26

«Non è che non sia stanco di nascondermi» disse la voce bassa e aspra dall’altro lato della grata, una voce esausta e ancora più debole adesso che era priva dell’evidente supporto della presenza fisica, come quelle voci che al telefono cambiano completamente, rivelando cose che lo sguardo altera o confonde, «il fatto è che sono troppo vecchio. Non è onesto vivere mentendo e nascondendosi quando si sono superati i cinquant’anni, non ne ho più la volontà, ecco, mi manca il coraggio, la fede cieca, la chiami come vuole, ciò che continua a sostenerci quando si sono perduti ideali e speranze. Fra poco potrei andare in pensione, se volessi. Me lo hanno suggerito nel concedermi il trasferimento, potevo richiedere un incarico amministra-tivo, magari in un ufficio stampa, o anche qualcosa di meglio, una consu-lenza presso il Ministero, come riconoscimento per tutti i miei anni di esperienza, per il servizio prestato, come si diceva una volta. Non so se l’hanno detto per premiarmi o per liberarsi di me e forse non lo sanno nemmeno loro, non c’è mai niente di chiaro in questo lavoro, sono anni che non sappiamo con esattezza chi sta dentro la legge e chi ne è fuori, chi mente e chi dice la verità. Ma mi ha spaventato molto il pensiero che stesse per arrivare ciò che avevo sempre ritenuto tanto lontano, il ritiro, o peggio ancora la pensione, è una parola terribile la pensione, come la vecchiaia, perché uno crede sempre che quelli che diventano vecchi e muoiono siano gli altri, come coloro che subiscono gli attentati. Ogni volta che ammazzavano o ferivano gravemente uno dei nostri, io cercavo di scoprire dove aveva sbagliato, che imprudenze aveva commesso, era un modo di sentirmi più tranquillo, di sentire che non tutti eravamo uguali, che esisteva un sistema per diminuire il pericolo e perfino per evitarlo. Ovviamente mi ingannavo, nessuno può prendere tutte le precauzioni né prevedere ogni eventualità, nessuno può essere completamente sicuro che non ci sia qualcuno pronto a togliergli la vita mettendo a repentaglio la propria. Guardi quei terroristi palestinesi, si fissano allo stomaco con un cerotto un pacchetto esplosivo che non costa né pesa più di un walkman, salgono su un autobus a Gerusalemme e provocano un massacro, è la cosa più facile del mondo, non ci vuol niente. Guardi cosa accade qui da noi, i lanciarazzi e i sistemi di comando a distanza, spesso più moderni dei nostri, e c’è sempre gente disposta ad aiutarli, a informarli su orari e abitudini delle vittime prescelte. Io pensavo, mi convincevo, di avere tutto sotto controllo, ma era un’allucinazione, come quando uno ha bevuto e sale in macchina ed è convinto di guidare molto bene, di vedere tutto chiaramente e che non gli tremano le mani. È una menzogna, una menzogna molto verosimile in ogni dettaglio, una di quelle menzogne inventate dai grandi truffatori, di una perfezione che le rende sospette, perché nella vita reale niente è così im-peccabile, tutto pare il risultato del caso o della fretta o dell’improvvisazione, di un impeto di collera, come la maggior parte dei delitti, tranne i delitti politici o quelli dei professionisti, che poi si assomigliano molto.»

La voce tacque, padre Orduña sentì che l’uomo deglutiva ed ebbe l’impressione di non conoscere chi gli parlava, il volto celato dalla fredda penombra della chiesa, frazionato dagli orifizi a forma di rombo della grata.

«L’alcol serve a questo» continuò la voce monotona, dubbiosa, come se temesse di divagare «per creare finzioni. Uno guida ubriaco e si gioca la vita, la propria e quella degli altri, ma crede di avere i riflessi intatti, ha gli occhi iniettati di sangue e l’alito che puzza di whisky e pensa che nessuno se ne renda conto, che tutto sia sotto controllo. E così vive, anni e anni, sempre più perso nei propri simulacri, fantasmi di conversazione, amicizia, eroismo, desiderio sessuale. Io pensavo di essere coraggioso perché non chiedevo il trasferimento nonostante le minacce di morte, ma non era coraggio, era una testardaggine da ubriaco, l’ubriaco peggiore, quello che non sa fino a che punto lo è, quello che riesce ancora a simulare di fronte agli altri. In effetti simulare non è difficile, di gente che beve ce n’è molta, si proteggono a vicenda, e inoltre nessuno ci fa troppo caso, come dice una mia amica, Susana Grey, non so se la conosce o se si ricorda di lei, mi ha detto che da ragazza partecipava alle vostre riunioni, quelle dei cristiani di base. Non si spazientisca, non ho perso di nuovo il filo, sono qui proprio per parlarle di lei, ma prima voglio spiegarle qualcosa che forse lei non può capire, perché di sicuro non ha mai bevuto in vita sua.»

