Il vecchio voleva che avessi una busta paga blindata.

Strano per il vecchio, mio padre, strano per un avvocato, che rischia di avere gli stessi alti e bassi di un banco del pesce. Lavori? Incassi. Nessuno si presenta al bancone? Non incassi. Perdi le cause? Incassi male.

In realtà, avrebbe solo voluto che lo seguissi nella carriera come fece lui col suo vecchio, e il vecchio col suo vecchio e così via, non so nemmeno da quando.

Da tanto però, così tanto da fare dei Saporito uno degli studi legali più rispettati e temuti di questa città.

Ecco cosa li rende diversi da un qualsiasi bancone di gamberi e muggini.

C'è questo e un'altra cosa che fa la differenza.

Il pesce lo puoi vendere senza laurea. Il tuo nome sulla targhetta in ottone dello studio legale, invece, non lo puoi far incidere sino a che non hai dato ventiquattro esami, e dopo aver seguito un numero interminabile di lezioni, e leccato qualche culo d'assistente o professore. Diversamente gli appelli si moltiplicano e con loro le lezioni, le fotocopie delle dispense, le ore a studiare. Sennò si allontana sempre più la data per fissare la tesi di laurea, che è un altro bel mazzo ed è solo la porta d'accesso a un altro incubo. Esame di Stato, prova scritta e orale.

Fatti i conti, se non sei un fulmine di guerra, in tutte queste operazioni ti scappano dai cinque ai dieci anni di vita. Conoscendomi, ce ne sarebbero voluti sicuramente dieci. Dieci anni. Dai venti ai trenta, i migliori.

Dieci anni per far incidere il mio nome su quella targa che dà luce all'intonaco spento ma blasonato della vecchia palazzina di famiglia. Blasonato, come dice mio padre. Un palazzotto che nessuno del clan vuol far restaurare all'esterno: perderebbe quel tono austero che si addice al nostro, anzi al loro, marchio di fabbrica.

Vibra mio padre quando ancora il cugino Nanni, che nella famiglia è del ramo degli architetti, gli propone una bella laccata di rosa e cerca di spiegargli che nel 1889 quello era il colore originale della facciata.

Vibra e sbianca cercando lo sguardo complice di mio fratello, che si aggiusta il grosso nodo della cravatta, e muove lentamente la testa in avanti in segno di assenso con rischio di strozzarsi per via del colletto della camicia, alto, imponente e incirdinito. Enrico fa cenno di sì e liquida il cugino Nanni, cingendogli il braccio, accompagnandolo alla porta e sussurrandogli che si vedrà. Proprio come diede il ben servito a me circa dieci anni fa quando dissi a mio padre che la facoltà di Giurisprudenza da quel momento in poi avrebbe fatto a meno di un altro Saporito.

Vibrò e sbiancò mio padre.

Mi accompagnò alla porta, mio fratello Enrico, ringhiando con la voce stizzosa Te ne pentirai.

Giuro, non me ne sono pentito. Anche se ora a vedermi qui in questo lettino d'ospedale con le braccia spezzate, le gambe tenute da due chiodi di ferro che spuntano dal femore e dalla tibia, potrebbe sembrare che ho scelto la strada sbagliata. Anche se il primario ora dice ai cronisti, ai colleghi, che premono oltre la porta a vetri, che sono appena uscito dal coma, ma la situazione è delicata, la prognosi è ancora riservata e che no, non mi possono ancora parlare.

Non ho battuto la strada sbagliata, anche se ho gli occhi che sembrano due prugne secche e la lingua mentre corre fra i denti nota assenze in zona molari.

E percepisco lo spalettare dell'elicottero sulla volta dell'ospedale. Vengono per darmi, una volta per tutte, i gradi. Presidente della Repubblica, forse anche quello del Consiglio metteranno un sigillo alla mia promozione tentando una stretta di mano e un discorso commovente affianco al mio lettino. Daranno il via all'ovazione popolare, alla chiamata al servizio di stato. Perché sono stato un buon cronista, il migliore.

E poi mi sono immolato proprio di questi tempi, quando tutti non si aspettano altro che i telegiornali facciano rimbalzare sulle tavole imbandite una storia come la mia. Lava le coscienze: una vicenda così è meglio di un'indulgenza plenaria. Una bella sciacquata all'anima.

Lava le coscienze, laverà tutte le coscienze ma non la mia. Non ne ha bisogno, la mia.

Primavera

Sotto le lenzuola qualcosa respira.

Mi chiedo come faccia a stare coperta con questa basca da morire.

Alzo il velo, una bella schiena, a seguire un bel fondo schiena, armonioso e abbronzato ma un po' pelosetto.

Ho l'alito che sembra un'aiuola su cui hanno appena scaricato un furgoncino carico di letame. È colpa del mirto.

Cerco di fare mente locale.

Allora, sono uscito dal giornale verso le 23, sono andato all'Ampurias da solo. Pizza e birra al bancone.

Da solo, sì ero da solo. Poi ho iniziato col mirto.

No, ho iniziato dopo col mirto.

Prima è arrivata la telefonata della questura.

Col mirto abbiamo iniziato verso le 4 al Ribot, io e Angela, quella della Scientifica. Ecco le cose sono andate così. Quindi la peluria dovrebbe essere sua, di Angela.

Ora ricordo.

Stavo chiacchierando con Italo, il padrone di Ampurias, un bel localino nel centro storico, a Sa Marina. Soffitti a botte, tavoli in legno scuro. Sino a mezzanotte ci mangi, dopo ci balli. Sui tavoli dico. Musica varia.

Italo mi dice che ormai l'estate è nell'aria e il giro d'affari sta scemando. Sì, dice scemando, che pensavo fosse solo nel vocabolario di certi miei colleghi.

Mi dice anche che la stagione gli è andata bene e mi deve molto perché sul giornale gli ho dato grandi spazi nella pagina degli appuntamenti di notte. Io gli rispondo che non per altro ceno nel suo locale tre giorni alla settimana, lui ribatte che anche per questa notte al conto non ci devo pensare.

Credo che sia stato a questo punto che il cellulare ha vibrato. Se è mia madre, ho pensato, non le rispondo, se è mio fratello non gli rispondo, se è la mia ex pivella non le rispondo. È la questura. Rispondo.

Dueccoglioni.

Ho fatto la strada a tutta velocità: il Land lanciato - ho il Land perché la gran parte della gente la fulminano nelle stradine di campagna dietro i muretti a secco negli ovili fango e buche a manetta serve un fuoristrada. Il Land lanciato, l'autoradio sparata - l'autoradio ce l'ho perché la musica mi gasa di questi tempi suoni grassi e penetranti. Ho girato a vuoto per una buona mezzora poi finalmente ho visto fra i canneti il lampeggiante della pula, poi quelli dei caramba.

E lì il cadavere con un body rosso che galleggiava nell'acqua dello stagno.

Un tanfo, un frago.

Ora ricordo che devo chiamare il giornale.

Guardo la sveglia luminosa. Sono le undici. Mi alzo, acchiappo il cellulare.

Vado in bagno e piscio mentre la musichetta - Frank Sinatra - mi lascia in attesa di parlare con il capo cronista. Mi sposto in cucina, cerco di ricapitolare tutto quello che stavo cercando di ricordare seduto sul letto. Apro il frigo e mi faccio fuori il latte, a brunco, direttamente dal cartone.

Finalmente il capo risponde, sto per fargli il resoconto ma mi dice che sa già tutto. Lo ha letto dalle agenzie.

Mi chiede se ero lì. Rispondo di sì e che ho tutta una serie di particolari che l'Ansa non può avere.

Ottimo, risponde lui. Lo vedo, sta giocherellando con la matita e segna sul menabò: Saporito, 100 righe più foto.

– Mi serve anche un pezzo d'appoggio sul mondo della prostituzione. Cerca di far parlare le puttane, – mi dice.

– Quanto ne faccio?

– Circa una settantina.

Okkei, non c'è problema. Tanto il pezzo sulle bagasse me lo invento. Gli farò dire che sono preoccupate, che la notte non è più tranquilla, che da tempo girano armate.

Che faccio? Torno a letto. Imbocco il corridoio ma a metà strada c'è Angela, indossa il mio accappatoio.

È già passata per il bagno.

– Buongiorno, – e la abbraccio.

– 'Ngiorno, – risponde senza convinzione.

Mi preoccupo: – Come sono andato?

– Non lo ricordo. Abbiamo bevuto troppo.

– Sicura?

– Avresti potuto dare di più.

Dare di più, sì forse avrei potuto dare di più. Ma che ne sa lei - è la prima volta che finisce da queste parti -

se posso dare ancora? Mesi che le giravo intorno e non so perché proprio ieri notte abbia deciso di seguirmi al Ribot. Di lei mi è sempre piaciuto il fisico palestrato, meno il seno piccolo. Del culo pelosetto non potevo sapere.

L'hanno mandata da Latina ed è qui da tre anni.

Avrà… già quanto avrà?

– Ventisei anni, – risponde mentre l'accompagno alla porta. La fermo per un altro bacio e le bisbiglio all'orecchio che la chiamerò più tardi per i particolari.

Voglio sapere l'ora esatta della morte e con cosa è stata uccisa quella povera ragazza. Povera ragazza, dico povera ragazza, come certi miei colleghi.

Lei mi dice di non provarci neppure, che le indagini sono indagini. Io dico che l'amo e che la chiamerò lo stesso.

– Vaffanculo Rodolfo.

E questo era lunedì.

* * *

Martedì, prima pagina. Il giornale ha in spalla il richiamo del mio pezzo.

Tre colonne più foto a colori, il body rosso spicca nell'acqua melmosa dello stagno.

In decima, nelle cronache, c'è il mio servizio.

Angela alla fine è stata generosa.

Passo in questura, più per vedere se incontro lei che per recuperare qualche notizia per una buona ripresa.

Si fa sempre così. Dopo un grosso fatto di nera servono nuovi elementi per mantenere alta l'attenzione.

Ti va bene se gli investigatori hanno già in cella di sicurezza l'assassino. E non capita quasi mai. Ti va malissimo se hai già scritto tutto il giorno prima e non ti rimane che la visita ai parenti. Devi fregare qualche foto che sia più della solita carta d'identità. Un battesimo, un matrimonio sono il massimo: tempi felici versus giorni di morte. Ma questa parenti non ne ha.

O meglio, ce li avrà pure, ma oltre l'Adriatico.

Il capo della Mobile mi dice che non sanno neppure se il nome che mi hanno dato ieri sia il vero nome.

Mi spiega però che in uno stanzone hanno radunato tutte le bagasse straniere per cercare di saperne qualcosa di più. Gli dico che non ne ho voglia - ho intravisto Angela con la coda dell'occhio - e che mi basterà sparare un ''chi l'ha visto, il mistero di una ragazza venuta dall'Est''.

Però poi davanti allo stanzone ci passo. Giusto perché è sulla strada per arrivare alla Scientifica. C'è un frago di profumi dozzinali, imitazioni di quelle fatte a Napoli. Sbircio, mi appoggio allo stipite della porta e ascolto.

Le puttane non mi filano, cràstulano fra di loro. In un angolo le nigeriane, nell'altro le bianche. In comune gli stessi stivaloni in similpelle, esagerati, tipo la figlia del corsaro rosso. Le bianche ce li hanno neri, le nere bianchi.

Non capisco che minca si dicono. Ma capisco che sono agitate. Mi appunto i particolari: hot-pants leopardati, minigonne jeans, unghie lunghe con pendaglietti applicati.

Sono così preso e non mi accorgo che una ha il naso a un soffio dal mio orecchio destro, quello quasi appoggiato allo stipite.

– Tu, ghi sei?

– Rudy, – rispondo guardandola dritto negli occhi.

– E gosa fare qui?

– Ascolto.

Lei mi guarda e indietreggia: – E no, no scondo, niente scondo, no, no, tutti uguali, niente scondo tutti uguali italiani.

Sento una risata alle mie spalle. Mi giro, è Angela.

– Hai proprio la faccia del puttaniere… – e ride.

– Quella troia non capisce un cazzo d'italiano… – faccio per ribattere.

Non mi dà respiro.

– Ti ha riconosciuto: sei uno che chiede sconti alle puttane nei viali.

Potrei andarle addosso come un treno. Potrei sfoderare tutta la mia miglior eloquenza che, sarà una questione genetica, avvocati o no, in famiglia ce l'abbiamo nel sangue. Potrei dirle che la camicetta di quella grassissima sderigata sullo sgabello dello stanzone, è la stessa che lei indossava l'altra sera, che, puttane o no, quel e almeno la ceretta se la fanno.

– È quella che non sa l'italiano, ha frainteso.

Oggi è martedì, mantengo la calma e rispondo fra l'imbarazzo e l'offeso leggero. Oggi è martedì, giorno moscio della settimana. Non mi dispiacerebbe avere in casa qualcuno che divida con me divano, cena, gelato e videocassetta.

Angela ride, io faccio il cucciolo bastonato. Cucciolo bastonato, si dice così, come in una fiction Tv.

– Dài non prendertela. – Mi accarezza il viso.

Faccio la faccia triste. Attore nato.

– Dài non avvilirti. – Ci siamo quasi. Non rispondo.

Tengo gli occhi bassi.

Angela cade nella rete: – Dài che stanotte ti rimetto alla prova. Ti va una pizza? Compro le pizze e vengo da te.

Attore nato. Versione casalinghe.

– Prima facciamo un salto ad affittarci un film.

– Ok, – fa lei, – Shakespeare in Love, l'hai già visto?

– Già visto, – le dico, ma faccio capire che per lei sarei disposto a rivederlo. Anzi, a vederlo, perché una cagata di quel genere nel mio videoregistratore non c'è mai entrata. Però la regola numero uno è: mai contraddirle.

Angela mi riaccarezza: – Ma no, dài, vediamone uno nuovo. Scegli tu.

Siamo davanti alla tv, la pizza era buona, stiamo divorando il gelato, Alien si sta succhiando il cervello di un cosmonauta.

* * *

Accarezzo i lunghi capelli neri di Angela che ancora dorme. Ho bisogno di una doccia, anche stanotte ho sudato troppo. L'ascella è ai livelli di guardia: fraga.

Angela si gira, si appoggia al mio petto e mi accarezza.

– Come sono andato? – sono preoccupato.

– Molto meglio, però quello schiacciamosche…

– È della Alessi… – faccio finta di non capire.

Lei schiarisce la voce: – Che c'entra la marca, prima lo usi per le mosche, poi sul mio sedere…

– Mai usato per le mosche.

– Non va bene, non mi piace… mi hai fatto male. Ricordati che ho sempre le manette…

– Benissimo, – rispondo io.

– Ho anche il manganello.

Non ribatto.

Mi alzo e vado in bagno, apro l'acqua della doccia, mi infilo sotto il sifone e penso a cosa le potrei fare con manette e manganello.

Sono al giornale. Tardo pomeriggio. Cazzeggio col Tetris. I parallelepipedi scendono lenti, li incolonno e cerco di riordinare le idee. Mi serve qualcosa per stasera. No, Angela no. Quando è uscita le ho detto: Ci sentiamo. Lei ha detto Ok.

I parallelepipedi scendono più veloci. Mi sto per incasinare.

Come con Angela. Credo che mi abbia dato fastidio quando ha iniziato a guardarsi gli album delle foto di famiglia. Io in spiaggia con il nonno, io sul divano dei nonni con mio fratello che mi abbraccia e quasi mi strozza. Tutta la famiglia per le nozze d'oro dei nonni. Io in un lato a sinistra, fra gli architetti.

Gli avvocati tutti a destra. Gli architetti a sinistra. Io sono con loro, cugini e zii a sinistra. Ma forse in quella foto non ci facevo proprio nulla.

Credo che mi abbia dato fastidio quando ha iniziato a dire che con la laurea ce la potrei ancora fare, che potrei studiare con lei che non vuole morire poliziotta ma puntare alla magistratura…

Game over.

Lavori Sessualmente Utili non finisce di menarla con la nuova collezione Versus. Reparto Moda & Mondanità, carriera pubica.

