1

Sentì una fitta al piede destro, sotto le dita. Aveva camminato con prudenza, ma lì il fondale era coperto di alghe, come un’erba alta e fitta che si muoveva con la corrente, marrone, ripugnante. Come fiori morti.

Adesso era su un piccolo fondale sabbioso. Si mise su una gamba sola, sollevò il piede destro e vide che sanguinava, ma solo un poco. Non era la prima volta quell’estate. Faceva parte del gioco.

All’improvviso le venne in mente un’angusta aula scolastica, l’odore acre dei vestiti e… pensieri acri, o quasi. Pioggia contro il vetro. Domande su un foglio e il raschiare delle penne, risposte che sarebbero state dimenticate subito dopo la consegna. Adesso almeno aveva finito. Era diplomaaataaa, caaazzooo! Che ganza che era. E quell’estate che non finiva mai. Che non finiiisca mai. La melodia le entrò in testa.

La ferita quella sera sarebbe stata solo un graffio e non l’avrebbe più sentita, ma avrebbe avvertito ancora il calore del sole sulla pelle, e la salsedine. Dopo la doccia. Prima che cominciasse la serata.

Nuotando sbatté le gambe, l’acqua era una specie di cascata intorno a lei. Una barca a vela entrò nella baia con il motore al minimo. Riusciva a vedere le navi passeggeri, ne vide tre. Tutta gente che stava raggiungendo la zona meridionale dell’arcipelago. Galleggiava sulla schiena. Non sentiva più l’acqua, era come galleggiare nell’aria. Posso volare, pensò. Posso fare tutto. Posso diventare quello che voglio. Posso diventare famosa. Fame. I wanna live forever.

Posso dimenticare.

Era ancora estate, poi avrebbe iniziato a studiare Medicina, ma mancavano ancora milioni di anni, milioni di gocce d’acqua che sapevano di salsedine e sabbia quando s’immergeva.

L’acqua era verde e un po’ torbida. Vide un’ombra che poteva essere un pesce. Oppure un sommozzatore.

Avrebbe studiato per un anno e poi si sarebbe presa un anno sabbatico, papà poteva dire quel che voleva. Le avrebbe detto che a programmare il tempo libero era brava, ma il resto?

Non voleva restare a casa.

Osò rimanere sott’acqua fino all’ultimo, poi si diede una spinta cercando di volare alta sulla superficie.

Tornò nuotando verso le rocce, camminò con cautela sulle alghe e si issò su uno spuntone di roccia.

La ferita sotto l’alluce sanguinava un po’, ma solo un po’. Si arrampicò fino alla coperta, prese un asciugamano dal sacchetto di plastica, si asciugò i capelli e bevve un po’ d’acqua, poi si sedette e sbatté gli occhi per togliere alcune gocce d’acqua salata. Fece un respiro, poi un altro, profondo, così pieno di sole che quasi le bruciò i polmoni. La superficie dell’acqua luccicava come le squame di un pesce, come se lì sotto si muovessero diecimila pesci. Sentiva i deboli rumori provenienti dalle imbarcazioni che si spostavano in tutte le direzioni. Alcune sparivano verso l’orizzonte e diventavano sempre più piccole. Il cielo era quasi bianco, ma non c’era una nuvola. Si sdraiò sulla schiena. Una goccia d’acqua scivolò dall’attaccatura dei capelli lungo la guancia e ne sentì il sapore sulle labbra. Stava già chiudendo gli occhi. Tutto era rosso e giallo nella sua testa. Udì frammenti di voci attorno a lei, mezze parole, una scheggia di risata che luccicava come sulla superficie dell’acqua al sole.

Non aveva la forza di leggere. Non aveva voglia di far niente, voleva solo starsene lì sdraiata il più a lungo possibile. Non fare niente, vivere per sempre e basta.

 

Il sole era all’altezza dei suoi occhi quando raccolse le sue cose, si arrampicò sulla collina e scese per il piccolo dirupo fino alla rastrelliera per le biciclette. Si sentiva quasi ubriaca. Le bruciavano le spalle, malgrado si fosse spalmata la crema. Anche le guance le bruciavano, ma non troppo. La sera il dolore si sarebbe placato, come assorbito. Sarebbe stata bene alla luce del ristorante all’aperto. Evviva.

Cominciava a dimenticare.

Passò in bicicletta davanti al porto turistico, superò la folla che scendeva dai battelli dell’arcipelago per prendere l’autobus o il tram. Migliaia di ciclisti procedevano a zigzag. Tornavano tutti a casa nello stesso momento, come se tutti avessero le stesse abitudini. Forse è proprio così, pensò. In estate senz’altro. Tutto è più semplice. Prendere il sole, fare il bagno, fare la doccia, far festa. Fare il bagno, prendere il sole, fare la doccia, far festa. Fare la doccia, prendere il sole, fare il bagno, far festa. Si fermò, parcheggiò la bicicletta, si mise in coda per il gelato e comprò una coppetta con due palline: crema e vaniglia. Una donna vicino a lei disse che c’erano trentatré gradi. Trentatré gradi alle sei del pomeriggio. Non ci si può lamentare, disse l’uomo alla destra della donna. Però, disse la donna, che poteva avere quarantacinque come sessant’anni. Il terreno è secco.

Me ne frego del terreno, pensò lei quando prese la bicicletta e se ne andò. Io voglio che non finisca mai. Il terreno avrà la sua razione in autunno.

C’era profumo di paglia vicino al campo che scendeva verso la baia, dall’altra parte della strada. Attraversò il piccolo quartiere delle ville, accelerò sulla pista ciclabile lungo i binari del tram e in dieci minuti fu a casa. Il padre era seduto in veranda con quello che sembrava un whisky.

«Ecco che arriva una barbabietola.»

Lei non rispose.

«Sempre meglio di un porro.»

«Porro?»

«La parte bianca del porro. Io vado di sopra», disse, e salì le scale. Era whisky. Sentì l’odore pesante.

«Accendo il barbecue tra dieci minuti esatti.»

«Cosa prepari?»

«Spiedini di salmone e pescatrice. Tra le altre cose.»

«Quando mangiamo?»

«Tra quarantacinque minuti esatti.»

Suo padre bevve e distolse lo sguardo. Il ghiaccio tintinnò. A lei piaceva il vino, o la birra, ma il whisky no.

 

Iniziò a prepararsi, il sole era penetrato sotto la pelle, aveva già un colorito più scuro. La stanza era nella penombra, aveva chiuso le tende e la luce si era fatta più tenue, ma c’era odore di caldo e secco, e la sua pelle emanava un buon profumo. Era in piedi davanti allo specchio, solo con le mutande. I seni luccicavano bianchi come i denti.

Sentì il profumo del gel doposole che si era appena spalmata. L’acqua dolce della doccia le aveva ammorbidito la pelle. Acqua dolce. Erano due belle parole.

Il padre la chiamò dal giardino, e proprio in quel momento lei sentì il profumo del pesce grigliato e si sentì terribilmente affamata. Terribilmente. E assetata.

 

I denti di Elin luccicarono.

«Cosa fai domani?»

«Prendo il sole e faccio il bagno.»

«Ne vuoi un’altra?»

«Non credo. Mi gira la testa», disse lei, e fece un cenno verso il bicchiere di birra sul tavolo.

«Sei diventata davvero scura», disse Elin.

«Grazie.»

«E i capelli sono diventati bianchi.»

«È un complimento?»

«Sono bellissimi.»

«Grazie, allora.»

«Credo di volere un’altra birra», disse Elin. «Ho sempre sete.» Si alzò. «Meglio che vada dentro io. Non hanno mai tempo di arrivare qui nell’angolo.»

Erano sedute a un tavolino nell’angolo sinistro del bar all’aperto, c’era un vicoletto cieco alle loro spalle.

«Sei soddisfatta, allora?»

Lei annuì. Elin si avviò verso il bar, la vide zigzagare tra i tavoli come lei aveva zigzagato tra alcune meduse nel pomeriggio, a Saltholmen.

«A proposito», gridò, «ne prendo una piccola.»

 

Rimasero sedute lì a lungo. Il calore indugiava tra le case, era sceso lentamente sulla strada.

«Dev’esserci ancora la stessa temperatura», disse Elin. «Non c’è il sole, ma il caldo è lo stesso.»

Lei annuì senza rispondere.

«Le serate sono davvero le cose più belle delle estati calde in città», continuò Elin. «Summer in the city

Annuì di nuovo.

«Accidenti, come sei loquace!»

«Sono molto stanca.»

«È solo mezzanotte.»

«Lo so. Dev’essere il sole.»

«Io ho fatto la schiava dietro a una cassa tutto il giorno.»

«Domani è il tuo giorno libero.»

«Ecco perché bisogna fare un po’ di feeesta.» Lo ripeté: feeesta.

«Non lo so, Elin.»

«Santo cielo. Quando ho detto quella cosa dei capelli bianchi, non intendevo letteralmente. I capelli bianchi non sono necessariamente over settanta. Santo cielo! Stai sbadigliando di nuovo.»

«Lo so. Scusami.»

«Cosa facciamo, allora?»

«Stasera? O stanotte?»

«Nel novembre del 2003…»

«Non lo so…»

«Non dirmi che devo andare in discoteca da sola!»

«No», rispose lei, «sta arrivando tutta la compagnia.»

La compagnia: tre ragazzi e due ragazze. Lei sentì che era il momento giusto, dato che non aveva voglia di far baldoria tutta la notte. Doveva essere il sole. Una overdose di sole. E adesso non c’era più bisogno che andasse con Elin per accontentarla.

«Adesso non devi venire anche tu per accontentarmi», disse Elin.

«Cosa?» disse uno dei ragazzi.

«È ora di andare a nanna, qui», fece Elin, e annuì verso di lei sorridendo.

«Mi è venuto un gran sonno, così dal nulla», disse lei.

«Allora vai a casa a dormire», disse il ragazzo. «Devo chiamare il trasporto sociale?»

Lei tirò fuori la lingua. Lui rise.

«Vado a piedi.»

«A piedi?»

«Sì, a piedi. Un pezzo.»

«Ma è lontano. E l’ultimo tram sarà già passato.»

«C’è il bus notturno. Forse prendo un taxi per l’ultimo pezzo.»

«Prendilo subito, allora», disse Elin.

«Cosa? Intendi che… be’, cosa intendi dire?»

«Che non si deve andare in giro da soli in città.»

Lei si guardò attorno.

«Soli? Ma la città è piena di gente.» Si guardò di nuovo attorno. «Gente della nostra età, inoltre.»

«Fai quel che vuoi», disse Elin.

«Andiamo?» intervenne qualcuno della compagnia.

Si alzarono.

«Alle undici domani, allora?» chiese Elin.

«Ce la fai ad alzarti per quell’ora?»

«Per la tintarella ce la faccio.»

«Sai dove mi metto», disse lei, salutò e si incamminò verso sud.

«Riposa in pace», disse uno dei ragazzi.

«Che battuta del cazzo», disse Elin.

 

All’altezza della stazione dei taxi ebbe un attimo di esitazione. All’improvviso si sentì più vispa, come se la passeggiata avesse riacceso qualcosa dentro di lei. Esitò. Guardò verso il parco. C’era tanta gente anche lì, come nei bar all’aperto, forse anche di più. Tutto era illuminato, gli alberi e i cespugli luccicavano di un colore intenso, sembrava che le foglie fossero state dipinte. Le arrivava una gradevole frescura e c’era un buon profumo. Il fresco. Avrebbe potuto attraversare il parco e sbucare nella strada dietro. C’erano migliaia di persone intorno a lei, dappertutto. Dal bar alla sua destra, dall’altra parte del laghetto, proveniva della musica. Era distante solo un centinaio di metri.

Qualcosa nel parco la attirava. Sull’erba il profumo era ancora più buono. Sentiva voci dappertutto, come sulla spiaggia quel pomeriggio. Quando chiuse gli occhi, ne udì dei frammenti, schegge. Non vedeva più rosso e giallo adesso, semmai verde, forse un po’ di giallo. Aprì di nuovo gli occhi e tagliò per il prato. Gente dappertutto. Passò sotto alcuni alberi, e dietro riusciva a vedere la strada. Forse venti metri.

Si sentì improvvisamente sveglia, sveglissima, come al mattino dopo una bella dormita e la colazione.

Ci fu un fruscio in alto tra gli alberi. Il sentiero attraversava una specie di boschetto. Vide i lampioni. Si stava facendo di nuovo chiaro, il cielo era più blu di un’ora prima. Non era passata da molto l’una. Un fruscio. Sentì le macchine, una risata. Stava già pensando a quando sarebbe passato il primo taxi.

Un fruscio alla sua destra, vide un’ombra con la coda dell’occhio, forse. Sentì qualcosa, un uccello. Una risata. Un cespuglio si mosse per una folata di vento improvvisa.

Fra poco sarebbe sbucata dall’altra parte. Ci sarebbe stata gente dappertutto e non aveva paura, non c’era nessun motivo per averne. Aveva quasi voglia di ridere. Le mancavano solo un paio di passi.

2

Si era assopita, addormentata fino a perdere i sensi, e si era svegliata viva. Era arrivata a casa. Il sole era già caldo, poteva essere mattina presto. Aveva superato la collina, a testa bassa, in modo che nessuno potesse vedere cosa le era successo, cosa aveva FATTO. Cosa qualcun altro le aveva fatto.

La camera sembrava la stessa, ma niente sarebbe più stato come prima.

Si strappò i vestiti di dosso, se li STRAPPÒ, buttò tutto in lavatrice senza guardare e avviò il programma. Il rumore dell’acqua fu una consolazione.

Si mise sotto la doccia e si lavò SOTTO la pelle, così le sembrava. Si strofinò a lungo il corpo e distrusse tutte le prove, mentre la lavatrice sbatteva la biancheria intima, avanti e indietro, scioglieva le prove, avanti e indietro, non c’era più nulla quando un’ora più tardi arrivarono l’ispettore dell’anticrimine Fredrik Halders e Aneta Djanali della squadra anticrimine regionale, nulla quando i tecnici di Ernst Fontells Plats cercarono di trovare qualcosa tra le fibre e i fili.

 

Li aveva mandati Winter, il capo dell’investigativa. Erik Winter, che sospettava gli stupri seriali ogni volta. E già in due occasioni aveva avuto ragione.

Quando passarono Aneta Djanali guardò il parco, sapevano solo questo: la ragazza aveva detto a papà e mamma che era successo nel parco. Winter aveva inviato alcuni uomini. Aneta Djanali vide il cane. Non c’era da scherzarci. Non c’era da scherzare proprio con niente. Tre poliziotti in uniforme bighellonavano vicino al parcheggio. C’erano più o meno dieci macchine.

«Credi che stiano controllando le macchine?» chiese Halders da dietro il volante.

«Non in questo preciso momento, in ogni caso.»

«Ti fanno andare fuori di testa.»

«Fuori di testa?»

«Ti fanno impazzire. Venticinque sbirri che si girano i pollici, e magari quel bastardo è scappato via subito e ha dimenticato la macchina, che magari è proprio quella Mantra verde. O la Volvo nera.»

«Sono in tre, non venticinque.»

Aneta vide uno dei poliziotti estrarre un taccuino e iniziare a trascrivere i numeri di targa.

«Cominciano adesso.»

 

La casa si trovava leggermente all’interno rispetto alla strada, ed era circondata da un muro. Il mare luccicava dall’altra parte, distante solo qualche centinaio di metri. Halders ne avvertì il profumo, vide l’acqua, sentì i gabbiani, notò le vele, un paio di traghetti, un catamarano, cisterne di petrolio, tre gru nel cantiere morto oltre il fiume. La linea dell’orizzonte.

La casa rientrava nella categoria dei cinque milioni di corone, ma quello non doveva influenzarlo. La gente aveva il diritto di avere più soldi di lui. Poteva essere stata costruita da poco. Ispirata all’architettura greca. Sembrava un intero villaggio greco, accidenti.

Si asciugò il sudore dalla fronte, lo sentiva anche sulla schiena, sotto la camicia. Per Aneta l’aria era fresca. Doveva essere una questioni di geni, o qualcosa di simile. Nero fuori, fresco dentro.

«Ok, allora», disse lui, e suonò il campanello, che era piccolo, a malapena visibile sull’intonaco giallo pallido.

La porta fu aperta immediatamente, come se l’uomo all’interno fosse in attesa dello squillo. Indossava un paio di calzoncini corti e una camicia, era scalzo, abbronzato, forse cinquant’anni, occhiali con la montatura sottile, capelli radi più lunghi sulla nuca. Sottile in tutto, pensò Halders. Occhi rossi. Occhi impauriti. Qualcosa di nuovo era entrato in casa sua.

La realtà faceva irruzione per la seconda volta: prima una figlia violentata e poi due sbirri in borghese. Una cosa seguiva sempre l’altra. Non ci aveva mai pensato, rifletté Halders. Noi siamo quella cosa che segue sempre l’altra, la cosa buona dopo quella cattiva, ma per lui è ugualmente terribile, adesso come prima.

Si presentarono.

L’uomo, che si chiamava Kurt Bielke, li fece entrare.

«Jeanette è in camera sua.»

«Sì.» Halders guardò in cima alle scale. «Non ci vorrà molto tempo. Poi potrà andare direttamente in GO.»

«GO?»

«Ginecologia e Ostetricia. All’Östra.»

«So cosa significa», disse Kurt Bielke, e si passò la mano sulla fronte alta. «Ci deve proprio andare?» Si rivolse ad Aneta Djanali. «Non vuole.»

«È importante», replicò lei. Per diverse ragioni, pensò.

«Possiamo parlarle un attimo?» chiese Halders.

«Sì… certo», rispose Bielke, e fece un movimento verso la scala. Poi si fermò, come congelato, prima di muovere nuovamente la testa. Non li guardò. «È di sopra.»

Salirono le scale e si fermarono davanti a una porta chiusa. Aneta Djanali sentiva i rumori dell’estate, fuori. Un uccello di mare rise forte, e la risata fu seguita da molte altre. Gli uccelli sparirono nella baia. Un cane abbaiò. Una macchina suonò il clacson. Un bambino gridò qualcosa con voce stridula.

L’uomo bussò alla porta. Non ottenne risposta e bussò di nuovo.

«Jeanette?»

Sentirono una voce dall’interno, ma nessuna parola.

«Jeanette? La po… la polizia è qui.»

Qualche parola dall’interno, di nuovo.

«Entriamo adesso», disse Halders.

«Devo essere presente anch’io?» domandò l’uomo.

«No», rispose Halders; bussò alla porta e abbassò la maniglia; la porta non era chiusa a chiave ed entrarono.

La ragazza era seduta su un letto in vestaglia. Più buio di così nella stanza non poteva essere, le veneziane erano chiuse. La luce forte del sole cercava di irrompere nella stanza. È come se cercasse protezione in uno degli angoli del letto, pensò Aneta Djanali. Si schiaccia verso la parete. Jeanette si chiama, ha un nome, anche se all’improvviso non significa niente, a volte nemmeno per le vittime stesse.

Adesso tocca a me parlare.

Aneta Djanali si presentò e presentò Halders. Lui fece un cenno del capo, non disse niente, si sedette sulla sedia della scrivania e la guardò, annuendo cortesemente.

Il viso di Jeanette era parzialmente nascosto dall’asciugamano che si era avvolta intorno alla testa dopo la lunga doccia. Si chiuse l’accappatoio al collo con una mano esile. Gli occhi di Aneta si erano ormai abituati alla penombra, e notò la pelle delicata delle dita della ragazza. Sembrava fradicia.

è stata sotto la doccia per ore. L’avrei fatto anch’io.

Aneta Djanali fece qualche breve domanda, le più brevi che le potevano venire in mente in quel momento, all’inizio del primo interrogatorio. Le risposte furono ancora più brevi, quasi impossibili da capire. Dovettero sedersi più vicine, ma non troppo. Jeanette raccontò del parco. Sì, era tardi. No, presto. Tardi e presto. Era sola. Era passata di lì altre volte. Tante volte, anche di notte. Sola? Sì, sola anche le altre volte.

Era rimasta sola da poco. Oppure no. Era stata in due locali diversi, disse quali e Halders prese appunti. Raccontò chi erano le persone con cui era stata.

Erano andati a una festa studentesca, una festicciola. Un quarto della classe. Era passato quasi un mese dal diploma.

Aneta vide il berretto bianco sul cassettone sotto la finestra. Brillava nella penombra.

Aneta e Halders ne avevano parlato andando lì in macchina. «Si chiama esame di maturità, ma è un’espressione ridicola.»

«Perché?» aveva chiesto lei.

«Quale maturità? In che senso sono maturi?»

«Tu l’hai fatta… la maturità, Fredrik?»

«Ho frequentato la scuola di polizia, no?»

«Ah già. Per un attimo ho pensato che fossi un privatista.»

«Poliziotto privatista?»

«Sì.»

«Non che a volte non mi senta uno di loro. Un poliziotto privato.»

Una festicciola studentesca. Aneta spostò lo sguardo dal berretto da diplomata al viso di Jeanette. Diciannove anni. Voleva chiederle dei fidanzati, ma sapeva che era meglio aspettare. Adesso era importante restare sulle cose concrete, le brevi domande su cosa era successo, quando, come, quando, come, quando, come. Chiedere, ascoltare, guardare. L’aveva fatto un numero sufficiente di volte per sapere che la cosa più importante, per lei come investigatrice, era capire cosa c’è dietro l’accaduto. Non accettare subito una versione. Il racconto della vittima. Pensare fin da subito alla domanda più difficile: è davvero così? È andata davvero così?

Chiese a Jeanette Bielke di raccontare cosa avesse visto dell’uomo che l’aveva violentata.

All’improvviso Jeanette disse che voleva andare in ospedale, voleva andarci subito. Aneta Djanali sapeva che sarebbe arrivato quel momento, forse sarebbe già dovuto arrivare.

«Fra poco. Solo un’altra domanda. Un secondo.»

«Voglio andarci ADESSO.»

«Non puoi dire niente su quell’uomo?»

«Non ricordo.»

«Era alto?»

«Era grosso. Forte, oppure non… ho osa… non ho volu… osato tentare di liberarmi. Prima ho tentato… poi è stato impossibile.»

Aveva cominciato a piangere. Tirò l’asciugamano e se lo strofinò sugli occhi, il nodo si sciolse, l’asciugamano cadde e apparvero i capelli bagnati; erano come incollati alla testa.

«Lui… lui mi ha legata», disse.

«Legata?»

«Sì.»

«Come?»

«Cioè, legata… avevo una corda intorno al co… al collo. Le braccia… poi…» Si toccò il collo. Aneta Djanali vide un arrossamento, una lunga striscia sottile.

Sfruttarono lo shock.

«Era come un guinzaglio», disse Jeanette. «Non puzzava di cane, ma era come un guinzaglio.» Guardava dritta verso Aneta Djanali, adesso. «Ho visto che luccicava, credo.»

«Luccicava?»

«Sì, il guinzaglio luccicava. Credo che fosse quello. Come se avesse delle borchie o qualcosa del genere.»

Sussultò, si schiarì la voce, sussultò ancora. Aneta guardò Fredrik, che annuì.

«Un’ultima domanda, Jeanette. Ha detto qualcosa?»

«Sì. Ha detto… qualcosa.»

«Cos’ha detto?»

«Non ho capito.»

«Ma hai sentito delle parole?»

«Sì…»

«In che lingua?»

«Non era una lingua.»

«Cosa intendi dire?»

«Era una specie di cantilena… senza senso. Ripeteva qualcosa che… che non riuscivo a capire.»

Aneta Djanali annuì, aspettò. Jeanette la guardò.

«L’ha detto tre volte. Ripeteva. O forse solo una volta. Proprio mentre… mentre…»

I gabbiani ridevano fuori dalla finestra, erano tornati dal mare. Il motore di una macchina si accese. Un bambino gridò di nuovo. Jeanette si strofinò l’asciugamano sui capelli. Era caldo e nella stanza mancava l’ossigeno.

Aneta Djanali sapeva che Jeanette aveva detto tutto quello che riusciva a dire per il momento, ed era ora di portarla in ospedale.

Vide Fredrik alzarsi. Tutto era andato secondo le normali procedure: stupro. Denuncia. Primo interrogatorio. Richiesta della documentazione legale. Trasporto in ginecologia.

Cazzo.

Certo che si trattava di uno stupro. Nessuna invenzione.

 

Jeanette Bielke stava raggiungendo l’Östra, Aneta Djanali e Halders andarono al parco dov’era accaduto il fatto.

«Che ne dici della descrizione?»

Halders si strinse nelle spalle.

«Grosso. Forte. Giubbotto scuro. Nessun odore particolare. Armato di guinzaglio a strozzo. Ripeteva cantilene. Oppure diceva solo qualcosa di incomprensibile.»

«È la descrizione del cittadino svedese medio», disse Halders.

«Lei ti sembra affidabile?»

«Sì.»

«Avrei voluto fare più domande.»

«Hai avuto quello che potevi avere, per adesso.»

Aneta Djanali guardò l’estate fuori. La gente era vestita leggera. I volti si illuminavano facendo a gara col sole. Il cielo era azzurro e non c’era alcuna nuvola. Soltanto gelati, abiti leggeri e una vita serena. Nessun vento contrario.

«È davvero orribile.»

«Basta che non sia solo l’inizio», disse Halders, e la guardò. «Sai cosa intendo.»

«Non dirlo.»

Halders pensava a cosa aveva detto Jeanette sull’aspetto dell’uomo, su ciò che era riuscita a vedere. Il violentatore. Avrebbero dovuto aspettare la visita medica, ma era certo che si trattava di uno stupro.

Non potevano mai essere sicuri dell’aspetto. La descrizione è la cosa più difficile. Non fidarti mai completamente della descrizione, aveva detto a tutti quelli che avevano voglia di ascoltare. Niente deve necessariamente coincidere con delle condizioni reali. La stessa persona, nel ricordo dei testimoni, può essere alta 1.62 come 1.97. Tutto può variare.

