Davanti a me ho una foto che mia cugina C. mi ha spedito una ventina d’anni fa. Siete in tre su un marciapiede, a un angolo di strada. Mio padre, alto, sorridente, in doppiopetto scuro, tutto tirato a lucido, un cappello in mano (io gli ho sempre visto solo dei berretti). Al suo fianco una comunicanda, sua nipote Denise, in un lungo vestito bianco che lascia scoperto solo il viso, incorniciato dalla cuffietta a cui è attaccato il velo, e le caviglie. Davanti a lei una bambina, la cui testa bruna le arriva al petto. Sei tu. Anche tu sei tutta in bianco, con un vestitino a maniche corte, i sandaletti e le calzettine. I capelli a caschetto, tagliati appena sopra le orecchie, con la riga in mezzo e un fiocchetto sulla sinistra, ti formano un arco scuro, di strana perfezione, attorno alla fronte altissima, bombata. Guardi l’obbiettivo senza sorridere, con aria grave. La bocca sembra d’un rosso scuro, un dettaglio inaspettato, così come il gesto che stai facendo: fai combaciare le punte delle dita, leggermente aperte. Per via del bianco sovrapposto dei vestiti, sembri fonderti con la comunicanda, il cui velo ti copre la parte alta delle braccia. Sul muro dietro al gruppetto, un manifesto dalle grandi lettere ben leggibili, LA VITA CARA – RIFORME SOCIALI NELL’ALIMENTAZIONE – AUMENTO DEI SALARI – FERIE PAGATE – 40 ORE SETTIMANALI. In lontananza un grande edificio con l’insegna «La Méditerranée» verso il quale si incamminano sagome imprecisate. Gli abiti da cerimonia del gruppo contrastano con la vaga desolazione del luogo, un quartiere urbano semi-industriale. La foto è stata scattata a Le Havre nel 1937. Hai cinque anni. Ti resta un anno da vivere.

Guardo il tuo viso serio, le dita allargate per gioco, le gambe esili. Sulla foto smetti di essere l’ombra malefica della mia infanzia, non sei più la santa. Sei una bambina espulsa violentemente dal tempo durante un’epidemia di difterite, strappata dalla superficie di un mondo che, in quel minuto preciso, quel giorno, un giorno di festa, aveva la forma e la sostanza di un ampio marciapiede dai bordi di cemento in un quartiere popolare di Le Havre.

 

La vastità della mia vita, ottenuta in eterno a discapito della tua, mi sommerge. Alle mie spalle è tutto innumerevole, le cose viste, sentite, imparate e dimenticate, le donne e gli uomini frequentati, le strade, le sere e le mattine. Mi sento sopraffatta dalla profusione delle immagini.

Molto lontano, eppure tanto nitide, ci sono le primissime, a Lillebonne:

la sala del bar con il biliardo, i tavolini di marmo paralleli, le silhouette dei clienti, indistinte a eccezione di quelle di una coppia seduta a tavola, i Foldrain, la donna aveva soltanto due o tre denti

la cucina separata dalla drogheria da una porta a vetri e che dava sul cortiletto lastricato

la sala da pranzo in cima alle scale con sulla tavola dei fiori in celluloide neri e arancioni aggrovigliati in una brocca

la cagnetta Poupette, dal pelo corto e sempre tremante, che uccideva i topi di fiume

la massa scura delle filature Desgenétais e le loro enormi ciminiere cerchiate di ferro

il mulino e la sua ruota verdastra

 

Ho messo queste immagini nei miei libri. È così strano pensare che siano state anche tue. E ancora di più lo è constatare che, tu e io, esistiamo assieme nella memoria delle persone, come mi mostra questo passaggio della lettera di Francis G. del 1997: «Mia cugina Yvette mi ha raccontato che quando c’era bel tempo accompagnava fuori tua sorella Ginette, la portava a passeggiare sulla strada che conduce alla Trinité-du-Mont. Quanto a Jacqueline, ricorda che ti prendeva in braccio quando eri piccola piccola e che a quell’epoca avevi le gambine ingessate e che la signora Duchesne mi raccomandava sempre di stare molto attento».

