di Olive. Dovevano aver notato gli scarpini da rugby, si disse, o perlomeno averli sentiti, perché i tacchetti avevano fatto un gran rumore sul pavimento. Avrebbero riso anche della sua salopette, ovviamente, appena finito di ridere delle sue scarpe.
Dopo qualche minuto, si accorse che la signorina Harmony si era accovacciata accanto al suo banco. Si chinò e gli sussurrò all’orecchio: «Eravamo molto preoccupati, Bertie. Quel bigliettino strano che mi hai mandato... era proprio una cosa bizzarra, sai?»
Bertie la guardò. Gli sorrideva e gli aveva messo una mano sulla spalla. «Non preoccuparti» sussurrò. «Non lo farò vedere a nessuno. Sono dalla tua parte, lo sai.»
Bertie tenne lo sguardo fisso sul banco. Non se l’aspettava. Aveva immaginato una serie di rimostranze e una convocazione in presidenza. Non si aspettava comprensione.
«Senti» proseguì la signorina Harmony a bassa voce, in modo che non sentissero nemmeno i bimbi dei banchi più vicini. «Questa scuola si fonda sull’amore e il rispetto. Ci vogliamo bene e ci prendiamo cura l’uno dell’altro. Perciò ti vogliamo tutti bene, Bertie, perché sei uno di noi. E se c’è qualcosa che non va, puoi dircelo e cercheremo di aiutarti... perché ti vogliamo bene.»
«Mia madre...» iniziò a dire Bertie. Ma non sapeva come continuare e si interruppe. Quando smise di parlare, sentì aumentare la pressione della mano della signorina Harmony sulla spalla.
«Lo so» disse la maestra. «A volte le madri complicano la vita ai bambini. Non lo fanno apposta, sai. Il trucco è non preoccuparsene.»
«Mi fa mettere la salopette» disse Bertie. «E mi sento uno scemo.»
La signorina Harmony annuì. «Vuoi che gliene parli?»
«Sì» rispose Bertie. «Ma non le darà retta.»
«Be’, ci posso provare» proseguì la maestra. «Tentar non nuoce.» Smise di parlare e guardò le scarpe di Bertie. «C’è un armadio, di sotto, con delle scarpe di scorta. Vuoi che andiamo a vedere se ce n’è un paio della tua misura?»
Uscirono dall’aula insieme e scesero di sotto, con Bertie che ormai zoppicava per il dolore alle caviglie. «Povero Bertie» disse la signorina Harmony. «Ecco, prendi il mio braccio. Appoggiati a me.»
Nell’armadio c’era un paio di scarpe marroni e lucide, proprio della sua misura, e dopo averle infilate Bertie cominciò a sentirsi un po’ meglio. Guardò la signorina Harmony e sorrise.
«Mi spiace averle scritto quella lettera» disse. «Sa, non ce l’ho mica una malattia infettiva.»
«Non ti preoccupare» rispose lei. «Non l’ho pensato nemmeno per un istante. La cosa importante è che dovresti essere felice. E mi hai chiesto scusa, e anche questo è molto importante.» Si interruppe. «Ti troverai bene qui, sai, Bertie. È una scuola molto felice.»
Bertie ci pensò un attimo. Aveva ragione. Si sentiva davvero più felice lì che in mezzo al chiasso e alle corse della Watson, con quelle centinaia di bambini e bambine di cui non sarebbe mai riuscito a ricordare i nomi. Il rugby non faceva per lui, aveva concluso, ed era un bene che alla Steiner non ci si giocasse. Andava benissimo per il signor Gavin Hastings, pensò, ma lui, Bertie, avrebbe trovato qualcos’altro a cui dedicarsi. Anche imparare l’italiano era meglio del rugby.
Più tardi, quello stesso giorno, mentre aspettava sua madre al cancello della scuola, gli si avvicinò Tofu e gli chiese dove avesse trovato gli scarpini. «Sono bellissimi» disse.
«Li vuoi?» chiese Bertie con noncuranza. «Te li do, se li vuoi.»
Tofu li accettò riconoscente. «Grazie, Bertie. Sei proprio un amico.»
«E vuoi che ti porti un panino al prosciutto, domani?» chiese lui.
«Sì, sì» rispose subito Tofu. «Anche due, se ti avanzano.»
«Va bene» disse Bertie.
Tofu gli diede una pacca amichevole sulla schiena e andò per la sua strada.
Bertie lo guardò allontanarsi e pensò agli avvenimenti della giornata. Aveva fatto varie scoperte. Una era che il rugby era uno sport duro e un’altra che Jock era un falso amico. Ma c’era altro su cui riflettere. Tofu non era più una minaccia... e sarebbe persino potuto diventare un amico. E sospettava anche che in quella bella scuola sarebbe potuto essere felice: era un bel posto... anche se l’aveva scelto sua madre. In fondo, qualche volta magari ci azzeccava pure lei.
45. A cena con il padre
Se Bertie aveva qualche problema con sua madre Irene – e in effetti sembrava proprio così –, Matthew ne aveva con suo padre Gordon. Irene e Gordon non sarebbero andati d’accordo praticamente su nulla ma, ciascuno a modo suo, erano riusciti a portare infelicità nella vita dei rispettivi pargoli. Mentre Bertie era intrappolato da una madre che nutriva incessanti ambizioni su di lui, Matthew era ben consapevole che suo padre in lui non aveva riposto nessuna speranza. Gordon aveva deciso che suo figlio era un fallito, e alla fine l’aveva accettato. La galleria in cui l’aveva piazzato non doveva essere altro che una sinecura, un posto dove passare la giornata mentre il resto del mondo andava a lavorare. E se anche fosse stata una sistemazione dispendiosa – per Gordon – era un costo che si poteva tranquillamente permettere.
Matthew aveva accettato l’offerta del padre per il semplice fatto che era l’unica disponibile. Sapeva di non essere un granché negli affari, ma bisognava pur fare qualcosa, e gestire una galleria d’arte si era rivelato più interessante del previsto. Quell’interesse andava a compensare il disagio che provava all’idea che suo padre l’avesse già dato per perso. Non è facile accettare la bassa stima che gli altri hanno di noi, e c’erano momenti in cui Matthew desiderava dimostrare a suo padre di essere fatto di una stoffa più robusta, capace di avere successo. Il problema, però, era che se ci avesse provato sul serio, c’erano forti probabilità che avrebbe fallito.
Ora Matthew si stava preparando alla serata con suo padre e Janis. Mentre si faceva il nodo alla cravatta davanti allo specchio, pensò a cosa dire a quella donna, le cui motivazioni, a suo parere, erano chiare come il sole. Sarebbe stato bello farle capire che sapeva perfettamente cosa stava succedendo, e che non c’era cacciatrice di dote capace di farlo fesso. Ma come? Non glielo si poteva dire apertamente, visto soprattutto che la cena era al New Club – un posto dove non si parlava apertamente quasi di nulla –, perciò sarebbe stato necessario fare solo un’allusione... qualcosa che le permettesse di leggere tra le righe. Ma una donna del genere – una «bionda ritardata», come la immaginava Matthew – sarebbe stata capace di farlo? Gente del genere faceva già abbastanza fatica a leggere le righe, figurarsi quello che ci stava in mezzo. Probabilmente muoverà le labbra per leggere il menu, si disse, e sorrise a se stesso, allo specchio. Così proseguì e pronunciò muto la parola «quattrini».
Matthew fissò nello specchio la cravatta che aveva scelto. Aveva dei quadratini rossi collegati tra loro, su uno sfondo blu. Sbagliata. Ne cercò un’altra, una blu con un disegno a zig zag sullo sfondo. Quella sarebbe stata adatta: le linee spezzate assomigliavano vagamente a fulmini, pensò Matthew, e se Janis l’avesse guardata avrebbe ricevuto un messaggio subliminale: vade retro. Sì, pensò: sarebbe stato il tasto giusto su cui battere. Sarebbe stato distaccato e freddo, e così le avrebbe trasmesso proprio il messaggio che voleva: So a cosa punti; certo, non che me ne importi granché, ma lo so.
Soddisfatto del proprio aspetto, si allontanò dallo specchio e prese il cappotto nell’ingresso. Matthew abitava in India Street, in un appartamento che gli aveva comprato suo padre, e per risalire Princes Street fino al New Club non ci avrebbe messo più di un quarto d’ora. Mentre usciva dal portone per inerpicarsi su per la collina, si rese conto che non sarebbe stato facile dimostrarsi freddo e distaccato. Anzi, si sentiva già ribollire, era inquieto. Non sarebbe stato semplice: quella donna mi vuol portar via mio padre, pensò. Proprio così. Me lo vuole portar via... ma lui è mio.
Si fermò a un angolo e si ricompose, dicendosi che la cosa non significava molto per lui. Ogni quanto lo vedeva, suo padre? Meno di una volta al mese, eppure ecco che si stava convincendo di essere possessivo. Devo comportarmi da persona matura, si disse. Devo mettere tutta questa faccenda in prospettiva. Janis è una fase passeggera... un divertissement. Niente di più. E come fase passeggera la si poteva pure tollerare.
Arrivò al New Club e salì la scalinata tetra e cavernosa che portava all’ingresso. Era tutto molto silenzioso e misurato: a un universo di distanza dalla confusione all’esterno e da quel porcile incrostato di gomme da masticare che era diventato Princes Street. Mentre Matthew stava alla finestra del salotto a guardare la rocca illuminata del Castello oltre i giardini bui, pensò per un attimo a come doveva sentirsi suo padre all’idea di quell’incontro. Di sicuro era in ansia, visto quanto era difficile per un genitore presentare un’innamorata al figlio. Era sbagliato. I genitori non avevano mai delle amanti, secondo i figli.
Matthew si girò. Suo padre si stava avvicinando dalla porta, circumnavigando gli imponenti divani di pelle che lo separavano dal ragazzo. Si strinsero la mano.
«Janis arriverà tra un istante» disse Gordon. Si toccò il naso. «È andata a incipriarsi... sai com’è.»
Doveva essere un attimo di complicità maschile, ma non mise Matthew a proprio agio. Non sorrise.
Gordon guardò suo figlio e aggrottò la fronte. «È una cosa molto importante per me, Matthew» disse, abbassando la voce. «Sono... Janis mi piace molto, capisci. Molto.»
Matthew chiuse gli occhi e deglutì.
«Non ti crea problemi incontrarla, vero?» proseguì suo padre.
«Ma certo» rispose Matthew a bassa voce. «Perché dovrebbe crearmene?»
Gordon cercò di incrociare lo sguardo del figlio, ma Matthew lo distolse, chinando gli occhi.
«Sei teso» disse Gordon. «Ma guardati. Una corda di violino. Non ti morde, sai.»
«Non ho mai detto...»
Gordon alzò una mano. «Eccola.»
46. Ditelo con i fiori
Matthew provò la soddisfazione che si ha sapendo di averci azzeccato su qualcuno, almeno per l’aspetto fisico. Aveva immaginato che Janis fosse bionda, e infatti lo era. Se l’era immaginata piccolina, e anche su questo aveva avuto ragione. Non aveva previsto le scarpe in finta pelle di animale in via d’estinzione, ma questo solo perché quando se l’era immaginata non era sceso fino ai piedi. In tal caso, forse avrebbe pensato alle scarpe in finto serpente, o almeno così si disse mentre la guardava sistemarsi tutta contegnosa sulla sedia davanti a lui. Cercò di non fissarla in modo troppo evidente – dopotutto stava cercando di apparire freddo e distaccato –, ma riuscì lo stesso a cogliere i dettagli.
Gordon scoccò un’occhiata al figlio, ma solo per un istante. Sorrideva a Janis in un modo che a Matthew sembrava rivelare quanto fosse cotto di lei. Quello non era suo padre, cauto e guardingo: era un uomo sottomesso.
Janis commentò la vista del Castello. «Quel castello sembra diverso ogni volta. Però è sempre allo stesso posto, no?»
Matthew la guardò, trattenendo l’impulso improvviso di scoppiare a ridere. Che cosa assurda. Certo che il Castello era sempre lì. Dove voleva che fosse?
«Già» rispose. «Sarebbe strano svegliarsi una mattina e scoprire che il Castello non c’è più. Mi chiedo quanto ci vorrebbe prima che la gente se ne accorgesse.»
Gordon si voltò appena per guardare suo figlio, come se avesse sentito una cosa un po’ sgradevole. Poi si girò di nuovo verso Janis. «Sì, davvero una vista meravigliosa. Il meglio di Edimburgo.»
No, pensò Matthew. Edimburgo è ben altro. Il Castello era uno stereotipo, nient’altro.
«A me il Castello non piace, in fin dei conti» disse con tono leggero. «Non mi dispiacerebbe se lo sostituissero.»
Gordon emise un rumore che poteva essere una risata. «E con cosa?»
«Ah, con uno di quei grandi magazzini» rispose Matthew. «Come quelli che ci sono in Princes Street. Qualche catena, magari. Si potrebbe parcheggiare sull’Esplanade, per andare a fare la spesa.»
Janis guardava Matthew, mentre il ragazzo parlava. «Non sono sicura...»
«A te piacerebbe, papà» la interruppe Matthew. «Potresti investirci dei soldi.»
Gordon tamburellò con le dita sul tavolino basso di fronte a sé. «Matthew gestisce una galleria d’arte» spiegò a Janis. «Dovresti fare un salto a vederla, una volta.»
Janis guardò Matthew e sorrise, quasi attendendo l’invito.
«Ma certo» disse Matthew. «Una volta o l’altra.»
«Grazie» rispose Janis. «Mi piace l’arte.»
«Ah, davvero? Qualche pittore in particolare? Jack Vettriano?»
Gordon si girò verso suo figlio. «Perché dici così?» chiese. «Perché tiri fuori Vettriano?»
Matthew non incrociò lo sguardo di suo padre. Continuò a fissare Janis. «Vettriano è molto amato. I suoi quadri piacciono a tanta gente.»
«A te no, però?» chiese suo padre. «Ne deduco che a te non piacciono, vero?»
Matthew si mise a fissare il soffitto, senza rispondere.
Gordon si rivolse a Janis. «Sai, il mondo dell’arte è pieno di snob. Guarda quelli che hanno vinto quel premio, come si chiama... il Turner. Schifezze pretenziose. Stanze vuote. Mucchi di pietre. Roba del genere. E poi arriva uno che sa dipingere davvero e, povero me, lui non piace. È quello che è successo a Vettriano. A me piace di sicuro.»
Janis annuì, educata. «Sono certa che è bravissimo» disse.
«Comunque» riprese Gordon. «È ora di cena.» Scoccò un’occhiata a Matthew, che si era alzato in piedi all’istante.
Si fecero strada fino alla sala da pranzo e si accomodarono sotto un dipinto di un qualche notabile vittoriano abbigliato in pompa magna.
«Che bei ritratti» disse Janis con vivacità, mentre spiegava il tovagliolo.
«Certo, solo un po’ tetri, forse» ribatté Matthew. «Non sembrano proprio personaggini allegri, non trovate?»
«Forse non lo erano» disse Gordon. «I vittoriani erano gente seria.»
«Non c’è dubbio» rispose Matthew. «Ma non mi andrebbe di sedere troppo a lungo sotto uno di questi vecchi orrendi e imbronciati.»
Gordon ignorò il commento. «Hai lavorato molto, oggi?» chiese a Janis.
«Ah, sì» disse lei. «Abbiamo finito le rose già a mezzogiorno. Buon segno.»
«Davvero?» intervenne Matthew. «E di cosa?»
Janis bevve un sorso d’acqua. «Be’, che c’è amore nell’aria.»
Matthew notò la reazione di suo padre. Lo vide abbassare lo sguardo e toccare il bordo del piatto, quasi fosse un po’ imbarazzato, ma compiaciuto, per le parole di Janis. E lei lo aveva guardato mentre parlava, notò Matthew. Che roba melensa! Che... be’, c’era un che di ripugnante in tutta quell’esibizione: l’amore tardivo, così inappropriato per due persone di mezza età, anche se lei era molto più giovane di lui, e alla mezza età non ci arrivava nemmeno. Quanti anni aveva? Poco meno di quaranta? E chi si credeva di essere? Una ventenne civettuola al primo appuntamento? E suo padre non si accorgeva di quant’era ridicolo per uno della sua età dedicarsi... alla lascivia? Non era nemmeno sesso. Era lascivia.
«Certo, esiste tutto un linguaggio dei fiori, non è così?» chiese Gordon. «Ogni fiore ha un significato, sai Matthew? E Janis li conosce tutti.»
Scusatemi, si disse Matthew. Ho la nausea. Il linguaggio dei fiori! Ma è davvero mio padre che parla? La colonna portante del Watsonian Rugby Club? Il rotariano? Ascoltò Janis che attaccava a dire qualcosa sul valore simbolico dei tulipani screziati. Aveva modo di studiarla più attentamente ora che parlava, e cominciò a fissarla negli occhi, passando poi al mento e al collo. Per qualche istante rimase incerto, poi si convinse che era vero. Janis si era rifatta.