«Assaggio tutti i giorni il vino della messa, non ricordi?» disse in tono ironico padre Orduña, e la voce riprese a parlare con una sfumatura di risentimento aliena a ogni umorismo, a ogni dilazione.

«Cominciavo a bere ed era automatico, mi veniva subito voglia, scusi la parola, dovevo cercare una donna qualsiasi, e in fretta, senza tante parole o giochi di seduzione, senza nessun sentimentalismo, senza nemmeno pensare che tradivo mia moglie. Fra l’altro non avevo tempo, dovevo tornare a casa a un’ora più o meno ragionevole, dovevo timbrare il cartellino, come diceva sempre un mio collega che è stato ammazzato in un ristorante mentre mi stava aspettando. Quando sono arrivato, c’era ancora il suo bicchiere di whisky sul tavolo, il whisky e il caffè appena ordinati e la sigaretta nel posacenere. C’erano locali notturni dove ci conoscevano e non ci facevano pagare perché eravamo poliziotti, può immaginarlo, succede ovunque, e spesso finivamo lì, o ci finivo da solo, preferivo così, mi sono sempre vergognato, come quando gli altri ragazzi del collegio si masturbavano in gruppo, facevano a gara a chi veniva per primo. Telefonavo a mia moglie per dirle che avevo molto lavoro, che non mi aspettasse, molte volte non la chiamavo nemmeno, pensavo di farlo e rimandavo, e quando guardavo l’orologio ormai era talmente tardi che non valeva più la pena di chiamare, forse dormiva già, o si sarebbe spaventata nel sentire il telefono a quell’ora.

Invece non dormiva, non dormiva né credeva una sola parola di quello che le raccontavo, mi aspettava sveglia, in vestaglia e pantofole, guardando la televisione fino alle ore piccole. Io arrivavo, le raccontavo una bugia e lei si lamentava che non l’avevo avvisata, scoppiava a piangere, e io provavo più che altro noia, speravo che la piantasse per infilarmi a letto, perché era sempre la stessa storia, tutt’e due facevamo e dicevamo le stesse cose, lei con i suoi rimproveri, io con le mie scuse e le mie menzogne, sempre così, non so per quanti anni, e ogni volta era peggio, perché nel frattempo erano cominciate le telefonate anonime, le minacce, mi cambiavano il numero di telefono e quelli ci mettevano una settimana a scoprire quello nuovo, ed era lei che li ascoltava, io non ero mai in casa. Alla fine non riusciva più a sopportare nessuno squillo, il telefono, la sveglia, il forno, la atterrivano tutti, e dove si trova adesso non permettono che li senta, quando c’è una telefonata per lei una suora la avvisa.»

Padre Orduña ascoltava con la testa bassa, china verso la grata, gli occhi socchiusi, le mani giunte in grembo o che giocherellavano con l’orlo della stola, una posizione che non era dettata dalla liturgia, solo dall’abitudine e dalla pazienza nell’ascoltare, in tanti anni e in quello stesso luogo, sapendo che i suoi interlocutori non esigevano la sua attenzione, bensì la sua sola presenza dall’altra parte, il rumore del suo respiro o dei suoi movimenti, la certezza che qualcuno ascoltava, una certezza che conteneva già una forma di sollievo, di assoluzione richiesta e sempre concessa. A volte si addor-mentava nel confessionale, sempre più spesso ora che il suo sonno era diventato più leggero e irregolare, un sonno inquieto e lieve da vecchio.

Quella mattina si era svegliato molto prima dell’alba, e nell’udire che stava piovendo aveva provato un sentimento di gratitudine, una sorta di preghiera detta con il cuore, e al tempo stesso l’indolenza di rimanere a letto ad ascoltare la pioggia, perlomeno quella dose d’indolenza rudimentale che poteva permettergli un carattere come il suo, portato all’azione, così poco in-cline all’indulgenza per se stesso, nel bene e nel male.

