"Oh Dio" disse don Innocenzo con voce imbarazzata "fin qua... poi... non so... ma non mi pare..."

Allora venne il racconto della mattina seguente della visita di Silla, della gelida accoglienza fattagli, delle parole trovate nel suo libro. Qui don Innocenzo si scosse, indovinando, assai tardi, a quale sospetto conducesse il racconto di Edith. Ella non tacque il recente incontro di Silla con suo padre e la impressione riportatane da questo. Temeva di qualche triste mistero nascosto nell'ombra del Palazzo!, si rimproverava di aver favorito, per poca vigilanza, un sentimento che, non accolto, poteva spingere Silla a men che onesti propositi.

"Ho creduto" diss'ella "di dover raccontare tutto a Lei perché mi pare bene che Lei, andando al Palazzo, sappia queste cose quantunque vi sia del biasimo per me."

Don Innocenzo si fregava le mani lentamente, suggendo l'aria come se gli dolessero.

"Non so proprio" diss'egli "quale biasimo vi possa essere..."

Pareva tuttavia che una lieve ombra fredda ve ne fosse dentro di lui. Masticava parole vaghe come chi non arriva a raccapezzarsi bene. Domandò a Edith che uomo fosse questo signor Silla. Ella disse che lo credeva uno spirito nobile, ma ammalato, offeso dalle contrarietà della vita.

"E Le pareva che avesse inclinazione per Lei?"

Edith non rispose.

"Ma Ella dal canto Suo non ne provava alcuna per lui, e solo per un equivoco il signor Silla poté sperare d'essere corrisposto?"

"No, signore, temo di no, non per un equivoco."

Ella pronunciò queste parole a voce bassissima, chinando la fronte alle mani conserte sulla scrivania.

Don Innocenzo tacque guardando i capelli giovanili, lucenti di bagliori dorati. Quella scoperta gli faceva pena; gli doleva trovar passione dove aveva pensato non esser che pace, gli doleva veder piegarsi afflitta la bella testa intelligente. Al tempo andato, nelle lunghe ore ch'egli soleva passare meditando e leggendo, nel suo studiolo, altre immagini di donne pensose e vereconde erano salite dalla terra o uscite dai libri santi innanzi agli occhi suoi. Gli pareva ora che la rauca voce dell'orologio gli dicesse "ti ricordi?". Ecco, dopo tanti anni, una di queste figure, viva e vera, non più pericolosa ormai per lui che per un fanciulletto innocente. E soffriva di vederla ferita, perché vi era pur qualche cosa in lei della sua propria giovinezza intemerata, di certi ideali femminili contemplati a quel tempo, con trepida riverenza, da lontano.

Edith alzò il viso e se lo coperse con le mani.

"Temo" diss'ella "di non aver fatto tutto il possibile per nascondere l'animo mio."

"Ma, se questo giovine signore ha uno spirito nobile, se aveva inclinazione per Lei, se Ella stessa... scusi, sto alle Sue parole... se Ella stessa... ma perché allora?"

Le mani le caddero dal viso, due occhi umidi brillarono davanti a don Innocenzo.

"Oh, signor curato, Lei che sa, come può credere? Come farei ciò mentre mio padre ha tanto bisogno di me? Mettere accanto e forse contro al mio dovere di figlia un dovere più forte! Sarei venuta in Italia per questo, signor curato? Non è poi neppure la mia vocazione; ne sono convinta."

"Veramente convinta?" disse don Innocenzo, grave. "Sa veramente quanto è grande oggi, quanto lo può essere domani il sacrificio che si propone?"

"No" rispose Edith giungendo le mani "non dica questo, non dica questo! Ciò che faccio è niente rispetto a quanto io debbo a mio padre. Così Dio mi accordi ch'egli venga alla fede! Intanto, son felice che non abbia sospettato di nulla. Quanto a me potrò anche dimenticare. Lei mi aiuti!"

Povero prete, aiutare a combatter l'amore! Nella sua grande bontà ingenua, il sacrificio di Edith gli pareva irragionevole. Se quest'uomo era nobile, se l'amava, certo avrebbe amato egli pure con affetto filiale il padre di lei, certo avrebbe cooperato al santo fine che Edith si prefiggeva.

"È necessario" diss'egli "è utile davvero questo sacrificio? Pensiamo bene. Potrebb'essere che Suo padre desiderasse veder Lei collocata, che questo pensiero gli procacciasse delle angustie segrete. Anche questo; sa Ella di quanti e quali mezzi si può servire Dio per condurre alla fede un'anima? Forse nell'ambiente di una famiglia cristiana ve ne sono tanti che Lei adesso non immagina neppure. Parlo per l'avvenire. Per quello che è stato metta il Suo cuore in pace. Se qualche male avesse a succedere, nessuna colpa può ricadere sopra di Lei. No, nessuna, lo creda. Quand'anche Ella avesse dato a questo signore segno... non so... di simpatia, insomma, Ella non sarebbe mai responsabile davanti a Dio delle azioni disoneste che colui ora commettesse."

"No" diss'ella "ma però sarebbe un gran dolore."

Don Innocenzo tacque; cercava parole che non venivano. Gli facevano invece violenza altri pensieri generati dal racconto di Edith; il sospetto di una trama disonesta, il dubbio di dover fare qualche cosa presto, fors'anche subito, per combattere i disegni che Edith pareva attribuire a Marina e che Marina stessa le aveva manifestati indirettamente dal settembre, parlando di un'amica sua sposatasi per odio e per disprezzo, per giungere all'amante attraverso il marito.

"Mi parli con piena sincerità" diss'egli ex abrupto: "è convinta o no che vi sia un accordo tra il signor Silla e donna Marina? Non abbia riguardi: non si tratta qui di maldicenze né di quei giudizi che il Vangelo riprova. Il mio ministero potrebbe forse venir esercitato per il bene e io debbo sapere, per quanto è possibile, la verità. Ella che conosce le persone e i fatti, mi dica schietto, che convinzione ha?"

"Due giorni fa non c'era di sicuro" rispose Edith "ma oggi temo di sì."

"Come? Che ci sia accordo?"

"Temo che succeda: ho questo presentimento."

"Teme che succeda" disse don Innocenzo parlando a se stesso, e, fattosi puntello d'un gomito alla scrivania, con il palmo della mano sulla fronte e le dita inquiete sul cranio, rifletté. Dopo qualche tempo aperse il cassetto della scrivania e ne tolse della carta.

"Ella non ha risposto" diss'egli "alle parole che il signor Silla scrisse in quel volume per Lei?"

"No, signore."

"Come?" chiese don Innocenzo.

Ella presentiva forse la proposta del curato, parlava così piano!

"No, non ho risposto."

Il prete si alzò in piedi.

"Bene, risponda" diss'egli.

Anche Edith, involontariamente, si alzò; vide, senz'altre parole, il concetto di don Innocenzo.

"Subito" disse questi, accostando il calamaio alla carta, che aveva posta sulla scrivania.

"Crede, signor curato, che questo possa essere un dovere per me? Subito?"

"Lo credo. Il mio dovere sarà poi di giudicare se e quando la lettera debba essere consegnata. Sieda al mio posto."

Edith sedette tacendo, prese la penna con mano ferma e guardò il curato.

Gli occhi di lui presero un'espressione solenne, la fronte diventò augusta.

"Non so di queste cose" diss'egli commosso "ma ho sempre avuta l'idea che invece di un legame di passione, santificato o no, vi possa essere fra due anime veramente nobili, veramente forti, un altro legame d'affetto, santo in se medesimo; un amore, diciamo pure questa parola tanto grande, interamente conforme all'ideale cristiano dell'intima unione fra tutte le anime umane nella loro via verso Dio. Arrivo a dire che non v'è sulla terra niente di più bello di un legame simile, benché il legame coniugale sia sacro ed abbia un significato augusto. Ella vuol fare questo sacrificio a suo padre: sia; ma perché svellersi dal cuore anche la memoria della persona che Le fu cara? Perché rinunciare a un sentimento vivificante che Le fa desiderare il bene temporale ed eterno di questa persona quanto Lei stessa? Perché l'altra persona non potrebbe serbare un sentimento simile verso di Lei, sì che ambedue, sapendo l'uno dell'altro, battessero vie diverse nel mondo e compiessero i propri doveri con questo gran vigore nel segreto dell'anima? Scriva così, scriva così."

"Lei è un santo" disse Edith. V'erano sul suo viso e nella sua voce dei tristi ma.

"Io sento bene" soggiunse "la bellezza di questa unione, ma gli basterebbe, a lui? Non combatterebbe poi con tanto maggior violenza il mio proposito, non mi porterebbe a cimenti dolorosi?"

Don Innocenzo rimase mortificato. Sentiva di conoscere il mondo tanto meno di lei, di non poter sostenere la discussione; ma il suo convincimento rimaneva.

"Sarà" diss'egli sospirando. "Scriva come vuole, anche poche parole, purché gli rialzino il cuore."

Ella non disse niente, si mise a pensare con la penna in mano, guardando il lume. Il curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo guardavano, davano ragione a lui, ma la terra nera gli dava torto.

Dopo brevi momenti Edith lo chiamò, gli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.

"No" diss'egli "non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano infondere..."

"0h don Innocenzo" esclamò Edith, supplichevole "ho scritto, ho fatto il Suo desiderio. Legga se vuole, ma non mi faccia più domande, non me ne parli più!"

"Bene, bene, stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi."

Prima d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro placido, eguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando una pace, una forza di cui aveva bisogno.

In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanile, batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso.

Erano le dieci e mezzo.

 

4. L'ospite formidabile

Silla, ch'era sdraiato sull'erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologio, lo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l'erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.

Lasciò cader le braccia inerti, piegò il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovra tutto al sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimedio, di un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giunto, d'avere un piede proteso nel vuoto.

Un'amara energia gli corse le vene, ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell'ora che incalzava.

Era lì da un'ora allo stesso posto della sera precedente sull'erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non avessero a passar mai, eccole corse, svanite, come un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.

Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non altro. Forse l'incontro di Steinegge?... No, non voleva pensare a quel nome.

Si alzò ad abbracciare il gran tronco del cipresso, e, chiusi gli occhi, immaginò di origliare, fermo sulla scaletta; assaporò più volte, rinnovandone la immaginazione, il venir lento di un sussurro; sentì un'aura profumata, due piccole mani che prendevan le sue protese, e lo traevano su, nelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli seguivala, muti l'uno e l'altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti; quasi folli; e...

Si spiccò dal cipresso con una spinta impetuosa. Guardò ancora l'orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal vigneto sulla scalinata e discese adagio adagio, in punta di piedi, trattenendo il respiro, sostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane. Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lume, nessuna voce usciva dal Palazzo nero. Prese a dritta, rasente il muro, sotto le sparse braccia pendule delle passiflore e dei gelsomini, spinse la porticina della darsena, entrò nel buio. Si vedeva solo, a sinistra, il principio della scaletta e sulla bocca della darsena l'ondular vago dell'acqua che di tratto in tratto posava sulla chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sue, che forse Marina non l'amava, ch'era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella voluto prendersi giuoco di lui, lasciarlo lì tutta la notte?

Sedette sulla scaletta, guardando, per l'alto finestrino ovale che la rischiarava, uno spicchio di cielo, la punta di un cipresso, una stellina pallida.

Mancavano sette minuti alle undici. V'erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A quest'ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo facesse le undici, egli avrebbe ad aspettare due minuti ancora, due minuti eterni, tormentosi. Ed ecco sopra il suo capo, nelle profondità del Palazzo, da qualche orologio più affrettato degli altri, un batter di ore stridenti. Per donna Marina erano le undici.

Si alzò, salì la scala sin dove non giungeva più il chiarore del finestrino, puntò le mani alle due pareti e, proteso in avanti, stette in ascolto.

Silenzio.

Il gemer lieve d'un uscio gli fermò il respiro. Seguì un sussurro di passi cauti, una voce; non una voce, un soffio rapido:

"Renato!"

Silla si gittava già in avanti e gli ricadde il piede.

Un momento dopo udì chiamare ancora, ma più forte, stavolta:

"Renato!"

La voce gli pareva e non gli pareva di donna Marina. Diede un passo addietro.

Allora udì scender veloce un rumore di vesti, ristar di botto.

"Silla, Silla!" disse donna Marina.

Era ben lei; non poteva vederla, ma la sentiva in faccia, a pochi scalini di distanza.

"Non sono Renato" diss'egli senza muoversi.

"Ah, non ricorda il nome! La vostra mano!"

Balzò giù con impeto, cadde sul braccio sinistro di Silla che la strinse, l'alzò quasi da terra.

"Era vero" diss'ella con voce morente, tenendogli le labbra sul collo "era vero quello che mi avete detto ier sera?"

Silla non rispose, la strinse più forte, le baciò la spalla, si sentì premer forte la guancia da un'altra guancia di velluto, da un piccolo orecchio caldo.

"Era vero?" ripeté Marina teneramente.

Non si poteva sentirsi palpitar sul petto quella bellezza altera, respirare il tepore odoroso che le usciva dal seno, udirsene al collo la fioca voce e non perdere ogni lume di pensiero. Silla poté dir appena:

"E tu?"

"Dio, da quanto!" rispose Marina. Poi, come per subitaneo pensiero, si sciolse con impeto da Silla, gli appuntò le mani alle spalle.

"Dunque non ti ricordi tutto!" diss'ella.

Egli non capì, rispose a caso, ebbro, tendendo le braccia:

"Tutto, tutto!"

"Anche di Genova?"

Le parole strane non entrarono nella mente di Silla, che ripeté impaziente:

"Tutto, tutto!"

Marina gli afferrò le mani, gliele congiunse con impeto.

"Ringrazia Dio" diss'ella.

Stavolta il nome terribile gli strinse le viscere come un pugno freddo.

Egli tacque stupefatto, a mani giunte. Marina tacque pure per pochi momenti, aspettando ch'egli pregasse col pensiero; quindi gli passò la mano destra sotto il braccio, e sussurrò: "Adesso andiamo!" e si volse a risalir la scala.

Egli si lasciava tirar su, restando uno scalino indietro, tacendo.

Trovarono un pianerottolo dove la scaletta svoltava a destra.

"Vieni, dunque" disse Marina, lasciando il braccio di lui e cingendogli col proprio la vita. Gli posò quindi la bocca all'orecchio, vi gettò dentro un bisbiglio.

Egli dimenticò le parole incomprensibili di prima, tornò cieco, le rispose.

"Zitto, adesso" diss'ella mettendogli la sinistra sulle labbra.

Spinse una porticina ed entrò in un corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedeva, camminando cauta rasente la parete. Ad un tratto si fermò, credette udir passi e voci, stette in ascolto.

Le voci venivano dal piano inferiore, dal corridoio vicino alla camera del conte.

Non vi badò più, andò avanti. Si udì la sua mano tentar un uscio, girar una maniglia. Una lama di luce brillò nel corridoio, un odor di rose avvolse Silla. Entrarono.

V'erano candele accese sulla ribalta calata dello stipo, sul piano aperto, sopra una libreria bassa. Dalla porta spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi sciolti di glicine celesti, di rose bianche e gialle erano sparsi un po' dappertutto.

Marina saltò nel chiarore delle candele, trasse dentro Silla, chiuse l'uscio, ne girò la chiave, tutto in un lampo, lucente gli occhi di riso muto, lucente d'oro il collo e i polsi ignudi, bianca, a grandi ricami azzurri, la persona. Lasciò Silla, balzò in due slanci al piano e prima che egli ne la strappasse, attaccò, con fuoco demoniaco, la siciliana del Roberto.

"Li sfido!" diss'ella lasciandosi trascinar via. "Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso niente."

Silla aspettava che qualcuno, inteso il piano, salisse.

Marina si strinse nelle spalle, si sciolse da lui, cadde quasi supina in una poltrona.

"Qua!" diss'ella, accennandogli di sedere a terra presso a lei. "Tutte le tue memorie."

Silla non rispose.

"Il ballo, prima" soggiunse subito Marina. "Non comprendi? Il ballo Doria!" ella batté il piede a terra impaziente.

"Non comprendo" diss'egli.

Marina si rizzò di schianto a sedere.

"Non m'hai detto che ti ricordi?" V'era in lui un demonio che s'irritava di queste ciance vane, non si curava di comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di lei, la piegò a forza sulla spalliera della poltrona, si curvò a risponderle.

"Non so nulla, non ricordo nulla. Non ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo momento! Ho la frenesia di goderlo."

Egli provava la sensazione vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondo, desiderava avidamente di precipitare sempre più giù, senza rimedio.

"Non stringermi così" disse Marina cercando svincolar le mani. "Non voglio!" esclamò, poiché l'altro non l'ascoltava. Fu tanto superbo l'impero del suo sguardo e della sua voce che Silla obbedì. Si alzò in piedi, si allontanò da lui lenta, a capo chino. Si voltò improvvisamente, batté il piede a terra.

"Pensa! Ma pensa!" disse.

Un brivido corse pel sangue a Silla, glielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.

Marina gli chiese precipitosamente:

"Perché mi hai chiamato Cecilia quella sera?"

"Perché avevo scoperto ch'eri la Cecilia delle lettere."

Ella rifletté un istante e disse con calma:

"Certo, me l'ero ben immaginato. Ma ieri a sera" soggiunse con l'impeto di prima "ma poco fa, perché dirmi che ti ricordi?"

"Perché ho creduto che parlassi della nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le braccia, qui sotto, in darsena."