L’anno precedente avevano avuto a che fare con un maniaco che andava in giro a colpire la gente alle spalle, nessun modus operandi chiaro, se non che li prendeva alle spalle e li derubava dei soldi, ma aveva la particolarità di avvicinarsi di lato – forse era quello il modus operandi – usava qualche saluto per attirare l’attenzione e poi colpiva.

Le vittime erano concordi su una cosa: ricordava il gobbo di Notre-Dame; tarchiato, molto curvo, calvo, trascinava un piede come se stesse piantando le patate…

Quando poi l’avevano arrestato, cogliendolo in flagrante, risultò che era alto 1.95, con folti capelli ricci e avrebbe potuto tranquillamente essere il protagonista di una soap opera.

Dipende da tanti fattori. Da cosa si riesce a vedere. Dal buio. Da come cade la luce. Dal terrore e dalla paura. Ma soprattutto dal terrore.

Svoltò e parcheggiò. Le uniformi non c’erano più. L’area era isolata. Due tecnici procedevano carponi sul terreno. Un gruppo di bambini sussurrava e guardava al di là del nastro segnaletico, nella zona più lontana. Gli adulti passavano, si fermavano e proseguivano.

«Trovato qualcosa?» gridò Halders, i tecnici alzarono lo sguardo poi lo riabbassarono senza rispondere. Halders sentì un breve latrato e vide il cane e il conduttore.

«Trovato qualcosa?» ripeté al conduttore cinofilo.

«Zack ha sentito qualcosa laggiù, ma è sparito nel vento.»

«Oppure su un albero», disse Halders, e guardò in alto.

«C’eri anche tu quando l’anno scorso abbiamo preso quel bastardo che aveva cercato di nascondersi sull’albero?» chiese il conduttore.

«Ne ho sentito parlare.»

«Questi alberi sono puliti.»

«Come ha fatto ad andarsene, allora?»

«Correndo, suppongo. Oppure in macchina. Dovrai parlare coi tecnici.»

«Sì.»

«Ma non credo ci siano tracce. Il terreno è troppo secco.»

Halders si guardò attorno. Aneta Djanali stava osservando i tecnici. Il conduttore era ancora lì. Il suo pastore tedesco studiò Halders, poi i tecnici. Halders si guardò ancora attorno e fece due passi.

«Sei già stato qui?» chiese al conduttore.

«Cosa intendi? Per qualche crimine?»

«Non parlo della tua vita privata, Sören. Sei mai stato chiamato qui per uno stupro?»

«In questo parco?»

«Sì. E in questo posto.»

Halders era appena oltre la piccola recinzione, sembrava ridicola, come se l’avessero fatta i bambini che erano lì a osservare. Sulla destra c’era il laghetto. Luccicava di rosa per i fenicotteri che stavano su una zampa sul bagnasciuga.

I tecnici strisciarono intorno a un cespuglio.

Accanto c’erano due alberi. Più o meno a tre metri di distanza. Aceri? C’era una specie di passaggio tra le piante, abbastanza largo da permettere a un essere umano di passare. L’interno era ombreggiato. Un grande blocco di roccia dietro gli alberi formava un anfratto somigliante a una grotta. I tecnici adesso si stavano muovendo all’interno, stavano entrando nella grotta.

Un posto perfetto per uno stupro.

Buon dio, pensò Halders. Adesso lo vedeva. Era LÌ.

La strada asfaltata passava a dieci metri, ma potevano anche essere cento. Mille. C’era una stradina oltre il parcheggio. Una siepe divideva le macchine dal parco, dove l’illuminazione era pessima: era passato di lì cento notti ed era più d’intralcio che d’aiuto. Non l’avevano migliorata malgrado ciò che era accaduto.

Un posto perfetto.

Era come se l’ombra fosse in attesa tra gli alberi.

Non l’aveva capito subito.

«Questo posto?» rispose il conduttore. Si guardò attorno. «No, non credo.» Guardò Halders. «Perché?»

«È già successo», disse Halders.

«Ora non ti seguo.»

«Era qui.» Halders guardò il collega. «Cazzo, Sören, è lo stesso posto. È lo stesso POSTO.»

«Spiegati.»

«Non lavoravi in città cinque anni fa?»

«Sono arrivato quattro anni fa.»

«Ma conoscerai il “caso Beatrice”?»

Il conduttore cinofilo guardò Halders.

«Beatrice? La ragazza uccisa?»

«Cinque anni fa. Prima è stata violentata. Violentata e assassinata.»

«Ne sono al corrente… naturalmente. L’ho letto, all’epoca. Noi avev…»

«È stato qui», disse Halders.

«Qui?»

«È successo qui», disse Halders al conduttore e ad Aneta Djanali, che li aveva appena raggiunti. «Beatrice è stata trovata qui. Proprio qui. Era in quell’anfratto», disse, e fece cenno con la testa verso il posto in cui i tecnici si stavano muovendo avanti e indietro. «Era tra gli alberi. C’è come una grotta, là dentro.»

Stuprata e strozzata con un guinzaglio, pensò. Non abbiamo trovato il guinzaglio, ma è andata così.

Vide il cane seguire il suo sguardo verso la grotta e poi all’indietro; poi l’animale tirò il guinzaglio e si calmò.

3

Winter sentì la stretta della mano intorno al dito. Elsa lo salutò gorgogliando. La baciò dietro l’orecchio, lei rise, le soffio un po’ sul collo e lei rise di nuovo.

Non si era ancora abituato a quella risata e a quel gorgoglio, che poteva fluttuare a lungo nell’appartamento. Sua figlia aveva quasi quindici mesi. I suoi rumori strappavano il silenzio dalle pareti come carta da parati secca. Sorprendente che un corpo così piccolo potesse emettere dei suoni così acuti.

Angela entrò dalla cucina e si sedette su una poltrona. Sbottonò la camicia a quadretti e guardò Winter ed Elsa sulla coperta sul pavimento.

«Colazione», disse.

Winter soffiò dietro l’orecchio di Elsa.

«È ora di colazione», disse Angela.

Elsa rise.

«Non sembra averne molta voglia», disse lui, e guardò Angela.

«Portamela che ti faccio vedere.» Scoppiò a ridere. «Ma questa è l’ultima volta. Non posso continuare ad allattare. Dio mio.»

Portò la bambina ad Angela sulla poltrona. Era ancora leggera, come una piuma.

 

Winter entrò nel proprio ufficio e vide le cartellette sul tavolo. Il sole aveva già scaldato le pareti che profumavano di estate. Due mesi e poi ne sarebbe passato di tempo prima di rivedere tutto questo. Un anno. Avrebbe preso un anno di licenza di paternità, e chi sarebbe stato la prossima volta che sarebbe entrato in quella stanza tetra dove quasi tutti i pensieri erano una sofferenza?

Sarebbe ritornato?

Chi sarebbe stato, allora?

Andò al lavandino e bevve un bicchier d’acqua. Si sentiva riposato. Elsa aveva deciso in fretta di dormire dalle otto di sera fino alle otto del mattino. Lui e Angela erano molto fortunati.

A volte Angela la notte piangeva. I ricordi tornavano, ma sempre più raramente. Non le aveva chiesto cosa fosse successo in quella stanza, in quell’appartamento, i giorni precedenti al suo arrivo. Non come prima cosa, non subito. Lei l’aveva raccontato notte dopo notte, con frasi lacerate.

Adesso i pensieri erano quasi cessati. Dormiva senza interruzioni.

Non erano trascorsi nemmeno quindici mesi.

Si sedette alla scrivania, aprì la cartelletta in cima alla pila ed estrasse i fogli e le fotografie. Ne sollevò una. Il blocco di pietra. Gli alberi. Il prato e il sentiero. Tutto cose note in un modo… deprimente, come una malattia che torna dopo tanti anni. Un cancro che è stato asportato ma che continua a crescere.

Jeanette Bielke almeno era viva. Stavano aspettando il risultato delle analisi.

Si alzò tenendo in mano la fotografia e aprì la finestra. Il sole era dall’altra parte della città. Sentiva i profumi leggeri, quasi senza peso, dell’estate. Pensò a Elsa. Bussarono alla porta e lui gridò «avanti». Sulla soglia c’era Halders, e Winter fece un gesto verso la sedia per i visitatori, ma rimase in piedi alla finestra.

«Si tratta di un rapporto sessuale completo, in ogni caso», disse Halders. «Ho appena ricevuto il rapporto. Tecnicamente, cioè. Ma è comunque uno stupro.»

«Cos’altro dice?»

«Che il racconto della ragazza probabilmente è corretto.»

«Probabilmente?»

Halders alzò le spalle. «Sai com’è.»

Winter non rispose. Halders guardò le cartelle sulla scrivania e le indicò con un cenno della testa.

«Te le sei fatto portare, vedo.»

«Sì.»

«Hai avuto il tempo di guardarle?»

«Solo questa fotografia», rispose Winter sollevandola.

Halders notò anche la fotografia di Beatrice Wägner in uno dei ritagli di giornale vicino al gomito di Winter.

«È una coincidenza?» chiese Halders.

«Il posto? Be’… non è certo la prima volta che qualcuno viene aggredito nel parco.»

«Però non in quel posto.»

«Ma nelle vicinanze.»

«Mai in questo posto», disse Halders. «Tu lo conosci. Io lo conosco.»

È vero, pensò Winter. Conosceva quella zona del parco. Dall’omicidio di Beatrice ci era tornato regolarmente. Era rimasto lì a guardare la gente che andava avanti e indietro. Halders aveva fatto la stessa cosa. Un paio di volte si erano incrociati. Non sei sospettato, aveva mormorato Halders in un’occasione.

Cercavano un volto, un movimento. Un comportamento. Una voce. Un oggetto. Una cintura. Un guinzaglio a strozzo.

Il colpevole torna sempre sul luogo del delitto. Tutti i poliziotti lo sanno. Tutti.

In qualche modo, in qualche occasione, torna sempre. Può tornare dopo cinque anni, o dopo dieci. Per continuare. Oppure solo per stare lì, respirare, ricordare.

Bisognava solo essere lì. Se lui fosse stato lì e chi aveva commesso il crimine fosse arrivato proprio in quel momento sul sentiero e lui, Winter, avesse saputo, veramente saputo, allora non sarebbe stata una coincidenza. Non ha nulla a che vedere con la fortuna. Nulla a che vedere con il caso. E proprio in quel momento, quando aveva ancora la fotografia in mano e stava guardando Halders, che aveva una chiazza di sudore sulla camicia, sotto l’ascella sinistra, proprio in quel momento pensò che sarebbe accaduto. Lui l’avrebbe incontrato e sarebbe stato come se l’incubo si fosse trasformato in realtà. Sarebbe accaduto.

«Il bastardo è tornato», disse Halders.

Winter non replicò.

«Stesso modus operandi.» Halders si passò la mano sui capelli corti. «Stesso posto.»

«Dobbiamo risentire la ragazza.»

«Torna a casa nel pomeriggio.»

«Vai da lei.»

«Sì.»

«E per quanto riguarda i genitori?»

«Disperati.»

«Nulla di strano?»

«Aneta li teneva d’occhio, naturalmente, mentre parlavo con la ragazza.» Halders chiuse un po’ l’occhio sinistro, come se avesse un tic. «No. Il padre tremava e stava chiaramente smaltendo una sbornia, e una cosa del genere non è esattamente d’aiuto per il processo di guarigione.»

Halders guardò Winter.

«È tornato, Erik.»

«Leggerò.»

«Quante vittime aveva fatto, all’epoca? Tre, di cui una è morta?»

«Mmm.»

«Magari è il caso di parlare ancora con le ragazze.»

Winter non replicò. Halders si alzò.

«Fredrik?»

«Sì?»

«Provo esattamente quello che provi tu.»

«Già.»

«Anch’io non riesco a dimenticare Beatrice.»

«No.»

«Non solo perché il caso non è stato risolto.»

«Capisco.» Halders si rimise seduto. «È così anche per me.» Si grattò la testa. Winter vide che anche l’altra ascella aveva lasciato delle tracce di sudore sulla camicia di Halders. «In centrale se ne sono accorti. La gente ne parla.»

«Guarderò il vecchio modello», disse Winter, e fece un gesto verso il materiale sulla scrivania.

«Ce ne sarà un altro», disse Halders. «Uno uguale.»

«Stai calmo, adesso.»

«Sì, sì, ok. Uno stupro alla volta.»

Si sentirono delle sirene da est. Qualcuno stava gridando sotto la finestra di Winter. Una macchina si accese. Halders si massaggiò la testa.

Winter all’improvviso si decise.

«Andiamo. Adesso.»

 

Tutti indossavano calzoni corti o gonne leggere. C’erano più di trenta gradi. Pensò che ci fosse stranamente tanta gente in città. Dovrebbero starsene sdraiati sugli scogli.

«Ci sono i saldi», disse Halders, e indicò verso Nordstan. «I saldi estivi, dove i prezzi sono un sogno e gli acquisti una festa.»

Winter annuì.

«Dovremmo andare anche noi», continuò Halders.

«Già.»

«So che queste cose non ti interessano, ma per un separato con due figli è dura.» Si girò di lato e guardò Winter. «Alimenti pesanti.»

Winter annuì.

«Non che mi lamenti.»

«Che età hanno i tuoi figli?» chiese Winter.

Halders sembrò sorpreso.

«Sette e undici», rispose dopo un attimo.

«Maschio e femmina, vero?» Winter guidava lungo l’Allén. Era da solo nella corsia centrale. Il traffico era improvvisamente sparito. Sbatté gli occhi e le macchine tornarono.

«Eh… sì. Il maschio è il più grande», disse Halders.

«Affidamento condiviso?» chiese Winter.

Halders lo guardò.

«Stanno da Margareta in settimana e da me un weekend sì e uno no.» Guardò verso il fiume e di nuovo verso Winter. «A volte rimangono di più da me. Se facciamo un viaggio insieme, ad esempio. Dipende.» Il viso di Halders si era chiuso, Winter lo vedeva di profilo. «Cerco sempre di inventare qualcosa.»

Winter si fermò al giallo dopo un’occhiata allo specchietto retrovisore. Una numerosa famiglia di turisti attraversò la strada: cartina, occhi sgranati, scarpe comode. Un maschio di forse dieci anni e una femmina di sette li guardarono e proseguirono dietro i genitori, che stavano spingendo un passeggino con due bambini piccoli.

«E a te come va?» chiese Halders. «Con la piccola, intendo. Strilla molto di notte?»

«Per niente.»

«Hannes aveva le coliche», disse Halders.

«Mmm.»

«È stato orribile. Quattro mesi di terrore.»

«Ne ho sentito parlare», disse Winter. Sembra quasi che voglia scusarsi, pensò Halders. Come se l’avesse passata troppo liscia.

«È stato l’inizio della fine», disse Halders, e arrivarono.

 

Il posto era triste come al solito. Allora, cinque anni prima, i tecnici avevano raccolto foglie, erba, pezzi di corteccia. Allora come adesso. All’epoca Winter era ispettore e molto impaziente. Anche Halders era ispettore, ma un po’ meno impaziente, ed era ancora sposato. Tornare a casa tutti i giorni in un appartamento pieno di vita.

Almeno stavolta non è omicidio, pensò Winter. Passarono due donne spingendo i passeggini. Il sole era dietro i rami. Arrivavano le voci dei bambini che facevano il bagno nel laghetto. Un uomo era sdraiato sul prato a cinquanta metri dal luogo del delitto. Oppure dal luogo del ritrovamento, o come si chiama quando si tratta di stupro, pensò Winter; vide l’uomo alzarsi dal prato, vacillare e sedersi di nuovo, alzare un sacchetto e bere in modo classico, senza togliere la bottiglia dal sacchetto.

«E nessun testimone», disse Halders.

Winter guardò l’ubriacone.

«Abbiamo pensato ai barboni?» disse, ma più che altro a se stesso.

«Allora? Non ce n’erano», rispose Halders.

«Adesso.»

«Veramente non lo so», disse Halders.

«Ce ne sono diversi qui.» Winter vide l’uomo che tentava un’altra volta di spostarsi, e riuscì a camminare per un tratto. «Soprattutto adesso, in estate.»

Halders seguì il suo sguardo e tirò fuori il cellulare.

Cinque minuti più tardi una volante svoltò tra i visitatori del parco, e Halders indicò l’ubriacone, che continuava a camminare come su un filo nell’ampio vialetto ghiaiato.

Li videro prendersi cura dell’uomo e condurlo alla macchina.

«Lo sentiamo subito?» chiese Halders.

«Nel pomeriggio», rispose Winter. Andò verso il blocco di pietra e gli alberi, entrò nel passaggio. Stesso posto, stessa grotta.

 

Era sera tardi quando si avviò verso casa. L’Avenyn era piena di gente. Angela lo aspettava all’incrocio. Elsa dormiva. Erano le otto passate.

Era tornato a casa alle due, dopo che lui e Halders erano stati nel parco, e aveva giocato con Elsa sulla coperta, le aveva soffiato dietro l’orecchio.

Entrarono in una delle traverse e dovettero aspettare qualche minuto al tavolo sul marciapiede. Ebbe il tempo di ordinare una birra media alla spina e una bottiglia di acqua minerale per Angela.

«Hai l’aria stanca, Erik.»

«Grazie, grazie.»

«Ti dona.»

«Lo so.»

Bevve la birra, si passò la mano sugli occhi e guardò Elsa. Dormiva con la testa inclinata. Le scendeva la saliva dalla bocca sulla coperta, lui si allungò e la tolse con una carezza solo per poterla sfiorare di nuovo.

Alzò gli occhi e vide Halders dall’altra parte della strada. Halders guardava nella sua direzione e Winter gli fece cenno di attraversare, ma Halders scosse la testa e indicò l’orologio. Poi cambiò idea e li raggiunse. Salutò Angela stringendole la mano e guardò Elsa, che stava dormendo.

«Erik mi ha raccontato del miracolo», disse.

«Sì, lo spero proprio», ribatté Angela.

«Intendo il fatto che dorma bene», continuò Halders, e sorrise. «Dalle otto alle otto.»

«Per ora», disse Angela. «Siediti, Fredrik, facci compagnia.»

Halders guardò di nuovo l’orologio.

«È un ordine», disse Winter.

«In tal caso…» disse Halders, si sedette e fece un cenno alla ragazza col grembiule nero.

Passarono tre ragazze che potevano avere diciotto o diciannove anni e sorrisero a Elsa. Le ragazze sorridono a Winter e Angela e forse anche a me, già che ci sono, pensò Halders.

Qualcuno nel bar accese lo stereo.

Ti desidero al buio stasera. Non vedo l’ora. Mi muovo fluttuando. Fa’ che non finisca mai.

«È vecchia, questa», disse Halders. «I Freestyle. Sono tornati di moda, come tante altre cose.» Bevve come se avesse molta sete. «Sarà un’estate da ricordare. Continuerà così per tutto settembre.»

«Sei un veggente?» disse Angela, e sorrise.

«Purtroppo», rispose Halders, e guardò Winter.

«Ci meritiamo il caldo», disse Angela.

Halders guardò di nuovo Winter.

 

Sapeva di cosa si trattava ancora prima di essersi svegliato del tutto e di allungarsi per prendere il telefono sul comodino. Era ancora parte del sogno, una continuazione della notte tangibile, che si poteva annusare. Era come se sapesse cosa avrebbe detto la voce nella cornetta.

Veggente.

Guardò Angela mentre ascoltava. Riusciva a vedere la testolina di Elsa stesa nel suo lettino.

«Sì, sì», disse nel ricevitore. «Sì.»

Telefonò a Halders. «Voglio che tu venga con me», disse.

«Ci puoi giurare», replicò lui.

Winter guidava nella luce del mattino, che aveva sfumature di latte e spinaci. Proprio così.

Si incontrarono al parcheggio. Halders aveva l’aria molto tesa, era come vedersi in uno specchio.

Avrebbero potuto raggiungere il luogo del ritrovamento con gli occhi bendati. Non c’era nessun altro posto.

Era illuminato da una pallida luce elettrica che fra poco sarebbe stata inutile. I tecnici stavano girando dappertutto. Erano più numerosi del solito. Vide anche più uniformi del solito. Più pubblico del solito. Era diverso fare una… scoperta in novembre alle quattro e in una mattina di luglio, con oltre venti gradi. La gente non era ancora rientrata a casa e gironzolava ai bordi del parco. Winter andò verso gli alberi, il blocco di pietra e il passaggio, e vide le gambe della ragazza come due bastoni bianchi poi vide il resto del corpo, tutto meno la testa, che era ancora nell’ombra.

Avrebbe potuto fermarsi lì, tornare al suo triste ufficio al commissariato, aprire le vecchie cartelle e leggere di quanto era successo. Sapeva che cos’era accaduto e ne ebbe la conferma più tardi, quando l’autopsia fu completata e ricevette tutte le informazioni disponibili in quel momento.

Ma adesso era ancora mattina. Vide il medico, uno nuovo di cui non conosceva il nome. Sembrava giovane. Uscì e lo salutò. Disse un paio di cose al registratore.

Lei aveva smesso di respirare perché qualcuno le aveva stretto la gola così forte da impedirle di farlo. Qualcuno aveva fatto altre cose col suo corpo, non era ancora chiaro cosa.

Il portafoglio era nella borsa, che Winter notò per terra non lontano dalla mano della ragazza.

Allunga la mano e prendi la borsa, pensò. You can do it. Lo puoi ancora fare.

La ragazza aveva diciotto o diciannove anni, più o meno. Avrebbe potuto controllare se avesse voluto, ma non voleva toccare niente, adesso. Lei-aveva-avuto-diciotto-anni. Non sarebbero diventati di più. Mi fermo lì. Non sarebbero diventati più di diciotto, o al massimo diciannove. Nessuna vita da adulta, nessuna famiglia, nessun allattamento, nessun passeggino, nessuna colica, nessun divorzio.

Halders era in piedi vicino a lui. Disse qualcosa a bassa voce a uno dei tecnici. Un uccello notturno fece un verso che a Winter ricordò qualcosa, ma non la situazione. Quella gli era ben nota anche senza l’aiuto degli effetti sonori.

Le torce illuminarono l’anfratto. Vide un viso per terra. Sembrava che, in qualche strano modo, fosse ancora nell’ombra.

Sentì una melodia nella testa. Ti desidero al buio stasera. Il bar all’aperto quella stessa sera. Era passata di là? Era passata proprio di là coi suoi amici? Io volo, fluttuo. Fa’ che non finisca mai. Se non ti prendo adesso, qualcun altro ti prenderà. Lontano da me.

4

La ragazza si chiamava Angelika. I documenti erano nella borsa.

Aveva i capelli scuri e i vestiti in disordine. Tra i capelli aveva alcune foglie e fili d’erba. Era stata sdraiata con la testa come su un cuscino di erba.

Come se qualcuno le avesse costruito un cuscino. Si portò dietro quell’immagine all’autopsia. Pia Eriksson Fröberg, il medico legale, stava già lavorando sul suo corpo. Tante cose gli erano ben note. Il corpo, illuminato. Il camice bianco del medico, anche quello illuminato dalla luce dura proveniente dal soffitto. Le parti del corpo nude. Prive di vita.

Quante volte era rimasto lì in piedi così? Non tante, ma comunque troppe, naturalmente. Una volta di troppo.

Sapeva che era stata strangolata. Un laccio alla gola, impossibile da togliere, da strappare. Pia lo confermò: poteva essere un guinzaglio, un guinzaglio da cane, un guinzaglio a strozzo. Poteva essere una corda. Non un laccio da scarpe.

Solo qualche ora prima avevano ricevuto l’allarme. Lui cosa stava facendo in quel momento? Pensò questo all’improvvisò. Cosa stava facendo proprio in quel momento?

Cos’aveva fatto la ragazza l’ora prima dell’accaduto? Cosa aveva fatto Angelika Hansson?

Aveva bevuto, forse troppo. Forse aveva tenuto qualcuno per mano.

Aveva diciannove anni. Pensò al racconto di Halders su Jeanette Bielke, alla sua testimonianza. Anche lei aveva diciannove anni, aveva finito la scuola da quasi un mese. La maturità liceale, come aveva detto Halders. Jeanette Bielke aveva il berretto da diplomata nella propria stanza, canta i giorni felici della maturità. Angelika aveva il berretto della maturità? Conosceva Jeanette? Avevano amici in comune?

«Era incinta», disse Pia Eriksson Fröberg, avvicinandosi a lui.

Winter annuì senza replicare.

«Senti quello che dico, Erik?»

Lui annuì di nuovo.

«Diventi più taciturno ogni anno che passa.»

Stagione dopo stagione, pensò. Più taciturno, stagione dopo stagione.

«Che mese?» domandò lui.

«Non posso dirlo con precisione», rispose lei. «Ma non di molte settimane.» Tornò a guardare il corpo della ragazza. «Mi chiedo se lo sapesse.»

«Sei sicura della gravidanza?»

«Naturalmente.»

Winter fece due passi verso il corpo. Non sapevano ancora nulla di lei, se non quello che avevano trovato nella borsetta, e gli oggetti erano dal commissario Beier alla scientifica.

Presto sarebbe andato a casa sua. Aveva l’indirizzo. I suoi genitori erano di là, in un’altra stanza illuminata da una luce dura, a pochi metri da lì. Due volti, pallidi dallo shock.

Non aveva visto alcun fidanzato, qualcuno che potesse essere un fidanzato. Nessun altro vicino ai genitori, di poco più vecchi di lui. La gente fa figli a ventidue anni. Angelika era una bambina di quel tipo. Una figlia incinta. Lo sapevano?

 

«Ma che diavolo?» L’uomo era sbiancato. Lars-Olof Hansson, il padre della ragazza. Sua moglie gli stava accanto, la madre di Angelika, Ann. Occhi che si erano rimpiccioliti dal dolore e dalla disperazione. «Che diavolo sta dicendo?»

Winter ripeté ciò che aveva detto.