La pioggia sferzava i vetri della finestra e il vento soffiava forte sui grandi spiazzi dove una volta c’erano le officine e la fattoria, e dove adesso si vedevano edifici in costruzione, gru che oscillavano con stridori metallici mentre le fosse delle fondamenta e dei garage sotterranei che stavano scavando si riempivano d’acqua, di fango grigio e denso. Cercò a tentoni il pulsante della lampada e quando la luce si accese, gli caddero gli occhiali.

Si alzò per raccoglierli e le piante dei piedi gli si gelarono a contatto con le piastrelle. Si avvolse in una vecchia vestaglia a quadretti, si lavò la faccia con acqua freddissima, nel piccolo bagno attiguo alla camera, dove c’era anche la doccia. Padre Orduña non viveva poveramente perché aveva scelto di rinunciare alle comodità imprescindibili per altri: viveva così perché non avrebbe saputo vivere in modo diverso, perché gli agi di cui gli altri godevano gli erano indifferenti. Guardava di sfuggita le vetrine dei negozi e ricordava lo stupore di Socrate davanti all’abbondanza nel mercato di A-tene: “Quante cose esistono che a me non servono”. Gli piaceva il suo letto stretto, con le sbarre cilindriche antiquate, addossato alla parete, e fino a poco tempo prima ci aveva dormito benissimo, nonostante la scomodità, le lenzuola ruvide e il materasso sottile; nemmeno il comodino, sbeccato agli angoli, né la lampada di colore azzurro metallizzato gli parevano ciò che erano, testimonianze di una modernità ormai decrepita degli anni Sessanta che aveva avuto particolare successo tra i fornitori di mobili per istituzioni ecclesiastiche. Non sempre riusciva a vivere in armonia con la sua anima, ma si sentiva in pace nella sua camera, che non chiamava cella perché gli sarebbe sembrato presuntuoso. Il freddo lo rinvigoriva, e quando si svegliava la mattina e camminava scalzo sulle piastrelle, non veniva nemmeno sfiorato dal pensiero che sarebbero stati sufficienti un tappetino e un calo-rifero perché la stanza diventasse più accogliente. Si alzava molto presto perché non conosceva il piacere di indugiare a letto e non doveva vincere la tentazione della pigrizia per il semplice fatto che non l’aveva mai conosciuta.

Alle sette meno un quarto era già vestito, con il maglione grigio dal collo alto e i pantaloni blu identici a quelli che usava quando era un prete operaio, con le scarpacce nere che chiunque avrebbe buttato via almeno da dieci anni, ma che lui portava ancora, facendole risuolare dall’unico ciabat-tino rimasto in città, figlio di un calzolaio comunista con il quale padre Orduña aveva avuto, in altri tempi, discussioni interminabili e appassiona-te sull’esistenza di Dio, la natura umana o divina di Gesù, il messaggio di rivoluzione sociale dei Vangeli - discussioni fatte a bassa voce, naturalmente, al riparo del portone dove entravano le donne con le scarpe vecchie avvolte nei giornali, teologia operaia e clandestina.

Le sue scarpe scricchiolarono quando attraversò i corridoi vuoti della residenza, rischiarati da luci fioche negli angoli, come nelle strade di una città disabitata, con le piastrelle bianche e nere che sfumavano nella fredda oscurità e nello sguardo miope di padre Orduña, che aveva sempre l’impressione di essere isolato in nebulose distanze. Tanti se n’erano andati o erano morti, e la residenza sembrava più grande, sembrava che si fosse moltiplicato il numero delle stanze, delle camerate e delle aule, la lunghezza dei corridoi e delle scale, la monotonia aritmetica delle piastrelle bianche e nere, alcune che traballavano sotto i piedi di padre Orduña che scendeva a passi lenti ed energici verso la chiesa, con la testa grande e robusta, il mento proteso in avanti, le mani dietro la schiena o, per precauzione, sulla ringhiera delle scale, le ginocchia che avanzavano come se trovassero ancora la resistenza di una tonaca, benché fossero ormai molti anni che non la indossava. Ricordava ancora il putiferio che si era scatenato in città tra i parroci, le beghine, la fazione cattolica, come si diceva allora, scon-certati e furiosi perché un gesuita andava in giro in clergyman, anche se era possibile che nessuno lo avesse visto, era tutto un bisbigliare di pettegolezzi nelle sagrestie e durante le novene, attorno ai tavoli dove si fossi-lizzava ogni sera il tedio del rosario, in qualche caffè: questo prete che è nipote del generale della statua è passato per la via Nueva in borghese, giacchetta nera e colletto, come un protestante, è sempre stato un rosso; lo vedevano arrivare e gli negavano il saluto, lo incrociavano e guardavano altrove, un veterano della División Azul che girava ancora con la pistola alla cintola gli sputò davanti ai piedi e cambiò marciapiede, un venerdì santo di sera, in mezzo alla gente.

