Il tono s'era subito fatto ricercato, prezioso, ma lei aveva impallidito e ansava leggermente. Si trasse da parte, per farlo entrare.
La stanza d'ingresso era quella di una qualunque casa borghese.
«Per di qua, signore».
Aveva ritrovato la sua distinzione e quell'aria da gran dama, che avevano reso perplesso De Vincenzi la prima volta.
C'erano tre porte. Aprì quella di fronte. Una stanza da pranzo coi mobili chiari, di legno biondo, carichi di intarsi. In mezzo alla tavola un vaso di cristallo con qualche garofano appassito.
Il commissario si guardò attorno rapidamente. Sulla credenza c'era un piatto di carne del giorno prima e il pane ancora incartato dal fornaio. Certamente non era quella la stanza dei consulti e la donna aveva preferito fargli vedere il bollito, più tosto che le carte o i fondi di caffè.
«S'accomodi…».
Prese il piatto della carne e lo fece sparire dentro la credenza. Cacciò il pane in un cassetto.
Poi andò a sedersi all'altro angolo della tavola, al suo fianco, e volse la seggiola di tre quarti, per poterlo guardare in faccia.
«Mi dica in che cosa posso esserle utile… Mi duole che mia figlia sia fuori di casa. Ma se lei si trattiene, la vede tornare. Alla mezza, termina la scuola e ha poca strada da fare…».
De Vincenzi taceva. Era imbarazzato. Avrebbe preferito adesso che la portinaia non gli avesse parlato di consulti. Per la strada, in tranvai, s'era fatto un piano.
Sapeva di dove cominciare. Ora, non più. Quella donna a due facce lo sconvolgeva. Come poteva far le carte, con la sua voce musicale e vibrante e il suo contegno da marchesa?
La signora Sorbelli, davanti al suo silenzio, cominciò a guardarlo meravigliata. Improvvisamente le passò sul volto un'ombra di spavento.
«C'è qualcosa di nuovo? Mi dica!… Ho letto nei giornali che hanno ucciso anche la cameriera…». Mandò quasi un grido. «Ah! Lei è qui per questo!». «Per questo, che cosa?» chiese De Vincenzi.
«Perché crede che io sappia più di quanto le dissi; nel suo ufficio…».
«Sa realmente di più lei?».
«Ma no! Come potrei? Quando l'ho veduto sulla soglia della porta, non ho pensato neppure che lei era un commissario di polizia… Mi spiego… L'ho chiamata commissario, ma non mi sono resa conto che potesse venire da me a causa delle sue funzioni… per interrogarmi… E strano! Mi è apparso come un visitatore qualsiasi… un buon amico…».
«Un cliente» insinuò De Vincenzi con voce soave. Cominciava a ritrovare la sua freddezza.
L'altra tacque, colpita. Sembrò facesse uno sforzo, per capire.
«Un cliente?» chiese poi, irrigidendosi.
«Dicevo per dire…».
«Non credo! Lei ha un'idea precisa. Si riferisce a qualcosa di concreto. Perché vuol giocare con me come con un topo? Anche il suo lungo silenzio di quando è entrato… Crede che io abbia un mistero da nascondere?».
«Non proprio un mistero, forse…».
«Ma un?… Suvvia! Dica che cosa…».
«Un piccolo, piccolissimo segreto…».
«Ah!».
Si osservarono. Nessuno dei due voleva parlare per il primo, lei perché temeva di dir troppo, il commissario perché sperava che la donna si tradisse. In fondo, lui brancolava nel buio, guidato soltanto dalla propria intuizione.
«Mi vuol dire perché mi ha onorata di una sua visita?».
La voce d'oro s'era fatta fredda, quasi imperiosa.
De Vincenzi tese la mano sul tavolo con la palma rivolta in alto, verso di lei.
«Vuol leggermi la vita?».
Fu istantaneo. Il volto già flaccido e bianco le si decompose. Gli occhi le divennero supplici. Due lacrime le rigarono le gote.
«Lo sa?!» mormorò. «E per questo che è venuto! La supplico, non mi faccia del male. Oppure, faccia quel che deve, ma eviti che lo sappia mia figlia!… Se non ho preso la licenza, se non ho fatto la dichiarazione alla Questura, non è stato per nascondermi. In fondo, io credo sinceramente nella chiromanzia, come in tutte le arti magiche. Quel che dico e faccio lo compio inconsciamente, mossa da una forza superiore. Glielo giuro! Ma non volevo che lo sapesse la mia Tina! Lei stesso ha sentito come mi ha rimproverata, perché avevo partecipato alle sedute spiritiche! No! Non glielo dica! Ne morrei creda: ne morrei di vergogna!».
Singhiozzava. Era livida. Doveva soffrire di cuore, per di più! De Vincenzi si spaventò.
«No! Non glielo dirò! Non ha importanza. Si calmi!…».
Si guardava attorno.
La donna sembrava mancare. Sollevò la mano e indicò l'armadio. Il commissario si precipitò. Aprì tutti gli sportelli prima di trovar l'acqua. La fece bere. Lei piangeva sempre.
«Non lo dirò mai a sua figlia» scandì con forza De Vincenzi. «Si calmi».
E la donna si calmò, infatti, come se il tono imperativo di lui le si fosse imposto.
«È passato» mormorò con voce bianca. «Sono calma».
Un temperamento facilmente suggestionabile, perbacco! Chiunque avesse voluto operare su di lei con l'ipnosi o col magnetismo, ne avrebbe fatto quel che ne avesse voluto, l'avrebbe ridotta uno strumento inconscio.
Il cervello di De Vincenzi si mise a lavorare febbrilmente.
L'avevano suggestionata anche per imporle di predire la morte a Magni? In questo caso dovevano aver lo scopo di gettare il turbamento nell'animo del senatore, per indurlo a qualche atto, che facilitasse l'opera dell'assassino.
«Non dirà davvero nulla a mia figlia?».
«Certamente, no».
«Grazie!».
«Ho però qualche cosa da chiederle in cambio…».
Le pupille della donna s'oscurarono.
«Sì… Sono pronta a tutto, pur di evitare un dolore a Tina. Lei non sa che i denari del suo stipendio e della mia pensione non bastano… Non possono bastare!… Mio marito, poverino, giocava… ha lasciato molti debiti… Io mi sono assunta di pagarli, senza che Tina lo sapesse, perché voglio che la memoria di lui sia pura! Allora… Capisce? Ho cominciato quasi per ischerzo, con le amiche… Poi mi sono fatta pagare… Ricevo i clienti soltanto nelle ore in cui mia figlia è a scuola… Ho avvertito la portinaia che non faccia salire nessuno, quando Tina è in casa…».
Per questo, la portinaia gli aveva chiesto se andava per un consulto. Doveva essere la verità quella che diceva la donna, anzi, era certamente la verità.
«Ma lei non parlerà, vero?».
De Vincenzi disse di no col capo.
«E… Mi permetterà di continuare?».
«Fin quando non se ne accorgano gli altri… Per quel che mi riguarda, io non c'entro. È come se non lo sapessi».
«Oh! Grazie».
Esultava; ma di nuovo gli occhi le si oscurarono.
«E da me che vuole? Che cosa posso fare per lei? Si tratta forse?…».
Il commissario assentì col capo, gravemente.
«Ma io non so nulla!».
«Non importa. Ma se le chiedo di partecipare ad una seduta spiritica per me… Con alcuni miei amici… Accetta?».
Lei si turbò.
«Non capisco!».
Forse, temeva un tranello.
«Non vorrà mica mettermi alla prova?».
«Non ci penso neppure. Di lei non dubito».
Si alzò. La donna gli afferrò una mano.
«Me lo ha promesso, badi!».
Faceva pena. Aveva perduto ogni fierezza. Per un istante sembrò a De Vincenzi che stesse per baciargli la mano. Rapido, si liberò dalla stretta.
«Stia tranquilla! Sono un gentiluomo…».
Non adoperava mai quella frase, che a lui ripugnava, perché di solito proprio chi lo afferma non lo è; ma sentiva che con quella donna occorrevano le parole drammatiche, le frasi teatrali.
Squillò il campanello. Due o tre colpi successivi.
«È mia figlia!… Che cosa le dirà, per spiegare la sua presenza?».
S'era alzata, aspettava con ansia la risposta, prima di andare ad aprire.
«Interrogherò anche sua figlia. È sempre l'inchiesta, che continua. Sua figlia non può meravigliarsene».
«È vero!».
Ma non sembrava completamente persuasa. Traversò l'ingresso con passo incerto.
«Tina, c'è il signor commissario, che vuole interrogarci ancora…».
«Ha già parlato con te, mamma?».
«Poche parole… È appena arrivato…».
«Buongiorno, commissario. Sempre quella storia dello spiritismo, eh?».
Era ancora più piccola, più insignificante, più inesistente della prima volta che De Vincenzi l'aveva veduta. Forse, per il suo abitino grigio, col colletto rovesciato di tela bianca, la sottana corta, da cui uscivano le gambe troppo magre e ossute, con le calze nere e le scarpe a tacco basso e a punta quadra. Sotto il cappellino scuro, il visuccio smorto si profilava senza rilievo.
Il commissario, s'era inchinato. La guardava.
«Già!…».
Un lampo di corruccio illuminò improvvisamente il volto della ragazza.
«Mamma s'è sentita male!» disse, indicando la bottiglia dell'acqua e il bicchiere sul tavolo e fissò De Vincenzi con rimprovero. «Che cosa le ha detto, lei?».
«Non mi sono sentita male, Tina… Il commissario è stato gentilissimo…».
«E da me che cosa vuole?».
Non era aggressiva. Soltanto amaramente rassegnata.
S'accorse d'avere tra le mani, inguantate di filo nero, un libro e le pagelle e li posò sul tavolo. De Vincenzi tossì.
«Vorrei che rammentasse chi venne a invitare sua madre, sabato scorso, perché andasse al Circolo di via Broletto…».
La figlia diede uno sguardo alla donna, che si teneva sulla soglia.
«Non glielo hai detto?». «Non me lo ha chiesto».