Ella sedette allo stipo, ne cavò il manoscritto, parve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie carte giallognole, si alzò bruscamente.

"Ti dirò un segreto che riguarda anche te" diss'ella, e spense prima le due candele dello stipo, quindi le altre del piano, della libreria, tranquillamente, senza proferir parola, come se quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimento, sui mobili più vicini.

Marina prese Silla pel braccio, lo trasse nell'angolo più oscuro, presso la porta del corridoio, gli sussurrò:

"Tu non sai chi sono."

Egli non comprendeva, non rispondeva: quell'informe presentimento saliva in lui angoscioso.

"Ti ricordi quella sera in loggia, la dama che tu accusavi, per cui mi sdegnai?"

Silla taceva sempre.

"Non ti ricordi? La contessa Varrega d'Ormengo?"

"Sì" diss'egli ricordandosi a un tratto, aspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non intese. Piegò il viso sui capelli di lei, la pregò di ripeterle.

"Sono io" diss'ella singhiozzando ancora. E tosto un movimento involontario di Silla, una sommessa esclamazione dolorosa la scossero. Dié un passo indietro, esclamò:

"Dunque mi credi?..."

"Oh no!" interruppe Silla.

La parola, non proferita, indovinata, risuonò più forte.

Marina non piangeva più. Disse piano:

"Come siete tutti bassi. Dio!"

V'era stato un tempo in cui nessuno avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo sentì acutamente.

"Tu, tu" continuò Marina "tu mi hai scritto che questa era la tua fede, una vita precedente. Ma che fede era mai? Era una fantasia, e non una fede. Ti dico "è vero" e tu hai paura, mi credi pazza! Chi ti aveva detto, piccolo cuor vile, di fare il grande? Va!"

Una dopo l'altra le parole fiere frustavano Silla in viso, lo avvinghiavano nella loro logica veemente, lo irritavano, gli mettevano un'avidità crescente di sapere, di udire. Egli la incalzò di domande violente, passando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo ribatteva indietro colla sua sillaba dura:

"Va! Va!"

Finalmente si arrese.

"Ascoltami!" disse "camminiamo."

Si avviarono lentamente, girando intorno al piano, passando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera da letto, perdendosi nell'ombra. Marina parlava rapidamente, tanto sottovoce che Silla, per udirne le parole, dovea piegar l'orecchio alla bocca di lei.

V'era sul suo viso, le prime volte che passò nella luce, una curiosità febbrile: quindi vi ripassò con gli occhi vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte. Ad un tratto, nell'ombra, si fermarono. "Ma come?" diss'egli. Marina non rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un'altra domanda sommessa. Marina andò nella camera da letto, ritornò con una candela accesa, la posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina seguiva, attenta, la sinistra storia sulle labbra mute, sulle sopracciglia, sulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenzio, passi precipitati suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiore, ma né l'uno né l'altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremeva, pronunciava, leggendo, alcune parole; ed ella allora, alitando affannosamente, appuntava l'indice sul manoscritto.

"Ti ricordi questo?" le diss'egli una volta. continuando a leggere.

"Tutto, tutto" rispose. "Leggi qui, leggi forte."

Silla lesse: "Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui tra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei amata da lui; dicevano un'altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile; forse il nome ch'egli porterà allora".

"E tu non ricordi!" diss'ella dolorosamente.

Egli non la intese, soggiogato dal fascino del manoscritto: tirò via a leggere in silenzio. Un altro passo lo fe' inorridire, lo costrinse ad alzar la voce leggendo:

"Allora, allora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare."

"E ho parlato" diss'ella "l'altra notte, come se fossi appena uscita dal cataletto; l'ho ferito a morte."

Silla non le badò, continuò a leggere. Giunto alle parole: "Quando nella seconda vita", si vide strappar di mano il manoscritto da Marina, che gli prese poi a due mani la testa, gliela curvò, gliela strinse.

"E tu non credevi!" disse. "Ma poi ti ho perdonato perché ti amo, perché Dio, vedi, Dio vuole così; e poi perché anch'io, sulle prime, non ho creduto. Ecco, mi sono inginocchiata qui. Così."

Cadde ginocchioni, appoggiò le braccia e il capo sulla ribalta dello stipo.

"E ho pensato, ho pensato, ho cercato nella mia memoria. Niente. Ma poi la fede m'è venuta come un fulmine, ho creduto" soggiunse balzando in piedi, mettendo una mano sulla spalla di Silla "e adesso, da pochi giorni, mi ricordo di tutto, di ogni minuzia." Si fermò, lo guardò un momento negli occhi, e, piegato il capo sul petto, disse teneramente:

"Non comprendi che sono stata, che l'anima mia è stata nella tomba tanto e tanto, non so quanto, prima di sciogliersi da quell'altra cosa orribile? Parlami d'amore, vedi quanto ho sofferto. Spero che ti ricorderai anche tu. Ti ho le labbra sul cuore; vorrei vedervi dentro, aiutarti a trovare. E t'ho amato subito, sai; appena ti vidi, la prima volta."

La ragione di Silla si oscurava ancora per il turbamento della lettura, per la molle bellezza di Marina, per la voce blanda, più voluttuosa del tocco.

Ella rialzò il capo. "Ma non volevo" disse. "Bisogna pure che ti dica tutto. Credevo che il conte Cesare ti avesse fatto venire per me; volevo odiarti, mi sarei morsa il cuore perché, quando ti vedevo, quando ti udivo, palpitava. Ah, quella sera in barca, dopo le tue parole superbe, insolenti, se tu avessi osato! Quando mi riconducesti alla cappelletta..."

"Alla darsena" diss'egli involontariamente.

Ella fece un gesto d'impazienza.

"Ma no! Alla cappelletta: non ti ricordi? Quando mi riconducesti là e mi lasciasti, gittandomi il mio primo nome, caddi come morta. Ripensai e compresi; mi dissi: è lui, sarà lui; presto o tardi, contro tutto, contro tutti, sarà lui, qui. Vengono i Salvador, per me. Lo sai che son parenti della famiglia d'Ormengo? Allora Dio, perché la volontà di Dio sfolgora in tutta questa cosa, Dio mi fece vedere la vendetta che veniva da sé. Guarda, la sera stessa in cui fu conchiuso il matrimonio... sai, dopo avergli detto sì, ebbi un'ora di sfiducia terribile... seppi che Lorenzo eri tu. Si stabilì il 29 aprile per il matrimonio. Io scrissi a Parigi... no, non a Parigi, a Milano; come mi si confondono i nomi! Volevo sapere mille cose di te. Tu non ci andavi mai, da Giulia. Intanto il 29 aprile si avvicinava. Quando penso com'ero fredda e sicura in principio! Negli ultimi giorni non lo ero più. Avevo la febbre tutte le notti: la febbre! Volevo sposarlo e poi calpestarlo, per amor tuo, ma tu non venivi mai. Feci differire il matrimonio di un giorno. La notte prima, che notte! alzai le mani a Dio dal mio letto. Allora Dio mi ha toccato qui."

Ella prese una mano di Silla, se la pose sulla fronte.

"Mi ha toccato qui e ho visto quel che dovevo fare. Sono andata giù, gli ho parlato. La sera dopo ti mandai il telegramma. E tu, allora?"

Silla si sentiva assalire furiosamente alla sua volta dalla follìa. Le pareti, lo stipo, gli occhi di Marina, la solitaria candela gli rotavano in giro vertiginosamente. Non ebbe il tempo di rispondere perché l'uscio che dalla camera da letto metteva nel corridoio, sonò di più colpi, fu aperto con violenza. Una figura che per lungo tempo non si era fatta vedere al Palazzo, vi aveva fatto ritorno nel cuore della notte, un'ora prima, mentre Silla attendeva Marina sulla scaletta. Giovanna vegliava presso il conte sopito. Gli altri dormivano sognando nel dolce sonno primaverile, chi il fragor di Milano, chi la quiete di Venezia, chi eredità, chi pranzi, chi Nina dalle braccia di neve. Ogni cancello, ogni porta s'erano aperti a quest'ospite, con l'atterrita obbedienza muta di servi sorpresi dal ritorno impensato del signore. Era salito sino alla camera del conte, e ciascuna pietra della casa aveva intanto sussurrato alla vicina il suo funebre nome:

"MORTE"

"Marchesina, marchesina!" esclamò Fanny entrando. Vide Silla e tacque, fulminata. Silla si staccò da Marina, si trasse un passo indietro. Marina, sorpresa un momento, si riebbe tosto, gli riprese la mano sdegnando dissimulare, vibrò a Fanny un imperioso:

"Che hai?"

"Il signor conte!" rispose Fanny.

"Ebbene?"

"C'è venuto un altro accidente un'ora fa e adesso è dietro a morire! Han detto di venir giù, di far presto."

Marina spiccò un salto verso la cameriera.

"Muore?" diss'ella.

Fanny aveva ben visto alla sua padrona, da tre giorni, degli occhi strani; mai come in quel punto. Sgomentata, non rispose. Stava sulla porta col lume in mano, scarmigliata, nudo il collo, guardando Marina con occhi stralunati, torbidi ancora di sonno.

"Vieni!" disse Marina a Silla, e si slanciò, tenendolo per mano, nel corridoio oscuro.

"C'è giù anche il prete" disse Fanny ripigliando fiato.

Silla aveva voluto, al primo momento, resistere, gittar da sé la mano nervosa che lo stringeva, ma una voce gli aveva gridato dentro: "Vile! adesso l'abbandoni?". Seguì Marina. Fanny veniva lor dietro tenendo alto il lume, stupefatta, ricacciandosi in gola una fila di esclamazioni.

Il lume stesso pareva agitarsi pieno d'angoscia come se giungesse incontro ad esso, pel corridoio nero, il soffio grave e solenne della morte.

Veniva su per la scala il chiarore d'un altro lume. Qualcuno chiamò dal basso:

"Signora Fanny, signora Fanny!"

Era il cameriere che saliva affannato col lume in mano. Domandò a Fanny, senza badare agli altri due, se avesse un crocifisso.

"No, no, nella camera della signora Giovanna, nella camera della signora Giovanna!" gli gridò dietro, dal fondo, la voce di Catte. Fanny si mise a singhiozzare, e il cameriere, fatto un gesto di fastidio, ridiscese, scambiò parole veementi con Catte. Una porta lontana s'aperse, qualcuno zittì sdegnosamente. Subito dopo la voce tranquilla del medico disse forte:

"Ghiaccio!"

Voci sommesse, frettolose, ripetevano:

"Ghiaccio, ghiaccio!"

Marina non correva più, scendeva adagio adagio, trepida suo malgrado. Le ombre del Palazzo erano piene di terrore augusto; quelle voci spaventate, quei lumi di cui si vedevan qua e là fugaci riverberi, lo accrescevano. Prima ch'ella mettesse piede sul corridoio del piano inferiore, passarono il Vezza ed il Mirovich, senza cravatta né solino; curvi, frettolosi. Il giardiniere che recava il ghiaccio li raggiunse, li urtò col gomito, passò loro

davanti. Improvvisamente si udì la voce sonora di don Innocenzo:

"Renova in eo, piissime Pater, quidquid terrena fragilitate..."

Poi più nulla. Certo un uscio era stato aperto e richiuso.

Marina e Silla uscirono sul corridoio seguiti da Fanny, videro il Vezza e il Mirovich aprir piano piano l'uscio del conte, scivolar dentro; udirono ancora per un istante, la voce di don Innocenzo:

"Commendo te omnipotenti Deo."

Fanny die' in uno strido, posò il lume a terra e fuggì.

Marina si fermò, si voltò a guardarla.

"Stupida!" diss'ella. Poi sussurrò a Silla:

"L'altra notte, andando da lui a vendicarmi, son caduta qui, a quest'ora stessa. Non te l'ho detto che l'ho ferito a morte?"

E fe' un passo avanti. Ma in quel punto si sentì cinger la vita dalle mani poderose di Silla, riportar di peso sulla scala. Tacque un momento, sbalordita; quindi, ingannandosi sulle intenzioni di lui, gli disse sorridendo:

"Dopo!"

Egli non parlò.

"Lasciami dunque!"

"No" rispose Silla. Non era più la ebbra voce di prima; era la voce d'uno che vede subitamente qualche cosa orribile.

"Come?" diss'ella.

Si contorse tutta, si divincolò, quale una serpe nell'artiglio dello sparviero. Si racchetò subito, cupa.

"Ohe, quel lume! Chi ha lasciato lì quel lume?" disse Catte che veniva dal lato opposto alla camera del conte. Un'altra voce commossa ripeteva: "Gesummaria, Gesummaria!"

Fanny aveva posato il lume sul primo scalino. Catte e la contessa Fosca passarono, guardarono su per la scala, si fermarono. Allora Silla, quasi involontariamente, lasciò libera Marina, che saltò nel corridoio sugli occhi attoniti delle due donne e passò loro davanti, senza salutarle. La contessa Fosca tutta imbacuccata in un gran scialle nero, guardò Silla con un lampo, sul suo faccione volgare, di severa dignità; non disse motto e passò oltre. Silla discese nel corridoio, la vide entrare con Catte nella camera del conte. Non vide Marina, capì che doveva esservi già entrata, si batté rabbiosamente i pugni sulla fronte. Balzò quindi in punta di piedi all'uscio del moribondo e origliò.

"Suscipe, Domine" diceva don Innocenzo "servum tuum in locum sperandae sibi salvationis a misericordia tua."

Una larga voce, breve e grave come un soffio di organo appena tocco, rispose:

"Amen."

Silla strinse, come chi affoga, la maniglia dell'uscio. Questo fu aperto; si sussurrò: "Avanti!".

Egli entrò, non guardò, non vide; cadde ginocchioni presso una sedia, accanto alla porta.

La luce d'una candela posata a terra presso il letto batteva sulle bianche lenzuola cadenti, sui pomi d'ottone della lettiera, sui frantumi di ghiaccio sparsi pel pavimento; gittava attraverso la camera la grande ombra di don Innocenzo, ritto presso al moribondo di cui si udiva il rantolo affannoso, precipitato. Da piè del letto, nella penombra, stava il medico, ritto; accanto a lui Giovanna, inginocchiata, soffocava i singhiozzi nelle coltri. Dispersi nelle ombre dell'ampia camera erano inginocchiati la contessa Fosca e suo figlio, il Vezza, i domestici, il giardiniere. Questi e il cameriere del conte piangevano. Il Mirovich, vecchio mondano, stava appoggiato alla parete in un angolo. Se ne sarebbe andato volentieri; restava per un riguardo alla contessa.

Un'altra persona era in piedi in mezzo alla camera, a pochi passi dall'uscio: Marina. Le si vedevan bene la punta lucida, vibrante d'uno stivaletto, la gonna bianca a ricami azzurri; pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano né la contessa Fosca, né suo figlio, né il Vezza che le avean gli occhi addosso.

Don Innocenzo proferiva ad alta voce le preghiere commendationis animae con Rituale alla mano, senza leggervi mai. Non mostrò avvedersi di Marina né di Silla. Non dipartiva lo sguardo da quella testa con la bocca aperta e gli occhi chiusi, coperta di ghiaccio, inclinata sull'omero sinistro, cadaverica. Parlava con accento di profonda pietà: quando disse "ignorantias eius, quaesumus, ne memineris, Domine", le parole suonarono più alte e commosse, parvero esprimere un'appassionata fede, che Dio accoglierebbe nella sua pace quello spirito, il quale, dopo aver operato il bene sulla terra senza pensare a Lui, Gli giungeva davanti come chi navigando diritto e fermo verso una mèta conosciuta, trovò invece gran terre nuove e gloria imperitura. In quella notte d'angoscia e di trepidi bisbigli, le sonore parole sacre volte con tanta fede a un Essere affermato presente e invisibile sopra l'uomo colpito da Lui, affermato padrone di chi Gli parlava e di tutti i circostanti credenti o no, empivano la camera di sgomento. Si sentivano due potenze sovrumane a fronte: una luminosa, eloquente, infocata di pietà, tenace, instancabile; l'altra buia, muta. E questo appariva grande, che la prima, disconosciuta dal giacente e in vita e in morte, offesane con parole d'indifferenza, fors'anche di spregio, veniva nell'ultima sua ora, non richiesta da lui, non potendone più attendere né bene né male, a coprirlo, a difenderlo, a parlare alto per esso in un giudizio terribile. Quando il prete sostava per qualche istante, s'udiva il moribondo ansar precipitosamente come se un leone gli si fosse accosciato su. A un tratto quel rantolo parve mancare.

"È la fine" disse don Innocenzo volgendosi agli astanti. Vide Marina in piedi, le accennò che s'inginocchiasse, poi si curvò sul letto, pronunciò con voce chiara le ultime preghiere.

Marina fece due passi avanti; il lume della candela ascese fino al suo viso pallido, alle nari frementi, alle sopracciglia contratte.

"Conte Cesare!" diss'ella.

Tutti trasalirono, si rizzarono sulle ginocchia, esterrefatti, a guardarla: tutti, tranne don Innocenzo. Questi non fece che un gesto, con la sinistra, verso lei.

Ella non indietreggiò, non piegò. Stese le braccia, appuntò gl'indici, come due pugnali, al morente, esclamò:

"Cecilia è qui..."

Un fremito d'esclamazioni sorde, uno scricchiolar di seggiole, un fruscio di piedi corse per la stanza. Don Innocenzo si voltò:

"Via!" diss'egli.

Nepo, il Vezza, il Mirovich fecero un passo verso la donna ritta in mezzo alla camera come un fantasma.