«Non ha un fidanzato da due anni», disse il padre. Guardò la moglie. «Tu hai sentito parlare di qualche fidanzato, Ann?»

Lei scosse la testa.

«Non può essere», disse lui, e si girò ancora verso Winter. «È impossibile.»

«Non mi ha mai… parlato della cosa», intervenne la madre. Guardò Winter con occhi che si erano fatti più grandi. «Mi avrebbe detto qualcosa.» Poi guardò il marito. «Parlavamo di tutto. Era così, Lasse. Lo sai.»

«Sì.»

«Di tutto», ripeté la donna.

Non lo sapeva, pensò Winter. Non credo che lo sapesse. Non aveva ancora avuto tutti i dettagli da Pia. C’era qualcun altro che forse non sapeva. Non era necessario che fosse un fidanzato in senso stretto. Un partner occasionale, probabilmente. Quanti ne aveva avuti? Guardò i genitori. Tutte domande che avrebbe dovuto rivolgere loro proprio nel momento peggiore. E allo stesso tempo migliore, quando tutto è ancora… fresco. Pensò al corpo della ragazza sul tavolo di metallo nella stanza accanto.

«Dobbiamo sapere tutto dei suoi amici», disse Winter. «Tutto quello che vi può venire in mente, di tutti.»

«Questa cosa della… gravidanza è collegata all’assassinio?» chiese il padre, e guardò intensamente Winter.

«Non lo so», rispose lui.

«Perché fa tutte queste cazzo di domande sulla gravidanza, allora?»

«Lasse…» disse sua moglie.

«Sì?» L’uomo si girò verso di lei.

«Fa il suo lavoro», continuò lei, e all’improvviso Winter pensò che sembrava più forte. «Noi vogliamo sapere.»

Faccio solo il mio lavoro, pensò Winter.

 

Erano seduti nell’ufficio di Halders. Sono stato qui pochissime volte, pensò Winter, chissà perché.

Halders non aveva nulla sui muri, nessun lavandino lungo una delle pareti corte. C’era un gancio sulla parete dietro la porta, ma non c’erano appese né giacche, né giubbotti. La finestra guardava verso l’Ullevi. Lo stadio era in ombra. Non c’erano macchine sulla strada davanti. Nessuno si muoveva. Halders aveva aperto la finestra. Non si sentiva alcun suono, a parte le ventole che facevano correre l’aria tra le stanze.

«Lo Schiller», disse Halders.

«Mmm.»

«Erano trentatré in classe.»

«Sì.»

«Eravate così tanti quando andavi a scuola tu?» chiese Halders, e guardò Winter dall’altra parte della scrivania, dove c’erano due vaschette per la corrispondenza con delle alte pile di documenti.

«Al liceo? In realtà non ricordo quanti fossimo, forse venti.»

«Hai fatto un scuola privata, vero?»

«Purtroppo.»

«È troppo tardi per chiedere scusa», disse Halders.

Winter sorrise.

«Lo Schiller», ripeté Halders. «Liceo sociologico.» Alzò gli occhi verso Winter e poi guardò le carte che aveva davanti. «In realtà non ne ha cavato molto dalla società.» Guardò ancora Winter. «Ci sono nozioni di cui si può fare a meno.»

«Dobbiamo sentire tutti i compagni di classe», disse Winter.

«Molti sono all’estero.»

«Inizieremo da quelli che sono a casa.»

«Gli altri torneranno pian piano», disse Halders. «Quando finirà la vita libera.»

Winter sentì un odore provenire dalla finestra. Vide le bandiere muoversi sulle aste davanti allo stadio. Il vento leggero era girato.

«Che scuola aveva frequentato la ragazza di Långedrag?» chiese Halders. «Jeanette Bielke.»

«Il Rudebeck. Il Sigrid Rudebeck.»

«Quello privato?»

«Sì.»

«Ma non è quello che hai frequentato tu?»

Winter annuì.

«Allora ci pensi tu?»

Winter annuì di nuovo.

«Quanti erano in classe?»

«Venti», rispose Winter, e si alzò. Tornò nel proprio ufficio. Avrebbe bevuto un bicchiere d’acqua e richiamato la sua vecchia scuola. Magari gli avrebbe risposto il suo vecchio coordinatore. Era un uomo abbastanza giovane, all’epoca. Winter sapeva che era diventato preside, l’aveva letto da qualche parte.

Prese in mano la cornetta, ma esitò e riagganciò; si allungò per prendere una delle cartelle e cominciò a leggere. Cercava un particolare in uno dei rapporti. Non sapeva ancora bene cosa, ma l’avrebbe riconosciuto una volta che l’avesse incontrato.

 

Halders tornò dalla famiglia Bielke. Era solo, e li aveva avvertiti in anticipo. Parcheggiò e attraversò la ghiaia. Jeanette era seduta in veranda. Halders si chiese brevemente a cosa stesse pensando.

Lei alzò lo sguardo e lo vide, e sembrò sul punto di star male. Halders la raggiunse.

«Andiamocene da qui», disse.

Lei non si mosse.

«Ti va di fare un giro a Saltholmen?»

Lei si strinse nelle spalle. Irma Bielke uscì sul terrazzo e guardò la figlia.

«Andiamo a fare un giro», disse Halders, ma lei parve non sentire. Sono tutti sotto shock, pensò. L’idillio si è incrinato e la realtà è penetrata anche in questo quartiere.

Jeanette si sedette in macchina, che nel frattempo si era scaldata sotto il sole. Halders accese il motore. Quando inserì la marcia, urtò il ginocchio sinistro della ragazza e lei ebbe un violento sussulto. Lui fece finta di niente, seguì il viale e imboccò la strada.

«Hai un posto preferito da queste parti?» chiese lui, quando si avvicinarono ai pontili e agli scogli.

«Sì…»

«Andiamo a sederci lì?»

Lei si strinse nelle spalle.

Era pieno di macchine. Halders parcheggiò in divieto di sosta di fronte al chiosco dei gelati e attaccò il tesserino sul parabrezza. Passava molta gente, che andava o tornava dagli attracchi delle barche. Un bambino stava piangendo e veniva trascinato dai genitori. Due ragazze più o meno coetanee di Jeanette sorrisero, forse a lui, forse a lei.

«Dovrai indicarmi la strada», disse. «Che ne dici di un gelato, intanto?»

Lei si strinse ancora nelle spalle.

«Ogni volta che ti stringi nelle spalle lo interpretò come un sì», disse Halders.

Lei sorrise.

«Vaniglia», disse. «E crema.»

 

Il gelato cominciò a colare sulle dita di Halders mentre andavano verso gli scogli. Le leccò non appena poté. Lei aveva preso una coppetta.

Si arrampicarono verso la cima e scesero dall’altra parte. Il mare si aprì davanti a loro. C’erano vele dappertutto. Il vento portava con sé un odore intenso di sale. Sugli scogli c’era meno gente di quanto avesse pensato. Nessuno si era messo nel posto della ragazza.

«È qui», disse lei.

Si sedettero.

Lei guardò verso lo stretto canale che conduceva al porto. Dall’altra parte un ragazzo si stava tuffando.

«Ero qui quel giorno», disse.

Halders annuì.

«È irreale», disse lei, e guardò Halders. «Come se fosse un’altra… epoca. Come se fossimo in un altro Paese.» Guardò di nuovo verso l’acqua. «Come se non fosse nemmeno successo. Come un sogno, no?» Guardò di nuovo Halders. Qual è il sogno e qual è la realtà, pensò lui.

«Non riesco a dire cosa è sogno e cosa realtà», disse Jeanette. «Mi piacerebbe sapere cosa è cosa… quale delle due mi è successa… ma non è così.» Halders vide il viso smorto, triste. Qualcosa si era spento per sempre. Si è spenta, pensò. Qualcosa si è spento. Potrei ammazzare quel bastardo. Sì. No. Non è una soluzione. Niente riabilitazione nella buona società.

«Quindi non conosci Angelika Hansson?»

«No, ho detto.»

«Magari l’hai incontrata?»

«Me ne ricorderei, credo.»

Aveva visto alcune fotografie di Angelika. Halders ne aveva una nel taschino, ma non la tirò fuori.

«Anche lei si era appena diplomata», fece lui.

«E quindi dovremmo conoscerci?»

«Non fate una festa tutti insieme?»

«Dice sul serio? Sa quanta gente esce ogni anno dal liceo a Göteborg?»

«No.»

«Neanch’io. Ma abbastanza da non poter organizzare una sola festa.» Guardò Halders. «Si chiama ballo, tra l’altro. Ballo del diploma.»

Il passo successivo è l’udienza dal re, pensò Halders.

Qualcuno si tuffò di nuovo dall’altro lato del canale. Alcune persone passarono sulle rocce sopra di loro.

«Cos’è successo tra te e il tuo ragazzo?»

«Non ha nulla a che vedere con questa storia.»

«Racconta lo stesso.»

«E se non voglio?»

Halders si strinse nelle spalle. Adesso toccava a lui.

Seguì una barca che scivolava lungo il canale, diretta verso il mare. Un uomo a bordo agitò la mano, ma lei non rispose.

«Abbiamo chiuso, semplicemente», disse.

Halders vide che il ragazzo continuava ad agitare la mano, e rispose con un cenno per mettere fine alla questione.

«Presumo che lui non fosse d’accordo.»

«Ora non la seguo.»

«Magari non voleva accettarlo.»

«Da chi l’ha saputo?»

Halders non rispose.

«Non creda a loro», disse lei.

«A chi?»

«A papà e mamma, naturalmente. Gliel’hanno detto loro, eh? Che litigavamo, immagino abbiano detto. O no?»

Halders aspettò a rispondere.

«A loro non è mai piaciuto», disse lei.

«Ma è finita?»

«Sì.»

«Sì?»

«È finita, cazzo. CAZZO!» Lo guardò dritto negli occhi. «Non le è mai successo?»

«Sì.»

«E ha dovuto spiegare come? E perché e dove? A un investigatore?»

«No.»

«E allora?»

«Lo sai perché te lo chiedo», disse lui, e sentì il sole sulla parte calva della testa. Doveva procurarsi un berretto, un normale berretto leggero. Nessun fottuto cappellino da baseball. «Si è presentato un paio di volte a casa vostra e voleva entrare, no?»

«Forse qualche volta. Qualche sera.»

«Era un po’… agitato. Voleva entrare e parlare con te.»

«Era ubriaco», disse lei.

«Perché?»

«Santo cielo.»

«Perché?» ripeté Halders.

Lei sospirò, sospirò davvero.

«Era triste», disse.

«Perché era finita?»

Lei si strinse nelle spalle. Un sì.

«Ma tu volevi che finisse?»

Lei annuì.

C’era qualcosa che non voleva dire. Qualcosa di importante. Cosa?

«E lui non lo capiva», disse Halders. «Che tu volessi chiudere.»

«Non possiamo smettere di parlare di Mattias, adesso? Perché parliamo sempre di lui?»

«L’hai incontrato… dopo?»

«Dopo essere stata violentata?»

«Sì.»

«Lo dica, allora. Violentata. VIOLENTATA.»

Halders vide una donna sulla punta di un altro scoglio perdere l’equilibrio.

«… dopo essere stata violentata», disse.

«No, non l’ho incontrato. Lei sì?»

«No.»

«Credo che lo dovrebbe fare. Chiede sempre di lui.»

«Incontrerò Mattias. Domani.»

«Tempo sprecato», replicò lei. «Non è stato lui, se è questo che pensa.»

 

Winter stava leggendo. Ricominciava con Jeanette Bielke? Continuava con Angelika Hansson? Sarebbe continuato?

Avvertì la solita sensazione d’impotenza. Speculare sui crimini che venivano commessi. Su quelli che aspettavano di essere commessi. Che aspettavano di essere commessi.

Ma c’era qualcosa di diverso. Pensava che fosse la stessa persona ad aver violentato Jeanette Bielke e ucciso Angelika Hansson. A volte era più di un semplice sapere, era un aiuto, un sostegno.

Un altro crimine aspettava di essere commesso, e davanti a sé sulla scrivania aveva il risultato di ciò che era accaduto finora. Aveva tirato fuori tutto il vecchio materiale su Beatrice Wägner. La sensazione sgradevole di imbattersi di nuovo in un crimine orribile. Come un appuntamento al buio.

Il ricordo ancora fresco della voce del padre di lei; era passato solo qualche mese. Si erano mantenuti in contatto negli anni. Winter non sapeva a vantaggio di chi.

Finché parlo con qualche parente, questo caso non potrà essere archiviato.

Adesso abbiamo una seconda chance.

Il cellulare sul tavolo squillò. Vide sul display che era sua madre, direttamente da Nueva Andalucía, sulle montagne sopra Marbella. Una casa bianca con tre palme nel giardino. Terrazza, luce e ombra. Era stato lì due anni prima, nel millennio precedente, quando suo padre era stato sepolto ai piedi della Sierra Blanca.

«Come state lì al caldo?»

«Tu come stai?» rispose Winter.

«Dicono in televisione che fa più caldo in Scandinavia che nella Spagna del Sud», disse lei.

«Allora si invertirà il flusso turistico», replicò lui. «Gli spagnoli verranno qui per il sole.»

«A me sta bene.» Sentì un tintinnio e guardò l’ora. Erano le cinque passate: The Cocktail Hour. Happy Hour. Era ora di un Martini molto secco e molto freddo. Me ne prenderei uno anch’io.

«Cosa fai per il resto?» chiese lui.

«Non molto.»

«Lotta diceva che vorresti che venissimo giù a settembre.»

Sua sorella gliel’aveva detto il giorno prima. Un ritrovo di famiglia sulla Costa del Sol.

«Dovete venire. Voglio abbracciare Elsa. E anche voi, naturalmente.»

«Basta venire a casa.»

«I bambini trovano così divertente venire qui», disse lei.

«Quali bambini, oltre a Elsa?»

«Cosa stai dicendo? Le figlie di Lotta, naturalmente.»

«Sono adolescenti.»

«Dai, non fare così, Erik.» Sentì di nuovo il tintinnio dei cubetti di ghiaccio e pensò all’acqua, al bagno e a un drink. «Come sta Elsa?»

«Parla e sta in piedi.»

«Parla molto?»

«Tutto il giorno.»

«È fantastico.»

«Sì, vero?»

«Farà strada.»

«Per adesso è ferma. Ha fatto una piccola pausa nello sviluppo.»

Di nuovo il fresco tintinnio del ghiaccio. La sensazione di frescura nel corpo. Aveva bisogno di un drink.

«Fra poco correrà per tutto l’appartamento.»

Winter non replicò.

«Ma adesso dovete davvero iniziare a pensare a una casa, Erik.»

«Eh, sì.»

«Se non altro per Angela. Lo capisci, vero? Non potrà continuare a trascinare bambini e carrozzine e dio sa cosa per le scale.»

«C’è l’ascensore.»

«Sai cosa voglio dire.»

«Siamo in due a trascinare.»

«Erik.»

«Ci troviamo bene in città.»

«Davvero si trova bene anche Angela?»

Non rispose. Non era un problema. I pensieri tornarono sull’altra questione. C’erano altri problemi.

La porta si aprì. Halders entrò senza bussare.

«Ho visite», disse Winter, salutò e chiuse la chiamata.

5

Halders era rosso in fronte, dove una volta c’era l’attaccatura dei capelli. Chiuse la porta dietro di sé e si passò la mano sulla testa.

«C’è un caldo record là fuori», disse, e si sedette di fronte a Winter. Aveva rosse anche le orecchie, che erano a sventola e davano al suo viso un tocco di dolcezza.

«Hai preso il sole?»

«Sì», disse Halders, e si grattò la fronte. «Con Jeanette Bielke. Nel suo posto preferito sugli scogli.» Guardò Winter e si strofinò l’orecchio sinistro. «Anche se pare che non lo sia più.»

«Ha detto qualcosa?»

«Abbiamo parlato del suo boyfriend.»

«Sì?»

«O ex boyfriend. Anche se sembra che lui non lo voglia accettare. Mattias Berg. Si chiama Mattias Berg.»

«Lo so.»

«Non vuole lasciarla anche se lei ha deciso di lasciarlo.»

«Non è insolito», disse Winter.

Mi è successo. Tanto tempo fa. Da qualche parte, una volta, bussavo a una porta che nessuno voleva aprire. Allora mi sembrava una questione di vita o di morte.

«No», disse Halders, «non è insolito. Ma voglio parlare col ragazzo.»

«Certo», replicò Winter, si alzò e andò verso il lavandino. Prese un bicchiere da uno scaffale e lo riempì d’acqua. «Ne vuoi?»

«Sì, grazie», rispose Halders. Winter gli passò il bicchiere e lui si allungò sulla scrivania per prenderlo. Vide il referto del medico legale sul piano, il referto su Angelika Hansson.

«L’ho appena ricevuto», disse Winter.

Halders annuì e bevve.

«Lo stupro non è stato completato.»

«Solo un omicidio», disse Halders.

«Ci ha provato», disse Winter. «Così sembra, in ogni caso.»

«Non gli tirava», disse Halders.

Winter si strinse nelle spalle.

«Allora aspettiamo solo l’Insf», concluse Halders.

L’Insf, pensò Winter. Spesso aveva dovuto attendere il rapporto dell’Istituto nazionale di scienze forensi di Linköping. Analisi del Dna che non avevano dato risultati. Analisi che ne avevano dati. Vale sempre la pena aspettare. Il lavoro consiste nell’attesa, e la cosa difficile è tentare di trovare altre strade nel frattempo. Mai fidarsi completamente che le analisi tecniche e chimiche possano chiarire tutti i misteri. Si era trovato con delle risoluzioni tecniche di misteri che spiegavano come, chi e dove, ma non perché. Sarebbe dovuto andare via da lì con il grande perché? Come un ricordo impossibile da dimenticare.

«L’Insf? Ci può dire se si tratta dello stesso bastardo», disse Halders. Bevve ancora un po’ d’acqua, e sbuffò spostando il peso del corpo sulla sedia. «Credi che si tratti dello stesso stronzo?»

Bastardo e stronzo, pensò Winter.

«Cosa intendi?» chiese lui.

«Che ha stuprato entrambe le ragazze.»

«Sì.»

Non avrebbe voluto rispondere, ma il suo «sì» arrivò automaticamente, come se desiderasse inconsciamente che avessero qualcosa su cui lavorare già adesso, all’inizio dell’indagine.

«Prossima domanda: lo stesso stronzo che ha ucciso Beatrice?» disse Halders.

«Non lo so.»

«Ho chiesto cosa ne pensavi.»

«Non posso ancora rispondere», disse Winter, e prese il referto di Pia Eriksson Fröberg. «Invece è fuori discussione che Angelika Hansson era incinta. Probabilmente alla settima settimana.»

«Sembra presto», disse Halders. «Settima settimana.»

«È presto. Lei avrebbe dovuto saperlo alla quinta.»

«Sempre supponendo che avesse sospettato qualcosa», disse Halders. Si alzò e andò verso il lavandino a riempire il bicchiere di acqua. Winter vide un rossore sulla nuca.

«Ho parlato con Pia», disse Winter. «Non ha avuto le mestruazioni dopo la quinta settimana, e se era appena normale, allora avrebbe dovuto sospettarlo.»

«Alcune reprimono quelle cose», disse Halders.

«Vuoi dire che siccome i genitori non lo sapevano, non lo sapeva neppure lei?»

«Non lo so. Ma in ogni caso non ha detto niente. Se lo sapeva, se l’è tenuto per sé.»

«Forse non del tutto», disse Winter.

«Stai pensando al padre del bambino?»

Winter annuì.

Il padre, pensò Halders. Probabilmente un diciannovenne pallido, alto. Senza un’idea di dove stia andando nella vita. Oppure è qualcosa di molto peggio, ed è ciò che stiamo cercando.

Winter pensò al padre. Avevano il massimo degli uomini di cui potevano disporre per interrogare amici, conoscenti, compagni di classe. La famiglia. Parenti. Testimoni. Testimoni di tutti i tipi. Tassisti, che in passato erano ottimi testimoni ma adesso erano pessimi testimoni, perché non vedevano e non sentivano mai niente, perché non avrebbero dovuto prendere quella strada quella sera, perché non avrebbero affatto dovuto guidare visto che lavoravano in nero. Eccetera eccetera.

«Magari lui non lo sa», riprese Winter. «Se lei effettivamente non lo sapeva, allora non lo sapeva nemmeno lui. Oppure lei lo sapeva… l’aveva appena saputo, ma lo teneva per sé e forse così sarebbe rimasto. Se capisci cosa intendo.»

«Aborto», disse Halders.

Winter annuì.

«Ma almeno sa che è morta», continuò Halders. «Non è stato possibile tenerlo segreto. Non può essergli sfuggito.»

«Se si trova in Svezia.»

«In caso contrario si farà sentire quando torna», disse Halders. «Se non siamo riusciti a scoprire il nome prima.» Guardò Winter. «Dovremmo scoprire il nome. Scopriremo il nome.»

«Sì.»

«Se non si fa vivo, è nei pasticci.»

Forse più di quel che crediamo in questo momento, pensò Winter.

Il cellulare di Halders squillò nel taschino. Winter guardò l’orologio. Mancavano pochi minuti alle quattro del pomeriggio. All’improvviso desiderò andarsene, da Angela ed Elsa e verso un bagno serale, verso vita e speranza. Via da tutte le ipotesi sulla morte e dalle vite incomplete. La vita di Angelika Hansson era come il primo capitolo di un libro e il suo bambino mai nato era…

«Sento male», disse Halders ad alta voce, e si alzò. Corrugò la fronte, che diventò rossa a strisce bianche. «Ripeta, per favore.»

Winter vide l’espressione di Halders cambiare quando cominciò a capire cosa gli diceva la voce al telefono.

«Che caz…» esclamò. «Che caz…»

Fece una smorfia come se non avesse più il controllo dei muscoli facciali. Aveva un aspetto molto singolare. Winter capì che era successo qualcosa di grave. Che non riguardava l’indagine.

«Sì… certo», disse Halders. «Vado subito.» Chiuse la telefonata e guardò Winter con una nuova espressione nel viso, ora pallido. Quasi grigio.

«La mia ex moglie», disse con una voce che Winter non aveva mai sentito. Halders continuava a guardarlo. «La mia ex moglie. Mar… Margareta. L’hanno investita un’ora fa sul marciapiede ed è morta.»

Si passò la mano sulla testa, si grattò di nuovo la macchia rossa sulla fronte. Nulla adesso sarebbe più stato come prima.

«Su un cazzo di marciapiede, capisci? Su un marciapiede davanti a un supermercato a Lunden.» Fece un gesto verso la finestra. «Non è nemmeno lontano da qui.» I muscoli del suo viso si mossero di nuovo, senza controllo.

«Cos’è successo?» chiese Winter, che non aveva idea di cosa dire.

«Investita», rispose Halders con una voce strana. «Un pirata della strada.» Guardò oltre Winter, fuori nella bella luce del pomeriggio. «Chi altri, eh?»

«È… confermato? Che è… morta?» domandò Winter. «Chi ha telefonato?»

«Cosa?» disse Halders. «Cos’hai detto?»

«Dove dobbiamo andare?» chiese Winter, e si alzò. Halders era immobile. Aveva dei tic in viso. Cercò di dire qualcosa, ma non gli uscirono le parole. Poi guardò Winter, aveva lo sguardo fisso e lui si alzò.

«All’Östra», disse. «Vado adesso.»

«Guido io», ribatté Winter.

«Ce la faccio», disse Halders, ma Winter lo precedette fuori dalla porta, scesero in ascensore e uscirono nel parcheggio. Halders si sedette vicino a Winter senza dire una parola, e Winter si diresse verso est.

 

Un annuncio brutale, pensò Winter. Per usare un eufemismo. Non potevano dire che era gravemente ferita… Chi aveva parlato con Halders?

Aveva sentito una barzelletta sull’argomento, una volta. Gli venne in mente all’improvviso, quando in macchina si fece buio all’ombra delle alte case lungo il vialone.

La barzelletta parlava di un uomo che va all’estero e telefona a casa, il fratello gli dice subito che il suo gatto è morto. Lui risponde dicendo: non puoi dare degli annunci così brutali all’improvviso. Potevi dire che il gatto era sul tetto… Il gatto era sul tetto, sono arrivati i vigili del fuoco, e anche la polizia, e tutti hanno fatto il possibile per far scendere il gatto, finalmente ci sono riusciti, ma il gatto è scappato e saltando si è ferito, così l’hanno portato all’ospedale, un team di medici l’ha operato per tutta la notte, ma alla fine ha dovuto constatare che la vita del gatto non si poteva salvare. Così bisogna raccontare un fatto tragico. Dissimularlo un po’. Il fratello dice di aver capito e si salutano; qualche giorno dopo l’uomo chiama ancora a casa e il fratello gli dice che è appena accaduta una cosa triste, solo poco prima. Cosa? Chiede l’uomo. La mamma era sul tetto, risponde il fratello.

Winter non rise. Halders era silenzioso. Proseguirono sulla strada, uscirono alla rotonda verso l’ospedale. Winter sentiva il sudore sul fondo schiena. Il traffico era intenso, vacanzieri che rientravano dopo una giornata sugli scogli sulle grandi isole a nord oppure sui laghi a est.

«I bambini non lo sanno ancora», disse Halders.

Winter aspettò che continuasse, mentre entrava nel parcheggio dell’ospedale. Le ombre erano lunghe e nette.

Non sapeva quasi nulla della famiglia di Halders, solo che il collega era divorziato da qualche anno e aveva due figli.

«Ho due figli», disse.

«Lo so.»

Ne avevano parlato, ma Halders l’aveva scordato.

«Sono a scuola adesso, CAZZO!» urlò all’improvviso.

Winter parcheggiò. Halders scese dalla macchina prima che fosse ferma e cominciò a corricchiare verso uno dei padiglioni dell’ospedale.

Era un estraneo per Winter, e allo stesso tempo come un membro della famiglia.