Matthew guardò la pelle intorno agli occhi. Era più tesa del dovuto, si disse, e proseguiva liscia, quasi tirata, fino ai bordi del naso. Era come se l’avessero messa in trazione, stirata e poi lucidata in qualche modo. Notò anche come si era messa il trucco; più pesante da un lato rispetto all’altro, ma non abbastanza da ingannare l’osservatore attento, com’era lui in quel frangente. Lei smise di colpo di parlare di gigli. Si era accorta che Matthew la fissava. Be’, che si aspettava? pensò lui. Se uno è vittima della propria vanità, deve mettere in conto che gli altri se ne accorgano. Vecchia caprona travestita da pecorella.
Janis lo guardò. «Tuo padre ti ha per caso detto che sono rimasta coinvolta in un incidente?»
47. Informazioni
Certe serate non si possono definire un successo, e la cena di Matthew con suo padre e la nuova amica di lui, Janis, indubbiamente rientrava in questa categoria. La conversazione proseguì zoppicante fino all’arrivo dei formaggi, quando s’impantanò del tutto. I tre commensali si misero allora a divorare con foga lo stilton che avevano nel piatto, pur di non rimandare oltre il momento in cui avrebbero potuto alzarsi da tavola e passare nel salottino per il caffè. Anche quest’ultimo passaggio, guarda caso, non richiese molto tempo.
«Domattina devo alzarmi presto» disse Gordon guardando l’orologio. «È stata una bella serata.»
«Sì» gli fece eco Janis. «Mi sono divertita.»
Guardarono Matthew, il quale annuì. «Anch’io. Una serata piacevolissima.»
Rimasero per un attimo in silenzio. Poi Matthew si alzò. «Vado a prendere il cappotto» disse. «Ci vediamo nell’atrio.»
Andò al guardaroba, notando mentre usciva dal salottino che suo padre e Janis si erano messi subito a confabulare; parlano di me, si disse. Be’, quella serata era stata un vero disastro, ma cos’altro si aspettava suo padre? Che Matthew desse il benvenuto a quella donna, con le sue mire tanto evidenti? Era questo che credeva? Entrò nel guardaroba e prese il cappotto dall’appendiabiti. Una manica si era rigirata e mentre armeggiava per sistemarla udì una voce venire dalle parti del lavabo, dietro l’angolo.
«Risultati incredibili, sai? Davvero incredibili.»
Qualcuno aprì un rubinetto e disse qualcosa che Matthew non riuscì a cogliere. Poi tornò a parlare il primo.
«Sono a corto di liquidi, a secco, e devono ricorrere al mercato per racimolare un paio di milioni. Ma lo devono fare prima che vengano confermati i risultati di quella ricerca. Così sembreranno ancora molto fragili quando si rivolgeranno al mercato.»
L’altro rispose: «All’AIM? Sono ancora sul mercato degli Alternative Investments, no?»
«Sì.»
«Perciò le nuove azioni resteranno piuttosto basse finché...»
«Finché i risultati della ricerca non saranno approvati ufficialmente, e allora... be’, faranno il botto. Le azioni andranno alle stelle. Ovviamente noi siamo i loro consulenti in tutto l’affare, perciò la cosa tienitela per te. Te l’ho solo accennata perché conosci Tommy, no? E ti farà piacere per lui.»
«Certo. È ancora lui il presidente?»
«Sì. Ma si stanno trasferendo dalla sede fuori città. Hanno preso uno di quei palazzi vicino a West Approach Road.»
«Ah.» Il rubinetto venne chiuso. «Sai, devo dire due paroline a Charles per questo sapone...»
Matthew prese il cappotto e uscì in silenzio dal guardaroba. Suo padre lo aspettava al centro dell’atrio, con Janis al fianco. Lei lo guardò con aria incoraggiante e lui si sforzò di ricambiare il sorriso. Ma era difficile.
Mentre scendevano le scale insieme, Matthew si voltò verso suo padre e lo fermò. «Ho appena ascoltato una conversazione interessantissima.»
Gordon sorrise. «Nel bagno degli uomini? È adatta alle orecchie di una signora?»
«Sì» rispose Matthew. «Si parlava d’affari.»
Come Matthew aveva immaginato, la cosa attirò l’attenzione di suo padre. «Ah sì? E di che si trattava?»
Matthew gli raccontò quel che aveva sentito. Per la prima volta in tutta la serata, si disse, mio padre mi sta ascoltando per davvero.
«Interessantissimo, davvero!» esclamò Gordon quando Matthew finì il racconto. «Posso scoprire facilmente di chi parlavano. Sarà uno scherzo sapere quali aziende scozzesi sono quotate sul mercato AIM. Facile facile. Anzi... hai detto che il presidente si chiamava Tommy?»
«Sì.»
«Allora credo proprio di sapere di chi si tratta.» Gordon sorrise a Matthew e gli diede una pacca scherzosa sulla spalla. «Ti farò sapere com’è finita, Matt.»
Matthew fece una smorfia. Non gli piaceva essere chiamato Matt, e suo padre era l’unico a farlo. «Perché?» chiese.
Gordon gli sorrise. «Le informazioni si possono mettere a frutto, Matt. Il mercato è tutto basato sulle informazioni, e queste sembrano proprio interessanti. Se è l’azienda che penso io, allora sono nel settore delle biotecnologie. I risultati che aspettano devono essere quelli di un test clinico, o qualcosa del genere. Può significare moltissimo, se gli permetterà di vendere qualcosa a una delle grandi case farmaceutiche, per esempio. Profitti con tanti zeri per tutti.»
«Ma perché non possono comprarle loro... quelli che parlavano, le azioni, e guadagnarci?»
Gordon agitò l’indice come per rimproverarlo. «No, no» disse. «Sarebbe insider trading. Quei due dovevano di sicuro essere avvocati. Non possono usare le informazioni riservate per guadagnare qualche soldo al volo in borsa. È una brutta cosa! I poteri forti non vedono di buon occhio cose del genere.»
«Ma noi possiamo...?»
Gordon fece un gesto deciso e indicò di continuare a scendere le scale. «Ah, per noi non c’è problema. Casualmente abbiamo sentito qualche frase smozzicata, tutto qui. Possiamo comprare le azioni. Nessuno ci può collegare a informazioni riservate. E perché dovrebbero? Siamo perfettamente al sicuro.»
Matthew non sapeva che pensare. «Ma non otteniamo un vantaggio scorretto rispetto alle persone da cui compriamo le azioni? In fin dei conti, noi sappiamo qualcosa che loro ignorano.»
Gordon guardò suo figlio, che negli occhi del padre lesse qualcosa di fastidiosamente simile alla compassione. «Di rado la vita è giusta, Matt» rispose. «Se avessi scrupoli di questo genere, pensi che avrei fatto strada nel mondo degli affari? Lo credi davvero?»
Matthew non rispose. Erano quasi arrivati alla porta d’ingresso, e si sentiva il ronzio del traffico all’esterno. Guardò Janis con la coda dell’occhio, e per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. Poi lei distolse il suo. Matthew allungò la mano e strinse quella del padre.
«Grazie della cena.»
Gordon annuì. «Grazie di essere venuto. Ti farò sapere come va con quelle azioni. Potrei investirci qualcosina. Male non fa.»
Matthew aprì la porta e uscirono in Princes Street, disturbando un uomo dalla faccia smunta, in piedi vicino all’uscita. Li guardò sorpreso, evidentemente non si aspettava che qualcuno spuntasse da quella porta priva di insegne. Aveva l’aria stanca; quasi fosse stato consumato dalla vita. Aveva un herpes, o quello che sembrava un herpes, sopra il labbro.
Matthew si vergognò. Come doveva vederlo quell’uomo? E cosa avrebbe pensato, se avesse saputo di cosa stavano parlando pochi istanti prima? «Io no, io no» avrebbe voluto dirgli Matthew.
48. Carte private
Pat si fermò esitante sulla soglia dell’appartamento di Peter in Cumberland Street. Sarebbe stato facile fare dietrofront, tornare in Scotland Street e telefonargli. Poteva essersi presentato un inconveniente che le impediva di vederlo come previsto... ce n’erano tante di scuse, per dare buca a qualcuno: un’amica in difficoltà, un mal di testa, una scadenza da rispettare. In tal caso, ovviamente, non l’avrebbe più rivisto e non era sicura che fosse quello che voleva. Era indecisa. Gli uomini ti complicavano la vita, certo. Accampavano pretese. Cambiavano tutto. In breve, il punto era se ne valeva la pena. E la pena per cosa, poi? Per il piacere della loro compagnia? Ma le donne erano una compagnia molto migliore degli uomini. L’emozione di una presenza maschile? E quella quanto durava, e poi lei la voleva davvero? Si rispose di no e stava per girare sui tacchi quando si ricordò il viso del ragazzo, e il modo in cui si era chinato per parlarle al loro primo incontro, e come allora le fosse sembrato fisicamente perfetto, e ancora lo era, nell’immagine che aveva di lui.
Tirò la maniglia d’ottone del vecchio campanello. Il filo aveva troppo gioco, ma alla fine si sentì un tintinnio all’interno. Poi calò il silenzio. Tirò di nuovo il campanello e in quell’istante la porta si aprì e comparve Peter. Per un attimo fece una faccia perplessa, poi si portò una mano alla fronte come a prendersi in giro per qualche stupidaggine.
«Me n’ero dimenticato» disse. «Che testa.»
Pat non se l’aspettava. Era stato lui a chiederglielo, in fondo; non si era autoinvitata. «Mi dispiace» disse impacciata. «Scusa. Eravamo d’accordo...»
Peter scosse il capo. «Ma certo, ma certo. Eravamo d’accordo. Sono un cretino totale. Vieni, entra.»
«Se ti disturbo...»
Lui allungò la mano, la prese per l’avambraccio e la tirò dentro casa. «Non dire sciocchezze. Non stavo facendo niente. Entra.»
Pat entrò nell’atrio, una grossa stanza quadrata di proporzioni simili a quello dell’appartamento di Scotland Street. Questo però era decisamente più malconcio, con le porte e i battiscopa rigati di vernice colata. Il pavimento era di ampi listelli levigati di pino canadese, coperti in parte da tappeti orientali sfrangiati; le assi erano irregolari e creavano dei rigonfiamenti nei tappeti, simili a minuscole catene montuose.
«L’appartamento è di una persona che lavora a Hong Kong» disse Peter, facendo un gesto con la mano dietro di sé. «Un commercialista, o roba simile. Un taccagno. Non sistema mai niente, ma l’affitto è abbordabile e la casa ci va bene. Sto qui da più di un anno.»
«In quanti siete?» chiese Pat.
«In tre» disse Peter, indicando una porta socchiusa che usciva dall’atrio. «Quella è la camera più grande. Ci stanno Joe e Fergus. E quella è la mia. Abbiamo una specie di salotto ma è una fogna e non lo usiamo praticamente mai.»
Pat guardò la porta socchiusa. Joe e Fergus. Poi si ricordò. Quando aveva visto Peter alla cineteca era in compagnia di un altro ragazzo, quello che l’aveva fissata mentre Peter gli sussurrava qualcosa all’orecchio. Sono un’ingenuotta, si disse. Era così evidente.
Peter le fece cenno in direzione della porta di camera sua. «Ti impressioni facilmente?» le chiese, con un sorriso.
Pat pensò in fretta. Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma come si poteva ammettere di essere impressionabili, al giorno d’oggi? «Certo che no» rispose.
«Bene» riprese Peter. «Perché c’è un po’ di casino. Se mi fossi ricordato, avrei dato una pulita prima del tuo arrivo.»
Pat si mise a ridere. «Non sono neanch’io una maniaca dell’ordine.»
«Be’, può darsi, ma...»
Entrarono nella camera, poco illuminata da un’unica lampada da tavolo sulla scrivania vicino alla finestra. Le tende, di un pesante pseudo-broccato rosso, erano tirate, ma non si univano del tutto in mezzo. Dallo spiraglio penetrava una striscia sottile della luce arancione dei lampioni all’esterno.
Pat si diede un’occhiata in giro. Nell’angolo c’era un letto, con sopra un copriletto bianco. Perlomeno era rifatto, a differenza di quello di Bruce che era perennemente in disordine. C’erano due poltrone con una copertura estraibile di velluto marrone; sulla seduta di una delle due era ammucchiata una montagna di vestiti abbandonati, una camicia, due paia di calzini, qualche indumento intimo non meglio identificato e un paio di jeans. Peter si chinò, fece un fagotto di tutti i vestiti e li ficcò in un cassetto.
«Non è mica un casino» disse Pat. «La stanza di Bruce, il mio coinquilino, è molto più disordinata.»
Peter scrollò le spalle. «Di tanto in tanto faccio un repulisti. Ma l’aspirapolvere adesso è rotto, e diventa complicato.»
«Potremmo prestarti il nostro» disse Pat. Aveva risposto d’istinto, e si chiese subito se era la cosa giusta da dire. Era come offrirsi di fargli le pulizie, e certo lei non intendeva quello.
«Siamo a posto così» rispose Peter indicando una delle poltrone per invitarla a sedersi. «Ce la caviamo.»
Pat si mise a sedere e guardò le pareti. Poteva trovarci qualche indizio, giusto per conferma. Una foto di... quali erano i personaggi giusti? Si accorse che non lo sapeva con certezza. Sopra il letto c’era un poster, la locandina di un film; ma era giapponese e lei non aveva idea di cosa volesse dire il titolo. Sopra la sua testa, dietro la poltrona, c’era una stampa incorniciata di Gotico americano, il quadro con il contadino del Midwest, forcone in mano, e la moglie, in piedi con l’aria tetra davanti a un fienile. Anche questo non forniva nessuna informazione, se non forse un certo senso dell’ironia.
Peter si sfregò le mani. «Vado a fare il caffè» disse. «Come lo prendi?»
Pat glielo disse e il ragazzo andò in cucina, lasciandola sola in camera. Non appena Peter uscì, lei si mise a guardare la scrivania. C’era una pila di libri: un romanzo di Jane Austen, una raccolta di saggi di critica, i Diari di Robert Lowell, un vocabolario. Dietro i libri c’era una cartelletta aperta nella quale erano stati inseriti quelli che sembravano appunti. Pat si alzò e si avvicinò. Sì, erano gli appunti delle sue lezioni. Aveva scritto il titolo in alto: Vincoli sociali e libertà artistica nell’Inghilterra di Jane Austen: martedì. Vicino al bordo della scrivania c’era un mucchio di carte: un paio di lettere aperte e una bolletta della luce.
Spostò appena le lettere; ovviamente non le avrebbe lette, stava guardando e basta: un francobollo straniero, tedesco. E sotto le lettere due o tre fotografie voltate a faccia in giù. Pat esitò. Doveva farsi gli affari suoi; non si poteva entrare in camera di un altro e mettersi a guardare le foto. Però poteva almeno decifrare la scritta sul retro di una delle foto, quella in cima al mucchietto. Non era chiarissima, perché l’inchiostro si era sbavato, ma riuscì a distinguere qualcosa. Bagno nudi, in Grecia, con T.
Pat si guardò alle spalle. Non avrebbe dovuto frugare tra le sue carte private... non avevano niente a che vedere con lei. D’altronde era stato Peter a invitarla in camera sua; le fotografie erano in giro e come si faceva a resistere alla tentazione di guardare una foto con quella scritta sul retro? Chi lasciava incustodite le fotografie in pratica concedeva agli altri il permesso di guardarle. Era lo stesso che mandare una cartolina: il postino aveva il diritto di leggerla. E Pat era un essere umano. Perciò girò la fotografia e la guardò.
49. Ricordi d’Australia
Peter rientrò in camera sua con due tazze di caffè fumanti. «Non ho altro da offrirti» disse. «Nemmeno un biscotto. Non abbiamo più niente da mangiare in casa. E mi sono accorto che quando compro qualcosa, Joe e Fergus se lo mangiano. Non sono sicuro che sappiano quel che fanno. Se lo mangiano e basta.»
Pat non aveva fame, perciò non c’era problema. Peter aveva preparato un caffè vero, notò, un caffè con un buon profumo, forte, come un... che cosa? Ormai il caffè era una faccenda complicata, tra americani, mocaccini e caffellatte doppi dietetici alla vaniglia. Era un caffè amaro, come piaceva a Pat, che a casa se lo preparava sempre così, anche se Bruce storceva il naso. Poco dopo che si era trasferita in Scotland Street, Bruce, non invitato, si era versato una tazza di caffè dalla sua caffettiera a pressione, ma l’aveva sputato al primo sorso. Bruce era l’esatto opposto di Peter: grossolano, poco interessato alla letteratura – una volta le aveva chiesto se Jane Austen era un’attrice – e decisamente privo di quel fascino flessuoso di cui Peter abbondava. Ci rifletté un attimo, mestamente, perché ormai era sicura che Peter non aveva in mente altro che un’amicizia superficiale. Che ingenua era stata ad aspettarsi altro: era di gran lunga troppo bello per essere interessato alle ragazze. C’era quell’aura di sensibilità, quello sguardo negli occhi che diceva a lei, e a chiunque altra fosse interessata a cercarlo, che lui capiva, certo, ma che al tempo stesso era altrove.