Ora questi fatti gli parevano irreali. Sembrava impossibile che fossero davvero accaduti, e ancora più impossibile che il tempo li avesse inghiotti-ti, tanto sembravano solidi, indistruttibili. Per arrivare in sagrestia padre Orduña doveva attraversare un cortile. Erano molti anni che nessuno giocava a pallacanestro, ma erano rimaste le linee bianche sull’asfalto e le strutture metalliche dei canestri. Volle affrettarsi, ma finì con i piedi dentro una pozzanghera che non aveva visto, gli caddero gli occhiali, e per più di un minuto si vide umiliato e anche un po’ ridicolo, chino nel buio, sotto la pioggia scrosciante, mentre cercava gli occhiali con il timore di calpestarli nell’incertezza nebbiosa della miopia.

Si era inzuppato i vestiti. In sagrestia si strofinò i capelli e il volto con un asciugamano, pulì accuratamente le lenti degli occhiali e accese una stufetta elettrica per asciugarsi i piedi. Le si sedette un momento vicino, tanto che subito le suole delle scarpe presero a puzzare di gomma bruciata.

Si sfregava le mani, come un uomo molto vecchio, vinto dal freddo della mattinata, preoccupato di poter prendere un raffreddore o addirittura una polmonite se si fosse tenuto addosso quelle calze pesanti e umide per tutta la messa, nel gelo della chiesa vuota.

Spesso, soprattutto d’inverno, non c’era nessuno sulle panche, e padre Orduña diceva messa solo per se stesso, ma non gli importava. Il portiere della residenza, vecchio quasi quanto lui, apriva la chiesa e accendeva le luci. Si vestì senza molto entusiasmo, e il contatto con i paramenti e il metallo gelido del ciborio lo fecero rabbrividire. Andò verso l’altar maggiore, cosciente delle sue calze bagnate, del suo passo lento e della schiena più curva del solito, appoggiò le mani sull’altare, si inginocchiò per farsi il segno della croce e nell’alzare gli occhi vide poche figure, le donne di tutti i giorni confuse nella distanza e nella penombra. Ma c’era anche qualcun altro, in fondo alla navata, una figura più alta, impossibile da identificare, la macchia verde di un soprabito o una giacca a vento, un uomo non abituato a stare in chiesa o che non ci andava da tanto tempo e ignorava le novità della liturgia. Padre Orduña lo riconobbe, e quando terminò la messa, invece di ritirarsi, come aveva previsto, per cambiarsi il maglione e le calze e prepararsi un bicchiere di latte caldo, si mise la stola sul maglione e si diresse lentamente verso il confessionale, senza saper bene se si recava a un appuntamento o se formulava un invito.

«Pensavo a lei molto spesso. In realtà, quando credevo di nascondermi, forse mi nascondevo da lei, da ciò che avrebbe pensato di me se avesse saputo che all’università mi guadagnavo da vivere passando informazioni al-la brigata politico-sociale sugli studenti del mio corso, o se mi avesse visto scendere ubriaco da un’automobile, entrare in un locale equivoco e andare a letto con una prostituta che mi serviva gratis perché ero un poliziotto.