Proprio così, pensò quando vide la sua sagoma sfrecciare sull’asfalto, attraverso la luce del sole, e poi oscurarsi all’ingresso del pronto soccorso. Halders era diventato allo stesso tempo più estraneo e più vicino. Winter provò una nuova sensazione di irrealtà, come se fosse entrato in un sogno. Non riuscì più a vedere Halders e non sapeva cosa fare.

Era appena stato lì, aveva accompagnato la Hansson dal parco in centro alla sua ultima visita. E adesso era lì di nuovo.

 

Halders era in piedi vicino alla barella. Il viso di Margareta era ancora come lo ricordava dall’ultima volta.

Solo tre giorni prima. Domenica. Era stato da Burger King con Hannes e Magda, Margareta gli aveva aperto la porta con un sorriso, lui aveva detto qualcosa e se n’era andato senza entrare in casa. Quella volta. Non perché non fossero amici. Era passato tanto tempo. Tanto tempo da quando era un idiota. Era ancora un idiota, ma in passato lo era in un modo diverso.

Non riusciva a vedere il resto del corpo sotto tutto quel bianco, e non lo voleva nemmeno. Pensò a Hannes e Magda mentre pensava a Margareta. Pensò alle ragazze morte nello stesso momento e bastò questo perché cominciasse a sprofondare verso il pavimento, perdesse l’equilibrio, lo ritrovasse, andasse verso la barella, si chinasse sul viso di Margareta, trattenesse l’attimo, come se sapesse che era l’ultimo.

Adesso è successo a me, pensò. È successo a me sul serio. Non è una visita nelle disgrazie altrui. Questa è mia.

Accarezzò la guancia di Margareta.

C’era stata una prima volta.

Quel dannato pensiero.

Lei aveva diciannove… no… sì, diciannove anni. Era come le ragazze di cui lui e Winter stavano parlando solo mezzora prima.

Lui ne aveva ventidue, uno sbirro di merda che aveva quasi finito la scuola di polizia.

Le accarezzò di nuovo la guancia.

Il divorzio non aveva significato nulla. Non in quel senso. Non si era intromesso in quel senso.

Qualcuno disse qualcosa. Lui non ascoltò, rimase in ginocchio vicino alla barella, intendeva restare lì a lungo.

Sentì una mano sulla spalla e alzò lo sguardo verso Winter.

 

Quando la sera Winter rientrò a casa era ancora chiaro come se fosse giorno. La luce da fuori illuminava l’appartamento. C’era profumo di cibo nell’ingresso, ma non aveva più fame.

Aveva chiamato Angela qualche ora prima.

Entrò da Elsa e pensò di svegliarla, ma si accontentò di annusarla, e di ascoltare.

Angela lo stava aspettando in cucina con un po’ di vino.

«Prendo un whisky», disse Winter, e andò al banco della cucina, tirò fuori una delle bottiglie e se ne versò qualche centimetro in un bicchiere grande. Nessun bicchiere sottile da whisky al malto, adesso.

«Ohi.»

«Puoi finirlo tu, se non riesco a berlo tutto.»

«Non voglio diventare un’alcolizzata solo perché ho appena smesso di allattare.»

«Cin cin», disse Winter, e bevve. Angela alzò il bicchiere di vino.

«Hai fame?»

Winter scosse la testa, sentì la forza del whisky in corpo, si sedette a tavola e guardò Angela, che era un po’ rossa sulle guance. Faceva caldo in cucina.

«Come sta Fredrik?» chiese lei.

Winter fece un gesto con la mano. Halders è ancora tra noi. Non è crollato del tutto.

«Cosa succederà ai bambini?»

«Cosa intendi?»

«Quello che ho detto. Come stanno i bambini?»

«Hai chiesto “cosa succederà ai bambini”. È ovvio, no? Staranno con Halders.»

Angela non disse niente.

«Credi che non ce la faccia?» disse Winter.

«Non ho detto questo.»

«Mi sembrava.»

Angela non rispose. Winter bevve di nuovo.

«Sono nella casa a Lunden», disse lui. «Halders ha pensato che fosse meglio così. In questo momento.»

«Lo penso anch’io.»

«Era composto», disse Winter. «O come si può dire. Quando siamo partiti dall’Östra per andare alla loro scuola.»

Angela bevve un piccolo sorso di vino, chiuse gli occhi, pensò ai figli.

«È stato tremendo», continuò Winter. «Un’esperienza terribile. Un insegnante è rimasto con loro a scuola finché non siamo arrivati.» Bevve di nuovo. Non sapeva più di niente, solo di alcol. «È successo mentre erano ancora a lezione, dunque… be’, erano ancora lì.»

«Li hai portati a casa?»

«Sì.» Winter guardò l’ora. «Ci sono volute un paio d’ore.»

«Naturalmente.» Lei si alzò e andò ai fornelli e spense la ventola. Tornò il silenzio. Winter sentì dei rumori giù in cortile. Bicchieri. Voci. «Ma adesso non saranno mica lì da soli?»

«C’è Hanne», disse Winter. Aveva telefonato al pastore della polizia. Hanne Östergaard. Lei era brava a parlare. Conforto, forse. Lui non lo sapeva. Sì. Conforto. «Halders non ha protestato quando gliel’ho proposto.» Sentì ancora le voci, più forti, ma nessuna parola comprensibile. «Hanne doveva telefonare a uno psicologo, credo. Ne hanno parlato, almeno.»

«Bene.»

«Ed è arrivata Aneta.»

«Aneta? Aneta Djanali?»

«Sì.»

«Perché?»

«Le ha telefonato Halders. È venuta subito.»

«Lavorano inseme?»

«Quasi sempre.»

«Ma non hanno un rapporto abbastanza teso?»

«Da cosa lo deduci?»

«Dai, Erik. Abbiamo avuto a che fare con loro per un po’. A volte anche tu hai accennato alla cosa.»

«Ah… probabilmente era così per dire.» Sollevò il bicchiere e vide con stupore che era vuoto. Si alzò e andò verso la bottiglia. «Evidentemente adesso ha bisogno di lei.» Si versò un altro centimetro e mezzo di whisky. «Non è bene stare da soli, lo sai. Con i bambini.»

«Nessun parente?»

«Non in città, in ogni caso.»

Angela stava guardando fuori dalla finestra quando lui tornò a sedersi. Fuori il cielo si stava oscurando e c’erano delle strisce gialle di luce sui tetti delle case. Sentì delle voci e un tintinnare di bicchieri dal cortile.

«Penso di continuo ai bambini», disse, e si girò di nuovo verso Winter. «Erano sconvolti?»

«No. Almeno non all’apparenza. Molto silenziosi. Sarà lo shock.»

Qualcuno rise forte giù in cortile, più persone. Winter si alzò e andò alla finestra. Un gruppo di amici era seduto quattro piani più sotto e si stava divertendo nella serata estiva. Chiuse la finestra ma rimase lì.

Cosa sarebbe successo adesso? Aveva bisogno di Halders, ma non avrebbe pensato al suo aiuto un minuto di più, se avesse deciso di rimanere a casa. La decisione spettava solo a lui. Non lo avrebbe influenzato.

Siamo esseri umani, innanzitutto.

Tornò da Angela e al whisky.

6

Faceva caldo nella stanza, l’afa estiva. Niente vento fuori, niente da lasciar entrare nella stanza per cambiare l’aria che si appiccicava sulla pelle.

Winter guardò la pila di raccoglitori davanti a sé, carte, fotografie. C’erano delle stampe fresche che Möllerström aveva fatto dagli hard disk, ma la maggior parte aveva il tanfo del passato. Cinque anni prima, un’altra estate. Beatrice Wägner. Gli incartamenti sulla sua morte violenta sapevano di polvere e buio, davano una falsa impressione di pace, così invadente che gli fece quasi accantonare quel fascicolo sull’omicidio e prendere quello nuovo, quello su Angelika Hansson che aveva appena iniziato.

Rapporti sulla morte raccolti per essere letti in eterno, continuamente. Nessuna pace.

Aveva richiesto un raccoglitore particolare con i ritagli dei giornali. Toccò la carta e gli sembrò che avesse cento anni.

Si alzò, si piazzò vicino alla finestra aperta e accese un Corps. Il sigaretto sapeva di pulito e di leggerezza dopo aver sfogliato quei vecchi documenti. Era il terzo della mattina. Ne fumava oltre venti al giorno, a volte di più. Ognuno poteva essere l’ultimo. Niente più fumo a casa, il che rappresentava un buon progresso. Un altro: la Corps Diplomatique era una marca in via d’estinzione. Il suo tabaccaio l’aveva avvertito. Ogni pacchetto poteva essere l’ultimo, ma Winter non era il tipo da fare scorte. Quando non ci sarebbero più stati Corps, avrebbe smesso.

Tirò una boccata e seguì il traffico rado oltre il fiume. Tram, autobus, macchine, di nuovo tram, pedoni. Era quasi ora di pranzo, e la luce del sole non gettava ombre.

Quando non ci saranno più i Corps, smetterò, pensò di nuovo.

Quando non ci saranno più cadaveri, smetterò. Ah!

Tornò alla scrivania. Aveva deciso di ripercorrere il «caso Beatrice» dall’inizio, facendo passare tutte le testimonianze, i resoconti. Se ci fosse stato qualcosa che sarebbe stato loro utile adesso, lui l’avrebbe trovato. Cerca di trovarlo. No. Trovalo.

Beatrice Wägner viveva con i genitori a Påvelund, nella zona ovest della città. Non più di un chilometro a sud della villa di Långedrag dove abitava Jeanette Bielke.

E da Påvelund alla villa di Önnered, dove viveva Angelika Hansson, pensò Winter, non c’erano più di due chilometri. Dritto a sud.

Si alzò di nuovo e andò verso la mappa della città appesa alla parete e seguì con il dito una linea che andava dritta verso nord, dall’indirizzo di Angelika passando per quello di Beatrice e finendo a casa di Jeanette. Una linea retta. Era strano, ma non doveva necessariamente significare qualcosa. Probabilmente non significava nulla.

Rimase vicino alla mappa. Beatrice Wägner aveva frequentato il liceo di Frölunda. Come Angelika e Jeanette si era diplomata. Lo stesso indirizzo sociologico delle altre due. Era rimasta in città quando la maggior parte degli altri se n’erano andati. Adesso non riusciva a ricordare se avesse avuto un lavoro estivo. Jeanette no. Angelika lavorava in un magazzino.

Tre ragazze, tutte di diciannove anni. Appena diplomate. Due quest’estate e una l’estate di cinque anni prima. Tre scuole diverse. Jeanette aveva detto di non conoscere Angelika. Ma Beatrice? Glielo doveva chiedere. Non era impossibile. Abitavano abbastanza vicine l’una all’altra, nei quartieri di ville non lontano dal mare.

Era sempre stato così? Avevano frequentato le elementari insieme? Le medie? Stai calmo, Erik. Non c’è il tempo di trovare una risposta a tutte le domande, adesso.

Beatrice e Angelika si erano conosciute? La risposta doveva trovarsi nei fascicoli dell’indagine.

Tre ragazze. Una viva e due morte.

Era in piedi davanti alla mappa. Se avesse raggruppato tutte le domande in una sola – la Domanda – sarebbe stata questa: c’è un unico assassino?

Lo stesso bastardo? come aveva detto Halders. L’aveva incontrato anche Jeanette?

 

Winter stava leggendo. Fumava alla scrivania, adesso. Seguì Beatrice durante le sue ultime ore. Era stata in città con gli amici. E basta? Non era del tutto chiaro. Poco dopo l’una di notte si erano separati. Domenica mattina presto. Erano in gruppo, in cinque, e si erano fermati a un Seven Eleven a cinquecento metri dal parco, e lì, fuori dal negozio, oppure dentro, era successo qualcosa che aveva fatto sì che Beatrice lasciasse la compagnia.

Winter lesse il fascicolo delle testimonianze. C’era una leggera patina torbida sulle parole, come se la memoria di quei giovani non funzionasse bene. Winter sapeva perché, l’aveva visto centinaia di volte. Erano semplicemente ubriachi, o alticci in vari stadi, poi l’alcol aveva iniziato ad abbandonare il corpo, era sopraggiunta la stanchezza e i sensi non erano all’erta, sono cose che possono far irritare una persona, ed era successo qualcosa davanti al negozio. Beatrice si era arrabbiata e se n’era andata. Sì, ricordavano che si era arrabbiata, ma nessuno di loro ricordava più il perché. Forse voleva fumare all’interno del Seven Eleven, forse in quel momento odiava tutto il mondo, in un momento di ebbrezza.

Aveva alcol in corpo, una dose non elevata. Forse c’era qualcos’altro.

Si era allontanata verso il parco. La compagnia l’aveva vista andarsene. Lasciatela andare. Fra poco torna.

Erano entrati nel negozio, ma quando erano usciti Beatrice non era tornata. L’avevano chiamata, erano andati verso il parco e l’avevano chiamata ancora.

Erano tornati indietro. Sarebbe ricomparsa. Era dall’altra parte. Aveva preso il bus notturno. Era già a casa di Lina ad aspettare. È lì seduta ad aspettare, aveva detto Lina in quella notte di cinque anni prima, poi era arrivato il bus notturno e… be’, erano saliti e avevano guardato dai finestrini lungo tutta la strada passando dal parco, e Beatrice non si era vista, il che dimostrava che li stava aspettando da Lina. Vero?

Beatrice non stava aspettando. Era sempre stata tra gli alberi. Forse. Era sicuramente lì alle 11.45 di domenica mattina, dietro il verde all’ombra del blocco di pietra: nuda e assassinata. Il sole era alto, alla stessa altezza di adesso.

I vestiti erano ammucchiati vicino a lei. Winter lesse quali vestiti indossava quella sera, quelli che le erano stati strappati dall’assassino. C’era tutto nell’elenco, ma non era quello che stava cercando. Lui cercava ciò che mancava. A volte mancava qualcosa che la vittima aveva con sé e che l’assassino aveva portato via.

Nel caso di Beatrice si trattava della cintura.

Winter lo scoprì nell’interrogatorio con gli amici e, più tardi, nel colloquio con i genitori.

Beatrice portava una cintura di cuoio che non era stata trovata tra i vestiti buttati in un mucchio disordinato vicino al suo corpo.

Uno degli investigatori che aveva condotto uno degli interrogatori, aveva chiamato la cintura «girovita». La parola era diventata come fosforescente sulla carta quando Winter la lesse. Girovita. Un giro intorno alla sua vita.

Poteva essere l’oggetto che l’assassino aveva usato per strangolarla, con cui le aveva tolto la vita. Non erano sicuri al cento per cento, dato che non avevano trovato il girovita, la cintura.

Winter prese l’altro fascicolo. Quello su Angelika. Cercò l’elenco dei vestiti. Maglietta, shorts, calze, mutande, reggiseno. Nastro per i capelli. Scarpe da ginnastica, modello da basket. Reebok. Niente cintura. Non serve per gli shorts?

Qualcuno aveva fatto domande sui vestiti che indossava? Non riuscì a trovare alcun appunto su una cintura. Lesse il referto di Pia Eriksson Fröberg. Angelika potrebbe essere stata strangolata con una cintura di cuoio. Alzò la cornetta e compose il numero diretto di Göran Beier alla scientifica. Nessuna risposta. Chiamò il laboratorio principale. Beier rispose dopo due squilli.

«Sì, ciao, sono Erik. Pensavo di disturbarti un paio di minuti.»

«Prego.»

«Sono qui con l’“indagine Wägner”. Beatrice.»

«Sì.»

«Eri in servizio all’epoca?»

«Beatrice Wägner? Sì, credo che fosse… quattro anni fa? Cinque?»

«Cinque anni. Quasi esatti, tra l’altro.»

«In ogni caso non si dimentica.»

«No.»

«Abbiamo fatto il possibile.»

A Winter parve di sentire un sottinteso nelle parole di Beier.

«Non mi sono arreso», disse lui.

Beier non rispose.

«È per questo che telefono», continuò Winter. «Forse c’è un collegamento.»

«Dunque?»

«Ti ricordi che Beatrice aveva una cintura, che evidentemente portava sempre, e che è sparita dopo l’assassinio?»

«Naturalmente.»

«Te lo ricordi?»

«Te l’ho appena detto. Qualche suo amico aveva anche fatto dei commenti in proposito, la stessa sera in cui è… sparita», disse Beier. «L’ho letto nell’indagine preliminare.» Fece una pausa. «Ora che ci penso, credo perfino che fossi stato tu a firmare il documento. Tanto è buona la mia memoria.»

«Ce l’ho qui davanti», disse Winter, e toccò il foglio. Lesse la propria firma: Erik Winter, ispettore dell’anticrimine.

«Era prima dei gloriosi tempi da commissario», disse Beier, «sia per me sia per te.»

Winter non rispose.

«È stato Birgersson a condurre l’indagine?»

«Sì.»

«Ricordo che abbiamo fatto una chiacchierata su quella cintura», disse Beier.

«E a cosa ha portato?»

«Solo al fatto che pensavamo che la cintura fosse stata utilizzata per l’omicidio. Però non l’abbiamo mai trovata.»

«E adesso si tratta di Angelika Hansson», disse Winter.

«Ho saputo da Halders che forse vedete un collegamento», disse Beier.

«Potrebbe esserci.»

«Oppure no.»

«Potrebbe anche esserci una cintura», disse Winter.

Beier restò in silenzio. Winter aspettò.

«Capisco cosa vuoi dire», riprese Beier dopo un istante di silenzio.

«Si può verificare se Angelika Hansson usava una cintura per gli shorts che indossava quella sera? Una cintura?»

«L’abbiamo già constatato», rispose Beier.

«Tu che ne pensi?»

«Non li leggi i rapporti? Allora che senso ha…»

«Quando li hai spediti?»

«Ieri, credo. Sarà… aspetta, qualcuno mi sta dicendo qualcosa.» Winter sentì Beier parlare con un collega. Poi tornò al telefono. «Scusami, Erik, ma Pelle mi dice che non li ha ancora spediti. Voleva controll…»

«Ok, ok. Ma ce l’aveva una cintura o no?»

«Se mi chiedi se abbiamo verificato la possibile presenza di una cintura nei passanti intorno alla vita, la risposta è sì. Proprio intorno agli shorts abbandonati vicino al corpo. Questo l’abbiamo stabilito. Non è complicato.»

«Ma non ho trovato alcuna cintura nell’elenco delle cose presenti nel mucchio», disse Winter.

«No, dato che non abbiamo ritrovato alcuna cintura.»

«Quindi l’ha portata con sé», disse Winter, ma più che altro a se stesso.

Beier non replicò.

«Angelika Hansson dunque potrebbe essere stata strangolata con la propria cintura», disse Winter.

«È possibile.»

«Proprio come Beatrice Wägner.»

«Capisco dove vuoi arrivare», disse Beier. «Ma stai calmo.»

«Sono calmo.»

 

Restò calmo ancora un’ora, mentre il sole continuava a spostarsi nel cielo senza nuvole. La stanza era piena di fumo, lui continuò a seguire le ore e poi i giorni successivi all’omicidio di Beatrice Wägner.

I testimoni avevano visto delle macchine allontanarsi. Una macchina sembrava avere fretta, secondo una donna, ma lui sapeva che poteva trattarsi di una ricostruzione postuma, una drammatizzazione, perché la donna era molto ansiosa di aiutare l’indagine, anche se nella maggior parte dei casi queste cose conducono nella direzione opposta.

Allora come adesso, l’estate si era rivelata un problema, visto che c’era meno gente del solito a casa. Aveva iniziato a leggere in parallelo i ritagli dei giornali e sorrise a una frase che spuntava da un lato, pronunciata da Sture Birgersson un giorno d’estate di quasi cinque anni prima. «Il problema della polizia nelle indagini di omicidio sono i periodi di vacanza», aveva detto.

Birgersson era il capo di Winter alla sezione investigativa. Era seduto nel proprio ufficio e Winter aveva concordato un incontro con lui quel pomeriggio.

Anche quell’estate, bussare a tutte le porte delle case intorno al parco aveva dato pochi risultati.

Winter si soffermò su un particolare nei rapporti della notte dell’assassinio di Beatrice Wägner. Due testimoni diversi avevano visto, indipendentemente l’uno dall’altro, un uomo e un ragazzo caricare una macchina per oltre un’ora nelle prime ore del mattino. Questo era accaduto davanti a uno dei condomini a tre piani a nord-est del parco, cento metri più in là. Erano stati visti da due testimoni, da due direzioni opposte ma più o meno nello stesso momento.

L’uomo e il ragazzo magari avevano visto o sentito qualcosa, ma nessuno lo sapeva, dato che non si erano fatti vivi con gli investigatori. La polizia aveva lanciato un appello, ma non aveva ricevuto risposta.

Le indagini porta a porta non avevano dato alcun risultato. Non erano riusciti a trovare nessun uomo che vivesse con un ragazzo corrispondente alla descrizione. Winter adesso ricordava che Birgersson aveva controllato con il padrone di casa.

In quel momento il telefono di Winter squillò sulla scrivania. Rispose e sentì la voce di Birgersson.

«Potremmo trovarci un po’ prima, Erik? Ho un appuntamento alle quattro.»

«Ok.»

«Puoi salire subito?»

«Tra un quarto d’ora. Ti voglio chiedere un paio di cose, ma prima devo leggere ancora un po’.»

 

Birgersson era in piedi alla finestra a fumare quando Winter formulò la prima domanda. Attraverso i capelli grigi tagliati corti si intravedeva la pelle del cranio, illuminata dai raggi del sole. Il capo avrebbe compiuto sessantun anni. Winter quarantadue. Birgersson per lui era più un padre che un fratello maggiore.

«Non so dove ci avrebbe portato», rispose Birgersson, e scrollò la cenere nel palmo della mano. «Ma abbiamo veramente cercato di trovare quella coppia, padre e figlio o quel che erano.» Guardò Winter. «Be’, c’eri anche tu.»

«Rileggendolo adesso, mi è venuto in mente che all’epoca mi ero incazzato», disse Winter.

«Anch’io me l’ero presa.» Birgersson mosse i muscoli del viso magro. «È naturale. Non avevamo molto su cui lavorare e la cosa è diventata più importante di quel che forse era.»

«Pensi spesso al “caso Beatrice”?» domandò Winter dalla sedia vicino alla scrivania al centro della stanza.

«Solo tutti i giorni.»

«Io no. Non proprio tutti i giorni. Finora.»

«Tu sei ancora giovane, Erik. Ma io rischio di andare in pensione con quel maledetto caso irrisolto, e non lo voglio.» Tirò una boccata, ma il fumo non si vedeva alla luce della finestra. «Non lo voglio», ripeté, guardò fuori e poi di nuovo Winter. «Non so se sia una specie di folle utopia, ma spero che sia tornato. Che questa storia non sia mai finita.»

Winter non replicò.

«Adesso che abbiamo di nuovo un mostro in città, spero che si tratti dello stesso mostro.»

«La cosa più importante per me è prenderlo», disse Winter.

«Può essere lo stesso», disse Birgersson.

«Sì.»

«Può aiutare la tua indagine.»

«È per questo che sto studiando il fascicolo di Beatrice.»

«La cintura», continuò Birgersson. «La cintura è una chiave.»

«È possibile. Ci stavo pensando proprio adesso.»

«La Bielke aveva una cintura?» domandò Birgersson.

«Era una delle cose che volevo controllare prima di venire qui», rispose Winter. Accese un altro Corps, si alzò e fece compagnia a Birgersson alla finestra. «Ma non ce l’aveva. Non ne ha mai avuta una.»

«Forse questo l’ha salvata», disse Birgersson. Guardò Winter negli occhi. «Che ne dici, Erik? Magari, non avendo una cintura con cui essere strangolata, non era una vittima interessante. E non c’era nessuna cintura da portare a casa come trofeo.»

7

Sentì una fitta al piede destro, sotto le dita. Aveva camminato con prudenza, ma lì il fondale era coperto di alghe, come un’erba alta e fitta che si muoveva con la corrente, marrone, ripugnante. Come fiori morti.

Adesso era su un piccolo fondale sabbioso. Si mise su una gamba sola, sollevò il piede destro e vide che sanguinava, ma solo un poco. Non era la prima volta quell’estate. Faceva parte del gioco. La chiamarono dagli scogli. Lei si gettò in acqua, che era più calda che mai, come una seconda pelle sul corpo, morbida, come una carezza.

«Anne!»

La chiamarono di nuovo. Qualcuno aveva alzato una bottiglia, ma lei vide solo una silhouette nel sole, che stava calando ma era ancora alto sull’orizzonte. Poteva essere Andy. Per lui la festa era iniziata appena erano arrivati lì, o forse già sul tram, già in città.

«Anne! Paaarty!»

Adesso lo vedeva, con la bottiglia di vino in mano, sorridente. Party. Perché non un altro party? Se l’era guadagnato. Tre anni al liceo Burgården. Chi non si sarebbe meritato un party, dopo?

C’era qualcos’altro che faceva sì che se lo meritasse.

Ma adesso non voleva pensarci.

«Anne!»

Si arrampicò su per gli scogli, si aggrappò a una pietra e sentì un’altra fitta al piede.

Era arrivata in cima, lo controllò. Un’alga lunga mezzo metro si era attorcigliata a uno stinco. La tirò via. Era viscida.

«Ecco che arriva la sirenetta», disse Andy.

«Dammi un bicchiere.»

«Ha mai visto una serata più bella?»

«Dammi il bicchiere.»

 

Fredrik Halders era seduto su un divano che non ricordava dall’ultima volta che era stato lì. Si guardò in giro come un estraneo. La casa era più estranea che mai.

Subito dopo si era sentito irreale, lì dentro. Subito dopo il divorzio. Era come muoversi in un sogno. Tutto gli era familiare, ma non riconosceva nulla. Non riusciva a toccare gli oggetti. Si sentiva in disparte. Proprio così. In disparte rispetto alla propria vita. Era quella la sensazione. Il divorzio gli aveva fatto muovere un passo di lato rispetto alla propria vita, e da allora le cose non erano migliorate.