«Si vede che voleva chiederlo a me» disse, sempre con quel tono di rassegnazione pacata. «Fu il signor Chirico. Venne il venerdì verso sera, poco prima di cena». «Come disse?». «Oh! Vuole che ricordi le sue parole!».
«Insisté, perché non mancasse? Sembrò annettere un'importanza particolare a quella seduta?».
«Non più delle altre volte. Lui insisteva sempre, soprattutto quando ero presente io, che sapeva ostile a quel genere di cose».
«E la mamma si recò sola in via Broletto?».
«Io non potevo accompagnarla. Nel pomeriggio del sabato c'è sempre il cinematografo educativo e debbo condurvi i bambini».
«Quando sua madre tornò dalla seduta, le riferì nulla di particolare?».
«Povera mamma!» ma nella sua compassione era una punta di biasimo, quasi di disprezzo. «Quando torna da una di quelle sedute, è molto se trova la forza di mangiare prima di coricarsi. Quella sera si coricò subito, tanto era stremata. Le portai uno zabaione a letto».
«E l'indomani… quando si sentì in forze, insomma… non le accennò alla profezia, che aveva fatta durante il sonno magnetico?».
«No. Io l'ho sentita per la prima volta davanti a lei. Ma non mi sarei impressionata, se me l'avesse detta. Non credo allo spiritismo, io».
«Neppure che sua madre abbia virtù medianiche?».
«Questo non c'entra. Siamo nel campo dell'ipnosi e della suggestione, secondo me. Mia madre è molto impressionabile. Come una bimba».
Sempre quell'aria di compatimento poco indulgente. Si indovinava che era lei a far andare la casa e a comandare. E non doveva avere la mano leggera, nell'imporre la propria volontà.
«Grazie, signorina. Questo è tutto».
S'inchinò di nuovo. La madre lo aspettava in anticamera.
Quando fu sulla porta della stanza da pranzo, la signorina lo richiamò: «Commissario!».
«Dica!».
«Se può interessarle, le dichiaro che non permetterò mai più a mia madre di recarsi al Circolo di via Broletto…».
«Farà bene, signorina, se proprio crede che la salute di sua madre ne soffra…».
La donna gli aprì la porta e, mentre usciva, gli sussurrò: «Lei conti su me! Ma deve mantenere la sua promessa!».
«L'avvertirò. Grazie…».
E scese le scale in fretta. Al passaggio vide, dietro i vetri della porta, il volto della portinaia, che spiava.
Uscì in istrada. Camminava assorto. Adesso gli sembrava che nel suo spirito le impressioni ricevute si precisassero. Si avvicinava alla spiegazione del mistero. Neppur lui, però, avrebbe saputo dire perché lo credesse. Era una sensazione indistinta, che gli veniva dal suo subconscio. Quale rapporto vi fosse tra quelle due donne e la morte del senatore e soprattutto quale legame invisibile tra esse e l'assassino non sapeva. Certo, non un legame d'interesse. Piuttosto uno di quei fili misteriosi, ignoti a coloro stessi che ne sono avvinti. Un'onda eterea, priva di calore, priva di luce.
I tranvai passavano davanti a lui, senza fermarsi, colmi, stipati di gente. Impiegati, commesse, dattilografe.
Scese corso Italia lentamente, a piedi. A casa, Antonietta l'aspettava, fremendo, per la colazione, che lui faceva freddare come il solito. Le avrebbe telefonato che non andava. Quando fu davanti al telefono di una tabaccheria, chiamò San Fedele, invece di casa sua. Si fece dare Sani.
«Novità?».
«Ho fatto quanto t'interessava. Alle due, l'autista sarà qui…».
«Grazie. Nient'altro?».
«Il dottor Verga sono tre giorni che non va in viale Bianca Maria…».
«E l'infer… e quella signorina americana?».
«Quella sì. È lei che manda avanti l'ambulatorio. Naturalmente, i clienti sono quasi tutti scomparsi, adesso che il professore non c'è più».
«Manda Cruni a casa di Verga, in via Leopardi. Che me lo conduca in Questura nel pomeriggio…».
«Va bene…».
«Grazie… Ah! Senti! Per favore, telefona tu a casa mia. Di' ad Antonietta che non vado a colazione. Se telefono io, mi fa la paternale!».
«Chiamo subito. Le dirò che tu mangi col Questore…».
«Fa' come vuoi. Ma la storia del Questore Antonietta la conosce già!… Ciao!».
Uscì dalla tabaccheria e scese da piazza Missori per via Carlo Alberto.
In piazza del Duomo vide che era la una. Lui aveva abitudini modeste; ma, quasi senza rendersene conto, imboccò la Galleria ed entrò al Biffi. Sedette nell'ultima sala, dove c'era meno gente. Ordinò quel che volle il cameriere. «Vino?».
«Acqua minerale».
Il cameriere s'allontanò.
«Astemio, commissario? Eppure un po' d'alcool fa bene!».
Si voltò di scatto. Al tavolo accanto al suo c'era il dottor Marini, che gli sorrideva, esuberante di gaiezza e di cordialità espansiva.
«Io bevo birra!…».
«Fa sempre colazione qui, lei?».
«Io? No. Ma ho mandato mia moglie in campagna. È sofferente. E allora, per non digiunare, mangio dove mi trovo…».
«Ah! Sua moglie è ammalata?».
«Sofferente soltanto. Mali di donne. Si cambia aria e passano».
«Non ha figli, lei?».
«No».
Il cameriere serviva De Vincenzi.
«Virgilio, il signore è mio amico. Porta via quell'intingolo e dagli il piatto del giorno… Dia retta a me, commissario! Quando viene qui dentro, ordini sempre il piatto del giorno».
Virgilio, interdetto, era rimasto a guardar De Vincenzi. Questi gli tolse il piatto dalle mani e se lo mise davanti.
«Sarà per un'altra volta. Stamane, ho fretta».
Marini disapprovò col capo. Poi, come a un'idea improvvisa, si chinò verso la tavola vicina e chiese, abbassando la voce: «C'è qualcosa di nuovo?». «Forse…».
«È vero quel che si dice di un arresto?». «È vero».
«Ha trovato la strada buona, dunque?». «Spero…».
De Vincenzi era laconico; ma senza scortesia. Anzi, sembrava disposto alle indiscrezioni.
Il dottore aveva terminato di mangiare la sua macedonia di frutta. Bevve il maraschino ch'era rimasto nella coppa, si asciugò la bocca e si alzò. «Permette?».
Aveva preso una seggiola e si teneva davanti al tavolo del commissario. «S'accomodi».
«Sa? Non è curiosità la mia. Ma l'idea che Ugo, non sarebbe stato vendicato mi torturava!». «E quell'altra?» scandì De Vincenzi, guardandolo. «Quell'altra?». «La cameriera… Norina…».
«Sì, naturalmente. Una cosa orribile! Ma Ugo era mio amico. Ci volevamo bene».
«Lo sa che l'autopsia ha constatato che quella ragazza era incinta, quando è morta?». «Oh!».
Aveva impallidito. Per qualche minuto non trovò la forza di parlare.
De Vincenzi mangiava e l'osservava, senza parere.
In quella sala erano rimasti loro due soli. Il cameriere cambiava il piatto, metteva sulla tavola il canestro della frutta.
«Vuole il caffè?».
«Sì».
«Liquori?».
«No».
Passò il sigaraio. Offrì il Corriere del pomeriggio.
Finalmente, furono soli di nuovo.
«È mostruoso!» mormorò il dottore. «Che fosse incinta oppure che l'assassino l'abbia Strangolata e gettata nella Darsena?…».
«Ma allora…» e s'interruppe.
«Allora, che cosa?».
«Anche lei, come le altre, lo amava!».
«Pare!».
«Siete sicuri che non è stato un suicidio? Tutto si spiegherebbe!».
«Meno il fatto che quella disgraziata si sia strangolata da sé, stringendosi così forte alla gola da schiacciarsi le vene giugulari!».
Seguì un altro silenzio.
«E l'arrestato?».
«Un vecchio ladro, che sembra si sia tradito, cercando di vendere il cappello del morto e il mantello della ragazza…».
«Imbecille!».
«Infatti…».
«E come lo avete scoperto?».
«Ah!» fece De Vincenzi, sorridendo. «Io non ci ho proprio merito. E neppure la Polizia. Lo ha scovato un uomo di Harrington».
«Il detective privato?».
«Già».
«Quello che fece arrestare i ladri del gioielliere di via Santa Margherita?».
«Proprio!» esclamò il commissario e si chinò in fretta a raccogliere il tovagliolo, che gli era caduto. Per qualche istante rimase col volto sotto la tavola.
Quando si sollevò, bevve il caffè in fretta e chiamò il cameriere per pagare il conto.
«Se permette, faccio fare tutt'uno col mio. L'altra notte pagò lei le consumazioni al caffè».
«Non è la stessa cosa. Grazie!».
Uscirono assieme. La Galleria era piena di gente affrettata. Soltanto nel centro c'era il solito gruppo di persone, che chiacchieravano tranquillamente. I tavoli del Biffi e del Savini si andavano vuotando.
De Vincenzi voltò sotto il passaggio del Manzoni. Il dottore gli camminava a fianco.
«Crede che sia tutto finito?».
«Finito?».
«Voglio dire che abbiate preso l'assassino…».
«Già… Ha confessato?».
«Non parla, neppure per negare».
«Ma sarà un mandatario!».
«Naturalmente».
«E il mandante?».
De Vincenzi si fermò in mezzo alla piazza, davanti al monumento.
«Quale ipotesi farebbe lei, dottore, ch'era un amico del morto?».
«Gliel'ho già detto che non saprei pensare chi possa essergli stato nemico al punto da volerne la morte… Gelosia? Invidia? Non bastano per pagare un sicario!».
«È vero. Agiscono da sole. D'impeto. Allora?».
«Non so. Mi ci perdo… Ipotesi? Oh! Se ne possono fare. Una donna, che abbia voluto vendicarsi…».
«Anche qui siamo nel campo passionale…».