Peter si sedette sul letto, lei sulla poltrona da cui il ragazzo aveva rimosso il mucchio di vestiti. Se ne stava lì, coi piedi nudi sul copriletto e la tazza di caffè cullata tra le mani, mentre Pat aveva entrambi i piedi piantati a terra, e la sua tazza era poggiata sul tavolino accanto a lei. Per qualche istante si guardarono. Poi Peter sorrise, e lei notò i denti, drittissimi, che fosse per natura o grazie agli sforzi di qualche ortodonzista. Avevano qualcosa di familiare, quei denti, e Pat faticò a ricordarsi chi le facevano venire in mente; poi ci riuscì... Pedro, il suo adorato bambolotto, aveva i denti dipinti sulla stoffa del viso, e quei denti somigliavano tantissimo a quelli di Peter. Pedro, il bambolotto, era interessato alle bambole, o preferiva la compagnia degli altri bambolotti maschi? Da bambina aveva pensato che Pedro amasse solo lei, ma poteva essere stato un errore. Pedro forse desiderava tutt’altro, ma era stato costretto a passare tutta la sua lanuginosa esistenza insieme a lei, prigioniero. Che idea ridicola. Sorrise involontariamente a quel pensiero. Peter ricambiò.
Attaccarono a parlare nello stesso istante.
«Io...» disse Pat, proprio mentre lui diceva: «Io...» Il ragazzo si mise a ridere e aggiunse: «Di’ pure».
«No, no, di’ tu» rispose Pat. «Prego.»
«Che cosa fai? Era questo, immagino, che stavo per chiederti.»
Pat gli spiegò che era una studentessa, o quasi, almeno. «Mi sono presa un paio d’anni di pausa» disse. «Sono andata...» Si interruppe, e lui la guardò incuriosito. «Be’, in Australia.»
Peter annuì. «Anch’io. Tu dove sei stata?»
Non riuscì a decidersi a parlare dell’Australia occidentale, anche se sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo. Perciò accennò al Queensland e al Nuovo Galles del Sud, e Peter rispose che c’era stato anche lui, in entrambi i posti. «Raccoglievo frutta» disse. «Ho anche lavorato in un bar di Sydney, nella parte vecchia vicina al ponte del porto. Ho fatto un po’ di tutto. Poi sono partito per un viaggio con una persona che ho conosciuto laggiù. Ci siamo divertiti tanto. Siamo stati in giro due mesi.»
«Di dov’era lui?» chiese Pat.
«Lei» rispose Peter. «Era canadese. Veniva da un posto vicino a Winnipeg.»
Ovviamente doveva essere solo un’amica, pensò Pat. Anche lei era stata in Thailandia insieme a un ragazzo che non era altro che un amico; così si correvano meno pericoli. Se ci fosse andata con qualcuno, in Australia occidentale, di sicuro non si sarebbe ritrovata in quel guaio, tanto per cominciare.
«Ho fatto dei lavori davvero bizzarri, in Australia» proseguì Peter. «Ho passato un mese in un allevamento di pecore, a fare da badante al proprietario, un signore vecchissimo. Non riusciva a camminare molto, perciò gli avevano costruito una specie di carrellino su cui poteva piazzare la sedia. Aveva quattro ruote da bici, davanti e dietro, e io lo spingevo in giro per il giardino fino al fiume. Faceva un corso di storia per corrispondenza, e dovevo aiutarlo a studiare.»
Pat rise. Ne aveva fatti anche lei, di lavori bizzarri, ma nessuno più di quello in Australia occidentale, di cui non le andava di parlare.
Peter assunse un’espressione pensierosa. «Mi manca l’Australia, sai. Mi mancano i posti, quelle pianure immense, i boschi di eucalipto con i versi degli uccelli che strillavano. Te li ricordi? I cacatua rosa? E anche la gente mi manca. I modi amichevoli. Mi mancano molto.»
Pat si sentì addosso lo sguardo del ragazzo, uno sguardo indagatore, un po’ sconcertato, e si chiese cosa volesse dire. Sembrava quasi che la stesse scandagliando, per vedere se era in grado di rispondere a quell’immagine dell’Australia, all’atmosfera che aveva rievocato. E lei ci sarebbe riuscita, certo, e stava per dire qualcosa a proposito degli spazi australiani e dell’effetto che le facevano, quando si sentì bussare alla porta. Lui distolse lo sguardo, rompendo l’incantesimo, e rispose.
La porta si aprì per metà e comparve una testa. Era una ragazza, più o meno dell’età di Pat, o un paio d’anni più grande. Guardò per un attimo Peter e poi Pat. «Scusate il disturbo. Il termostato dell’acqua calda si è incastrato di nuovo. Puoi dargli un’occhiata come hai fatto l’ultima volta?»
Peter posò la tazza e si alzò dal letto. «Certo» rispose. Poi si girò di tre quarti verso Pat e disse: «A proposito, lei è Joe».
Pat fece un cenno di saluto con la testa e Joe ricambiò con un gesto allegro della mano. Poi, mentre gli altri due erano fuori dalla stanza, Pat alzò gli occhi al cielo e sorrise. Josephine e Fergus: tutt’un’altra storia rispetto a quello che si era immaginata. Questo significava che Peter era una possibilità molto più concreta, adesso, anche se restava sempre la questione T. Chi era T.? Ed era stata lei (o lui) a scattare la foto del bagno nudi in Grecia? Avrebbe potuto chiederlo direttamente a Peter, ma a quel punto lui avrebbe capito che non si era fatta gli affari suoi e aveva sbirciato la fotografia. A meno che, certo, non mettesse la tazza di caffè sul tavolo e senza volerlo facesse cadere per terra i libri e le fotografie... proprio così.
50. Si parte per un viaggio a Glasgow
Seduta a tavola per la colazione, con la sua unica fetta di pane tostato sul piatto, Irene disse a Stuart: «Quando vai a Glasgow sabato, puoi portare Bertie con te, ma...» Stuart la interruppe: «Grazie. Sono sicuro che gli piacerà il viaggio in treno. Sai quanto è appassionato di treni. I maschietti...»
Irene annuì, impaziente. «Sì, sì» rispose, mentre imburrava il pane. Sapeva quanto piacevano i treni ai bambini – almeno ad alcuni –, ma non era un buon motivo per incoraggiarli. I maschietti la pensavano così sui treni perché venivano socialmente spinti a farlo... e lei era sicura che fosse stato Stuart a tirare in ballo i treni; lei no di certo. Non c’era niente di innato nel carattere dei bambini maschi che li spingesse ad amare i treni. Bambini e bambine erano geneticamente indistinguibili, a suo modo di vedere (a parte quell’unico cromosoma), ed era la pressione sociale a determinare interessi come i treni per i maschi e – che orrore! – le bambole per le femmine. Irene non aveva mai giocato con le bambole. Stuart, invece, da bambino aveva giocato con i trenini? Non ne avevano mai parlato, ma s’era fatta un’idea abbastanza chiara di quale sarebbe stata la risposta.
«Non restare a Glasgow più del necessario» disse. «Bertie già si perderà la lezione di yoga, non voglio che salti anche quella di sassofono.»
«Sarebbe bello portarlo a Gourock o in un posto del genere» azzardò Stuart. «Probabilmente gli piacerebbe vedere i traghetti. Potremmo persino mangiarci un po’ di fish and chips.»
Irene fece una risata minacciosa. «E magari un Mars fritto, già che ci siete?»
Stuart pensò che probabilmente a Bertie sarebbe piaciuto, ma ebbe il buon senso di tenerselo per sé. Non vedeva l’ora di fare quella gita e non voleva spingere Irene a offrirsi di accompagnarli. Era bello partire da solo con suo figlio... come di tanto in tanto dovrebbero fare tutti i padri. Bertie in quel periodo quasi non gli parlava, sembrava essersi ritirato in un mondo da cui Stuart era escluso, e la cosa lo preoccupava. Certo, Stuart faticava a trovare qualcosa da dire a Bertie, come a chiunque altro, del resto. Già era silenzioso di natura, e da quando era sposato con Irene – che ammirava per la forza di carattere e la sagacia intellettuale – aveva lasciato che fosse lei a parlare. Era sempre stata lei a dirigere quello che definiva il «progetto Bertie», e Stuart aveva lasciato che fosse lei a prendere le decisioni sul bambino. Ma dietro il suo tacito consenso si nascondeva un vago disagio: non si sentiva un granché come padre, e il distacco di Bertie aveva alimentato questa sensazione. Quando c’era stato quel brutto incidente, la volta che Bertie aveva dato fuoco alla sua copia del «Guardian», Stuart non era intervenuto. Un vero padre avrebbe rimproverato suo figlio e l’avrebbe punito, per il suo bene, invece lui non aveva mosso un dito, e aveva lasciato che Irene individuasse la risposta nella psicoterapia.
Da parte sua, Bertie voleva molto bene a suo padre, ma l’avrebbe preferito un po’ meno passivo. Gli sembrava che conducesse una vita noiosissima, con il suo viaggio quotidiano fino agli uffici del Governo scozzese, in mezzo a tutte quelle statistiche. Bertie era bravo in matematica e aveva imparato già i primi rudimenti del calcolo, ma non gli sembrava che fare i conti tutto il giorno, come suo padre, potesse dare grandi soddisfazioni. E cosa se ne faceva poi di tutte quelle statistiche il Governo scozzese? si chiedeva Bertie. Ci doveva essere di sicuro un limite al numero di statistiche di cui si poteva aver bisogno.
Quando Bertie venne a sapere che sarebbe andato a Glasgow con suo padre, e per di più in treno, lanciò un urlo di gioia.
«Vuol dire che andiamo alla Waverley Station?» chiese. Aveva visto le foto della Waverley, ma non c’era mai stato, per quel che poteva ricordare.
«Sì» rispose Stuart. «Poi prendiamo il treno per Glasgow e scendiamo alla Queen Street Station. Ti piacerà la Queen Street Station, Bertie.»
Bertie ne era certo e manifestò la sua gioia con un altro gridolino.
«Ricordati di mettere il montgomery sopra la salopette» si raccomandò sua madre. «E lavati le mani prima di mangiare qualsiasi cosa. Glasgow non è un posto molto salubre, non voglio che ti prenda qualcosa.»
Bertie ascoltò senza replicare. Non si sarebbe lavato le mani a Glasgow, perché non ci sarebbe stata sua madre a costringerlo. Stare a Glasgow, in effetti, sarebbe stato come avere diciott’anni, l’età a cui Bertie aspirava più di qualsiasi altra cosa al mondo. Una volta compiuti i diciott’anni, non dovevi più dar retta a tua madre, e quello, pensava Bertie, doveva davvero essere il nirvana.
«Glasgow non è poi tanto male» disse Stuart conciliante. «C’è la Burrell Gallery e poi...»
Irene non lo lasciò finire. «E le statistiche sulla mortalità?» sbottò. «Il fumo? L’alcol? Le malattie cardiache?»
Bertie guardò suo padre. Avrebbe difeso Glasgow, sperava, da quell’attacco frontale.
«Hanno i loro problemi» ammise Stuart. «Ma non sono tutti così.»
«Poco ci manca» ribatté Irene. «Ma non pensiamo troppo a Glasgow. È ora di studiare un po’ d’italiano, Bertie, soprattutto se la giornata di domani viene sconvolta da questa vostra gitarella.»
Bertie obbedì e si mise a leggere una pagina della sua grammatica italiana. Non riusciva a concentrarsi, però, e pensava solo a quello che lo aspettava. Il treno per Glasgow! Avrebbe avuto un posto vicino al finestrino, sperava, e avrebbe guardato la campagna sfrecciare via. Avrebbe visto i segnali e sentito stridere i freni quando si avvicinavano alle stazioni. E poi ci sarebbe stata Glasgow, che gli sembrava una città piena di emozioni, con tutti i suoi rumori e i suoi germi. Avrebbero ritrovato la macchina e avrebbe aiutato suo padre a farla ripartire. E forse, al ritorno, sarebbe riuscito ad andare a pescare con suo padre, se fossero passati vicino alle Pentland. C’era sempre quella possibilità.
Bertie rifletté sulla sua condizione. Si sentiva molto più contento della sua vita, adesso. Si era ambientato alla Steiner e aveva scoperto che gli piaceva. Aveva stretto un principio di amicizia con Tofu, e ora suo padre lo portava a Glasgow. Se le cose fossero proseguite sotto quella buona stella, sarebbe riuscito a sopportare tutto il resto, quello che gli rendeva la vita difficile: la psicoterapia con il dottor Fairbairn e, ovviamente, sua madre. Gli restavano solo altri dodici anni di sua madre, si disse, una cosa quasi sostenibile. A meno che non andassero a Glasgow, lui e suo padre, e non ci rimanessero...
51. Un discorso a cuore aperto sul treno per Glasgow
Bertie si sedette con il viso schiacciato contro il finestrino, mentre suo padre si sistemava accanto a lui sul treno delle dieci in partenza dalla Waverley Station. Era stata una mattina emozionante, a un livello fino ad allora mai raggiunto nei suoi pochi anni di vita. Era iniziata risalendo Scotland Street a piedi, insieme a Stuart: lungo il percorso avevano visto due poliziotti a cavallo che scendevano per Dundas Street e uno dei due aveva salutato con la mano Bertie, che aveva ricambiato. Poi erano arrivati alla Waverley, adagiata nella sua conca con i palazzi della Old Town che torreggiavano sopra di lei e le bandiere che garrivano alla brezza del mattino. Un panorama perfetto per sollevare lo spirito. Si erano messi in coda insieme in biglietteria e Bertie aveva sentito suo padre pronunciare quel potente incantesimo: «Un intero e un ridotto per Glasgow», e si era reso conto che quel ridotto che andava a Glasgow era proprio lui: oh, che prospettiva gioiosa, davvero gioiosa!
Bertie aveva sentito un brivido al fischio con cui il capotreno aveva spedito il convoglio verso il suo viaggio, e quasi subito erano entrati nel tunnel sotto la National Gallery of Scotland, per spuntare poco dopo, con la rocca del Castello che si ergeva sopra i binari, prima che un’altra galleria li avvolgesse con la sua oscurità. Dopo un paio di minuti, sbucati da quella galleria, si ritrovarono in una stazione.
«È Glasgow?» chiese Bertie, alzandosi dal sedile.
Stuart rise. «È Haymarket, Bertie. Siamo ancora a Edimburgo. Glasgow è tra quarantacinque minuti.»
Bertie si rimise a sedere, felice che il viaggio venisse prolungato. Quarantacinque minuti gli sembravano un lasso di tempo meravigliosamente lungo... più o meno la durata di una delle sue sedute con il dottor Fairbairn, e quelle sedute, si disse, duravano un’infinità. Con il naso premuto contro il vetro, guardò avvicinarsi la gran mole di uno stadio, batté col dito sulla spalla di suo padre e la indicò.
«Murrayfield» disse Stuart. «Lo stadio del rugby.»
Bertie lo fissò incantato. Anche se aveva deciso che forse il rugby non faceva per lui, gli sarebbe comunque piaciuto vedere la Scozia giocare contro gli All Blacks, o persino contro l’Inghilterra. Sarebbe stato entusiasmante, e forse si sarebbe ritrovato seduto vicino al signor Gavin Hastings e avrebbe sentito i suoi commenti alla partita che stavano guardando. Sarebbe stato proprio bello, pensò Bertie.
«Ci sei mai stato, papà?» chiese. «Sei mai andato a Murrayfield?»
Stuart annuì. «Sì. Ci andavo spesso quand’ero studente. Ci andavo con...» Si interruppe, poi riprese: «Ci andavo con i ragazzi, mi sa».
Bertie lo guardò perplesso. «Ragazzi? Ragazzini piccoli come me?»
Stuart sorrise. «No, non come te. Erano i miei amici. Li chiamavo ’ragazzi’. Andavamo alle partite di rugby e anche al pub.»
«A ubriacarvi?» chiese Bertie con tono educato.
Dall’altro lato dello scompartimento una donna sentì la domanda e sorrise. Aveva già notato il bambino con la salopette e le era piaciuto vederlo così eccitato per quel viaggio.
Stuart incrociò lo sguardo della donna e inarcò il sopracciglio. «Non proprio, Bertie. Be’... be’, magari qualcuno dei ragazzi ogni tanto beveva quel bicchiere in più. Ma di solito no.»
Bertie assimilò la risposta. Era affascinato dall’idea che suo padre avesse condotto una vita completamente diversa da quella che faceva in Scotland Street. «Com’era prima che conoscessi la mamma?» chiese d’improvviso. «Era divertente?»
Stuart guardò suo figlio, e poi fuori dal finestrino. Stavano uscendo dai sobborghi di Edimburgo e tutt’intorno si aprivano campi e colline. Una distesa di terra – arata e pronta per la semina invernale, terra buona e grassa – sfrecciava via da un lato dei binari. Un corvo si levò in volo da un albero e rimase indietro. Stuart tornò a guardare Bertie.
«Era divertente» rispose in tono sommesso. «Sì. Mi divertivo molto.» Fece una pausa. «E ti divertirai anche tu, Bertie. Ne sono sicuro.»
Per un po’ Bertie rimase in silenzio. Stava tirando un filo che usciva dalla cucitura della salopette. «Bisogna avere degli amici per divertirsi» disse alla fine. «E io di amici non ne ho.»