È lontana dal suo settore, viene apposta da queste parti per umiliare Bonarina che usa ancora eskimo e clark. Mi avvicino e faccio cenno a Bonà che le offro un caffè, ha gli occhi del bue al macello e mi fa capire che non riesce a sganciarsi dalla stronza. Mi risiedo al mio posto e la chiamo al telefono.

– Molla quella troia di Lavori Sessualmente Utili.

– Non posso, non sarebbe corretto, – bisbiglia contorcendosi sulla cornetta per non farsi sentire da lei che non la finisce col bla bla bla.

Chiudo. Non c'è nulla da fare, le bestie da macello sono destinate al martirio.

Lavori Sessualmente Utili non l'ho mai toccata neppure con uno stecchino.

Serva dei padroni. Non si merita neanche un lembo della mia pelle.

Inizio a diventare insofferente. Spengo il computer, mi alzo e mi avvicino alla scrivania del capo, gli dico che mi hanno chiamato i carabinieri. Balla gigante.

Gli dico che mi hanno segnalato un cadavere in via Lepanto. Superballa.

È suicidio, gli dico. Non li diamo mai i suicidi. Verissimo.

Però non si sa mai, gli consiglio, meglio controllare.

Lui mi fa cenno di sì con la testa e dice che se non è nulla, se è solo un suicidio, posso anche non tornare al giornale.

Faccio un salto al Rasputin, il bar dei pischelli. Passo lento con il Land.

Fuori è pieno di motorini e gente che avrà al massimo vent'anni. Vedo Gepi, abbasso il finestrino.

È magro ma tutto muscoli. Begli abiti, glieli sponsorizza la coca, e le pastiglie che vende a quelli del Rasputin.

Gepi mi rispetta.

Ho detto al capo della Mobile di lasciarlo stare, ho detto al capitano dei carabinieri di lasciarlo stare, dalla finanza non sono riuscito a metterlo al sicuro.

Però gli copro due lati su tre, e me n'è grato.

Prima o poi dovrà rendere il favore alla polizia, prima o poi dovrà rendere il favore ai carabinieri. Per ora rende il favore a me.

– Domani c'è un bel festino, – dice.

– A che ora ti passo a prendere? – rispondo.

– Fai a mezzanotte.

Sono al centro commerciale, buio pesto fuori, grandi luci dentro. Afferro un carrello. Scelgo e cerco cose inutili, superflue. Un nuovo rasoio - ne ho altri tre, a casa - le streap per i punti neri sul naso. Ho la pelle perfetta come un neonato. Sono nella zona faidatè e sbatto contro il carrello di Bonarina. Ride, mi è venuta addosso e l'ha fatto apposta.

Bonaria per il giornale fa la giudiziaria, è scrupolosa, metodica quanto rotonda.

Tutto il mio opposto. Poli opposti si attraggano, blaterano gli oroscopi del mio giornale. Ma con lei non potrebbe mai essere.

– Vieni a cena a casa?

Faccio cenno di sì con la testa: – C'è anche tua sorella?

A casa di Bonaria c'è anche Nadia. Ogni volta le chiedo se sono sicure di essere figlie dello stesso padre, della stessa madre.

– Mater semper certa est, pater numquam.

Bonaria mi dà sempre la stessa risposta. Ma io del resto le spiattello sempre la solita stronzata.

Nadia invece diventa rossa. Ha fiutato dal verso giusto la battuta.

Bonarina ha la gamba corta, lei lunga. Bonarina ha i capelli ricci e intorcinati come filo spinato, un cinghialetto.

Lei lunghi e biondi. Bonaria ha un grande culo, lei piccolo e mandorlato.

Come il panettone.

Negroide, sì, decisamente negroide.

Anche Bonà ha fiutato dal verso giusto la battuta.

E fa la guardia.

La crème caramel fatta da Nadia la divoriamo sderigati sul divano. Io, in mezzo Bonaria, e poi Nadia.

Ci facciamo fuori una scatola di cioccolatini, cioccolata bianca, Alien 3 il cervello di un detenuto-cosmonauta.

Abbiamo gli stessi gusti, abbiamo bisogno d'affetto.

E questo era mercoledì.

* * *

Mezzanotte. Gepi è puntuale. E generoso.

Disegna le righe sulla cartella in plastica che mi ha regalato l'assicurazione.

– Prima le pivelle, – dice passandosi qualche granello fra le gengive.

Dietro le pivelle ridono. C'è Gigi, che ha diciotto anni compiuti oggi. Festeggia e se la ride perché per tutto l'inverno ci ha fatto credere che era già maggiorenne.

Con quel seno nessuno dubitava.

C'è Ale che può tirare solo con la destra, perché sulla sinistra ha un piccolissimo brillantino fresco di buco.

C'è… c'è? Boh… le chiedo come si chiama.

– Francesca, – dice timida e per poco non fa cadere la cartella con tutto il metodico lavoro di Gepi.

Il mio geometra preferito. Tira linee meglio di un architetto.

Gepi sta per incazzarsi, Francesca non respira, sbuffa e le nostre piste finiscono sullo schienale dei sedili.

– È la prima volta… – balbetta.

– Non ti preoccupare, – faccio io.

Sono le due, il cellophane è vuoto. Gepi ha esagerato come al solito. Offri di qua, offri di là. Vendi di qua, vendi di là.

Serve altra gazzosa. La festa è solo agli inizi. Gepi tira fuori le paste. Gigi se la divide con Ale. Io tento con Francesca.

– Ho paura.

Ha gli occhi grandissimi.

Le dico che non c'è da temere, garantisco io.

– Ho paura.

Ha i capelli elettrizzati.

Le dico che la prima volta è bellissimo.

– Ho paura e tanto caldo.

Ha i capezzoli durissimi, glieli vedo, quasi bucano la canottierina.

Le ho detto, okkei ti stai perdendo il paradiso.

Sono dietro il pronto soccorso. Gepi sale in macchina veloce.

– Fatto, – ha il fiatone. La tipa pesava.

In due minuti siamo quattro chilometri più lontano.

Gigi dietro dorme. Non si è accorta di nulla. Ale l'abbiamo persa a metà festa. La villa era enorme. I giardini, bui e invitanti.

* * *

Mi sveglio. Mi sveglio punto e basta. Squilla il cellulare, non guardo neppure il display. Tanto so chi è.

Il capo urla che bisogna fare presto, sono le 9 e bisogna battere gli altri sul tempo.

– Vai a casa dei genitori e porta via tutte le foto, non lasciarne neppure una. Non voglio che gli altri abbiano un solo scatto. Lasciamoli alla solita carta d'identità.

Mi dice che è meglio che vada prima al pronto soccorso per sentire la testimonianza degli infermieri che l'hanno trovata nell'androne. Poi, solo dopo, alla questura per lo stato delle indagini. Ma non ci sono dubbi, il medico legale ha già refertato un'ipertermia.

– Ecstasy, l'ha uccisa una super-ecstasy.

Vado prima in questura. È lo stato delle indagini che mi interessa.

Sono al piano terra. Il capo della Mobile mi dice che brancolano nel buio, dice proprio così: brancolano nel buio, come scrivono certi miei colleghi.

Dice anche che hanno interrogato la famiglia ma nessuno sapeva con chi fosse uscita e dove fosse andata.

Aggiunge che il padre, un noto commercialista, è finito anche lui all'ospedale, piano di sopra. Un piccolo infarto.

Tengo duro. Tengo duro anche quando mi bisbiglia se gli recupero il mio informatore, Gepi. Dice che potrebbe dargli una mano per capire chi sta vendendo le pastiglie in città. È il momento che restituisca i favori, Gepi.

* * *

Sono riuscito a non rovinarmi il week-end. Alla conferenza stampa in questura ci saranno tremila paste sul tavolo. Intorno, tutti intorno, gli uomini della Narcotici, il capo della Mobile e al centro il questore. Rido, perché penso che in realtà al suo posto ci dovrebbe essere Gepi. Le ha risolte lui le indagini.

Su un tabellone è appesa una foto che poi ci viene data a tutti, a me e ai miei colleghi.

La penna corre veloce sul taccuino, con il questore che spiega che hanno arrestato lo spacciatore che ha venduto l'ecstasy assassina a Francesca Sanna, 20 anni, studentessa modello di Economia e Commercio, finita per sbaglio in un droga-party. Anche lui dice come certi miei colleghi: droga-party.

Giovannino Carrus, 20 anni, noto Cardanca, lo spacciatore, ha reso piena confessione.

Sono al giornale. Concordo un doppio pezzo, la cronaca e un mio racconto su una testimonianza shock.

Il capo cronista dice che per il commento meglio chiedere al direttore. Io intanto scrivo e quando il direttore mi chiama gli spiattello tre cartelle già battute.

Gliele lascio sul tavolo e torno alla mia scrivania. Basta attendere dieci minuti.

Lo vedo. Il direttore si sta avvicinando. Ma tengo gli occhi bassi. Faccio finta di essere concentrato sull'articolo di cronaca.

Sento la sua mano sulla mia spalla.

– Mi hai fatto commuovere, – dice a voce bassa.

– Ottimo pezzo Saporito, taglio basso in prima pagina, – dice a voce alta attirando l'attenzione di tutto il reparto.

Sono al Ribot, scantinato caldo e fumoso, una basca da morire.

Quattro del mattino, ceno da solo e aspetto Gepi.

Al tavolo affianco alcuni ragazzi della Mobile, hanno finito il turno e si fanno uno spaghetto ai ricci. Ho con me una delle prime copie del giornale.

Gepi ha la faccia euforica. Ha già una birra in mano e legge veloce i miei articoli.

– Sei un figlio di bagassa, – mi dice.

Dice che tanto quello era uno fulminato, che alla festa non si ricordava più a chi tutto aveva venduto.

Il resto lo hanno fatto dodici ore di interrogatorio pesante.

Alla fine pur di non sentirli più ha detto sì, che aveva venduto anche a quella morta. Però no, non ce l'aveva portata lui in ospedale. Forse gli amici per paura, ma alla polizia non interessava.

– Era un testa di cazzo, tanto prima o poi l'avrebbero beccato.

Ci abbracciamo forte.

Torno a casa. Il sole sbuca fra i palazzi, già caldo.

L'estate sta arrivando. Aspetto l'ascensore. Si apre la porta in alluminio e ho davanti a me Marcella, insegna italiano e filosofia al liceo. Ha già il giornale in mano, glielo porta il marito quando finisce la guardia medica.

– Mi hai fatto commuovere, Rudy. Sei bravissimo. Farò le fotocopie e lo farò leggere a tutti i miei alunni e poi ci imbastisco sopra un compito in classe.

Ringrazio e salgo a casa. Apro la prima pagina. Leggo, rileggo, ci tengo a ingrassarlo il mio ego. Poi vado in bagno e vomito.

E questa era la primavera.

Estate

Sono le quattro e non si muove. Le ho già spiegato che dalla spiaggia a casa mia ci vogliono dieci minuti.

Lei monta di notte, io devo essere in redazione alle cinque. Le ho detto che basta muoversi entro le quattro e ci vogliono dieci minuti. Basta muoversi alle quattro e cinque che lo stradone per la città si intasa di macchine. Spiaggia-casa mia, se va bene, tre quarti d'ora. Tutti devono tornare al lavoro dopo la pausa pranzo, tutti vogliono stare sino all'ultimo a callentarsi al sole. Anche Angela, che è in ammollo da due ore.

Mi alzo dal lettino. La sabbia è rovente e quasi mi ustiona i piedi. Le faccio segno di uscire dall'acqua, lei mi fa cenno di entrare in acqua.

Non ho voglia di bagnarmi ma poi entro.

Angela mi dice che questa città è un paradiso. Mai vista una città con spiaggia e mare così puliti. Spiaggia e mare a dieci minuti.

Io le dico che, se lei continua a stare in ammollo, di minuti ce ne vorranno quarantacinque.

Lei mi risponde che, se voglio andare, di non mettermi problemi, di andare pure. Tornerà col pul man, tanto sono solo dieci fermate.

Io ringhio che me lo poteva dire anche prima. Lei si gira e inizia a nuotare verso il largo.

Sono sul Land. Aria condizionata al massimo. La salsedine pizzica sotto la maglietta. Ho la musica spenta.

Non mi va la musica quando sono bloccato nel traffico. Mi va il motore e la batteria in sincro. Ora nell'autoradio dovrei mettere una cosa lentissima, tipo marcia funebre.

Sono sul Land e rifletto. Alla doccia dovrò dedicare cinque minuti. Ad Angela almeno un week-end per farle scendere la storia di Ibiza con Gepi.

Niente legami fissi, lo ha detto anche lei. Come in una fiction delle 14 e zero tre.

Però quando le ho detto che le ferie le avrei passate a Ibiza con Gepi, è entrata in palla.

Non ha detto nulla. Però me la fa pagare. Anche questo pomeriggio in spiaggia me l'ha fatta pagare.

Io avrei potuto dirle che lei le ferie se l'è passate a luglio dai suoi a Latina.

Ma ho anche pensato che mi avrebbe risposto che i suoi mi avrebbero conosciuto volentieri. Così non ho detto nulla.

Il direttore non va al mare nella pausa pranzo. Il direttore va al mare tutta la mattina e tutta la pausa pranzo. Il direttore è più abbronzato di me e l'abbronzatura in barca rende meglio che quella in spiaggia.

Sta al telefono con chi sa chi e mi fa cenno con la mano di avere pazienza. Avere pazienza con la mano si fa tipo palleggio con pallone da basket.

Il direttore l'ha smessa con la telefonata. Mi dice che per Ferragosto vuol fare uscire un inserto di racconti estivi. Dice che sotto l'ombrellone andranno forte. Mi dice che ha messo su un buon pacchetto. Mi dice che gli hanno già dato i loro racconti nove scrittori locali. Mi fa i nomi, non ho mai letto nulla di questa gente.

Comunque lo ascolto ma non capisco dove vuole arrivare.

Dice che dieci è il numero perfetto e che pensava di affidare a me la chiusura del cerchio.

Io gli dico che si può fare ma non mostro entusiasmo.

Lui mi spiega che ho un'ottima penna e che deve essere sfruttata oltre la cronaca nera.

Vorrei dirgli tante cose. Del mio posto scippato da Lavori Sessualmente Utili, delle mie capacità frustrate, che da anni in casa scribacchio delle cose e che forse una andrebbe al caso suo. Ma non mi scopro. Non dico nulla.

Lo so che sono la ruota di scorta, che se avesse trovato il decimo scrittore non mi avrebbe mai convocato.

Quindi, non dico nulla.

Lui mi ricorda che mancano sette giorni al 14 agosto, data ultima per la consegna del racconto. Io gli dico che lo so perché poi vado in ferie, gli dico anche che lo avrà fra tre giorni. Lui mi ricorda che il tema deve essere l'estate, le vacanze al mare.

– Mi raccomando: le vacanze al mare.

Sono a casa. Sono a casa e sudo. Sudo nonostante l'aria condizionata. Il computer portatile scalda come un ferro da stiro. Una basca da morire.

Sono a casa e sto limando il mio racconto per l'inserto di Ferragosto. Manca poco a mezzanotte e ho detto a Gepi che questa sera sto a casa.

Lui non si è perso d'animo e mi ha detto che mi perdevo un festino a bordo piscina.

Io gli ho detto che di feste a bordo piscina ce ne saranno altre, inserti di Ferragosto: solo uno. È la mia grande occasione.

Scrivo veloce, correggo. Ho quasi finito, leggo a voce alta ad Angela in mutandine davanti alla tv.

La chiamata arrivò all'alba di una domenica di giugno.

E come tutti i segni su posta celere, mittente signor Destino, non lo interpretai subito. Sarà che avevo i sensi leggermente appannati o che a quell'epoca erano le ragioni in arrivo dallo stomaco a dettare legge, più che quelle dell'intelletto. Sarà che per arrivare alla redenzione, alla luce, bisogna consumare tutte le tappe della via Crucis o che a ventitré anni la saggezza è un dono concesso agli arroganti.

Angela abbassa la tele e mi chiede se è lei la mia musa ispiratrice.

Io vorrei dirle che il racconto l'ho scritto quando ancora non ci conoscevamo e questa sera l'ho solo sistemato.