«Ha ragione!».
Trasalì, fissò De Vincenzi.
«E se fosse stato quel fratello della cameriera? I giornali hanno detto che era un pregiudicato. Fra gente di quella risma si può stringere un patto».
«E avrebbe fatto uccidere anche la sorella, dopo averla vendicata?».
«La ragazza poteva aver scoperto qualcosa e aver minacciato di parlare… Una donna che ama è sempre pericolosa».
«L'ipotesi è sottile» fece De Vincenzi con gravità. «Ci penserò. Vede che lei era in grado di darmi aiuto! Ed è scomparso per tanti giorni…».
«Ah!» fece il dottore, allargando le braccia. «Se sapesse che non ho un minuto di pace».
«Ma le sue passeggiate notturne, quelle le farà ancora, no?».
«Lei di notte rimane chiuso a San Fedele! Lavora… Non ho osato venirla a disturbare».
«Venga, quando vuole. Mi farà sempre piacere… E poi non ho deposto l'idea della seduta spiritica… Lo sa che mi vado sempre più convertendo alla sua credenza?… Un mondo ci circonda, che ignoriamo!».
«Oh!» esclamò il dottore. «Coloro che si contentano di quel che esiste, si contentano di poco!».
«Ebbene, perché non aiuta anche me a non contentarmene?».
Marini rimase qualche minuto in silenzio. Aveva lo sguardo fisso.
Il volto di solito roseo gli si era sbiancato. Le labbra tumide gli tremavano leggermente.
De Vincenzi attese.
Finalmente, l'altro parlò. La voce era dura, metallica, quantunque contenuta e quasi soffocata. Si sarebbe detto che parlasse a se stesso.
«E stato dieci anni or sono che io mi sono dato alle pratiche spiritiche, profondamente convinto ch'esista un altro mondo invisibile e che sia possibile agli uomini di comunicare con esso. Credere allo spiritismo, vuol dire credere alla sopravvivenza dell'anima sul corpo, alla sua individualità dopo la morte e quindi alla sua immortalità. Coloro che ci lasciano possono tornare… Da allora, non ho fatto che un solo proselite alla mia fede… E fu Magni… Oggi, Ugo è morto… Morto nel modo che sappiamo… Non ricomincerò l'esperienza con un altro!…».
De Vincenzi rise.
«Non crederà che il senatore sia morto, perché si era dato allo spiritismo!».
«Oh! No… Ma io sono superstizioso. Tante cose che agli altri appaiono assurde o comiche o grottesche, per me hanno un valore diverso. Non mi badi».
Tese la mano al commissario.
«E adesso vado dai miei ammalati, i quali non hanno alcun desiderio di conoscere l'aldilà e si affidano a me, per non conoscerlo…».
Era tornato gioviale.
«A rivederla. Verrò certamente una di queste notti. Ma non discorreremo di spiritismo. Non bisogna parlarne a cuor leggero… e, per farlo seriamente, occorre trovarsi nello stato di grazia. Creda a me!».
Si allontanò in fretta e scomparve per via Agnello.
De Vincenzi entrò in San Fedele, ripetendo involontariamente a se stesso le parole, che il dottore aveva pronunziate in un momento di meditazione quasi allucinata: «Coloro che ci lasciano possono tornare…».
Sani gli si fece incontro, per dirgli: «Di là, con Cruni c'è quel Pietro Santini… E venuto da sé… Ti vuol parlare…».
«Fallo venire» disse il commissario, entrando nella sua camera e andando all'attaccapanni, per appendervi il soprabito e il cappello.
Capitolo diciottesima
Il «parco dei cervi»
Mentre aspettava che il fratello di Norina comparisse, De Vincenzi diede un'occhiata all'armadio in cui stavano rinchiusi i quattro ferri chirurgici e il camice bianco, che era di cotone troppo comune per avere appartenuto al professore Magni. «I camici del Professore sono di puro lino… Era una sua civetteria aver ferri di molto valore…».
Quello rimaneva un mistero. «Prego consegnare alla Questura».
Chi era stato il padrone di quei ferri e di quel camice? E perché glieli avevano mandati?
«Venite avanti».
Il giovanotto avanzò con quel suo passo caratteristico, dimenando i fianchi e gettando avanti una spalla dopo l'altra. Non era più lo scamiciato di quella notte, in cui lo avevano portato lì dentro legato con le cinghie. Indossava l'abito del suo tristo mestiere: i pantaloni troppo larghi con le cuciture ribattute alla costura, la giacca attillata alla vita, le maniche a imbuto, la camicia di seta grigia con la cravatta a strisce larghe, rosa e bianco.
Lo sguardo sfuggente s'incontrò per un istante con quello di De Vincenzi, che lo fissava.
«Hai voluto parlarmi?».
«Sì… Si tratta di lei… Siedi».
Lui sedette, tirandosi i calzoni sulle ginocchia.
«Che c'è? Hai scoperto qualcosa?».
«Non so… M'hanno detto che avete arrestato un vecchio… Che lo hanno trovato col cappello di lui e col mantello di Norina…».
«Ebbene?».
«Il cappello, non so… forse non è vero che l'aveva… Ma il mantello al bigatt gliel'ho dato io… perché lo vendesse…».
Parlava a voce bassa, roca, con la cantilena propria dell'ambiente al quale apparteneva, resa più marcata dall'accento livornese e da un certo turbamento da cui era invaso.
«Spiegati».
«Norina venne a cercarmi a casa mia nel pomeriggio di martedì, verso le sei… Lo dissi anche a lei, quando mi interrogò quella notte… Deve ricordarselo!…».
«Va' avanti…».
«Io non c'ero… Stavo nel negozio del "commendatore"… Lei avrà verificato l'alibi, se non mi ha più mandato a prendere… Allora, Norina parlò con la portinaia… L'avvertì che sarebbe tornata più tardi… a sera fatta… prima che chiudesse il portone e le lasciò il mantello da tenere, perché aveva caldo, disse, e doveva fare ancora parecchie corse per la città…».
«E tu?».
«Sono stato due giorni fuori di me… La portinaia mi aveva dato il mantello, ma io non avevo neppure capi to di che si trattasse. Lo avevo lasciato in camera… Quando cominciai a farmi una ragione di quanto era accaduto… mi accorsi che la mia amica se l'era messo e lo portava. Glielo strappai di dosso… Non volevo che il mantello di Norina finisse a quel modo… Preferii darlo al bigatt, perché lo vendesse».
«Non c'è altro?».
«No».
«Perché sei venuto a dirmelo?».
«Perché non è stato il vecchio a strangolarla. E io voglio che voi troviate chi l'ha ammazzata».
«Va bene. Se non sai altro, puoi andartene».
L'uomo si alzò e uscì lentamente.
Dunque, era stato così! Il Panzeri aveva veduto realmente il mantello nelle mani del bigatt e, partendo da quell'indizio, aveva inventato la storia del cappello e tutto il resto. Era chiaro; ma non gli rivelava gran cosa. Che il bigatt fosse innocente, lo sapeva. Sani venne a dirgli che era giunto l'autista del senatore.
«Sono le due».
«Va bene. Fallo venire».
Entrò quel giovane, che gli aveva aperto la porta di casa Magni, la seconda volta che vi si era recato. Ma, dimessa l'uniforme verde bottiglia, si presentava adesso come un giovanottello dall'eleganza facile e pretenziosa, qualcosa tra il garzone di barbiere e l'operaio.
«Sono venuto senza che nessuno lo sappia…» disse, avanzando con disinvoltura fino al tavolo del commissario. «Secondo quel che m'ha fatto raccomandare lei…».
«Siedi».
Sedette.
«Tu guidavi sempre, quando il senatore usciva in auto?».
«Sempre. Il padrone sapeva guidare; ma non lo faceva che qualche rara volta e soltanto in campagna. E anche allora io lo accompagnavo».
«Dunque, sei in grado di dirmi dove andava?».
Il giovanotto sorrise.
«Sono tre anni che sto in casa del senatore. Come vuole che ricordi tutti i luoghi dove siamo andati?».
«Non fare lo sciocco! Non t'ho chiesto tutti i luoghi. Ti farò domande precise».
La voce di De Vincenzi suonava aspra. L'autista si fece serio di colpo e accennò di sì col capo.
«Risponderò come posso».
«Nessuno ti chiede di più. E tu sei obbligato a farlo».
Voleva che capisse che, tra loro non si era stabilita alcuna complicità. Il sorriso fatuo con cui il giovanottello aveva detto di essere venuto all'insaputa di tutti gli era dispiaciuto, come un principio di familiarità.
Il giovanotto cominciò a sentirsi a disagio e si agitò sulla sedia.
«Il senatore usciva di casa tutte le sere o quasi. Prendeva sempre l'auto?».
«Qualche volta».
«E dove andava?».
«Se prendeva la macchina, a teatro o in qualche ristorante dei dintorni e della periferia».
«Al Sempioncino?».
«Quasi mai. Preferiva Monza… Qualche volta più lontano…».
«Solo?».
Il giovane esitò. Doveva essere stato pagato per tacere e si domandava se dovesse continuare a farlo, anche adesso che colui che pagava era morto.
«Devi rispondere. Pensa che ci sono di mezzo due cadaveri».
«Quando andava nei ristoranti o negli alberghi, non era mai solo».
«Sempre la stessa?».
«Raramente era la stessa signora».
«Donne d'occasione?».
«Sì… mi pare… ma non del genere che può credere lei».
«Non cercar di capire quel che credo io. Dimmi ciò che sai…».
«Gliel'ho detto. Non erano cocottes».
«Va bene. Dunque, tu dici che cambiava. Ma una ne aveva, che non cambiasse? Che fosse realmente la sua amante?».
«Non di sera».
«Quando?».
«Nel pomeriggio. Dalle tre alle sei. In quei giorni, si faceva condurre prima all'ospedale, ma ne usciva subito».
«Dove lo conducevi?».
«Aveva un appartamento… una garzoniera…».
«Dammi l'indirizzo».
«Vicino al Parco… in via Abbondio San Giorgio…».
«Numero?».