"In nome del Signore la conducano via!" singhiozzò Giovanna. "È lei che l'ha ucciso!"

Nello stesso istante Marina gittò indietro le braccia coi pugni chiusi, piegò avanti il viso e il petto. Nessuno dei tre osò avvicinarsele, fermarle parole stridenti:

"Con il suo amante!..."

Allora fu visto Silla slanciarsi a lei, levarla tra le braccia.

"Per vederti morire!" gridò ella in aria, dibattendosi. Fu un lampo; si udì un'usciata violenta. Silla e Marina sparvero, la camera tornò silenziosa. Nepo, il Vezza e l'avvocato mossero in punta di piedi verso la porta.

"Nepo!" disse la contessa Fosca sottovoce, con forza. "Qui!"

Egli obbedì, le andò vicino. Gli altri due uscirono.

"Il conte Cesare non ha potuto udir parola" disse don Innocenzo pigliando la candela e posandola sul comodino. "Egli dorme in pace."

Il medico si avvicinò, posò una mano sul cuore del conte, trasse l'orologio e disse forte:

"Un'ora e trentacinque minuti."

Don Innocenzo cominciò subito le preghiere per l'anima partita.

Una voce chiamò dalla porta il medico, che uscì. Anche i domestici, per ordine di Nepo, uscirono tutti, tranne Giovanna che, inginocchiata al letto del suo padrone, rispondeva con voce debole, desolata, alle preghiere del curato. Nepo accese due candele che erano sul cassettone. Le fiammelle, allargandosi come due occhi spaventati, mostrarono poco a poco al suo viso cupido le chiavi del conte sul cassettone, la contessa Fosca pochi passi discosto, il Mirovich che rientrava pallido, col ribrezzo sul volto della cosa stesa sul letto, a sinistra. Costui si fermò sulla porta e guardò Nepo, aggrottando le sopracciglia. La contessa lo vide, ruppe in singhiozzi, andò a stendergli il braccio che il vecchio cavaliere prese ossequiosamente, e uscì con esso.

Nepo tolse le chiavi e una candela: si provò pian piano ad aprire uno stipo addossato alla parete di fronte al letto tentando tutte le chiavi senza riuscirvi.

"Oh Signore!" disse la Giovanna con accorato sdegno. Don Innocenzo s'interruppe.

"0 pregare o uscire" diss'egli.

Ma Nepo non gli badò. Curvo sullo stipo, girando la chiave nella serratura, figgendovi quasi il lungo naso, pareva una donnola fremebonda, inarcata a spiare, a odorar per qualche pertugio la preda.

La collera salì al viso di don Innocenzo.

"Vado io" disse.

Avrebbe afferrato colui, lo avrebbe gittato alla porta se Giovanna, supplichevole, non lo avesse trattenuto.

"Lasci stare" diss'ella "seguiti, seguiti, non me lo abbandoni"

Intanto Nepo aveva trovata la chiave buona, aperto lo stipo e trattane, dopo breve frugare, una carta piegata. L'accostò alla candela cui reggeva con la sinistra, vi lesse una soprascritta, abbruciandosi i capelli. Il Mirovich, rientrato allora senza ch'egli se ne avvedesse, gli si avvicinò, gli disse con la sua severa voce proba:

"A me."

"Bisogna leggere subito" disse Nepo, confuso. "Voglio sapere dove sono, in casa di chi."

Uscirono insieme.

Anche le preghiere in expiratione erano finite. Don Innocenzo pregò ancora per qualche tempo, indi tolse congedo da Giovanna, che non fu in grado di articolar parola.

La povera vecchia rimasta sola col padrone, pose sulla testiera del letto le candele accese da Nepo, mise a posto le seggiole sparse per la stanza, studiandosi di non far rumore come se il conte dormisse. Sedette poscia presso al letto guardando il crocifisso posato sul petto del cadavere. Ella aveva fedelmente, umilmente servito il conte per quarant'anni, senza toccarne mai parole aspre né affettuose, ma sentendone la intiera fiducia e una coperta benevolenza. Gli aveva sempre voluto, in vita, un bene rispettoso, da essere inferiore. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso ch'egli non era più il padrone in casa sua, che gente estranea metteva mano liberamente alle chiavi, mentre ella sola di tanti servi, di tanti amici gli rimaneva accanto, devota come nei giorni passati della sua alterezza, della sua forza. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso che la croce gli posava sul cuore; una piccola croce tolta quella notte dalla camera di lei. Si alzò, venne a baciar per la prima volta, una dopo l'altra, le mani inerti fra cui la croce posava, ne provò consolazione infinita e pianse.

Don Innocenzo, escito nel corridoio, lo trovò scuro. Fatti pochi passi pian piano tastando il muro, perdette la tramontana e si fermò, disposto a retrocedere in cerca di lume. Stette in ascolto. Udì strida e lamenti che venivano dall'alto, a intervalli; anche parole, ma non gli riuscì di afferrarne alcuna. Riconobbe però la voce di donna Marina. Nessuno rispondeva. Colpi sordi di passi frettolosi attraversavano il soffitto del corridoio, poi tacevano. Al di sotto, a fronte di don Innocenzo, tutto era silenzio come alle sue spalle. Che accadeva lassù? Le strida i lamenti continuavano. Ore d'angoscia in cui il cuore della casa tace, vuoto di vita e un'agitazione mista di stupore e disordine invade le membra senza governo! Don Innocenzo, calmo al cospetto della morte, calmo durante la terribile apparizione di Marina, qui si turbava.

Un passo rapido risuonò sul soffitto, traboccò per la scala nel corridoio.

"Lume!" disse don Innocenzo.

"Ah, Signore!" esclamò colui ch'era disceso, correndo via a precipizio nel buio.

Il curato riconobbe il Rico, lo chiamò, ma inutilmente.

Si vide aprire e sparire a fronte una luce debole, andò avanti a caso e, spinto un uscio, si trovò in loggia.

"Ah, il signor curato!" disse il Rico che stava per scappare dall'altra parte.

Potevano essere le due. Faceva fresco. Il cielo si era tutto coperto daccapo di nuvole malinconicamente chiare fra la luna invisibile, appena spuntata, e il tacito specchio del lago.

"Vien qua!" disse il curato. "Dove vai?"

"Vado a pigliar la medicina."

"Cosa c'è?"

"Che senta!"

Le grida ricominciarono, in quel momento, più distinte. Don Innocenzo s'affacciò alla balaustrata, guardò in alto a destra, vide illuminata la finestra d'angolo del piano superiore. La voce veniva di lassù. Adesso parevano rimproveri, imprecazioni, poi lamenti, poi silenzio.

"È la signora donna Marina" disse il Rico sottovoce. "È come matta. C'è su il signor dottore e il signor Silla. La gliene dice di tutti i colori al signor Silla."

"Non c'è nessun altro?"

"C'è anche la mia mamma. C'è stata un momento la signora Fanny, ma è scappata."

"E tu cosa vai a prendere?"

"Lo so io? Il signor dottore ha detto un certo nome come corallo. E mi ha detto di chiamare la Luisa del Battista per venire a curarla."

Don Innocenzo si tolse la lettera di tasca e la diede al ragazzo.

"Portala" diss'egli "nella camera del signor Silla e poi discendiamo insieme."

Anche nell'altr'ala del Palazzo cominciava allora un'agitazione sorda.

Da più d'una fessura d'uscio trapelavan lume e bisbigli. I fili dei campanelli trasalivano, sussultavano impazienti: se ne udiva strillar lontano la voce chiara, imperiosa. Sulle scale don Innocenzo e il Rico trovarono Momolo che scendeva con un lume.

"Forse si va!" diss'egli. Essi non risposero.

Esciti che furono dal Palazzo, il Rico partì di corsa per la sua missione, il curato si incamminò lentamente guardando i grandi cipressi pensosi. Al cancello incontrò Steinegge. "Lei qui?" diss'egli.

"La campana: ho inteso la campana" rispose Steinegge con voce commossa. "Oh, questo è un dolore! Io dovrei piangere per quest'uomo."

Egli abbracciò e baciò don Innocenzo, soffocando un singhiozzo, poi disse in fretta:

"Si può andare avanti? Ha visto il signor Silla?"

"Eh!" rispose don Innocenzo. "Altro che visto!" e raccontò la lunga scena, poi quanto gli aveva riferito il Rico.

Steinegge fremeva, sbuffava; non lasciò quasi che don Innocenzo finisse e corse via con un gesto risoluto che voleva dire: "Vado io". Entrò nel Palazzo mentre ne usciva il giardiniere, che pareva aver gran fretta e non lo riconobbe.

Salendo le scale incontrò Fanny che scendeva con Catte singhiozzando, ripetendo:

"Voglio andar via, voglio andar via!"

"Andrete, andrete" rispondeva Catte "ma pazienza, benedetta. Volete lasciar la vostra padrona in quello stato?"

"So di niente, io, voglio andar via!"

"Madre santa, che vita!" disse Catte a Steinegge, che stringendosi alla ringhiera per lasciarle passare, le guardava attonito. Egli stava per domandar loro qualche cosa, quando la contessa Fosca gridò dall'alto:

"Ohe, questo Momolo!"

"Subito, Eccellenza!" rispose Catte, e scese in fretta, trascinando giù Fanny. Steinegge continuò, pure in fretta, a salire.

"Momolo" disse la contessa, scambiando Steinegge pel suo servitore "avrà inteso bene, eh, quell'altro? Un legno e un biroccino alle sei. Ah, siete voi? Scusate, caro voi."

"Parte, la signora contessa?"

"Sì, sì, e maledetta quella volta che son venuta."

Nepo chiamò sua madre all'uscio del salotto. Si vide dietro a lui l'avvocato Mirovich seduto al tavolo con una lucerna, un calamaio e due gran fogli davanti a sé. La contessa entrò in salotto e l'uscio ne fu richiuso sul viso a Steinegge. Questi trovò nella loggia il Vezza appoggiato alla balaustrata verso il lago; gli si avvicinò col cappello in mano per parlargli; ma colui, guardatolo appena e accennatogli di tacere, volse il capo dall'altra parte, ascoltando.

Si udì un gemito lungo, debole.

"Donna Marina?" disse Steinegge.

L'altro non rispose, ascoltò ancora. Non si udì più nulla. Allora quegli, come uscisse da un sogno, si mise a parlare affrettatamente:

"Cose orribili, sa. Le hanno detto?..."

"Sì, mi ha detto qualche cosa il signor curato."

"Oh, Lei non ha idea di quel momento! Guardi."

Il Vezza rappresentò tutta la scena appuntino, parlando sottovoce, interrompendosi tratto tratto per ascoltare.

"Io esco" diss'egli poi "con l'avvocato Mirovich, sa, l'avvocato dei Salvador. Trovo nel corridoio donna Marina in preda a convulsioni terribili. Non gridava perché aveva addentato l'abito dell'altro qui al petto, gemeva. Si chiama il medico, la cameriera, la moglie del giardiniere. A gran pena riescono a trarla su per la scala, senza poterle aprir la bocca.

Dopo non so più niente di positivo; deve aver continuato il delirio violento. Adesso si capisce che è più tranquilla, ma fino a poco fa sono state, mi dicono, urla, maledizioni, suppliche incomposte. Parlava sempre a quell'altro. Ed egli è là, capisce? Non è disceso mai. Oh! cose incredibili. Quando si pensa quella scena, qui in loggia l'anno scorso! A proposito, lo sa che stanotte quando il povero Cesare ebbe l'ultimo attacco, loro due erano insieme?"

"Erano insieme?"

"Insieme, insieme! Li ha trovati la Fanny in camera da letto."

"Oh!" esclamò Steinegge. Gittò via il cappello, rimase a braccia aperte.

"Insieme" riprese il Vezza dopo un breve silenzio. "E in un momento lo hanno saputo tutti."

"Commendatore" disse Nepo dall'altro capo della loggia "vuol favorire?"

Il commendatore uscì, rientrò pochi minuti dopo.

"Che confusione!" diss'egli. "Lo sa che partono?"

"Chi?" rispose Steinegge distratto.

"I Salvador; alle sei. Che vuole? Appena successa la disgrazia, il conte Nepo non ha perso tempo, ha cercato e trovato il testamento ch'è olografo e ha la data di quindici giorni sono. L'ospitale di Novara è erede universale. Per i Salvador ci sarà forse questione, perché c'è ordine all'erede di vender la possessione di Lomellina, onde soddisfare entro due anni le trecentoventimila lire di cui, dice il testatore, "faccio donazione a mio cugino il conte Nepomuceno Salvador di Venezia". Donna Marina non ha niente. C'è poi una infinità di legati. Cesare si è ricordato di tutti, da gentiluomo, veramente. C'è anche un assegno vitalizio per Lei. Io sono esecutore testamentario. Del resto è ben naturale che i Salvador se ne vadano; non c'è neanche onore, per loro, a restar qui. Il conte avrebbe voluto fare del chiasso, che so io, battersi; ma se n'è lasciato dissuadere subito."

Catte venne a pregare il commendatore di andare ancora dalla contessa, e Steinegge rimase solo.

Non era stato mai un gran sognatore il povero Steinegge, pure qualche sogno, durante il suo mezzo secolo di vita, l'avea fatto anche lui, di tempo in tempo; qualche piccolo sogno come la libertà della patria, la pace della famiglia. Il suo ultimo sogno, umile e timido, era stato che sua moglie sarebbe guarita e che avrebbero trovato un pane in Alsazia; soffiatogli via dalla fortuna anche questo, non aveva sognato più.

Per meglio dire, non aveva più creduto di sognare, perché adesso, guardando il lago dalla loggia del Palazzo, e sentendosi il cuore tutto amaro, capì che un'altra speranza, natagli spontaneamente, inavvertita da lui, gli si era rotta e gli faceva male. Chi avrebbe pensato che Silla potesse dissimulare a quel modo? Deliberò di aspettarlo.

Nessuna voce veniva più dalla camera di Marina; tutta quell'ala del Palazzo era muta. Dall'altra parte si udivano ancora spesso colpi d'usci sbattuti, strilli di campanelli. Spesso si apriva la porta della loggia, si chiamava sommessamente un nome o l'altro. Nessuno rispondeva; una testa usciva a guardare, poi spariva e l'uscio si richiudeva lentamente. Voci di donne si alzavano un momento in litigio, ma erano fatte tacere subito. Passi frequenti crosciavano sulla ghiaia del cortile, salivano la scalinata; in alto, pei sentieri del vigneto si gridava e qualche volta si rideva. Per fortuna i bagagli dei Salvador eran quasi pronti fin da due giorni prima; la contessa li faceva portar su alla casetta del giardiniere.

Steinegge, fermo in loggia all'ultima arcata di ponente, con le spalle al lago, le braccia incrociate sul petto, aspettò a lungo, con gli occhi sulla porta onde sperava veder uscire Silla.

Finalmente udì venire pel corridoio i passi di due persone. Ascoltò trattenendo il fiato; non parlavano. La porta si aperse.

"Siamo intesi, dottore" disse Silla. "Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza; riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova presentemente, e se qualcuno Le domanda di me, La prego rispondere a nome mio che per un'ora mi si troverà qui in loggia."

La voce era sinistramente fredda. Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggia, Silla vi entrò dopo di lui.

Steinegge gli si fece incontro.

"Signor Silla!" diss'egli.

L'altro non gli rispose, non si voltò nemmanco a guardarlo, andò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il cortile.

Steinegge fece un altro passo.

"Signor Silla, non mi riconoscete?"

Silenzio.

"Ah, quand'è così, bene."

Egli tornò dov'era prima e tacque, guardando Silla che non si muoveva.

"Io non so" diss'egli. "Io non credo aver meritato questo."

Nessuna risposta.

"Questo è amaro, signor Silla, di venire come amico ed essere accolto così! Io voleva solamente dirvi che io avrei preferito non vedervi più mai qui; anche adesso io vorrei piuttosto vedere una buona onesta bocca di fucile sul Vostro petto, per Dio! Ero venuto per dire a Voi questo e altre cose, ma poiché Voi non volete ascoltarmi, io vado. Addio." S'incamminò per uscire. Allora Silla, senza voltare il capo, gli disse freddamente:

"Dica a Sua figlia che ho tenuto parola e son caduto a fondo."

"A mia figlia! Questo?"

"Sì, e adesso vada. Vada, vada via!" ripeté Silla con passione improvvisa perché Steinegge, sorpreso, tornava verso di lui. Questi piegò il capo in atto di rassegnazione e se n'andò.

Due lanterne, un corteo silenzioso attraversano il cortile. Subito dopo il commendatore viene ad avvertire Silla che i Salvador sono andati ad aspettar la carrozza in casa del giardiniere, e che, s'egli desidera, può comunicargli una disposizione del conte che lo riguarda.

L'uscio si chiuse dietro a loro, la loggia rimase vuota.

 

5. Inetto a vivere

L'alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell'Alpe dei Fiori, circonfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de' fichi, de' gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull'acqua morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell'alto, bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravi, d'intimi colloqui sommessi, una quiete di chiostro in cui l'aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.

Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterie, che uno dopo l'altro, da' più lontani a' più vicini, diventavan grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L'ala di ponente aveva tutte le finestre chiuse, ma l'altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce né segno alcuno di vita, benché vi parlasse un disordine di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benché vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana pietrificata, più pallida di quell'alba.

Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l'anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d'ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai, sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire, dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.