Stuart si accigliò. «Devi pure avere qualche amico, Bertie. E quel bambino di cui mi hai parlato, Paddy? È tuo amico?»
«Non lo conosco tanto bene» spiegò Bertie. «Non lo vedo quasi mai. Devo sempre andare dallo psicologo o a yoga.»
Stuart allungò la mano e prese quella del figlio. Sembrava così piccola, asciutta e piccola. «Gli amici sono molto importanti, vero?»
Bertie annuì. Stuart continuò: «Io avevo un grande amico, sai. Anche quello è molto importante. Avere il proprio migliore amico».
«Come si chiamava?» chiese Bertie.
«Si chiamava Mike. Era molto buono con me.»
«Che bello. Gli amici buoni sono i migliori, vero?»
Stuart annuì e si misero a guardare dal finestrino, con la mano di Bertie ancora posata nella sua. Non devo abbandonare questo ragazzino, si disse. Dio mio, quanto poco c’è mancato. Come fa quel verso melenso di quel musical? Mi sono lasciato scappare le mie occasioni d’oro. Ce le lasciamo scappare tutti, le occasioni... e in continuazione.
La donna che aveva ascoltato per caso il loro dialogo aveva continuato a fissare la pagina del suo libro; a fissarla senza leggerla. Aveva sentito tutto, parola per parola, e a quel punto guardò con grande discrezione dalla loro parte: li vide tutti e due quasi immobili, in silenzio, immersi nei loro pensieri. Riportò di nuovo lo sguardo sulla pagina dinanzi a sé, ma non riusciva più a concentrarsi. Ovviamente lei non c’entrava niente con quelle cose, non erano affari suoi. Ma in quel momento desiderò con tutto il cuore che quello sconosciuto nella cui vita si era involontariamente imbattuta ascoltasse ogni parola che aveva detto il bambino. E quando tornò a guardarli con la coda dell’occhio, vedendo l’espressione sul viso dell’uomo, capì che l’avrebbe fatto.
52. Si arriva a Glasgow
Man mano che il treno da Edimburgo si avvicinava a Glasgow, la luce in cui era immersa la campagna circostante si fece quasi impercettibilmente più soffusa. I cieli limpidi dell’est della Scozia lasciarono il posto a un basso soffitto di nuvole grigie e viola cariche di pioggia. Sopra il treno, su entrambi i lati della ferrovia, si ergevano le sagome di palazzi altissimi, enormi lastre grigie e deprimenti. Bertie osservò il paesaggio mutare, con la bocca aperta per la meraviglia; allora era quella Glasgow, il posto di cui sua madre aveva parlato in termini così sinistri. Forse aveva ragione lei. Forse era davvero un posto buio e pericoloso. E pensare che a solo un’ora da Edimburgo c’era un posto del genere! Era quella la cosa straordinaria. Si poteva stare a Edimburgo, con i suoi floatarium e le caffetterie, e poi bastava un breve viaggio in treno per ritrovarsi in quel posto, sotto quelle nuvole viola, ad affrontare sa il cielo quali pericoli.
Scesero dal vagone e misero piede sulla banchina. Bertie si guardò le scarpe e pensò: «Sono a Glasgow!» La pietra della banchina, una pietra speciale e tutta lucida, scelta dalle autorità ferroviarie in quanto superficie a più alto rischio di diventare pericolosamente scivolosa se bagnata, era assai simile ai pavimenti di pietra scivolosa che aveva visto alla Waverley Station. E le persone che aspettavano oltre la ringhiera non erano tanto diverse da quelle che aveva visto alla Waverley, si disse.
«Di qua, Bertie» disse Stuart, indicando un’ampia porta a vetri. «Prendiamo un taxi.»
Bertie camminava svelto accanto a suo padre, con il montgomery abbottonato fino in cima per nascondere la salopette color fragola. Non aveva notato pantaloni color fragola a Glasgow, fino a quel momento, ed era sicuro che lì non li portasse nessuno.
«Dove andiamo?» chiese a suo padre mentre si accodavano alla breve fila per i taxi. «Ti ricordi dove hai lasciato la macchina?»
«Più o meno» rispose Stuart, agitando una mano in direzione di Dumbarton Road. «Riconoscerò il posto... credo.»
Venne il loro turno di salire sul taxi. Stuart aprì la portiera e Bertie si arrampicò dentro. Era molto meglio dell’autobus numero 23, pensò: sedili comodi, lucine rosse lampeggianti e un tassista che li guardava nello specchietto con un sorriso allegro.
«Dov’ècheandatevoialtri?» chiese il tassista.
«Dumbarton Road, per piacere» disse Stuart.
Il tassista tornò a guardarli nello specchietto. «Adumbartonroad? Madichepartedidumbartonroadparliamoeh? Dumbartonroadèlungaparecchio. Inchepunto?»
Stuart spiegò che non sapeva di preciso a che altezza di Dumbarton Road dovevano scendere, ma che l’avrebbe avvertito quando sarebbero stati vicini. Il tassista annuì; quelli che scendevano dal treno di Edimburgo restavano sempre un po’ sul vago, aveva notato, ma era molto raro che provassero a scendere senza pagare. E non cercavano nemmeno di camminare per metà percorso, per risparmiare. Per quello, si poteva contare sul treno da Aberdeen.
«Allora Bertie» disse Stuart, «guarda lassù. Quello è... be’, non so bene cosa sia, ma guardalo comunque.»
Bertie guardò Glasgow, fuori dal finestrino. Sembrava più trafficata di Edimburgo, e gli autobus erano di un colore diverso. Però tutti quanti sembravano sapere dove andare, e sembravano anche abbastanza contenti di andarci. Gli sarebbe piaciuta Glasgow, si disse, e magari ci sarebbe venuto a stare, una volta compiuti i diciott’anni. Se l’avesse fatto, allora avrebbe persino cominciato a imparare la lingua del posto. Assomigliava abbastanza all’italiano, per certi versi, e magari era anche più facile.
Avanzarono fino a St George’s Cross e proseguirono scendendo sotto l’Università di Glasgow. Stuart indicò in direzione dell’università e informò Bertie che suo padre, il nonno del bambino, aveva studiato medicina proprio lì.
«È una scuola di medicina importantissima» spiegò Stuart. «Ci hanno studiato molti dottori famosi, Bertie. Potresti andarci anche tu, magari.»
«Sarebbe bello» rispose lui. Gli era venuto in mente che forse ci aveva studiato anche il dottor Fairbairn, ma doveva essere successo molto tempo prima. Glasgow non sembrava un buon posto per gli psicoterapeuti, pensò Bertie. Era difficile individuare di preciso il perché, ma Bertie lo percepiva con chiarezza. Edimburgo era meglio per quel tipo di attività. E durante tutto il viaggio in taxi non aveva visto nemmeno un floatarium, nemmeno uno; un bel po’ di ristoranti indiani, sì, ma floatarium niente.
Arrivati in Dumbarton Road, Stuart cominciò a sporgersi sul sedile per osservare le traverse su entrambi i lati.
«È da queste parti» disse al tassista.
«Hocapitocheèdaquestepartimadovèchevoletesaltargiù?» rispose l’uomo in tono cordiale.
Stuart fissò un vicolo cieco che si avvicinava, sulla loro destra. Ecco, era quello. C’era una chiesa in fondo alla via, si ricordava la forma bizzarra del campanile. «Va bene qui» disse al tassista. «Scendiamo qui.»
Il tassista annuì e accostò al marciapiede. Stuart pagò la corsa, lui e Bertie attraversarono di buon passo la trafficata Dumbarton Road, per poi incamminarsi piano per la tranquilla stradina residenziale sulla destra.
«L’ho messa in questa via» disse Stuart. «Più avanti, da questa parte.»
Bertie procedette saltellando qualche passo avanti a suo padre, in cerca della sagoma familiare della loro Volvo rossa station wagon. La strada non era lunga, e non gli ci volle molto per rendersi conto che aveva passato in rassegna tutta la fila di auto parcheggiate nella via, senza trovar traccia di una Volvo rossa. Si voltò a guardare suo padre.
«Sei sicuro, papà?» chiese. «Sei sicuro che sia la via giusta?»
Stuart guardò verso il fondo della via. Sì, era sicuro. Chiuse gli occhi e ripensò a quel pomeriggio. Aveva preso la cartellina dal sedile posteriore e aveva chiuso a chiave le portiere. Poi si era incamminato verso Dumbarton Road, diretto al luogo della riunione. Un cane aveva attraversato la strada e un motociclista aveva dovuto inchiodare. Non c’era dubbio: era lì.
«È questa la via, Bertie» disse a bassa voce. «La macchina era qui. Proprio in questo punto.»
Stuart indicò un posto al momento occupato da una grossa Mercedes verde. Bertie si fece avanti per guardare dentro l’auto, quasi s’aspettasse di trovarci qualche indizio sulla scomparsa della loro Volvo. Mentre sbirciava all’interno, sentirono aprirsi una porta, dalla casa alle loro spalle, e una voce urlare:
«Ehi, voi! Perché state guardando la macchina del signor O’Connor, eh?»
53. Lardo O’Connor
Preso dal senso di colpa, Bertie si allontanò con un balzo dalla Mercedes verde. Non l’aveva nemmeno toccata, quell’auto luccicante, ma la voce alle sue spalle, un ringhio più che una voce, avrebbe messo paura a chiunque, non solo a un bambino di sei anni al suo primo viaggio a Glasgow.
Anche Stuart rimase sorpreso da quel tono accusatorio. «Mio figlio non ha fatto niente» disse. «Stavamo solo guardando.»
L’uomo, dopo essere comparso sulla soglia di casa, aveva percorso a grandi passi il vialetto e ora si trovava di fronte a Stuart e lo fissava con aria bellicosa. «E cosa cercavate, eh?» chiese. «Mai vista una Merz prima?»
«Io ne ho vista una» disse allegro Bertie. «La signora Macdonald, quella che abita in cima alle scale, ne ha una color crema. Mi ha anche offerto di farci un giro.»
L’uomo abbassò lo sguardo su Bertie. «Di che parli, figliolo?»
«Sta solo dicendo...» iniziò a dire Stuart.
«Tu taci, giovane» disse l’uomo. «Cos’è questa storia della crema?»
«Ma senti un po’!» ribatté Stuart esasperato. «È ridicolo. Forza, Bertie, andiamo.»
L’uomo si chinò in avanti all’improvviso e afferrò Stuart per un braccio. «Quanta fretta, amico. Prima vieni dentro, che il signor O’Connor ti deve dire due paroline. Non gli piace la gente che se ne va a spasso per la sua via. Vieni dentro, così ti spieghi con lui di persona.»
La stretta dell’uomo era troppo forte, e Stuart si ritrovò spinto in avanti col braccio dietro la schiena su per il vialetto, seguito da Bertie, allarmato, con il montgomery che sventolava intorno alla salopette color fragola. Incalzato dal suo carceriere, Stuart finì in un ingresso semivuoto. «Di qua» disse l’uomo accennando con la testa a una porta socchiusa. «Il signor O’Connor vi riceve subito.»
Stuart guardò male l’uomo, ma decise che si trovava in una situazione troppo delicata per non obbedire. Temeva per l’incolumità di Bertie, che era accanto a lui, e pensò che la cosa migliore fosse parlare con quel signor O’Connor, chiunque fosse, e spiegargli che non avevano cattive intenzioni riguardo la sua auto. Forse in passato c’erano stati atti di vandalismo nella via, e – in modo decisamente ingiustificato – avevano preso lui e Bertie per dei teppistelli.
Entrarono in un ampio salotto. Il pavimento era coperto da un tappeto a quadri e le pareti da una carta da parati rossa. Nella stanza spiccava la mole di un grosso televisore, acceso con l’audio al minimo su una partita di calcio. Su una poltrona di fronte alla tv c’era un uomo estremamente sovrappeso, con le maniche della camicia arrotolate a mostrare due avambracci carnosi e tatuati. Mentre entravano nella sala, l’uomo si girò per metà, diede loro un’occhiata e schiacciò un pulsante del telecomando. La partita di calcio si dissolse.
«E così» iniziò il ciccione, «stavate rimirando il mio mezzo. Vi piace?»
«Niente affatto» rispose Stuart. «Non avevamo nessuna strana idea, per niente.»
L’uomo sorrise. «Dovrei presentarmi» disse rivolgendo una breve occhiata a Bertie prima di posare di nuovo lo sguardo su Stuart. «Mi chiamo Aloysius O’Connor. Ma potete chiamarmi Lardo O’Connor. Mi chiamano tutti così, vero Gerry?»
Gerry, l’uomo che aveva trascinato Stuart nella stanza, annuì. «Sì, proprio così, Lardo. Oggi non c’è più rispetto. La gente non rispetta niente.»
Lardo O’Connor sollevò un sopracciglio. Giratosi verso Bertie, gli chiese: «E tu, giovanotto? Come ti chiami?»
«Mi chiamo Bertie» rispose lui. «Bertie Pollock. Abito a Edimburgo e vado alla scuola steineriana. Lui è il mio papà. Abitiamo in Scotland Street. Sa dov’è, signor O’Connor?»
«Forse sì» rispose Lardo. «È una bella via?»
«Molto bella» disse Bertie. «Non è lontana da dove abitava il signor Compton Mackenzie. Lui scriveva libri, sa?»
Lardo sorrise. «Ma non mi dire. Compton Mackenzie?»
«Sì» disse Bertie. «Ha scritto un libro che si chiamava Whisky a go go, che parlava di alcune persone che trovavano tantissimo whisky sulla spiaggia.»
«Sembra proprio una bella storia» commentò Lardo. Si voltò verso Gerry. «Hai sentito, Gerry? Gente che trova whisky sulla spiaggia. Magari caduto da un traghetto!»
Gerry rise educatamente. Lardo tornò a rivolgersi a Bertie. «Devo ammettere che mi piace il tuo stile, giovanotto. Mi piacciono i bambini che parlano chiaro e dimostrano un po’ di rispetto. Sì, mi piacciono proprio.» Si interruppe e guardò Stuart con curiosità. «E allora, cosa ci fate da queste parti? Perché avete fatto tutta questa strada da... come si chiama? Da Scotland Street fino a qui? Siete in gita?»
«Ho lasciato qui la mia macchina» si affrettò a rispondere Stuart. «Ce l’ho lasciata un po’ di tempo fa, e ora sembra sia sparita.»
«Ah» rispose Lardo. «Se la sono fregata?»
«Così parrebbe» disse Stuart, secco.
«Bene, bene» proseguì Lardo accarezzando il bordo della poltrona. «Mi potete dire che aspetto aveva il vostro mezzo? Il modello e tutto il resto. E anche il numero di targa.»
Stuart glielo disse e Lardo fece segno a Gerry, che cominciò ad appuntarselo, scrivendo a fatica su un taccuino che aveva preso da sopra una vetrinetta.
«Gerry» ordinò Lardo. «Vai a indagare su questa faccenda e vedi cosa riesci a scoprire. Chiaro?» Si girò verso Bertie. «E tu, giovanotto. Ti andrebbe una partitina a carte, intanto che aspettiamo Gerry? A te e a tuo papà potrebbe andare una partita a carte. Io ho un debole per le carte, sai? Ma non sempre ho una compagnia di adeguato livello intellettuale, mi segui?» Fece un cenno col capo in direzione di Gerry, che stava uscendo dalla stanza. «Brav’uomo, Gerry» proseguì Lardo. «Ma non è proprio uno di quegli intellettuali che avete voi a Edimburgo.»
«Mi piace giocare a carte» disse Bertie. «A che gioco le andrebbe di giocare, signor O’Connor?»
Scelsero il ramino, e Lardo si alzò lentamente dalla poltrona per prendere un mazzo di carte da un cassetto.
«Lei è molto grosso, signor O’Connor» disse Bertie in tono allegro, senza far caso ai gesti convulsi di suo padre. «Mangia anche lei i Mars fritti come gli altri abitanti di Glasgow?»
Lardo si bloccò dov’era. Senza voltarsi disse: «I Mars fritti?»
Stuart perlustrò freneticamente la stanza con lo sguardo. Forse in quel momento avrebbero potuto precipitarsi fuori, si disse. Lardo non sarebbe riuscito a rincorrerli, vista la mole, anche se Stuart aveva sentito dei rumori dall’ingresso e aveva presupposto che ci fossero altri uomini in casa, oltre a Gerry. Di rado i criminali avevano un solo tirapiedi, si ricordò.
Poi Lardo riprese a parlare. «Accidentaccio!» esclamò. «Non so cosa darei per mangiarmene uno adesso!»
54. Una partita a carte e una gita culturale
Fu una partita interessante. Lardo aveva cominciato facendo ogni tipo di concessione all’età di Bertie: gli offriva consigli amichevoli sulle tattiche di gioco, e in un paio di occasioni aveva sbagliato apposta per dare un vantaggio al bambino. Presto fu però chiaro che quei gesti erano completamente fuori luogo, visto che Bertie era in grado di giocare anche le mani peggiori con consumata abilità. Lardo aveva proposto di giocare a soldi, suggerimento che Stuart aveva accolto solo perché gli era parso poco saggio contraddire il loro ospite. Aveva dato a Bertie cinque sterline, tanto per cominciare, e gli aveva spiegato che sarebbero state il suo tetto massimo. Tuttavia, dopo un’ora di gioco, Bertie aveva vinto sessantadue sterline a Lardo O’Connor e ora sedeva dietro una montagna di monete da una e due sterline.