«18, al pianterreno».
«E in quell'appartamento, sempre la stessa… signora?».
«Sì. In questi ultimi tempi. Prima, tante».
«Tre mesi? Quattro mesi?».
«Forse, sei mesi. Cominciò in ottobre, mi pare».
«Come puoi esser sicuro che fosse sempre lei?».
«Andavo io a ricondurla con l'auto, a casa sua. Scendeva nei dintorni, naturalmente».
«Dove?».
«Dove lei abitasse, non so. Scendeva in piazzale Tonoli e la vedevo prendere il viale dei Mille».
De Vincenzi trasalì. Una strana agitazione si era impadronita di lui. Sentiva di avvicinarsi al punto cruciale. Anche per non rivelare quel suo orgasmo, s'era fatto rude. Gli dispiaceva frugare a quel modo nella vita intima del morto. Eppure non poteva farne a meno.
«Sai chi era?».
«No!» rispose il giovanotto con troppa precipitazione e il commissario non insisté, per quanto fosse sicuro che sapeva.
«Non importa. Non è questo che conta. E, quando si recava a questi appuntamenti, il senatore prendeva qualche precauzione? Ti sei mai accorto che temesse d'essere seguito?».
«Non credo. Soltanto mi aveva ordinato di far sempre la circonvallazione, quando andavo al piazzale Tonoli da via Abbondio San Giorgio. Un giro interminabile».
«E lui, intanto?».
«Qualche volta se ne andava a piedi o prendeva il tassi. Qualche altra, tornavo io a prenderlo con la macchina».
«Le chiavi dell'appartamento?».
«La portinaia. Né lui, né la signora le avevano».
«E prima… prima di sei mesi fa, la signora era sempre la stessa?».
«Per un certo tempo. Poi cambiava. Ne ha avute anche due nello stesso periodo. Naturalmente, in giorni diversi».
Quei particolari facevano aumentare sempre più in De Vincenzi il senso d'imbarazzo, quasi di vergogna che lo aveva invaso.
Tagliò.
«Nient'altro. Puoi andare».
L'autista, colpito dal congedo brusco, balzò in piedi.
«Quando ha bisogno di me…».
«Non ho bisogno di nessuno».
L'altro uscì, senza capire che diavolo fosse entrato nella testa del commissario.
De Vincenzi era rimasto assorto. Che brutta, che ripugnante commedia, la vita! Lui, in fondo, era un sentimentale e un puritano. Il tradimento di una moglie lo feriva, come se il tradito fosse lui. Se avesse dovuto fare il giurato, avrebbe assolto tutti i mariti che uccidono. Non questa volta a ogni modo, si disse subito, perché c'era anche il cadavere di quella disgraziata. Un orrore!
Si alzò e si mise soprabito e cappello.
Quando fu in mezzo alla stanza per attraversarla, si fermò. Guardava all'albero che rinverdiva nel cortile, al di là dell'inferriata polverosa. La campagna! Tanta purità! Che strano impasto di sentimenti discordanti, opposti, era in lui! Aveva voluto tuffarsi, per bisogno dello spirito, in quella vita e anelava senza posa a uscirne, come il carcerato anela alla libertà. Nessuno che lo avesse veduto agire e parlare, con quella sua precisione netta e algebrica, con quella logica tagliente e implacabile, avrebbe ammesso che la sua anima era ancora quella del bimbo, che ha bisogno delle carezze materne.
Un rumore nella stanza accanto lo fece sussultare, come colto in fallo.
S'affrettò a uscire.
«Tornerò fra un'ora. Forse, prima».
«Se viene il dottor Verga?» gli gridò Sani.
«Trattienilo».
Sulla piazza, nel sole di primavera, i colombi avevano coperto il monumento a Manzoni.
De Vincenzi salì in un tassi e diede l'indirizzo di via Abbondio San Giorgio, 18. Inconsapevolmente, aveva abbassato la voce, per parlare all'autista. Gli sembrava che tutti avrebbero subito compreso che cosa andasse a fare laggiù. Per lui era come se stesse per tradire un segreto d'anima, più che un segreto d'ufficio.
Se realmente «coloro che ci lasciano ritornano», pensò, io dovrei trovare lo spirito di lui a interdirmi di penetrare in quell'appartamento!
Perché si vide dinanzi le labbra troppo rosse e il volto cereo della vedova, in gramaglie, col petto leggermente ansante sotto il vestito di crespo?
E perché sentì all'orecchio la voce di Chirico, il padrone della libreria insanguinata, proferir con vibrazioni nuove e profonde quella frase troppo grande in bocca di lui, ometto risecchito e bilioso: «Tutto un mondo che non conosciamo vive attorno a noi».
Poi fu il corpo turbevole e tanto stranamente voluttuoso di Patt ad apparirgli, così come l'aveva veduta appoggiata al tavolo di marmo dell'ambulatorio, col capo un poco rovesciato all'indietro e un sorriso ambiguo sulle labbra carnose, che scoprivano i denti perlacei, saldamente piantati nelle gengive.
E quell'altro corpo di donna nudo, palpitante ancora, per quanto inanimato, con la gola segnata dalla stretta demente dell'assassino…
Una teoria di fantasmi.
Fioretta Vaghi, che veniva a dargli, piangendo d'amore desolato, la prima lettera dell'enigma. La medium, che faceva la chiromante per pagare i debiti del marito giuocatore. La maestrina, che aveva una volontà autoritaria, sotto l'apparenza della rassegnazione. Il dottor Marini, che credeva nell'aldilà, fino a confessarsi sicuro che i morti tornano.
Ombre o creature umane?
Personaggi di fantasia o persone vive?
Tutti fuori fuoco in quel quadro di un delitto commesso con la più sottile arte e con la più selvaggia immaginativa.
Il tassì s'era fermato davanti a un atrio di marmo nero, in una strada, che aveva da un lato la fila delle case alte, bianche, nuove, e dall'altro una scarpata verde e un prato, con la staccionata di legno giallastro.
Il sole batteva, non caldo ancora, ma acuto, come il raggio di un radiografo.
De Vincenzi si scosse; gli ci volle qualche istante prima di ricordare perché si trovasse in quel luogo. Pagò l'autista, che lo guardava con malizia quasi sapesse di averlo accompagnato a un buen retiro. E gli diede una così forte mancia, che quello fece girare la macchina, per andarsene, fischiettando il ritornello di una canzone salace.
Trovò la portinaia in una stanza a vetri, che sembrava un salotto. La casa era di lusso. La donna s'accordava all'ambiente. Indossava un abito di seta e sedeva inoperosa con le gambe accavallate e ben visibili. Aveva un musettino da furetto, con le orecchie leggermente ad ansa e tutte le linee del volto, che fuggivano irregolari.
Sorrise al giovanotto, che entrava.
«Desidera?».
«Qual è l'appartamento che aveva in affitto il senatore Magni?».
«Ah!».
Si rizzò in piedi.
«Come dice?».
«Vorrei visitarlo. Sono un commissario di polizia».
La donna prese sul tavolo un registro e l'aprì.
«È questo» indicò sul libro, seguendo col dito una linea di parole, spaziate nelle caselle delle finche.
«Desidero visitarlo».
Non guardò neppure il registro, mentre quella lo aveva aperto e lo sciorinava, per dimostrargli che era in regola.
Prendo le chiavi.
Le staccò da un quadro. Era un mazzettino di due chiavi inglesi piccine e tutte denti.
«Debbo accompagnarla?».
«Naturalmente».
Pochi gradini. Una porta lucente come specchio.
«Vado avanti ad aprir le finestre».
«Non importa. Accendete la luce».
Si sentiva avvolgere da un odore pesante e complesso di fumo, di acqua di colonia, d'altri profumi dolciastri.
Nell'anticamera c'era una cassapanca, un divano, un tavolino. In terra un grande orcio di terra cotta, che serviva da portaombrelli. Nessun segno di casa abitata. Anche i due quadri a olio appesi alle pareti erano senza espressione, quasi fossero stati fatti a serie.
La portinaia spalancò la prima delle tre porte, che si aprivano una per lato, di fronte e di fianco alla porta di ingresso.
«Il bagno».
Bianco e turchino, tutto a mattonelle di porcellana. Un grande specchio, di faccia alla vasca rettangolare, a linee diritte. Un'orgia di rubinetti, di chiavette, di bracci, di attaccapanni nichelati.
Anche qui il senso del nuovo, del disabitato, come il lavabo di un ristorante di lusso, per quanto sopra una mensola di vetro si allineassero alcune bottiglie d'acqua di colonia, di lozione, di aceto aromatico e vi fosse una grande spugna carnosa nella vaschetta e un accappatoio da bagno color granato accendesse una macchia contro il bianco e azzurro della parete. - De Vincenzi aveva veduto tutto con un'occhiata.
«Andiamo avanti».
La seconda porta era quella del salottino. Quando la donna girò il commutatore, si fece una luce gialla, che bagnò d'oro un vasto divano di velluto nero, una poltrona bassa, un piccolo tavolo. Sembrava una scena da teatro. Tutt'attorno alle pareti ricadeva dal soffitto un tendaggio di seta gialla. Alla finestra, una tenda pesante di velluto faceva la notte. In un angolo, il piccolo bar di palissandro reggeva le fiamme colorate delle sue ampolle di liquori. Sul ripiano brillava, accanto a due bicchieri di cristallo, uno shaker d'argento.
Tutto era intimo al modo d'una tomba.
E non un segno personale. Neppure un po' di disordine, che avrebbe comunque rivelato la presenza di un essere vivente. Il velluto del divano era teso, liscio.
«Andiamo avanti!…».
La voce della donna suonò equivoca, torbida quasi: «Questa è la camera da letto».
Qui la luce riflessa si accese tutt'attorno al soffitto di stucco bianco, con un rosone sbalzato nel mezzo.
Alle pareti, un tendaggio azzurro chiaro; alla finestra, un'altra tenda, di velluto azzurro, più scuro, più denso.