Però le rispondo.

– Eja, sì, sei la mia musa.

Ho Ibiza da farmi perdonare.

Attore nato.

Angela spegne la tv, io reinizio a leggere.

Me la godevo senza pormi troppi problemi, di coscienza intendo, senza badare che anche quella mattina in uscita dal Capo Boi Disco avevo la faccia color lenzuolo, quello finito in lavatrice con lo straccio da cucina, tonalità cacchetta, pagato due lire e che inevitabilmente al primo giro di centrifuga stinge.

Un classico di domenica mattina. Sole e mare per tutto il sabato, ore e ore di esposizione a rischio di tumore sulla sdraietta della spiaggia di Timiama. Diecimila lire di noleggio mandate a farsi benedire la notte da un grammo di coca e un'eterna sudata alla luce di un'implacabile e isterica stroboscopica. Boom, boom, house music all night long, house music for your soul.

Missy Zeze non ci faceva lasciare la pista prima dell'alba e noi non le avremo concesso di spegnere gli amplificatori. Stessa storia ogni week-end. La platea ondeggiava, le braccia al cielo, gli occhi persi fra i flash delle luci. La musica ti avvolgeva portandoti lontano, tanto lontano da non sentire il forte odore di sudore che impregnava l'aria, le gomitate ai fianchi di ballerini troppo esagitati e le sigarette che regolarmente si spegnevano sul braccio del vicino.

Missy, lunghi capelli biondi e un top argentato, faceva scorrere le sue lunghe dita sui dischi.

Boom, boom, boom, avremmo potuto reggere per giorni facendo la spola fra la sala e i bagni.

''Dài, Ciano, apparecchia!''

E io apparecchiavo, uno, due, tre, dieci piste. La carta di credito segnava le porzioni, disegnava, apparecchiava il banchetto. Siamo fatti di polvere e torneremo nella polvere.

Boom, boom, boom, avremmo potuto reggere per giorni facendo la spola fra la sala e i bagni. Ma sapevamo accontentarci. All'alba lasciavamo Capo Boi con la faccia color varechina.

Stessa storia ogni week-end: prendevo colore la mattina, sbiancavo la sera. Tanto che alla fine gli amici si dimenticarono del mio nome – che era tutto una premonizione, Santino Monaco – e mi appiccicarono quello di Ciano. Ciano, diminutivo di Cianotico, chiaro no?

Ciano di qua, Ciano di là, neppure li stavo ad ascoltare quando finimmo in spiaggia quella mattina con il palato che sapeva d'asfalto, gli occhi dilatati e l'udito stropicciato.

Il solito bagno sul mare ramato, le ragazze da buttare in acqua di peso perché non avevano nessuna intenzione di lasciare le chiacchiere anfetaminiche sdraiate sulla sabbia ancora fresca.

Mi lasciai i loro schiamazzi alle spalle e puntai, sudatissimo, verso le grandi dune di sabbia. Le superai e mi ritrovai su una stradina di polvere, pochi passi a testa bassa e andai a sbattere contro un portone in legno che a contatto col mio cranio cigolò. Alzai lo sguardo ma con la visuale sbilenca non riconobbi quell'anonima casetta bianco coloniale.

Un conato di vomito mi sconquassò lo stomaco, mi appoggiai al muro scaricando quel poco che avevo mangiato e il troppo che avevo bevuto. Rialzai lo sguardo, il sole, ormai in fase di decollo, mi bruciò gli occhi accecandomi.

Boom, boom, boom, ora la grancassa l'avevo nelle tempie che mi pulsavano come i subwoofer di Missy Zeze.

Cercai via di scampo, un filo d'ombra, a tentoni oltre il portone. Dentro fu pure peggio, perché piombai nel buio più completo con le pupille impazzite che non ebbero il tempo di trovare assestamento. Ricordo solo una brutta fitta alle gambe e poi nulla.

Fu uno strano ronzio, una litania a riaccendere l'interruttore dei sensi perduti. Il primo occhio che aprii inquadrò un piede su zoccoletti color oro. Iniziai a muovere le mani che percepirono chiaramente la dura consistenza di una panca di legno. Mi alzai di scatto e…

Mi ritrovai al centro della messa di mezzogiorno, quella che ogni domenica richiama nella chiesetta del mare della mia località preferita di vacanze le buone signore credenti, osservanti e praticanti dei villaggi turistici della zona.

Inutile dire che tutti gli occhi erano puntati su di me e quando balzai in piedi per il Padre Nostro, la preghiera di cento voci prese più corpo, quasi per ringraziare il miracolo avvenuto. Il risveglio.

''O Dio…Dio… O Dio…Dio.'' Fu l'ultima cosa che dissi prima di svenire nuovamente sbattendo pesantemente la guancia sulla panca di legno dove mi ero addormentato all'alba.

Questa volta a risvegliarmi fu un buon odore di camomilla in arrivo da una tazzina in ceramica bianca che una signora dai lunghi capelli biondi-ossigenati, e dalle unghie smaltate, mi porgeva a pochi centimetri dal viso.

''Va tutto bene, Santo? Ti senti meglio?''

Mi stupì risentire dopo anni il mio vero nome. Ma mi meravigliò ancora di più trovarmi nella stanza matrimoniale di una sconosciuta. Non che non mi fosse già capitato, anzi. Finire nei letti di gente di cui a malapena sapevi il nomignolo era nel gioco: Scaldabagno, pronta a scaldare tutti. Pilledda, preferiva, si diceva, pezzi modesti. Aspiratutto, beh è facile capire perché.

Ma questa – che ora mi guardava con un sorriso caritatevole – non aveva le occhiaie segnate di blu, un tatuaggio sulla natica, i brillantini sparsi per la faccia, una borchia sul naso, un anello sul labbro.

Aveva un bel viso abbronzato con qualche zampa di gallina a bordo occhi.

''Ti chiami Santo, no?'', il suo sorriso si fece più solare.

''Lo abbiamo letto sulla carta d'identità che avevi nei pantaloni.''

I pantaloni. Mi toccai sotto le lenzuola e mi accorsi di non averli più.

''Mi sono permessa di metterli a lavare, non erano proprio in buone condizioni.''

Ci credo, tra sabbia, sudore, l'odore di fumo della discoteca, il vomito. Sorrisi in segno di approvazione.

''Non ti preoccupare, se vuoi andare via te ne posso prestare un paio di mio marito che è rimasto a lavorare in città. Forse ti staranno un po' strettini, perché tu sei decisamente più muscoloso. Ma per andare via andranno bene.''

Andare via? Giuro che non ne avevo nessuna intenzione.

Sarà stato il buon odore di pulito e lavanda in arrivo dalle lenzuola, l'aria fresca che il ventilatore a soffitto sventagliava per tutta la stanza, oppure il viso angelico di questa bionda signora, ma non avevo nessuna intenzione di levare le tende. Però fu quello il periodo in cui la ragione iniziò a prendere il sopravvento sull'istinto. O forse fu solo l'effetto-pentimento e paranoia di un down tremendo che mi scaraventò in un angolo, contro il muro delle mie responsabilità.

Così ringraziai infinitamente, mi scusai per il disturbo, provai ad accennare una scusa per ciò che mi era accaduto in chiesa. Ma lei non me ne diede il tempo.

''Le pecorelle smarrite sono le predilette nella casa del Signore.''

Mi andò di lusso perché mi evitò di mettere in scena una meschina quanto poco credibile bugia, su un colpo di sole, un'insolazione che mi aveva colto prima dell'ingresso in chiesa. Ringraziai infinitamente, e con i pantaloni del marito che mi stringevano terribilmente tra anca e coscia, quasi da impedirmi la camminata, me ne andai promettendole di ritornare il giorno dopo a recuperare le braghe calvinklein che mi erano costate un pacco di soldi. Ma il lunedì non mi feci vedere, avevo altro da fare e un piano in testa.

Mi ripresentai il sabato sera, sbarbato, pulito, ben abbronzato e oliato, con un completino di cotone bianco helmutlang. Per lei, davanti alla tv sul loggiato della sua villetta a pochi passi dal mare, fui meglio dell'apparizione dell'arcangelo Gabriele. Merito anche dei miei capelli lunghi e bruciati dal sole.

Per la seconda volta lasciai i calvinklein stirati e puliti nel suo cassetto tra la naftalina, perché ebbi appena il tempo di rinfilarmi i miei, quelli bianchi helmutlang, e fuggire dalla finestra mentre il marito, alle dieci del mattino, entrava dalla porta.

Maria non la incontrai più alla messa della domenica dove mi presentai puntuale la settimana successiva per cercarla. I rimorsi l'avevano incatenata al rosario sul loggiato.

In compenso incontrai Elena che, sarà perché io con la palestra c'ero fissato e un fisico brutto brutto non avevo, mi invitò a casa sua per una camomilla. Ma il giorno dopo uscii tranquillamente dalle lenzuola perché il marito, che in gioventù ne aveva apprezzato il grande e marmoreo culo ma non le caviglie a bottiglione, l'aveva lasciata, dopo sei anni di matrimonio, triste e da consolare.

Elena partì in crociera con le amiche lungo il Nilo, quando alla messa del trenta giugno fu Maria Grazia a ricordarmi, a fine funzione, di quanto fu divertente e imbarazzante la mia prima apparizione alla chiesetta del mare.

Mi risparmiò la camomilla ma dovemmo attendere mezzanotte prima che i bambini a cui faceva da baby sitter si addormentassero e i suoi padroni lasciassero la villa per un torneo di bridge dai vicini.

Andò avanti così per tutto luglio tra Assunta di Voghera e Cristin, turista tedesca, Giovanna da Bologna e Luisa di Monza. Entravo e uscivo dalle villette sul mare con un calendario ben preciso. Evitavo incroci spiacevoli, persino gli sguardi complici durante la funzione, sapevo che tutte stavano a scrutare me e non il prete. E io ispirato, povero angelo, guardavo in alto verso il mosaico a vetri dell'altare. Tanto che ancora oggi ricordo pregi e imperfezioni di quell'opera di basso artigianato.

Alla fine iniziai a fare i doppi turni: messa del sabato sera con proseguo notturno. Messa della domenica a mezzogiorno con un dolce pomeriggio a seguire.

Quelle del sabato erano le più tristi, le più disgraziate.

Molte vedove, quelle dai 50 in su erano scartate a priori. Le altre andavano trattate con garbo perché avevano smarrito persino la voglia della passerella della messa domenicale. C'erano le vedove alla anagrafe e quelle civili. Le prime avevano davvero perso il marito per strada, defunto, kaputt. Le altre erano legate con la catena a madri decrepite, fratelli consunti da malattie terminali. Vivevano nel dramma della tirannia di un parente precipitato alle soglie della morte ma che l'aldilà non aveva ancora nessuna intenzione di chiamare a rapporto.

Avevano smarrito ogni carica vitale e io gliela facevo ritrovare. Tanto che più d'una iniziò ad abbandonare i rintocchi vespertini per affollare la funzione di mezzodì.

Credo che alla fine feci persino la fortuna della boutique della piazzetta del porto che improvvisamente fu scoperta da un nuovo parco clienti. Le vedove si affacciarono prima timidamente, poi con più sicurezza fra i banconi in legno e vimini per scegliere scialletti colorati, abitini Bel a Capri, borsette fatte all'uncinetto e impreziosite da qualche morigerata perlina. Abbracciarono la moda se pur a modo loro e con un gusto che comunque risentiva di anni di acquisti su cataloghi.

A Capo Boi ci rimisi piede solo alla fine di luglio fra l'ovazione generale. Non mi vedevano da quasi due mesi e poi Virginia, cattolica o no, figlia di Dio o no, era una stanga da spavento. Aveva un vestitino striminzito che le avevo regalato per l'occasione e a malapena le conteneva i seni. Due bocce da bowling sino all'ora svilite sotto dei completini a fiori che il padre, cantore di una comunità neocatecumenale, faceva comprare e scegliere alla signora Pina, la mamma. E credo che anche lei si servisse dal qualche catalogo sfigato.

Pina, come ostinatamente mi pregava di chiamarla, perché a quarantatré anni non si può essere archiviate fra le anziane, da subito – ma che bravo ragazzo – mi pregò di stare al fianco di questa figlia che qualche sano svago almeno d'estate era giusto che se lo prendesse.

Ed io che ero un buon talent scout seppi apprezzare il gesto. Ero il lupo con indosso la pelle di pecora.

Boom, boom, boom, per lei Capo Boi fu la terra promessa.

In pista da ballo il suo culo sembrava fatto per oscillare ai ritmi che Missy Zeze faceva rotolare giù dagli amplificatori. In bagno invece arricciò il naso.

''Dài, Ciano, apparecchia!''

Poi capì in fretta che bastava solo tirare su, come per un piccolo raffreddore. E imparò così bene che alla fine divenne una delle regine del Capo Boi. Tutti la volevano, tutti la cercavano e lei si dava con carità cristiana: molto ma senza che troppi se ne accorgessero.

Ovvio che la lasciai al suo destino perché per me la sua terra promessa era la solita lagna.

La chiesetta sul mare, quella sì che era il nuovo mondo da scoprire. Alla fine, tutta colpa di Virginia, ci passò pure signora Pina, la mamma. Ma giusto così per opera di bene, per consolarla, per tranquillizzarla che quella povera figlia no, non aveva intrapreso la strada sbagliata anche se ora a messa arrivava per ultima e con le occhiaie blu.

Quando finalmente tutta la famiglia del cantore neocatecumenale ripartì, fu per tutti noi della parrocchia della spiaggia un imbarazzo in meno.

Di quei giorni oggi mi sono rimasti in mente gli arredi delle ville che andavo a profanare. La bambola di Siviglia sul letto della signora Pina che mi rivelò presto da chi Virginia aveva ereditato le palle da bowling.

I centrini ricamati a mano sul divano a fiori di quella di Voghera. La gondola veneziana sulla tv della parrocchiana bolognese. Ci penso e ci ripenso ancora oggi a quanto cattivo gusto ho dovuto sopportare pur di passare un'estate diversa. Però che estate quella estate.

Andò avanti così finché padre Alfio, un vecchio missionario mandato a riposo nel suo paesino sul mare, mi agganciò alla fine di una messa settembrina quando le panche della chiesetta avevano iniziato pian piano a svuotarsi. Tirava forte un vento di maestrale che spazzava le nubi, smerigliava le dune e faceva svolazzare il suo lungo riporto. Tredici capelli ancorati sul lato destro del cranio che ora sbandieravano animati dal vento.

''Figliolo,'' disse appoggiandomi la mano sulla spalla, ''ti ho osservato, ti ho scrutato attentamente e credo, figliolo, che questa tua devozione, questa tua costante ricerca interiore debba trovare una risposta che vada al di là di questa povera chiesetta. Rifletti figliolo e domandati se per caso questo posto benedetto da Dio, non ti abbia indicato la giusta strada.''

Giuro che dovetti fare fatica per trattenermi, dominarmi ed evitare di ridergli in faccia. Per un momento ebbi il terrore che mi avesse scoperto, che volesse mettere fine al mio tour fra vedove e parrocchiane.

Per un secondo tremai, solo un secondo, poi dovetti concentrarmi al massimo per non scoppiare in un'interminabile risata. Ma alla fine ebbi pietà per quel povero missionario che nulla aveva capito.

La settimana successiva la chiesetta chiuse per esaurimento della clientela, padre Alfio andò in vacanza in montagna e io tornai in città. Anche Capo Boi chiuse ma non prima di celebrare la grande festa dell'arrivederci al prossimo anno, alla prossima estate.

Boom, boom, boom, house music all night long, house music for your soul.

E Missy Zeze ci mise davvero l'anima per regalare a tutti una notte da incorniciare.

Boom, boom, boom, la pista da ballo tremava e io con lei. Muovi le anche, alza le braccia, lascia che la batteria ti sfondi lo stomaco che le gambe non reggano più. Ferie finite, si torna al solito lavoro.

''Dài, Ciano, apparecchia!''

E via una, due, dieci piste. Quella volta fu Virginia a offrire sul suo specchietto da trucco. Roba buona ma non era la stessa roba. Labbra avvolgenti, ma non erano le stesse labbra. Mi sentivo insoddisfatto e nulla mi dava conforto. Neppure quando la lingua di Virginia passò al collo e iniziò a scendere giù, sempre più giù.