Non credo in Dio e da quando mi sono sposato non ho più messo piede in una chiesa, se non per i matrimoni o i funerali, ma a volte, non so perché, mi assale il bisogno di confessarmi e di essere perdonato, un bisogno im-perioso, non adesso, naturalmente, non oggi, non è per questo che sono qui. Ormai sono mesi che non bevo e che non vado a donne. Ho smesso di bere e di fumare di colpo, un po’ prima del trasferimento. Una notte sono rincasato più ubriaco del solito, mi sono svestito al buio, come facevo negli ultimi tempi, da quando mia moglie non mi aspettava più alzata, mi so-no spogliato sbattendo contro i mobili, facendo un rumore d’inferno, ma lei non si muoveva, e non credo neppure che si scomodasse a fingere di dormire, mi girava la schiena, dalla sua parte del letto, pareva un fagotto alla luce dei numeri della sveglia, volevo capire se respirava come chi dorme, e al tempo stesso volevo che non si accorgesse dello stato in cui mi trovavo, ero certo che ci sarei riuscito. Adesso so che era impossibile, da quando non fumo e non bevo sento addosso agli altri l’alcol e il tabacco, nei vestiti e nell’alito, ne percepisco l’odore con molta forza, e capisco che quando arrivavo a casa la puzza che mi accompagnava doveva essere tremenda, impossibile da celare. Ma gliel’ho detto, uno crede di controllare tutto e non controlla niente, è alla mercé di qualsiasi tipo d’incidente, di qualsiasi disgrazia, poteva avermi ammazzato uno di quei terroristi che mi minacciavano per telefono e mi lasciavano lettere anonime nella cassetta della posta oppure potevo essermi ammazzato da solo con la macchina, o facendo a botte con ruffiani o spacciatori in uno di quei locali dove fingevo di andare per ragioni di lavoro, o immaginandolo e credendolo io per primo, raccon-tandomi una bugia come la raccontavo a mia moglie. Queste erano le menzogne peggiori o le più pericolose, quelle che inventavo per me stesso credendoci come se me le raccontasse un altro, l’individuo che si impadroniva di me quando ero veramente ubriaco. A volte, nello svegliarmi di notte, ancora intontito dalla sbornia, mentre stavo disteso a letto al buio di fianco a mia moglie, sentivo che nella stanza c’era qualcun altro e mi invadeva il panico, ma non osavo accendere la luce, per non svegliarla, e quell’altro continuava a stare lì, come per spiarmi mentre dormivo, vedevo la sua ombra e quando battevo le palpebre capivo che era solo una giacca gettata su una sedia. A volte dimenticavo le cose, dalla mia mente si cancellavano ore, perfino intere serate, e quando mi succedeva era perché l’altro si era impossessato di me e mi rubava perfino i ricordi. Una notte arrivai a casa tardissimo, mi buttai sul divano senza togliermi le scarpe e la cravatta e mi addormentai, ma la mattina dopo mi svegliai a letto, con indosso il pigiama, un mal di testa accecante, i polmoni bruciati dal tabacco e senza il minimo ricordo. Ma quest’altra notte che voglio raccontarle, l’ultima, mi sentivo così ubriaco che avevo paura di guidare, e inoltre non ricordavo dove avevo parcheggiato la macchina. Continuai a camminare non so per quanto tempo, sotto la pioggerellina fitta del nord, e non so come riuscii ad arrivare a casa. Cercavo un taxi, ma non ne passavano, e io camminavo, senza che il freddo e il movimento mi facessero passare la sbornia. Mi fermai due o tre volte a orinare, quelle pisciate lunghe da ubriachi che puzzano di alcol. Arrivai al portone, guardai in su per vedere se era ancora accesa la luce in casa mia, e così inciampai e caddi. Ignoro quanto tempo rimasi per terra, a faccia in giù, senza muovermi, per fortuna c’era una pensilina che mi riparava dalla pioggia. Ero lì steso, cosciente, con il viso contro il selciato freddo, si immagini se in quel momento fosse arrivato qualche vicino, ci penso ancora e mi vergogno. Mi piaceva rimanere lì, non avevo nessuna voglia di rialzarmi e di entrare in casa, in quel momento capii gli ubriachi che dormono in strada, sdraiati su un marciapiede. Non si può cadere più in basso, ed è vero, letteralmente, si sperimenta la tranquillità di aver toccato il fondo, non c’è più nessun pericolo di cadere o di soffrire di vertigini, e la terra è così ferma, così sicura, così vasta che pare non ti possa succedere più nulla, hai una sensazione di forza e di serenità, di serenità e di abbandono, sembra che sia la legge di gravità a proteggerti. Pensavo che poteva arrivare o uscire qualcuno, sebbene fossero le quattro o le cinque del mattino, ma la vergogna non era un motivo sufficiente per alzarmi.