Il letto vastissimo, basso, con un antico scialle di casimirro per coperta. Accanto a esso, ai due lati della te sta, due tavoli. Contro una parete, una grande psiche, sorretta da due colonnine alte da terra.
In fondo al letto un torcere da chiesa, massiccio, altissimo, monumentale, con il grosso cero fino e la fiamma della lampadina elettrica al posto dello stoppino.
De Vincenzi fece qualche passo nell'interno, mentre in lui il senso del disagio si mutava quasi in angoscia, tanto era acuto. Poi si affrettò verso un altro piccolo tavolo in un angolo, che gli era rimasto nascosto dal letto. Aveva veduto, in una grande cornice d'argento, il volto d'una donna.
Sentì immediatamente che era lei.
Fu una delusione. Questa qui era bella come quasi tutte le donne sono belle. L'osservò, prendendo la cornice in mano e accostandosi l'immagine allo sguardo. I capelli corti erano arricciolati e ariosi attorno al volto, dal piccolo naso disegnato finemente e che pure mancava di linea. Le labbra sorridevano, scoprendo la chiostra dei denti piccolini. Il mento pronunziato allungava un poco l'ovale. Impercettibilmente, i pomelli salivano ed era questo l'unico segno, che caratterizzasse quel volto, altrimenti comune. Gli occhi ridevano anche essi, sotto l'arco sottilissimo delle ciglia depilate e disegnate col lapis.
Il giovane sentì pesare su di lui gli sguardi ironici, carichi di lubricità della portinaia.
Depose il ritratto in fretta e chiese con voce, che non riuscì a render ferma: «È lei?».
«Sì, signore» rispose la donna, sempre fissandolo con sfrontatezza.
«Non ci sono altre stanze?».
«No» e aveva l'aria di dire che quelle bastavano.
«Il mobilio apparteneva al professore?».
«Certo. Provvide lui a tutto, quattro anni or sono, quando prese in affitto l'appartamentino…».
De Vincenzi pensò che anche tutto quel velluto e quelle sete e i mobili e il bar e la cornice d'argento avrebbero fatto parte della eredità della vedova…
Sul pianerottolo, salutò con un segno del capo la portinaia, che lo seguiva, e uscì in fretta, quasi fuggisse. Aveva l'impressione di uscire da un sepolcro.
Capitolo diciannove
Battute d'aspetto
Dal momento in cui si trovò per la strada - uscito appena dall'appartamento, che aveva protetto i molteplici amori del senatore Magni, De Vincenzi compì i più strani e apparentemente scriteriati atti della sua carriera di commissario.
Persino Sani, che aveva cieca fiducia in lui, dovette chiedersi se il suo immediato superiore non avesse per caso perduto il controllo dei propri centri inibitori.
Si sarebbe detto che il profumo acre e denso di quelle stanze, in cui non penetrava mai la luce del giorno, gli fosse salito, attraverso le narici, al cervello, operando su di lui come un etere.
Tornato a San Fedele, quando Sani gli ebbe annunziato l'arrivo del dottor Verga, egli, che pure aveva mandato Cruni a prenderlo a casa, non volle riceverlo.
«È realmente ammalato, e per venire da te, si è alzato da letto…».
«Ci ritorni. Gli farà bene!…».
Sani lo guardò sorpreso e non obbiettò nulla.
«È stanco» pensò. «Quando sarà finita tutta questa storia, insisterò perché prenda qualche giorno di congedo».
Ma De Vincenzi era così poco stanco, nel corpo almeno, che lo si sentì passeggiare interminabilmente, avanti e indietro per la sua stanza, fin quasi alle sei del pomeriggio.
A quell'ora aprì l'uscio, che aveva chiuso a chiave, e apparve col sorriso sulle labbra. Ma lo sguardo gli brillava in modo febbrile e il suo sorriso era più una contrazione nervosa che altro.
Andò a mettersi davanti al tavolo del collega e lo fissò.
«Vedi!» pronunciò lentamente, dopo qualche istante di silenzio. «Tutto sarebbe chiaro se non ci fossero quei ferri chirurgici e quel camice. Sono essi che guastano ogni teoria! Non riesco a farli quadrare col resto, neppure se prendo i fatti che conosco e torco loro il collo…».
Sani intuì quanto quel problema lo martoriasse e non osò sorridere.
«Avranno appartenuto al professore…» disse, ricorrendo alla ipotesi più semplice.
«No! Non si va al Sempioncino con quattro ferri chirurgici e un camice nelle tasche».
«Li avrà avuti con sé l'uccisore…».
«Di sua proprietà?».
«Può darsi. E questo aiuterebbe a trovarlo».
«Troppo! Si può credere che un uomo, diabolicamente abile, come colui che ha ucciso il senatore Magni, fornisca un indizio decisivo contro di sé, con la coscienza di farlo e senza esservi spinto dalle circostanze? Per quanto abbia voluto sfidare gli uomini e forse il destino, non aveva ragione di esagerare a tal punto! Sarebbe stata sadica voluttà di denunziarsi, di perdersi, la sua!…».
«Sei sicuro che quel pacco e quel biglietto abbiano connessione con l'assassinio?».
«No! Non ne sono sicuro. Ed è proprio questo che mi turba! Come ammettere che soltanto il Caso abbia fatto coincidere i due fatti? Allora esiste realmente una forza inconscia, intelligente, che governa e regge e crea persino l'impossibile, perché da esso sgorghi la luce?». Rise e aggiunse: «Per ora sarebbero le tenebre…». «C'è la calligrafia del biglietto…». «Già, ma non aiuta. Non è quella dell'assassino». «Tu lo conosci?». «Chi?». «L'assassino».
«No!».
«Ma devi pur avere un sospetto fondato?». De Vincenzi alzò le spalle.
«Che conta? Non corro mai appresso ai sospetti, io! E tanto meno questa volta. Se ti dicessi che affermo con tanta sicurezza che la calligrafia del biglietto non è quella dell'assassino, pur non avendone fatto alcun controllo, soltanto perché la mia intuizione me lo dice, penseresti che sono maturo per Mombello…».
Girò su se stesso e tornò nella sua stanza. Poco dopo ne usciva, col soprabito e il cappello. «Te ne vai?».
«Sì. Avverti il Questore. Rimarrò assente parecchie ore. Forse, tutta la notte. E in tal caso non tornerei qui che domani a mezzogiorno. Può darsi, anche più tardi… Dipende dal viaggio che ho da fare».
«Vai lontano?».
«È questo che ancora non so. E per saperlo, dovrò correre il rischio di rovinar tutto».
Sani lo guardava e non riusciva a dissimulare completamente la sua preoccupazione.
«Sei più enigmatico del delitto stesso!».
«Perché, vedi!, a giuocare con gli enigmi se ne prende l'abitudine. E una forma di pragmatismo subconscio, che opera in noi. E questo qui è un vero puzzle animato del quale non si riesce a trovar tutte le parole, sino a formarne una frase logica».
Tacque un istante.
«Ancora l'azione più orrenda è la più spiegabile! A guardar bene, nello specchio d'acqua della Darsena si vede il volto dell'assassino! A rivederci».
Uscì in fretta, lasciando Sani dolorosamente colpito da quel suo modo.
Era ancora giorno.
L'animazione per le vie appariva intensa. Per la Galleria e sotto i portici si faceva fatica a passare. Egli, giunto in piazza della Scala, tornò indietro e, ripassando davanti a San Fedele, prese via San Paolo, attraversò il corso e si trovò in piazza Beccaria.
Poco dopo entrava nella libreria di via Corridoni, con le mani in tasca e l'aria indifferente dell'amatore di libri.
Gualtiero Gerolamo lo guardò sorpreso e un lampo di angoscia gli passò nei miti occhi umidi. Chirico sal tellò dalla scrivania al suo fianco e lo salutò, togliendosi il cappello e grattandosi in testa. «Signor commissario…».
C'erano un paio di clienti, che frugavano nelle scansie. Uno di essi, corpulento e barbuto, con una grossa catena d'oro sul ventre, aveva tra le mani un opuscolo e ci dissertava sopra in bolognese, senza che nessuno lo ascoltasse. S'interruppe, per guardare il sopravvenuto di sopra gli occhiali.
De Vincenzi rispose con un cenno del capo al saluto del padrone e sorrise dell'attesa ansiosa di Pietrosanto. Si avvicinò al banco e prese qualche libro, uno dopo l'altro, leggendone i titoli, facendoseli girare fra le mani, osservandoli attentamente. Si sarebbe detto che stesse per chiederne il prezzo.
«Qualcosa di nuovo, signor commissario?».
Chirico gli aveva parlato a voce bassa, ma, subito gli altri rattennero il respiro, attendendo la risposta. I due clienti dovevano sapere o intuire chi egli fosse e non si erano fatti ingannare da quel suo cercare fra i libri.
«Di nuovo?» ripeté lui, quasi non avesse compreso la domanda. «Ah! sì… Può darsi… Tutto è finito».
«Come?!».
Anche Gualmo, non contenendosi più, gli si avvicinò, col suo passo cauto e silenzioso, la testa in avanti, gli occhi spalancati e fissi.
L'uomo barbuto depose l'opuscolo e si tolse gli occhiali.
«Già! Qualcuno è stato arrestato. Lo saprete a suo tempo».
«Ma chi è l'assassino? E perché è venuto proprio nel mio negozio?».
«Come ha fatto a entrare?» proferì Pietrosanto, a cui quell'enigma era rimasto immanente nello spirito. «E lei ha ritrovato il libro rubato?».
De Vincenzi represse un sussulto.
Già! C'era il libro. «La Zaffetta - Venetia 1531 - in 8°». L'aveva quasi dimenticato e certamente non ne aveva tenuto conto nel suo puzzle. Eppure era un elemento capitale. Adesso, che aveva respirato il profumo dell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio, anche il libro pornografico, pubblicato per vendetta contro una cortigiana, assumeva ai suoi occhi un significato netto e preciso, si rivelava nel dorso e nella costa, come tutti quei libri che giacevano di là, quando la luce veniva accesa dentro le tetre stanzucce del retrobottega.