Pensavo alla mia chiesetta sul mare e per poco nei parcheggi di Capo Boi non feci la mia prima brutta figura.

Acqua passata.

Mi ci sono voluti quattro anni per comprendere che quella mattina d'estate, davanti al riporto ballerino di padre Alfio, chi nulla aveva capito era solo un imbecille, belloccio, arrogante giovanotto di ventitré anni.

''Padre Santòs, padre Santòs.'' È Domingo che mi chiama, sono sicuro che ha con sè la lettera di trasferimento, quella che stavo aspettando dall'Arcivescovado.

Sono steso su un'amaca e attendo che mi porga la busta. Tutto come da regolamento. La apro con le mani che tremano dall'emozione. Avevo ragione: mi trasferiscono, lascio il Brasile per andare a Cuba.

Fa ridere no?

La mattina lavoro per la missione, insegno alla scuola degli orfanelli, musica e canto ovviamente, e poi dico messa. La sera, stanco ma appagato, vado a far visita alle mie parrocchiane.

– Come si chiama? – mi chiede riaccendendo la tv.

– Vocazioni, si chiama Vocazioni… Allora: ti piace?

– Siiii, – dice allungando la i e stiracchiandosi sul divano, – sì, è buono, funziona, però…

Sto per perdere la pazienza ma attendo che concluda.

– Però cosa?

– Però... – dice stiracchiandosi e facendomi pagare la partenza a Ibiza, – però non credo che per il vostro giornale vada bene…

La brucerei.

– È troppo forte, troppo forte, – mi dice.

– È autobiografico, – mi dice correndo veloce sui tasti del telecomando.

– Non mi sembra che io faccia il prete, – rispondo.

Lei mi rifila un sorrisetto da faccia di cazzo.

– Non è autobiografico.

– Lo è, lo è. Quel Ciano è la tua copia sputata.

Non è la mia copia sputata, è solo un frankestein composto con un pezzo di quello, un altro di quell'altro.

Il cuore di un tipo, l'anima di un altro. Un brandello di me, ma giusto un sapore. È uno dei miei mostri.

Vorrei dirle questo. Ma non le dico nulla.

Ho letto il mio racconto alla persona sbagliata.

Bagassa!

* * *

– Non va bene Rudy. Sì, è buono, funziona, ma perdonami, non va proprio bene per il nostro giornale. Troppo forte, troppo forte. Poi chi lo sente l'arcivescovo e tutte le associazioni cattoliche. Troppo forte. Non offenderti, ma non posso prenderlo.

Ad Angela ieri ce l'ho mandata affanculo, in silenzio.

Poi ho raggiunto Gepi alla festa in piscina.

Neanche al direttore ora dico nulla. Mi riprendo le mie nove cartelle ed esco dal suo ufficio.

– Buone ferie, Rudy, – mi dice.

– Anche a lei direttore.

* * *

Siamo ancora abbronzatissimi. Neri come demòni.

Io e Gepi. Ci siamo fatti da metà agosto a metà settembre.

Un mese a Ibiza ci ha fatto bene.

Di notte abbiamo ballato. Di giorno abbiamo ballato.

Di notte abbiamo fatto tante conoscenze. Di giorno le abbiamo approfondite.

Di giorno in spiaggia, di pomeriggio in camera da letto abbiamo approfondito le nostre conoscenze.

Gepi ha detto che se la Hatù avesse messo dei premi a punti, dei buoni acquisto, avremmo vinto tutti i gadgets, in quel mese a Ibiza.

Abbiamo cazzeggiato molto sui premi che la Hatù potrebbe regalare ai suoi fedeli e assidui consumatori.

Ogni scatola da sei un punto, ogni scatola da dodici tre punti. A dieci punti, in regalo un capellino Hatù.

Ha detto Gepi. Io ho ribattuto che nessuno si metterebbe un capellino con il marchio di un preservativo sulla visiera. Suonerebbe tipo: ecco a voi un testa di cazzo.

Gepi ha detto che lui se lo metterebbe il capellino dell'Hatù in testa, e il primo che gli dà del testa di cazzo lo squarta.

A venti punti abbiamo deciso insieme per un canotto gonfiabile. Per l'Hatù si tratterebbe solo di convertire la produzione.

A trenta punti, T-shirt a maniche lunghe con la scritta ''Use me''. Fa molto politically correct. Ho detto io.

A sessanta, una macchina per il caffè. Ha detto Gepi.

Perché dopo una santa scopata il caffè è d'obbligo.

A cento punti il golden-gadget. E qui ci siamo scornati.

Gepi sosteneva che per uno che totalizza cento punti in un anno ci vuole un cucchiaino d'oro massiccio.

Io gli ho detto che mi sembrava una roba da bestie.

Lui mi ha detto che i giusti tirano con cucchiaino d'oro.

Io gli ho detto che mi sembrava una cosa molto scarface, passata di moda. Gli ho anche detto che il binomio sesso-coca non poteva valere per tutta la clientela dell'Hatù che racchiude anche bravi padri di famiglia che non hanno alcuna intenzione di allargare la quota dei figli a carico. Gepi ha detto che i bravi padri di famiglia il preservativo - lui per la verità ha detto il ghindolo - lo usano solo quando devono fare le incursioni sotto i cavalcavia dei trans-caghineri-burdi.

Alla fine abbiamo litigato. E il golden-gadget non lo abbiamo fissato. Però abbiamo deciso che il prossimo anno a Ibiza ci torniamo.

Gepi ha promesso che durante l'inverno si fa un bel corso d'inglese. Ha promesso che così la smetterà di spaccarmi i coglioni per sapere cosa voleva quella, cosa gli aveva chiesto quell'altra, come faceva a spiegarsi con quell'altra ancora. Mi ha giurato, era dolce e malinconico, che un amico così, generoso e paziente, non lo aveva mai trovato. Io gli ho risposto di smetterla, che era solo l'effetto in fase calante dell'ecstasy e dell'alba con quell'olandese sui tavoli del Cafè del Mar.

Poi l'ecstasy è iniziata a scendere anche a me e gli ho giurato che il prossimo anno a Ibiza ci avrei portato anche Angela.

Gepi mi ha guardato storto e mi ha risposto di smetterla, che era solo l'effetto in fase calante dell'ecstasy e dell'alba senza l'amica della sua olandese che chissà dove cazzo era finita.

Un mese a Ibiza ci ha fatto proprio bene.

Gepi, negli ultimi giorni, ha iniziato a frequentare sempre più un piccolo disco-bar del centro. Quello gestito da un romano che vuole lasciare Ibiza per Miami.

Gepi mi ha detto che il romano vuole vendere perché la moglie ha ereditato dal padre un ristorante a Miami.

Gepi ha detto che potrebbe comprare. Il romano ha detto che in un'estate il disco-bar incassa un miliardo, ma per lasciarlo ne vuole due. Gepi ha detto che vuole vedere i libri fiscali. Poi si vedrà.

E bravo Gepi. Il mio miglior economo.

Io gli ho detto che possiamo fare a metà, per un mutuo bancario non avrei problemi.

Mi ha fatto male tornare al giornale. Per fortuna ci devo stare solo qualche giorno. Ho una piccola operazione da fare al setto nasale. Qualche ora in anestesia, un mese in convalescenza.

Però due o tre giorni me li devo fare.

Bagassa!

* * *

Sono al giornale. Sono nell'anticamera del direttore.

So già che vuole e con chi è. Ho sgamato tutto. Me l'ha spiattellato il mio capo. Sono infogato, sono molto infogato.

Il direttore è seduto sul a poltrona in pelle Chesterfield.

Sul divanetto in pelle Chesterfield c'è quello che io vorrei essere. Ventidue anni, un milione di libri venduti al primo romanzo, un contratto da favola per quelli a seguire, un codazzo di pivelle ovunque va.

Vorrei essere lui, per i soldi, la fama e le pivelle.

Vorrei essere lui e il direttore mi dice che dovrò stare con lui due giorni, con lui, lo scrittore giovane.

Farò la cronaca della sua visita, due giorni con i ragazzi di un liceo per un programma Rai con il giovane scrittore.

* * *

Enry viaggia sulle mie stesse frequenze, al quinto mirto all'Ampurias.

Enry dice che odia il suo pubblico ragazzino. Dice che per questo ha dato una virata ai suoi romanzi, dice che per questo mi invidia perché sono sempre fra obitori e cadaveri, stragi e rapine.

Enry trinca mirto e dice che vorrebbe essere me.

Io gli rispondo che visto il cordone di pischelle che se lo stanno svisando dagli altri tavoli, io vorrei essere lui.

Poi gli giuro che se capita qualcosa in questi giorni ce lo porto.

Lui si accende. Sesto mirto.

Dice che vuole sentire l'odore del sangue, vedere un viso maciullato dai pallettoni, il pianto disperato dei parenti. Vuole essere in prima fila. Non la fiction dei suoi libri, vuole l'odore della morte che gli scartavetra le narici. Dice scartavetra, come certi scrittori giovani.

Io gli giuro che sarà la mia missione.

Le pivel e chiudono l'accerchiamento, si succhiano Enry.

Mi piace, cazzo. Mi piace come le ipnotizza, mi piace come le lascia incantate mentre racconta delle sue presentazioni di libri in giro per il mondo.

Le pischelle se lo vogliono portare via.

Io gli dico Fai pure. E gli faccio cenno di andare, tanto per me stanotte non ce n'è. Quelle vogliono solo lui.

Lui si alza barcollando e mi mette una mano sulla spalla: – Rudy, se succede qualcosa e non mi chiami, ti ammazzo. Giuro ti ammazzo, voglio sentire l'odore del sangue.

Settimo mirto.

Sono sul Land. Sono sul Land e penso che anche io voglio essere uno scrittore di successo, un po' pulp col passato buonista. Mi addormento beato.

Mi sveglio, mi sveglio e passo in questura a scazzo.

Non c'è nulla, neppure Angela.

Passo a palazzo di giustizia per farmi due chiacchiere con Bonaria. Giro fra i lunghi corridoi. Chiamo Enry, ha il cellulare spento.

Mi fermo alla prima sezione. C'è un processo per tangenti, c'è un ex assessore regionale, c'è un pacco di miliardi che non si sa che fine hanno fatto.

C'è mio padre e mio fratello. Stanno aspettando la sentenza. Sono di spalle, non mi vedono. Li osservo.

Sembra che abbiano un manico di scopa in culo. Sono tesi. Chissà quanto di quei soldi gli ha offerto l'assessore.

Se vincono.

Vincono, vincono, non c'è dubbio. Non c'è così dubbio che non capisco perché siano così tesi. Lo sanno che vincono, questo gioco delle tangenti lo sanno a memoria. Conoscono anche la via d'uscita. Se la sono ben studiata per quel periodo che papà è stato presidente di quel Consorzio industriale.

Entra la Corte. Tutti in piedi.

Va come avevo detto io.

Mio fratello si gira. Mi vede. Mi viene incontro.

– Quando mai li farai 100 milioni in un giorno? – Enrico è molto attaccato al denaro.

– Quando mi dedicherò anche io al ramo truffe e rapine, testa di cazzo.

Poi vorrei dirgli che più che al denaro dovrebbe badare a sua moglie, Betty. Però non gli dico nulla perché Betty, la moglie, mi è simpatica. Almeno lei se la gode la vita.

Passo alla seconda sezione, Bonarina è fuori che attende la sentenza di un processo a porte chiuse.

Violenza carnale. Una brutta storia. Se la sono passata in sei. Tre giorni in sei.

– Eccola, – bisbiglia Bonà.

Riesco a malapena a vedere una donna minuta che esce dall'aula scortata da quattro agenti. Corro davanti a loro, li precedo e mi fermo. La guardo dritto negli occhi e le abbozzo un sorriso, lei ricambia. Ha la faccia con mille rughe.

Torno indietro. – Cristo, Bonà ma avrà avuto sessant'anni, una vecchia.

– E quelli che l'hanno violentata altrettanto.

– Non ci sono più i vecchi di una volta.

Bonà non ride. Anzi mi guarda storto, molto storto.

Dimentico la sua fede. Cattolica e femminista. Ma in fondo sa che sono solo un compagno che a volte sbaglia.

Cerco di riparare.

– Ti offro il pranzo al Meeting?

Tanto Enry non mi risponde ancora.

Siamo al dessert. Due tiramisù, dopo un piatto di pennette al salmone. Squilla il cellulare, il mio cellulare.

Se è mia madre non rispondo, se è la mia ex fidanzata non rispondo, se è Angela non rispondo. È il giornale.

Sto per rispondere ma cade la linea.

Squilla il cellulare. È quello di Bonaria. Risponde.

Sbianca, dice di sì che è con me e che ci muoviamo subito.

Le chiedo cosa è successo. Mi dice che era il capo.

– Dice che ha ricevuto la telefonata di un pescatore… era in spiaggia… dalla sabbia ha visto spuntare una scarpa… – Bonaria cerca veloce le chiavi della macchina, – la scarpa è da donna… uno stivaletto lucido e al pescatore gli sembra che ci sia pure il piede.

Pago il conto veloce e saliamo sul Land. Bonarina ancora non le ha trovate le chiavi della sua macchina.

Io chiamo Enry che non risponde, il suo cellulare squilla a vuoto.

Bagassa, questa non se la può perdere.

Fa caldo, anche se settembre sta finendo. Da queste parti fa una basca da morire anche quando ottobre sta finendo.

Tira un vento caldo, appiccicoso e puzzolente. Non c'è nessuno in questa spiaggiola di pescatori. C'è un pontile da cui si vede in lontananza tutta la città. C'è Alex, il mio fotografo, che scatta le foto di questo stivaletto con piede. Pelle lucida e fibiette.

Enry non risponde.

I carabinieri scavano e dopo il piede c'è una gamba e dopo una gamba l'altra gamba: calze a rete a maglie larghe. Poi spuntano mutandine in pelle nera, un corpetto in pelle nera, un viso massacrato. Il cranio sfondato.

Mi avvicino, guardo bene. Sembra la faccia di Mussolini, dopo Loreto, nel filmato dell'autopsia.

– Povera ragazza, – dice Bonarina. Poi corre verso il bagnasciuga e vomita.

– Povera ragazza, – mi dice mentre le passo un fazzolettino per pulirsi la bocca. Un altro per asciugarsi le lacrime.

– Non era una pivella, – le dico.

Mi guarda con gli occhi sgranati, incredula: – Come fai a saperlo?

– Aspettiamo il medico legale e vedrai.

Chiamo Enry.

Finalmente risponde.

Sono euforico, gli dico tutto d'un fiato che sono in una spiaggia, con uno mezzo sepolto, il cranio sfondato, il sangue raggrumato fra la sabbia. Glielo dico tutto d'un fiato e gli chiedo dov'è, non gli faccio neppure rispondere che gli giuro che lo mando a prendere da qualcuno e insisto che questa non se la può perdere, non uno scrittore come lui.

Poi finalmente sto zitto.

Enry non risponde.

Sono impaziente. Allora, allora, gli dico, ti mando a prendere?

Lui risponde lento, dice che è in spiaggia con le ragazze di ieri notte, che ha conosciuto i loro fidanzati e sono tutti lì a giocare a calcetto.

I fidanzati? Ma come i fidanzati?

Dice che no, non verrà, la sua squadra è sotto di due gol e ci tiene a rimontare. Dice che semmai glielo racconto io.

Gli ricordo che lui ha un aereo domani mattina e che io non potrò staccarmi, che l'omicidio viene prima della cronaca del suo pomeriggio al liceo. Gli dico che per uno scrittore come lui è un'esperienza preziosa - dico preziosa, come dice mio padre - lo imploro: si sta perdendo lo spunto per uno dei suoi grandi racconti.

Lui non risponde, il suo telefono non risponde, ha riattaccato.

Io rimango col cellulare appiccicato all'orecchio.

I fidanzati. Cristo, i fidanzati! Minca che delusione.

I carabinieri hanno finito di scavare. Mi offrono una sigaretta prima di portare via il cadavere.