«Gliele restituisco, signor O’Connor» disse Bertie generoso. «Non voglio prenderle tutti i soldi.»
Lardo O’Connor scosse la testa. «Nemmeno per sogno, Bertie. Li hai vinti onestamente. Proprio come io li avevo guadagnati onestamente a suo tempo.»
Stuart scoccò un’occhiata a Lardo, ma distolse subito lo sguardo.
«Cosa fa di mestiere, signor O’Connor?» chiese Bertie, con educazione, mentre distribuiva le carte per una nuova mano.
«Sono un imprenditore» rispose Lardo. «Ho un’azienda. Ma per i piccoli imprenditori come me, con questo governo è dura, sai? Per questo voto per i liberaldemocratici. Proprio così. Per quel Ming Campbell. È l’uomo giusto. E anche David Steel.»
«Sono certo che sono felicissimi del suo appoggio» disse Stuart secco.
«Ah sì, ne sono certo anch’io» convenne Lardo.
La partita proseguì per un’altra mezz’ora, fino al ritorno di Gerry, che si fermò sulla porta con un gran sorriso in faccia. «Missione compiuta, Lardo.»
O’Connor si girò e fissò il suo assistente. «Hai trovato la macchina?»
Gerry annuì. «Sì. Era stata rimossa senza permesso, come si suol dire. Dei ragazzini se la sono presa e l’hanno usata per i fatti loro. Così gli ho parlato e gli ho fatto capire che non era modo di trattare una macchina di Edimburgo.»
Lardo sorrise. «Ed erano d’accordo con te, Gerry?»
«C’è voluto un po’ per convincerli, capo» rispose Gerry. «Sai come sono sgarbati certi giovani d’oggi. Maleducati.»
Lardo sospirò. «Sì» disse. «Hai proprio ragione, sì. Ma la cosa importante, Stewie, è che hai di nuovo la tua macchina. Che te ne pare?»
Stuart allungò la mano e strinse con entusiasmo quella di Lardo. «È stato gentilissimo, signor O’Connor. Sono davvero in debito con lei.» Lardo accolse i ringraziamenti con un’alzata di spalle. «Non è niente. Mi spiace solo per il disturbo arrecatovi. La gente si fa un’impressione sbagliata di Glasgow, se viene qui e le rubano la macchina. È un gesto poco amichevole.»
«Bene» disse Stuart guardando l’orologio. «È tutto a posto. Adesso che abbiamo di nuovo la nostra macchina, possiamo tornare a Edimburgo. È stato davvero gentile con noi, signor O’Connor.»
Lardo fece un gesto magnanimo con la mano destra. «Non c’è problema. Davvero.» Si interruppe un attimo. «Ma sarebbe un peccato se ve ne andaste così di corsa. Il nostro piccolo Bertie non ha quasi neanche visto Glasgow, vero, giovanotto? C’è tutto il tempo che volete per tornare a Edimburgo più tardi, visto che adesso avete ritrovato la macchina. Un bel viaggetto quando più vi aggrada.»
Stuart cominciò a spiegare che dovevano proprio tornare, perché Bertie aveva lezione di sassofono, ma Lardo lo interruppe.
«Che ne dici, Bertie?» chiese Lardo. «Cosa ti piacerebbe vedere, dato che sei qui?»
Bertie aveva la risposta pronta. Aveva deciso che Glasgow gli piaceva, e che c’erano molti posti che voleva visitare. Voleva andare in un baracchino che vendeva fish and chips e poi mangiarsi un... No, quello non l’avrebbe potuto fare. Sua madre di sicuro sarebbe venuta a saperlo e ci sarebbe stata una litigata tremenda. Perciò rispose: «La Burrell Gallery, signor O’Connor». Poi aggiunse: «Se per lei non è un disturbo».
Lardo si accigliò e guardò Gerry. «Sai dov’è, Gerry? La Burrell? L’hai mai sentita?»
Gerry scosse la testa. «Ho la cartina, capo. Vi ci posso portare.»
«In tal caso, possiamo avviarci» disse Lardo. «Possiamo andarci col mio mezzo, e poi potete riprendere il vostro quando abbiamo finito, così ve ne tornate a Edimburgo. Che te ne pare, Stewie?»
Stuart si rese conto che aveva poca scelta, se non abbozzare. Una visita alla Burrell, tra l’altro, non era una cattiva idea: avrebbe avuto tutto il diritto di dire a Irene che avevano impiegato in modo proficuo la giornata a Glasgow. Sì, non poteva certo dirle che lui e Bertie avevano giocato a carte, a soldi, con un criminale di Glasgow, ma le avrebbe raccontato che erano stati alla Burrell in compagnia di due gradevolissimi autoctoni che li avevano aiutati a ritrovare l’auto.
Salirono sulla Mercedes verde di Lardo O’Connor. Gerry si mise alla guida, Stuart si sedette accanto a lui, sul sedile davanti, mentre dietro si sistemarono Bertie e Lardo.
«Che bella macchina, signor O’Connor» disse Bertie, passando le mani sulla pelle morbida dei sedili.
«Proprio vero» rispose lui. «Se lavori sodo, come me, Bertie, prima o poi potrai permettertene una così anche tu.»
«Ma di cosa si occupa la sua azienda, signor O’Connor?» chiese Bertie.
«Distribuzione» rispose Lardo. «Facciamo circolare le cose. Ci assicuriamo che non restino sempre nello stesso posto. Favoriamo i passaggi di proprietà.»
«Che genere di cose?» insistette il bambino.
«Bertie» lo interruppe Stuart dal sedile anteriore. «Non continuare a fare domande al signor O’Connor. È impegnato a riflettere. Lascialo in pace.»
Proseguirono in silenzio. Poi Bertie disse: «Signor O’Connor, ha mai sentito parlare del Rangers Football Club?»
Lardo O’Connor sorrise. «Li ho sentiti nominare, certo, li ho sentiti nominare.»
Bertie guardò fuori dal finestrino. Quante cose da scoprire gli riservava ancora Glasgow. «Dicono tutti che sono molto forti» aggiunse. «Dicono che sono la squadra di calcio più forte di tutta la Scozia.»
«Non sono del tutto d’accordo» rispose Lardo incrociando lo sguardo di Gerry nello specchietto. «C’è un’altra squadra che si chiama Celtic. L’hai sentita nominare?»
«Sì» rispose Bertie. «Ma ho sentito dire che non sono tanto bravi.»
Lardo non disse nulla. Poi cominciò a sorridere. «Sai, Bertie, sei un bambino davvero sveglio. Hai un gran senso dell’umorismo. Davvero. Io e te abbiamo uno splendido futuro davanti... te lo dico io.» Poi batté sulla spalla di Stuart con un dito. «Che ne pensi, Stewie? Che ne diresti se ci vedessimo un po’ più spesso. Tu. Io. E Bertie. Che te ne pare?»
55. Alla Burrell
Entrarono nel cortile della Pollok House e risalirono il vialetto fino al palazzo che ospitava la Collezione Burrell. Lardo O’Connor, seduto nella sua Mercedes verde con accanto Bertie, rimase colpito dall’ambiente silvestre.
«Cribbio!» esclamò. «Chi l’avrebbe mai detto che abbiamo una cosa del genere qui a Glasgow! Proprio sotto il naso. Si direbbe che siamo a Edimburgo, non vi pare?»
«Avete dei bei musei, qui» commentò Stuart. «Davvero belli.»
Lardo lo ascoltò con attenzione. «Dei bei musei, dici, Stewie? Bene, buono a sapersi.»
Gerry parcheggiò la macchina e s’incamminarono verso l’ingresso della Burrell. Acquistarono i cataloghi e Stuart insistette per pagare, come ringraziamento per avergli ritrovato l’auto. Lardo e Gerry accettarono garbati e poi si avviarono tutti insieme verso la prima delle sale dell’esposizione. Lì, appeso alla parete, c’era un enorme arazzo fiammingo con una scena di caccia, con tanto di cani.
«Accidenti» esclamò Lardo. «Guardate i cani su quel tappeto.»
«In realtà è un arazzo» lo corresse Stuart.
Lardo lo guardò. «E io cosa ho detto?» borbottò. «Vuoi farmi fare brutta figura, Stewie?»
Stuart impallidì. «No di certo. Volevo solo...»
«Secondo certa gente» proseguì Lardo «se uno non ha avuto un’istruzione regolare, allora è uno che non capisce niente. Non sarai mica anche tu così, vero Stewie?»
«No, certo» rispose Stuart. «Ci sono molte persone istruite che non sanno niente di come va il mondo.»
«Hai sentito, Gerry?» chiese Lardo. «Il nostro Stewie dice che c’è un sacco di gente a Edimburgo che non capisce un tubo di niente. Così ha detto.»
Stuart si mise a ridere. «Non arriverei a dire proprio questo.»
«Be’, io sì» ribatté Lardo.
Passarono oltre, fermandosi di fronte a una serie di statuine di bronzo dentro una teca di vetro. Lardo fece segno a Gerry ed entrambi si chinarono a osservare la vetrinetta. Lardo fece scorrere le dita sulla serratura che impediva di aprire gli sportelli di vetro e rivolse un’occhiata interrogativa a Gerry, il quale sorrise.
«Facile» disse. «Un bicchier d’acqua.»
Lardo annuì e si raddrizzò. «Una collezione piccola ma molto interessante di... di...» commentò. «Aveva davvero buon gusto, questo Wally Burrell. Era un armatore, hai detto, Stewie?»
Stuart annuì. «Era un grande collezionista. E teneva registri aggiornati di quel che comprava. E girava tutto il mondo in cerca di pezzi per la sua collezione.»
Bertie stava studiando il catalogo con attenzione, confrontando ogni oggetto che vedevano con la didascalia del libro. Passarono nel Salotto di Hutton Castle, la sala che Burrell usava come principale esposizione, ora ricostruita all’interno della galleria. Si fermarono di fronte a una vetrata francese istoriata che raffigurava l’Annunciazione. Lardo fece segno a Gerry ed entrambi si fecero rapidamente il segno della croce.
«Sono lieto di notare che Wally Burrell era un tifoso del Celtic» disse Lardo.
Stuart sorrise. «A volte, il fatto di possedere una vetrata con raffigurata la Vergine non vuol dire per forza che...»
Si interruppe, dopo aver intercettato lo sguardo ammonitore di Lardo, che ora si era avvicinato a una finestrella e sembrava interessatissimo a studiarne la chiusura. «Bertie» chiamò. «Vieni un attimino qui.»
Bertie raggiunse Lardo alla finestra e guardò fuori. «Niente male questa finestrella, vero Bertie?» disse Lardo. «Mi chiedevo se un ragazzino della tua taglia, magari anche tu, riuscirebbe a infilarsi dentro. Non adesso, certo. Ma mi chiedevo se era possibile.»
Bertie osservò la finestra. «Credo di sì, signor O’Connor.»
Lardo sorrise. «Buono a sapersi. Magari prima o poi possiamo venire a dare un’occhiata a questo posto alla sera, quando non c’è troppa gente. Sarebbe più divertente, non ti pare? E potremmo guardare meglio le cose di Wally Burrell. Che ne dici, Bertie?»
«Sarebbe bellissimo, signor O’Connor» rispose il bambino.
«Bene. Ma che resti tra me e te. Intesi?»
Bertie annuì, e il gruppetto proseguì. C’erano molte altre cose da vedere – grandi urne, reperti greci, dipinti – e tutto quanto venne molto apprezzato da Lardo e, anche se in minor misura, da Gerry.
«Credete che abbiano qualcosa del vostro Vettriano?» chiese Lardo a un certo punto.
Stuart pensava di no. «Sir William Burrell è morto nel 1958» spiegò. «Jack Vettriano è ancora vivo.»
Lardo trafisse Stuart con lo sguardo. «Stai cercando di insinuare qualcosa, Stewie?» chiese. «Pensi che non lo sappia?»
Stuart fece una battuta conciliante e poi guardò l’orologio. «Mi chiedo se non sia ora di tornare a Edimburgo. La mamma di Bertie si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.»
«Be’, non vogliamo che si preoccupi, vero Bertie?» disse Lardo. Bertie non rispose. Era proprio quello che voleva, ma non gli sembrò il caso di dirlo a Lardo. Uscirono dalla galleria e tornarono alla macchina. Poco dopo erano di nuovo davanti a casa di Lardo, dove la loro auto, proprio la loro Volvo rossa scassata, era pronta per tornare a Edimburgo. Ci furono saluti e scambi di numeri telefonici. Poi, con Lardo e Gerry che in piedi accanto al cancello li salutavano con la mano, Bertie e Stuart uscirono dalla via e si diressero verso l’autostrada che li avrebbe riportati a casa, a Edimburgo.
«È bello risalire sulla propria macchina» disse Stuart mentre si lasciavano alle spalle la periferia di Glasgow.
«Sì» rispose Bertie. «Mi chiedo come ha fatto Gerry a ritrovare la nostra auto così in fretta.»
Stuart sorrise. Non avrebbe privato Bertie della sua commovente fiducia nell’umanità. Non gli avrebbe detto chiaro e tondo che senza dubbio erano state usate le maniere forti per strappare la loro macchina dalle mani di quelli che l’avevano rubata. Avrebbe lasciato che continuasse a credere alla bontà di Gerry e Lardo. Che manica di furfanti!
«Papà» esclamò a un tratto Bertie. «Questa non è la nostra macchina.»
Stuart abbassò lo sguardo sul figlio, che stava esaminando qualcosa sulla portiera.
«Sciocchezze, Bertie» disse. «Ho guardato la targa.»
«Sì» rispose lui. «Ma guarda le maniglie. Le nostre erano arrotondate in fondo. Queste sono dritte. E guarda la radio. È di una marca diversa.»
Stuart diede una rapida occhiata, timorosa, nella direzione indicata da Bertie. Poi deglutì. «Non dirlo alla mamma, Bertie» disse. «Ti prego, non dirglielo.»
56. Domenica incontra Pat
Era giunto il momento di fare il punto. Non che qualcuno di coloro che vivevano sotto lo stesso tetto al 44 di Scotland Street ne fosse consapevole, ma se avessero considerato attentamente la propria situazione, forse si sarebbero resi conto che si stava avvicinando un metaforico punto di svolta.
Irene e Stuart Pollock, genitori del bambino prodigio di sei anni Bertie, avrebbero potuto capire – e invece non se ne parlava neanche – che il loro matrimonio non stava andando da nessuna parte... sempre che i matrimoni debbano andare da qualche parte: ci sono molte persone felicemente sposate i cui matrimoni non mostrano segni di movimento in alcuna direzione, né avanti, né indietro e neppure di lato. Queste persone di solito sono contente, forse perché non si rendono conto di procedere nella direzione in cui andiamo tutti: verso il basso.
Irene e Stuart, però, stavano per affrontare una nuova e decisiva prova di forza, in cui Irene, convinta, a ragione, di essere quella che prendeva tutte le decisioni della coppia, avrebbe dovuto affrontare l’inedito desiderio di Stuart di modificare il trattamento riservato a Bertie. Stuart si era accorto di non essere stato un buon padre e in quegli istanti illuminati sul treno per Glasgow, quando aveva tenuto per mano suo figlio parlando d’amicizia, aveva deciso che doveva avere un ruolo molto maggiore nell’educazione del bambino. E se questo significava scontrarsi con la volontà di ferro di Irene, armata del suo gran corpus di conoscenze e studi in materia di pedagogia, e per di più spalleggiata dall’alleanza con il dottor Fairbairn, noto psicoterapeuta, autore dell’innovativo volume sull’analisi di Wee Fraser, tiranno di tre anni, così sarebbe stato. O meglio, data la debolezza cronica di Stuart, forse così poteva essere. (Tra l’altro Wee Fraser, ormai quasi quattordicenne, era stato di recente visto attraversare la strada in fondo a Princes Street, diretto alla volta di South Bridge. A scorgerlo era stato il dottor Fairbairn in persona, che era rimasto bloccato sul posto, come il capitano Achab di fronte a Moby Dick, inchiodato al ponte della sua baleniera. In questo caso, però, non era iniziata la caccia.)
Anche se i suoi genitori stavano facendo senza rendersene conto il punto della loro situazione, Bertie di tanto in tanto pensava alla sua sorte, con una capacità di analisi davvero notevole per un bimbo di sei anni. Era abbastanza contento della piega che avevano preso le cose. C’erano stati degli intoppi, certo, come il fallito tentativo di entrare al George Watson’s College, compensato però dalla scoperta che la Steiner era il posto che faceva per lui.