«Il libro! Già! Ritroveremo anche quello. Mi faccia vedere il posto preciso dal quale è stato tolto».
E si diresse verso il corridoio, preceduto da Gualmo e seguito da Chirico.
I due clienti osservavano e, se il padrone non avesse chiuso la porta dietro di sé, lasciandoli nel negozio, li avrebbero seguiti.
Chirico aveva chiuso la porta per un movimento istintivo; ma appena ebbe raggiunto Pietrosanto, che stava indicando al commissario la scansia degli «erotici», lo prese per un braccio e lo spinse verso il corridoio: «Vada di là, lei! Quei due sono rimasti soli…».
Pietrosanto si agitò tutto a quella ingiunzione, che feriva nel profondo la sua curiosità. Ma dovette ubbidire. La diffidenza sospettosa del padrone era legge, che egli non poteva contrastare.
De Vincenzi si guardava attorno. Il cadavere non c'era più naturalmente; ma lui lo vedeva sempre davanti a sé, disteso a terra. Soltanto, adesso, aveva per lui un volto non più di ghiaccio, immobile, ma animato. Lo vedeva vivere, quel cadavere, quando entrava nell'appartamento clandestino, quando sedeva sul divano di velluto nero e si avvicinava al bar di palissandro, con tutte le fiammelle dei liquori. Lo aveva dinanzi agli occhi, vivo! E viva era anche la donna del ritratto, per quanto lui non l'avesse conosciuta mai.
Che parte aveva avuta quella donna nel delitto?
Forse, nessuna. Forse, la parte principale.
Come mai pensò anche alla vedova in gramaglie e gli sembrò vederla risalire via Dante, per entrare nell'Agenzia di Harrington?
«Avete tenuto qualche altra seduta spiritica in questi giorni?».
«No!» esclamò l'ometto.
«Perché?».
«Oh! Non sempre si tengono, le sedute… I soci vanno a periodi… Il Circolo serve più di ritrovo per discussioni, lettura delle riviste e dei libri, che altro».
«Oppure lei mi nasconde la vera ragione?».
Chirico si tolse il cappello, si passò una mano sulla testa rasa, dai capelli corti, duri come i peli d'una spazzola.
«Quale?».
«La profezia della medium…».
«Naturalmente, son cose che impressionano…».
«Sa che ho parlato di nuovo con la signora Sorbelli?».
«Ah!».
«Mi ha promesso di tenere una seduta per me. Mi interesso di spiritismo, adesso… Forse, è stato lei a indurmici, convincendomi che attorno a noi vive tutto un mondo, che non conosciamo…».
Chirico lo guardava con diffidenza. Che si facesse giuoco di lui non lo pensava; sentiva invece che aveva un progetto ben definito, uno scopo da raggiungere.
Dove voleva arrivare?
«È un temperamento sensibilissimo, quella signora… Troppo, persino!».
«Desidero che partecipi anche lei, signor Chirico, alla seduta…».
Gli si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla.
«Potremo tenerla nella sede del Circolo!».
«Dipende dal Presidente…».
«O dal segretario? Il segretario è lei! Bisogna farla in quel luogo, signor Chirico. È indispensabile».
«Quando?» mormorò l'ometto, oramai convinto che non gli sarebbe stato possibile sottrarsi. Furbo come era, capiva che De Vincenzi era venuto da lui, soltanto per parlargli di quella seduta. Ma che cosa aveva nella mente? Quale tranello voleva tendere a lui o ad altri?
«Glielo farò sapere domani. Forse, dovremo tenerla domani sera. Certo, prima di lunedì…».
«Domani è domenica».
«Oh! Le telefonerei a casa… Ma potremo anche fissare la seduta per lunedì alle nove… Lunedì notte fanno gli otto giorni che il senatore Magni è stato ucciso».
Chirico ebbe un fremito e fissò il commissario con terrore.
«Che vuol fare?».
«Nulla!».
«Verrà davvero la signora Sorbelli?».
«Certamente!».
«Oh! No!».
«Sicuro! Ma lei crede proprio che i morti tornino?».
L'altro era livido e non rispose.
De Vincenzi si mise a osservare il posto di dove era stato tolto il volume rubato. Se avesse potuto vedere la mano, che si era protesa a prenderlo! Ma lui la vedeva quella mano, bianca, affusolata, vibrante, la mano di un uomo nervoso e sensibile, perché era convinto che doveva essere stato il senatore a togliere quel volume dal suo posto! Ma da che cosa derivasse in lui quella convinzione non avrebbe saputo dire.
Tornarono in negozio. I due clienti non si erano mossi. Gualmo scrutò il commissario. Poi vide il pallore cadaverico di Chirico e gli occhi gli si allargarono ancora di più.
«Inviteremo anche il signor Pietrosanto!» disse, senza sorridere, De Vincenzi. «Siamo intesi».
«Invitar me? A che cosa? Dove?».
«Lo saprà lunedì».
E uscì dal negozio, ripetendo a Chirico: «Siamo intesi, eh?».
L'ometto gli corse dietro, lo raggiunse sul marciapiede e dovette afferrarlo per un lembo del soprabito, perché si fermasse e gli desse ascolto.
«Chi altro parteciperà alla seduta?».
«Glielo farò sapere lunedì. Agli inviti penserò io».
«Ah!» riuscì a proferire il pover uomo e se ne tornò in negozio con un peso sulle spalle, che lo schiacciava.
De Vincenzi prese un tassi in piazza del Verziere, proprio a quel posteggio dove la notte di martedì, quattro giorni prima s'era separato dal dottor Marini, dopo aver passeggiato con lui per un paio d'ore.
«Corso Plebisciti» disse, all'autista, salendo.
Aveva dato l'indirizzo, quasi spintovi da una forza superiore alla sua ragione. Eppure, soltanto la ragione avrebbe dovuto dettarglielo. Egli non poteva, ormai, fare altrimenti.
Quando furono in corso Plebisciti, fece fermare la macchina davanti al numero 17.
Una casa enorme, simile a tutte le altre, che la precedevano e la seguivano. Un portone con un po' di verde nel fondo, tra il biancore del vasto cortile, che s'apriva su altre facciate di case interne, diverse per colore e forma dal corpo principale.
Nella portineria, nessuno. In mezzo al cortile, curvo sopra una aiuola senza fiori, a toglier la paglia di torno a una palma, che l'imminenza dell'aprile liberava dal suo riparo invernale, era un uomo con una specie di spolverina nera, lucida, che gli arrivava quasi ai talloni.
De Vincenzi avanzò e i suoi passi, scricchiolarono sulla ghiaia. L'uomo si raddrizzò, voltandosi. Ancora ave va le mani piene di paglia lunga e nerastra. Due occhi nerissimi in un volto abbronzato, magro sino ad aver la pelle tesa sulle mandibole e sui pomelli sporgenti. «Desidera?». «Un'informazione». «Non c'è mia moglie in portineria?». «Non c'è».
«Starà preparando da mangiare…». Il portinaio gettò la paglia sulla terra nuda e soda dell'aiuola, battè le palme una contro l'altra, se le fregò ai lembi della spolverina. «Di che si tratta?». «Voi siete il portinaio?». «Sì. Ma lei chi è?».
«Se vi chiedo un'informazione confidenziale, saprete tacere d'avermela data?». L'uomo ebbe un gesto.
«Degli inquilini io non so nulla. Né del loro denaro… Non si guarda nelle tasche di nessuno noi!… Non conosco le rendite e i guadagni… Da me lei non potrà tirar fuori proprio niente». Il commissario sorrise. «Non sono un agente delle tasse!». L'altro alzò le spalle.
«Ne vengono sempre. Che cosa vuole, allora?». «Ho bisogno di sapere dove si trova… in campagna… la moglie del dottore Marini. Il suo indirizzo, insomma». L'indifferenza un poco sdegnosa del portinaio si fece ironica. «Lo chieda al marito!».
Lo guardava con sospetto. Gli occhi neri avevano lampi di malizia.
De Vincenzi non voleva dire chi fosse. Con quella sua bonarietà espansiva e cordiale, il dottor Marini doveva essersi guadagnata certo la confidenza dei propri portinai. O quell'uomo o sua moglie glielo avrebbero riferito. E lui a ogni costo non lo voleva. Meglio era passare per un innamorato da marciapiede, per uno sfaccendato, che corre dietro all'avventura.
«Eh! Già…» disse, sorridendo con un impaccio pieno di sottintesi. «È proprio al marito che non voglio chiederlo».
Trasse dal taschino una moneta da venti lire e la tenne fra le dita.
«Nessuno saprà che siete stato voi a dirmelo».
L'uomo guardò la moneta e si passò di nuovo le palme sui fianchi e sul petto, per pulirsele.
«Sono le sette passate… è l'ora in cui il dottore torna per la cena…».
«Chi c'è in casa?».
«La domestica… La cameriera è andata via con la padrona…».
Abbassò la voce: «Sono andate a Pegli… Villa Doria…».
E tese la mano, con un movimento furtivo, guardandosi attorno.
Il pezzo d'argento scomparve nella tasca del panciotto, sotto la spolverina lucida.
De Vincenzi uscì e discese lentamente corso Plebisciti e poi i viali alberati di corso Indipendenza.
Pegli, Villa Doria. Sarebbe partito alle 21 per Genova, dove avrebbe dormito. Poteva essere di ritorno a Milano alle 14 del giorno dopo, che era domenica. Aveva ancora più di ventiquattr'ore per preparare la «seduta» di lunedì sera.
Quello era un tentativo disperato. Avrebbe dato gli effetti che avrebbe dati. Ma non gli rimaneva altro da fare. Prove? Dove trovare le prove? Aveva lavorato soltanto sopra indizi apparenti. Ecco: su nient'altro che sulle apparenze psicologiche. E l'anima umana ha così strani e tortuosi e profondi meandri in cui nascondersi!
Lui aveva realmente paura di concretare a parole, anche soltanto dentro di sé, la teoria che s'era formata.
Dacché, nel suo spirito una teoria si era andata concretando. Oscuramente egli sentiva dove si trovava la spiegazione del mistero. Ma gli mancavano troppi dati, troppi anelli di congiunzione, per poter concludere e per potere agire sulla base delle proprie conclusioni.