Io dico che era Uno che stava sotto i cavalcavia. Loro che era Una del viale.

Io dico che farà da arbitro il medico legale.

Il medico legale non ha dubbi. Dalle mutandine spunta una minca di marmo, incirdinita dal rigor mortis. Un mattarel o che Bonarina guarda inorridita, poi con una strana espressione, mi guarda e poi guarda il bastone del trans, mi riguarda e alla fine scappa di nuovo via.

– Rudy è uno che se ne intende, – urla il maresciallo.

Io penso a cosa stesse pensando Bonaria: paragoni fra sessi?

Ridono i carabinieri. Rido anche io, ride il medico legale. Bonarina, appena tornata, piange e corre nuovamente verso il bagnasciuga.

* * *

Vorrei sapere perché quello stronzo del mio capo non se n'è accorto. Vorrei sapere perché il capo redattore non se n'è accorto, perché il direttore non se n'è accorto. Vorrei sapere se Alex proprio in quel momento doveva scattare la foto, ora che la foto col cadavere, carabinieri, giornalista e medico legale è su quattro colonne in doppia pagina centrale, se ne sono accorti tutti. Tutto il giornale e tutti i lettori che stanno intasando i centralini. Si chiedono che cazzo avevano da ridere carabinieri, giornalista e medico legale mentre portano via quel transessuale.

Il direttore è fuori dalla grazia di Dio. Mi chiede che diavolo avevo da ridere e chi cazzo ha dato il benestare per passare quella foto. Dice chi cazzo, in nove anni al giornale non gli ho mai sentito dire nulla che andasse oltre il porca miseriaccia.

Mi dice che ora dovrà chiedere scusa in prima pagina.

Vorrei dirgli che la minchiata l'hanno fatta, nell'ordine: Alex, il mio capo servizio, il suo redattore capo e lui.

Vorrei dirgli che quella foto l'hanno sparata consapevolmente a quattro colonne per far crepare la concorrenza che è arrivata nella spiaggiola quando il carro funebre era già andato via e in pagina hanno potuto mettere solo foto di repertorio. Noi invece tutta la sequenza: dallo stivaletto al trasporto verso la cassa di zinco. Ma mi limito a dire che non era ilarità, sì dico ilarità, ma una risata nervosa, perché la tensione era alle stelle, perché non ci restava che ridere o piangere.

Non lo convinco. Ma gli scrivo un buon pezzo.

So che in camera di sicurezza c'è già l'assassino.

Angela lo sa. Ma il questore attende di dare la notizia per il giorno dopo: vuole fare una bella conferenza stampa prima di essere trasferito in altra sede.

Così, penso, posso anche non rispettare i patti, non ne pagherò le conseguenze. Poi, per addolcire la pillola, basta mettere qua e là che la questura diretta da Antonio Gallù fa miracoli, che la risoluzione lampo di un caso così difficile non si era mai vista. Basta citare chi tutto ha preso parte alle indagini, dal piantone all'ultimo dirigente…

Do la notizia, non vado alla conferenza stampa, anticipo tutti. Anche il questore dice in conferenza che farà aprire un'indagine per la fuga di notizie.

Non lo farà, dal ministero gli hanno fatto i complimenti un giorno prima del previsto. Lo dice solo per placare la sete di vendetta dei miei colleghi.

Ho dato il buco a tutti. Vendiamo qualche centinaio di copie in più.

Davanti a uno scoop, il mio direttore è pronto a tutto. Anche al perdono.

Il generale dei carabinieri è stato meno clemente: i ragazzi e il maresciallo sono finiti una settimana in pattugliamento in Barbagia. Non so se per colpa della foto o perché le indagini le ha risolte la polizia. Io finalmente ricevo la telefonata del chirurgo, mio cugino Fabio: mi ricoverano fra due giorni.

* * *

Un impiegato, un uomo qualunque, un matrimonio naufragato nelle secche della gelosia e una figlia che non vedeva da anni. L'adorava la moglie, tanto che il solo pensiero che lo potesse tradire lo mandava in bestia.

Andava in bestia e la riempiva di botte.

Anche del trans era geloso. E alla fine l'ha ammazzato di botte.

Dalla famiglia dell'assassino non ci voglio andare.

– Non ci voglio andare, domani ho l'operazione!

Il capo mi urla che della mia operazione se ne fotte e poi è domani, appunto, oggi sono pagato per lavorare.

Mi urla di fare veloce e che vuole delle belle foto.

Mi dice che vuole la foto del matrimonio dell'impiegato, lo vuole mentre ride affianco alla moglie con l'abito bianco e ai parenti in abito blu. – Così gli affianchiamo la foto che ha fatto Alex mentre il poveretto, - sì, dice poveretto, - esce in manette dalla questura.

Sono davanti alla casa dell'assassino. Davanti alla casa dei genitori dell'assassino, palazzina ceto medio, espansione della città anni '70.

Non ne ho voglia. Non ho voglia di fare l'attore nato.

Vaffanculo.

Okkei suono.

Mi risponde una voce catarrosa.

– Sono il dottor Saporito, – dico.

La voce catarrosa mi dice: – Prego dottore salga.

Fa sempre effetto anticipare il cognome col prefisso dottore. I parenti credono che tu sia un funzionario della questura.

Primo sbarramento superato.

Sono davanti alla porta dell'appartamento, non suono, si apre come sfrego i piedi sul tappetino. È un segnale di buona creanza: pulirsi le scarpe impressiona i parenti, specie se anziani.

Sono un attore nato. Al a fine lo tolgo fuori l'attore nato.

Davanti a me c'è una vecchina che mi arriva all'ombelico.

Ha la voce stridula, non può essere chi mi ha risposto al citofono. Supero panche d'artigianato, un attaccapanni in legno scuro. La vecchina mi fa entrare in uno studiolo. È carico di libri. La vecchina scompare, mi sembra che singhiozzi.

Guardo i libri su un grande scaffale. Filosofia. Due palle. Guardo i libri sulla pesante scrivania. Filosofia.

Che palle. Mi siedo su una vecchia sedia girevole in legno e cuscino in cuoio.

Mi preoccupo. Livello di cultura medio alto, lavoro più difficile.

– Non sapevo ti fossi laureato, Rodolfo.

Nello studiolo ci sono io, in merda, e Carlo Macis, il mio professore di filosofia del liceo.

Sono di nuovo davanti alla cattedra. Sono sotto interrogazione.

– Sei qui per prenderti le foto, vero? – Dice sbuffando e scatarrando.

Mi dice che quel pezzo di merda - dice così: pezzo di merda - è il nipote, figlio della sorella. La vecchina che mi arrivava all'ombelico. Da quando il marito è morto, lui si è trasferito a vivere con lei. Nel citofono è rimasto il cognome del cognato defunto.

Nello studiolo ci sono io, sempre più in merda che ricordo la cena dell'anno scorso, quella della rimpatriata della terza G, dieci anni dopo. Mi ero ubriacato come un porco. Tutti si erano tzoncati come porci.

Anche il vecchio professor Macis si era tzoncato come un porco.

Si sa come vanno queste cose. Ognuno sfodera i galloni conquistati dopo il diploma. A chi è andata bene e a chi meno bene.

Io ho tenuto banco. Ho raccontato tutti gli ultimi delitti della città, i retroscena scabrosi. Le verità che non scriviamo mai sul giornale. Si sono tutti impressionati quando ho detto che la prima cosa che devono subire i rapiti è la violenza carnale. Serve ad annientarli psicologicamente. Uomini o donne, non fa differenza.

La platea mi ha pregato di proseguire. Io sono salito sul palcoscenico. Ho spiegato quanto è pietoso andare a rubare le foto dei morti o dei loro carnefici.

Ho spiegato bene come parto alla lontana. Prima dico che la foto che ci ha dato la questura non rende giustizia alla memoria del defunto. Poi, se trovo resistenza, che farò un articolo per ribaltare tutte le schifezze che gli altri giornali hanno scritto sino al giorno prima. Se il protagonista è vittima, sparo a zero sugli assassini. Se è assassino, sulla vittima. Del tipo: se l'era proprio cercata.

Ho spiegato ai miei ex compagni che bisogna essere attori ma anche fini psicologi. Specie se piombi col cadavere ancora caldo. Devi beccare il parente più lucido, quello che dirige il dolore, oppure quello che ha voglia di sfruttare al massimo i suoi cinque minuti di notorietà. Quelli sono i migliori, parlano, ti ricordano trenta volte il loro nome e cognome, poi ti cedono l'intero album di famiglia.

La foto serve. Serve perché se tu sul giornale dài solo nome o cognome nessuno collega. Collegano solo amici e parenti stretti. Se dài la foto, collega anche il fruttivendolo. L'assassino o il morto lo hanno visto tutti i giorni comprare la verdura ma non ne conoscevano le generalità, si dice generalità come in questura.

Lo ha visto il fruttivendolo e il giornalaio, il vicino di palazzina e il barista del bar, ma non ne conoscevano le generalità. La foto serve perché fa vendere di più.

Siamo una società basata sul profitto.

Ho detto così. Ho chiuso così il mio spettacolino davanti ai compagni della terza G, davanti al professor Macis che ha una memoria di ferro.

Bagassa.

– Tieni, prenditi tutte le foto che vuoi, – lui mi lancia un album con la copertina in radica.

Io acchiappo e ringrazio sommessamente.

– Tanto quel merda non si merita nulla, – dice tossendo.

– Non dica così professore.

Lui mi guarda malissimo: – Hai avuto le tue foto, no? Ora levati dai coglioni. Avvoltoio.

Mi ha chiamato avvoltoio. Sono sul Land che torno al giornale. Ho i nervi infiammati.

Avvoltoio. Mi ha chiamato avvoltoio. Vecchio bastardo.

Maledetto catarroso.

Siamo una società basata sul profitto e io cerco solo di tenermi a galla.

* * *

Al Rasputin Gepi è puntuale come sempre. Gli ho detto che vorrei fare un'uscitina. Io e lui, in relax, senza le amiche e senza propellenti. Non posso, non voglio lasciare tracce nelle analisi del sangue, per l'operazione.

Spingo il Land lentamente verso il Freezer. L'autoradio la lascio muta. Gepi dice che il Freezer è il locale giusto per questa notte. Al piano di sotto sudano e ballano, ballano e sudano. Sul a balconata si può stare tranquilli. Guardi la bolgia che ti scivola sotto i piedi ma non la sfiori neanche.

Gepi ha ragione. Anche se poi abbandona i buoni propositi ed è sopra uno sgabello che fischia e urla.

Sono solo. In questa balconata ci sono io che guardo, scruto, analizzo. È il mio mestiere.

Si divertono i ragazzi, si divertono le ragazze. Vorrei divertirmi anch'io ma oggi non posso, neppure un mirto.

Succhio arancia-carote e divento melanconico.

Cece il dj mi fa cenno di scendere, io faccio spallucce.

Lui mi fa cenno: e ajò!

Sono sempre più melanconico.

Vibra il cellulare. Il vibracall mi fa tremare il sedere.

Guardo il display. Se è mia madre non rispondo, se

è la mia ex fidanzata non rispondo, se è Angela non

rispondo. È un messaggio Sms.

''Sfilata, alla passeggiata al coperto, pieno di strafighe. Movirì. Saverio''

Guardo l'orologio, pochi minuti alle 23. Ma sì, in ospedale devo essere alle 8. Mollo Gepi.

Sono nei camerini della sfilata, succhio arancia-carote.

Per fortuna le modelle durante la sfilata non toccano alcolici.

Nei corridoi dei camerini ci sono io, un po' meno melanconico, e Saverio, arrapato come un cane.

Gli piacciono le modelle. Ci piacciono le modelle.

Saverio dice che in questa città ci sono le più belle ragazze della nazione. Io dico che ha ragione. Lui dice che però non riescono ad emergere: – Sarà colpa del mare.

Io dico cosa c'entra il mare.

– C'entra, c'entra. – Ribatte.

Io dico che è solo una scusa bastarda. Assenza di coraggio, intraprendenza. Ecco perché non emergono.

Lui s'incazza. Io anche.

Gli dico che Caterina Murino ce l'ha fatta perché ha vinto l'attaccamento morboso che vi lega alla vostra isola.

Gli dico vi lega. Perché io di cognome faccio Saporito e lui Campus. I miei arrivano dal Piemonte, e prima ancora dal regno delle due Sicilie, i suoi da qualche scoglio della zona, gli dico. Del resto mi chiamo Rodolfo e non Efisietto. Secondo te un sardo purosangue lo avrebbero mai chiamato Rodolfo? Mai.

Rodolfo, per voi bestie che dovete accorciare tutti i nomi con la y, Rudy. E mi sta pure bene, fa molto italoamericano.

Rudy Saporito sa di loffio: tipo gangster o campione di baseball o attore. Ma se fossi stato Francy o Dany, vi avrei srotolato la lingua con una tenaglia per farvi sil abare tutto il mio nome per intero. Carissimi Samy, Marcy, Lory, Susy dei miei coglioni.

Saverio s'incazza. E mi ricorda che, cognome a parte, anche io sono nato qua. S'incazza e mi ricorda che, qualche anno in Piemonte a parte, i miei arrivano da Napoli, Terronia.

Ma neanche più lo ascolto. I miei bulbi oculari viaggiano in un'altra direzione.

Passa Caterina Murino, alta, bella, ha fatto la valletta, la pubblicità della Mercedes e quella della Swatch.

E sì, dimenticavo, anche Pelmosoda, lì è l'infermiera che estrae la lattina dalla borsa ghiaccio degli organi trapiantati. Ora studia recitazione. In volata per la Tv.

Parlotta con Saverio che oltre a collaborare con gli Spettacoli dirige un giornalino. Saverio è dieci anni che cerca di farsi assumere, ma Lavori Sessualmente Utili gli ha fregato il posto. Ci ha fregato il posto. Entrambi puntati alla cronaca mondana e alle pagine della moda. Io ho accettato la nera. Lui attende che Lavori Sessualmente Utili crepi.

Intanto le modelle se lo coccolano. Caterina Murino se lo coccola e io vorrei essere al suo posto. Lui sa stare al suo posto, io a volte no.

Mi metto in mezzo, le dico che so che sta facendo la scuola di recitazione.

Lei dolcemente mi risponde di sì.

Le dico che sto scrivendo un fiction per la Rai.

Balla.

Le dico che ho una sceneggiatura quasi acquistata da un grosso produttore.

Superballa.

Le dico che potremo incontrarci per fargliele leggere, magari a casa mia.

Attico in centro.

Lei scuote la testa e se ne va.

– Sei un coglione. – Saverio è visibilmente scocciato.

– Sei un coglione, prima dici che è una tipa in gamba, poi la tratti come un'imbecille. Guarda che non è una di quelle che vanno al Doctor.

Gli dico che cosa minca c'ha contro il Doctor. Lui risponde che è pieno di ragazzine impasticcate e marci, marci come me che ogni sabato là dentro ci faccio l'alba col naso intasato. Io gli dico che il marcio è lui: fa il cane da guardia alle modelline e non ha il coraggio di andare oltre.

Stasera siamo fuori sintonia.

Lui va a chiedere scusa a Caterina. Io torno al Freezer.

Sono sul Land. Sono al telefono col giornale. Il reparto Moda&Mondanità non ha ancora chiuso. Parlo col capo servizio. Rimpiange il giorno che hanno preso Lavori Sessualmente Utili e non me. È felicissimo mentre gli detto a braccio trenta righe su una sfilata che Lavori neppure sapeva esistesse. Gli dico che l'unico neo è stata Caterina Murino, che la vita romana e la frequentazione delle trattorie le ha allargato, e di gran lunga, cosce e sedere. Si è sbuddata. Supersuperballa.

Lui scrive e titola. Poi mi prega di riprendere a collaborare con loro, cronaca nera permettendo. Io dico che non potrei, che il mio capo è molto geloso di me.

– Anzi, – aggiungo, – il pezzo firmalo Saverio Campus, era con me e la pensa alla stessa maniera. Visto che lo pagano ancora a cottimo, almeno gli danno trentamila in più a fine mese.

– Sei un ragazzo d'oro, Rudy.

