11. Harry Gordon

 

Adesso, ritornava nello studio deciso a finirla. Mentre usciva dalla camera mortuaria, sulla soglia dello studio apparve Delia. «Vado a riposarmi...».

Ma perché quel collasso improvviso al nome di Harry Gordon? Non aveva saputo neppure dominarsi!

«La pregherei, signora, di non andare. Abbiamo altre cose da dire, essenziali. Attendo una notizia, che può essere d'importanza notevole...».

Lei rimaneva immobile sulla soglia. Sorrise. Uno strano sorriso doloroso, sarcastico, smarrito e pure pieno di sottintesi. «Sono stanca...».

«Lo so, lo credo... aspetti...».

Traversò il salotto, l'altra sala, aprì la porta dell'anticamera.

Pietro era seduto sulla panca di sinistra. Aveva gli occhi chiusi, ma De Vincenzi avrebbe giurato che non dormiva, che li avesse chiusi quando aveva veduto girare la maniglia della porta. I lineamenti del volto non erano rilassati e le membra abbandonate, come nel sonno.

«C'è cognac in casa? Ci sono liquori?».

Il domestico aprì gli occhi, fu in piedi. «Come, signore?».

De Vincenzi ripeté la domanda.

«Nello studio del marchese, nel piccolo armadio ad angolo, sulla parete del caminetto, c'è un bar... e poi...».

«E poi?».

«Anche nell'appartamento della signora marchesa c'è un bar...».

«Ho capito. Dormite».

«Oh! Io non dormivo, signore! Pensavo».

«A che cosa?».

«A molte cose, signore, ma a una specialmente: chi ha potuto staccare il ricevitore del telefono?».

«Vi piace risolvere enigmi?».

«Talvolta. Il gioco delle parole incrociate è il mio favorito...».

«Ebbene, risolvete questo: una persona è entrata iersera nella camera del marchese, dopo le nove... Chi era questa persona?».

«Ma nessuno può esservi entrato!».

«Per questo, appunto, è un enigma!». Girò sui talloni e tornò sui suoi passi.

La donna era sempre sotto l'arco della porta; ma si appoggiava allo stipite. Davvero doveva sentirsi estenuata. De Vincenzi le andò vicino, la prese dolcemente per un braccio, la ricondusse alla poltrona del caminetto.

Delia vi si lasciò cadere. Abbandonò le mani sui braccioli, riversò il capo sullo schienale. Teneva gli occhi aperti e lo guardava. «Si dà molta pena per me, commissario! Io sono ormai una cosa che non conta...».

Lui si diresse all'armadio d'angolo. C'erano, infatti, molte bottiglie di liquori. Al marchese doveva piacere bere forte. Ma De Vincenzi s'era fermato davanti allo sportello dell'armadio. «Strano!».

Era strano per lui che nella prima fila delle bottiglie, in alto, ci fosse un posto vuoto. Mancava una bottiglia tra quella del cognac e quella del rum. Poiché la seconda fila era al completo, e sul ripiano di fondo erano bicchieri e bicchierini, uno shaker d'argento, una scatola chiusa di ebano e avorio, quel vuoto appariva subito; era illogico.

Guardò con attenzione e allora scoprì altri due vuoti, meno visibili, ma non meno illogici. Anche in basso mancavano due bicchieri.

Sentì la voce di Delia ripetere: «Sono una cosa che non conta, io!» ma era diversa, aveva un timbro più netto e soprattutto lo aveva percosso in linea diretta, mentre la donna, come l'aveva lasciata, avrebbe dovuto voltargli le spalle.

Guardò e la vide di faccia: inginocchiata sulla poltrona coi gomiti appoggiati alla spalliera, a fissarlo. Si era riavuta anche dallo sfinimento. Aveva il ricupero delle forze facile!

«Suo marito beveva molti liquori?».

«Ma no! Gli piaceva averne molti lì dentro. Era una specie di mania. Un'abitudine contratta in Oriente...».

«Perché mancano una bottiglia e due bicchieri da questo armadietto?».

«Mancano? Non capisco dove possano essere...».

Si guardò attorno. Anche De Vincenzi lo fece. Non vide nulla; riprese a ispezionare la stanza con metodo, incasellando gli oggetti. Nulla. Stava per dirigersi alla porta, quando ricordò la ragione che lo aveva spinto ad aprire il bar.

«Vuol bere un cognac, signora?».

«Oh! sì...».

Quando ebbe bevuto, un poco le gote le si arrossarono e tossì. «Non sono abituata ai liquori forti».