Forse era per quello che era così ARRABBIATO negli ultimi anni. Incazzato. Si era svegliato incazzato ed era andato a dormire incazzato, e durante la giornata era ancora più incazzato. Gli faceva male vivere, si può dire.

Ma non era nulla.

Nulla in confronto a questo.

Hannes e Magda stavano dormendo. Magda aveva singhiozzato finché non si era addormentata. Hannes aveva fissato la parete. Aveva provato a parlare con loro di… di… Di cosa aveva provato a parlare? Se l’era dimenticato.

Era mezzanotte passata, ormai. La porta che dava sul portico era aperta e lasciava entrare dal giardino dei profumi che non ricordava. Vide il viso di Aneta Djanali sulla soglia, illuminato dalla lampada sullo scaffale a sinistra.

«Non volevi uscire?»

Scosse il capo.

«È bello qui fuori.»

«Vado a prendere una birra», disse Halders, si alzò e andò in cucina.

«Fra poco comincia a farsi chiaro», disse Aneta Djanali quando lui fu uscito e si sedette sulla panca lungo la parete.

Bevve e guardò verso il cielo. Era già abbastanza chiaro per lui. Se avesse potuto fermare il tempo, l’avrebbe fatto adesso. E tenebre siano. Per sempre tenebre, e riposo. Niente figli che si svegliano al mattino e ricordano. Con tutta la vita davanti a sé. Sometimes I feel like a motherless child, pensò all’improvviso. Poi pensò a Margareta.

Bevve un altro sorso e guardò la collega. E amica.

«Non vai a casa, Aneta?» Vedeva la sua silhouette ma nient’altro. In un’altra epoca avrebbe scherzato sulla cosa, come sempre; la sua pelle nera non risaltava molto nella notte. Non adesso.

«Non c’è problema.»

«Me la cavo», disse lui.

«Lo so.»

«Allora puoi andare a casa a riposare. Sarai in turno domattina presto.»

Non vide se lei annuì.

«Ti alzi presto?» domandò Halders.

«Sì. Ma non ho mai avuto bisogno di dormire molto.»

«Neanch’io.» Finì la bottiglia e la posò sul tavolo. «Allora possiamo stare qui seduti ancora un po’.»

«Sì.»

Vide che lui si passava una mano sul viso. Sentì un rumore e poi un altro. Si alzò e si sedette accanto a lui sulla panca e gli cinse le spalle con un braccio, fin dove riusciva. Halders sussultava, ma solo leggermente.

 

«Ho bisogno di lavorare.»

Erano ancora seduti sulla panca. Era mattino, un paio di minuti dopo le tre. La luce era tornata. Le ombre che si erano formate sul volto di Halders erano come baie marine. Aveva la fronte spellata. I capelli corti sembravano d’acciaio. Aneta Djanali sentiva le grida dei gabbiani. Una macchina passò sulla strada oltre la siepe. Alcuni uccellini volarono via da un cespuglio, forse spaventati dai gabbiani. Non si sentiva stanca. La stanchezza sarebbe sopraggiunta più tardi, nel pomeriggio, in macchina mentre andava avanti e indietro nella calura.

«Capisci cosa intendo?» Halders si girò verso di lei. Un piccolo vaso sanguigno si era rotto nell’occhio sinistro. «Non perché voglia… andarmene. Non in quel senso.» Si passò la mano sulla fronte, sulla radice del naso. «Ma credo che sia meglio… per tutti. Che io lavori.»

«Se ce la fai.»

«Perché non dovrei farcela?»

Lei si strinse nelle spalle.

«Credi che non mi conosca?» disse.

«No.»

«Credi che non pensi ai figli?»

«Veramente no.»

Halders si passò di nuovo la mano sul viso. Lei sentì il rumore della mano sulla barba, che adesso sembrava più lunga dei capelli.

«Dobbiamo rientrare nella normalità il prima possibile», disse lui, e parve cercare con lo sguardo un sostegno all’orizzonte. «La cosa più importante è che tutti cerchino di rientrare nella normalità appena possibile.»

Ma prima un bel collasso, pensò Aneta Djanali. È vicino.

 

Winter continuò a cercare nei due fascicoli, uno grosso, l’altro sottile.

Aveva chiesto a Bergenhem di leggere. Lars Bergenhem era un giovane investigatore in gamba, che era rientrato dopo un periodo di malattia in cui aveva accusato cefalea e debolezza, ma Winter sapeva di cosa si trattava veramente: anche i poliziotti vengono colpiti da depressione.

A volte mi chiedo se non ne stia covando una anch’io. Non sono sempre felice. Può essere il caldo, oppure questo caso che la sera è difficile da sciacquare via nell’acqua del mare.

 

Si diressero al parco. Nella Mercedes di Winter l’aria condizionata era accesa. Le strade erano quasi deserte.

«A volte vengo qui», disse Winter, quando furono sul posto. Gli alberi erano immobili. Il blocco di pietra si vedeva a malapena. La zona era ancora isolata. Chi non guarda con attenzione può credere che si tratti di un nuovo progetto di giardino, pensò Bergenhem. È un nuovo… progetto, ma non di quel tipo.

Vedevano i bambini che facevano il bagno nel laghetto. I fenicotteri stavano su una zampa e studiavano i giochi nell’acqua.

«Sono venuto qui di tanto in tanto, in questi anni», continuò Winter. Lasciò correre lo sguardo. «Capisci cosa voglio dire?»

«Sì.»

«Cosa voglio dire, allora?»

«L’assassino torna sempre sul luogo del delitto.»

Winter annuì e vide passare due ragazze, che lanciarono un paio di rapide occhiate a lui e a Bergenhem, che si trovavano vicini al nastro segnaletico.

«È stato qui almeno tante volte quanto me», disse Winter. «È così. È stato qui.»

«Magari contemporaneamente», disse Bergenhem.

«No.» Winter guardò il collega. «Me ne sarei accorto.»

Si tratta solo di continuare, pensò. È così.

Era andato lì in primavera, estate, autunno e inverno dopo l’omicidio di Beatrice. Non sempre, naturalmente, ma faceva in modo di passarci nel weekend e la sera, a volte di notte.

Una sera tardi aveva scorto un’ombra vicino al blocco di pietra, si era avvicinato con il batticuore e quando l’ombra si era voltata si era trovato faccia a faccia con Birgersson.

Sapeva che anche Halders andava lì a volte.

Non spaventavano nessuno. Non entravano nel parco a gambe divaricate, avanzando a ventaglio pistola in pugno, illuminati dalla luce del tramonto.

«È la ragazza la nostra chance più grande», disse Bergenhem. «Jeanette. Quella che si è salvata.»

«Magari era quella l’intenzione», disse Winter.

«Quale? Che si salvasse?»

Winter fece un gesto con le braccia. Forse.

«Se si tratta di lui, la ragazza l’ha visto, toccato. Sentito.»

«Sì.»

«Una specie di cantilena senza senso.»

«Mmm.»

«Ha detto che aveva ripetuto una cantilena senza senso. Ripeteva. La stessa cosa. Crede che abbia ripetuto la stessa cosa forse tre volte.»

«Sì.»

«Durante lo stupro.»

«Sì», disse Winter, e vide le ragazze che erano passate prima tornare indietro con un cono gelato in mano e guardare di nuovo incuriosite il nastro segnaletico. Si fermarono poco più in là e si sedettero nell’erba. «Durante lo stupro.»

«Magari c’è dell’altro», disse Bergenhem.

Winter guardò le ragazze. Sembrava buono il gelato. Quel caldo richiedeva gelato e bibite fredde.

«Magari ricorda molte più cose, adesso», disse Bergenhem.

«La vedrò domani», disse Winter. «Alle dieci.»

Bergenhem si avvicinò agli alberi e si chinò. Quando iniziò a parlare, la sua voce uscì attutita dalla pietra e dagli alberi.

«Per quanto credi che abbia dovuto trascinarle?» chiese Bergenhem.

«Dieci metri», rispose Winter.

«C’erano dei segni di trascinamento anche nel caso di Beatrice Wägner?»

«Sì.»

«E Jeanette? È stata tirata lì dentro?»

«Ne parleremo domani. Per adesso ha detto che non se lo ricorda. Di essere svenuta.»

Winter guardò dall’altra parte, le ragazze se n’erano andate.

«Ci prendiamo un gelato?»

Bergenhem uscì.

«Ok.»

Girarono intorno al laghetto fino al chiosco dei gelati, dove il rumore dei bambini che facevano il bagno era più debole. Una coppia dell’età di Winter passò sfrecciando sui rollerblade. Un uomo vendeva palloncini in mezzo al prato. C’erano tre persone in coda davanti al chiosco.

«Offro io», disse Winter.

Tornarono indietro con i coni. I gelati cominciarono subito a sciogliersi.

«Avremmo dovuto prendere una coppetta», disse Bergenhem.

Si sedettero sull’erba. C’era odore di secco. C’erano delle chiazze gialle nell’erba verde chiaro.

«Perché ha cercato di strangolare Jeanette?» chiese Winter dopo un po’.

«Cosa vuoi dire?» replicò Bergenhem.

«Non portava una cintura che lui potesse usare… come ha fatto con le altre due, Beatrice e Angelika, ma l’uomo aveva comunque con sé qualcosa… un guinzaglio, come ha detto lei, ce l’aveva ma non l’ha strangolata. Non l’ha uccisa.»

«Tu parti dal presupposto che sia lo stesso assassino di Beatrice e Angelika.»

«Sì. È così. In questo momento, almeno.» Winter sentì il gelato freddo sulle dita e fu una bella sensazione.

«La stessa persona», disse Bergenhem. «Dopo cinque anni.»

«Sì.»

«Che usava la cintura delle ragazze.»

«Sì.»

«Angelika aveva una cintura?»

«Secondo Beier, ne indossava una. Ho verificato con i genitori ed è così.»

«Ma la cintura è sparita.»

«Sì.»

«Proprio come quella di Beatrice Wägner.»

«Esatto.»

 

Anne fece un ultimo bagno. Anche Andy. Il resto della compagnia cantava una canzone per il tramonto, o sul tramonto. Si sentiva un po’ ubriaca per i due bicchieri di vino e fu come se l’acqua, che adesso sembrava più fresca rispetto a soltanto un’ora prima – o forse erano due – l’avesse svegliata.

Quella sera tutta la compagnia sarebbe uscita, e lei non vedeva l’ora. Non era sempre così. Un paio di volte era rimasta a casa. Non era sicura che mamma fosse contenta. Aveva detto che sarebbe stato bello se fosse rimasta a casa una sera, ma non era sicura che lo pensasse. Era come se mamma volesse che restasse fuori il più possibile a divertirsi quell’estate dopo la scuola, come se fosse l’ultima estate. L’ultima estate. Non c’era un film che s’intitolava così?

Un paio di volte era andata a casa direttamente da lì.

Ancora un paio di volte e poi basta.

Non avrebbe mai dovuto farlo. Se qualcuno glielo avesse chiesto, non avrebbe neppure saputo dire come fossero andate le cose.

Ma non era nulla.

Si asciugò in fretta perché sentiva un po’ freddo, ora che il sole era soltanto rosso.

Non c’era vento quando rientrarono, eppure tra i campi faceva fresco.

In città il caldo era rimasto tra gli edifici. Era come entrare in una casa dopo aver pedalato vicino al mare.

Si fermarono sull’Avenyn, legarono le biciclette e si sedettero ai tavolini all’aperto di un bar. Il solito.

«Birre grandi su tutto il fronte», disse Andy quando arrivò la cameriera.

«Veramente prima dovremmo andare a casa e fare una doccia», disse lei. «Dopo si sta meglio seduti qui.» Furono loro servite le birre. Erano in cinque al tavolo. «Come dopo aver lavorato.»

«È un lavoro duro stare sdraiati al mare tutto il giorno», disse Andy, e bevve. «Ma in questo modo hai un doppio vantaggio.» Sorrise, un sorriso molto bianco. «Prendiamo una birra e ci rilassiamo, poi vai a casa a fare la doccia, ti sistemi, e torniamo qui.»

Qualcuno rise.

Il suo cellulare squillò. Schiacciò il bottone e sentì la voce della mamma. Sì. Sarebbe andata a casa subito. Tra mezzora. Sì. Stasera usciva. Alzò gli occhi al cielo rivolta agli altri. Andy allungò la mano verso la cameriera, che stava passando ondeggiando con un vassoio di birre per un altro gruppo di amici. Andy forse si sarebbe fermato tutta la sera. Non aveva bisogno di prepararsi. Aveva sempre l’aspetto di chi non deve prepararsi.

«Era mamma», disse lei, e rimise il cellulare nella tasca della borsa.

«Ah.»

«Abito da sola, ma deve comunque tenermi un po’ sotto controllo.»

La cameriera posò un’altra birra davanti a Andy.

«Tu rimani qui di sicuro », disse lei.

«Cin cin.»

«Adesso vado.»

«Hai controllato il cellulare, no?»

«Perché?»

«Che la tastiera sia bloccata.»

«Sì, sì», disse lei, riprese il telefonino e controllò. «È bloccata.»

«Basta situazioni imbarazzanti, grazie.» Andy bevve e sorrise, bianco, bianco.

Lei vuotò l’ultimo goccio, salutò con la mano, andò alla bicicletta, la slegò e si diresse verso il viale. Arrivava sempre più gente, come carovane che percorrevano l’Avenyn. Era come se fosse tornato il gran caldo. Aveva voglia di farsi una doccia.

Il cellulare squillò e sul display lampeggiò «chiamata», ma nessuno parlò quando rispose. Controllò il blocco della tastiera e rimise il cellulare nella borsa.

Basta situazioni imbarazzanti. Qualche giorno prima, lei e Andy si erano abbracciati e forse avevano fatto qualcosa di più, e lei, o lui, avevano urtato il cellulare sbloccando la tastiera, sempre che fosse bloccata, avevano schiacciato il 3 e quando si erano sdraiati i rumori e le voci, be’… erano arrivati nella segreteria telefonica di casa, perché il 3 corrispondeva alla chiamata rapida a casa, e la mamma in quel momento era proprio a casa di Anne e aveva ascoltato la segreteria telefonica.

Imbarazzante.

«Perché hai il numero di chiamata rapida per casa tua, dove non c’è nessuno?» aveva chiesto Andy.

«A volte c’è qualcuno», aveva risposto lei. «Può servire chiamare casa propria. Può esserci qualcuno che si vuole raggiungere in fretta.»

«Si può mettere un numero di telefono in una lettera e spedirselo a casa», aveva replicato Andy. «Rikki Don’t Loose that Number. Steely Dan.»

Svoltò sulla pista ciclabile verso ovest. Era un po’ più fresco lungo l’Allén. Dal ristorante Storan arrivava odore di cibo.

8

Winter saltò la rasatura. Infilò una camicia a maniche corte e un paio di calzoni di lino. Angela ed Elsa dormivano quando uscì alle sei e mezzo. Era fresco sulle scale. C’era ancora il profumo dell’intonaco nuovo dopo la ristrutturazione di inizio estate. Gli mancava il vecchio odore dei muri e del legno lucido del corrimano. C’era sempre stato, da quando si era trasferito nell’appartamento dieci anni prima. Adesso era come ricominciare da capo. Il che era anche vero. E questo fa sì che la ristrutturazione e il nuovo profumo siano leciti, pensò. Uscì dal portone e sentì la deliziosa mattinata.

La nettezza urbana stava pulendo Vasagatan, le spazzole sotto le macchine raschiavano la pavimentazione e l’acqua scorreva verso est, nella stessa direzione in cui andava lui. L’Avenyn era deserta, completamente deserta. Udì un tram, ma non lo vide.

Non soffiava il vento a Heden. Il termometro sulla parete dell’edificio dall’altra parte della strada indicava ventiquattro. Erano le sette meno dieci e c’erano ventiquattro gradi. Un clima tropicale. Erano stati sopra i venti tutta la notte. Quando la temperatura media giornaliera supera i venti gradi, allora il clima è tropicale.

Prese l’ascensore fino al suo ufficio, che era aperto. All’interno sentì lo stesso odore di sempre. Niente di nuovo. Aveva lasciato la finestra socchiusa durante la notte, ma era servito a poco.

Aveva lasciato le carte sulla scrivania, con sopra appoggiati gli occhiali da lettura. Ne aveva un paio lì e un paio a casa. Cominciava ad avere problemi anche a vedere da lontano. Fra poco avrebbe proceduto tentoni lungo le pareti, o lo avrebbero accompagnato in giro. L’avrebbero spinto su una sedia a rotelle. Aveva comunque quarantun anni.

 

Un testimone aveva raccontato di aver sentito delle urla dal parco. Erano circa le due di notte, o meglio, l’una e mezzo. All’incirca un’ora dopo che Beatrice era sparita tra gli alberi. L’uomo viveva nei paraggi e stava tornando a casa da una festa privata. Aveva bevuto ma si sentiva «la testa sgombra», e in uno dei commenti nel protocollo delle testimonianze veniva definito «credibile».

Si era inoltrato nel parco ed era passato a circa quindici metri dal luogo dove avevano trovato Beatrice, ma non aveva visto né sentito niente.

Gli era parso di aver sentito dei rumori prima, come se qualcuno venisse rincorso. Proprio rincorso. Un urlo, o forse due. Poi più nulla.

Winter ricordava quell’uomo. Non lo aveva interrogato lui, ma l’aveva visto di sfuggita un paio di giorni più tardi. Si ricordava che il ragazzo sembrava ancora spaventato, oppure era il suo modo di essere. Spaventato.

Se n’era andato dal parco dopo quell’urlo ed era corso verso il condominio più vicino, e sul marciapiede lì davanti aveva incontrato una coppia sui «trentacinque anni», indossavano entrambi dei «vestiti bianchi» e aveva raccontato loro cosa aveva sentito. La donna aveva detto al testimone spaventato che aveva appena attraversato il parco e forse aveva incontrato qualcuno.

Forse aveva incontrato qualcuno.

Non avevano mai parlato con lei, o con lui. Winter ricordava che avevano cercato quella coppia vestita di bianco. Li avevano incoraggiati a farsi vivi.

Proprio come l’uomo e il ragazzo che avevano caricato la macchina durante la notte. Come se non fossero mai stati lì. Forse quella coppia non doveva essere vista insieme in quel luogo, in quel momento. Sono cose che trattengono i testimoni dal comparire. Situazioni private imbarazzanti. Cos’è un omicidio in confronto? Una scappatella. Il giudizio della società contro le scappatelle è durissimo. Un’eventuale infedeltà viene condannata così duramente da ostacolare la polizia nel lavoro. Si può legiferare sulla morale? Una sorta di riduzione della pena, pensando a tutte le indagini preliminari che vengono sabotate…

Ma l’uomo e il ragazzo… Dopo cinque anni non erano ancora stati ascoltati, e difficilmente uno di loro si sarebbe potuto ricordare di aver caricato una macchina in una notte d’estate fuori da un parco nel centro di Göteborg.

C’era anche un’altra cosa.

Si tolse gli occhiali da lettura e si massaggiò la radice del naso. Guardò l’orologio da polso: le otto. Tra due ore avrebbe incontrato Jeanette Bielke a casa. Le aveva chiesto dove avrebbe preferito che si vedessero e lei aveva scelto casa propria.

Andò nella stanza del caffè e se ne preparò una tazza. Era solo. Avevano cancellato la riunione quel giorno. Avrebbe dovuto fare un resoconto l’indomani, ma tutti sapevano cosa dovevano fare in quel momento.

Quando sarebbe rientrato dal colloquio con Jeanette, si aspettava un risultato dai controlli sui potenziali sospettati. Magari non ci sarebbe stato nessun risultato, ma era un risultato anche quello. Eliminare. Quello, quello e quell’altro non avrebbero potuto farlo. Stavolta. Il noto stupratore proprio quella sera aveva un alibi. Quell’altro assassino era in carcere. Quell’altro ancora stava dormendo, e altre persone, che invece erano sveglie, lo potevano provare. Il famoso picchiatore aveva ammazzato di botte un altro uomo proprio in quel momento dall’altra parte della città, o del Paese. O addirittura all’estero.

Eccetera eccetera.

L’asfalto era bianco nella luce del mattino. Forse c’erano già trenta gradi. Come a Marbella. Pensò al padre, che era sepolto in un grazioso piccolo cimitero sulla montagna con vista sul mare, vicino a Puerto Banús, sopra la casa di Nueva Andalucía dove la madre aveva scelto di restare a vivere.

Winter era stato lì quando suo padre era morto, aveva partecipato al funerale, era rimasto seduto di notte nel giardino con le tre palme e alla fine non aveva pensato proprio a nulla.

Tornò indietro. Il sole entrava dalle persiane e creava dei motivi sulle pareti di mattoni nel corridoio.

Quando fu nel proprio ufficio, si mise a fumare vicino alla finestra. Era il primo sigaretto della giornata: dopo due ore di lavoro, era un passo avanti. L’indomani avrebbe lavorato un quarto d’ora in più senza accendere un Corps.

Si sedette di nuovo e inforcò gli occhiali.

C’era un’altra cosa. Una donna sui vent’anni era stata aggredita e stuprata da un uomo «magro» e «abbastanza alto» tre giorni dopo l’assassinio di Beatrice. C’erano delle similitudini, ma quando non ci sono in occasione di uno stupro? Questa donna aveva l’impressione che l’uomo parlasse tra sé mentre le usava violenza, «ripeteva qualcosa», come si era espressa nel rapporto che Winter teneva in mano.

 

La casa era all’ombra di alberi centenari. Anche la casa poteva avere cent’anni, pensò Winter. Cent’anni ben portati. Soldi vecchi. Come molte cose lì, nella parte più antica di Långedrag. Lui era cresciuto a pochi chilometri da lì, un po’ più vicino alla città, aveva spesso pedalato su quelle strade. Welcome to Pleasantville.

Due ragazzi arrivarono sfrecciando sugli skateboard. Erano abili. Lui si spostò di lato, poi attraversò la strada e percorse il vialetto che conduceva alla casa. In veranda era seduto un uomo, che si alzò quando Winter cominciò a salire la scala. Salutò, gli strinse la mano. Il padre di Jeanette. Winter non l’aveva mai visto. Non aveva mai visto Jeanette, Halders sì. Ma Halders aveva altri problemi, quel giorno.

«È necessario?» chiese Kurt Bielke. Era leggermente più basso di Winter, ma non alzò lo sguardo quando gli parlò. Il suo tono di voce non era aggressivo, sembrava più che altro triste.

Era una buona domanda. Quante volte si può tornare dalla vittima senza cominciare a sortire l’effetto contrario? In tal caso il risultato sarebbe soltanto dannoso.

«Se si insiste troppo, alla fine si ottiene tutto ciò che si vuole, ma si ottiene la verità?» come aveva detto Halders due giorni prima, quando erano seduti nell’ufficio di Winter. Era così. Si possono interrogare i testimoni fino a distruggerli, come si dice in gergo. Interrogare fino a distruggerli.

«Dobbiamo parlare con Jeanette ancora un po’.»

«Dobbiamo?» disse Bielke. «Vedo solo una persona.»

«Devo.»

«Di cosa deve parlare? È la centesima volta che racconta cosa le è successo.»

Winter non rispose. Ponderò se valesse la pena parlare di tutti i particolari che lentamente le potevano tornare in mente, rimasugli di esperienze che alla fine diventavano qualcosa in più. A volte arriva tutto in un colpo. Alle due di notte in un luogo isolato, come un blocco di cemento sulla testa, oppure una spada nell’anima. Dio ce ne scampi.

Se Jeanette avesse ricordato adesso, dopo sarebbe stato più facile.

«A volte certe cose diventano più chiare dopo un po’», disse Winter. «Dopo qualche giorno.»

«Quali cose?» Bielke guardò oltre Winter. Non sembrava aggressivo. Il viso era teso, rigido, come intagliato nell’alluminio. «Cos’è successo esattamente durante lo stupro? Come l’uomo ha stretto la corda?»

Winter non rispose.

«A cosa le servirebbe ricordare tutti i particolari?»

«Non lo so», rispose Winter.

«Allora perché è qui?»

«C’è stato un omicidio», continuò Winter.

Bielke lo guardò. Si era avvicinato. A Winter parve di sentire odore di alcol, ma poteva anche essere dopobarba. Il dopobarba è alcolico. Bielke si asciugò la fronte. Winter vide il sudore all’attaccatura dei capelli. Sentiva il caldo anche lui, adesso che erano rimasti fermi un po’ in veranda, sotto la tenda da sole che invece sembrava alzare la temperatura. Nel pomeriggio la veranda doveva essere come una sauna.

«Oh, signore», mormorò Bielke. «Avrei dovuto capirlo.» Si passò di nuovo la mano sulla fronte. «Pensa che si possa trattare dello stesso… criminale?»

«Potrebbe essere la stessa persona», disse Winter. «Non abbiamo nessuna prova, ma c’è una possibilità che possa essere così.»

«Lei la chiama possibilità?»

«Scusi?»

«Io non avrei usato quella parola», disse Bielke.

Il suo sguardo vacillò. All’improvviso sembrò pensare a qualcosa di completamente diverso. Sembrava assorto nei ricordi.

«Posso vedere Jeanette, adesso?» domandò Winter, e fece un passo di lato.

«È di sopra, in camera sua.» Il padre indietreggiò, come se ora la strada fosse libera. Sminata. «Non vuole scendere.»

Winter entrò con Bielke alle sue spalle, e Bielke gli indicò una scala a sinistra oltre la porta d’ingresso. Winter sentì il rumore di vetro e stoviglie da qualche parte nella casa. Non vide nessun altro salendo. La casa sembrava un castello di proporzioni ridotte.

La porta di Jeanette era aperta. Winter scorse un angolo del letto e una finestra ombreggiata da uno dei grandi alberi del giardino. Sentì che lo sconforto era aumentato durante il viaggio in macchina e si era rafforzato dopo il colloquio col padre. Penetrò in lui, anche nei suoi ragionamenti da professionista. Angela avrebbe detto che era una buona cosa. Che doveva essere così, altrimenti non andava bene, non andava per niente bene.