Gepi è andato via. Cece è andato via. Tutti sono andati via. Ci sono solo i Pr e le donne dei Pr, i barman e le donne dei barman, i buttafuori e le donne dei buttafuori. Gli altri li ha mandati via la polizia. Musica troppo alta: i vicini non ne potevano più.

Gliel'avevo detto a Mariolo, il proprietario. Ma quello non mi ha mai dato retta. Gliel'ho anche scritto sul giornale che in centro fra mille abitazioni non si può aprire un locale notturno. Da quella volta Mariolo mi ha dato la tessera Vip, accesso libero al bancone.

Io ho finito di ricordare sul giornale che i suoi watt spaccavano i coglioni a tutto il vicinato. Ho anche evitato che tutte le lettere di protesta arrivassero sul tavolo del capo, ma non su quello del capo della polizia amministrativa. In questura copro solo Gepi.

Mi faccio fuori un arancia-carote, giusto per far contento Mariolo che ha voglia di sfogarsi. Mi chiede se posso fare qualcosa. Io dico che gli posso indicare un buon avvocato. Lui vorrebbe qualcosa di più.

Ma io faccio finta di non capire. In questura copro solo Gepi.

Mi lascia al mio arancia-carote, manca poco alle 3.

L'ultimo sorso e vado a dormire.

Mi guardo intorno, il Freezer fa veramente schifo.

A luci accese, fa veramente schifo. A fine serata e luci accese fa decisamente schifo.

C'è un patina di melma che copre tutto il pavimento. Birra e sudore. Alcolici e acqua sporca, quella in arrivo dal wc sfondato.

Ci galleggiano cicche di sigarette, bicchieri di carta schiacciati, bicchieri di vetro spaccati.

C'è una cappa densa di fumo, nell'aria. C'è condensa mista a polvere e ragnatele, sugli arredi.

C'è Bulla, il Pr della serata che litiga con una tipa.

Si regge a malapena in piedi. Anche lei si regge a malapena.

Li regge il bancone del bar dove si affrontano faccia a faccia, sbilenchi sugli sgabelli in acciaio e similpelle rosso fuoco.

– Non ti ho mai chiesto nulla! – Urla lui.

Lei gli fa le smorfie ma non gli risponde.

– Non ti ho mai chiesto nulla nella vita!

Lei gli fa le corna.

– Non ti ho mai chiesto nulla! Nulla! Solo la figa! Ti ho chiesto solo la figa! Nient'altro nella nostra vita ti ho chiesto! Solo la figaaaa!

Sotto c'è uno mezzo svenuto, accasciato fra le loro gambe e gli sgabelli. Ha la bocca aperta.

Non ha un dente in bocca. E biascica: – Dài ragazzi, peace and love. Peace and love, basta con queste vibrazioni negative.

Un mese di convalescenza mi farà bene.

Autunno

Io dico: perché la mia vita è tutta in salita? Avevo previsto un mese di convalescenza? Avevo previsto l'operazione? Ho evitato di bere?

Allora perché ora questa faccia d'asino d'infermiere mi dice balbettando che il chirurgo, quel rincoglionito di mio cugino Fabio - ramo materno - è a letto con l'influenza? Perché mi dice che la mia operazione salta a data da destinarsi?

A data da destinarsi.

Sono sulla rampa che porta ai parcheggi dell'ospedale. Sono al telefonino con la moglie di Fabio, quella rachitica di Ester che dice che Fabio non mi può parlare. Dice che è seduto in gabinetto: la spagnola quest'anno prende così. Cagarella e febbrone.

Ester dice che Fabio le ha detto che devo avere pazienza, che quella gobbetta al naso me la vuole levare lui.

Ester parla come una mitraglietta che ogni tanto si inceppa. Ester è fastidiosa quando parla. Ester è fastidiosa anche quando sta zitta.

Io provo a dirle che Fabio poteva anche avvisarmi qualche ora prima, non all'alba di martedì.

Ester mitraglia che le 8 del mattino non sono l'alba e che Fabio ha sperato sino all'ultimo di potersi alzare dal letto.

Io le ribatto che semmai Fabio sperava di alzarsi dal gabinetto e per me, che lavoro sino alle 23 - sì, dico ventitré - le 8 sono l'alba. Poi la mando a cagare e chiudo.

Bagassa.

Salgo in macchina e penso. Siamo a metà settembre, il conto in banca è quasi all'asciutto. Cosa me ne faccio di un mese di malattia? Nulla, non me ne faccio nulla. Quindi vado al giornale e mi presento dal capo servizio.

Okkei, faccio così. Okkei, mi calmo, è solo un imprevisto.

Okkei, le vacanze di sano relax sono solo rinviate.

Okkei, faccio finta che non sia successo nulla.

Filo non può far finta che non sia successo nulla. È sette anni che cerca di farsi assumere. È sette anni che spera di entrare in pianta stabile in questo giornale. Sperando si è sposato, sperando ha fatto una figlia, sperando si è messo il mutuo della casa, quello della macchina, la findomestic per tv, frigo, lavatrice.

La moglie ha la pancia gonfia, aspetta il secondo figlio. Io glielo avevo detto: – Filo vedi di non allagare un'altra volta la cantina.

Bonà mi ha detto che ero stato volgarissimo, privo di ogni tatto.

Sarà. Però la verità è che se uno non ha soldi non si sposa. Se uno non ha una lira non si mette il mutuo della casa, quello della macchina, la findomestic per tv, frigo, lavatrice. Se uno non ha soldi non fa uno e poi due figli.

Bonà mi ha detto che esiste la divina provvidenza e che io non mi apro alla vita. Io le ho risposto che alla fine è la vita che aprirà il sedere a Filippo se non si mette un rubinetto al cazzo.

Filo lo pagano a cottimo, come Saverio. Trentamila lorde a pezzo. Quando qualcuno di noi si ammala a lungo termine - si dice così, a lungo termine - lo assumono a tempo, in sostituzione. Busta paga regolare.

Ecco perché Filippo diventa verde quando mi vede avanzare verso la mia scrivania.

– Operazione rimandata, – gli dico buttando la mia giacca sul tavolo.

– Operazione rimandata, – ripete lui come una automa mentre riprende la sua borsa e va in amministrazione dove gli stracceranno la lettera d'assunzione.

Vorrei dirgli di non preoccuparsi, che prima o poi lo assumeranno. Vorrei dirgli di non preoccuparsi, che quando quel cazzone del cugino Fabio si riprende ci sarà l'operazione, il mese di convalescenza e il suo mese di sostituzione.

Ma Filo è già sulle scale. Ci sarà tempo per spiegarglielo.

Pomeriggio. Il capo dice che oggi di me non se ne fa nulla. Il controllo questura-carabinieri-ospedali-vigili del fuoco lo aveva già fatto Filo. E lo dice facendomi pesare la cosa.

Io gli spiego che non è colpa mia se mi hanno rimandato l'operazione. Lui mi dice che dall'ospedale potevano anche avvisarmi per tempo.

Ribatto che è la stessa cosa che ho sostenuto io. Lui dice che quando voglio non mi faccio valere. Colgo la palla al balzo e gli dico che visto che non se ne fa nulla di me, punterei la prua verso casa.

Lui dice che la prua me la posso puntare in culo.

Dice di stare fermo lì, che un servizietto per me ce l'avrebbe anche. Quando il capo dice che ha un servizietto, c'è l'inculata dietro l'angolo.

Dietro l'angolo c'è un capannone, addobbi e festoni, un'orchestrina di liscio e mille arteriosclerotici radunati dai Servizi sociali del Comune per il ''Ballo dell'anziano''.

Sul Land. Alex, il fotografo, parla senza tregua.

Ogni buca che fa ballare gli ammortizzatori dice che è tutta colpa degli appalti del Comune se l'asfalto fa schifo. Dice che è tutto un magna-magna. Che quello che dovrebbero fare con 100, lo fanno poi con 50, perché 10 vanno all'assessore ai Servizi tecnologici, 10 all'assessore ai Lavori pubblici, 10 al sindaco, 10

all'ingegnere dei Servizi tecnologici, 10 a quello dei Lavori pubblici.

Alex, il fotografo, ogni lampione spento che incontriamo sulla strada dice che è tutta colpa degli appalti del Comune e dell'Enel. Dice che è tutto un magna-magna. Che quello che dovrebbero fare con 100, lo fanno poi con 40, perché 10 vanno all'assessore ai Servizi tecnologici, 10 all'assessore ai Lavori pubblici, 10 al sindaco, 10 all'ingegnere dei Servizi tecnologici, 10 a quello dei Lavori pubblici, 10 al funzionario dell'Enel.

All'ingresso del capannone, un valzer ovatta la litania di Alex. Mi imbuco fra una selva di rughe, crape pelate, sciatiche, lombaggini, ernie. I vecchi mi fanno paura. Mi fa paura diventare vecchio. Perdere i capelli, allargare la circonferenza della pancia, incurvare la spina dorsale.

Mi fanno paura i vecchi, perché sono tremendamente soli. Mi fa paura restare da solo.

Mi consolo. Mi zazzigo di panettone. Mi ingolfo con le tartine del buffet, mentre i vecchi ballano. Chiedo al barman di darmi un Campari. Quello ribatte che ha solo Fanta e Coca. Vada per la Coca.

Alex sta scattando più foto che all'elezione del presidente della giunta regionale. Erano sei mesi che non riuscivano a farlo.

Alex crede di essere al matrimonio di Lady D. Sarà che ha trovato sua suocera con la sorella. Alex fa valere il suo ruolo e scatta, scatta a ogni vecchia che la suocera gli presenta. Scatta a quella che ha un abito lungo in lamé. Fuoriluogo.

Scatta a quella rinsecchita che mangia il panettone intorcinata su una sedia.

Mangia come un uccel ino, briciola dopo briciola.

Scatta alle assistenti sociali che, si vede, non ne possono più di stare lì ma trovano la forza per invitare un panzone al ballo. Quello si schermisce, dice che ha una gamba di plastica, che lo hanno operato, colpa della diabete. Dice così, della diabete.

Le assistenti gli rispondono che se può mangiare il pandoro con il diabete, allora può ballare con una gamba sola. Il panzone ride e fa vedere che il liscio è il suo forte, gamba di plastica a parte.

Mi fermo e osservo. Mi diverto a ricostruirli prima del tracollo. Quella doveva essere una bella donna.

Quella invece la faccia da topo se l'è dovuta portare appresso sin dalla nascita. Quello il naso da pugile glielo deve aver fratturato un padre merdoso. E quello con un braccio in meno forse, prima di partire per la Russia, ce li aveva tutti e due.

Alex scatta. Io scambio due battute con l'assessore ai Servizi Sociali. Giusto due battute per fare contento il Comune. Si fa così, il Comune ogni tanto va fatto contento.

Ho fatto il pieno di appunti e impressioni.

Mi speso, senza Alex. Che lo portino la suocera e la sorella al giornale.

Così la storia del magna-magna se la sorbiscono loro.

Sono al giornale. Apro l'archivio professionale, non mi costa nulla: è tutto catalogato nel mio cervello. Voglio quell'articolo in prima pagina, l'ho voluto da quando il capo mi ha guardato dritto negli occhi e ha detto: – Mi raccomando, vai alla festa. Potrebbe essere anche un pezzo curioso, un taglio per la prima pagina.

Il direttore mi ha detto che oggi in prima non hanno un granché.

Sa come prendermi, il mio capo. Sa che per un pezzo in prima sono pronto a vendermi l'anima. Anche per altre cose sono pronto a vendermi l'anima.

Il capo ha detto che il direttore aspetta di leggere il mio pezzo. Sono le 21. Se mi concentro alle 23 sono all'Ampurias. Apro l'archivio e ricapitolo i miei formati standard.

Orgoglio sociale: no.

Cronaca secca: neanche.

Decadente: fuori luogo.

Registro De Amicis: commovente con brio.

Il direttore ha detto che gli è piaciuto il racconto in prima persona. Il direttore ha detto che acchiappa ed è avvincente. Ma che in prima pagina preferisce mettere un commento di economia.

Io gli ho detto che non ci sono problemi, che non si può avere sempre tutto e che anche nelle cronache andrà bene. Lui mi ha messo una mano sulla spalla e ha ribadito che la strada per il vicariato è ormai spianata.

Vaffanculo al direttore, al mio caposervizio, alla festa degli anziani. Mai più, mai più un pezzo con l'anima per questo giornale di merda.

Sono all'Ampurias. Pizza e birra da solo. Italo mi dice che ormai l'inverno è nell'aria e il giro d'affari sta crescendo.

Mi dice anche che la stagione sta decollando e mi deve molto perché sul giornale gli sto dando grandi spazi nella pagina degli appuntamenti di notte.

Io gli rispondo che non per altro ceno nel suo locale tre giorni alla settimana. Lui ribatte che anche per questa notte al conto non ci devo pensare.

Mi squilla il cellulare. Se è mia madre non rispondo, se è mio fratello non rispondo, se è la mia ex fidanzata non rispondo. È Angela. Troppo tardi per pizza e videocassetta.

Tempo limite per tutto il resto. Rispondo.

E questo era l'autunno.

* * *

Li sento i tubicini che mi stanno infilando dappertutto.

Cavetti di plastica trasparente. Lo sento l'odore dei gel che mi spalmano per appiccicarmi elettrodi o cazzate varie. Lubrificanti e sondini. Sento e vedo come se stessi sognando: ovattato, appannato, accecato da una luce intensa che mi abbaglia e brucia gli occhi.

Il mio sogno ricorrente: il sole che mi infiamma la vista e io che vago cieco alla ricerca di un qualcosa che ho perso.

Mi stanno perforando la carne con aghi sottili e lunghi. Aghi a farfalla. E nelle vene mi fanno scorrere liquidi bianchi o gialli.

La luce mi brucia e strizzo gli occhi. Intravedo l'infermiera che mi pianta il catetere, la intravedo di spalle e quando si gira riconosco la stessa faccia sadica della mia professoressa di italiano. È lei: la mia professoressa d'italiano. Quella con le mani piccole piccole che ora mi martoriano il pisello.

C'è il mio sogno ricorrente di non vederci una mazza e c'è quell'altro mio incubo, quello della Maturità.

Mi volto. Il professor Macis - filosofia - ha la mia cartella clinica in mano. Quella di greco e latino sta imburrando le palette per il massaggio cardiaco. C'è tutto il corpo docente della terza G, qui, nella mia stanza d'ospedale. E io sono nuovamente un ragazzino stronzo, quello stronzetto della terza G.

Sono il figlio dell'avvocato che non ha mai voluto studiare. Sono quello con la moto alla moda, con i vestiti alla moda. Fidanzato con la reginetta del liceo e beccato nei bagni con la figlia della bidella che viene dai paesi e ha due poppe così.

Sono quello che poi le ha lasciate tutte e due. La reginetta, quando ha perso la coroncina e ha iniziato a farcirsi di cioccolata. La bidellina, dopo un raschiamento all'ospedale di San Gavino. Giusto in tempo per le vacanze di Natale.

Abbronzato d'inverno: settimana bianca. Trentino o Valle d'Aosta. Il preferito dalla insegnante di sci.

Sono quello rimandato a fine anno, ma ogni estate è sempre abbronzato.

Scena muta a settembre ma sempre promosso. Perché a ripetizione ho sganciato la tariffa più alta alla sorella della mia prof di chimica che è ancora precaria e si arrangia così. La più alta al cognato della mia prof di matematica. Riporto oleoso e cinque figli da mantenere.

Sono Rudy a 19 anni. Sono Rudy che cerca di essere ammesso all'esame di Maturità. Sono un asino che sa solo scrivere bene in Italiano. Il resto è una tragedia: non mi applico.

– Saporito, tu non ti applichi

La mia infermiera d'italiano l'ha smessa con il catetere e ora mi chiede l'analisi del Paradiso. Il mio dottore di filosofia urla che vuole un referto inappuntabile sulla critica della ragion pura. Mi alitano a un soffio dal naso.

Li ho addosso.

Come a scuola.

– E sul cubismo cosa mi dici, Saporito?

È entrata anche l'infermiera di storia dell'arte.