«Adesso, rimanga seduta. Vado a cercare la bottiglia e i due bicchieri...».

L'infermiera dormiva. Il morto aveva la sua fascia bianca sotto il mento. I ceri ardevano sempre più corti. Ma nella camera da letto del marchese i due bicchieri e la bottiglia non li trovò. Sarebbe stato strano per lui, del resto, che li avesse trovati, perché aveva già visitato quel luogo a fondo.

Ecco un altro mistero, che si aggiungeva a quello del telefono. Ma non sarebbe stato il solo! Lui lo sapeva che soltanto riunendo tutti quei piccoli misteri, avrebbe potuto trovar la soluzione del problema.

«Eccomi qui! Adesso riprenderemo la nostra conversazione».

«Vuol discorrere con me tutta la notte?».

«Non credo che discorrerò con lei sola tutta la notte!...».

«Con me... sola?». Ebbe sguardi di bestia inseguita, e si strinse nella persona, per farsi piccina.

Che avesse paura d'un pericolo sovrastante era sicuro.

«Che vuol dire? Chi potrebbe venire qui dentro?».

«Qui dentro? Nessuno, evidentemente! Dov'è il campanello?».

«Lì...». Indicò la cornice del camino, sotto la specchiera dorata.

De Vincenzi premette il bottone.

«Pietro dormirà».

«No».

Il cameriere apparve.

«Guardate nel bar e ditemi quale bottiglia manca».

Pietro doveva aver gran dimestichezza con quelle bottiglie, perché gli bastò un'occhiata all'armadietto aperto, per dire con sicurezza: «Tra il cognac e il rum, signore, c'era il whisky».

«Dove potrebbero essere andati a finire la bottiglia del whisky e i bicchieri?».

«In nessun luogo della casa, signore, poiché io non li ho trovati. A meno che non siano nella camera del signor marchese, dove io, naturalmente, non sono entrato».

«Sta bene, Pietro. Tornate a pensare...».

Il domestico s'inchinò. Quando fu sulla porta si volse. «Se il signor commissario volesse favorire al telefono».

De Vincenzi si alzò, per seguirlo. L'uomo era uscito.

«Pietro deve dirle qualcosa che io non debbo sentire!» e Delia rise un poco convulsamente.

«Come lo sa?».

«Il tono della voce! Lui aveva sempre quel tono, quando mi annunciava una telefonata inesistente, per non parlarmi davanti a mio marito...».

De Vincenzi trovò Pietro davanti al telefono.

«Nessuno lo ha chiamato, signore, ma io ho risolto il suo piccolo enigma. La prima parte del suo enigma...».

«E cioè?».

«Non posso dirle chi era la persona che è entrata dal signor marchese dopo le ventuno di lunedì, ma credo di poterle indicare come ha potuto entrare nella sua camera da letto».

«E cioè?».

«Sulla parete di fondo di quella stanza, quasi nascosta dalle cortine del letto, si apre una piccola porta invisibile».

«Che dà?».

«Sopra una scala, signore».

«E dove termina quella scala?».

«In giardino, signore».

«Molta gente conosceva quel passaggio?».

«Gli intimi».

«E cioè?».

«Non potrei elencarli. So, però, che da quella porta passava il signor Marco...».

«Ho capito».

«Pronto! Centrale? Dammi la Mobile... Oh! Sei tu, Sani... Qui commissariato di via Settala... Sì, i pompieri e i nostri agenti hanno fatto lo sbarramento in piazzale Loreto; ma credo non ce ne sia più bisogno, oramai... I vigili notturni hanno trovato poco fa una motocicletta abbandonata contro i cancelli dei Giardini Pubblici, sui bastioni Venezia. Attaccati al sellino c'erano un casco e un paio d'occhiali... L'uomo se ne è andato a piedi, evidentemente... Se pure non si è incontrato con qualche complice in auto...».

«Lei aveva ragione, marchesa! Pietro voleva comunicarmi che la camera di suo marito ha un passaggio segreto...».

«Ah! Perché non me lo ha chiesto? Glielo avrei detto io. La porticina si apre proprio dietro la testa del cadavere...».

«Interessante!».

«No. Comodo! Mio marito faceva entrare da quella parte tutte le persone che non dovevano essere viste dalla servitù, o che avevano con lui rapporti d'affari».

«Molte?».

«Ma no! Il signor Marco, forse qualche gioielliere, forse, qualche rivenditore privato di gemme».

«Qualche ricettatore privato...».

«Può darsi. Il marchese non chiedeva mai la provenienza delle gemme che gli offrivano, specialmente se gliele offrivano a basso prezzo».