L’amicizia si era rivelata un campo irto di difficoltà. Gli adulti intuiscono solo molto vagamente con quale intensità i bambini hanno bisogno di amici, un bisogno profondo, che ai piccoli sembra più potente e impellente di qualunque altro. E anche Bertie provava quel bisogno. Jock, il coraggioso Jock, che al primo incontro era sembrato promettere tanto bene, si era rivelato insensibile e infido. Per Bertie era stato un duro colpo. Ma aveva quasi trovato un amico, nella persona di Tofu, anche se a volte era difficile richiamare la sua attenzione, visto che era sempre impegnato a cercare di farsi notare da chi gli stava intorno con uno sfoggio di spacconerie e battute scatologiche. Ma per Bertie i brandelli d’attenzione che riusciva a ottenere erano sufficienti, e gli rendevano più sopportabili le sedute di psicoterapia con il dottor Fairbairn, lo yoga a Stockbridge, le lezioni di italiano avanzato e la preparazione all’esame di sassofono di settimo livello.
Nella vita di Pat non c’erano sussulti di tale rilevanza. Stava per iniziare i corsi all’università e nutriva grandi aspettative sulla vita da studente. Sarebbe stata un po’ meglio, pensava, se avesse condiviso la casa con altri universitari, invece che con Bruce, ma Scotland Street era comoda e ormai le piaceva molto. Adesso, poi, aveva conosciuto Peter, cameriere part time al Glass and Thompson, anche lui studente di lettere e appassionato, come Pat aveva furtivamente scoperto, di bagni in costume adamitico.
Non sapeva bene che idea farsi di Peter e voleva parlarne con Domenica, che non vedeva da un po’ di tempo, ma che incontrò girato l’angolo tra Drummond Place e Scotland Street. Ecco la Mercedes color crema che faceva manovra a fatica per entrare in un parcheggio quasi, ma non del tutto, troppo piccolo per lei. Pat attese che la vicina riuscisse a districarsi dalla splendida macchina.
«Tutto quanto» attaccò a dire Domenica chiudendosi la portiera alle spalle, «diventa sempre più piccolo. Hai provato a sederti in aereo, di recente? Le gambe, a quanto pare, andrebbero lasciate a casa, o spedite separatamente insieme ai bagagli. Anche le case si rimpiccioliscono, con i soffitti sempre più bassi. E lo stesso gli uffici. Tutto. Non solo i parcheggi.»
Pat sorrise. Domenica aveva un modo affascinante di buttarsi a capofitto nella polemica. Non si concedeva nemmeno un commento introduttivo sul tempo, tanto per scaldarsi, o qualche domanda sulla salute. «Hai ragione, direi» rispose Pat.
«Grazie» disse Domenica. «Non che io mi voglia lamentare. Non c’è niente di peggio, a mio parere, delle persone della mia età – che non è esageratamente avanzata, mi affretto a precisare – che si lamentano in continuazione. O tempora, o mores e via dicendo. Succede perché si vede il mondo cambiare e non ci piace solo perché è diverso. Dobbiamo accogliere i cambiamenti, ci dicono. E immagino sia una cosa saggia, se il cambiamento lo merita ed è in meglio. Ma perché sostenere il cambiamento fine a se stesso? Io non ne vedo proprio il motivo, e tu?»
Nemmeno Pat, e ne convenne con Domenica, mentre la accompagnava lungo la via.
«Il problema» proseguì la vicina «è che il potere ce l’hanno quelli che vogliono tagliare le spese. Sono loro a decidere lo spirito della nostra epoca. Sono quelli che insistono nel dire che tutto deve costare poco ed essere costruito mettendoci solo il minimo indispensabile. Non si può più fare niente di grande e generoso, perché arriva un tagliatore di spese a dire: Ferma tutto. Fatelo più piccolo.»
Pat non rispose. Stava pensando a Peter. Forse sarebbe stata una buona idea parlarne con Domenica. «Sto pensando a un ragazzo» disse di punto in bianco.
«Interessantissimo» rispose Domenica. «Interessante, sì, ma spesso si rivela una perdita di tempo. Comunque, vieni su da me, cara, così ci mettiamo belle comode nel mio studio a parlare di ragazzi. Che divertimento!»
57. L’approccio naturale
«Be’» disse Domenica, appollaiata sul bordo della poltrona. «Raccontami tutto. Sei andata a trovarlo? Quel ragazzo belloccio che abbiamo conosciuto insieme? Sei andata da lui?»
A Pat parve una domanda un po’ troppo diretta. Aveva perdonato Domenica per il tentativo indiscreto di farli conoscere, con il pretesto smaccato di prestare a Peter un libro di poesie di Rupert Brooke. Ci aveva anche riso sopra, ripensando a quello stratagemma spudorato. Ma visto il comportamento un po’ maldestro, per non dire socialmente goffo, della vicina, non le sembrava che Domenica fosse nella posizione di criticarla per essere andata a casa di Peter. «Mi ha invitato lui» spiegò, sulla difensiva, e proseguì raccontando a Domenica dell’incontro alla cineteca e dell’invito di Peter. Aveva detto che ci teneva, anche se quando si era presentata all’appuntamento, lui si era dimenticato di averla invitata.
«Ed è andata come previsto?» chiese Domenica.
«Io non avevo previsto niente» rispose Pat. Si accigliò. Cosa pensava che intendesse fare, una volta andata a casa di Peter? A volte le persone della generazione di Domenica, nel tentativo di apparire moderne, non capivano. I giovani non si preoccupavano più di orchestrare la seduzione. Capitava, se lo volevano. Altrimenti, no. Le persone, al giorno d’oggi, erano meno civettuole.
Domenica le diede la risposta. «Ma devi esserci andata con la speranza di scoprire qualcosa... di saperne di più su di lui. Non è così?»
Pat annuì. «Qualcosa l’ho scoperto» disse. «Ma non so che pensare di lui. Non sono...»
Domenica fece un gesto con la mano. «La cosa più importante di questi tempi è se... se è interessato. Ci sono così tanti giovani, al giorno d’oggi, a cui le donne proprio non interessano. E la cosa non cessa di sorprendermi.»
Pat osservò la vicina. La metteva un po’ in imbarazzo parlare di certe cose con una donna tanto più anziana... anche usando giri di parole. «Interessato» era un modo così vetusto di alludere alla cosa; davvero ridicolo, si disse Pat. Eppure Domenica era una donna di mondo: aveva vissuto all’estero, perso un marito, fatto ricerca antropologica sul campo in Sudamerica. Non era un’ingenua. Perché prenderla tanto alla larga?
«Certo, la terminologia è cambiata» proseguì Domenica, con un gesto aggraziato della mano. «Ai miei tempi si diceva che certi uomini avevano orecchio per la musica. Era un’espressione in codice. Poi sono spuntati altri modi di dire, e adesso, ovviamente, tutti spiattellano tutto quanto. Lui lo è, secondo te?»
«Lo è cosa?»
«Ma sì. Allegro.»
«Vuoi dire gay?»
Domenica arrossì. «Sì.»
«Non saprei» disse Pat. «Davvero.»
Domenica si mise a ridere. «Ma devi saperlo. Tutte le donne lo capiscono. Lo capiamo e basta.»
«Non ne sono sicura» rispose Pat. «Credi che gli uomini capiscano se una donna non è interessata ai maschi?»
Domenica non esitò a rispondere. «Certo che no» disse. «Ma è perché gli uomini non sono perspicaci quanto le donne. Gli uomini certe cose non le capiscono. Non notano l’evidenza.»
«E l’evidenza sarebbe?»
Domenica prese il bicchiere dal tavolino accanto alla sua poltrona. «I pantaloni» rispose. «Ampi e sformati, con sotto gli scarponi. Certi tatuaggi. Indizi nascosti come questi.» Si interruppe. «Ma dimmi... è disponibile, per così dire?»
«Credo di sì» rispose Pat. «Mi ha dato questa impressione, però...»
Domenica sgranò gli occhi. «C’era qualcosa?»
Pat abbassò lo sguardo sul pavimento. Non ne sarebbe uscita granché bene, ma voleva raccontare tutto a Domenica, perciò proseguì. «C’era una fotografia» disse. «Sul retro c’era scritta una cosa: Bagno nudi, in Grecia, con T. Ho dato un’occhiata veloce alla foto mentre lui non c’era. Non sono riuscita a resistere.»
«Una cosa del tutto comprensibile» commentò Domenica. «Chiunque l’avrebbe fatto. Chiunque.»
«Be’, io l’ho fatto. Era una foto sua, di Peter, in mare. Sembrava scattata su una qualche isola greca. Era un po’ al largo, perciò l’acqua gli arrivava quasi fino al petto. Era una foto molto pudica.»
Domenica sospirò. «Che delusione.»
Pat non sapeva che pensare. Domenica aveva un che di audace, a volte, quasi di libertino. Eppure, al tempo stesso, non era mai, in nessun modo, volgare. Non le apparteneva quel linguaggio scatologico che viene usato senza nemmeno pensarci dalle persone sboccate, per le quali un’esclamazione oscena e scontata diventa un modo di dire ossessivo. Ciononostante Domenica era del tutto priva di pruderie. Una contraddizione che lasciava perplessi.
«Deve averla scattata T.» disse Pat. «Ma non so chi sia T.»
Domenica alzò le spalle. «Conta qualcosa?»
«Be’, credo che potrebbe» rispose Pat. «Se T. fosse un Tom, per esempio, allora forse Peter mi vuole solo come amica. Ma se T. è una Theresa o una Tessa, allora potrebbe essere tutta un’altra storia.»
«Avresti dovuto chiederglielo» disse Domenica.
«Ci ho provato. Ho fatto cadere la fotografia a terra e quando Peter è rientrato l’ho raccolta e ho detto: ’Oh! Chi è T.?’»
«E lui?»
«Ha detto: ’Ah, quella foto! È Mykonos’. Poi mi ha detto, ed è stata questa la vera sorpresa... ha detto: ’Sai, sono un nudista’.»
Per un attimo calò un silenzio assoluto. Pat studiò la reazione di Domenica. Da quando la conosceva, non l’aveva mai vista senza parole. Stavolta sì. Guardò alle spalle della vicina, alla libreria dietro di lei. Margaret Mead, L’adolescenza a Samoa; era un libro che parlava di nudità e innocenza carnale, no?
E poi c’erano i libri sui bambini selvaggi che sfregavano i dorsi contro quelli della Mead e di Pitt-Rivers. I bambini selvaggi non portavano vestiti. Anche lì nudità. Perché la sua vicina si sarebbe dovuta sorprendere della nudità in quel di Edimburgo?
Fu Domenica stessa a fornire la risposta a quella muta domanda. «Un nudista? A Edimburgo? Ma lo sa a che latitudine siamo?»
Pat sorrise a quella battuta. Era una Domenica d’annata. Poi le riferì cosa le aveva detto Peter.
«Mi ha invitato a una cosa» disse, abbassando la voce come se qualcun altro potesse sentirla.
«Dove?»
«A un picnic nudista ai Moray Place Gardens. Il prossimo sabato sera» rispose. Poi aggiunse: «Previa conferma».
58. Moray Place
Domenica aveva appena aperto bocca per rispondere quando suonò il campanello. Guardò la porta con evidente stizza. Stava per replicare alla straordinaria rivelazione di Pat, e ora, a causa di quella visita, doveva lasciare in sospeso i suoi commenti.
«Non aspetto nessuno» borbottò, mentre si alzava per andare a rispondere. «Per favore, resta. Dobbiamo parlare di questo invito.»
Mentre si avvicinava alla porta arrivò da fuori un forte latrato. «Angus» disse Domenica. «Preannunciato da Cyril.»
Aprì l’uscio. Angus Lordie, con una giacca di lino bianco e una bandana rossa allacciata al collo, era sulla soglia con il cane Cyril seduto accanto. Cyril sollevò lo sguardo verso Domenica e sorrise, mostrando il dente d’oro nella mascella inferiore.
«Bene» disse Domenica. «Che piacere insolito. È una visita di Cyril, con te al seguito, Angus, oppure viceversa?»
«La seconda» rispose Angus. «Almeno dal mio punto di vista. È possibile, beninteso, che la prospettiva canina su questo argomento sia diversa.»
Entrò e venne fatto accomodare nello studio di Domenica, dove salutò con calore Pat. Cyril le leccò una mano e poi si sdraiò ai suoi piedi, guardandola con gli occhi socchiusi. Alla ragazza parve che le avesse strizzato l’occhio, ma non ne era sicura. Quel cane aveva qualcosa di davvero sconcertante, ma era difficile capire esattamente cosa fosse. Mentre Domenica portava da bere ad Angus, il pittore cominciò a chiacchierare con Pat.
«Il motivo per cui sono qui» disse «è la frustrazione artistica. Stavo lavorando al ritratto di un finanziere di Edimburgo. Non posso dirvi chi era, ma basti aggiungere che la sua espressione parla di una e una sola cosa: soldi. Stranamente, però, è un particolare che ho difficoltà a rendere sulla tela. Lo si vede, nella persona in carne e ossa, ma come si coglie con i colori a olio?» Una pausa. «Te ne accorgi quando qualcuno è ricco, Pat? Riesci a capirlo al primo sguardo?»
«Io sì» rispose Domenica rientrando nella stanza. «Lo trovo piuttosto facile. Di solito i segni ci sono.»
«Per esempio?» chiese Angus.
«La sicurezza di sé» rispose Domenica allungandogli un bicchiere di vino. «Le persone che hanno i soldi vanno in giro con un’aria diversa da noialtri. Sfoggiano la sicurezza che deriva dall’avere un bel conto in banca. E anche una certa apatia, forse.»
«E il modo in cui vestono?» suggerì Pat.
«Bisogna guardare le scarpe» proseguì Domenica. «Li si riconosce da quelle. Calzature costose, che hanno un’aria tutta loro.» Si girò verso Angus e sorrise. «A proposito di vestiti, Angus» disse. «Pat ha ricevuto un invito molto interessante. Racconta tutto al nostro ospite, Pat.»
Pat non era proprio sicura di voler parlare dell’invito di Peter con Angus, ma ormai non poteva rifiutarsi. «Mi hanno invitato a un picnic nudista» disse a bassa voce.
Angus la fissò stupito. «E pensi di andarci?»
Pat scrollò le spalle. «Non so. Non sono sicura...»
Domenica la interruppe. «E non è un picnic nudista qualsiasi, Angus. Si terrà ai Moray Place Gardens. Ci crederesti? Non è bella, questa? Te l’immagini?»
Angus non sembrava sorpreso. «Ma certo che sì. A Moray Place ce ne sono un sacco.»
«Di cosa?» chiese Domenica.
«Di nudisti. Moray Place si può considerare un posto di gran lusso. Può essere un indirizzo tremendamente chic. Ma ci sono più nudisti da quelle parti che in tutto il resto della New Town! È sempre stato così. S’incontrano nell’oasi di piacere di Lord Moray.»
Domenica sbuffò incredula. «Questa mi risulta difficile da digerire, Angus. Nudisti a Moray Place? Con tutti quei salotti georgiani e le cene sfarzose. Nudisti? Ma quando mai!»
Angus inarcò un sopracciglio. «Non dico che a Moray Place tutti quanti si dedichino al naturismo, ovvio. Ma ce ne sono diversi. Credo che abbiano una specie di circolo, la Moray Place Nudists’ Association. Non si fa pubblicità, chiaro, ma è perché siamo a Moray Place, e troppa réclame... be’, non sarebbe degna di loro.»
Per un attimo calò il silenzio. Poi Domenica si rivolse a Pat. «Lo sai, vero, che devi prendere tutto quello che dice Angus cum grano salis?»
Pat non rispose. Le sembrava improbabile che ci fossero nudisti a Edimburgo, punto, viste le temperature di buona parte dell’anno, ma forse potevano essercene d’estate, quando il clima si intiepidiva abbastanza, a volte. Forse venivano fuori in quel periodo. E comunque, Peter aveva detto di essere uno di loro, e quando le aveva rivolto l’invito era parso serissimo.
Angus fece una smorfia. «Puoi anche non credermi, carissima Pat, ma questa vecchia strega» disse accennando a Domenica «non è aggiornata, se mi posso permettere. Senza offesa, ovviamente, Domenica carissima, ma non sono certo che tu capisca quanto sia radicata nella nostra amata città l’eredità di Deacon Brodie.»
Pat diede un’occhiata a Domenica. Si chiese se si fosse offesa sentendosi dare della vecchia strega, ma la vicina si limitò a sorridere. «Puoi anche chiamarmi vecchia strega» disse Domenica, «ma se tra noi c’è qualcuno che fa imbrogli, quello sei tu, Angus. E lascia che ti dica che comprendo bene tutta la questione delle maschere sociali e del posto che occupano nella psiche edimburghese. Ma non sprechiamo tempo in battibecchi inutili. La mia domanda, Angus, è questa: come fai a sapere che ci sono nudisti a Moray Place? Li hai visti? O è solo un pettegolezzo che hai sentito al Cumberland Bar?»
Angus bevve un sorso di vino. Aveva l’espressione, pensò Pat, di chi sta per produrre l’argomentazione decisiva.
«Mi piacerebbe che fosse vero» disse. «Nudisti a Moray Place. Non te lo immagini?»
«No» rispose Domenica. «Per nulla.»
«A Bob Sutherland sarebbe piaciuta un sacco questa storia» rifletté Angus. «Eccome, se gli sarebbe piaciuta.»
Domenica sembrava confusa. «Bob Sutherland?» chiese.
«Robert Garioch» spiegò Angus. «Un grande makar. E nostro vicino di casa, sapete. Abitava in Nelson Street. Un tempo. Ora, ahimè, è morto.»