Sono Rudy all'esame di Maturità disperato che cerca lo sguardo complice del presidente della commissione.

Quello che mio padre ha incontrato a Palermo.

Quello che tanto un 36 - ma si può fare anche di più - non si nega a nessuno e che la figlia ora è assunta al Comune di Agrigento. Papà lavora molto con i siciliani.

Papà mi ha sempre coperto il culo. E io mi sono applicato in altro.

Sono Rudy all'esame di Maturità che cerca di imbastire una risposta per lo sguardo complice del Presidente, ed evita lo sguardo supplice della commissaria interna, quella che papà si era occupato di sbrigare tutto a San Gavino, la figlia della bidella, che muove solo le labbra e borbotta: – Potevamo tenerlo, potevamo tenerlo… sarebbe stato bellissimo, sarebbe stato.

Borbotta, tormenta un biglietto del treno San Gavino-Assemini, e borbotta: – Ma almeno a casa potevi riaccompagnarmi… a casa, in paese, con la tua moto… avresti fatto il giro della piazza mentre io ti tenevo stretto da dietro… mi hai lasciata su questi binari… morti…

E il fischio del treno.

I dottori professori svaniscono nella luce che mi smeriglia gli occhi, le infermiere professoresse evaporano.

Il sole mi abbaglia, qui in questa stazione deserta, dove c'è solo lei in mezzo al nulla. Qui dove il maestrale tira forte e le sconquassa l'abito bianco, il velo, lo strascico. Qui dove la sabbia rossa vola e balla e le graffia il viso. Qui dove c'è solo una bidellina vestita da sposa che imbraccia e culla un enorme biglietto del treno. Un foglio stropicciato che gocciola di sangue e saliva, avvolto c'è un maialino. È albino e lo hanno appena sgozzato. Ha la testa riversa su un lato, la lingua fuori che ritma gli ultimi respiri, le zampette che si muovono a scatti.

Sento lo spalettare dell'elicottero sulla mia testa.

Sento la voce di mio padre.

– Non si applica, non si applica

Sento la voce di mio fratello.

– Non puoi sempre coprirgli il sedere. Gli affari sono affari. O tira fuori le balle o lo si lascia a terra.

Li sento, sono vicini al mio letto.

Bisbigliano. Non sono più Rodolfo il figliolo stravagante.

Sono Rudy il figlio abbandonato in un letto d'ospedale. Sono un somaro sfrattato dal paese dei balocchi.

Poi anche il loro ruminare sommesso svanisce mentre avanza il ronzio dell'elicottero. Vengono a darmi la promozione.

Inverno

Angela si è offesa a morte. Me ne fotto: io scarico su di lei tutti i nervi accumulati durante la giornata.

In casa di Angela fa freddo, un frius da morire, e le ho detto che questa è l'ultima volta che stiamo da lei.

Lei dice che lo stipendio di una poliziotta non è lo stipendio da giornalista. Io le dico che i gusti non sono questione di pilla.

Angela è sempre più nera.

Le dico che questa stufa a gas non scalda e fa una puzza tremenda.

Angela si alza di scatto e mi indica che quella è la porta.

Guardo l'orologio, sono le 22,40. Mancano cinque minuti a South Park. Non perderei South Park per nulla al mondo. Non perderei I Simpson e South Park per nulla al mondo. I miei cartoni animati preferiti.

Mancano quattro minuti a South Park. Ce ne vogliono almeno 20 per tornare a casa ed essere sderigati davanti alla tv, al caldo della pompa di calore.

Okkei, mi tocca. Salgo sul palcoscenico.

– Scusami, – dico con la coda fra le gambe. – Scusami, a volte sono un vero stronzo. – Aggiungo.

Angela ha sempre il braccio alzato, e l'indice che indica la porta d'ingresso, anzi d'uscita.

– Scusami amore, sono una vera testa di cazzo. Scusami, ma ho i nervi tesi.

Abbasso gli occhi e poi la testa. Un po' per essere convincente, un po' perché mi faccio schifo.

Ma mancano tre minuti a South Park.

– Scusami amore, sono fuori dalla grazia di Dio.

Quel minchione del cugino Fabio ha detto che l'operazione al naso me la può fare poco prima di Natale.

Io gli ho detto che in quel periodo il giornale è all'osso di organico e non posso permettermi di mancare.

La mia coscienza, la mia lealtà verso i colleghi mi dice che non posso mancare. Così quello stronzo di Fabio ha detto che mi ricovera per i primi di gennaio.

Angela ha il braccio un po' più inclinato e l'indice che indica quasi le mattonelle.

Mancano tre minuti a South Park.

– Perdonami tesoro, ma questa operazione mi rende nervoso e cattivo. Sono stato cattivo, stronzo e cattivo.

Mi sono sfogato con te anziché col cugino Fabio.

Mancano due minuti a South Park.

Angela ha il braccio abbassato e l'indice che indica la mattonella sotto i suoi piedi.

– Dài, buttiamoci sul divano che inizia South Park.

Pappina sul collo, un bacio sulla guancia. Pace fatta.

Attore nato per donnette.

Angela mi cucina una sebada. Dopo South Park e uno sfrega-sfrega sul divano, un dolce ci sta sempre bene.

Culo pelosetto e miele vanno d'accordo.

Culo pelosetto e dolci sardi sono uno standard regionale.

Angela cucina e dice che Goldrake è meglio dei Simpson.

Vuoi vedere che mi fa girare le palle?

Vorrei farle una recensione con i fiocchi. Ma mi astengo, fiato sprecato. Angela per il prossimo esame ha imparato il codice di procedura penale a memoria, ma sul fronte narrativa si ferma ai racconti di Grazia.

Grazia Deledda. Mi limito a fare spallucce, poi la stringo forte, vorrei farle male, fargliela pagare questa sua crassa ignoranza ma lei lo scambia per un approccio un po' macho. Mi lecca il collo e io do il meglio di me.

Sarà merito del miele delle sebadas.

* * *

Sono all'Ampurias. Filo mi ha chiesto se poteva parlarmi.

Gli ho detto okkei, a cena. Tanto paga Italo.

Sono seduto al tavolo, birra e pizza. Anche se è venerdì notte, ho detto di no a Gepi.

Ha invitato il romano tre giorni qui da noi. Dice che lo vuole studiare attentamente, capire se il business del disco-bar di Ibiza è un buon affare.

Secondo me Gepi gli sta solo lingiando il culo. È solo un'impressione, ma da come il romano ieri a cena si è fatto il piatto di agnolotti mi è venuto un dubbio.

Perché uno che fa un miliardo in quattro mesi si alluppa così avidamente?

O è un eiaculatore precoce o ha fame. Molta fame.

Filippo invece mangia lento. Quasi svogliato.

Gli ho detto okkei perché sino a mezzanotte sono solo. Gli ho detto okkei per la cena perché un minimo va consolato. Questa storia degli anni per essere assunti l'ho passata anch'io.

Filo si lamenta ma non calca la mano. Si lamenta e non si lamenta. Ho l'impressione che non mi voglia parlare del giornale e della sua assunzione rimandata nei secoli. Non credo che abbia neppure tanta voglia di parlarmi del mutuo e delle rate findomestic.

– Cosa pensi delle ventenni?

Ora ho la certezza che Filippo non volesse parlarmi del giornale.

– Cosa pensi delle ventenni? – Mi ripete tenendo bassa la voce.

– Chi è? – Gli chiedo.

– Chi è chi? – Mi risponde.

Gli vengo incontro.

– Anche io ho una storia con una pischella, una diciottenne. Si chiama Gigi.

Filippo sgrana gli occhi, sembrano due zoom con l'atropina.

– Si è… si è operata? – mi dice.

– Si è operata chi? – Voglio vedere dove arriva.

– Questa Gigi… questa Gigi si è operata? – dice, balbetta, poi diventa rosso. E prende la carica: – Sì…

insomma… questa Gigi… non ce l'ha più il piselletto… vero?

Filo è viola ma ormai è in ballo: – O cazzo… questo Gigi è un trans o si è operata… il piselletto ce l'ha o no?

– Filo, sei tutto accallonato.

Filo è tutto accallonato, sbianca e io aggiungo che è un lesionato. Fuso e lesionato.

– Gigi è una donna, testa d'osso.

Gigi è una bella ragazza. Gigi sono le iniziali del suo nome e cognome: Giulia Giua. No? Come Brigitte Bardot. Qual è il diminutivo di Brigitte Bardot? BB. Si legge Bi Bi. Quello di Giulia Giua è GG. Si legge Gigi.

La Gigi, non il Gigi.

Sono all'Ampurias, Filo è in merda. Filippo è in doppia merda. Mi chiede scusa e mi dice che ha perso la testa per una ventenne. Mi dice che solo sesso non gli basta e poi mi richiede scusa per Gigi. Mi chiede scusa e quasi piange perché lei è un angelo, anche la moglie è un angelo e lui sta facendo del male a tutti.

Io cerco di spiegargli che se la moglie lo viene a sapere lo ammazza. Il mutuo, la rata auto, le cambiali findomestic, una figlia nella culla e l'altra in arrivo più l'assegno familiare per abbandono di tetto coniugale.

Gli dico che per reggere quel ritmo, al giornale dovrebbero assumerlo non una, due volte.

Filo mi dice che lei è innamorata, Filo mi dice che lui è innamorato.

Io mi dico, ma proprio con me doveva sfogarsi?

Gli ricordo che lui ha 36 anni e lei 20 e gli spiego la solita storia che tutto ciò che lui ha già fatto – anche se ne dubito - lei lo deve ancora fare, che le sue esigenze presto non saranno le sue esigenze, quelle di lei. Che quando lui avrà quarant'anni e si sarà rotto i coglioni di seguirla tre giorni su sette in palestra, il venerdì in discoteca, il lunedì al Warner Village, il mercoledì al teatro universitario, lei ne avrà solo 24 e avrà ancora voglia di dimenarsi sul cubo dell'Open Brain dove l'ha conosciuta quella sera per l'addio al celibato del fratello.

Filo tiene lo sguardo basso e mi dice che lei fa la cubista ma solo per mantenersi agli studi in ingegneria.

Io gli dico che questo non è il punto, che anzi le cubiste sono delle sante donne, lo rassicuro e gli spiego che sono quelle più restie a darla.

Lo tartasso, non gli do fiato. Lo bombardo, voglio che reagisca.

Gli ricordo che quando lui avrà 50 anni, lei ne avrà sempre troppo pochi per pensare al fondo pensione.

– Ma mica me la devo sposare! – Filo finalmente esplode.

Gli dico fai come me e Gigi: ci si vede casualmente, raramente e sempre e solo di notte. Non so come sia fatta Gigi di giorno.

Se ci va stiamo insieme, sennò no. Io non le chiedo nulla, lei non mi chiede nulla ma quando stiamo insieme ci divertiamo.

– Si chiama passione, caro Filo, non amore. Passione o più semplicemente sane scopate.

Filo fa sì-sì con la testa. Quasi ride. Filo si è illuminato, l'ho illuminato. Mi guarda e ride.

– Andiamo all'Open Brain? – ha un sorriso celestiale.

Io gli ricordo che ha una moglie e un figlio e mezzo a casa. Lui sorride, un sorriso diabolico, e mi dice che la moglie adesso è in strada per andare a trovare la madre e il padre in paese per il weekend.

Io gli dico che mi sembra un po' strano per una mamma mettersi in strada a quest'ora. Lui mi risponde che è l'ora migliore per non avere Samantha che rotola fra un sedile e l'altro. Dorme beata nell'infant-seat Samantha, che la moglie di Filippo chiama Samy, la loro prima figlia.

– Ajò all'Open? – Filo ha un sorriso fra il diabolico e il celestiale.

E ajò all'Open, tanto Gepi sarà lì.

Mancano pochi minuti all'alba di sabato. Il romano suda e si sbraccia mentre balla. Il romano fa il gradasso con Gigi che mi chiede da dove lo abbiamo bogato.

Ale dice che secondo lei gli fràgano i piedi. Gepi le dice come fa a sentire frago di piedi in mezzo a questo casino. Le dice scocciato che il romano è l'uomo del suo destino e che la puzza è il misto di sudore e alcolici di mille persone pressate in un posto che ne può contenere la metà.

Io guardo le scarpe del romano. Sono le stesse Puma che aveva la scorsa estate a Ibiza. Ha ragione Ale: la puzza è dei suoi piedi.

Gigi è incazzata perché il romano le ha versato addosso un bicchiere di superalcolico blu cobalto. Gigi ci teneva particolarmente al suo nuovo completino, gonna lunga e top, jeans invecchiato.

– Ma siete sicuri che questo è il re di Ibiza?

Io le chiedo chi le ha mai detto che questo qua è il re di Ibiza.

Lei mi risponde indicandomi Gepi che ora cerca di far legare il romano-re di Ibiza con Ale, complice una striscia di boliviana allineata sul marmo di un tavolino.

È la prima volta che Gepi mi fa incazzare. È la prima volta che vedo Gepi senza difese immunitarie.

Vorrei dirgli che più che far venire il romano qui, era meglio che andasse lui a Roma per vedere come il re di Ibiza se la cavava, cosa si poteva permettere con quel miliardo in quattro mesi. Vorrei dirgli questo e altro ma ormai è fuori controllo, viaggia col passaporto sudamericano.

Qui hanno tutti il passaporto sudamericano. Persino Filo che si gode il suo angelo ventenne che questa notte all'Open non deve lavorare.

Fuori il sole sta per sorgere ma qui i suoi raggi non entrano. Qui, stasera, sono tutti fuori controllo. Gepi è fuori controllo, Gigi è fuori controllo, Ale è fuori controllo, Filo e il suo angelo sono fuori controllo.

Io mantengo il controllo, oggi mi va così. Oggi osservo, illuminato solo da qualche mirto. Oggi osservo, è il mio lavoro.

Sono all'Open Brain e guardo un'amica di Gigi, un'amica che balla con Gigi. Pantaloni maculati, stile mucca svizzera. Canottierina nera: un bel culo e un bel seno e la faccia così così.

Sono all'Open Brain e guardo il romano mentre i buttafuori se lo portano via. Era ora. Per tutta la sera ha versato birra addosso a mezzo locale, per tutta la sera ha bruciato maglioncini, felpe, braccia nude con quelle puzzolentissime sigarette senza filtro.

Guardo il romano. Avrà la mia età, 29-30 ma io me li porto meglio. Sarà che io non ho pancia, sarà che io sono più alto, sarà che io ho tutti i capelli. Lui visto da dietro, trascinato per le spalle, mostra uno scucco che i capelli lunghi tirati indietro e chiusi in una coda non gli coprono più.

Sono all'Open Brain e guardo Gepi che rincorre i buttafuori e il romano. Io gli urlo di lasciar perdere, di lasciar stare, che un po' di fresco non gli farà male.

Ma Gepi neppure mi ascolta, oggi è fuori controllo.

Sono nel parcheggio dell'Open. Seguo Gepi a distanza, non voglio che faccia cazzate. Non voglio che faccia cazzate per quel testa di cazzo di romano.

Sono all'uscita dell'Open, fa freddo e il sole è dietro una trincea di nubi nere. Sono all'uscita dell'Open Brain e mi arriva l'eco ovattata della musica. Wop Wop.

Poi quello più chiaro della sirena della polizia.

Gepi non se ne accorge. Gepi è a venti metri da me, discute con i buttafuori per far rientrare dentro il romano che tengono bloccato per il collo con uno sfollagente. Un bel bastone nero che io gli avrei già infilato su per il culo.

Gepi non si accorge che la macchina della polizia è sempre più vicina. Gli faccio un fischio. Il nostro fischio: uno lungo, uno corto.

Gepi finalmente mi guarda, si gira, capisce e con passo veloce si rinfila dentro l'Open Brain. Finalmente lo riconosco. Mors tua, vita mea.

A cagare il romano che ora urla e la polizia lo carica sulla Volante.

Mi godo la scena e mi accorgo che un poliziotto punta verso di me. Non mi controllo le tasche, sono pulito.

Non mi controllo le tasche, il pulotto mi sorride e cinque metri prima di raggiungermi mi tende la mano.