«Avanti», disse Jeanette quando bussò sullo stipite. Non riusciva ancora a vederla. «Entri pure.»

Era seduta su una poltrona sulla destra. C’erano un divano e un tavolino, un po’ più in là una scrivania ad angolo vicino a una porta da dove si scorgeva un bagno. La stanza era una suite. Soldi vecchi, o forse nuovi, oppure una combinazione tra i due.

Si stava spazzolando i capelli castano scuro. Era struccata, da quanto poteva vedere. Jeans, maglietta, niente calze. Una sottile catenina d’oro al collo. Continuò a spazzolarsi i capelli con movimenti ampi, il suo viso si tendeva a ogni spazzolata e gli occhi si allungavano, conferendole a tratti un aspetto orientale.

Fece un gesto verso il divano. Winter si sedette e si presentò.

«Era un altro, prima.»

Winter annuì.

«È una specie di tattica?» disse lei.

«Cosa vuoi dire?»

«Mandate persone diverse che si occupano… delle chiacchiere. Dell’interrogatorio, o come si chiama?»

«A volte», rispose Winter. «Ma non questa.»

«Cosa significa?»

Winter non rispose subito.

«Mi piaceva quello che è stato qui prima», disse Jeanette, e posò la spazzola. «Fredrik.» Guardò Winter. «Va bene, no? E allora mi sembra una pessima tattica cambiare, non è così?»

Ok, pensò Winter. Glielo dico, le raccontò cos’è successo nella famiglia di Halders.

«Non chiederò più niente», disse la ragazza.

«Va bene se lo faccio io?» Winter si chinò in avanti sul divano. Lei annuì. Un uccello urtò la finestra e volò via senza che lei sembrasse aver sentito il debole colpo contro il vetro. «C’è qualcosa che… ti è venuto in mente dall’ultima volta che hai parlato con Fredrik? Qualsiasi cosa.»

Lei fece un movimento con le spalle.

«Cosa intende?» rispose.

«Qualsiasi cosa. Di quella sera. Notte.»

«Non ci voglio pensare. L’ho detto anche a… Fredrik.» Prese di nuovo la spazzola e cominciò a pettinarsi, e il suo viso cambiò espressione. «L’unica cosa a cui penso è se io… se mi verrà l’Aids.» Spazzolò sempre più forte i capelli e guardò Winter con gli occhi che erano sottili fessure inclinate. «O l’Hiv, come si chiama la malattia al suo stadio primario. O come si dice. Non ne sono sicura e forse non lo sarò mai.»

Winter non sapeva cosa dire. Rifletté se alzarsi, mettersi vicino alla finestra e accendere un Corps.

«Posso fumare alla finestra?»

«Certo», disse lei, e forse sorrise leggermente nel dirlo. «Ma si guardi le spalle da papà». Si girò dall’altra parte. «Lui vede tutto. Sa tutto.»

«Cosa vuoi dire?»

«Niente. Ma stia attento.»

«Semmai devo guardare di sotto», disse Winter; si alzò, prese il pacchetto sottile dal taschino sinistro e tolse l’involucro dal sigaretto.

«Cos’ha detto?»

«Devo guardare di sotto, in modo che tuo papà non mi veda dal basso.»

«Ah ah.»

Winter aprì la finestra e accese il sigaretto. Il prato sembrava grande come un campo da calcio tra i rami delle corone degli alberi. Sentì il rumore di bicchieri proveniente da sotto e una voce flebile, poi un’altra voce che rispose qualcosa che non riuscì a captare. Qualcosa fu versato in un bicchiere. Le dieci e mezzo, non era ora dell’aperitivo, ma what the hell it’s noon in Miami. È periodo di vacanza. Aspirò una boccata di fumo e si girò verso la stanza.

Loro figlia forse aveva avuto una sfortuna incredibile e aveva preso l’Hiv. Il primo stadio dell’Aids.

«Quello che intendevo prima dicendo che forse non sarò mai sicura della terminologia, è che avrei iniziato medicina quest’autunno», disse. «Ma adesso me ne frego.»

«Perché?»

«Ah ah, di nuovo.»

«Quando saprai il risultato del test dell’Aids?» chiese Winter.

«Dritto al dunque.»

«Quando?»

«La settimana prossima.»

«Ok.»

«Ma ne voglio fare un altro, e allora passeranno altre settimane.»

Winter annuì.

«E poi comunque non si sa prima di un anno.»

Winter aspirò un’altra boccata e soffiò il fumo nell’aria. Sentì una donna che sembrava stesse dicendo qualcosa in tono indignato, e Kurt Bielke comparve quando attraversò il prato e proseguì direttamente verso un macchina nera parcheggiata su una salita. La accese e partì, verso la città. Winter dava ancora le spalle alla stanza. Sentì un tagliaerbe, vide la cascata d’acqua da un irrigatore, vide un gruppo di ragazzini sullo skateboard, vide una donna con un passeggino. Tutto normale, là fuori, nell’idillio scintillante.

«Sogni quello che è successo nel parco?» disse Winter dopo circa mezzo minuto, e si girò verso la stanza.

«Sì.»

«Cosa sogni?»

«Che corro. Sempre. Corro, e sento dei passi dietro di me.»

«E cosa succede dopo?»

«Non lo so bene… è più che altro… correre… l’inseguimento.»

«Non vedi mai nessuno?»

«No.»

«Nessun viso?»

«Purtroppo, no.» Fece una pausa con la spazzola e guardò Winter. «Sarebbe bello, no? Se vedessi un viso nel sogno che non ho mai visto nella realtà e venisse fuori che è proprio lui. Che era proprio quel viso.» Posò di nuovo la spazzola sul tavolo. «Si potrebbe usare come prova?»

«Non basterebbe.»

«Peccato.»

«Ma non hai visto nessun viso?»

«Non allora e non adesso. Nel sogno.»

«Vieni trascinata?»

«Come trascinata?»

«C’è qualcuno che ti trascina nel sogno? Che ti tira, che cerca di portarti via.» Winter aspirò un’altra boccata. «Che ti trascina.»

«No.»

«E com’è andata… nella realtà?»

«Ho già risposto. Non lo so. Sono svenuta.» Sembrò pensare a quello che aveva detto. «Devo essere svenuta.»

«Ma ti sei svegliata in un altro posto rispetto a dov’eri andata? A dove ti sei ricordata di essere andata prima di essere aggredita?»

«Sì, dev’essere stato così.»

«Quando ti sei svegliata?»

Spazzolava e spazzolava. Winter vide la sofferenza nei suoi occhi a fessura. Era come se con quei movimenti decisi che appiattivano i folti capelli sulla cute volesse cacciare via il dolore dalla testa.

«A volte mi dispiace di essermi svegliata», disse.

Winter sentì di nuovo il rumore di una macchina alle proprie spalle e vide Bielke parcheggiare in mezzo al vialetto ed entrare in casa con passo rapido. Sentì delle voci, ma non capiva le parole.

«Mi può salutare quello… l’altro investigatore? Fredrik.»

«Certo.»

«Sta lavorando?»

«Non in questo momento.»

«Non potrà più lavorare dopo questa cosa? Per molto tempo?»

Winter la guardò. Se tu puoi vivere, lui può lavorare. Pensò alle parole della ragazza su svegliarsi e non svegliarsi.

9

Sentì di nuovo il rumore di bicchieri e di stoviglie dalla veranda. Qualsiasi cosa stessero dicendo, non impediva loro di pranzare.

«Mi scusi», disse Jeanette, andò in bagno e si chiuse la porta alle spalle.

Winter si guardò attorno. La stanza era pulita in maniera quasi maniacale. Tutto era perfettamente disposto in pile e file. Si alzò e raggiunse la libreria. I libri erano in ordine alfabetico per autore.

«Ordine e metodo, eh?»

Si girò.

«Da quando è… successo non ho fatto altro che pulire, qui dentro», disse Jeanette, e fece un cenno del capo verso la libreria. «Adesso sto pensando di sistemare i libri per argomento, invece.»

«Sono tanti», disse Winter.

«Ma non molti argomenti.»

«Soprattutto narrativa, vedo.»

«Lei cosa legge?»

A Winter venne voglia di ridere, e lo fece. «Leggo sempre meno libri veri. Letteratura. Cambierò. Fra poco avrò un po’ di tempo libero in più. Adesso leggo soprattutto rapporti connessi all’indagine preliminare. Interrogatori di testimoni e roba simile.»

«Eccitante.»

«Può essere molto eccitante», replicò Winter. «E non scherzo. Ma prima bisogna imparare a decifrarne il linguaggio. Poliziotti diversi usano linguaggi diversi quando scrivono i rapporti. A volte è una specie di rebus da risolvere.»

«Ma sanno scrivere?»

«La maggior parte.»

«Cosa c’è di eccitante, allora?»

«Quando si scopre qualcosa collegato a qualcos’altro che si è letto da un’altra parte. E quando noti davvero qualcosa che avevi già fissato un centinaio di volte, ma senza vederlo. È sempre stato lì, ma semplicemente non lo avevi visto.»

«Cosa intende dire?»

«Qualcosa che non si è capito. Oppure un fraintendimento. Ma che poi si capisce.»

«Non parla mai con qualcun altro? Con qualcuno che legga quello che leggete?»

«Sì. E può essere proprio quello. Una frase che per me ha un certo significato, per qualcun altro può voler dire qualcosa di diverso.»

«Non è sempre così? Riguardo a qualsiasi lettura?»

«Non lo so», rispose Winter. Pensò di accendersi un Corps ma desisté. Si sedette sulla poltrona della ragazza.

«La maggior parte di questi libri li ho rubati», disse lei, stendendo il braccio verso la libreria.

Winter non rispose, si alzò e andò di nuovo alla finestra e accese il sigaretto. Fuori c’era la tipica calma-da-metà-giornata. Tutto quello che aveva sentito prima era svanito.

«Non ha sentito? Rubato!»

«Ho sentito.»

«E non ha intenzione di fare niente?»

«Non ti credo.»

«Davvero?»

«Parla dei suoni che emetteva», disse Winter.

«Cosa?»

«Hai dichiarato che l’uomo diceva qualcosa, o ripeteva una cantilena che non capivi. Raccontami di questa cosa.»

«L’ho raccontato, esattamente come l’ha detto lei adesso. Una cantilena, o qualcosa di simile. È quello che ho sentito.»

«Ci hai pensato un po’ di più?»

Jeanette alzò le spalle.

«Sei riuscita a capire qualche parola?»

«No.»

Winter pensò. «Non puoi provare a farmi sentire com’era?»

«Farle sentire com’era? Ma è matto?»

«Può essere importante.»

«Che importanza ha?»

«Quello che è successo a te può succedere ad altre ragazze.» La guardò. «È già successo ad altre ragazze.»

«Lo so.»

Winter annuì. «Bene.»

«Ma comunque è assurdo che tenti di imitare… di imitare quel bastardo.»

«Pensaci.»

«È proprio quello che non voglio fare, cazzo!»

«Ok. Ti capisco.»

«Dev’essere un problema.»

«In che senso?»

«Essere obbligati a fare tutte queste domande sapendo che la persona a cui le si rivolgono dovrebbe essere lasciata in pace. Dovrebbe soprattutto essere lasciata in pace.»

«Sì, è un problema.»

«Vede.»

«Ma è inevitabile. Non sono qui di mia spontanea volontà. Non in quel senso.»

«Ma il lavoro lo ha pur scelto lei.»

«Sì.»

«Perché?»

«Fammici pensare», rispose Winter con un sorriso.

«Solo fino alla prossima volta», disse la ragazza. Lui non riuscì a vedere se anche lei stesse sorridendo. Una folata d’aria entrò dalla finestra. Vide una nuvola a ovest. D’un tratto era lì.

 

Halders percorse l’intera casa. Tutto gli era estraneo, adesso che non abitava più lì. C’erano entrati insieme e lui era uscito da solo. Margareta era rimasta lì coi bambini e lui abitava nell’appartamento in città. Non era economico, ma era la soluzione migliore. La casa rimaneva ai figli. E lei guadagnava meglio di lui.

Aveva guadagnato meglio.

Il giorno prima Hannes e Magda erano a casa, ma oggi erano a scuola. Era tornato in soggiorno. Aveva fatto il giro. La maggior parte dei mobili erano gli stessi di allora. La maggior parte delle cose. Lei non c’era, ma tutto il resto sì. Margareta non aveva frequentato nessun altro, per quel che ne sapeva, ma lui non sapeva tutto.

Aveva chiesto ai figli della scuola, se preferivano stare a casa qualche giorno. Magda aveva detto di no per prima e Hannes non aveva risposto. Non era neppure seduto a tavola. Halders era andato in camera sua.

«Possiamo restare ad abitare qui?» chiese Hannes dal letto, quando Halders entrò e si sedette sul bordo del letto.

«Possiamo rimanere a vivere qui? Io voglio rimanere qui.»

«Se vuoi rimanere qui, faremo così.»

«E vivrai qui anche tu, papà?»

La domanda del bambino lo raggelò. Era una domanda terribile. Pensò all’improvviso alla vulnerabilità dei suoi figli, a quanto fossero indifesi. Nel mondo del suo bambino non era ovvio che il papà vivesse con loro. Tornasse da loro… a tempo pieno.

Si sentì incredibilmente triste. Infinitamente triste.

«È chiaro che vivremo insieme, Hannes.»

«Anche Magda?»

«Anche Magda, naturalmente.»

«Vivremo qui?»

Halders pensò all’appartamento. Il suo schifoso appartamento. Adesso era sparito, quasi. Questa casa non era più la sua, ma la cosa si sarebbe pur dovuta risolvere.

«È quello che vorrei», disse.

«Devo andare a scuola?»

«No. Come ho detto prima.»

«Cosa farà Magda? Andrà a scuola?»

«Se vuole. Un momento fa ha detto che voleva andarci.»

Il bambino si mise seduto. Sopra il letto erano appesi dei poster di cantanti hard-rock i cui nomi Halders conosceva vagamente.

«Hanno già cominciato la prima lezione del pomeriggio?»

«Non ancora.»

«Allora posso andare.»

 

Halders accompagnò i figli a scuola, poi tornò e girò per la casa.

Telefonò a Winter.

«L’hai incontrata?» domandò.

«Sì.»

«Com’è andata?»

«Come stai, Fredrik?»

«Rispondi a una domanda con una domanda.»

«Voglio sapere come stai.»

«Molto bene.»

«Smettila, cazzo.»

«Non molto bene. Ma viste le circostanze…»

«Cosa stai facendo?»

«Giro per la casa, in continuazione. Dovrò trasferirmi qui. I ragazzi vogliono rimanere qui.»

«Fai tutti i giri che vuoi.» Winter sentì il suo respiro. «Jeanette Bielke ti saluta.»

«Rientro», disse Halders.

«Prenditi un paio di giorni.»

«No.»

«Non posso impedirtelo.»

«Se arriverà il collasso, almeno sarò in prima linea.»

«Questa faccio finta di non averla sentita», replicò Winter.

«Ho altro che forse vorresti sentire», disse Halders. «Mi è venuta in mente una cosa riguardo all’omicidio di Angelika. Una cosa di cui non abbiamo parlato.»

«Dobbiamo farlo adesso? Al telefono?»

«Rientro. Può aspettare un’ora.»

«Allora nel pomeriggio. Tra mezzora devo incontrare i genitori di Beatrice.»

«Si sono fatti sentire loro?»

«Io.»

 

Era andata a casa in bicicletta e aveva appeso i vestiti da spiaggia bagnati sul filo dietro casa, o davanti, se si sceglieva di entrare dalla cucina. Cosa che stava facendo.

In casa c’era silenzio. Aveva la serata tutta per sé, se avesse voluto fermarsi lì. Poteva andare in giro con una birra o un bicchiere di vino e sentire i profumi entrare dalle finestre aperte quando scendeva la notte. C’era talmente tanto verde là fuori che era un’esperienza girare per la casa, guardare e annusare.

Fece la doccia. La segreteria telefonica lampeggiava quando tornò in camera da letto. La ascoltò e richiamò subito.

«Ero sotto la doccia.»

«Mmm.»

«Hai telefonato, prima? Qualcuno ha chiamato sul cellulare ma non ha detto niente .»

«No.»

«Allora… cosa si fa?»

«Puoi venire qui stasera?»

«Non so… non ne ho la forza.»

«Dici sul serio?»

«È vero. Mi sento proprio svogliato.»

«Puoi essere svogliato anche qui. Relativamente svogliato.»

«È dall’altra parte della città.»

«Prendi un taxi.»

«Troppo caro.»

«Offro io.»

«No.»

«Prometto.»

«Non intendevo quello. Ho voglia di restare qui. Di prendermela comoda.»

«Ok.»

«Non ti arrabbi?»

«Te ne pentirai.»

«Ti sei arrabbiata?»

«Sì.»

«È vero?»

«No.»

«Ci possiamo vedere domani?»

«Non posso.»

«No?»

«Ti chiamo io.»

10

Pioveva quando Winter uscì dalla centrale. Il caldo persisteva ed era più pesante, sentì quasi subito il sudore sulla fronte e la pioggia, che più che altro era come aria umida sull’attaccatura dei capelli. L’erba vicino al parcheggio profumava. Era diventata più verde in pochi minuti. Era la prima volta che pioveva da oltre un mese.

All’improvviso i rumori del traffico erano diversi. Il sibilo delle gomme sull’asfalto bagnato. Un suono più morbido.

I colori erano più nitidi rispetto a prima, mentre attraversava il centro in auto. Poche persone indossavano vestiti da pioggia. Tre ragazzi a torso nudo ballavano attraversando l’Allén quando si fermò per il rosso. Uno di loro alzò il pollice verso Winter. Lui fece un cenno del capo dal finestrino della Mercedes.

Passò sotto la galleria, svoltò, proseguì lungo alcune stradine e parcheggiò davanti alla casa. Quando scese dalla macchina aveva smesso di piovere. Non c’era vento. Aveva la schiena umida malgrado il climatizzatore acceso.

La casa aveva un aspetto triste come al solito. Erano passati due anni dall’ultima volta che c’era stato. O solo uno? Erano rimasti in contatto. Anche Birgersson, ma Winter sentiva un bisogno… più forte di mantenere il contatto con i genitori di Beatrice. Forse un dovere, accanto alle ragioni puramente professionali. L’assassino di loro figlia era ancora in libertà. Loro sarebbero stati per sempre prigionieri di quel crimine, legati dal ricordo e dal dolore. Per sempre confinati in quella casa di mattoni così pesante e scura nella foschia. Le finestre erano nere, la porta era chiusa ma si aprì mentre Winter entrava dal cancello. Bengt Wägner uscì, chiuse la porta alle proprie spalle e gli strinse la mano.

«Lisen non esce», disse. «Si è sdraiata. Tutto ritorna, di nuovo.»

«Mi dispiace.»

«Non è colpa sua.»

«Io ho telefonato. Dunque…»

«Non possiamo far finta che non sia successo», disse Wägner. Fece un paio di passi sul prato che aveva smesso di crescere a causa del caldo, ma che adesso aveva cambiato colore. «La cosa migliore per Lisen è che provi dolore. Altrimenti è ancora peggio. E peggio ancora la prossima volta.» Guardò Winter. «Quindi è successo di nuovo.»

Winter annuì.

«Lo stesso posto?»

«Sì.»

«Proprio lo stesso posto?»

«Così sembra.»

«Un’altra ragazza aggredita?»

«Sì.»

«Anche violentata?»

Winter annuì di nuovo.

«Ce ne saranno anche altri di violentatori a piede libero in città?»

«In base a come li si conta, ce ne sono parecchi», rispose Winter.

«Questo invece è uno preciso?» chiese Wägner.

«È un’ipotesi», replicò Winter.

«È saggio partire da questo presupposto?»

«Credo di sì.»

«Cosa ci guadagnate?» Wägner sbuffò, come per una breve risata secca. «Cosa ci guadagniamo?»

Winter accese un Corps, soffiò il fumo e lo vide mescolarsi all’aria che stava diventando limpida, ora che l’umidità dal cielo stava scendendo sul prato dove si trovavano loro.

«Se riusciamo a vedere un nesso, questo ci può aiutare. Ci può aiutare enormemente.»

«Come? Quale nesso?»

Winter aspirò un’altra boccata. Aveva offerto a Wägner un sigaretto, l’uomo aveva accettato e lo stava accendendo.

«L’assassino di Angelika potrebbe anche essere… quello che ha ucciso Beatrice. Né lei, né io potremmo mai smettere di pensare che se ne va in giro in libertà. È dieci milioni di volte peggio per lei, ma nemmeno io riesco a lasciar perdere.»

«Ma qual è il nesso che si può vedere esaminando di nuovo questa maledetta schifezza?» disse Wägner, tirò una boccata e studiò il fumo, che diventò presto invisibile.

«Se c’è un collegamento lo troviamo», rispose Winter. «È ciò che ci aiuterà.»

«Ma cosa può essere?»

«Qualsiasi cosa.»

«Ha letto tutti gli atti e i verbali più volte, Erik. Più e più volte. Com’è possibile che le sia sfuggito qualcosa?»

«Non ho avuto niente con cui fare confronti.»

«No, capisco. Ma ci devono essere tante cose che possono essere… be’, in comune, senza che questo significhi niente. Sono tre ragazze della stessa età. Forse con gli stessi interessi, che ne so. Stesse distrazioni, forse. Stessi locali preferiti in città, magari lo stesso… Forse frequentavano lo stesso quartiere. Ha appena detto che avevano tutte e tre appena terminato il liceo.» Wägner alzò un braccio e fece un movimento con la mano. «Santo cielo, ci sono migliaia di cose in comune. Ce ne sono per forza. Come fa a sapere cosa è importante e cosa no quando fa un confronto?»

«Posso solo sperare di accorgermene.»

«Sperare? È la cosa migliore che possiamo sperare?»

Winter fece un rapido sorriso e aspirò un’altra boccata.

«Sono piuttosto forti», disse Wägner, e guardò il sigaretto lungo e sottile nella sua mano. «Avevo pensato di comprarne un pacchetto qualche mese fa, ma non li ho trovati.»

«Evidentemente li fumo solo io», ribatté Winter. «E quando non li produrranno più, smetterò.»

«Ma non smetterà con… Beatrice.»

«Mai.»

«Lei lo… noi… lo troveremo, quel bastardo?»

«Sì.»

«È ancora soltanto una speranza?»

«No. Prima della fine dell’estate lo avremo trovato.»

«Potrebbe diventare una lunga estate», disse Wägner, e guardò verso il cielo.

 

Winter telefonò dal prato di Wägner. Halders rispose dopo quattro squilli. Winter tornò verso est in macchina e grazie alle istruzioni di Halders trovò la casa a Lunden. L’auto del collega era parcheggiata lì di fronte. Winter parcheggiò dietro.

«Sarei potuto venire alla stazione», disse Halders, che lo stava aspettando al cancello.

«Ero comunque in giro», disse Winter.

«È un mestiere libero e bello, vero?»

«Hai qualcosa da bere?»

«Può andare una birra leggera?»

Winter annuì e seguì Halders in casa.

«È da circa quattro anni che non vengo qui.»

«Non sei più venuto?»

«Solo fino al cancello.» Halders tirò fuori una lattina dal frigorifero. «Tieni.»

Winter la aprì e bevve.

«Posso andare a prendere un bicchiere.»

Winter scosse la testa e bevve di nuovo. La cucina era illuminata. Non c’erano pile di piatti sporchi nel lavello. Non c’erano briciole sul piano di lavoro. Sopra il tavolo della cucina era appeso un poster incorniciato degli anni Sessanta che pubblicizzava un dentifricio che non esisteva più. Vicino al telefono davanti a Winter era appeso un calendario, e vide che la data era vecchia, nessuno aveva strappato le pagine fino a quel giorno. Winter sapeva che giorno era, senza dover contare.

«C’è qualcosa di strano nel padre», disse Halders. «Il padre di Jeanette.»

«Cosa intendi dire?»

«O tra loro. C’è qualcosa di strano.»

«Riesci a essere più concreto?»

«Be’, ci sono vari punti che non quadrano tra le dichiarazioni di lei e quelle del padre. La notte in cui è tornata a casa. Quando è successo.»

Winter aveva letto il rapporto e notato le differenze. Non era insolito. Non doveva significare necessariamente qualcosa. Non che qualcuno mentisse, almeno non consciamente.

«Mi chiedo chi stia mentendo», disse Halders. «Credo che sia lei, e lui lo sa e non vuole dire niente.»

«Non è insolito.»

«Dobbiamo mettere loro maggiore pressione.»

«A lui, in tal caso.» Winter bevve ancora finché la lattina non fu vuota. «Jeanette può pensare ancora un po’. Lasciamola un po’ in pace.»

«Mi chiedo quando sia tornata a casa», disse Halders. «Non è tornata all’ora che dice lei.» Andò verso il frigorifero e prese una birra per sé. «Ma perché lui non dice niente su questa cosa? Non credo che stesse dormendo.»

Avevano un testimone che aveva visto Jeanette Bielke tornare all’alba, tre ore dopo l’orario che aveva dichiarato lei.

«Lei è la chiave», disse Halders. Guardo Winter, si avvicinò. «La chiave è Jeanette Bielke. Era da qualche parte quella sera, e non vuole dirlo.»

La chiave, pensò Winter. Una delle chiavi.

«Il padre forse lo sa», continuò Halders.

«Dobbiamo risentirlo.»

«Voglio risentirlo.»

Winter vide la tensione sul viso di Halders. Non era una cosa insolita, ma ora era diverso. La situazione era terribile, ma allo stesso tempo gli sembrava di non aver mai visto Halders così padrone di sé. Come se fosse tornato il vero Halders. Come se adesso avesse qualcosa contro cui lottare veramente. Non solo il solito cinico pessimismo da sbirro. La domanda era come questo avrebbe influenzato il suo lavoro. Come avrebbe reagito Halders in una situazione critica? Poteva essere una catastrofe se avesse preso la decisione sbagliata in quel momento.