Lo guardava placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia, porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c'è verso. Silla credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì, ma non poteva parlare perché era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma, leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un'altra rivelazione. Vide in se stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni dell'adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia, dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre parole: INETTO A VIVERE. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide né intese più nulla.

Gli parve svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sé "adesso non sogno". Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava, steso bocconi, in un'acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielo, color d'alba piovosa: e ripeteva seco stesso: "Eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo". Era una consolazione profonda e tenera la sua,come si prova in un sogno d'amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d'alba piovosa non procedesse più pel suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: colto da indicibile terrore, si svegliò.

Si vide davanti, per la finestra aperta, un largo chiarore bianco, alzò la testa inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: "È vero, morire, non c'è altro; dormire ancora. Dormire, dormire". Sopra il capezzale l'angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio: "Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell'anima sua? Chi lo mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest'ora angosciosa?".

Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch'era stato così pallido altre volte dopo un'ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno dell'anima. Ora non v'era più sdegno in lui né forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a' suoi parenti, alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l'invio dei soliti interessi, poiché lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l'aperse.

V'erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:

"Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch'egli può diventare grande e forte, contro la fortuna, malgrado l'ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri che al suo vecchio padre, il quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di portare nell'intimo del suo cuore un nome che le è caro, un'anima che non affonderà mai se ama come lo dice."

Silla sorrise. "Adesso, adesso!" diss'egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.

Trasse il portafogli per chiudervelo, stette sospeso, considerando i caratteri netti e slanciati, pensando alla mano, alla mente pura; e pentitosi della prima idea, compreso della propria indegnità, ripose il portafogli, accese una candela, vi arse lo scritto, ne sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muraglia, un domestico entrò a dirgli che commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera. Silla ripose la lettera incominciata, e uscì come stava, con i capelli arruffati, con le vesti in disordine. L'orologio della scala suonò, mentr'egli passava, le nove.

"Qui" disse il commendatore "una sorpresa non aspetta l'altra."

Silla non fece domande: attendeva che colui parlasse, che anche questa noia fosse passata per sempre. Ma il panciuto soldatino di gomma, invece di parlare, lo guardò fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.

"Cosa vuole" diss'egli, lasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice "sono in una condizione penosissima. Si soffoca poi anche, qui dentro."

Aperse una finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.

"Penosissima" ripeté.

Silla non aperse bocca.

"E pure" soggiunse il commendatore, sospirando "bisogna starci. Io sono un ambasciatore sa. Un'ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare."

Silla trasalì.

"Lei si meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle sette, tranquilla, perfettamente in sé. Solo non ha voluto che si aprissero le persiane; ha preferito tenere accesa la candela, anzi farne accendere altre due o tre. Ha domandato, la prima cosa, se Lei è ancora qui, al Palazzo. E poi si fece ripetere i discorsi del suo delirio, tutto l'accaduto dopo..."

Il commendatore si fermò esitando.

"Parli pure" disse.

"Dopo che Lei l'ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusi, Lei l'ha rimproverata, per quello che ha detto là?"

"A parole non l'ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orrore, perché mi ha vituperato nel suo delirio."

"Bene, è su questo orrore manifestato da Lei, mi diceva la donna, che la marchesina fece più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adesso, senta. Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotte, per me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezza, con una calma da fare sbalordire. Era pallida, se vuole, come un cadavere; ma non importa. Mi domanda perdono di avermi incomodato, con un'affabilità insolita in lei, poi mi dice che nella posizione stranissima in cui si trova, non ha nessuna guida, nessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima doversi rivolgere a me per consiglio. Io, naturalmente, mi metto a sua disposizione. Ella mi domanda allora... scusi, signor Silla, Lei è disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia pazienza, io non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se sono costretto di ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle."

"Parli, parli" disse Silla.

"Bene. Mi domanda dunque dei Salvador: perché sono partiti? Io la guardo. "Eh" dico "per questo e per questo. Perché dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di non avere più niente da fare, qui." Allora ella mostra di turbarsi un poco, mi dice che comprende e scusa questo procedere, che pur troppo ha tutte le apparenze contro di sé, ma che non è colpevole affatto. E qui, poveretta, mi fa un racconto dal quale mi son ben persuaso che c'è ancora follìa e follìa più pericolosa, forse, del delirio violento. "Per otto giorni" dice "non sono stata responsabile delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno scombuiato il cervello. Queste comunicazioni" dice "il signor Silla le conosce.""

"È vero" disse Silla.

"Euh!" esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli sconvolgeva le idee, gli suggeriva il sospetto che neppur quell'uomo pallido dai capelli arruffati, dalle vesti scomposte, avesse il cervello interamente sano.

"È vero" ripeté Silla

"Spiritismo?" chiese il commendatore.

"No. Ma, La prego, continui."

Il Vezza aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perché potesse raccapezzarsi.

"Dunque" diss'egli "ella sostiene, continuando, di aver vissuto otto giorni in una specie di sonnambulismo, durante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è dolentissima. Protesta della sua indifferenza, anzi della sua ripugnanza per Lei, comunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione. Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvador, e mi prega, in due parole, di aiutarla. Cosa vuole, che le rispondessi? Che per parte mia credevo tutto, ma che non vedevo probabile di far credere nulla al conte Salvador. "E poi" le dico "capisce bene. Fanny non ha taciuto...""

Silla lo interruppe impetuosamente.

"Quanto a questo" diss'egli "posso dare la mia parola d'onore..."

"Benissimo, benissimo, si calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. "Se io sono esclusa" dice "questa è una ragione, per un gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi." Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che danno ragione a donna Marina, e Lei vorrà non dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due."

"Ch'io parta?" disse Silla, concitato.

Il commendatore tacque.

"Ma cosa crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie, non foss'altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nulla, adesso che è malata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?"

"Piano, piano, piano" disse il commendatore piccato. "Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tutte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire."

Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio.

"Sul Suo onore, signor Vezza" diss'egli "crede buono questo consiglio?"

"Sul mio onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente."

"Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla."

"Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei."

"Perché?"

"Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?"

"Perdoni, non si tratta de' sentimenti miei, adesso."

"Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?"

"No, le dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei."

"Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere."

Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine.

"Oh, il vento cambia, meno male" disse il commendatore. "Anche questo tempaccio è una cosa orribile."

Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo.

Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.

Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.

Restavano i rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà mai, se ama come lo dice". Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella persona "sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!"

Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.

 

6 Sereno

"Ecco l'agave che volevo farle vedere" disse don Innocenzo a Steinegge. "Bella eh?"

Era lì a godersi il sole, superba e triste, nel mezzo di un gran pietrone grigio, fra due brevi quinte di bosco. In alto fra il ciglio del pietrone e il cielo azzurro, magri arbusti si divincolavano ridendo nel vento trionfante che saltava sopra il valloncello, sibilava giù nel frutteto di don Innocenzo, sul tetto della canonica, si spandeva nei prati a ondate. Ciuffi di rovi penzolavano dalle fessure del sasso, lunghe e torte frange d'edera ascendevano dalle sue radici affondate nell'erba che brillava ancora di pioggia. Quel mostruoso scoglio mezzo nudo, tanto amato dall'edere, tanto paziente dei rovi, era la vita, la parola, la passione del paesaggio. Don Innocenzo aveva fatto portar lì un sedile rustico e vi passava delle ore a leggere, a pensare.

"Ci ha un che di meridionale, quell'agave, non è vero? Vede, io ci vengo spesso qui, con un libro e con i miei pensieri, respiro in quest'aria una innocenza che purifica il cuore. Ne ho bisogno perché sono astioso, rabbioso, forse anche maligno, ambizioso: no, ambizioso no, ma avaro forse: qualche volta mi par d'essere avaro, di affannarmi troppo per certe miserie d'interessi. Senta che mi confesso a Lei. Mi assolverà, poi? Io parlo intanto, perché mi fa bene; e Lei poi faccia quel che crede. Dunque, quando vedo campi coltivati, sento tanta gente fra Dio e me; qui non ci sento più nessuno e parlo col Signore da solo a solo, più volentieri perché si tratta di guai tutti miei propri. Ne avrà anche Lei, già, di questi momenti. Non ha mai niente che La inquieti?"

Steinegge confisse d'un colpo il bastone in terra.

"Oh, che cieco!" diss'egli. "Che stupido sono stato! Non aver capito niente! Non aver sospettato di niente! Credete ch'ell'avesse molta inclinazione per lui?"

"Oh no, non moltissima, spero, ma via!" disse don Innocenzo, mortificato della poca attenzione ottenuta dal suo discorso. "Si calmi. Non mi faccia pentire di averle raccontato tutto. Ho parlato per impedire che Lei domandasse spiegazioni alla signorina Edith di quel discorso del signor Silla. La signorina non deve conoscerlo: ne avrebbe troppo dispiacere. Del resto è forse meglio così, anzi diciamo addirittura; è meglio così. Ha visto che uomo era, questo signor Silla?"

"Che uomo era? No; cosa volete, lo amavo tanto! Non posso ancora giudicarlo come Voi."

Si percosse la fronte come se volesse stritolarvisi dentro tante idee penose.

"Per me!" diss'egli "per me! Io bacerei di gratitudine il posto dove ella mette i piedi e dopo le direi "calpestatemi perché io non capisco". Non sapete, signor curato, che mi è troppo aver tutto il cuore di Edith, che io ne sento rimorso, qualche volta, come di un grande egoismo, e che sarei felice di un matrimonio così; perché poi io sono vecchio e c'è anche altre cose da pensare!"

"Venga" disse don Innocenzo, commosso, pigliando Steinegge pel braccio e conducendolo al sedile rustico "fermiamoci qui, pensiamo, cerchiamo quali ragioni può aver avuto Sua figlia."

Steinegge si fermò su' due piedi, temendo qualche rivelazione impreveduta.

"Cosa?" diss'egli.

"Venga, venga, sieda qui."

Don Innocenzo non trovava la prima parola, stringeva convulsamente una mano con l'altra, suggeva l'aria, secondo il suo solito, per le labbra serrate.

"Si sarebbe mai accorto" cominciò finalmente "di qualche preoccupazione, di qualche angustia nell'animo di Sua figlia?"

Steinegge trasalì.

"Denaro?" diss'egli.

"No, no."

Uno sgomento angoscioso contrasse il viso del povero uomo mentre diceva:

"Salute?"

"No, no. Senta. Potrebbe darsi che Sua figlia volesse pensare a Lei solo, occuparsi di Lei solo, vivere insomma per lei solo, fino a che Ella, amico mio, ottimo e carissimo amico mio..."

Don Innocenzo gli prese, parlando, una mano.

"...intendesse quale sia quest'angustia segreta che c'è, lo so, nel cuore della signora Edith, povera signorina."

"Lo sa!" disse Steinegge, pallido, stringendo forte la mano del prete, guardandolo a bocca aperta.

"Metta che io non sia prete" continuò il curato. "Adesso non sono prete, sono un amico. Va bene? Mi ascolterà come un buon amico?"

Steinegge accennò di sì con la testa, impetuosamente, senza poter parlare.

"Bene, via, bravo. Dica, Ella ha sofferto molto, non è vero, nella vita? È stato perseguitato, calunniato, non è vero? e specialmente da persone che portano quest'abito? Sì, lo dica pure francamente. Crede che non ne conosca, io, de' preti furfanti? Dunque Lei ne ha concepito un grande aborrimento contro tutti... No, glielo credo, contro di me no; ma è un'eccezione. Ha concepito poi anche un gran dispregio per altra cosa infinitamente superiore a questi preti miserabili, per la Parola di cui dovrebbero essere custodi e ministri. Mi lasci dire, Lei parlerà dopo. Credo benissimo che dopo la venuta della signora Edith Ella si sia molto avvicinato alla Parola; come non sarebbe? Deve averne provato, stando con Sua figlia, il calore e la luce: ma finora, tra le opere della signorina Edith e le Sue in questo argomento della religione, quale somiglianza c'è? Nessuna, non è vero? Ella non può dire di essere un cattolico e forse neanche un cristiano. Ora la signorina Edith crede, deve credere che se Lei non si sottomette di cuore e di fatto alla Chiesa, Loro non potranno poi aver parte insieme nella Risurrezione e nella Vita. Ecco il segreto doloroso. Tutto il cuore, tutti i pensieri di Sua figlia sono qui. Vuol vivere per quest'opera sola; sono certo che cerca il sacrificio di se stessa; che vi assapora una contentezza particolare, una vena nuova di speranza. Lei può andar superbo d'essere amato così. La signorina confida in Dio per toccare il suo sogno; comprende? Non vuol dirle: "se mi ami fa questo". Mai! Vuole che le loro due anime vivano chiuse una nell'altra, in comunicazione continua, onde poco a poco, inavvertitamente, ogni giorno, ogni momento, la Fede possa entrare in Lei, amico mio. Forse non dovevo dirle questo."

"Oh!" esclamò Steinegge con voce soffocata, protestando.

"Forse non dovevo, no; ma adesso quando Lei ha detto "non capisco" mi si è mosso dentro qualche cosa che ha mandato sossopra la mia prudenza; ho pensato: qui bisogna parlare, bisogna fargli sapere, un sacrificio così ha da essere apprezzato, non gli parlerò come prete, ma come amico. E come prete non Le parlo; Le dico solo che io non avrei mai consigliato questo sacrificio, e che ho venerazione per Sua figlia."

Steinegge si buttò indietro il cappello sulla nuca e giunse le mani, le scosse nervosamente guardando il cielo; poi se ne coperse il viso, appoggiò i gomiti alle ginocchia.

"Avevo capito" mormorò "la prima sera... ma poi adesso... credevo che fosse contenta..."

Don Innocenzo si chinò a raccogliere le parole inintelligibili.

"Cosa?" diss'egli affettuosamente.

"Credevo che fosse contenta" ripeté l'altro senza toglier le mani dal viso. "Adesso prego con lei... vado anche in chiesa... ho perdonato a tutti, credevo che bastasse."

Il curato fu per buttargli le braccia al collo e dirgli: "Sì, va in pace, per te, povero tribolato, per te, semplice e umile cuore, basta. Tu sei come un figliuolo mandato da suo padre nel mondo a lavorare, che, ferito, perseguitato da' suoi compagni, torna senza aver appreso né guadagnato nulla verso la casa paterna, batte piangendo alla porta che i servi gli han chiusa in faccia come a un indegno. Suo padre ha veduto, ha saputo tutto; ma non vuoi, santo Dio, che lo raccolga e lo consoli?". Fu per dirgli così, ma si guardò l'abito e si trattenne, mordendosi le labbra; si strinse le parole nel cuore gonfio.

Steinegge, improvvisamente, scattò in piedi.

"Andiamo da lei, amico mio" diss'egli "andiamo da lei subito. Io farò tutto, andiamo subito."

"No no no" rispose don Innocenzo. "Non accetterebbe un atto compiuto per amor suo e non per convinzione. Ci pensi, non parli alla signorina del nostro colloquio d'oggi, poiché mi dice che prega, preghi, domandi a Dio una parola nel cuore e se questa parola viene, allora sì, allora dica pure a Sua figlia: "Sappi, ho pensato, ho pregato e credo". Prima no. E adesso mi permetta di tornare prete, di dirle: "son qua tutto per Lei: parleremo, leggeremo, discuteremo... diremo male dei preti, se vuole!"

Don Innocenzo aggiunse sorridendo queste parole, perché gli pareva di veder Steinegge incerto.

"Scusate" disse questi "scusate molto, amico mio; noi non leggeremo e non discuteremo. So che i Vostri ragionamenti mi farebbero male, perché io ho uditi e letti nella mia vita troppi ragionamenti su queste cose della religione, benché io non sono filosofo né letterato. Io temerei udire da Voi argomenti uditi ancora, mi capite? argomenti che io ho inteso mettere in polvere altre volte e che mi farebbero cadere il cuore come, scusate molto la mia franchezza, se Vi vedessi armato di carta pesta. Io credo che avrei migliore impressione da una critica come ho letto pochi giorni sono in un libro tedesco recentissimo, un libro di un tale Hartmann, molto empio per Voi, dove si dice che il cristianesimo finirà come ha cominciato, der letzte Trost, l'ultimo conforto dei poveri e degli afflitti. Questo mi ha colpito come una gran luce sulla Vostra fede. Notate che secondo lo scrittore tutto il genere umano dovrà un giorno trovarsi afflitto dalla vanità delle cose e della vita. D'altra parte Voi non potete avere ragionamenti che prendano gli uomini come tenaglie. Voi terreste il mondo in pugno, Voi avreste il pensiero per Voi e le passioni contro di Voi. Ma è il contrario che succede; Voi avete molto più gente di passione che gente di pensiero, molte più donne che uomini, più popolo che intelligenze. No, quello che potete prendere è il cuore, credo: quando avete preso il cuore e lo tirate a Voi, bisogna bene che tutto l'uomo venga. Così sta per accadere a me, perché il mio cuore non è in mio potere. Anche Voi, amico mio ne avete una parte: anzi, posso dirvi una cosa? la Vostra faccia, che io amo, così buona sopra il vostro abito, è un molto più forte argomento per me che tutta la Vostra teologia."

Pronunciando la parola "teologia" Steinegge arricciò il naso come se fiutasse qualche putredine.

"Che spropositi!" disse don Innocenzo con le sopracciglia aggrottate e la bocca ridente.

"Non spropositi, no!"