Le nostre mani si incontrano e lui cambia espressione.

– Mi dispiace Rudy. Mi dispiace proprio. – Scuote la testa e non mi lascia la mano.

Io non capisco, lui capisce che io non capisco.

– Non sai nulla di quel tuo collega?

Non so nulla.

– Hai sentito la Stradale? – mi dice senza lasciarmi la mano.

Gli rispondo che domani, cioè oggi, sono di riposo quindi non ho fatto le telefonate di controllo, quindi non ho chiesto alla Stradale se c'erano stati incidenti. Incidenti. Mi illumino.

Gli chiedo chi è il mio collega che ha avuto un incidente.

Lui mi risponde tenendomi la mano che non era un mio collega.

Per un attimo cerco di ripercorrere l'elenco dell'organico femminile al giornale. Per un istante provo a scorrere il file alle voci:

colleghe che escono la notte

colleghe che bevono quando escono la notte

colleghe che bevono e guidano veloci quando escono la notte.

Ma è solo una frazione di vita, perché il pulotto mi dice che non è un mio collega. Né una mia collega.

Ma la moglie di un mio collega. La moglie incinta del mio collega.

E la figlia di tre anni.

* * *

Le coincidenze esistono. Esiste il destino. Esistono gli incroci di destini diversi. Non potevo immaginare che Filo potesse infiammarsi per una ventenne, non potevo immaginare che potesse chiedere aiuto a me, non potevo immaginare che, proprio la notte della nostra uscita, lui ci perdesse tutta la famiglia.

È quello che voleva? Mi dico: è quello che voleva?

Perdere tutta la famiglia era quello che voleva? In fondo quello stronzo che ha travolto la Punto della moglie, quel testa di minca che ha superato in curva su un tornante troppo stretto, gli ha risolto tutti i problemi.

Ma era quello che voleva? Era veramente quello che voleva?

Non glielo chiedo. Non voglio essere io a dargli la notizia.

Il poliziotto mi tiene ancora la mano. Io gli chiedo se stanno per finire il turno. Lui risponde di sì. Gli chiedo se gli va uno spaghetto al Ribot. Lui risponde che hanno molta fame e posso salire in macchina con loro come ho fatto altre volte. Loro scaricano via il romano con un calcio in culo, io salgo al suo posto.

Sono sulla Volante. Offro una sigaretta a tutta la pattuglia e sento lontano l'eco dell'Open Brain. Wop Wop.

* * *

Non entro. Non entro mai in chiesa per i funerali.

Non entro in chiesa neppure per i matrimoni.

Sto sul Land e osservo. È il mio mestiere.

Non mi piacciono i funerali. C'è troppa gente che soffre e troppa gente che mente. Quelli che soffrono arrivano presto, prima del carro funebre. Occupano le prime panche e hanno la faccia accartocciata dal dolore.

La faccia di Filippo non l'ho vista. Era piegato in due quando è entrato in chiesa portato a braccia dai fratelli.

Quelli che soffrono meno occupano gli ultimi banchi, oppure stanno in piedi. Quelli che mentono stanno nei piazzali delle chiese, fumano sigarette, discutono dei cazzi loro e magari gli scappa anche una risata.

– Stasera pizza da Koch.

Stasera pizza da Koch, dice questo gruppo di biondine che è appoggiato al mio Land. Collaboratrici dello Sport, delle pagine dello sport, conoscono bene Filo. È stato lui a presentarle al capo servizio.

Frequentavano la stessa palestra. Al giornale servivano delle ragazze sveglie che scrivessero di sport minori e fitness.

Devono qualcosa a Filo. Ma ora pensano a pizza e birra da Koch, anche se le due bare non sono ancora uscite dalla chiesa.

Esce prima la bara piccola, quella bianca. Poi la bara nera.

Bonà è vicino alla mamma di Filippo. Si mantengono a vicenda. Bonà è sciupata e persino dimagrita.

La madre di Filo è una statua scolpita nel leccio.

Sento le urla, sento i pianti. Vorrei alzare il volume dell'autoradio.

Filo non esce. Esce il mio direttore, esce il mio capo, esce Lavori Sessualmente Utili a braccetto con l'editore che è imbarazzato e la scarica sul direttore amministrativo che non è per nulla imbarazzato.

Ingrano la prima. Il cofano urta le biondine che si girano e sibilano come serpenti scovati nella tana.

Ho i vetri fumé e non capiscono subito chi è che per poco le metteva sotto. Però il Land al giornale ce l'ho solo io: – È Rudy poveretto, deve essere sconvolto, era insieme a Filo quando ha avuto la notizia.

Non ero con Filo quando gli hanno dato la notizia.

Mi ero spesato: fuggito prima. Non voglio essere con Filippo nemmeno adesso che sta per uscire dalla chiesa.

E mi speso, di nuovo.

Sono un tipo pragmatico. Tutto il giornale è al funerale.

Io ho un compito più importante delle condoglianze.

Sono in questura. Angela non mi può aiutare. Il capo della Mobile non mi può aiutare. Gli amici della Stradale non mi possono aiutare. Giurano che il nome di quello che ha travolto la famiglia di Filo non ce l'hanno.

Io gli spiego che il capo, il mio capo, è stato chiaro: – Voglio il nome di quel bastardo sparato domani sul giornale, – ha detto il capo.

– Voglio il nome di quel figlio di bagassa sparato sul giornale insieme alla foto. Lo voglio per Filo e per i nostri lettori.

Il primo giorno abbiamo dato le foto delle vittime.

Non ci sono stati problemi a recuperarle. Io ho messo quella del matrimonio di Filo. Per fortuna io ero al lato della suocera e i tipografi sono riusciti a tagliarmi fuori dalla foto. Quella della bambina l'ha messa Bonaria.

Bonà era la madrina di Samantha e il capo ha detto che la faceva licenziare se non andava di corsa a casa a prendere le foto della bambina. Bonà ha detto che non se ne parlava. Il capo l'ha spedita dal direttore che ha usato metodi più educati ma altrettanto convincenti.

E Bonà è andata a casa a prendere le foto.

Ora, dopo le vittime, serve il carnefice. E i problemi ci sono, eccome.

Il capo di Filo se n'è sempre fottuto. Sennò a quest'ora era bello che assunto. Se n'è fottuto quando Filo gli ha detto che la fidanzata era incinta, quando gli ha detto che si sposava e che collaborare non gli bastava più. Il capo se n'è fottuto. Se ne sono fottuti tutti al giornale, per sette lunghi anni. Se ne sono fottuti di Filo, del suo mutuo, della moglie, della bambina e dell'altra che stava per arrivare. Filo non aveva uno straccio di raccomandazione e prima sono passati quelli che ce l'avevano.

Al capo avrei voluto dire che in città non si parla d'altro che di questa storia. Una vicenda che ha lasciato sgomenti, si dice così - come scrivono certi miei col eghi - sgomenti. Quindi il nome e la foto non servono per vendicare Filo, servono per vendere più copie domani.

Ma questo non lo dico al capo della Mobile che mi spiega che le indagini sono dei carabinieri e lui sa solo che il tipo era cotto, imbriagu. Mi dice che gli è giunta voce che possa essere un pregiudicato, uno finito dentro per diverse rapine ai furgoni postali.

Il capitano dei carabinieri fa pesi e panca nella stessa mia palestra ma mi dice che non può darmi nulla.

Il magistrato è stato chiaro. C'è la privacy: niente nome alla stampa.

Io gli dico che i magistrati della privacy non hanno mai capito nulla. Gli dico che la privacy è lui che ha un'amante a Rimini e il mondo non deve vedere le sue foto mentre se la bacia a bordo piscina. La privacy è questo: non farsi i cazzi degli altri. Che non c'entra nulla con due morti, quasi tre, e un assassino.

Lui quasi mi dà ragione, anche perché, mi confessa, quello l'ha arrestato tre volte e tre volte l'ha visto uscire di galera. Dice che questa volta non potrà neppure stringergli per bene i ferri da campagna sui polsi, sino a farlo urlare, perché per l'omicidio colposo non c'è galera.

Il capitano dice che gli ordini sono ordini. Però, dice, un avvocato il tipo ce l'ha e si chiama Antonio Casu.

A pochi metri dal palazzo di giustizia, a destra, c'è la palazzina della mia famiglia, la targa in ottone lucido con i nomi di mio nonno, di mio padre, di mio fratello.

A sinistra della palazzina della mia famiglia c'è la palazzina dei Casu. C'è la targa d'ottone lucido. Ci sono incisi i nomi del padre di Antonio, del fratello di Antonio, dello zio e del cugino. Ultimo il suo, quello di Antonio.

Sono nello studio di Antonio. Lo conosco di vista, ci siamo incrociati in molte lezioni e qualche appello.

Nella stessa sessione abbiamo dato Istituzioni di diritto romano: lui 29 io 19. Storia del diritto romano: lui 29

io 18. Diritto privato: lui 30 io buttato fuori.

Lui si è laureato. Io no. Lui si ricorda di me e mi chiede se poi la laurea l'ho presa. Io gli chiedo se ha dato uno sguardo alla targa in ottone della palazzina affianco.

Mi dice che scrivo bene, che mi legge. E forse ho fatto la scelta giusta. Però alla laurea posso ancora pensarci. A trent'anni posso ancora pensarci.

Antonio mi fa girare i coglioni.

Mi fa girare i coglioni perché dice che con la laurea ce la posso ancora fare. Perché dice che sul suo cliente non può darmi nulla.

Lo deve tutelare.

Ma l'avvocato Casu, il padre, è molto amico di mio padre. L'avvocato Casu ha fatto i veri soldi. Come mio padre. A volte contro, a volte insieme a mio padre. A volte ufficialmente, a volte al bar di sotto che divide le due palazzine.

E l'avvocato Casu, l'avvocato Casu padre, entra nella stanza e chiede se sono lì per quel disgraziato di Marco Cabiddu, 39 anni, quello di cui al giornale abbiamo mille foto per via dei processi per gli assalti ai furgoni postali.

– Si ricorda? Il suo fotografo mi aveva scattato un bellissima foto. Ce l'ho ancora nella mia stanza, io e Cabiddu. – L'avvocato Casu è una faina.

L'avvocato padre spedisce con un'occhiata di rimprovero l'avvocato figlio a prendere la foto nell'altra stanza.

Io ringrazio, lui mi dice che la causa la seguiranno lui e il figlio, che è ancora un ragazzotto che si deve fare.

Antonio porta la foto, è avvilito. Me la dà e mi chiede scusa. Io lo umilio.

– Ottima, Avvocato, questa la spariamo bene alta su tre colonne. – Dico.

L'avvocato Casu conosce le misure della grafica meglio dei nostri tipografi. Sa che tre colonne alte sono un bel pezzo del nostro giornale.

La legge dice che gli avvocati, al di là del nome in grassetto sull'elenco telefonico, al di là della targhetta in ottone, non possono farsi pubblicità. Questo al figlio Antonio nessuno in facoltà gliel'ha mai spiegato.

Stasera ci ha pensato il padre.

* * *

Il mio giornale ha la foto dell'assassino. Il mio giornale ha la foto e il nome dell'assassino. L'avvocato Casu ha la sua bella foto sul giornale e la sua pubblicità.

Gratis e nel rispetto della legge.

p

gg

Il mio capo servizio ha le foto che voleva sul giornale.

Il mio capo servizio è raggiante, l'avvocato Casu è raggiante, i lettori sono commossi, Filo è a pezzi.

È il mio lavoro.

* * *

– Quanto manca a Natale?

Quanto manca al Natale? Gepi mi chiede quanto manca al 24 notte, e io gli chiedo da quando in qua gli interessa il Natale.

Lui mi ricorda che per le feste vogliono tutti esagerare.

E lui deve raddoppiare il carico.

Io gli dico che quando l'ho scritto sul giornale, l'anno scorso, è arrivata una dura lettera di protesta.

Il mio titolo diceva: Arrivano le vacanze, impennata del mercato degli stupefacenti. La lettera diceva che l'articolo era esagerato, propagandista e che offendeva la morale.

Il lettore diceva di sentirsi profondamente offeso, lui che festeggiava in famiglia con una bottiglia di champagne.

La lettera non era firmata. La lettera era di qualche collega a cui sto sulle balle. Tanti, troppi.

Li avevo messi in fila uno per uno. In fila nella mia mente per capire chi c'era dietro quella lettera. Li analizzavo velocemente, il mio scanner li illuminava rapido, volto per volto, faccia di cazzo per faccia di cazzo.

Ma poi ci avevo rinunciato. Infondo li disprezzo tutti e se uno aveva scritto quella lettera almeno in cinquanta l'avrebbero voluta scrivere. E poi ben peggio hanno pensato e bisbigliato fra i cessi e la mensa aziendale sul mio conto. Ma non li sento, il loro brusio non mi arriva.

Quindi, dei miei colleghi me ne fotto.

Però il mio capo servizio l'anno scorso, per quella storia degli stupefacenti, si era molto girato di coglioni.

Quindi, questo Natale meglio evitare.

Gepi però, che il mio capo non lo conosce, non ha mollato il colpo.

Gepi mi ha detto che, se voglio, quest'anno lo posso intervistare. Così lo dice lui sul giornale come il mercato degli stupefacenti s'impenna fra Natale e Capodanno.

Io gli rido in faccia.

Lui era serio e quasi si offende.

Manca una settimana a Natale.

Sono al giornale. Scrivo un articolo sui soliti sequestri di petardi. Prima di Natale la polizia e la finanza fanno sempre i sequestri dei botti.

Ieri ne hanno sequestrato 600 chili e denunciato sei persone. Uno lo conosco, era quello che per il 1999 mi aveva venduto la Bomba Maradona, quest'anno mi aveva promesso la Torta Farcita. Ma lo hanno beccato prima e la mia torta è finita sul tavolo della conferenza stampa della questura. Il capo della Mobile ha detto che poteva staccare la testa a qualcuno. Io avrei voluto dirgli che sulla mia terrazza - attico in centro - al massimo avrebbe staccato un'ala a qualche gabbiano.

Minchia se mi stanno sui coglioni i gabbiani.

Specie da quando sono diventati carnivori. Prima non lo erano. Poi si sono abituati alla vita di città e si strafogano di tutto. Topi e uccellini. Sin quando si ingurgitano le merdone mi sta bene ma gli uccellini cazzo, no. Uno schifo.

Scrivo con il pilota automatico. Ho già controllato nel mio archivio personale. Ho estratto la cartella. Format: cronaca secca più preoccupazione sociale.

Do i dati del sequestro, spiego i diversi tipi di fuochi d'artificio proibiti, esprimo preoccupazione e sdegno per questi nostri giovani e per questi nostri non più giovani che rischiano la vita e mettono in pericolo la vita degli altri per vedere due fiammate col botto.

Minca, troppo bravo!

Gepi è da tre giorni fuori. Andava a fare il carico per le grandi vendite di Natale. Al telefono gli ho detto se passava da Napoli di portarmi qualcosa per Capodanno.

Lui mi ha risposto che non si fa fottere per due razzi che gli spuntano dal cofano del Golf. Mi ha fatto capire che questa volta la ruota di scorta l'ha riempita di ogni ben di Dio.

Sono al giornale, ho finito il mio lavoro e sto per levare le tende. Mi stiracchio.

Guardo l'orologio, manca poco alle 23. Se mi muovo, pizza e birra all'Ampurias. Angela ha il turno di notte.

Gigi domani ha un compito in classe.

Spengo il computer, mi avvio alla macchinetta automatica delle lattine.

Scelgo Coca.

Sento qualcuno che si avvicina da dietro.

– Schiaccia Coca anche per me.

Mi giro, è il vicedirettore. È stato lui a farmi entrare al giornale, è stato lui a farmi iniziare a collaborare.

Poi però mi ha mollato. All'assunzione mi ha portato il mio capo. E lui, il vicedirettore, ci ha portato Lavori Sessualmente Utili. Ha chiesto lui che andasse a Moda&Mondanità. Lui e il direttore amministrativo.

Lui, il direttore amministrativo e quel politico di non so quale loggia.

Comunque non gliene voglio. Non più di tanto.

– Tre piani per una Coca? – gli chiedo.