«Garioch» disse Domenica. «Sulla tomba di Robert Fergusson?»
«Mi vuoi far piangere» rispose a bassa voce Angus.
59. Robert Garioch
«Sì» proseguì Angus. «Sulla tomba di Robert Fergusson. Che poesia meravigliosa. Potrei recitarvene tutti e quattordici i versi, strappacuore. Ma ve li risparmio.» Si interruppe. «Dimmi Pat... e anche tu Domenica: quanto conta per voi la poesia?»
Pat ci pensò su un attimo. Aveva letto alcuni poeti, ma ora che ci pensava, chi erano? A scuola l’avevano costretta a leggere Chaucer – le parti non sconce, ovvio – e poi erano venuti Tennyson e MacDiarmid, anche se non ricordava quali brani. E poi Yeats, qualcosa a proposito di un aviatore irlandese, torri, e cigni selvatici. Ma quanto avevano contato per lei? Finita la scuola, aveva smesso di leggere poesia e non l’aveva più ripresa in mano. «Non molto» rispose. «Anche se...»
Angus annuì. «Me l’aspettavo, temo.» Guardò Domenica.
«La poesia mi consola» disse lei. «Ma perché hai tirato in ballo Garioch? E perché avrebbero dovuto divertirlo tanto i nudisti di Moray Place?»
Angus si mise a ridere. «Perché sapeva cogliere molto bene il contrasto tra grandeur da un lato (anche se non voglio certo insinuare che Moray Place sia un quartiere spocchioso) e persone comuni dall’altro. È l’erede di Fergusson, sapete. Proprio come Burns. E parecchi versi di Burns sono puro Fergusson, non c’è dubbio.»
«Che tragedia» rispose Domenica. «Pat, sai quanti anni aveva Robert Fergusson quando morì? No, certo che no. Be’, pochi più di te. Pochissimi. Ne aveva ventiquattro.»
«E morì solo nella sua cella al manicomio» aggiunse Angus. «Un così bel ragazzo.»
«È il destino di tanti poeti, a quanto pare» disse Domenica. «Morire giovani, intendo. Come Rupert Brooke.» Guardò di sottecchi Pat. I Collected Poems of Rupert Brooke erano stati il pretesto per far incontrare Pat e Peter... e a cosa avevano portato? A un invito a un picnic nudista a Moray Place.
«Non mi parlare di Brooke» disse Angus sprezzante. «O almeno, non nominarmelo accanto a Fergusson. Quant’era insopportabile quel giovanotto. Hai letto le sue lettere a Strachey? Una serie di tremende diatribe da egocentrico. Piene di deliqui e di pose altoborghesi. E la confraternita degli Apostoli di Cambridge, poi! Una massa di idioti... così autocompiaciuti. Certo, tutti rovinati dal sistema dei collegi inglesi, eppure...»
Domenica si dimostrò più tollerante. «Era una gioventù dorata» disse. «E alle gioventù dorate bisogna concedere qualche libertà... E comunque, erano tutti condannati, non credi? Sapevano bene che una volta spediti in Francia non avevano molte possibilità.»
«Fergusson era un vero poeta» la interruppe Angus. «Lui sì che aveva il polso autentico di ciò che accadeva per le strade e nelle taverne di Edimburgo. E soffriva. Brooke e i suoi simili sono tutti troppo douce. Per questo scrivevano poesie così insipide.»
Domenica si alzò per riempire il bicchiere che Angus le tendeva. «Non so bene dove stiamo andando a parare» disse pacata. «Ma con te non lo so mai, Angus. I tuoi pensieri... be’, tendono a divagare un po’.»
«Ma lungo un percorso chiarissimo» rispose lui. «Stavo parlando di Garioch e di quanto gli sarebbe piaciuto il contrasto tra l’apparente rispettabilità di Moray Place e il desiderio di almeno alcuni dei suoi abitanti di darsi al nudismo. Sono proprio queste le cose di cui gli piaceva scrivere.
«Sapete, ha scritto una splendida poesia, intitolata Glisk of the Great, ovvero ’barlume di grandezza’. Il narratore vede un gruppo di persone uscire dal North British Grill, ’lauchan fit to kill’, ridendo a crepapelle. Poi il gruppetto sale in ’una Rolls Royce comunale di dimensioni spropositate’ e sparisce in direzione di Calton Hill. Il narratore riflette sulla maestosità della scena, anche se noialtri non vi possiamo partecipare. Dà alla città un certo tono, capite.»
Si interruppe. Pat e Domenica lo guardavano, in attesa. Cyril, che aveva sollevato la testa, pareva anche lui in ascolto, con un orecchio drizzato verso il padrone. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, il destino che spetta ai cani per gran parte del tempo, ma sapeva che si stava godendo un bellissimo sogno, prima che la voce del padrone lo disturbasse. Sognava di mordere la caviglia a Matthew, cosa che voleva fare da tanto tempo. E nel sogno riusciva anche a farla franca.
«Be’» disse Domenica dopo qualche istante. «Come preferisci. Ma non abbiamo qui con noi un Robert Garioch che scriva una poesia sull’invito ricevuto da Pat. Dobbiamo decidere... o meglio, Pat deve decidere, se andare o no. Io direi che non deve, nel modo più assoluto.»
«Mah, non saprei, sai» rispose Angus. «Dev’essere gente a postissimo. I nudisti sono persone molto miti, sai. Non si dedicano al naturismo a scopo di libidine. È un’attività pura e onesta.»
«Può darsi» disse Domenica. «Ma non ti sembra un po’ strano che questo giovanotto abbia invitato Pat, che al momento non si dedica al nudismo, a partecipare?»
«Devono pur fare proseliti, in qualche modo» spiegò Angus. «Un po’ come se qualcuno ti invitasse a una funzione in chiesa o alle prove di un’orchestra amatoriale. Sperano di convincerti a partecipare. Le persone, in cuor loro, sono tutte degli arruolatori. Le fa sentire più a proprio agio vedere ingrossarsi le fila di chi segue le loro passioni.»
Pat ascoltava con interesse. La incuriosiva quanto aveva da dire Angus, ma in cuor suo sentiva che i suoi consigli non potevano che rivelarsi errati. Angus era innocuo, le pareva, ma la sua visione delle cose le sembrava davvero bizzarra... quasi un rovesciamento poetico del mondo. Domenica, al contrario, sembrava comprendere le cose per com’erano davvero, e se doveva dar retta a qualcuno, avrebbe dovuto scegliere lei. Certo, c’erano altri a cui chiedere. Matthew, per esempio, sebbene avesse la sensazione che si sarebbe ingelosito e risentito se anche solo gli avesse parlato dell’esistenza di Peter, figuriamoci di quell’insolito invito. E poi c’era suo padre. Lui aveva una comprensione profonda del mondo, ma parlargli di una cosa simile l’avrebbe messa in imbarazzo. Infine, poteva prendere una decisione di testa sua; o meglio, seguire il suo istinto. E cosa le diceva, l’istinto? Ci rifletté un attimo. Chiuse gli occhi, nel tentativo di immaginarsi la scena, all’interno dei Moray Place Gardens. Poi li riaprì. Ci voleva andare.
60. La storia di Ramsey Dunbarton:
parte IV – Questioni legali
In alto sopra la città, nella loro casa sulle Braids, Ramsey Dunbarton si stava imbarcando in una seconda lettura di brani scelti delle sue memorie a beneficio di sua moglie Betty. Erano arrivati al resoconto del loro corteggiamento e ai primi anni passati a Craiglea Drive, prima di trasferirsi alle Braids. A Betty la lettura era piaciuta, anche se aveva notato una serie di imprecisioni nei ricordi del marito. Aveva confuso il luogo del loro primo incontro e sbagliato in pieno l’età che aveva in quel momento. Lo stesso valeva per il nome del defunto duca di Atholl, che Ramsey aveva chiamato Angus, mentre invece si trattava di Iain. Erano cose di poco conto, certo, anche se l’accumulo di errori di quel genere poteva rendere l’autobiografia non proprio affidabile; ma si era guardata dal correggerlo. Ramsey aveva molti pregi, ma nutriva al tempo stesso una leggera tendenza a irritarsi quando gli veniva fatto notare che si sbagliava su qualcosa. Perciò Betty era rimasta zitta e aveva limitato le sue reazioni a qualche assenso col capo e a piccole esclamazioni soddisfatte. Aveva riflettuto anche sul fatto che era improbabile che qualcuno leggesse le memorie di Ramsey, se mai avesse trovato un editore disposto a pubblicarle. Non perché fossero irrilevanti in sé e per sé, ma perché al giorno d’oggi le persone sembravano interessate solo a leggere racconti infarciti di volgarità e violenza. E nelle memorie di Ramsey non c’erano né l’una né l’altra... finora, almeno. Betty sospirò.
«Ora dovrei addentrarmi in qualche reminiscenza legale» disse Ramsey abbassando lo sguardo verso sua moglie, seduta in poltrona. Preferiva leggere stando in piedi, posizione che lasciava libero il diaframma e permetteva di impostare bene la voce.
«Questioni legali» mormorò Betty. «Che bello, tesoro.»
«Ho dedicato tutta la mia vita lavorativa alla carriera di avvocato» iniziò a dire Ramsey. «E non mi sono mai pentito, neppure per un solo istante, di avere scelto la giurisprudenza. Avessi deciso altrimenti, in quel fatidico pranzo con il mio futuro suocero a Broughty Ferry, sarei potuto finire a commerciare marmellate. Invece no. Sono rimasto nel campo della legge.
«Non che si debba pensare che io non nutra il massimo rispetto per chi produce e commercia marmellate. So che c’è chi lo considera in un certo qual modo un settore poco dignitoso, ma non ho mai capito perché. A mio parere, non è il letto in cui nasci né il mestiere che fai a determinare il tuo valore. È quel che sei come uomo. Questo conta. E ritengo che Robert Burns, il nostro cantore nazionale, abbia espresso al meglio questa filosofia nei versi di A Man’s a Man for a’ That. Non importa chi sei o che fai. La domanda fondamentale è questa: Hai vissuto bene, hai condotto una vita onesta? E io credo, senza voler sembrare immodesto, di poter rispondere di sì a queste domande.
«Si dà il caso che io nutra un grande interesse per Burns fin da quando avevo dieci anni. È stato allora che ho iniziato a imparare a memoria le sue poesie, a partire da A un topo. Consiglio sempre caldamente quei versi ai genitori che vogliono far amare la poesia ai propri figli. Cominciate con quella e poi, quando il bambino è un po’ cresciuto e non si fa più impressionare da tutti quei riferimenti a bogillis, folletti, spiriti e affini, passate a Tam O’Shanter.
«Ma sto divagando. Sapevo fin dal primo giorno alla facoltà di giurisprudenza che la legge sarebbe diventata la mia sposa. Ricordo distintamente la mia prima lezione di diritto romano, quando il professore ci parlò del Corpus iuris civilis di Giustiniano, e del modo in cui era stato tramandato ai giuristi scozzesi, tramite l’opera di studiosi italiani e olandesi. Quella sì che era una storia da romanzo! E si faceva sempre più intrigante, man mano che affrontavamo argomenti come le leggi scozzesi sul diritto di successione e i principi del diritto penale. Le questioni legate alle eredità erano ricche di aspetti umani, e ricordo ancora le risate divertite che scoppiarono in aula quando il professor George Campbell Paton ci illustrò il caso del signor Aitken di Musselburgh, che incaricò i suoi esecutori testamentari di erigere a sua memoria una statua equestre in bronzo sulla strada principale della sua città natale. E poi c’era il tizio di Dundee che nominò unico erede il suo cane: era un caso divertente, e solo l’autorità della Camera dei Lord stabilì che quel testamento fosse da considerare contra bonos mores. Tra parentesi, tremo al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se la corte avesse deciso altrimenti. Non che io abbia niente contro i cani – tutt’altro –, ma in tal modo qualsiasi ridicolo sperpero di denaro sarebbe stato accettabile, in nome della libertà testamentaria. E su questo argomento ho idee molto precise.
«Non si dimenticano casi del genere. Ce n’erano molti, come il celebre caso Donoghue contro Stevenson, sulla spiacevole esperienza capitata a una certa signora May Donoghue, che una volta entrò al Wellmeadow Café di Paisley e si vide servire una bottiglia di ginger con dentro una lumaca marcia. La signora Donoghue si sentì male, perciò non dovremmo ridere di questo aneddoto, ma dev’essere davvero sconcertante trovarsi una lumaca dentro il ginger! Di casi curiosi in Scozia ce n’erano parecchi, come Bourhill contro Young, legato alla signora Euphemia Bourhill, pescivendola, che aveva visto un motociclista vittima di uno sfortunato incidente molto vicino all’autobus su cui lei viaggiava. Questo caso presenta un particolare notevole, ma poco noto. L’ex docente di giurisprudenza dell’Università di Edimburgo, il defunto professor Archie Campbell, aveva una governante il cui nipote era coinvolto nell’incidente! Si dà il caso che io lo sappia, ma sono tra i pochi. Ma c’è un’ulteriore coincidenza. Archie Campbell un tempo abitava in una delle vie dietro il Braid Hills Hotel, non lontano dalla casa dove viviamo io e mia moglie Betty. Ma Edimburgo è così, è un paesone.»
Ramsey Dunbarton si interruppe dopo questa rivelazione e guardò sua moglie. Si era addormentata.
61. La storia di Ramsey Dunbarton:
parte V – Johnny Auchtermuchty
«Credo che sia un po’ scortese da parte tua assopirti in questo modo» disse Ramsey Dunbarton. «Io sono qui che mi do la pena di leggerti le mie memorie e quando alzo gli occhi ti trovo che ronfi. Davvero Betty, da te non me lo sarei mai aspettato.»
Betty si stropicciò gli occhi. «Mi spiace tantissimo, tesoro. Mi sono addormentata solo per un momentino o due. Credo che tu fossi arrivato al punto in cui qualcuno voleva erigere un monumento a un cane a Dundee.»
«Ah, davvero?» esclamò piccato Ramsey. «Hai confuso tutto quanto. Era Musselburgh il posto in cui la statua equestre in bronzo...»
«Di un cane?» lo interruppe Betty. «Impossibile. Non si può certo dedicare una statua equestre a un cane. Non sarebbe strano, persino a Musselburgh?»
Ramsey fece un sospiro. «Mia cara, se mi avessi ascoltato invece di dormire, avresti scoperto che il cane era a Dundee, e nessuno ha mai inteso dedicargli una statua, equestre o meno. Senti, vuoi che continui a leggere o preferisci che smetta?»
«Oh, ma devi continuare, Ramsey» disse Betty con entusiasmo. «Perché non facciamo così: tu leggi, e di tanto in tanto dai un’occhiata dalla mia parte per vedere se ho gli occhi chiusi. In tal caso, mi dai un colpetto per svegliarmi.»
Ramsey acconsentì con riluttanza e riprese il manoscritto.
«Bene, dopo quegli studi legali e tutto il resto, venni regolarmente ammesso all’albo dei procuratori legali e iniziai il tirocinio nello studio di Ptarmigan Monboddo a Edimburgo. Era un ottimo studio, con otto soci, e a dirigerlo era il signor Hamish Ptarmigan. Mi affezionai a lui, e il signor Hamish fu sempre molto disponibile nei miei confronti. Se mi serviva un consiglio, andavo dritto da lui, e non mancava mai di indicarmi con precisione cosa fare. Non sbagliava mai.
«’Si ricordi sempre una cosa’ diceva. ’Sebbene abbia il dovere di assecondare i desideri del cliente, non deve mai agire contro coscienza. Se è questo che il cliente le chiede, può semplicemente rifiutarsi di accettare le sue direttive. Così facendo non si metterà mai in contrasto con l’Ordine degli Avvocati di Scozia, né con Dio.’
«Mi ricordai di questo consiglio quando un cliente venne a dirmi che desiderava investire tutti i suoi beni in una proprietà immobiliare – in un ’pezzo di terra’ come dicono i profani – in modo da privare suo figlio, con cui non andava d’accordo, del diritto a reclamare la sua legittima parte d’eredità alla morte del padre. La cosa mi lasciò turbato, perché conoscevo il figlio, e sapevo che era una persona molto rispettabile. Perciò dissi al cliente che non pensavo fosse la cosa giusta, soprattutto perché a beneficiare di quella transazione sarebbe stata la sua amante, una donna sordida, forte bevitrice e di abitudini piuttosto leggere.
«Il cliente si infervorò per la mia risposta e disse: ’Se la pensa così, posso sempre rivolgermi a un altro studio’. Io risposi: ’Faccia pure! Le ricordo che sono un professionista, non un lacchè tenuto a scattare a ogni suo ordine’.
«L’uomo tolse l’incarico allo studio, e io dovetti andare a riferirlo al signor Ptarmigan. Non dimenticherò mai la sua reazione. ’Dunbarton’ disse ’ha fatto la cosa giusta, anche se costerà allo studio parecchio denaro, cosa per la quale devo esprimere un lieve disappunto. Bravo, comunque.’