"Spropositi, spropositi. Non è vero che non abbiamo argomenti. Naturalmente una fede religiosa fondata sul mistero, non si può dimostrare con argomenti logici che stringano come tenaglie. Non si può trattare questo problema come i problemi di geometria; ma vi ha pure un procedimento che porta avanti verso il mistero, un procedimento assai più rapido e potente del Vostro gottoso procedimento logico che dopo tutto, caro Steinegge, non ha mai trovato da sé solo niente di molto grande. Vede, prendiamo pure la distinzione triviale della mente e del cuore; diciamo invece se vuole, l'intelligenza e l'amore, e ricordiamoci che non son mica due parti dello spirito. Vi è forse un pezzo di sole che scalda e un altro che splende? Bene. Loro signori filosofi, quando cercano la verità, dicono: noi abbiamo queste due gambe, una delle quali fa passi e slanci smisurati e sarebbe anche capace di saltare qualche ampia fenditura della via. Noi non vogliamo correre questo pericolo, noi vogliamo sentirci sempre la terra sotto i piedi. Noi non la terremo in freno questa gamba sinistra, questa gamba sentimentale, non la riporteremo al bisogno indietro appoggiandoci sull'altra, no, ma ce la taglieremo via senz'altro e andremo con una gamba sola, adagino, sin dove potremo. E così fanno, caro amico; vanno a conquistar il cielo e la terra con una gamba sola, e lo chiamano positivismo. E questa gente guiderà il mondo? Male lo guiderà."

Don Innocenzo si alzò in piedi, infuocato in viso, con gli occhi pieni di luce, bello.

"Io poi Le dico" proseguì più calmo "che il pensiero umano non può, non deve occuparsi di ricerche religiose senza una preparazione morale. Senza cuor puro nessuna visione delle profondità di Dio. Bisogna che lo strumento di ricerca, il pensiero, sia ben predisposto; che abbia, stia attento, tutta la sua originale potenza di tendere al bene, ai principii del bene che sono poi anche i principii del vero. Ogni passione, a cominciare dall'orgoglio, determina un movimento diverso, altera quella tendenza; e allora, dove si va? Lo vediamo dove si va. Ecco perché l'insegnamento morale ha preceduto nella nostra religione l'insegnamento dogmatico. Ed ecco il primo grande aiuto del cuore nella indagine religiosa: ne determina la direzione dal punto di partenza. Partite con l'orgoglio, con la sensualità; andrete logicamente verso la negazione, il nulla, il male, perché vi è una terribile strada logica che conduce là. Partite con il cuore puro e anche, dirò, con le opere pure, accordo necessario, e andrete verso il vero. Ma come? Con la logica sola? No. Con il cuore, con il sentimento solo? Ma neppure, no certo; con tutte le facoltà dell'anima, con la ragione, con la immaginazione, con l'amore. Parlo, sa, ora, dei mezzi umani di ricerca, lascio da parte la grazia. Non si tratta d'indurre né di dedurre, ma di slanciare grandi ipotesi davanti a noi. Ci vuole fantasia per questo, calore e purezza di sentimento, ci vuole sopra tutto la facoltà più sublime dell'anima nostra, che non so come venga spiegata dai razionalisti, la facoltà d'intravvedere per subitanei chiarori interni..."

"Io non ho questa cosa" disse Steinegge.

"D'intravvedere idee superiori alla potenza ordinaria della mente in cui sorgono, sorprendenti per lei stessa. Allora comincia intorno a questa ipotesi il paziente lavoro logico della ragione per veder se combaciano con le verità note e tra loro, per modificarle, abbandonarle ove occorra. Certo neppur con questo procedimento si spiegano i misteri, ma si ottiene però qualche volta il risultato mirabile d'indicarli dove la Rivelazione ci dice che realmente sono, presso a poco come quel pianeta indicato da un astronomo là dove poi fu visto. E allora sopravviene la fede, se non è giunta prima. So cosa rispondono i suoi razionalisti."

"Ooh!" disse Steinegge come per iscusarsi.

Un veemente soffio calò stridendo sui rovi del sasso, mise nel bosco una follìa frenetica, uno strepito che impediva di udire le parole. Don Innocenzo sempre acceso in viso, non potendo parlare, scoteva l'indice teso verso Steinegge, intendendo di dire che la risposta dei razionalisti non valeva nulla; poi alzò la testa, quasi a guardar in faccia quel diavolo di vento saltato senza riguardo in mezzo alla discussione per soffocarvi le buone ragioni, come un gran chiasso e un voto di volgo sovrano. Appena poté, proseguì a parlare.

"I razionalisti rispondono che questo modo di argomentare può essere buono per chi lo adopera, ma non prova nulla, non può servire a stabilire la verità. Stoltezza. Per essi non può servire, che sono induriti nel loro gretto sistema impotente, per altri sì. Noi parleremo e leggeremo, caro amico. Io spero di arrivare a persuaderla, con l'aiuto di Dio, che vi è una bellezza nella verità in cui si commuove e si appaga, non il cuore solo, ma tutta l'anima umana; una bellezza che noi possiamo vedere solamente in ombra e per immagine, ma con qual divino piacere! Vedere, sia pure in confuso, gli occulti accordi, le convergenze fra il creato e l'increato, per esempio fra i misteri più eccelsi della Divinità e i misteri più reconditi delle anime! Meditiamo e contempliamo insieme, sì. E adesso basta; non Le dico altro."

"Caro amico" rispose Steinegge sospirando "può essere che Voi parlate molto bene, ma Voi non conoscete me. Questo che mi proponete sarebbe assai buono per un giovane, il quale sente bisogno di muovere il suo pensiero, ha una grande curiosità di mente e si compiace più di aver fatto da sé una piccola scoperta con travaglio, che di aver comodamente preso molto sapere preparato sul suo tavolo. Oh, io ho conosciuto e un poco sono stato anch'io così una volta. Adesso io sono un vecchio stanco; io ho la testa piena di opinioni contro di Voi, che forse non sono giuste perché gli uomini e i libri dai quali le ho prese non valevano forse molto, ma che non potrei mandar fuori con ragionamenti perché non ho la forza. Io devo dire il vero, che alcune sono già partite da quando mia figlia è con me; io non so come sono partite; per ragionamenti no certo. Potrò dividermi amichevolmente anche dalle altre, potrò dir loro: tacete, perché mia figlia vuole; tacete interamente, quando io dirò questo e quando io farò quest'altro, perché non vi posso scacciare, ma sono risoluto a non ascoltarvi. Forse allora, col tempo, partiranno anche sole. Permettete, amico mio; io credo che avrò molta maggiore compiacenza facendo così, che se Voi mi persuadeste con dimostrazioni. Cosa posso io dare a Edith se non do questo? Cosa posso io lasciare a mia figlia quando muoio, se non le lascio una memoria interamente dolce, interamente cara? Guardate, non mi è mai passato per la mente, quando vedeva Edith andare a confessarsi, che sarei diviso da Lei nell'altra vita, perché non andava anch'io a inginocchiarmi davanti a un prete: è quello che più mi ripugna, ma se Edith lo desidera...! Oh, ma come, come mi ha nascosto questo!"

Alzò le mani giunte al cielo, le scosse nervosamente.

"La prima sera, sì, m'era venuto in mente e anche il mattino dopo, quando l'ho accompagnata a Messa, qui nella Vostra chiesa: ma poi ella era sempre così affettuosa, così tenera con me! Mi parlava spesso di religione, ma solo raccontando i suoi pensieri, i suoi sentimenti, come se questa cosa riguardasse lei e non me. Io ascoltava con gran piacere, come Voi che siete Italiano e volete restare italiano ascoltereste mia figlia, se vi parlasse del nostro mondo tedesco, della nostra poesia e della nostra musica. Quando ho cominciato a venire in chiesa, a pregare con lei, godeva sì, ma pareva quasi temere che io mi tediassi, che io facessi per compiacere a lei. Solo di una cosa mi pregava con passione: ch'io perdonassi."

"E ha perdonato?" disse don Innocenzo.

"Io ho fatto i più grandi sforzi" rispose Steinegge commovendosi. "Io ho, non perdonato, dimenticato quelli che hanno fatto male a me; e anche per gli altri..." La voce gli morì in gola soffocata. "Ho fatto quel che ho potuto" diss'egli.

Don Innocenzo, pure commosso, tacque. Forse la coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegno, egli prete, certe offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steinegge, cristiano senza saperlo, più cristiano di lui.

Il vento parlava per le macchie, per i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell'erba, cangiarne il verde.

"Bel tempo!" disse Steinegge, lottando ancora con l'emozione.

"Bello" rispose il curato.

Steinegge stette un po' silenzioso, poi abbracciò appassionatamente don Innocenzo, lo baciò sulla spalla, gli disse con voce inintelligibile:

"Andiamo da Edith."

"Bene, ma non gliene parli per adesso, aspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea."

Steinegge, per tutta risposta, prese il braccio del suo interlocutore, glielo strinse forte e si pose in cammino.

Fatti pochi passi, udirono Marta che gridava in su dall'orto della canonica. "Oh, signor curato! Oh, signor curato!" C'era della gente nell'orto, uomini e donne. Don Innocenzo sorpreso, affrettò il passo.

V'erano la Giunta, il presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l'indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitano, un ex garibaldino barbuto, aveva prese informazioni dirette al Palazzo. C'erano infatti 70.000 lire per un asilo d'infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano avea subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Carità, chiamandoli con amichevole compatimento "gran villanacci p..." perché essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di "quel che si fa adesso", come diceva lui, esitavano, si guardavano in faccia, brontolavano che non erano pratici che la era "pazzia" buttar via dei denari per un morto che finalmente, diceva il sindaco, al Comune, propriamente al Comune, non aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all'opinione pubblica, li avea portati con un gruppo di amici suoi dal curato, a domandarne l'autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzo, parlandogli tutti in una volta, gridandosi l'un l'altro di tacere, discutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionale, piccola tenuta, alta tenuta, una salva, tre salve, musica del tal paese, musica del tal altro, discorso in chiesa, discorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazze, le più briose civettuole del paese, che avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curato, rosse, rosse, con gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paese, a domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffo, aveva detto ch'erano "sfacciatone" di venir lì dal curato a portar via fiori, magari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce né ai borbottamenti di Marta, abbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.

Steinegge era impaziente di vedere Edith, non per parlarle, ma per leggere attraverso quel viso, per assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buona, insperata notizia da confidarle alla prima occasione; presto, senza dubbio. Ella non era nell'orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.

Non era neppur lì. C'erano però sul letto il suo cappellino, i guanti e un piccolo album. Steinegge l'aperse, vide uno schizzo preso dalla riva del lago, sotto i pioppi. Riconobbe subito i denti pittoreschi dell'Alpe dei Fiori, quelle stesse cime che otto mesi prima, coperte di nuvoloni minacciosi, avean fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo "Am Aarensee". A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:

Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh,

Das weiss nur der vielgrüne Wald.

Il paesaggio morto, freddo, a luci di neve e ombre di piombo, ricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accorò, sentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov'era dunque Edith? Perché non poteva egli porgerle subito almeno una consolazione, almeno il premio del sacrificio ch'ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell'orto, le voci rozze dei contadini, le risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepito, come si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell'orto, e andò alla finestra. Era Edith, uscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellino, volle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell'orto, non la vide più. La cercò in casa, non v'era; finalmente la scoperse presso il cancello dell'orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l'ombrellino, temendo riuscire importuno, figurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.

Si ritirò dietro l'angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parve, guardando l'orizzonte lontano, che sarebbe andato via per sempre, avrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sì, sì, come ricordava adesso le proteste appassionate di lei! E dire che tanto male, tanto dolore veniva dalla cecità sua, dal non aver egli mai capito l'angustia segreta di sua figlia!

Intanto nel salotto si giunse a un accordo. Le voci si chetarono, si abbassarono, il curato e gli altri uscirono nell'orto discorrendo tranquillamente.

"Niente di meglio" diceva don Innocenzo, soddisfatto, guardando Steinegge.

"Ma!" rispose il capitano "a me l'ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere."

"Oh!" esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa. "Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?"

Il capitano ripeté quanto aveva detto prima, soggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditori, ciascuno dei quali aveva un'ipotesi diversa.

Edith avea messo un po' di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milano, ma che loro avean voluto fiori del paese. L'armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a' fiori, non avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d'ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perché le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciupati senza necessità. Udiva gli altri parlare, e, immaginando che parlassero del Palazzo, si pungeva le mani senza avvedersene, tagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d'avere un po' di mal di capo, ma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padre, avere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uomini, la salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind'innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un'occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall'angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò incontro porgendole l'ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.

"Oh, papà" disse Edith "non va bene, prima di tutto andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell'Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate."

"Ne metteremo delle altre" disse Steinegge. "Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi. Sei stanca?"

"No, papà; ma dove vuoi andare?"

"Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?"

"Alle tre" gridò Marta dalla cucina.

"Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera."

"Bravi, bravi! Vengo anch'io" disse don Innocenzo, che avea congedato allora allora tutta la brigata. "Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori."

Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo.

"Andiamo! Presto!" disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s'incamminò per il primo.

Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: "Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera". Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: "Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!".

Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. "Forse il Suo biglietto!" "Il mio?..." rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge.

Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile, tormentoso, che quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suo, quanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessa, adesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue.

"Edith!" chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro.

Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre.

"Eccomi" disse.

Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'alto, come di qualche gran fendente calato sul verde: bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell'odor di vita che ne saliva, nelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cielo, e l'ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola.

"È magnifico tutto questo verde" disse Steinegge guardandosi in giro. "Pare di essere in fondo a una tazza di Reno."

"Vuota" osservò don Innocenzo.

"Oh, questa è un'idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che Voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg."

"Si voltino" disse don Innocenzo "guardino la mia casetta come sta bene."

Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato.

"Pare che ci guardi anche lei" osservò Edith "e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere."

"Oh" esclamò Steinegge "io sarei felice di viver qui."

"E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido."

"C'è il mio" diss'egli. "Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?"

Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine.

"No, no" disse Edith. "Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina."

"Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?"

Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì.

"Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese" disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso.

Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata.

"Anche Lei ci sarebbe, non è vero?" diss'egli.

"Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!"

"Perché mai, papà?"

Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith.

"Non è vero" diss'egli "che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?"

"Una Nixe? Chi sa?" disse Edith. "Amo le acque limpide, i prati, i boschi..."

"Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?"

Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi.

"Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?"

Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli.

"E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco..."

Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla.

"Non è una bella visione?" diss'egli.

Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato?

"Dunque sei stanco di me?" diss'ella. "Vuoi viver solo?"

"Come solo?" esclamò don Innocenzo. "Non sente che vivrebbe con me?"

"Io sono stanco, molto stanco di te" rispose Steinegge "ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato."

Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata.

"Noi vogliamo cercare una pietra filosofale" continuò Steinegge "una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi."

"E la si trova qui, questa pietra preziosa?" disse Edith, palpitando.

"Io non so, io spero."

"E perché non la cercherei anch'io con voi?"

"Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo."

"Ma cosa ne farai di me, papà?"

"Oh, non si sa ancora."

A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio:

"Non vada troppo avanti."

"Non posso" rispose l'altro.

Il barroccio passò.

Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera.

"Lei va" disse Steinegge al curato. "Noi L'aspetteremo qui."

Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spandevano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro.

"Ah" disse Steinegge.

So viel der Mai auch Blumlein beut

Zu Trost und Augenweide...

Edith lo interruppe:

"Perché, papà, mi hai detto quella cosa?"

"Quale?"

"Che vorresti un giorno esser diviso da me."

"Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente."

Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani.

"Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro."

Si strinse quelle mani sul cuore.

Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei.

"Io non posso" diss'egli, quasi parlando a se stesso. "Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?"

Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere.

"Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore."

Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi.

"E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori della porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi..."

Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte:

"Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella sua chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia."

Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue.

"Sono entrato" diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra.

"Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?"

Ella alzò il viso bagnato di lagrime.

"Mi domandi, papà? Mi domandi?" Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice.

"Contenta?" disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi.

"Sai" diss'egli "sono contento per un'altra cosa, anche."

Ella non parlò.

"So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva."

"Papà" disse Edith alzandosi "lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?"

"Un poco, solo un poco."

Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre:

"Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora" soggiunse teneramente "dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà."

"Guarda dove sono!" disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull'erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante:

"Così presto?"

Don Innocenzo vide, comprese, non rispose.

"Signor curato" disse Edith risalita con suo padre sulla strada. "Ella ritrova un'altra Edith."

Don Innocenzo si provò a far l'ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta.

"Possibile?" disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra.

Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato.

"Bella" diss'egli "quella striscia di lago, non è vero?"

Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono.

"Povero conte Cesare" disse il padre dopo un momento di contemplazione. "A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?"

Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un'altra parte.

Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d'un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera!

"Andiamo, Edith" disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno.

Salendo alla canonica, Edith precedeva d'un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso.

Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre.

Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampada le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa.

Marta venne a chiamarla.

"Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei."

Edith sorrise.

 

7. Malombra

Alle due pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano lettere e telegrammi d'affari, liste di persone a cui mandare la partecipazione di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del conte Cesare, di fronte a Silla, discorrendo, scrivendo, buttando da parte una carta, pigliandone un'altra, non taceva che per guardare la punta della penna, per rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli veniva pronta come le altre. Ogni tanto, discorrendo, dava un'occhiata a Silla e un tocco discretissimo nell'argomento della misteriosa comunicazione avuta da Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al colloquio avuto lì col povero conte nell'agosto precedente, la sera dopo il suo arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso il lago, la empiva d'un chiaror verde dorato; e l'uomo giaceva in una camera vicina, senza vita. Quale mutamento! Scriveva, scriveva, buttando egli pure una carta per pigliarne un'altra, non rileggendo mai, trasalendo a ogni tratto nell'accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo.