Eppure, agire doveva. Gli otto giorni chiesti al Questore e al giudice sarebbero terminati martedì prossimo. Quarantott'ore di tempo. Credere - come per altri delitti era accaduto - che il delinquente si tradisse con qualche azione imprudente o disperata non doveva neppure sperarlo. L'autore di quei due assassinii aveva una completa padronanza di se stesso e dominava l'ambiente nel quale si muoveva con assoluta sicurezza a quel modo con cui, forse, aveva dominato la stessa vittima, quando l'aveva condotta a morire nel negozio del libraio.
De Vincenzi camminava sotto gli alberi, in mezzo a uno dei viali paralleli, fra due linee di panche, sulle quali sedevano mamme e governanti, balie e domestiche. Le panche si andavano vuotando. Attorno a lui era uno sciamare di bimbi, che correvano, spronati dalla voce delle accompagnatrici.
Il giorno moriva con la rapidità dell'agonia crepuscolare, che precipita i suoi ultimi istanti, in un bagliore terso e diafano.
In lontananza, dietro alla città, al di sopra dell'aureola di San Francesco - il santo d'Assisi, che si eleva sottile e stilizzato come un volo di rondini, tutto purità, slancio, passione consumatrice, in mezzo a piazza Risorgimento - ancora gli ultimi raggi del sole tingevano il cielo di rosso.
De Vincenzi dimenticò se stesso, il mistero di quel delitto, il suo intimo martirio d'indagine.
Non fu più e soltanto che una creatura umana in perfetta comunione con la Natura, sotto quegli alberi verdi, tra quell'infanzia garrula, col volto che guardava al cielo. E a un tratto si sentì solo, unico, avulso da tutti gli altri esseri e dalla terra. Fu una sensazione incomparabile, prodotta forse in lui dalla lunga tensione nervosa di quei giorni.
Le tenebre e poi la luce delle lampade lo richiamarono alla realtà. Prese un tranvai della circonvallazione che lo portò, dopo un giro interminabile, a casa sua, al Sempione. Aveva deciso di partire nelle prime ore del mattino. Sapeva che c'era un treno alle quattro. Prima delle otto sarebbe stato a Genova e dopo mezz'ora a Pegli.
Scese alla fiorita stazione di Pegli, alle otto e mezzo del mattino, dopo circa quattro ore di viaggio, fatto da solo coi suoi pensieri in uno scompartimento di seconda classe.
Aveva già veduto il mare dal finestrino del treno, prima di arrivare a Genova. E, sulla Riviera, trovò la luminosità calda della primavera in isboccio.
Ma una sottile angoscia gli stringeva la gola per quell'incontro imminente con una donna, che non conosceva e che pure continuava a vedere viva davanti a sé, con quel suo volto regolare, a cui soltanto i pomelli leggermente salienti davano espressione. Le ciglia depilate e disegnate a matita… i capelli ariosi, tagliati corti… un sorriso di felicità sui denti perlacei… E tutti i pomeriggi o quasi, fino a otto giorni prima, quella donna era solita entrare nell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio e sedere sul divano di velluto nero…
Che cosa le avrebbe detto?
E, se non fosse stata lei, la moglie del dottor Marini, a essere l'amante del senatore? Perché, insomma, lui non aveva nessuna ragione specifica, nessuna prova, per crederlo.
Quando l'autista gli disse che ogni volta ella scendeva dall'auto sul piazzale Tonoli e si avviava pel viale dei Mille, egli aveva avuto la rivelazione improvvisa di quella che ritenne subito una verità. Ma, se la sua intuizione fosse stata errata? Viale dei Mille conduce a corso Plebisciti, ma conduce anche altrove…
«Villa Doria?» chiese all'unico facchino, che stava inaffiando le aiuole, al sommo della scala, davanti agli uffici della stazione.
«Non può sbagliare. Appena fuori, volti a destra e vada diritto. Passato il cavalcavia, in fondo al viale, troverà un grande cancello… Quella è Villa Doria…».
«Grazie» e si avviò.
«Entri nel parco, sa? La villa si trova nell'interno… Domandi al custode».
Il parco era immenso. In fondo, tra gli alberi, si vedeva un grande caseggiato bianco, con le finestre verdi. Una villa principesca. Possibile, che la moglie del dottore abitasse lì dentro?
«Ah! Quella signora milanese, che è arrivata da due giorni con la cameriera! Hanno preso in affitto il padiglione interno… Deve salire… Passi accosto alla villa principale… troverà un sentiero… E poi non può sbagliare, perché il padiglione sta a mezza costa e lo vedrà subito dal basso».
Era il vecchio padiglione da caccia della villa dei Doria. Lo vide, infatti, a due piani, dipinto in rosso mattone, con davanti un giardino a terrazza.
A mano a mano che saliva, lui lo distingueva sempre più chiaramente, senza essere a sua volta veduto dall'alto, perché il sentiero saliva incassato fra due siepi, tutto buche e franamenti.
Le finestre della facciata erano spalancate. Il sole sommergeva la casa.
Sulla ringhiera di un balcone, vide il bianco delle lenzuola e le coperte di un letto appena disfatto.
Quando fu proprio sotto la terrazza, mentre continuava a salire, poté dare un'occhiata al giardino, attraverso le sbarre della balconata di ferro, che lo circondava. E scorse una donna in vestaglia azzurra, distesa sopra una seggiola a sdraio, col viso rivolto verso il mare. Fu una visione rapida, di cui trattenne nella memoria due piedini nudi, che si agitavano dentro le babbucce, e una massa di capelli biondi rovesciata contro la spalliera.
Si trovò in un ripiano, su cui si mostrava la facciata laterale del padiglione con una piccola porta rialzata da tre gradini e alla sinistra, in angolo, il cancello della terrazza fiorita.
Si fermò, esitante. Doveva suonare alla porta o varcare il cancello, che era semiaperto?
Si decise e lo spinse, avanzando sul vialetto ghiaiato, tra la facciata principale e un'aiuola di rose.
La donna si trovava proprio al limite della terrazza–giardino, davanti alla ringhiera e gli voltava le spalle. Vide di nuovo il gran fulgore dei capelli dorati, che il sole incendiava.
Davanti, in lontananza, oltre il paese e la spiaggia, la distesa marina.
Cercò di fare il maggior rumore possibile, strisciando coi piedi sulla ghiaia.
«Chi è?» pronunciò stancamente una voce dolce, leggermente trepida, ma la donna non si volse.
«Mi perdoni…» disse De Vincenzi.
«Chi è?» ripeté la voce.
«La signora Marini?».
«Sono io. Avanti… Venga avanti…».
S'era voltata e lo guardava con indifferenza.
Non si era ingannato! La donna del ritratto gli stava dinanzi. Più bella della fotografia, il suo sguardo appariva leggermente atono, quasi smarrito. Doveva aver pianto di recente, perché aveva ancora gli occhi umidi, dolci, come macerati dalle lacrime.
«Che vuole?».
De Vincenzi sentì che non avrebbe mai osato dire a quella donna chi egli fosse e quale compito avesse. Il solo annunzio della sua qualità l'avrebbe fatta crollare. Ne era certo. Doveva mentire. Tutta una storia da inventare in dieci secondi. Non aveva altro modo, se non voleva che il tentativo fallisse.
«Mi deve perdonare, signora!… Vengo da Milano… Debbo parlarle… Sono… cioè ero un amico del povero senatore Magni…».
La donna balzò in piedi. Gli occhi le si fecero duri, foschi. Un leggero fremito la percosse visibilmente.
Le labbra le apparvero esangui sul volto trascolorato e lei le agitò per parlare, ma non ne uscì suono.
«Si calmi, signora. Sono un amico».
La donna sedette di nuovo, ma senza più distendersi. Di fianco alla sua poltrona si trovava un seggiolino portatile di tela e con la mano lei lo indicò a De Vincenzi, che vi sedette, mormorando: «Grazie!».
Seguì un lungo silenzio.
Il mare, davanti, sembrava una immensa lastra d'acciaio splendente.
Subito ai piedi della terrazza, che strapiombava d'una ventina di metri, si stendevano i pini della villa; gran di pini mediterranei, che al sommo dell'altissimo tronco s'aprivano a ombrella.
Un'immobilità quasi magica teneva tutte le cose.
Dietro di essi, la villa era silenziosa.
«Perché è venuto?» mormorò finalmente la donna, senza guardarlo.
«Sì… perché sono venuto?… E molto difficile a dirsi… Ero un amico di Magni… Sono stato a scuola e poi all'Università con lui e con suo marito… Col dottor Marini ci siamo perduti di vista… Non c'era amicizia tra noi… Ma con Ugo, no. Ugo mi confidava tutto. Ricorreva a me, in ogni caso difficile o soltanto fastidioso. Non aveva segreti per me».
La donna lo fissò. Ritrovava un po' della sua forza. Il pallore del volto diminuiva.
«Che cosa vuol dire?».
«Ch'egli mi aveva condotto nell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio…».
«Perché viene da me?».
Gli occhi le sfavillavano.
«Perché l'ho ritenuto mio dovere, doloroso, amaro; ma insfuggibile…».
Esitò.
«Continui!» ordinò lei.
«In quell'appartamento c'è un ritratto… Se qualcuno non lo toglie a tempo, cadrà nelle mani della vedova…».
«Che m'importa?».
Disse la frase d'impeto, con profonda sincerità. Sembrava che nulla più avesse valore per lei! Tanto, dunque, l'aveva amato? Soltanto quello era il suo dramma?
«Anche suo marito, presto o tardi, può vedere quel ritratto. Dati i rapporti di amicizia, che aveva col povero morto, egli certamente assisterà la vedova nelle pratiche per l'eredità…».
La donna non rispose; ma il volto di lei espresse un profondo sdegno, quasi una sfida sarcastica.
«Questo è tutto quel che lei ha da dirmi?».
«E lei? Io ero venuto a mettermi a sua disposizione! Ho pensato che ella potesse aver bisogno di un confidente sicuro e devoto…».