Mi tirai su perché mi stavo congelando, e nell’alzarmi in piedi mi venne un tale capogiro che quasi caddi un’altra volta, mi mancava già la sicurezza della terra, la santa terra, come diceva una volta la gente. Immagini se potevo andare a letto senza far rumore, o come potevo credere che mia moglie fosse addormentata e di riuscire a non svegliarla. Sapevo che appena mi fossi sdraiato mi sarebbe venuta la nausea, e ciononostante mi infilai sotto le coperte, e lei si ritrasse, come per evitare anche il minimo contatto.

Appena chiusi gli occhi, mi assalì l’idea che ci fosse un intruso nella stanza, e poi la nausea, la sensazione che se non mi fossi alzato e non avessi acceso la luce sarei morto. Mi alzai a tentoni, riuscii ad arrivare in bagno, sedetti sul water e cominciai a vomitare, e non avevo nemmeno la forza di scostare la faccia in modo che quello che vomitavo cadesse per terra. Mi vomitai addosso, sulla giacca del pigiama, sui pantaloni calati fino alle ginocchia, e l’odore del vomito mi provocava altri conati. Ero lì con la testa penzoloni e la bocca aperta, sbavavo e guardavo quel disastro come un idiota, come se il tizio che vomitava non fossi io. Dovevo mettere in ordine tutto perché mia moglie non lo vedesse, pulire il bagno e lavarmi, buttar via il pigiama, le mutande, le ciabatte inzaccherate di vomito, e io seduto sul water, incapace di muovermi, avrei voluto morire, desiderai di essere morto più di quanto avessi mai desiderato vivere. Non so come riuscii a pulire il bagno, di questo ho soltanto un ricordo vaghissimo, non rammento neppure se ero stato io, fatto sta che il mattino dopo mi svegliai alle undici e non avevo sentito la sveglia. Avevo addosso un pigiama pulito e mi sentivo i polmoni oppressi come da un masso, mia moglie non c’era, andai in bagno e tutto era in ordine, come se la notte precedente fosse stata un sogno, ma guardandomi allo specchio vidi che avevo un taglio e un livido scuro sul sopracciglio destro. Da quel giorno non ho più né fumato né bevuto. Non è stata una decisione, non mi è costato fatica, al contrario, se sentivo odore di alcol o di tabacco mi veniva la nausea, mi tornava l’orribile malessere di quella notte. Negli ultimi tempi mi capita di bere un po’ di vino, ma solo quando sono con la donna di cui volevo parlarle, Susana, Susana Grey.»

La voce si interruppe, forse per riprendere fiato dopo tante parole, o forse in attesa di una domanda che padre Orduña non fece; il prete teneva la testa china, attento, stanco, annuiva lentamente e si sfregava le mani, sentendo il freddo e l’umidità nei piedi, le avvisaglie del raffreddore.

«Sa come mi sentivo dopo aver smesso di bere? Non provavo angoscia, né la delusione di tornare a vedere la realtà, gli oggetti e i visi della gente.

Era come se me ne fossi andato prima ancora di lasciare il nord, come se mi fossi trasferito in un paese più freddo, con l’aria più limpida, come certe mattine quando la notte ha gelato e il cielo è terso e azzurro. Niente mi apparteneva in quel paese, tutto era più intenso, più definito, i colori, gli odori soprattutto, qualcuno sbucciava un’arancia a venti metri da me e io ne sentivo l’aroma, o incrociavo una donna per strada e notavo il momento esatto in cui entravo nel raggio del suo profumo. Ma tutto questo rimaneva lontano, perché il paese dove abitavo, e che non volevo lasciare, in verità non era il mio né lo sarebbe mai stato. È difficile da spiegare, in questo paese splendeva sempre una luce mattutina e io venivo da un luogo dove era sempre notte, una notte artificiale e chiusa, piena di bar fumosi. Non avevo nostalgia né voglia di tornarci, avevo capito subito che la vita di prima era finita, ma mi rendevo conto che non sarei mai diventato un cittadino di quel paese nuovo, che sarei stato di passaggio finché non mi ammazzavano o morivo, che mi commuovevano gli odori e i colori delle cose ma non le persone, tutte straniere, ostili o amichevoli, ma che mi erano indifferenti.