"I telegrammi son fatti" disse il Vezza. "Adesso suoniamo per farli portare. Vuol favorire? Grazie. E le lettere per gli agenti, per i fittabili? Almeno quelli là di Oleggio bisognerebbe informarli subito. Chi ne sa il nome? Mi secca cercare i registri prima che venga il pretore da C... E cosa fa quel benedetto uomo? Sa ch'è anche organista quel pretore lì? Capace, se v'è per caso una funzione in chiesa, di non venire ad apporre i sigilli prima di stasera. E verrà pescando, probabilmente, per guadagnarsi la cena. Non Le pare, Silla, che vi sia un certo odore qui? No? Le assicuro che non vedo l'ora di essere a Milano. E Lei, scusi, che progetti ha?"

Silla rimase un po' sorpreso.

Entrò il cameriere.

"Questi telegrammi" disse il Vezza. "Mandare qualcuno subito."

"Sa?" ripigliò parlando a Silla "desideravo sapere se ha progetti, perché io avrei una proposta a farle."

"Quale proposta?"

"Non si prenderebbe intanto una boccata d'aria pura?"

Uscirono nel giardinetto pensile. Il vento passava alto nel vigneto, scendeva a sfuriare nel cortile curvando in qua e in là sulla ghiaia lo zampillo ondulante della fontana: lì taceva.

"Che bellezza e che allegria!" disse il commendatore. "Mi dica un po' se pare che sia morto il padrone?"

"A me sì" rispose Silla.

"A me no. Fa niente, senta. Io ho l'incarico di cercare un insegnante di storia e di letteratura italiana per un eccellente istituto privato di Milano. Ventidue ore alla settimana, due mesi di vacanze, duemila e duecento lire di stipendio. Ci va?"

Silla gli stese la mano, lo ringraziò con effusione.

"Ma" diss'egli "non ho abilitazione."

"Peuh! non è una difficoltà. M'impegno io per questo. Che diavolo fanno quelli là?"

Quelli là

erano il giardiniere e Fanny affaccendati a cogliere fiori nelle aiuole di fronte all'arancera, che di lì s'intravvedevano con una striscia di lago fra l'ala sinistra del palazzo e la muraglia verde semicircolare del cortile.

Il Vezza accennò con la mano a Fanny, che attraversò correndo il cortile e venne sotto la ringhiera del giardinetto.

"Cosa fate?" diss'egli.

"È la mia signora" rispose Fanny in aria di mistero inarcando le sopracciglia e porgendo le labbra.

"Perché? Per il funerale?"

"Off! Sì che gliene importa del funerale! Per il pranzo! Come, non lo sa? Non gliel'ha detto il signor Paolo, che la ci ha ordinato un fior di pranzo, che anzi lui ha detto in cucina che non avrebbe fatto niente senza un ordine suo, di Lei?"

"Signora Fanny?" chiamò il giardiniere.

"Vengo! - E lo sa dove c'è l'ordine di preparare il pranzo? In loggia. Dico io, con questo vento! E io devo star qui a cogliere fiori, che patisco tanto il vento, io!"

"Signora Fanny!" gridò ancora il giardiniere.

"Vengo! - Una bella roba anche questa, neh! Io già a momenti pianto tutto. Non voglio mica diventar come lei, con quest'ariaccia e questo demonio di sole sulla testa."

"Signora Fanny!" chiamò il giardiniere per la terza volta. "Viene o non viene?"

"Vengo, vengo! - L'è perché se non faccio io, quell'altro là non sa far nulla con garbo. - Me lo diceva anche il signor don Cecchino Pedrati che Lei già lo avrà inteso nominare, perché è una casa grande quella..."

"Sì sì, vada pure" disse il Vezza.

Fanny andò via gridando al giardiniere se non vedeva che i signori le parlavano.

Il commendatore si voltò a Silla.

"Voglio andar a sentire di questo pranzo" diss'egli. "Quella bestia del cuoco che non viene a dirmi niente!"

"È una cosa impossibile" disse Silla.

"Lo credo bene. Non gliel'ho detto, io, stamattina? Tutt'altro che guarita! E il dottore, quando viene."

"Veramente dovrebb'essere qui a momenti. È venuto stamattina, un minuto prima che la si svegliasse e ha detto che non poteva tornare prima delle due. Adesso c'è a letto con la febbre anche la Giovanna."

"Signor Silla" disse il Rico dalla porta della biblioteca "ha detto così la signora donna Marina di far piacere ad andar su da lei un momento."

"Ci siamo" pensò il commendatore. "Bel dramma, però".

Silla entrò in casa senza dir parola.

Il Rico lo accompagnò di sopra, gli aperse l'uscio della camera dello stipo antico.

Marina era ritta in mezzo alla camera, nella luce delle finestre spalancate.

"Lascia aperto" diss'ella al ragazzo, prima di rivolgersi a Silla. "E adesso scendi in giardino, va ad aiutare tuo padre e Fanny. Subito!"

Ella uscì nel corridoio, vi si trattenne un momento ascoltando il ragazzo scender le scale; poi si voltò rapidamente a guardar Silla.

Portava la stessa veste bianca a ricami azzurri della sera precedente; aveva i capelli in disordine, il viso livido.

Silla s'inchinò, ossequioso. Rialzando il viso, la vide voltargli le spalle, muover lenta verso la finestra. Ella tornò poi a furia sulla porta del corridoio, chiamando:

"Rico!"

Ma il ragazzo era già lontano e non intese. Si fermò allora a guardar Silla per la seconda volta e disse:

"Nessuno. Non c'è nessuno."

Egli non poté fraintendere il lungo sguardo pieno di appassionate domande mute, sentì ch'ella aveva ingannato il Vezza, ma rimase impassibile.

Tutto il fuoco degli occhi di lei si spense a un tratto.

"Buon giorno" diss'ella.

Il saluto parve cader gelato dal terzo cielo.

"Vezza Le ha parlato" soggiunse.

"Sarei partito subito, marchesina, se..."

"Lo so, lo so."

Silla tacque. Lo stipo d'ebano a tarsie d'avorio, i fiori ancora sparsi per la camera gli ripetevano la terribile storia della notte precedente.

"Lo so" ripeté Marina con voce risoluta e sdegnosa "ma non basta." E fece un passo verso Silla.

"Lo ha inteso, dunque" diss'ella "che la mia fu una allucinazione?"

Silla accennò di sì. Era a qualche distanza da lei, dall'altra parte del piano. Essa si rovesciò quasi bocconi sul piano, alzando il viso a guardar l'uomo.

"E lo ha creduto?" disse. "Ed è contento di andarsene?" Silla non rispose.

"Già" mormorò Marina, socchiudendo gli occhi come una fiera blandita. "Una cosa naturale, una cosa semplice, una cosa comoda! Va bene!" esclamò rialzandosi.

V'era sul piano un vaso con delle rose e de' grappoli di glicine, sciolti. Ne strappò una manciata, li avventò sul pavimento.

"Partire va bene" diss'ella "ma non basta. Non si sente in dovere di fare altri sacrifici per me?"

La sua voce fremeva, così parlando, d'ironia amara.

"Sono ai Suoi ordini, marchesina" rispose Silla gravemente. "Qualunque sacrificio."

"Grazie. Dunque sarebbe anche disposto di scrivere al conte Salvador!"

"Al conte Salvador?" esclamò Silla sorpreso. "Cosa dovrei scrivergli?"

"Ch'Ella parte di qua per sempre e non cercherà mai di rivedermi."

"Questo Le basta?"

"Com'è buono!" disse Marina sottovoce.

"Posso esserlo col signor conte Salvador" rispose Silla freddamente. "Mi sono posto stanotte a sua disposizione, l'ho aspettato un'ora, ed egli non si è lasciato vedere."

"Ah, lo odia, Lei?", esclamò Marina con due occhi lampeggianti.

"Io? No."

Ella si pose a camminare su e giù per la camera, si fermò un tratto, dicendo:

"Ma iersera sì, eh, che lo odiava? Iersera alle undici?"

Silla pensò un momento e rispose:

"Marchesina, è stata un'allucinazione anche la mia."

Ella rise forte, d'un riso che strinse il cuore a Silla.

"Allora" disse "Le perdono tutto ed è affare finito."

"Dunque la marchesina non desidera più nulla da me?"

"Grazie" rispose Marina sorridendo amabilmente. "Nulla. Ci vedremo ancora a pranzo, non è vero? Lei pranza qui? Ne La prego" soggiunse perché Silla esitava.

Egli sapeva che questo pranzo non si farebbe, ma non credette prudente di entrare nell'argomento e s'inchinò ringraziando.

Mentr'egli usciva, Marina batté con la mano sullo stipo antico, e disse:

"Sa? Distrutto!"

Silla si voltò, vide la bella mano bianca ch'esprimeva in aria, con un breve gesto, lo sparir di qualche cosa, la bella testa che salutava ancora, sorridendo.

"Meglio" diss'egli.

Appena percorso il corridoio e posto il piede sulla scala si udì, alle spalle, un grido acutissimo. Balzò indietro alla porta ond'era uscito, vi stette in ascolto, trattenendo il respiro. Udì accorrere un fruscìo d'abiti, la chiave girò nella toppa. Silla si allontanò, discese le scale pieno d'inquietudini.

Era Marina che aveva gettato quel grido e poi chiuso l'uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per domarsi, aperse lo stipo, trasse il manoscritto sulla ribalta calata, e puntosi il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia:

C'est ceci qui a fait cela.

3 Mai 1865

Marquise de Malombra,

jadis comtesse Varrega.

Dopo di che aperse un cassetto dello stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistole, in cuoio, con lo stemma della famiglia di Malombra, uno scudo d'azzurro alla cometa d'argento, al canton franco di nero, caricato d'un giglio d'argento.

"Sapete" diss'ella, parlando alle armi "ha accettato di partire. Non ha inteso ch'era una prova."

Silla trovò in biblioteca il commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi ghiotti. Gli raccontò il colloquio, le ultime parole cortesi di donna Marina, il grido udito dal corridoio; disse che non aveva rifiutato espressamente l'invito a pranzo perché vedeva una donna malata, verso la quale bisognava procedere con le maggiori cautele.

Secondo lui era necessario un sollecito provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che procurassero di portarla via subito dal Palazzo, soggiorno pessimo per lei. Il Vezza rispose che lo farebbe, che intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre diceva questo, comparve il medico.

Questi ascoltò la relazione dello stato di tranquillità relativa in cui s'era trovata la marchesina svegliandosi e accettò di adoperarsi per farle abbandonare l'idea del pranzo. Promise che sarebbe tornato a dar conto della sua missione.

Stette assente a lungo. Quando ricomparve aveva la sua faccia de' sinistri presagi, la più scura.

"Dunque?" gli chiese il Vezza.

Il medico guardava Silla, esitava a rispondere.

"Ella può parlare liberamente" osservò il commendatore.

"Bene. Io, già, signori, parlo da medico, senza riguardi personali, e dico: andiamo male, dipende da Loro che non vada peggio."

"Ma guardi!" disse il Vezza. "Pensare che stamattina era tranquillissima!"

"Oh, anch'io l'ho trovata tranquillissima. Al primo vederla mi sono consolato, meravigliato anzi; un minuto dopo, la sua calma non mi piaceva più. Vedono, dopo il travaglio nervoso di stanotte quella donna lì doveva essere a terra, oggi, sfasciata. Ma no; non abbiamo che il pallore veramente straordinario e la cerchiatura livida degli occhi. Manca ogni altro sintomo di stanchezza, di depressione. Abbiamo apiressi completa e un polso di cento battute almeno. Qui, mi son detto subito, l'accesso nervoso sussiste ancora, questa calma non è fisiologica, è una coazione della volontà; e forse tale antagonismo esagera alcuni fenomeni nervosi, la frequenza del polso, per esempio. Le ho parlato di quel tale argomento. La presi pel verso della salute, le dissi che aveva bisogno di quiete, che farebbe bene a restare tutto il giorno in assoluto riposo, e non uscire di camera neppure pel pranzo. Ah!"

Qui il dottore agitò le braccia come se la parola non bastasse più al racconto.

"Confesso che due occhi simili non li ho mai visti. In un minuto secondo è cresciuta un palmo. Mi ha investito con una veemenza! Anzi, se debbo dire il vero, si è scagliata più contro di lei, signor commendatore, che contro di me, perché ha compreso subito, con l'acume de' monomaniaci, che dovevo aver parlato con Lei. Si vede ch'era in sospetto d'una opposizione. Ha detto che si vuole imporle, che non prende lezioni da nessuno, che le rincresce non aver invitate cinquanta persone; e via di questo passo con una irritazione che la soffocava, la faceva tremare come una foglia. Io cercavo di chetarla. Oh, sì, non era possibile, si adirava sempre più. Finalmente dovetti prometterle che tutto si sarebbe fatto secondo i suoi desideri e che anzi mi sarei fermato a pranzo anch'io; e credano, signori, bisogna finirla così. Non consiglierei a nessuno di contraddire una donna che esce da una crisi come quella di stanotte e offre indizi così minacciosi di ricadervi. Ecco."

"Dunque?" domandò il commendator Vezza.

"Dunque io, per parte mia" rispose il dottore con fermezza "farei quello che desidera, benché non ci avrò davvero tutti i gusti."

"E se noi due ci astenessimo, Lei crede..."

"Ma! Ripeto che non lo farei."

Il commendatore consultò Silla con gli occhi.

"Quanto a me" disse questi "non c'interverrò in nessun caso. Si potrà dirle che non sentendomi bene non ho voglia di pranzare e che sono ancora occupato in queste lettere. Meglio ancora; potrò partir prima del pranzo. Del resto, dottore, supponga che donna Marina abbia subìto sino a stanotte l'influenza di una forte scossa morale, e che adesso, per una ragione o per l'altra, se ne sia liberata: non ammette Lei che dei nervi tanto turbati, quantunque rimessi a posto, vibrino ancora per un po' di tempo? Non ammette che, se la causa del male è distrutta, debba ritenersi improbabile una recidiva?"

Il dottore considerò per qualche tempo Silla, prima di rispondere.

"Badi, sa" diss'egli "che quand'anche la causa del male fosse distrutta, non ne discenderebbe mica che adesso si potesse impunemente irritare questa donna, i cui nervi, come dice Lei, vibrano ancora tutti: una donna, noti, molto mal disposta inizialmente se ha potuto accogliere certi fantasmi. Ma, domando io se n'è poi liberata?"

"Parrebbe di sì" rispose Silla "o almeno c'è qualche ragione di sperarlo. Lei stessa lo dice, intanto."

"E io" replicò il medico "mi perdoni, ne dubito."

Gli altri due lo guardarono silenziosi, aspettando.

"Stavo per lasciarla" diss'egli "ero già sulla soglia, quando mi richiamò "Dottore, venga qua." Me le avvicino, ella si scopre l'avambraccio sinistro, mi dice: "Vuol vedere delle ferite profonde?". Mi mostra due o tre punture di zanzara e soggiunge: "Si può morire di questo?". Io non capisco, eh; la guardo. "Non crede" dice lei "che un'anima possa passare di lì? Pure le assicuro" dice "che ha cominciato; un pensiero e un segreto ne sono già usciti." Così mi ha detto. Ma facciano grazia, signori, queste parole, nella loro assurdità, non generano il sospetto che sussista sempre la forte preoccupazione morale di cui parlava il signore? Del resto, a quella signora bisogna pensarci sul serio e subito. Qui non può stare."

"Provvederemo" rispose il Vezza. "Adesso Lei va dalla Giovanna?"

"Vado dalla Giovanna."

"E ci rivedremo alle cinque?"

"Alle cinque."

"Oh sì, ho un gran piacere che allora Lei si trovi qui."

"Io partirò alle cinque" disse Silla.

Il commendatore parve poco contento.

"A che ora" diss'egli "passa da... l'ultimo treno per Milano?"

"Alle nove e mezzo."

"Oh, allora può partire anche dopo le sei. Così vede come va questo pranzo."

Il dottore uscì. Gli altri due sedettero al tavolo e ricominciarono a lavorare.

Il vento durava a fischiare e urlare, le onde schiamazzavano intorno al Palazzo, selvaggi spettatori accorsi a un dramma che non cominciava mai, invasi dalle furie dell'impazienza. Era, intorno alle vecchie mura impassibili uno scatenamento di passioni feroci che volevano subito lo spettacolo, volevano veder soffrire, morire, se possibile, uno di questi piccoli re superbi della terra. Che si aspettava? Le onde schiaffeggiavano, insultavano l'edificio, balzavano sullo scoglio a piè della loggia, tempestavano su tutte le rive, si rizzavan lontano, le une dietro le altre, con un largo clamore di folla fremebonda. Il vento saltava a destra, a sinistra, in alto, in basso, impazzito, furioso, passava e ripassava per la loggia stridendo, ingiuriando gli attori invisibili. Anche i cipressi grandi dondolavan la punta, le viti stormivano, i gelsi e i miti ulivi sparsi pe' campicelli si contorcevano, si dimenavano, colti dalla stessa follìa. Le montagne guardavan là, severe. Ma la scena taceva sempre: i personaggi si tenevano ancora nascosti.