Avrebbe dovuto togliere Halders dal lavoro? Qual era la cosa giusta da fare? Si sarebbe palesata da sé?

«C’è un’altra cosa a cui ho pensato mentre giravo qui in casa», disse Halders, e si sedette al tavolo. «Siediti anche tu.» Winter prese posto. «Perché non abbiamo trovato il tizio che ha messo incinta Angelika Hansson?»

«Non lo so perché, Fredrik.»

«Era una cosiddetta domanda retorica.»

«Nessuno tra i suoi amici sembra sapere chi sia», disse Winter. «Tra quelli che abbiamo sentito finora. Nessuno che voglia parlare, in ogni caso.»

«È strano.»

«Lei forse lo teneva segreto. A tutti.»

«Persino a se stessa?» disse Halders.

«Magari non lo sapeva», replicò Winter. «Oppure lo aveva rimosso.»

«Che forse è la stessa cosa», disse Halders. «Ma lui esiste. Il padre, o come cazzo bisogna chiamarlo.»

«Qualcuno degli amici lo sa», disse Winter.

«Avrà pure avuto una migliore amica?»

«Non secondo i genitori.»

«Loro non sanno niente di queste cose», disse Halders. «I genitori non hanno idea di quello che combinano i loro ex cuccioli.» Guardò Winter. «Ho ragione oppure ho ragione?»

«Hai ragione nel senso che forse i genitori non sono sempre completamente affidabili come testimoni della verità», disse Winter con un sorrisetto.

«Siamo nella merda se non troviamo il ragazzo», concluse Halders. «Dobbiamo trovarlo.» Fece una smorfia. «Sarebbe diventato genitore anche lui.»

 

Erano nella merda. Winter sentì il peso del caso mentre si dirigeva verso la centrale. Avevano concentrato le risorse sul trovare il ragazzo di Angelica, o quel che era, ma non ci erano riusciti.

Forse avrebbero risolto il mistero nello stesso momento in cui avrebbero trovato il padre di quel bambino che lei non aveva potuto dare alla luce. Lui ha ucciso Angelika. Un pazzo.

Forse era così semplice.

Quello che aveva ucciso Beatrice era un altro.

E quello che aveva stuprato Jeanette un altro ancora.

No.

Parcheggiò e fu nel proprio ufficio nel giro di cinque minuti. C’erano ancora delle gocce di pioggia sul davanzale, sotto la finestra che aveva aperto.

Il telefono squillò.

«Abbiamo un nuovo testimone», disse Bergenhem, quando Winter ebbe detto il proprio nome.

«Sì?»

«Dunque… ehm, si tratta dell’omicidio di Angelika Hansson. Un ragazzo che dice di aver sentito uno strano rumore quando è passato davanti al parco, quella notte.»

«L’orario coincide?»

«Sì.»

«E cosa ha sentito?»

«Un sibilo, dice. Una specie di sibilo che si è ripetuto alcune volte.»

«E allora cosa ha fatto?»

«Ha continuato a camminare. Più velocemente.»

«Non si è incuriosito molto.»

«Pensava si trattasse di un tasso e si è spaventato.»

Winter lo capiva. Anche lui una volta aveva incontrato un tasso, in una strada tranquilla nella zona ovest della città, era stato rincorso per un centinaio di metri e aveva sentito il pericolo imminente alle proprie spalle.

«Ma adesso non crede più che si trattasse di un tasso?»

«Ha visto il telegiornale», disse Bergenhem.

«Ed era proprio lì?»

«Pare di sì.»

«I testimoni saltano fuori uno dopo l’altro.»

«Ne mancano un po’.»

«Sì. Soprattutto quelli di cinque anni fa.»

 

La sera andarono al parco. Angela leccava un gelato, Winter spingeva il passeggino ed Elsa dormiva, ma si svegliò quando passò un gruppo di ragazzi con i rollerblade.

«Era comunque ora», disse Angela, e sollevò Elsa, che si allungò per prendere il gelato. «Non è necessaria una multa.»

«Vuole il gelato.»

«Non ho soldi.»

«Per fortuna che c’è qualcuno che li ha», disse Winter, e portò con sé Elsa in braccio fino al chiosco, che era chiuso. Il ragazzo che lo gestiva era appena salito su una bicicletta e Winter si chiese se dovesse ordinargli di riaprire.

Elsa capì che non avrebbe avuto il gelato e non ne fu contenta.

«Avrà bisogno di una distrazione», disse Angela quando tornarono.

«Era chiuso», disse Winter.

«Inventa qualcos’altro.»

Portò Elsa al laghetto, le immerse con cautela i piedini nell’acqua e il pianto si trasformò in una risata. Glieli immerse di nuovo e le sussurrò qualcosa all’orecchio, poi alzò gli occhi e guardò dall’altra parte del laghetto. Tutto era familiare. Riusciva a vedere il piccolo spiazzo all’interno del cerchio di cespugli e di alberi, e il blocco di pietra che luccicava agli ultimi riflessi del sole.

Riusciva a vedere l’ombra sulla sinistra, proprio davanti all’ingresso dell’anfratto nero.

L’ombra era immobile. Winter rimase fermo finché non sentì lo sgambettare di Elsa nelle mani. Non distolse gli occhi dall’ombra, che aveva i contorni di una persona, ancor più adesso che il sole calante penetrava meglio, come un riflettore. L’ombra che era una persona si mosse.

Winter sentì Angela dire qualcosa appena dietro di lui, sollevò Elsa dall’acqua e la lasciò nelle sue braccia; sentì le grida di delusione della bambina, ma iniziò a correre protetto dalla siepe alla sinistra del laghetto, raggiunse il sentiero dall’altro lato dei cespugli e riuscì a vedere l’apertura e l’anfratto, che non era più illuminato dal sole; superò una giovane coppia a passeggio, sbucò tra i cespugli, vide gli alberi e tutto il resto che gli era così terribilmente familiare; il suo cuore batteva più forte del normale e cercò l’arma, che però si trovava in un armadietto molto lontano da lì.

11

Non c’era nessuno ad aspettarlo quando arrivò. Vide l’apertura tra gli alberi, il blocco di pietra, i rami e i cespugli ai lati e i lembi di cielo al tramonto, ma nessuna ombra.

L’interno della grotta era vuoto e inodore.

L’erba lì davanti era di nuovo asciutta come sabbia. Non aveva senso cercare impronte. Ma avrebbe chiamato qualcuno che poteva cercare eventuali nuovi oggetti sul posto. Non si sa mai. Non si sa mai, pensò di nuovo.

Girò intorno alla radura, poi entrò rapidamente sul sentiero retrostante e lo seguì per una cinquantina metri. Tornò e vide Angela con Elsa nel passeggino, si piegò sotto uno sterpo e lei lo guardò con gli occhi sbarrati.

«Se vuoi giocare a nascondino, dillo», disse Angela. «O vuoi nasconderti e cercarti da solo?»

Lui si tolse degli aghi di pino dalla spalla e cercò di prendere il pacchetto di sigaretti, che però non era più nel taschino largo.

«Adesso è l’occasione giusta per smettere», disse Angela, che aveva notato il gesto.

Winter vide il pacchetto per terra dove si era chinato. Molti dei sigaretti erano usciti e formavano un piccolo semicerchio. Si avvicinò per prendere il pacchetto, e mentre raccoglieva i sigaretti uno dopo l’altro vide un bottone. Un semplice bottone bianco, o forse avorio, un bottone da camicia.

Lo avrebbero trovato se fosse stato lì quando avevano isolato l’area dopo l’assassinio di Angelika. E dopo lo stupro di Jeanette.

Da quel momento chiunque poteva essere passato e aver perso un bottone.

«Hai un fazzoletto di carta?» domandò girandosi verso Angela. Era ancora accucciato.

Angela tirò fuori un Kleenex dalla borsa e Winter vi avvolse il bottone.

«Cos’è?»

«Un bottone.»

«Ah sì?»

«Un bottone da camicia», disse Winter. «Credo.»

«Ah. E dunque adesso abbiamo visto come fai a lavorare», disse Angela, e si girò verso Elsa. «Così lavorano gli investigatori, Elsa. Guarda e impara.»

«Vuoi che Elsa diventi una detective?» disse Winter, e si chinò ancora, ma adesso vicino al passeggino. Elsa disse qualcosa. «Ha detto detective», disse Winter.

«No. Ha detto prospettive.» Angela lo guardò con un sorriso. «Credo che voglia dire che bisogna avere delle prospettive per sé e per il proprio lavoro.» Guardò verso i cespugli. «Sarà così quando usciamo per la passeggiate serali?»

«Mi è parso di aver visto qualcuno», disse Winter.

«Santo cielo.»

«È più complicato di quanto credi.»

«Sì, davvero.»

«C’era qualcuno là. Non era solo un… passeggiatore occasionale.»

«Non dimenticare il bottone, Erik.» Aveva scorto delle tenebre improvvise nei suoi occhi. Si fece più freddo tra gli alberi. Elsa cercò di uscire dal passeggino. Lui la aiutò. «Scusa, Erik. So che è importante… e serio. Terribile. Ma non ho potuto non prenderti un po’ in giro.»

«Ti ho offerto io l’assist.»

Winter prese in braccio Elsa. Tornarono verso il laghetto.

«Credi che lui… ritorni sul luogo del delitto?»

«Sì.»

«Intendi dire che è sempre così?»

«È la mia esperienza. E anche quella di altri.»

«E l’ombra che hai visto poteva essere… lui?»

Winter si strinse nelle spalle. «Proprio nel momento in cui l’ho visto, ho avuto la forte sensazione che fosse qualcuno di… importante. Importante per il caso.» La guardò con Elsa sulla spalla. «Cazzo, ora non lo so più.»

«Cazzo», disse Elsa. Era una delle prime parole che pronunciava correttamente.

 

«Cos’è una vita privata?» chiese Halders ad Aneta Djanali, che era seduta accanto a lui in macchina. Erano fermi davanti alla villa della famiglia Hansson. Aneta Djanali sentiva il profumo del mare dal finestrino aperto.

«Quando una vita finisce di essere privata?» chiese di nuovo Halders, e si girò verso di lei. «Personalmente non riesco più a separare le mie due vite.»

«No.»

«Adesso sono anche diventato filosofo.» Fece una risatina. «Filosofo privato.» Rise di nuovo, ancora più brevemente, più seccamente. «Filosofo amatoriale.»

Ha bisogno di stare a casa, pensò Aneta Djanali. Perché Winter non lo toglie dall’indagine? O Birgersson. Ci sarebbe meno tensione se lo facesse Birgersson.

«So che pensi che dovrei stare a casa per un po’», disse Halders. «Ci stai pensando adesso.»

«Esatto.»

«Ti capisco, ma ti sbagli.» Aprì la portiera della macchina. «Il lutto viene elaborato in tanti modi diversi.» Appoggiò il piede sull’asfalto. «Se mi accorgo che i bambini non vogliono andare a scuola o che hanno altri problemi, allora lascio perdere tutta la vicenda. Ma non prima.» Era fuori dall’auto e si chinò verso Aneta. «Vieni?»

 

Lars-Olof e Ann Hansson erano seduti alle due estremità del divano. Aneta Djanali e Halders sedevano di fronte a loro, sulle rispettive poltrone. Ha l’aria distrutta, pensò Aneta Djanali quando la madre di Angelika si voltò verso il giardino come se studiasse tutte le sfumature di verde là fuori.

Lars-Olof Hansson fissava il tavolo.

Dietro la coppia c’era una specie di libreria, e su uno dei ripiani c’era una fotografia di Angelika scattata da poco. Il berretto da diplomata era bianco, un bianco intenso sulla pelle nera. È ancora più nera di me, pensò Aneta Djanali.

Lars-Olof Hansson aveva visto lo sguardo di Aneta e si voltò. «È stata scattata solo cinque o sei settimane fa.»

Aneta annuì.

«L’abbiamo adottata quando aveva più o meno quell’età, cinque o sei settimane», disse il padre.

«SMETTILA», sbottò la madre a voce alta, si alzò e uscì in fretta dalla stanza.

«Già, che maldestro», disse. La voce era inespressiva. Guardò Aneta. «Lei è nata qui?»

È perso nel dolore, pensò Halders. Può dire qualsiasi cosa in qualsiasi momento senza pensarci. Il lutto viene elaborato in tanti modi diversi.

«Sì», rispose Aneta Djanali. «All’Östra. Ma i miei genitori sono africani.»

«Di dove?»

«Alto Volta. Come si chiamava quando sono venuti qui. Adesso si chiama Burkina Faso.»

«Mmm.» Hansson fissò di nuovo il tavolo e poi alzò lo sguardo. «C’è mai andata?»

«Sì.»

«Com’è stato?»

«Be’… non ho provato niente di particolare. Comunque meno di quanto pensassi», disse Aneta Djanali. L’interrogatorio sta prendendo un’altra piega, ma va bene. «Però volevo andarci.»

«Anche Angelika voleva andarci», disse Lars-Olof Hansson nello stesso momento in cui sua moglie tornò nella stanza.

«Non dire altro, Lasse.» Lo guardò con un’espressione che Aneta Djanali non aveva mai visto. All’improvviso aveva assunto un’aria completamente indifesa. Come una persona che sta annegando.

«In Uganda», disse lui, e poi non poterono più parlare delle radici di Angelika Hansson e Aneta Djanali.

 

«Abbiamo alcuni problemi a seguire il percorso compiuto da Angelika per tornare a casa quella notte», disse Halders.

«E io cosa posso farci?» Lars-Olof Hansson adesso era in piedi, appoggiato al muro vicino alla porta del portico. «Ho detto tutto quello che so. Tutto.»

«Perché è rimasta sola in città per tante ore? Senza compagnia?»

«Questo lo dite voi.»

«Nessuna delle persone con cui abbiamo parlato è stata con lei per quasi quattro ore quella sera. O quella notte.»

«Ho detto tutto quello che so», ripeté Lars-Olof Hansson.

«Ma cosa stava facendo?» chiese Halders.

«Non lo so, ho detto.»

«Potrebbe aver avuto un lavoro?»

«Un lavoro?»

«Un lavoro estivo. Un lavoro», ripeté Halders.

«Ce l’avrebbe detto, in tal caso.»

«Capitava che andasse in città da sola?»

«Sarebbe una cosa così strana?»

«Ma ci andava?»

«Non la seguivo.»

Halders aspettò. Vide dall’espressione dell’uomo che avrebbe aggiunto qualcosa.

«Pensava molto alle sue… origini», disse. «Era… confusa. O come si può dire?» Guardò la moglie, ma lei non disse nulla. «Era come se peggiorasse. Sì. Forse andava in giro da sola a pensarci. Non lo so. Era depressa? Non lo so.» Lo ripeté. «Cazzo, non lo so.»

«E coi fidanzati?» chiese Aneta Djanali. Ann Hansson alzò gli occhi, Aneta si girò verso di lei. «Dovete averci… pensato parecchio in questi giorni.»

La donna annuì. All’improvviso ebbe la stessa espressione vulnerabile del marito poco prima. Esattamente la stessa vulnerabilità.

«Non abbiamo fatto altro.»

Aneta Djanali aspettò. Voleva seminare degli indizi, tutto secondo la moderna tecnica dell’intervista cognitiva, ma non ne aveva.

«Nessun ragazzo», rispose Ann Hansson. «Almeno di cui fossimo a conoscenza.»

«Ne parlavate?» chiese Aneta Djanali.

«Parlavamo? Io e… Lasse?»

«Voi e Angelika», disse Aneta Djanali, e fece un cenno verso di lei. «Lei e Angelika.»

«Be’… cosa posso dire… certo che ne parlavamo, ma non aveva ancora avuto… una relazione fissa», rispose Ann Hansson, e cominciò a piangere, piano, per la prima volta da quando erano arrivati. «Questa cosa della… della gravidanza è incredibile. È come un… come un incubo nell’incubo.»

«Non è un incubo», intervenne suo marito. «È la realtà.» Guardò la moglie. «Bisogna pur dirlo, no?»

 

Bergenhem era seduto nella stanza di Winter. Erano le nove e mezzo del mattino. Il condizionatore rumoreggiava sopra di loro. Bergenhem era abbronzato per le ore che aveva trascorso sulle rocce a nord-ovest. Da tempo non appariva così forte, pensò Winter. Così tranquillo.

«Forse aveva comunque un fidanzato», disse Bergenhem. «Stamattina sono riuscito a rintracciare una sua amica, che è tornata ieri da Parigi, e lei aveva visto un ragazzo insieme ad Angelika. Un paio di volte.» Leggeva da un taccuino, poi alzò lo sguardo. «Due volte. Avrai la trascrizione del rapporto dopo la riunione.»

«Un ragazzo, dunque.»

«Sì. Li ha visti insieme un paio di volte. La prima in un bar, dove aveva fissato un appuntamento con Angelika, e la seconda li ha visti camminare in strada mentre passava in tram.» Bergenhem alzò gli occhi. «Quella volta al bar il ragazzo se ne stava andando e si erano salutati con un semplice ciao.»

«L’ha visto solo quelle due volte?»

«Sì.»

«Mai per conto proprio? Da solo? O con altri?»

«Niente.»

«E Angelika cos’ha detto?»

«Non ne avevano parlato.»

«Mmm.»

«Naturalmente gliel’aveva chiesto, ma Angelika non aveva detto una parola.»

«Come non aveva detto una parola?»

«Cosa intendi?»

«Angelika aveva scansato la domanda con una risata, o era parsa tormentata, impaurita, incazzata, delusa, o cosa?»

«Veramente non lo so.»

«Scoprilo.»

«Certo.»

«E questa amica non ha riconosciuto il ragazzo?»

«No.»

«Quando la rivedrai?»

«Stamattina. Prima però volevo parlare con te.»

«Ok. Tu e Bertil le parlerete.»

Bergenhem annuì.

«Voglio rintracciare quel ragazzo alla svelta», disse Winter. «Sarà pure in giro da qualche parte.»

 

Ma non riuscirono a trovarlo. Dopo parecchie telefonate non avevano fatto progressi, e sembrava che l’unica possibilità di rintracciarlo fosse che l’amica di Angelika, Cecilia, lo intravedesse di nuovo in città.

Lo aveva descritto.

Passò un altro giorno. Avrebbero continuato a cercarlo. Ma era tutto così vago. Non avevano ancora un volto.

«Se fosse in Svezia si sarebbe fatto vivo», disse Bertil Ringmar alla riunione del mattino. Il braccio destro di Winter era seduto su una sedia al margine del gruppo. Saremo sempre meno ogni settimana che passa, pensò Winter, ogni settimana senza risultati, ma questo non lo sapremo finché non apparirà qualcosa che somiglia a una soluzione.

«Abbiamo controllato tutta la cerchia dei conoscenti?» chiese Bergenhem.

«Abbiamo interrogato tutti quelli che conosciamo, sì», rispose Ringmar. «Almeno quelli che sono a casa, e li abbiamo sotto controllo, va un po’ peggio con quelli all’estero.»

«Forse è stato solo un incontro occasionale», intervenne Aneta Djanali. «Non deve necessariamente trattarsi entrambe le volte dello stesso ragazzo. La ragazza, Cecilia, potrebbe essersi sbagliata.»

«Perché Angelika non ha detto niente?» disse Bergenhem. «Dell’incontro, o degli incontri, o di lui, o se la seconda volta si trattava di un altro ragazzo, ma io sono convinto che fosse lo stesso. Doveva solo dirlo.»

Forse non è più in vita, pensò Halders. Il ragazzo forse è morto.

 

Si era appena addormentata quando squillò il telefono. Rispose con il sonno nella voce.

«Sì… pronto?»

«Ti ho svegliata?»

«Sì, a dire il vero, sì.» Adesso era seduta. Era quasi buio fuori, il che significava che era piena notte. Entrava un profumo di fiori e di alghe dalla finestra socchiusa.

«Mi dispiace.»

«Cosa vuoi?»

«Puoi lavorare domani? Un’altra volta soltanto.»

«Ho detto che non voglio.»

«Anne.»

«No.»

«Ok, ok.»

«Non telefonare più qui.»

«Forse lo faccio lo stesso.»

Avvertì la paura. Era nella sua stessa voce. Lei sapeva che lui sapeva.

«Non devi aver paura di niente. Ma voglio che tu venga qui domani.»

«Non voglio lavorare. E non ho paura. Di cosa dovrei aver paura?»

«Vieni e basta. Dobbiamo parlarne.»

«Non è necessario. Te l’ho detto.»

«Mmm.»

«Mille volte.»

«Ci vediamo, allora.»

 

Winter tenne una conferenza stampa. C’erano tanti giornalisti, come sempre quando accadevano dei crimini violenti. Capiva il motivo, ma le conferenze stampa non gli piacevano. Non perché avesse delle opinioni particolari sui giornalisti. La gente fa solo il proprio lavoro, chi meglio, chi peggio.

Aveva bisogno dei media a volte, proprio come loro avevano bisogno di lui.

E stavolta avrebbe avuto bisogno di loro più che mai. Non lo sapeva ancora, ma lo intuiva, in quel momento, mentre stava celando i dettagli tecnici dell’indagine ai giornalisti.

12

Winter trovò un parcheggio davanti a Noon e attraversò l’incrocio.

Era da parecchio tempo che non camminava lungo Bellmansgatan, benché non fosse lontana da casa. Vent’anni? Dieci? La strada, stretta tra le facciate di pietra, era come al solito in ombra.

Forse non percorreva quella strada da quel giorno di sole del giugno 1979, quando si era accalcato con tutti gli altri neodiplomati davanti al liceo privato Sigrid Rudebeck. Il diploma. La maturità. Non aveva indossato il berretto bianco. Tutti gli altri in classe l’avevano fatto, eccetto lui e un altro, Mats, che era morto di polmonite, o forse di Aids, cinque anni prima. Era morto d’inverno, e Winter era stato al suo funerale, nell’arcipelago. Gli mancava Mats, e pensò a lui quando aprì il portone ed entrò nell’atrio che era uguale ad allora, malconcio come allora, la scala sempre uguale, il cortile sul retro e gli annunci alle pareti incollati l’uno sull’altro. A mancare nel periodo estivo erano le corse sulle scale, il gruppetto di ragazzi davanti alla bacheca, le voci che si rincorrevano e i passi che salivano alle aule del piano di sopra.

Un alunno più bravo dell’altro, pensò. Ma era ingiusto nei loro confronti. Anche lui era stato lì. Non doveva essere amareggiato perché non era riuscito a diventare più di uno sbirro, pensò, e vide il proprio viso specchiato in un armadietto per i libri. Non tutti riescono nella vita. Vide che forse stava sorridendo. C’era profumo di libri riscaldati dal sole. L’ufficio del preside era ancora sulla sinistra, al piano inferiore. Il volto che si girò verso di lui quando entrò dalla porta aperta gli era noto, vagamente familiare. I tratti avevano un po’ ceduto per gli anni, il viso si era fatto più largo e pesante, ma l’uomo che ora era seduto sulla poltrona del preside come ventitré anni prima sedeva alla cattedra nell’aula durante le lezioni di svedese era lo stesso Gustav Hjalte. All’epoca era un po’ più giovane di quanto lo sono io adesso, pensò Winter, e all’improvviso vide l’uomo giovane nel corpo dell’anziano. Non si erano più visti in tutti quegli anni. Nessuna cena scolastica. Nessun incontro in città. Non è strano? Non era mai più passato davanti alla scuola, solo nei paraggi.

Hjalte sorrise e fece il giro della scrivania.

«È stato interessante avere tue notizie, Erik.» Strinse la mano di Winter. «Ma forse non è la parola giusta in questo contesto.»

«Può andare.»

«Non si sa bene cosa dire, a volte.»

«Le parole dovrebbero essere la sua specialità, professore. La lingua svedese.»

«Mi chiedo se sia davvero così. Dopo tanti anni su questa sedia mi occupo più che altro di numeri. L’amministrazione non ha poi molto a che vedere con le parole, temo. A volte mi chiedo perché sono seduto qui.» Hjalte fece cenno a Winter di sedersi su una sedia che aveva l’aria estremamente scomoda. Hjalte non gradiva le visite lunghe. «Meno parole e più numeri.» Guardò Winter. «Era diverso quando ero il tuo coordinatore.» Sorrise di nuovo. «A proposito, adesso mi puoi dare del tu. Adesso.»

Winter annuì.

«Leggo delle cose su di te, a volte», disse Hjalte.

«Niente di negativo, spero.»

«Al contrario.»

«Avrei preferito che non ci fosse scritto nulla.»

«Che non ci fossero crimini, intendi?»

«Non sarebbe una società fantastica?»

«Ma allora saresti senza lavoro, Erik.»

«È un sacrificio che sarei disposto a fare.»

«Invece sai che c’è un’infinità di lavoro. A tempo indeterminato.»

«Purtroppo.»

«E questo ti ha portato qui?»

«Sì, Jeanette Bielke.»

«Me l’hai detto. Povera ragazza. Non lo sapevamo.»

Qualcosa cigolò alle spalle di Winter.

Hjalte si alzò e gli passò davanti con fatica nella stanza angusta e chiuse la porta che si era aperta.

«La baracca è sbilenca come quando eri studente», disse, e si rimise seduto. «Presumo che sia parte del fascino delle scuole private. Forse lo si potrebbe paragonare a quello delle public schools inglesi.»

«Non è mai stato così male, qui.»

«Ti ringrazio.»

«La conoscevi bene la ragazza?»

Hjalte non parve reagire al cambiamento di discorso.

«In modo abbastanza superficiale, temo.» Hjalte indicò i moduli e le schede sulla scrivania. «Il motivo è tutto qua. La cosiddetta amministrazione.» Alzò un foglio. «Non so se sia un segnale di senso civico, ma sembra che tutti vogliano mandare i loro figli nelle scuole private, ormai.»