 

Rivedo, sfocate, alcune persone di Lillebonne che ti hanno conosciuta, i cui nomi ti sono frusciati accanto, i Meurget, i Bordeaux, i Vincent, gli Eude, i Tranchant, padre Leclerc e i proprietari del mulino, i Bosch, che avevano una scimmia come animale domestico. Sento i nomi di strade e luoghi che hai sentito anche tu, dove non sono mai tornata dopo il 1945, la rue Césarine e la rue Goubert-Moulin, La Frénaye, Le Becquet.

Mi ricordo i nonni, gli zii e le zie, i cugini e le cugine che si ricordavano di te. Ho scritto di loro.

L’una e l’altra siamo emerse alla coscienza in mezzo allo stesso mondo. Il caldo e il freddo, la fame e la sete, il cibo, il tempo che fa, tutto ciò che esiste è stato enunciato per noi con le stesse voci, gli stessi gesti e nella stessa lingua, quella che poi a scuola avrei imparato non essere il «buon francese».

Siamo state cullate dalle stesse canzoni. Lui cantava Quand tu seras dans la purée reviens vers moi, lei Le temps des cerises e un’aria triste, C’est l’amour qui flotte dans l’air à la ronde, C’est l’amour qui console le pauvre monde.

 

Siamo nate dallo stesso corpo. Non ci ho mai voluto pensare davvero.

Mi rivedo in cucina, a Lillebonne, una sera dopo cena, il negozio è chiuso. Le sono rannicchiata contro il petto, sulle sue ginocchia, canta Sur le pont du Nord, lui le è seduto di fronte

una domenica grigia, a Yvetot, passeggiamo e mi tengono per mano, guardo le loro scarpe avanzare sulla strada di ciottoli, e le mie, piccole piccole.

In quelle immagini non ti penso mai al mio posto. Non riesco a vederti dove mi vedo con loro.

Non ti posso mettere dove sono stata io. Sostituire la mia esistenza con la tua. C’è la morte e c’è la vita. Tu o io. Per essere, ti ho dovuta negare.

 

Nel 2003, sul diario, rivivendo la scena del racconto: «Non sono buona come lei, sono esclusa. Dunque non sarò nell’amore, ma nella solitudine e nell’intelligenza».

Immagine Lillebonne

 

Tanti anni fa sono passata da Lillebonne, nel quartiere della Vallée. Ho rivisto dall’esterno, in rue de la Tannerie, il bar-drogheria dove siamo nate entrambe, diventato una casa privata, come già sapevo, a partire dagli anni Settanta. Sulla facciata, intonacata di un bianco aggressivo che stonava con il grigio degli edifici vicini, interamente rifatta – la porta dell’emporio trasformata in finestra –, era stata cancellata qualsiasi traccia del vecchio negozio. Non avevo avuto voglia di rivedere l’interno. Ben sapendo che la realtà non si conserva da sola, che bisogna sempre tornare a ridipingere, consolidare, ritappezzare, avevo temuto la ferita inflitta alla memoria dalle ristrutturazioni e dai mobili degli altri.

L’estate scorsa, quando ancora non sapevo che ti avrei scritto questa lettera, mi è venuto il desiderio di entrare nella casa, un desiderio via via accresciuto dalle difficoltà incontrate, dapprima nel mettermi in contatto con gli attuali inquilini, e poi nel vincerne le resistenze, legittime ma insopportabili, ad aprirmi la porta. Era come se attendessi una forma di rivelazione con la quale fra l’altro non avrei saputo cosa fare, se non forse, ma era secondario, scrivere.

Lo scorso aprile, dopo uno scambio di lettere e di mail, i proprietari, una coppia sulla cinquantina, mi hanno autorizzato a introdurmi nella casa. Era la prima volta dal 1945.