Dopo le tre, infuriando sempre il vento, entrarono in loggia Fanny, il cameriere, il giardiniere e il Rico, si affacciarono alle arcate verso il lago, guardando un po' il cielo, un po' i monti, un po' le onde tumultuanti al basso, che urlavano "no, no, non voi!". Parvero consultarsi. Fanny uscì dalla porta di destra gittando col braccio sinistro una imprecazione al cielo ed alla terra; gli altri rimasero. Ella tornò subito, probabilmente con gli ordini della sua padrona, e i tre colleghi le si raccolsero attorno. Uscirono poi tutti insieme da sinistra e rientrarono con un gran tappeto scuro quasi nero, che stesero dalle tre arcate posteriori della loggia a tre delle cinque anteriori, lasciando scoperti a destra e a sinistra due spicchi di pavimento. Poi il giardiniere, aiutato da suo figlio e da due garzoni, portò su dal giardino, con due barelle, moltissimi vasi di camelie, d'azalee, di cinerarie e di calceolarie in fiore e quattro grandi dracene australes. Si portarono pure due gradinate rustiche di legno e si addossarono ai fianchi della loggia tra le due porte e la balaustrata posteriore. Fanny e il cameriere portarono tre piccoli tavoli, quattro poltrone cremisine e una elegantissima giardiniera di metallo dorato, dono giunto a Marina due settimane prima dalla signora Giulia De Bella. Poi donna Marina stessa, stretta nel suo scialletto bianco che le disegnava le forme, entrò lentamente, negligentemente in loggia, si fermò davanti all'arcata di mezzo e cominciò a dare degli ordini senza muovere un dito, indicando i luoghi e le cose col girar della persona e del viso.

L'ombra della costa boscosa a ponente del Palazzo avanzava rapida verso levante. Il vento si rabboniva, le onde si azzittivano come se avessero visto Marina entrar in scena.

Ella vi si trattenne fino a che fu bene avviata l'esecuzione de' suoi ordini, poi si ritirò accennando al Rico di seguirla.

Una scena sontuosa, elegante apparve, a opera finita, dentro dalle colonne austere, dal cornicione accigliato della loggia. Agli angoli le dracene sprizzavan su come getti verdi dall'enormi azalee in fiore aggruppate a' lor piedi, spandevano in alto una piova di sottili foglie ondulate, ricadevano graziosamente. A destra e a sinistra le due gradinate gremite di cinerarie e di calceolarie versavano dall'alto due cascate di mille colori sul tappeto cupo. Sei grandi vasi di camelie, ritti sulla balaustrata posteriore, chiudevano il fondo della scena. Il meno piccino dei tavoli, con due posate, stava quasi addossato all'arco di mezzo; gli altri, a una posata per ciascuno, posti per isghembo a' lati del primo, si fronteggiavano. Tovaglie grigio giallognole di Fiandra li coprivano tutti e tre sino a terra, mettevano in quella nervosa musica di colori tre note quiete e gravi su cui si smorzavano anche i toni acuti dei cristalli e degli argenti. Sul davanti e nel mezzo, la giardiniera dorata di donna Giulia posava sul fondo scuro del tappeto una tenera nudità di giacinti delicati, spogli d'ogni verde, stretti nel baglior del metallo, che tentavano, come un dolce odoroso, il palato, promettendo squisitezze voluttuose, penetranti nel sangue.

"Ai signori e ai matti obbedisce anche il vento" disse Fanny che aveva pensato veder tutto l'apparecchio sossopra in un attimo.

Dopo le quattro e mezzo il commendatore e Silla entrarono in loggia dalla biblioteca; quasi contemporaneamente vi entrò dall'altra parte il medico. Tutti e tre si fermarono attoniti, considerando l'ordine elegante della scena, la pompa dei colori che spiccavano sul tappeto oscuro.

"Tutto lei, capite!" disse il Vezza, ancora più sgomentato che sorpreso.

Era lei, sì, che aveva disposto tutto e vi si vedeva l'immagine sua; un cuor nero, una fantasia accesa, una intelligenza scossa ma non caduta.

"Io torno in biblioteca" disse Silla, "finisco quegl'indirizzi, poi me ne vado dalla scaletta."

"No, no, La prego!" esclamò il Vezza. "Se assolutamente non vuol pranzare con noi, almeno ci stia vicino. Io le assicuro che ho la febbre addosso. Avremo fatto male, dottore, a essere condiscendenti? Ho dovuto far avvertire i domestici, sa, ch'era ordine Suo di accontentare donna Marina. Per carità, Silla, stia vicino, stia lì nel salotto, almeno. Faccia questo favore a me."

"Bene" rispose Silla "mi porterò là da lavorare; ma si ricordi, appena finito il pranzo vado via."

Il dottore era agitatissimo, si giustificava del consiglio che aveva dato, adduceva una quantità di ragioni buone e cattive. Si capiva che dubitava egli stesso di avere sbagliato.

"Non sapevo poi tutto, stamattina" diss'egli "non avevo parlato con la Giovanna."

Accennò agli altri due di avvicinarglisi.

"Lo sanno Loro come la è stata del povero conte?"

Sapevano e non sapevano. Il dialogo continuò sottovoce.

Silla guardò l'orologio; mancava un quarto alle cinque. Andò in biblioteca a pigliarsi le carte e passò poi nel salotto a lavorare.

Gli altri due, discorrendo, videro passare sotto la loggia il battello di casa condotto dal Rico.

"Dove vai?" gli gridò il Vezza.

"A R... Ordine della signora donna Marina" rispose quegli.

"Doveva ben parlare con me, prima di obbedire a lei" brontolò il commendatore, e riprese il suo discorso.

"Ecco" diss'egli "io lo avrei preparato così, il telegramma. Noti che la persona cui lo dirigo ha molto cuore e una coscienza scrupolosa, ma stenta un poco a muoversi, a pigliare risoluzioni gravi. Dunque direi così: "Per espresso volere medico curante, onde togliermi grandi responsabilità, avverto Lei più stretta parente signorina di Malombra sua salute esige pronto allontanamento questa dimora"."

"Metta prontissimo" disse il dottore.

"Metterò prontissimo."

"Metta anche..."

Il dottore non poté compir la frase, perché donna Marina comparve sulla soglia.

Vestiva un abito ordinato da lei alla sua antica sarta di Parigi che ne conosceva bene l'umor bizzarro, un ricco e strano abito di moire azzurro cupo, a lungo strascico, da cui le saliva sul fianco destro una grande cometa ricamata in argento. Sul davanti della vita accollata, attillatissima, era inserto un alto e stretto scudo di velluto nero arditamente traforato nel mezzo, in forma di giglio, sulla pelle bianca. Marina non era più così pallida; un lieve rossor febbrile le macchiava le guance; gli occhi brillavano come diamanti.

"Musica!" diss'ella sorridendo e guardando il lago. "Quella che vuoi, lago mio! Non è vero, Vezza, che la musica è ipocrita come un vecchio ebreo e ci dice sempre quello che il nostro cuore desidera? Non è per questo che ha tanti amici?"

"Marchesina" rispose quegli cercando di fare il disinvolto "fuori di noi non c'è musica, non c'è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa."

"Da Lei ci deve far sempre sereno, eh? Un sereno cattolico: e queste onde Le dicono: come è dolce ridere, come si balla bene, qui! - Dov'è il signor Silla?"

"Ecco..." incominciò il Vezza imbarazzato.

"Partito no!" esclamò donna Marina fieramente, afferrandolo per un braccio e stringendoglielo forte.

"No, no, no, è qui" rispose colui in fretta "ma debbo fare le sue scuse. Non si sente bene, non potrebbe pranzare; e siccome ha avuto la gentilezza di offrirmi il suo aiuto per alcune faccende urgenti, così adesso..."

Ella non lo lasciò finire, gli chiese imperiosamente

"Dov'è?"

Le tremava la voce.

"Ma" rispose il commendatore, titubante. "Non so... poco fa era in biblioteca..."

"Vada e gli dica che lo aspettiamo."

"È nel salotto" disse il medico. "È occupato a scrivere. Accetti le sue scuse, marchesina, ne La prego."

Ella rifletté un istante e poi rispose con voce vibrata:

"La Sua parola, ch'è nel salotto!"

"La mia parola."

"Bene" diss'ella pacatamente "verrà più tardi senza esser chiamato. - Del resto, caro Vezza, da me ci fa nuvolo, un tempo triste. Dica Lei, dottore, non è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà censurarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra."

Il pranzo incominciò.

I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, imparava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito.

Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Marina, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto.

"Che silenzio" diss'ella finalmente. "Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?"

"Oh!" rispose il commendatore storditamente. "Lei farebbe risuscitare i morti."

Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa.

"Pure" replicò Marina "i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux" diss'ella al vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. "Anche a questi signori."

Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici.

"Vi prego di assaggiar questo vino" disse Marina.

"Pensatelo, adesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?"

Il commendatore alzò il calice, lo sperò, vi posò ancora le labbra e disse: "Ha qualche cosa d'insolito."

"Supponga dunque, commendatore Radamanto" disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli della bocca "che per certe mie ragioni io abbia pensato..."

Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole.

"Sa" diss'ella "questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux..."

Il Vezza trasalì, guardò il cameriere ritto presso la porta di sinistra, impassibile.

"Oh!" esclamò Marina "come mi crede subito!"

Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca.

"Sapore insolito?" diss'ella. "Se è puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete" proseguì concitata "cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito"

Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere.

"Bravo!" diss'ella facendosi pallida. "Si ispiri per una risposta difficile."

"Di Proserpina in Sfinge, marchesina?"

"In Sfinge, sì, e vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque..."

Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo.

"Quieta, quieta" disse il medico pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta, respinse la mano del medico e si alzò.

"Aria!" diss'ella.

Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago.

Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarla, trattenerla.

Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti.

"Dunque" esclamò affrettandosi di parlare, di far dimenticare un momento di debolezza "crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?"

E perché il Vezza, smarrito, sgomento, taceva, gli gridò:

"Risponda!"

"Ma no, ma no!" diss'egli.

"Sì, invece! Lo può!"

Nessuno fiatò. Il giardiniere, il cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!".

E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina.

"Sessant'anni or sono, il padre di quel morto là" (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) "ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!"

Teneva gli occhi fissi sulla porta a destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina.

"Marchesina!" le disse il dottore con accento di blando rimprovero. "Ma no! Perché dice queste cose?"

In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro.

"Là c'è gente!" gridò Marina. "Avanti, avanti tutti."

Fanny e gli altri fuggirono, per tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei.

Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva:

"Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!"

La voce, subitamente, le si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco, appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva.

"L'infermiera, la donna di stanotte!" disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva sempre il braccio.

"Andiamo, marchesina" diss'egli dolcemente "ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che le fanno male."

Ell'alzò il viso, si ravviò con la destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda, e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce:

"Sì, andiamo via, andiamo nel salotto."

"E nella Sua camera non sarebbe meglio?"

"No, no, nel salotto. Ma mi lasci!"

Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata.

Marina s'incamminò lentamente, tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta.

Fanny, il cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate.

Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui, disse "Oh, buon viaggio" e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vociferavano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti.

Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse.

"Avanti, vili!" urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi. Nessun rumore.

"Fermi lì, voi" diss'egli e saltò nella camera del conte.

Vuota. Le candele vi ardevano quiete.

Entrarono, egli nella camera da letto, gli altri due in quella dello stipo. Vuote.

Il dottore si cacciò le mani nei capelli, esclamò rabbiosamente:

"Maledetti vili!"

"In biblioteca!" disse il giardiniere.

Saltarono giù per le scale, il dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del commendatore che gridava:

"La barca! la barca!" Corse in loggia, s'affacciò al lago.

Marina, sola nella lancia, passava lì sotto, pigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola.

"Al battello!" disse il dottore.

Il Vezza gli gridò dietro:

"Per la scaletta segreta!"

Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala.

"Il battello non c'è" diss'egli. "L'ha mandato via col Rico prima di pranzo."

"Sarà tornato!" disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena.

Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua.

Fu per stramazzare a terra. Lì vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche.

"Giardiniere!" diss'egli. "Al paese! Una barca e degli uomini."

Il giardiniere sparve per la porticina del cortile.

"Dio, Dio, Dio!" esclamò il dottore alzando le braccia.

Gli altri continuavano a gridare dalla loggia "Presto! Presto!"

Ed ecco il giardiniere tornare di corsa.

"Occorre anche il prete?" diss'egli.

Il dottore gli mise i pugni al viso.

"Stupido, non vedi che sono venuto via io?"

Colui non capì bene, ma tornò via, e il dottore corse di sopra.

Una finestra dell'ultimo piano si aperse, una voce debole domandò:

"Cosa c'è? Cos'è accaduto?"

Era la Giovanna.

Qualcuno rispose dal cortile:

"È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla."

"Oh Madonna Santa!" diss'ella.

Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure, saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima.

"Via" diss'egli con voce terribile.

I ragazzi fuggirono.

Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro.

"Fino a che non venga il pretore, nessuno!"

Poi chiuse l'uscio.

Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati.

"Euh?" diss'egli. "Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore."

Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezza, ch'era miope, disse:

"È ferma."

Intatti non pareva avanzasse.

"No, no" risposero gli altri.

Uno dei contadini, soldato in congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse:

"Con una carabina la butterei giù."

Fanny andò via singhiozzando, poi tornò a guardare.

"Ma, per Dio, dove va?" esclamò il dottore.

Nessuno rispose.

Un minuto dopo, il contadino ch'era in piedi sulla sedia, disse:

"Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle."

Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta.

"Perché in Val Malombra?" diss'egli.

"C'è un sentiero che passa la montagna" rispose l'altro "e mena poi giù sulla strada grossa."

"Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra" osservò il secondo contadino.

"Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti."

"Eccoli!" gridò la moglie del giardiniere.

Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia.

Il dottore si accostò le palme alla bocca, urlò a quella volta: "Presto!"

"La prenderanno?" chiese il commendatore.

"In acqua, no" si rispose. "La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti."

Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridando, non s'intendeva che.

"Una barca!" esclamò il dottore.

"Ferma!" urlò con quanto fiato aveva. "Ferma la lancia!"

Poi si volse ai due contadini.

"È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!"

Urlò ancora, spiccando le sillabe:

"Assassinio! Ferma la lancia!"

Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva sempre, tranquillamente, la sua via.

"Non sentono" disse il dottore. "Gridate tutti, per Dio!"

Egli stesso fece uno sforzo supremo.

Il Vezza, i domestici, le donne gridarono con voce strozzata, impotente:

"Ferma la lancia!"

La barca veniva sempre avanti.

Saetta

scomparve.

 

7. Finalmente amato

Un'ombra nera comparve sulla porta aperta del salotto di don Innocenzo, nascondendo il cielo stellato; una voce disse:

"Niente."

Il curato non la riconobbe, alzò il paralume della lucerna.

"Ah! Niente?" diss'egli.

"Niente?" ripeté Steinegge.

Si alzarono ambedue in fretta, si accostarono al nuovo venuto.

"C'erano sei uomini" disse costui, il sindaco, con la sua soffice e solida placidità lombarda. "Quattro guardie nazionali e due carabinieri. Han girato tutto il bosco. Già, se ci fosse stata, l'avrebbero trovata anche i primi quattro del battello che sono arrivati a terra un dieci o dodici minuti dopo di lei. È bell'e da vedere dov'è quella lì."

Steinegge gli accennò, con una faccia supplichevole, di tacere, di uscire. Il sindaco non capiva, ma seguì nell'orto gli altri due che, fuori, gli sussurravano una parola.

"Ah!" diss'egli.

Non aveva veduto nel salotto un'altra persona seduta in un angolo tra il canapè e la parete. Ella non aveva dato segno di vita all'apparir del sindaco né durante il suo discorso, ma si alzò poi che il salotto rimase vuoto e venne sulla porta dell'orto dove il lume della modesta lucernetta moriva nelle grandi ombre chiare della notte serena senza luna.

"C'è chi vuol sostenere" diceva il sindaco dilungandosi con il curato e Steinegge verso il cancello "che abbia preso i monti. Ma s'immagini un po' una donna come quella se vuol prendere i monti! Per andar dove, poi? Io non ci metto nessun dubbio. Lei, è giù, quieta come un olio, nel Pozzo dell'Acquafonda, sa bene, quel buco che c'è là in Val Malombra."

Edith non poté udire altro, perché coloro svoltarono il canto della casa e in cucina c'era crocchio, si parlava forte. Ell'andò a sedere sul muricciuolo in faccia alla porticina chiara che gittava tante chiacchiere nella notte solenne.

Erano tutte donne là in cucina, vecchie comari linguacciute, amiche di Marta.

"Maledette zucche" diceva una voce rude, soverchiando le altre "non capite che la è sempre stata matta, peggio, quasi, di quella d'una volta? Lui era il suo amoroso, che anche l'estate passato, quando fu qui, si trovarono insieme di notte fuori di casa, e questo lo ha raccontato anche il pitòr se vi ricordate bene. Adesso lui voleva piantarla e lei non ha detto né uno né due, e ha fatto il colpo. Eh! Ce ne sono bene tutti i giorni, sulle gazzette di quei fatti lì!"

"Oh anima!" disse un'altra comare. "E come faceva ad averci le pistole?"

"Ce l'ha sempre avute le pistole. Almeno questo agosto ce le aveva di sicuro, perché il giardiniere lo raccontava che la sua padroncina si divertiva a sparare addosso alle statue."

"E il signor dottore" saltò su una terza "dice che aveva paura che la si volesse ammazzar lei; ma che non ci è mai venuto in mente che volesse ammazzar quell'altro."