«In seguito, sono lieto di aggiungere, il figlio di cui io avevo cercato di salvaguardare gli interessi, che era venuto a sapere della mia presa di posizione, ebbe un notevole successo negli affari e si rivolse a noi. Il signor Ptarmigan notò la cosa e sottolineò il fatto che l’onestà non è sempre solo un premio in sé, ma a volte porta anche benefici di natura materiale. E a questa battuta ci facemmo entrambi una bella risata!
«Certo, quel cliente era importante, ma non sono mai giunto a conoscerlo molto bene. Ne conoscevo meglio altri, e di un paio divenni persino amico. Uno di loro era Johnny Auchtermuchty.
«Johnny aveva dei terreni nei pressi di Comrie. Suo padre, Ginger Auchtermuchty, noto golfista, non aveva saputo occuparsi al meglio della sua proprietà. In effetti, era un pessimo amministratore, e all’epoca in cui Johnny uscì dalla facoltà di agraria del South East Scotland College, tutti pensavano che ormai fosse troppo tardi per ricavare qualcosa dalle loro fattorie. Le recinzioni versavano in condizioni pessime e anche le case coloniche necessitavano di interventi sostanziali. A dire il vero, quando Ginger cedette la tenuta a Johnny per andare a vivere a Gullane, ci aspettavamo di essere incaricati da un momento all’altro di vendere una grossa porzione dei terreni per evitare il fallimento completo.
«Incontrai Johnny per la prima volta quando venne a parlare della possibilità di trovare un finanziamento per le ristrutturazioni essenziali. Preparai l’atto relativo alle garanzie per il mutuo e ricordo di aver pensato che non sarebbe riuscito a restituire neppure una parte di quanto aveva chiesto. Mi sbagliavo di grosso! Johnny dimostrò di avere un ottimo fiuto per la gestione delle battute di caccia e pesca, e nel giro di pochi anni la sua divenne una delle tenute di maggior successo del Perthshire. Johnny, inoltre, era una delle persone più in vista dell’epoca. Amato da tutti, riceveva inviti in continuazione. Era spiritosissimo e raccontava aneddoti meravigliosi.
«Avevo sentito parlare delle feste a casa sua, leggendarie, ma non ero mai stato invitato. Questo fatto mi addolorava un po’, e avevo cominciato a chiedermi se Johnny non mi considerasse solo il suo avvocato, una persona che non valeva la pena di frequentare in società. Sarebbe stato davvero ingiusto. A me le feste piacevano quanto agli altri, e anche se non ero un cacciatore di grande esperienza non vedevo motivo di non essere invitato di tanto in tanto.
«Alla fine l’invito arrivò. Avevo voglia di andare a Mucklemeikle per sparare qualche colpo? Da venerdì a domenica? Risposi che ne sarei stato entusiasta. Non chiesi a cosa avremmo sparato. Betty, che non accolse l’invito con altrettanta partecipazione, avanzò l’ipotesi che si trattasse di caccia al pesce in barile. Voleva solo essere una battuta, ma devo ammettere che al momento non la trovai granché divertente. Anzi, non la trovo divertente neppure ora. In effetti è rimasta poco spiritosa quanto la prima volta che l’ha pronunciata. Davvero.
62. La storia di Ramsey Dunbarton: parte VI
–
Un fine settimana nel Perthshire
«Ecco» disse Ramsey Dunbarton a sua moglie Betty, mentre le leggeva le sue memorie. «Ora le cose si fanno davvero interessanti.»
«Johnny Auchtermuchty!» esclamò Betty. «Che sagoma che era! Ed era anche un bell’uomo, con quei baffoni.»
«Un grand’uomo» concordò Ramsey.
Rimasero in silenzio per un istante. Poi Betty chiese: «E non ne hanno trovato traccia? Nemmeno qualche resto?»
«Nemmeno un brandello» rispose Ramsey triste. «Ma non facciamoci prendere dalla malinconia, Betty. Proseguo con le memorie.» Guardò l’orologio. «Sarà l’ultima lettura per il momento, mia cara. Bisognerà aspettare per sentire il resto.»
«E non siamo nemmeno arrivati alla parte sulla tua interpretazione del duca di Plaza-Toro al Church Hill Theatre» fece notare Betty.
«Ci sarà tempo in futuro» rispose Ramsey. «Ma ora torniamo a Johnny Auchtermuchty e all’invito a Comrie.
«Ero entusiasta, com’è logico, di ricevere l’invito a una battuta di caccia, anche se, a essere sinceri, non avevo sparato molte volte prima di allora. Se vogliamo dirla tutta, anzi, non avevo praticamente mai preso in mano una doppietta, anche se qualche volta avevo tirato al piattello, in gioventù. La caccia non fa proprio per me: mi piacciono molto gli uccelli, e l’idea di abbatterli in volo mi pare un po’ crudele. Ma non spettava certo a me criticare i miei clienti, e di sicuro Johnny Auchtermuchty sarebbe stato assai sorpreso da una mia presa di posizione in tal senso. C’erano schiere di avvocati edimburghesi che non sarebbero stati nella pelle all’idea di passare una giornata a caccia insieme a Johnny, e diversi di loro non si sarebbero certo astenuti da qualche piccolo tentativo di persuaderlo a spostare la cura legale dei suoi affari presso di loro, invece che da Ptarmigan Monboddo. Non intendo certo fare nomi, ma sono sicuro che quelli tra loro che leggono queste righe vi si riconosceranno.
«Betty alla fine decise di non venire, perciò il venerdì pomeriggio partii in macchina da solo alla volta di Comrie. Per l’occasione avevo preso in prestito la Rolls Royce di un amico, e il viaggio fu gradevolissimo: presi la strada che passa per Stirling, prima d’inerpicarmi per le colline alle spalle di Glenartney. Quando arrivai, Johnny, in attesa davanti alla Big Hoose, come la chiamavamo noi, mi disse: ’Bella Rolls, Dunbarton! Voialtri dovete rifilarci delle gran parcelle salate per permettervi una macchina del genere!’ Rimasi un po’ in imbarazzo per la sua battuta e cominciai a spiegargli che in realtà l’auto era di un avvocato di un altro studio, ma lui non mi diede retta. ’Sì, bravo’ incalzò. ’Dai la colpa ai colleghi! Vecchio trucco, Dunbarton!’
«Cenammo tutti insieme, quella sera, e ci divertimmo molto. C’era una coppia dell’Ayrshire e un tale del Fife. La moglie di Johnny era un’ottima cuoca e ci aveva preparato un sacco di piatti squisiti. Le chiesi se poteva darmi le ricette da portare a casa a Betty, ma si rifiutò. Mi parve piuttosto scortese da parte sua, ma temo che da tempo nutrisse del risentimento nei miei confronti, almeno da quando anni prima purtroppo mi aveva sentito dire a qualcuno che Johnny aveva sposato una donna non alla sua altezza. Era un peccato che mi avesse sentito, ma avevo perfettamente ragione. Era così, e penso che lei lo sapesse. Notai anche che mi venne assegnata la camera più piccola della casa, quella in fondo al corridoio, con le lenzuola che non arrivavano fino in fondo al letto. E l’acqua nel thermos accanto al letto non aveva un buon sapore, perciò evitai di berla.
«La mattina uscimmo per andare a caccia. Johnny aveva un guardacaccia che mi prese in antipatia fin da subito, credo, anche se con gli altri era molto cortese. Mi guardò le scarpe e mi chiese se mi sembravano abbastanza robuste per quella battuta: mi parve un’impertinenza e decisi all’istante che da me non si doveva aspettare nessuna mancia, e glielo dissi anche. Veniva dalle Highlands, com’è logico, gente che sa essere piuttosto permalosa quando ci si mette.
«Ci disponemmo lungo una serie di pioli che il guardacaccia aveva piantato nel terreno. Io ero proprio in fondo, posto che sospettavo essere il peggiore, dato che la macchia di cespugli di ginestrone sulla mia destra continuava a graffiarmi. I battitori cominciarono a far uscire gli uccelli dai loro nascondigli e tutt’a un tratto i cacciatori iniziarono a puntare la doppietta in cielo e a sparare all’impazzata. Feci del mio meglio, ma purtroppo nessun uccello sembrava venire nella mia direzione, perciò non presi nulla. Poi all’improvviso un uccello mi volò dritto davanti al naso, io sollevai il fucile e premetti il grilletto.
«Sentii l’urlo del guardacaccia solo quand’era ormai troppo tardi, e a quel punto l’uccello che, l’avevo notato, era nero nero, era già cascato tra l’erica. Allora mi resi conto di aver abbattuto un merlo e me ne dispiacqui moltissimo.
«’Mi dispiace da morire’ gridai. ’A quanto pare ho colpito un merlo.’
«Il guardacaccia venne da me di gran carriera. ’Non era affatto un merlo, signore’ sibilò. ’Era un fagiano di monte.’ Poi aggiunse: ’E vi era stato detto e ripetuto di non sparare a selvaggina di colore nero, signore. Forse se n’è dimenticato’.
«Nel frattempo si era avvicinato Johnny Auchtermuchty. Disse qualche parola al guardacaccia e io riuscii a origliare. Gli ordinò di mordersi la lingua perché non avrebbe tollerato scortesie nei confronti di nessuno dei suoi ospiti. Poi aggiunse qualcosa in merito al fatto che il signor Dunbarton veniva da Edimburgo e non ci si poteva aspettare questo e quest’altro. Non sentii bene il resto del discorso.
«Devo confessare che ero molto imbarazzato da quella situazione, anche se mi piaceva molto la compagnia di Johnny Auchtermuchty, e il resto del gruppo fu assai discreto nei miei confronti e non commentò l’accaduto. Ripartii la mattina seguente, dopo colazione, anche se la partenza non andò nel migliore dei modi. Per qualche motivo, la Rolls non voleva avviarsi, e mi dovettero spingere giù per il vialetto per metterla in moto.
«Povero Johnny Auchtermuchty... mi manca molto. Era l’anima di ogni festa e l’amico più travolgente che potrò mai avere in vita mia. Credo che sia un vero peccato quel che gli accadde e vorrei che si fosse ritrovato almeno un pezzetto del suo corpo, per prendere commiato da lui in modo dignitoso. Invece no. Nemmeno i baffi.»
63. Bertie riceve un invito
L’invito da parte di Tofu venne consegnato solennemente a Bertie nel cortile della scuola steineriana. «Non farlo vedere troppo in giro» disse Tofu sbirciandosi alle spalle. «Non posso invitare tutti. Ci sarete solo tu, Merlin e Hiawatha. E non farlo vedere a Olive. La odio.»
Bertie guardò per un istante l’invito, prima di infilarlo nella tasca della salopette. Era il primo invito che avesse mai ricevuto, da chiunque, ed era comprensibilmente emozionato. Tofu, diceva il biglietto, stava per compiere sette anni e avrebbe festeggiato l’avvenimento con una gita al bowling di Fountainbridge. Bertie era invitato.
«Puoi venire?» chiese Tofu mentre rientravano in classe.
«Certo» rispose Bertie. «Grazie, Tofu.»
Tofu alzò le spalle. «Non dimenticarti di portare un regalo» aggiunse.
«Certo che no» disse Bertie. «Cosa vorresti, Tofu?»
«Soldi» rispose il bambino. «Dieci sterline, se riesci.»
«Vedrò cosa posso fare» disse Bertie.
«Sarà meglio» mormorò Tofu.
In classe, mentre la signorina Harmony leggeva un racconto, Bertie sfiorava con le dita l’invito nascosto in tasca. Si sentiva pervaso dalla gioia: lui, Bertie, invitato a una festa, e oltretutto da solo! Non ce lo portava sua madre; non era lei a scegliere una festa che le piaceva; era qualcosa a cui l’avevano invitato per amicizia! E poi, al bowling: Bertie non si era mai nemmeno avvicinato a una pista da bowling, ma aveva visto foto di persone che lo praticavano e gli sembrava un gioco divertentissimo. Molto più delle lezioni di yoga a Stockbridge, questo era sicuro.
Seduta accanto a lui, Olive guardava le dita di Bertie avvicinarsi alla sagoma nella tasca e muoversi con delicatezza sopra il biglietto ripiegato.
«Cos’hai lì?» sussurrò.
«Come?» chiese Bertie mentre allontanava la mano con aria colpevole.
«Quella cosa che hai lì» insistette Olive. «È qualcosa d’importante, vero?»
«No» rispose subito lui. «Non è niente.»
«Invece sì» disse Olive. «Dovresti dirmelo, sai. Non dovresti avere segreti per la tua fidanzata.»
Bertie si girò a guardarla inorridito. «Fidanzata? E chi lo dice che sei la mia fidanzata?»
«Io, per esempio» rispose Olive, con l’aria di chi spiega qualcosa a uno che ci mette un po’ a capirla. «Ma prova a chiederlo alle altre bambine. Chiedilo a Pansy. O a Skye. Te lo diranno. Tutte le bambine lo sanno. Gliel’ho detto io.»
Bertie aprì bocca per rispondere, ma non uscì nemmeno una parola.
«E allora» riprese Olive. «Dimmi, cos’hai in tasca?»
«Non sono il tuo fidanzato» mormorò Bertie. «Mi piaci, ma non ti ho mai chiesto di essere la mia fidanzata.»
«È un invito, vero?» sussurrò Olive. «È un invito alla festa di Tofu. Scommetto di sì.»
Bertie decise che era meglio ammetterlo. Non erano affari di Olive se lui andava alla festa di Tofu. Anzi, non era affar suo come Bertie passava il tempo. Perché le femmine – e le madri – pensavano di poter dare ordini in continuazione ai bambini?
«E anche se fosse un invito?» rispose Bertie. «Tofu mi ha detto di non dirlo.»
«Ah!» gridò trionfante Olive. «Lo sapevo che era un invito. Ha invitato anche me l’anno scorso, quando ha compiuto sei anni. Ho rifiutato. E anche tutte le altre bambine che ha invitato. Ha cercato di farci pagare dieci sterline per andarci. Lo sapevi? Cercava di vendere biglietti per la sua festa.»
Bertie non rispose, e Olive continuò. «Comunque ho sentito che è stata una festa bruttissima» disse. «Le feste vegane sono sempre molto noiose. Ti danno solo germogli di soia zuccherati e acqua. E basta. Di sicuro non valgono dieci sterline.»
Bertie sentì il dovere di difendere l’amico da quell’attacco frontale. «Andiamo al bowling. Vengono anche Merlin e Hiawatha.»
«Merlin e Hiawatha!» esclamò Olive. «Quelle due mezze calzette! Sono contenta di non venirci. Scommetto che Merlin si metterà quello stupido giubbotto color arcobaleno che porta sempre e Hiawatha quei bruttissimi scarponi militari di cui parla tanto. Ma glieli fanno togliere, sai. Non si può andare con gli scarponi sulla pista da bowling. E allora tutti quanti sentiranno l’odore dei suoi calzini, che hanno sempre una puzza terribile. Pansy dice che si è sentita male – ha proprio vomitato – la prima volta che Hiawatha si è tolto gli scarponi per fare ginnastica. Ragazzi, sarà proprio una bella festa di puzzoni!»
Per Bertie era evidente che Olive era invidiosa. Era un peccato che Tofu non l’avesse invitata, perché in tal caso avrebbe avuto meno voglia di sminuire la festa. Ma Bertie non le avrebbe permesso di rovinargli il gusto di quell’invito, perciò le voltò di proposito le spalle e si concentrò sul racconto che la maestra stava leggendo.
«Neghi l’evidenza» gli sussurrò Olive. «E sai cosa succede a chi nega l’evidenza?»
Bertie si girò. «Cosa?» disse. «Cosa succede a chi nega l’evidenza?»
Olive lo guardò con un’aria di superiorità. Era evidentemente riuscita a mettergli ansia e si godeva la sensazione di potere. «Gli viene il tetano. Lo sanno tutti. Gli viene il tetano e non riesce più ad aprire la bocca. E il dottore deve spaccargli i denti con un martello per fargli bere il brodino. Ecco cosa succede.»
Bertie guardò Olive, sprezzante. «Sei tu quella a cui dovrebbe venire il tetano» sussurrò. «Così la smetteresti di dire certe cose orribili.»
Olive lo fissò. Aveva le narici dilatate e gli occhi strabuzzati dalla rabbia. Poi iniziò a piangere.
La signorina Harmony alzò lo sguardo dal libro. «Che succede Olive?» chiese. «Cosa c’è che non va, tesorino?»
«È questo bambino» singhiozzò Olive, indicando Bertie. «Dice che spera che mi venga il tetano.»
«Bertie?» disse la maestra. «Hai detto che speri che a Olive venga il tetano?»
Bertie abbassò gli occhi a terra. Era così ingiusto. Non aveva cominciato lui a parlare di tetano... era stata Olive, e ora davano la colpa a lui.
«Dal tuo silenzio deduco che sia vero» proseguì la signorina Harmony alzandosi in piedi. «Sono molto delusa, Bertie. È una cosa molto brutta augurare a qualcuno di prendersi il tetano. Lo sai, vero?»
«E se si prende il tetano mentre ci si bacia?» intervenne Tofu. «Si rimane con le labbra incollate?»
Tutti risero della battuta, e Tofu fece una smorfia, compiaciuto.
«Tofu, liebling, non è per niente divertente» disse la signorina Harmony.
«E allora perché hanno riso tutti?» ribatté lui.