Al pianoterra tutto mi è parso trasformato, i tramezzi erano stati abbattuti per formare un’unica stanza. Ho riconosciuto soltanto il soffitto molto basso – avrei quasi potuto toccarlo alzando il braccio – e il cortiletto in riva al torrente. I gabinetti, la lavanderia e la conigliera non c’erano più. Al piano superiore mi è parso che fosse stato aggiunto un muro per creare uno stretto corridoio – che nei miei ricordi non c’era – tra le due stanze affacciate sulla strada e quelle che danno sul cortile. La prima a sinistra era la camera della coppia, come un tempo era stata quella dei genitori. Il letto aveva lo stesso orientamento di allora, parallelo alla finestra. Tutto corrispondeva ai miei ricordi, solo più piccolo. È probabile che se mi avessero condotta fin lì con gli occhi bendati non avrei saputo dire dove mi trovavo, ma in quella circostanza non potevo avere alcun dubbio sull’identità – garantita dalla presenza della finestra sul lato del torrente, di cui ho conservato negli anni la visione precisa – tra quella camera e quella del 1945.

 

Guardavo il letto, provavo a sostituirlo con quello dei genitori, a vedervi di fianco il lettino in legno di rosa. Non ero attraversata da pensieri veri e propri, solo «è qui». Provavo una sorta di sensazione totale, un misto di stupore e di contentezza inafferrabile per essere proprio lì, in quel luogo preciso del mondo, tra quelle mura, vicino a quella finestra, essere quello sguardo che stava contemplando la camera in cui tutto è cominciato per l’una e per l’altra, l’una dopo l’altra. Dove si è giocato tutto. La camera della vita e della morte, in quel tardo pomeriggio bagnato di luce. Il luogo dell’enigma del caso.

 

Qui, ora, l’immagine della camera luminosa dell’aprile scorso, la presenza disturbante della proprietaria al mio fianco, il caldo si alternano con il mio essere in quell’altra, crepuscolare, confusa, una piccola ombra allungata tra le sponde del mio letto d’infanzia. La prima camera, in cui nulla è stato vissuto, si eliminerà da sé in un tempo più o meno breve, nella mia esperienza accade sempre così, già ho dimenticato il colore del copriletto, i mobili. L’altra è indistruttibile.

 

Peter Pan è scappato dalla finestra aperta dopo aver visto i genitori chini sulla sua culla. Un giorno ritorna. Trova la finestra chiusa. Nella culla c’è un altro bambino. Fugge di nuovo. Non crescerà mai. In alcune versioni va di casa in casa a prendere i bambini che stanno per morire. È una storia che probabilmente non conoscevi, io l’ho imparata in terza media, durante una lezione di inglese. Non l’ho mai amata.

 

 

 

Il 7 novembre 1945, tre settimane dopo essere ritornati a Yvetot, hanno comprato una concessione cimiteriale accanto a te. Lui vi è stato deposto per primo, nel 1967, lei diciannove anni dopo. Io non sarò sepolta in Normandia, vicino a voi. Non l’ho mai desiderato né immaginato. L’altra figlia sono io, quella che è fuggita lontano da loro, altrove.

Tra qualche giorno andrò sulle tombe, come sempre per Ognissanti. Non so se questa volta avrò qualcosa da dirti, se sarà il caso di farlo. Se mi vergognerò o se sarò fiera di averti scritto questa lettera, intrapresa sulla spinta di un desiderio che ancora non mi è chiaro. Forse ho voluto saldare un debito immaginario dandoti a mia volta l’esistenza che la tua morte mi ha dato. Oppure farti rivivere e rimorire per liberarmi di te, della tua ombra. Sfuggirti.

Lottare contro la lunga vita dei morti.

Questa lettera – è evidente – non è destinata a te, e tu non la leggerai. Saranno altri a riceverla, dei lettori, che mentre scrivo sono invisibili quanto lo sei tu. Eppure un residuo di pensiero magico dentro di me vorrebbe che, in maniera inconcepibile, analogica, questa lettera ti raggiungesse come la notizia della tua esistenza mi ha raggiunta una domenica d’estate, forse la stessa in cui Pavese si suicidava a Torino in una camera d’albergo, tramite un racconto di cui a mia volta non ero la destinataria.

 

Ottobre 2010