"Non avrà saputo bene la storia. Sì che si voleva ammazzare quella lì! Dicono ch'è giù nel Pozzo dell'Acquafonda. Credeteci voialtre. So anch'io che non l'hanno trovata. Una gamba di quella sorta! L'ho incontrata io due o tre volte su per i boschi. Bisognava vedere che demonio! Chi sa dove l'è a quest'ora. Guardate, se ha incontrato quella compagnia di zingari che c'è intorno, non mi stupirei niente che si fosse messa con loro. E non son mica io sola che la pensi così."

Le altre non credevano, dicevano che bisognerebbe scandagliare il Pozzo dell'Acquafonda. Ma questo non era possibile per la profondità grande e perché il Pozzo era tutto a gomiti.

Intanto il sindaco, il curato e Steinegge ritornarono, sempre discorrendo, sui propri passi. Essi dovettero vedere bene Edith sul muricciuolo, perché dalla porta della cucina un poco di chiarore giungeva sino a lei.

"Credano pure" diceva il sindaco "qui la è una voce sola: se lei era matta, lui era un poco di buono anche lui. Perché già è stata una gran figura quella di venir qua a far l'amore con la signora donna Marina intanto che il povero signor conte era in punto di morte, e proprio quando lei doveva sposarsi con un altro. Ci pare? Diceva giusto il pretore stasera che la ci sta bene d'aver fatto quella fine."

Steinegge avea visto Edith, ma pensò che fosse meglio per lei udire queste cose, poiché il curato gli aveva fatto sperare che non si trattasse di una passione profonda.

"Mi sono ingannato anch'io" diss'egli "ed era facile ingannarsi su quest'uomo, perché era simpatico, assai simpatico. Io credo che era infinitamente meglio in parole che in fatti. Non ha mai avuto sentimento vero né per la marchesina di Malombra né per altra persona, io direi. Vedete, ho conosciuto molti di questi letterati. Sono tutti così. Sentono l'amore ora qui ora lì come un male nervoso che non è mai serio. L'altro giorno è corso al Palazzo, oggi andava via, chi sa domani dove si sarebbe attaccato!"

"Bene" disse don Innocenzo "parce sepulto."

"E ha sentito della lettera?" disse il sindaco.

"No. Che lettera?"

"Questo è il bello. Quel signor commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro una lettera incominciata. Non c'è su nomi, non c'è su che "caro zio" e poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?"

"Lo avrà minacciato di ammazzarlo" disse don Innocenzo.

"Gran brutte cose" concluse il sindaco "gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella roba, non è vero, signor curato? Di quegli affari lì non ne capitano."

"Non giudichiamo nessuno" rispose il curato.

Dopo un breve silenzio il sindaco tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si fu allontanato, Steinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzo, gli posò la fronte sopra una spalla.

"Povera Edith, povera Edith" diss'egli.

"Non tema, è forte la Sua Edith, e ha poi in sé un'altra forza che vince tutto, anche la morte."

"Sì, ma soffrirà, soffrirà! Non Le pareva però che gli fosse molto attaccata, non è vero? Me lo ha già detto, ma me lo dica ancora, mi dica proprio sinceramente quel che pare a Lei."

Era scuro, per fortuna, e Steinegge non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimenti, il dolore d'aver incoraggiato esso pure l'affetto di Edith per quell'infelice.

"Mi pare di no" rispose strascicando le parole. "Spero di no. Era una conoscenza molto recente. Spero che potrà dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Lei, di partire domattina. Me ne dispiace, ma è necessario. Là a Milano bisogna non parlarne più, mai più. E adesso zitto."

Si avvicinarono a Edith camminando adagio, senza parlare. Quando arrivarono a lei, ella si alzò, si unì ad essi. Tornarono insieme, lungo il muricciuolo, sino in faccia alla porta del salotto. Steinegge piegò a quella volta, Edith sedette sul muricciuolo.

"Ah" diss'egli fermandosi "io credeva..."

"Non qui, papà?"

"Mi pare che per te fosse meglio entrare."

Ella si alzò, abbracciò silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con lui, andò a sedere nell'angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch'essi muti, guardando oscillar l'ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si spensero. Una dopo l'altra le amiche di Marta passarono nell'orto, come ombre di lanterna magica, davanti al salotto, sussurrandovi dentro un riverisco. Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati.

"A che ora gli hai detto, papà, al vetturino?" chiese Edith.

"Alle cinque e mezzo, cara, per il treno delle otto e mezzo."

"E adesso che ore sono?"

"Le dieci."

Non parlarono più. Un quarto d'ora dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto. Guardò un momento, esitante, il suo padrone e si ritirò in punta di piedi come sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la testa e domandò se doveva chiudere le imposte.

"No no" rispose Edith.

"Non è un poco umido?" disse Steinegge volgendosi a don Innocenzo.

"Oh no, a quest'altezza no" rispose il curato.

Ma Edith, si curava ella se fosse o non fosse umido? Per quella porta si vedeva un arco di cielo azzurro, tutto occhi scintillanti.

Stelle, soggiorno di pace, come siete lontane, dolcezza e speranza nostra! Come si sente, guardandovi quando il cuore è puro, la piccina vanità odiosa di tante cose che paiono grandi al sole, la bellezza sublime della morte! Indefinita via delle anime che salgono eternamente di vita in vita, di splendore in splendore, come si sospira, nella tristezza, che la notte veridica tolga via dagli occhi nostri il chiarore cieco che nasconde te e le tue case lucenti! Allora lo spirito vien meno di desiderio, si figura essere atteso lassù, esser compianto, esser guardato con dolcezza grave da gente che ci ama, conosce il mistero che ci condanna qui al dolore, conosce i nostri pensieri e vede i nostri errori tacendo, perché un'alta potenza inflessibile lo vuole.

Marta girava per la cucina, sprangava gli usci, tossiva, preparava i lumi, battendoli sulla tavola. Allora Edith ruppe il silenzio.

"Sarai stanco, papà" diss'ella "e domani devi svegliarti per tempo."

Steinegge fu lievemente commosso di udir così calma la dolce voce.

"Io credo che andrò a letto, sì" diss'egli. "Domattina prima di partire debbo stare anche un poco qui col signor curato."

Questi chiamò Marta, le disse di portare un lume e di porre le chiavi della chiesa in salotto, sul tavolo, prima di andare a coricarsi.

Edith non si moveva.

"E tu" disse Steinegge "non vieni?"

Ella rispose che non aveva sonno, lo pregò di lasciarla ancora un pochino con don Innocenzo, per quest'ultima sera.

Suo padre si dolse affettuosamente che lo mandasse a letto lui.

"Ma tu ne hai bisogno" diss'ella.

Lo abbracciò, gli sussurrò all'orecchio un saluto commosso. Egli balbettò poche parole incomprensibili, prese il lume e salì le scale come se andasse, colla sciabola in pugno, al nemico.

Marta recò un altro lume pel suo padrone; ma don Innocenzo, a un cenno di Edith, congedò la domestica, le disse di andare pure a letto.

Appena si dileguò su per le scale il rumore de' passi di costei, Edith giunse le mani e guardò il curato.

"Dio L'ha esaudita" diss'egli. "Ha accettato il suo sacrificio."

Ella lo guardava sempre, a mani giunte, e non parlava; ma le si vedevano lagrime negli occhi. Don Innocenzo, guadagnato, oppresso da quel dolore intenso, tacque.

Edith piegò la fronte sul braccio del canapè e disse piano, con voce soffocata:

"Non poterlo difendere!"

Riprese dopo un momento di silenzio.

"Anche mio padre! Tanto ingiusto!"

"Ma no, ingiusto" si provò a dire don Innocenzo.

Ella alzò una mano senza rispondere, indi la posò sul legno, lo strinse nervosamente, mordendosi le labbra e, vinto il singhiozzo che l'assaliva, disse:

"Venga qua."

Il curato, stretto egli pure alla gola dall'emozione, sedette sul canapè, vicino a lei.

"Vengo" diss'egli "ma non parliamo di questo, parliamo dell'altra buona notizia che Suo padre Le ha dato e che ha dato anche a me. Tutto il resto è stato un cattivo sogno di cui non abbiamo colpa; dimentichiamolo."

"No" rispose Edith con passione "non me l'ha detto Lei ieri sera che dovevo portarlo nel cuore? E adesso che tutti lo accusano, lo insultano, ed egli non può dire una sola parola di difesa, avendone tante, io, don Innocenzo, lo dimenticherò, lo abbandonerò anche col pensiero? Mai fin che avrò vita, e spero che lo potrà sapere nel mondo più giusto in cui si trova. Lui senza sentimento? Ascolti."

Il curato piegò il fianco e il capo verso di lei che sempre china sul braccio del canapè, parlava con un fil di voce.

"Vorrei che lo avesse conosciuto come l'ho conosciuto io. Aveva un sentimento vero, sa, più delicato di quello di una donna. Ed è stata la sua sventura, perché così non poteva riuscire nel mondo né intendersi con la gente solita. E si è chiuso in sé, nelle sue amarezze. Quando poi gli è mancato un ultimo appoggio, è caduto. Io credo che avesse religione: ho inteso da lui discorsi pieni di sentimento religioso. Quando parlava di Dio e dello spirito, si esaltava. Aveva capito, egli, i miei segreti pensieri circa mio padre e li approvava nel suo cuore. Me ne sono accorta un giorno dal modo che mi guardò incontrandoci mentre uscivamo dal Duomo, mio padre ed io. Veniva da noi quasi tutti i giorni e non ho mai udita una parola che fosse da riprendere. Era scrupoloso in questo. Noi in Germania non siamo educate come le giovani italiane e conosciamo più il mondo: ma egli aveva un tal rispetto per me, una tal prudenza in tutti i suoi discorsi, come se io fossi una bambina di dieci anni. Anche nella sera al passeggio mi parlò con effusione di cuore, senza una parola sola diretta che potesse turbarmi e farmi arrossire. E adesso sentir quel sindaco fare quei discorsi orribili!"

"No... non mi pare..." balbettò don Innocenzo.

"Ho udito tutto, tutto, signor curato. Io sono sicura che se egli è ritornato al Palazzo, vi fu richiamato da lei, chi sa in che modo, con quali istanze! Mi ricordo troppo i discorsi che mi ha fatto andando all'Orrido. Le dico che sono sicura come se avessi veduta la lettera o il telegramma. E lui allora era negletto o respinto da tutti. Chi sa, chi sa, don Innocenzo, che cattivi pensieri avrà avuto, povero giovane, vedendosi trattar così bruscamente da me, con tutti i miei principii religiosi! Lui che domandava aiuto per non affondare! Potevo ben fare diversamente, esser sincera, parlargli allora come gli ho scritto dopo; ma ho creduto..."

Non poté continuare.

"No, signora Edith" rispose don Innocenzo "non bisogna mettersi in mente queste cose. Come poteva Ella prevedere un caso simile? Volendo compiere un sacrificio tanto nobile, si è comportata nel modo più saggio, con lo scopo di non favorire illusioni, di lasciare il giovane interamente libero. La sua coscienza è purissima e dev'essere tranquilla."

Dopo qualche tempo Edith levò il viso.

"E non esser qui domani!" diss'ella.

"È meglio, creda. Non potrebbe dissimulare con suo padre: e chi sa quanto soffrirebbe di vederla così."

"Almeno" sussurrò Edith "guardi che qualche pietosa creatura lo segua anche lui. Preghi anche dopo" soggiunse "e faccia pregare."

Don Innocenzo glielo promise, ma ella non era contenta ancora, aveva qualche penosa parola da aggiungere.

"Hanno scritto a' suoi parenti?"

"Non lo so."

"Già non lo amavano neppur essi. Vorrei pensare io per una memoria, come posso. Bisognerebbe che mi aiutasse Lei perché nessuno ha da saper niente e mio padre meno di tutti."

Don Innocenzo le prese una mano, gliela strinse silenziosamente.

"Le manderò un piccolo disegno da Milano" disse ella. "Per questa cosa Lei mi scriverà ferma in posta."

"Farò tutto" rispose il prete "come per un fratello." L'olio della lucerna veniva meno, la notte entrava nella camera.

Don Innocenzo si alzò.

"Adesso vada a riposare" diss'egli. Ma Edith chiese di aspettare un poco onde ricomporsi pel caso che suo padre non dormisse ancora e la chiamasse.

"Guardi" disse affacciandosi alla soglia "che pace!"

S'appoggiò allo stipite contemplando il cielo che si veniva coprendo di nubi. Però molte stelle scintillavano ancora in mezzo a grandi finestre azzurre. L'orologio della chiesa suonò le undici.

"Un'ora" disse Edith "e poi è finito anche questo giorno. Mi pare che domani il sole nascerà di un altro colore e che lo vedrò poi sempre così. Quanti anni ancora?"

"Oh molti, molti. Glielo auguro con tutto il cuore."

"Non so. Penso a mia madre."

"Perché a Sua madre?"

Edith non rispose, prese un bastone ch'era lì fuori appoggiato al muro e tracciò con la punta dei segni sulla ghiaia.

"Cosa fa?" chiese il curato.

"Nulla" diss'ella e colla punta stessa diede di frego a quei segni.

La finestra di suo padre fu aperta in quel momento. Lo si udì esclamare:

"Cosa è questo? Ancora alzati?..."

"Ancora, papà. Non senti che notte dolce? Non abbiamo sonno."

"Si fa scuro verso i monti, eh? Io ho paura che avremo acqua domattina. Sai, Edith, ho pensato che a Milano bisogna ricordarsi della lezione in casa Pedulli-Ripa poiché siamo partiti senza avvertire la signora."

"Sì, papà."

"Sarebbe bene anche andare dalla signora M..., che riceve domani."

"Volentieri, papà."

"Scusa, avresti per caso veduto il mio bastone?"

"È qui."

"Vuoi essere così buona di portarmelo su per unirlo all'ombrello e di portarmi anche il portasigari che ho dimenticato in salotto?"

"Vengo subito, papà."

Ella entrò nel salotto e fece a don Innocenzo un saluto silenzioso con la mano. Quegli raccolse il portasigari lasciato da Steinegge sopra una sedia e lo porse a lei che, conoscendone l'origine, lo prese senza guardarlo.

Il curato, rimasto solo, pensò:

"Cos'avrà scritto?"

Spense la lucerna, aspettò che Steinegge chiudesse la finestra e che tacessero i passi sul soffitto del salotto; quindi tolse il suo lumicino, andò fuori e si curvò, inchinandolo sulla ghiaia a guardare.

Certo era stata tracciata una parola nella ghiaia, ma non si poteva decifrarla perché la prima metà n'era cancellata. Ne rimanevano intatte le quattro ultime lettere, rigide lettere straniere che il curato, dopo molto studio, lesse così:

...mweh.

Il resto era illeggibile.

"Weh deve significare male in tedesco" disse tra se don Innocenzo. "Ma l'm?"

Finì di cancellare la parola e rientrò, pensoso, in salotto.

Intanto nell'ombre sinistre del Palazzo, l'angelo del Guercino pregava senza posa per l'uomo gettato d'un colpo, a tradimento. nell'eternità. La sua vita era stata breve, povera di opere, macchiata di molte segrete miserie e, sulla fine, di errori già misurati dal duro giudizio umano. Tuttavia, egli aveva sostenute virilmente le battaglie dello spirito, cadendo a ogni tratto, ma rialzandosi, ferito, per combattere ancora; aveva amato sino alla febbre e alle lagrime divini fantasmi che non ha la terra, ideali di una vita sublime che intravvedeva, tribolato e solo, nel futuro; era passato più volte con amaro cuore ma con fermo viso tra la noncuranza degli uomini e il silenzio di Dio, sentendosi sulla testa l'ombra di un nemico derisore; peggio ancora, sentendosi mal connesso nell'intima sua essenza, afflitto da dolorose contraddizioni, inetto alle opere grandi che vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere; sospinto quindi ogni giorno un passo, dalla violenta malignità delle cose e dalle infermità della propria natura, a qualche paurosa rovina.

Scoprendogli il volto lo si sarebbe veduto placido. Forse lo spirito, deposti gli uffici del moto e del senso, sciolto da ogni legame vitale, vi posava ancora tranquillo; come chi è sul punto di lasciar per sempre, dopo lungo soggiorno, una casa onde pur desiderava partirsi, che sta sulla soglia contento, ma senza rancori ormai né impazienze, anzi con un'ombra di pietà per le camere chiuse, abbandonate al silenzio. Sapeva di andare alla pace, al sospirato riposo; e sapeva pure, nella chiara visione appena incominciata per esso, di essere finalmente amato, secondo i suoi sogni della vita terrestre, da un cuore tenero e forte che gli sarebbe fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo nostro lato della morte gli eran parse iniquamente scure, ammirava un ordinato disegno, una luce di bontà e di sapienza.

Ma le fontane, discorrendo tra loro nella notte quieta, dicevano che Marina era passata come Cecilia, il conte Cesare come i suoi avi, che nuovi signori verrebbero per passare alla loro volta e non valeva la pena di turbarsene. Quando, presso l'alba, uscì la luna e si posò sul pavimento della loggia, sulla pompa delle dracene e delle azalee che nessuno avea pensato a rimuovere, ella parve cercar là dentro, col suo sorriso voluttuoso, ciò che non si trovava ancora, quella notte, nel Palazzo, ma che la vicenda delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da empir di chimere, degli altri cuori da muovere alla passione, invece di quelli che se n'erano appena liberati per sempre.

FINE