«Già!».

«Una passione, la sua!».

«E lei, marchesa...».

«E io?».

«Lei non si serviva di alcun passaggio segreto e... comodo nel suo appartamento?».

«Non avevo la passione per le gemme, io!».

«E nulla da nascondere?».

«Oh, sì... ma nessun bisogno di passaggi segreti...».

«Lei andava nell'appartamento di Vannetta Arcangeli o al Decamerone, per i suoi segreti».

«Se vuole chiamarli così!».

«Era lì che s'incontrava con Harry Gordon?».

«Io non conosco Harry... Gordon...».

Adesso, si era proprio tutta rappresa in se stessa. Aspettava l'attacco. Aveva sempre più le gote accese.

«Ma sì...» disse con dolcezza De Vincenzi. «Lei conosce Harry...».

«Ravvivi il fuoco... Fa freddo!». Guardò la pendola. Segnava le tre. Quante ore sarebbe durato ancora il martirio di quell'interrogatorio?

De Vincenzi diede un colpo al ceppo con l'attizzatoio e il ceppo sfavillò. «Sì, marchesa. Lei conosce Harry Gordon, ma non credo che lui le abbia mai prestato denaro, come ha fatto con Claudia Sutton...».

«Che c'entra la contessa? Perché parla di denaro prestato?».

«Harry Gordon avrebbe dovuto telefonarle questa sera, dopo le sette?».

Gli occhi le si riempirono di meraviglia. «Oh!».

«È per questo che lei ha staccato il ricevitore del telefono? È per questo che manca una bottiglia di whisky?».

Fu violenta. «Ma che pensa lei, che io facessi venir qui dentro Harry a bere?».

«No. Questo non lo credo. E sono quasi sicuro, anzi, che nella sparizione della bottiglia non abbia alcuna parte. Soltanto che lei con la sua risposta, mi ha confessato di aver avuto rapporti con quell'uomo».

Seguì il silenzio.

Delia rimaneva accoccolata sul fondo della poltrona. Doveva lavorar col cervello. Il suo sguardo rifletté le varie fasi attraverso le quali passava il suo pensiero. Ci fu la fase atterrita, quella torbida, quella disperata e infine la fase della reazione vittoriosa. La «regina degli insetti» tornò allora per un istante a impugnare lo scettro. Ma subito seguì la fase ultima, in cui si dispose a conservare il suo scettro con l'astuzia.

E lo sguardo le si spense, in un sospiro dolce e liberatore. «Vedo che dovrò dirle tutto!».

Distese le gambe, allontanò le spalle dallo schienale della poltrona, si appoggiò con le mani ai braccioli e si protese verso l'insetto pericoloso e troppo cortese che le stava dinanzi.

«Mi ascolti...».

De Vincenzi si preparò ad ascoltarla. Sapeva che gli avrebbe detto qualche menzogna vestita di verità e tanto più ingannevole, quanto più adorna di particolari esatti, controllabili. Per lui il tempo non aveva più valore. Concedeva a lei e agli altri tutte le ore che avessero voluto! Tanto, oramai, sarebbe arrivato ad averli in pugno! E allora...

Rivide sul piancito del portone il cadavere del povero agente, che giaceva di fianco, con le gambe piegate, perché era caduto dalla seggiola come un fantoccio senza più articolazione. «Mi dica tutto quello che ha sul cuore, signora».

«Sì. Ho conosciuto Harry Gordon in casa di Vannetta Arcangeli».

De Vincenzi assentì col capo, per incoraggiarla. Quello doveva essere uno dei particolari esatti. Il primo. Si propose di numerarli.

«Lui non fumava...».

«Strane cose dovevano avvenire in casa di Vannetta!».

«L'oppio crea una seconda personalità e toglie ogni forza, ogni volontà alla personalità vera».

«Capisco».

«È di questa mia seconda persona che Harry Gordon è divenuto amico».

«Intimo?».

«Se le ho detto che è una personalità fittizia, irresponsabile!».

«Ah!».

La guardò con ammirazione, poi con pietà. Aveva preparato prima quella difesa o ne aveva avuto il lampo con folgorazione improvvisa, mentre gli parlava? Ma doveva essere reale in lei la sensazione di aver menomate le proprie facoltà fisiche e morali sotto il dominio della droga. Per questo la compatì. «Dunque, Harry Gordon la obbligò a essergli amico».

«Sì».

«E che cosa... la obbligò a fare?».

«Ma nulla! Nulla, almeno, che abbia relazione con... tutto quello che sta accadendo...».