Poi, due mesi fa, quando è accaduto il fatto della bambina, Fatima, quando l’ho vista morta nel terrapieno, nuda, con solo le calzine bianche, mi sono reso conto che non avevo quasi mai provato un sentimento vero, in confronto a ciò che provai di fronte a quel corpo livido, giallo, e guardi che ne ho visti di orrori, gente uccisa e fatta a pezzi, cadaveri putrefatti, il peggio che si possa immaginare, ma in realtà in me c’era qualcosa che non veniva mai toccato, e io lo prendevo per forza d’animo, per coraggio fisico, invece era indifferenza, o al massimo odio, un’intossicazione di morte e di rabbia, magari vedevo il cadavere di un collega, di qualcuno appena assassinato ed ero ebbro di morte e non me ne rendevo conto, come delle mie sbronze.

Però soffrire, soffrire davvero per qualcuno, non odiare, non desiderare di vendicarmi o di farmi giustizia da solo, soffrire come se mi avessero strappato qualcosa, come se mi avessero amputato un braccio senza anestesia, l’ho provato soltanto quella volta. Io non ho figli, non mi importava, e quando si scoprì che mia moglie non poteva averne in fondo per me fu un sollievo; ma quando vidi Fatima sentii che quella bambina violentata e uccisa era mia figlia, io che non ho mai avuto la vocazione alla paternità, non mi dicevano niente i bambini. Ho cominciato ad accorgermi di loro in questi mesi, parlando con i compagni di Fatima, fermandomi davanti alle scuole in cerca di facce sospette, volti e occhi, come mi ha detto lei, padre.

E una serie di eventi che si intrecciano, questo è il fatto più singolare, a pensarci, se non mi avessero mandato qui non avrei visto quella bambina con gli occhi e la bocca spalancati e le calzine bianche, forse lo avrei ap-preso dai giornali o dalla televisione, o magari no, e non avrei conosciuto Susana, non ricordo se le ho detto che era la maestra di Fatima. La prima volta che l’ho vista è stato per chiederle qualcosa della bambina, e mi pare di non averla neanche osservata bene, ho notato solo che aveva un marcato accento madrileno. Lei invece ricorda tutto, come ero vestito, ogni mia parola, del resto dice che di solito la gente non fa attenzione a nulla e non si ricorda di nulla, e ha ragione anche su questo, io credevo di essere un attento osservatore e lei mi ha dimostrato che non è vero, che oltre a non sentire niente non vedevo quasi niente. È come quella storia della Bibbia che lei ci spiegava, non la ricordo più bene, qualcuno che diventò cieco perché gli si erano coperti gli occhi di scaglie, “una specie di scaglie”, questo sì lo ricordo chiaramente, le sue parole, “una specie di scaglie”.»

«Il padre di Tobia» disse il prete. «Pensavo che avessi dimenticato tutto.»

«Anch’io lo credevo, ma era un inganno, come l’alcol, come tutte le finzioni della mia vita, solo che il primo a cadere nel tranello ero io. Credevo di vedere e non vedevo niente, credevo di capire e ignoravo tutto, credevo di avere esperienza con le donne, figuriamoci, se fossi morto senza incontrare Susana non avrei mai saputo cosa significa desiderare veramente una donna. Le sembrerà volgare o indelicato, ma è vero, e non so spiegarlo nemmeno a Susana, mi vergogno, le giuro che non sapevo che potesse essere così dolce e facile, e mi scuserà se sono venuto a raccontarle un adulterio, a raccontarglielo e non a confessarmi né a chiedere l’assoluzione.