«È terribile», disse Winter.

«Cosa? Il senso civico? Il clima sociale?»

«Il senso del privato», rispose Winter.

«Davvero?» disse Hjalte, posò di nuovo le carte e guardò Winter. «In realtà non so come potrò aiutarti, Erik. Jeanette è una ragazza simpatica e diligente, che è capitata molto male e credo che sia tutto quel che ho da dire.»

«Non è comunque un po’ strano che tu non sapessi niente dell’accaduto?» domandò Winter. «Prima che ti telefonassi, intendo? Queste notizie si diffondono in fretta, soprattutto in una scuola, no? E soprattutto in una scuola così piccola.»

«Sì, forse è strano. Ma siamo pur sempre durante le vacanze estive.»

«Comunque… neanche la minima voce, quindi», disse Winter. «Vacanze o no, presumo che la direzione scolastica avrebbe dovuto ricevere qualche tipo di informazione.»

«Da chi?»

«Non lo so di preciso.»

«Avrà degli amici leali che non vogliono parlare.»

«Forse. E in effetti non sembra che ci siano molti ragazzi nella sua cerchia di amici che frequentano questa scuola.»

«Davvero?»

«I suoi amici, almeno quelli che abbiamo incontrato, non vanno al Rudebeck. Molti non frequentano nemmeno il ginnasio.»

«Ecco la spiegazione.» Guardò Winter, i suoi occhi non erano invecchiati. «C’è anche dell’altro sotto, non è vero?»

«Cosa intendi… Gustav?»

Winter non era abituato a chiamare il professore per nome. Il potere dell’autorità lo aveva influenzato molto quando frequentava la scuola. Aveva cercato di difendersi, ma non aveva avuto gli strumenti sufficienti.

«Ho letto e sentito dell’omicidio di quella ragazza… quella che si è diplomata allo Schiller in primavera», disse Hjalte. «C’è qualche collegamento con questo caso, Erik?»

 

Hannes stava aspettando nella stanza della coordinatrice. Halders lo stringeva. La professoressa era vicino a lui. Lei aveva tolto la mano dalla spalla di Hannes dopo un attimo.

«Magda vuole rimanere fino alla fine delle lezioni», disse il ragazzo. «Gliel’ho chiesto.»

Halders strinse forte il figlio.

«Possiamo andare adesso, papà?»

Uscirono sotto la pioggia. Aveva iniziato a piovere nel pomeriggio.

«Non ti sei arrabbiato, papà?»

«Perché avrei dovuto arrabbiarmi?»

«Perché hai dovuto lasciare il lavoro e venirmi a prendere prima della fine delle lezioni.»

«Se non vuoi starci, non è necessario che tu ci stia», disse Halders, e cinse la spalla del figlio con la mano destra. «E io, non è necessario che stia al lavoro.»

Il ragazzo sembrò accontentarsi della risposta, e rimase in silenzio per tutto il resto del tragitto fino a casa. Halders parcheggiò ed entrarono. Aveva portato alcune cose dall’appartamento. Non sapeva dove fosse casa sua, se non che era insieme ai propri figli.

«Sono stanco», disse Hannes.

«Sdraiati un attimo. Io mi siedo qui in salotto.»

«Ci si stanca di più quando si è tristi, papà?»

«Sì.» Prima non lo sapeva che fosse così, ma adesso lo sentiva. Stava arrivando. Lo sentiva maledettamente forte. «Andiamo a sdraiarci insieme un attimo, prima di andare a prendere Magda.»

 

«Non so di preciso cosa facesse di notte», disse Kurt Bielke. «Non l’ho mai controllata fino a questo punto.»

C’è qualcosa di losco in suo padre, aveva detto Halders. Il padre di Jeanette. O tra loro. C’è qualcosa di strano. Puoi essere un po’ più concreto? aveva chiesto Winter. In realtà ci sono più punti che non coincidono tra le dichiarazioni di lei e quelle del padre, aveva risposto Halders. La notte in cui era tornata a casa. Quando è successo.

«Ma è sicuro che sia tornata a casa prima delle tre?»

«Qualcosa del genere, ve l’ho già detto.»

«Non due ore più tardi?»

«No. Chi lo dice?»

«C’è un testimone che ha visto Jeanette arrivare a casa a quell’ora.»

«Be’, allora questa persona ha visto male.»

Erano seduti in un salotto molto luminoso, malgrado la fitta pioggia all’esterno.

«Avete sentito anche mia moglie. Jeanette era a casa alle tre, e non riesco a capire perché diavolo dobbiamo continuare a insistere su questa cosa.»

Guardò fisso Winter.

«L’ha detto anche lei, no? Perché dovrebbe dire una bugia? È assurdo.»

«Ci racconti ancora una volta della telefonata di quella sera», disse Winter.

Kurt Bielke sbuffò sonoramente.

«Sto avendo molta pazienza, commissario. Ma mi deve scusare se mi spazientisco un po’. Alla fine potrei diventare riluttante a rispondere alle domande. Siamo una famiglia che ha vissuto una brutta esperienza… Jeanette ha vissuto una bruttissima esperienza, e voi state qui a fare domande su domande a proposito di telefonate e orari di rientro a casa.»

«Stiamo indagando su un grave crimine.»

«Ho quasi la sensazione di essere io il colpevole», disse Bielke.

«Perché dice così?»

«Cosa?»

«Perché dice che le sembra di essere il colpevole?»

«Perché sembra quasi che sia così.»

«Mi racconti della telefonata.»

«Ha chiamato verso le undici per sapere se si fosse fatto sentire qualcuno.»

«Qualcuno in particolare?»

«No, solo “qualcuno”.»

«E si era fatto sentire qualcuno?»

«No.»

«Aveva preso in prestito il cellulare di un amico», disse Winter.

«Sì, lo dite voi.»

«Non ha sentito la differenza?»

«No.»

«Ha ricevuto delle telefonate da cellulari in passato?»

«Soltanto dall’inizio dell’Ottocento», disse Bielke. «Ma ricordo che si sentiva un rumore di fondo diverso.»

Fai lo spiritoso, pensò Winter. Te lo concedo volentieri. In questo lavoro si tratta anche di lasciar scorrere le parole come acqua.

«E non ha sentito quel rumore, stavolta?» domandò.

«Non ricordo.»

«Jeanette ha detto che era all’aperto.»

«Sì.»

«Qualcosa lo indicava?»

«È stata una telefonata di pochi secondi.»

Il cellulare di Jeanette era a riparare. Winter ne aveva avuto conferma.

«Non è chiaro chi le abbia prestato il cellulare.»

«Cambia qualcosa?»

«Non ci è chiaro dove sia stata Jeanette per alcune ore, quella notte», disse Winter. «Forse anche di più.»

«Glielo può chiedere. Di nuovo. Non che la cosa mi piaccia, ma se dovete dovete.»

«Adesso lo sto chiedendo a lei.»

«Persona sbagliata.»

Winter notò che durante la conversazione, o l’interrogatorio, l’uomo era cambiato. E che era cambiato dalla prima volta che si erano incontrati. Era diventato… più aggressivo. Poteva dipendere da Winter, oppure da Halders. Poteva anche dipendere da qualcos’altro.

«Non lo vuole sapere anche lei?» chiese Winter.

«Lei cosa ne pensa?»

Winter non rispose. Sentì qualcosa di sopra, passi sulle scale. Passi morbidi, oppure qualcuno che inciampava. Forse la ragazza li stava ascoltando, ma se ne sarebbe accorto. Proprio in quel momento Jeanette entrò nella stanza dalla cucina. C’era qualcun altro sulle scale.

Irma Bielke non era in casa, l’aveva detto il marito quando Winter era arrivato.

 

Fuori pioveva, adesso più intensamente. Il giardino era avvolto dalla vegetazione bagnata. La temperatura era scesa, ma faceva ancora caldo. Da ovest si udivano le onde infrangersi sugli scogli.

Winter guidava in direzione sud. Il tergicristallo destro andava cambiato. Sulla destra la visuale era offuscata, era come vedere case e alberi attraverso un sottile strato di gelatina.

A un incrocio dovette aspettare mentre un pezzo di strada veniva rattoppato con l’asfalto. Gli operai riempirono lentamente la strada di nero. I suoi pensieri erano più veloci.

Le ragazze si erano trovate nello stesso posto. Beatrice e Angelika. Erano state trovate là, assassinate là. O a qualche metro di distanza. Jeanette era stata aggredita là. Aveva detto che era successo là. Perché non avrebbe dovuto essere così?

Cosa significava? Cosa significava quel luogo? Aveva indagato sul passato… su Beatrice… L’aveva fatto anche qualcun altro? Esisteva un emulo? Odiava quella parola.

Ma quanto era accaduto a Beatrice non era un segreto, nemmeno dove era accaduto.

Qualcuno stava sfruttando la cosa? Un emulo.

Stava indagando nella direzione sbagliata? Doveva guardare in avanti invece che indietro?

Uno degli operai gli fece cenno di passare, e superò il veicolo che somigliava alla cucina da campo di un battaglione di fanteria o a uno dei veicoli di un film della serie Mad Max. L’asfalto caldo bolliva sotto la pioggia, fumava. Si sentiva un odore simile a quello di un attacco di fanteria entrare dal finestrino dell’automobile.

Avevano studiato le ultime ore delle tre ragazze il più attentamente possibile. Anche di Jeanette. C’era un’ulteriore stranezza. Lei era viva, ma la sua serata era la più difficile da ricostruire. I testimoni erano meno numerosi. Molti non riuscivano a ricordare.

Aveva esaminato la piantina, cercando di scoprire se avessero seguito la stessa strada per arrivare al parco, al blocco di pietra, all’apertura, al cespuglio.

Forse avevano un percorso comune, o qualcosa di simile. Se si sommavano tutte le testimonianze degli amici su dov’erano state, dov’erano andate e dove sarebbero andate la sera, c’era qualcosa che somigliava a un percorso che Beatrice, Angelika e Jeanette avrebbero potuto compiere la notte in cui avevano incontrato l’assassino. Iniziava a nord del centro, e tutti sapevano dove si concludeva.

A nord del centro. Cos’avevano fatto lì? Era la zona vicina al fiume, al vecchio porto o intorno all’Opera. Oppure dall’altra parte? Winter aveva letto i rapporti dall’inizio alla fine, ma non aveva trovato citato nessun locale che si trovasse nelle vicinanze dell’eventuale luogo dove iniziava l’eventuale percorso comune. Erano tutte coincidenze? Non lo sapeva, ma avrebbe continuato. Si sarebbe calato nella realtà della cartina, di quei quartieri.

Aveva cercato un punto di contatto tra quei tre casi, e questo era uno, ancora infinitamente vago, ma almeno era qualcosa. Che altro poteva fare?

 

Winter girò a sinistra. Il padre di Angelika Hansson era sulla soglia ad aspettare, come l’altra volta.

«Resterò qui da solo per un po’», disse Winter, e Lars-Olof Hansson chiuse la porta dall’esterno. Winter si guardò attorno nella camera di Angelika. Doveva ricominciare da capo. Aprì l’anta sinistra dell’armadio.

13

Non c’era nulla nell’armadio che non avesse già visto. Nessuno avevo spostato i vestiti da quando lui e Bergenhem erano stati lì a effettuare la prima perlustrazione della casa, e avevano controllato maglie e pantaloni, un lavoro che non augurava a nessuno. Toccava con riluttanza i vestiti delle persone decedute. Non era tagliato per diventare un tecnico della scientifica. Vestiti che nessuno avrebbe più indossato. L’aveva già visto in passato: per anni sarebbe rimasto tutto sui ripiani e nei cassetti, esattamente come tutti i mobili sarebbero rimasti al loro posto nella stanza, le carte sarebbero rimaste sulla scrivania, i libri nella libreria, i pochi soprammobili sarebbero rimasti intoccati.

Erano tutti ricordi materiali ormai, ricordi che non volevano più avere in quella casa, ma mancava loro la forza di farli sparire. O la voglia. O tutte e due, pensò, chiudendo le ante dell’armadio.

Cosa sto cercando? Se l’avesse saputo non sarebbe stato lì, non si sarebbe introdotto nella camera con i genitori disperati nella stanza accanto. Se l’avesse saputo, l’avrebbe già trovato, l’avrebbe portato via, per esaminarlo meglio.

Un segreto.

Aveva in testa quel pensiero da quando aveva parlato con il papà di Jeanette la prima volta. Lì c’era un segreto. Il padre o la figlia, forse entrambi, nascondevano un segreto. Qualcosa che non avevano detto. Non riusciva a indicarlo come si indica una prova. Ma riguardava il crimine contro la figlia, la violenza sessuale. Non riusciva a definirlo, ma lo sentiva. Anche Halders lo sentiva.

Aveva bisogno di lui. Era un caso anche per Halders. Un caso complesso, in cui era richiesto un modo di pensare capace di andare dritto alla meta, senza perdersi in false piste.

E adesso era lì in quella stanza da cui entrava poca luce dalle veneziane mezze abbassate.

Era seduto alla scrivania e stava guardando una fotografia di Angelika su un pontile davanti al mare. Un giovane corpo nero. E un sorriso grande e luminoso quanto l’orizzonte alle sue spalle.

Queste maledette fotografie che non prendono in considerazione il futuro. Aveva fissato mille fotografie come quella, come un veggente che prevede una tragedia che sa che avverrà. Tutto quello che c’è in quelle fotografie assume un altro significato rispetto a ciò che si vede in superficie, pensò. Quando guardo questa immagine è come se arrivassi a questo pontile dal futuro con un messaggio di morte.

Il padre di Angelika non custodiva un segreto in quel senso. Winter sentì che si schiariva la voce da qualche parte nella casa. Il padre – comunque lo era, padre adottivo ma padre – era sinceramente all’oscuro della gravidanza della figlia e di eventuali fidanzati.

Ma Angelika custodiva un segreto? In chi si era imbattuta quella notte? Esattamente come Beatrice, aveva lasciato gli amici ed era rimasta sola. O aveva incontrato l’uomo che l’aveva messa incinta più o meno otto settimane prima?

Cos’aveva fatto allora? Aveva quasi concluso la sua carriera scolastica durata dodici anni e stava entrando nella vita vera.

Si era imbattuta in un assassino o in uno stupratore che attendeva le sue vittime nella notte estiva? Un caso. Sfortuna, per usare un eufemismo. Oppure dietro c’era un movente? Era un crimine pianificato?

Il luogo poteva essere stato scelto con cura in entrambi i casi. Dal pazzo. Oppure dall’assassino che aspettava una persona in particolare, lei.

Allora non si trattava di Beatrice Wägner, o di Jeanette Bielke.

O forse sì?

Forse le tre ragazze avevano in ogni caso qualcosa in comune che aveva condotto due di loro alla morte, forse non si trattava soltanto di trovarsi nel posto sbagliato.

Avevano fatto qualcosa che… le univa. Poteva essere così?

Santo cielo, devo concentrarmi su questo omicidio. Tutto può avere un denominatore comune.

Winter sedeva con la testa tra le mani e pensava, tolse le mani, si alzò e aprì uno dei cassetti della scrivania. Aveva bisogno di fumare ma si trattenne. La voglia era aumentata da quando era diventato padre. Aveva pensato che sarebbe diminuita oppure svanita. Ma era aumentata. Fumava più che mai. Ciò significava che era il momento di smettere. Le allusioni discrete di Angela si erano lentamente trasformate in qualcos’altro. Non lamentele, mai. Ma forse… irritazione. Non era solo il medico in lei a parlare. Era buon senso. Buono.

Si alzò, attraversò la casa, uscì e accese un Corps.

 

Quando fu di ritorno, perlustrò metodicamente tutta la camera. Guardò a lungo la fotografia, di nuovo, la pelle di lei contro il mare. Aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori gli otto fasci di fotografie che aveva appena esaminato. Ricominciò da capo, e le divise in pile più piccole. Angelika in ambienti diversi, soprattutto all’esterno. Sorridente, seria. Divise le fotografie all’esterno da quelle all’interno. Quelle estive. Quelle invernali. I colori intensi delle foglie in autunno. Angelika in un mucchio di neve, nero, nero, bianco, bianco. Angelika su un pendio in primavera con gli anemoni bianchi che brillavano come i suoi denti. Angelika con il padre e la madre sullo stesso pendio: i genitori quasi pallidi come malati dopo l’inverno.

Le fotografie erano prive di data, ma sembravano tutte scattate nel corso dell’ultimo anno. Era solo una supposizione, ma trovò conferma quando lesse le date sulla busta. Erano quasi trecento fotografie. Era come un diario aperto del suo ultimo anno. Estate, autunno, inverno, primavera, di nuovo estate. L’ultima estate o mezza estate, pensò, e guardò la serie di fotografie del giorno della maturità. Cortile della scuola, fiori, palloncini, tutta la parte tradizionale, Angelika a un anno ingrandita diciotto volte su un cartellone che veniva agitato sopra tutte le teste.

C’erano parecchie persone intorno, in un largo semicerchio, parecchi volti. Winter riconobbe i genitori ma nessun altro. Angelika aveva il berretto bianco e rideva davanti all’obiettivo.

Sei settimane prima.

Winter continuò a sistemare le fotografie in diversi gruppi. Perché lo faccio? È una specie di autoterapia per resistere a una indagine così pesante? Come un solitario. Pazienza. Si tratta solo di pazienza.

Gli uccelli cinguettavano. La pioggia si era fermata, poi aveva ripreso a battere sulla finestra. Winter era rimasto seduto con una fotografia di Angelika in una specie di stanza con un muro di mattoni alle spalle. I mattoni erano… color mattone. Lei guardava nell’obiettivo ma non sorrideva. Il viso è inespressivo, pensò. C’erano bicchieri e bottiglie su un tavolo davanti a lei. Un paio di piatti vuoti con quelli che potevano essere avanzi di cibo. C’era un’ombra nell’angolo sinistro della fotografia, in alto. Un paralume o qualcosa appeso al muro.

Si trattava sicuramente di un interno, l’illuminazione sembrava arrivare da più direzioni e non c’era traccia di luce naturale. Forse si vedeva una vaga silhouette anche del fotografo. Posò la fotografia e ne tirò fuori un’altra in cui si vedeva Angelika di mezzo profilo, allo stesso tavolo, con lo stesso muro, ma senza l’ombra nell’angolo in alto a sinistra. Il fotografo si era spostato.

Forse un ristorante, pensò Winter. Un pub.

Le fotografie erano nella stessa busta di quelle scattate in inverno. Forse erano state scattate d’inverno anche queste. Nella busta non aveva trovato i negativi.

Forse era un posto che frequentava abitualmente. Avevano delle informazioni sui locali in cui andava a divertirsi? Sì. Alcune. Quale di essi aveva quella parete di mattoni?

Non c’erano altre fotografie di luoghi di ritrovo, ristoranti, pub tra tutte le trecento che aveva fatto passare e sistemato in pile di dodici davanti a sé sulla scrivania. Nessuna fotografia scattata in un interno. Ce n’erano alcune di bar all’aperto. In una il cameriere faceva una faccia simpatica.

Si alzò e uscì dalla stanza in cerca di Lars-Olof Hansson, che sedeva da solo in salotto a seguire i movimenti della pioggia sui vetri delle finestre.

«C’è qualcosa che vorrei che vedesse», disse Winter. «Se ha un minuto.»

«Solo uno», replicò Hansson, «sto aspettando che le gocce di pioggia scendano da quel vetro.» Indicò. «Non si decidono a farlo.»

Winter annuì, come se capisse.

«Di che si tratta?» domandò Hansson.

«Di qualche fotografia», rispose Winter. «Vorrei che le guardasse», e fece un cenno verso il corridoio. «In camera di Angelika.»

«Io là non ci entro.» Hansson distolse lo sguardo dal vetro. C’era odore di caldo e umidità nella stanza, come l’aria all’esterno. Il vento faceva ondeggiare gli alberi. Sia la stanza sia il giardino oltre la finestra rigata dalla pioggia sembravano immersi nel crepuscolo. «Non ci sono più entrato da quando è successo.»

«Le vado a prendere», disse Winter, e tornò con le fotografie. Le diede a Hansson. L’uomo le guardò, ma sembrava non vedere.

«Cos’è questo?» chiese.

«Non lo so di preciso», rispose Winter. «Sembra un locale. Forse un ristorante. Non lo riconosce?»

«Riconoscere cosa?» disse Hansson, e guardò Winter.

«Il locale. La parete. Qualunque cosa. Perché Angelika è seduta lì. E mi chiedo se sapesse dove si trovava.»

Hansson guardò di nuovo la fotografia che aveva in mano.

«No», disse. «Non ci sono mai stato.»

«Angelika sì», disse Winter. «Ci sono un paio di fotografie nel cassetto della sua scrivania scattate lì.»

«Non ho idea di dove sia», disse Hansson. «è… importante?»

«Non lo so», disse Winter.

«Frequentava tanti locali diversi, come fanno i giovani. Non li ho mai controllati.» Guardò di nuovo la fotografia. «Perché dovrebbe essere importante dove si trova quella dannata parete in mattoni?»

«Dipende da chi era presente», disse Winter.

«Angelika evidentemente c’era», replicò Hansson. «Magari era sola.»

«Qualcuno teneva la macchina fotografica», continuò Winter.

«Autoscatto», disse Hansson, ridacchiò e diede un colpo di tosse, come una specie di scoppio nella stanza chiusa. «Scusi», disse quando gli fu passato.

«È stata lì di recente», riprese Winter.

Hansson sembrava troppo stanco e disperato per sapere come facesse Winter a saperlo.

«Qualcun altro può averla vista», disse Winter. «E aver visto altre persone.»

Gli venne in mente anche un’altra cosa. Tornò in camera di Angelika a prendere le fotografie del giorno del diploma e le diede a Hansson, che aprì la mano quasi con apatia.

«È la sua maturità», disse.

Winter annuì. «Potrebbe aiutarmi a identificare le persone nella fotografia?»

Hansson la studiò.

«Anche quelli che sono di schiena?»

«Se riesce.»

Hansson indicò la fotografia.

«Quel ciccione laggiù a sinistra.» Alzò lo sguardo verso Winter. «Quello è suo zio Bengt, mio fratello. Si sta girando dall’altra parte a mangiare una coscia di tacchino o qualcosa del genere.» Alzò la mano verso la bocca. «Bulimico.»

«Chi altro riconosce?» domandò Winter.

Hansson li nominò uno dopo l’altro, puntando l’indice sui loro volti.

Quando ebbe terminato ne erano rimasti quattro.

«Mai visti», disse.

«È sicuro?»

«Che cazzo crede?»

Winter guardò i volti. Tre uomini e una donna. Due degli uomini potevano essere sui quarant’anni. Uno era moro e uno biondo con barba e occhiali. C’era qualcosa di vagamente familiare in lui. Il terzo era un ragazzo all’incirca dell’età di Angelika. La donna poteva avere quarant’anni, forse meno. Era in piedi a un’estremità della foto, come se stesse uscendo dall’inquadratura. Guardava da un’altra parte, lontano. Uno degli uomini era in piedi vicino al ragazzo. L’uomo somigliava al ragazzo, oppure il contrario. Aspetto mediterraneo, scuro ma comunque pallido, visi pallidi. L’uomo con gli occhiali e la barba aveva in mano un palloncino e rideva quando rideva Angelika. Winter pensò a dove potesse averlo incontrato. Non riconobbe il viso. Forse il portamento, leggermente curvo.

«Mai visti», ripeté Hansson.

Winter sentì la pelle d’oca. Proprio in quel momento, proprio là, stava succedendo qualcosa. Guardò di nuovo i quattro visi sconosciuti. Era come se gli altri intorno alla ragazza gli fossero familiari, adesso che Hansson li aveva identificati. Ma i quattro erano estranei. Potevano essere stati mandati da un luogo sconosciuto. Stava succedendo qualcosa.

«Non è strano?» chiese.

Hansson si strinse nelle spalle.

«C’era parecchia gente nel cortile della scuola, come può vedere lei stesso.» Toccò una delle fotografie. «Questi che non riconosco forse sono arrivati nel posto sbagliato.»

«È possibile?» Winter fece un cenno della testa verso la foto. «Sembra che… partecipino. Come se conoscessero Angelika.»

«Be’, io comunque non li conosco.»

«Non ha parlato con loro?»

«Ho detto che non li riconosco, cazzo!»

«Ok.»

Scese il silenzio. Winter non sentiva il ticchettio della pioggia contro i vetri. Riuscì a sentire una macchina passare sulla strada, il rumore dell’acqua contro le gomme.

«Che cazzo ci facevano là?» sbottò all’improvviso Hansson, e guardò di nuovo la fotografia. «Io non li avevo invitati.» Guardò di nuovo Winter. La sua espressione era cambiata. «Non li avevo visti, allora. Avrei dovuto vederli, no?»

«C’era tanta gente, come diceva lei stesso.»

«Non possono essere stati lì», disse Hansson.

«Cosa intende dire?»

«Sono arrivati… dopo.» Guardò di nuovo la fotografia e poi verso Winter. Si alzò e si avvicinò al commissario, che sentì il puzzo di sudore e l’odore della paura e della disperazione. «Non capisce? Sono arrivati più tardi! Erano stati mandati a quel cazzo di esame di maturità ma nessuno poteva vederli.» Fissò Winter negli occhi come un cieco. «Nessuno li ha visti. Nemmeno Angelika. Ma sono arrivati con un messaggio. Un messaggio dall’inferno!»

Continuò a fissare con sguardo cieco oltre la testa di Winter.

«E adesso sono tornati!» gridò.

Ha bisogno di cure, pensò Winter. Oppure ha ragione, ma in una maniera che non capisco.

Il viso di Hansson mutò di nuovo. Scosse la testa e guardò ancora la fotografia che aveva in mano. «Non troverà mai questa banda», disse.

«Ma crede che loro… siano insieme? Come una… banda?»

«Non ha importanza», disse Hansson. «Non esistono.»