«Neppure a... prendere lo smeraldo?».

«Se le ho detto che io non sapevo dove mio marito avesse le gemme!».

«Sì, me lo ha detto».

«Le ho cercate! Harry voleva lo smeraldo...».

«Non le disse a che scopo lo volesse?».

Lo guardò stupefatta. «Ma... lo smeraldo aveva un enorme valore!».

«Immagino! Ma lei non sapeva che unito alla barchetta di cristallo ne avesse uno ben più grande?».

Ebbe un brivido di terrore. «Non la nomini la... quella cosa... Sì, la conosco...».

«L'ha veduta?».

«Sì... non la nomini!».

«Dunque lei è andata anche in casa del signor Marco?».

Si accorse di aver detto una verità che avrebbe fatto meglio a tacere ed ebbe un gesto d'ira. «Ci sono andata una sola volta!...».

«Non importa!».

Importava moltissimo, invece, e Delia tentò una diversione. «Margaret...».

«Che c'entra Margaret?».

«Già! Non c'entra... Ma lei scese con me dal vecchio...».

«E Gastone?».

«Ma non sapeva nulla dell'oppio e dei convegni in casa di Vannetta, mio nipote!».

«Che cosa fa suo nipote?».

«Lo studente».

«Di?».

«Medicina».

De Vincenzi si alzò, con indifferenza, per dare ancora qualche colpo al ceppo e le faville sprizzarono. «È ricco suo nipote?».

«Lui!». Rise. «Come me! Avevamo i denari del marchese! Gastone viveva alle spalle di suo zio!».

Furono bussati due colpi discreti alla porta. Delia sussultò.

«Avanti» disse De Vincenzi.

Apparve Pietro. «La chiamano al telefono, signor commissario».

«Questa volta è proprio il telefono...» mormorò la donna. E non sbagliava.

De Vincenzi ascoltò col microfono all'orecchio, senza interrompere.

«Ho capito. Sta bene. Togliete tutti gli agenti della zona di Porta Venezia... Ma sì, ho detto proprio: togliete! È inutile arrischiare la pelle di qualche altro disgraziato! E poi desidero che l'uomo possa circolare liberamente per alcune ore, fino all'alba. Avverti anche il comando dei vigili notturni. Nessun vigile per corso Venezia e per tutte le adiacenze. Assumo io la responsabilità. Nient'altro... Come? Digli pure che domani sarà tutto finito...». Riappese il ricevitore.

Aveva lo sguardo acceso. Ma Pietro non scorse in lui alcuna altra eccitazione.

«Venite con me». Lo condusse nella camera del morto. «Indicatemi la porticina».

Era dello stesso colore della parete, coperta dalla medesima stoffa. Si fece indicare il bottone da premere per farla aprire. Vide un breve corridoio e poi la scala a chiocciola. «Dove dà, esattamente, questa scala?».

«In giardino».

«Esattamente?».

«Nell'angolo di destra del giardino... In fondo, sui Boschetti».

«Bene». Fece scattare di nuovo la molla e la porticina si richiuse. Si guardò attorno. No! Non poteva lasciare l'infermiera addormentata in quella stanza... Che ci fosse il morto non contava.

Andò a sollevarla dalla poltrona e la prese in braccio. «Conducetemi nella vostra camera, Pietro. La metterò a dormire sul vostro letto. Voi non avrete bisogno del letto, questa notte».

«Sì, signore».

Quando ebbe deposto il fardello e si trovarono di nuovo nell'anticamera, De Vincenzi ordinò:

«In portineria ci sono due agenti. Fateli salire».

Ai due uomini diede l'ordine di rinchiudersi col giardiniere nella portineria, di spegnere la luce e di non muoversi fin quando lui non li avesse chiamati. «Qualunque rumore sentiate in giardino, non dovete uscire. Capito?».

I due uomini trovarono comoda la consegna, perché la portineria era riscaldata.

«E adesso, Pietro, tornate a sedere su quella panca e, questa volta, non pensate più a nulla. Addormentatevi!».

«Ma... signore...».

«Dormire dovete!». Tornò nello studio. «Signora, lei ha addormentato l'infermiera... L'idea è stata caritatevole e io non la biasimo, ma il morto occorre vegliarlo! Lo veglierò io, se permette».

«E io?».

C'era molto spavento nella sua voce.

«Venga! L'accompagnerò fin sulla soglia del suo appartamento. Lei deve prendersi qualche ora di riposo, perché domattina si avranno le esequie e nel pomeriggio la lettura del testamento...».

La donna obbedì con docilità.