Non ho il cuore pesante, come dicevate voi, e non ho intenzione di pentir-mi. Sono stato con lei fino a mezz’ora fa, era la prima volta che dormivo a casa sua. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse tanti libri, tanti dischi, di generi musicali di cui nemmeno sospettavo l’esistenza, riesce a farmi sentire un novellino, un principiante in tutto, alla mia età, pensare che ho quasi vent’anni più di lei, mi ritrovo a chiedermi a che cosa ho dedicato il tempo della mia vita, oltre che a lavorare, a bere, a fingere e a nascondermi. Nemmeno questo mi è mai successo, né con donne né con uomini, la voglia di ascoltare qualcuno, di imparare da lui, non come certi pedanti che c’erano all’università, i saccenti che umiliavano chi non era altrettanto colto. Una persona che sa veramente qualcosa, voglio dire, con naturalezza, come lei, Susana, a volte prende un po’ in giro se stessa, dice che non avrebbe letto tanti libri e non avrebbe ascoltato tanti dischi se fosse stata più fortunata con gli uomini. Che vergogna, adesso scopro di non sapere niente, di non essermi mai preoccupato d’imparare né di capire niente, all’improvviso non so come ho speso la mia vita, salvo che nell’avere paura, nel combattere terroristi e bere whisky. Ieri sera, quando so-no arrivato a casa di Susana, mi sentivo smarrito, le avevo comprato dei fiori e una bottiglia di vino ma in ascensore mi è venuto il dubbio che i fiori fossero troppo appariscenti e il vino pessimo. Non avevo mai badato a questi particolari. È come se ripartissi da zero. Non è proprio così, ma mi piace pensarlo, e la verità è che molte cose mi stanno succedendo per la prima volta. Le sembrerà strano, ma io non avevo mai dormito con una donna che non fosse mia moglie, non avevo mai dormito così, abbracciati e nudi tutti e due, a raccontarle queste cose mi sento un po’ ridicolo, ma anche orgoglioso. Si è svegliata mentre mi stavo alzando ed è andata in cucina a fare il caffè, ho sentito il profumo mentre mi radevo nel suo bagno, era pieno di lozioni e di creme, ieri sera me le ha mostrate ed è scoppiata a ridere, ha detto che chiunque vedesse tanti prodotti di bellezza penserebbe che è conciata davvero male. Ho aperto i vasetti di crema, le boccette di profumo e li ho annusati tutti, ho annusato anche il suo accappatoio. Quando sono uscito dal bagno lei era seduta al tavolo di cucina, davanti al mio caffè, spettinata, con una vestaglia di seta a fiori rosa, credo, la vestaglia era mezza aperta, e lei aveva le gambe accavallate, era inson-nolita ma si era messa il rossetto, soltanto per salutarmi, nemmeno questo mi era mai successo, mi ha accompagnato fino all’ascensore e mi ha dato un bacio sulla bocca, e ora non faccio che pensare a quando potrò rive-derla, vorrei telefonarle per invitarla a pranzo, anche se non credo che possa, deve essere a scuola per le tre e mezzo. Non voglio pensare a nient’altro per il momento, a quello che farò domani e dopo, quando andrò alla clinica, non so cosa farò e non ho nemmeno voglia di continuare a fingere, né la voglia né l’età, non mi pento, sarò un mascalzone ma non mi sento colpevole. Anche questo per me è una novità, non ho sensi di colpa o rimorsi, adesso non mi è più indifferente morire. Non sono stato coraggioso in tutti questi anni, quando pensavo di aver dominato la paura e che non mi importava se mi ammazzavano: la verità era che non conoscevo la differenza tra l’essere vivo e l’essere morto.»

La voce smise di parlare, ma padre Orduña sentiva ancora il respiro dietro la grata e vedeva l’ombra silenziosa e in attesa, un’ombra che si confondeva con quelle degli uomini e delle donne che si erano inginocchiati per mormorare peccati e colpe ormai lontani, confidenze vili, sussurrate con paura o vanità, con l’urgenza di ricevere un’assoluzione, peccati meschini o atroci, adulteri monotoni, il desiderio di possedere i beni o le donne altrui, turbamenti terribili che rimanevano nascosti nelle coscienze per anni o decenni, nella voce sommessa di un’ombra alla quale molte volte padre Or-duña non aveva potuto dare un volto. Rimase in silenzio, ma l’ombra aspettava, l’uomo che si era confessato per la prima volta in quello stesso luogo più di quarant’anni fa: padre Orduña non sapeva cosa aspettava e credeva che nemmeno l’altro lo sapesse. Lo sentiva respirare, inquieto, stupito dalla scoperta di una nuova vita, dalla possibilità di godersi quel dono, incapace di accettarlo ma anche di dimenticare la vita più mesta che lo aspettava, l’ufficio dove sarebbe tornato, i suoi obblighi coniugali, lo sguardo sbigot-tito e spento della donna che sarebbe andato a trovare la domenica. Vecchio e austero, protetto dalla nicchia del confessionale, con i piedi gelati, con un principio di febbre e la testa pesante, padre Orduña sentì pietà per lui e per tutte le ombre che l’avevano preceduto dietro la grata, pietà e gratitudine nei confronti della provvidenza o della misericordia divina per avergli risparmiato le inquietudini e la sofferenza della passione, che lo avevano soltanto sfiorato nel corso della vita, proprio come era stato quasi sempre immune allo scoraggiamento e alle malattie. Chi sono io per giudicare o perdonare quello che mi vengono a raccontare, pensava, cosa posso sapere dei loro desideri o dei loro tormenti?