«Le ho detto che non m'importa! Il passato si è chiuso così tragicamente, per me, che tutto quanto può accadere non ha importanza. Mi dispiace che si sia incomodato a venire fin qui».
«E se le dicessi che l'ho fatto anche per un'altra ragione?».
«Quale?» la voce era tornata dura, tagliente.
«Per proporle di allearsi a me, in un'opera che io ritengo doverosa, come un debito sacro da assolvere… Vendicare Magni!».
La donna tornò ad alzarsi, forse per celare il turbamento. De Vincenzi la imitò. Lei lo guardava negli occhi. Se anche le parole di lui l'avevano turbata, adesso si era rimessa.
«Come vuole vendicarlo?».
«Cooperando con le autorità a scoprire l'assassino».
«Come potrebbe farlo, lei? E come io potrei aiutarla?».
«Lei, signora, deve saper tutto di Magni… Assai più di me, certamente. Forse, può fornire un indizio capi tale. Egli può… deve essersi confidato a lei… Averle detto se aveva nemici… se li temeva… se ha sentito avvicinarsi il pericolo».
La donna scosse la testa.
«Non mi ha detto nulla di tutto questo. Certo non sapeva di essere minacciato».
«E lei?».
«Io?».
«Lei non ha mai avuto l'impressione che potesse esserlo… che lo fosse?».
«È ridicolo chiedermelo! Se avessi avuto una tale impressione, lo avrei avvertito… lo avrei difeso!».
«E suo marito?».
«Che c'entra mio marito?» esclamò la donna e ancora una volta la sua voce suonò piena di sarcasmo sprezzante.
«Suo marito era amico del senatore. Frequentava assiduamente la casa di lui… Può sapere qualcosa… può avere formulato qualche ipotesi… che non ha detto ad altri, ma che potrebbe aver confidata a lei, sua moglie…».
«No. Non lo ha fatto. Del resto, io sono sofferente da vari giorni… e l'ho lasciato quasi subito… dopo la tragedia… per venir qui».
«Capisco! Mi perdoni…».
Lei chinò la testa, per congedarlo. Evidentemente si era alzata, per fargli intendere che il colloquio doveva terminare.
Ma lui non si mosse. Sembrava assorto. Mormorò: «Uno strano… Un inspiegabile delitto…».
Alzò gli occhi per fissarla. La donna continuava a tacere.
«Non un delitto di teppa… Non gli hanno rubato nulla… Una vendetta, certo!… E lo hanno colpito alle spalle…».
Fece una pausa. Gli occhi di lei rimanevano inespressivi. Non avevano neppur più quei loro lampi terrorizzati.
«… E perché proprio in una libreria? Giacché poi qualcosa hanno effettivamente rubato… Un libro da uno scaffale… Un libro capisce?… Ci sarebbe da credere che abbiano ucciso per quel libro…».
Adesso, la donna lo guardava con concentrazione, come se si sforzasse di capire. Una domanda le salì alle labbra, ma non la formulò.
«Ed era un libro d'amore osceno… un libello infamante… La Zaffetta attribuita a Pietro Aretino…».
Non terminò. La donna era caduta di schianto, lunga distesa in terra, con la testa tra il verde di un'aiuola e il corpo sulla ghiaia.
Capitolo ventesimo
Le donne sono sei
Dovette afferrare la donna caduta e portarla nell'interno della villa.
Depostala sopra un divano, chiamò la cameriera, che accorse spaventata a quella voce di un uomo sconosciuto.
Le versò fra le labbra qualche goccia di cognac; ma teneva i denti serrati come una morsa e il liquido le corse dagli angoli della bocca sul mento e sul petto.
Appariva rigida come un cadavere e, se non avesse respirato con un rapido ansimo rumoroso, c'era da crederla morta.
Non sapeva che fare. La cameriera, una bruna procace, lo guardava sospettosa, non comprendendo come e perché si trovasse lì quell'intruso.
Dopo un silenzio, durante il quale la ragazza si era contenuta a fatica, lo interrogò quasi con violenza: «Che cosa le ha fatto? Chi è lei?».
De Vincenzi alzò le spalle.
«Vada a chiamare un dottore. Ma in fretta. Quanto ci mette ad andare in paese e tornare?».
La ragazza di primo impeto, abituata a obbedire, si avviò quasi correndo verso la porta. Ma sulla soglia si fermò e si volse a guardarlo, indecisa. Doveva lasciar solo con la sua padrona, inerte e senza conoscenza, uno sconosciuto, capitato nella villa chi sa da dove e perché?
«Andate!» ordinò lui, con voce dura e dandole del voi. «Qui rimango io!».
E quella andò.
De Vincenzi guardava la donna distesa. Doveva essere già ammalata. O il colpo ricevuto era stato troppo forte.
Ma perché, al titolo di quel libro, ella s'era schiantata come se avesse ricevuto una mazzata sulla testa?
Tutte le ipotesi si presentavano possibili.
Si chinò a toccarle leggermente la fronte e la sentì di ghiaccio.
Il dottore chissà quando sarebbe arrivato!
Cominciò a guardarsi attorno. La sala aveva pochi mobili, ma belli. Era come divisa in due parti da un arco, lungo la volta del quale correva una pelle di serpente, argentea e nera. Nel caminetto, tra gli alari, si vedeva un mucchio di cenere recente: dovevano accenderlo alla sera, che lì sul mare, col calar del sole, la temperatura si abbassa repentinamente.
Adesso, il sole c'era. Entrava sino a metà camera. E fuori tutta un'orgia di colori festosi, accesi. Le aiuole erano rosse, gialle, bianche, turchine.
Quella donna, a cui soltanto l'ansimo convulso dava vita, aveva i capelli d'oro e la vestaglia azzurra.
De Vincenzi si avvide, nel tornare a guardarla, che la vestaglia si era un poco aperta, scoprendo un seno. Gliela chiuse dolcemente sul petto. Poi si pentì d'aver lo fatto, come se quell'atto fosse stato per lui la confessione di un turbamento.
Si udirono passi e voci ed egli si allontanò in fretta dal divano.
Entrò il dottore, seguito dalla cameriera.
Anche il sanitario, data un'occhiata alla donna, lo scrutò come per chiedergli chi fosse.
Era un uomo magrissimo e ossuto, che doveva aver fatto la guerra, perché recava una lunga cicatrice sulla fronte e il distintivo glorioso della mutilazione all'occhiello.
Si chinò sulla donna svenuta, le aprì le labbra, le sollevò le palpebre con un movimento esperto del pollice.
«Ho visto» disse, rialzandosi. «Acqua bollente e alcool. Le farò un'iniezione».
La cameriera sparì a quell'ordine, che era dato a lei.
De Vincenzi si teneva sempre in disparte.
«Ha avuto una forte commozione?» chiese il medico.
«Credo».
«Lei è un parente?».
«Un amico del marito».
«Ah! Il dottor Marini, eh?».
Precisamente.
«Avrebbe dovuto avvertirmi che mandava qui sua moglie, ammalata… Fra colleghi…».
«Crede sia grave?».
«No. Ma forse le si manifesterà la febbre… probabilmente assai forte… Ne avrà per qualche giorno».
Tornava la cameriera con l'acqua e l'alcool. Il dottore trasse dalla tasca una piccola scatola lucida.
De Vincenzi disse a voce alta: «Mi ritiro, perché debbo partire».
«Pensa lei ad avvertire il marito?» chiese il medico, guardandolo con leggera meraviglia.
«Debbo farlo? Se fosse possibile evitargli altre preoccupazioni… Egli ne ha molte in questo momento…».
«Non è cosa grave in fondo e la signora è giovane e sana…».
«Appunto! È meglio non impressionarlo. Non gli dirò nulla. Buon giorno!».
Il medico, già chino con la siringa sul corpo della signora, non rispose.
De Vincenzi uscì e discese a lunghi passi saltellanti pel viottolo pieno di buche e di franamenti.
Alla stazione, s'informò dei treni pel ritorno. Che cosa sarebbe rimasto a fare lì? Cercar di strappare alla signora Marini il suo segreto - qualunque esso fosse - era impossibile. Ovvero, avrebbe dovuto precipitar le cose, procedendo a un interrogatorio in regola, «da istruttoria». Non voleva. L'esito sarebbe stato più che dubbio e lui avrebbe dovuto rinunciare all'unica speranza che aveva di cogliere il colpevole di sorpresa.
Ma chi era il colpevole?
In treno, il suo cervello continuò a lavorare, senza tregua.
Riprese, uno a uno, tutti i pezzi del puzzle e se li dispose davanti.
Li mosse, allora, li trasportò, tentò di farli combaciare. Un giuoco di pazienza da mandare all'inferno Giobbe o Tobia. Eppure, si trattava di leggere nel profondo del cervello e del cuore umani, che sono sempre più chiari e aperti, per tortuosi sfuggevoli mitomani che siano, di quanto gli uomini stessi non credano.
Ma si trattava soltanto di questo?
Era veramente sicuro di possedere tutti gli elementi del problema? E se proprio quello essenziale gli mancasse?
I viaggiatori entrarono e uscirono dal suo scompartimento, si mutarono alle stazioni, una vecchia signora rimase per tutto il viaggio seduta di fronte a lui. Egli non li vide, anche se in corti istanti li guardava, tanto era assorto.
Discese dal treno, a Milano, come se fosse uscito da un lungo sogno, popolato di fantasmi.
Si recò direttamente a San Fedele.
Per la strada, in città, aveva ritrovato la sua apparenza serena. Molto, effettivamente, lo era. Quel viaggio, senza dubbio, gli aveva fatto compiere un altro passo gigantesco verso la verità.
Sani lo accolse con la gioia silenziosa, che lui sempre provava, quando lo rivedeva, anche dopo poche ore di assenza.
«Novità?» chiese De Vincenzi, andando a sedere al suo tavolo.
«Nessuna d'importanza, se parli, come credo, dell'assassinio del senatore. Il giudice ha fatto mettere in libertà il bigatt e ha mandato a San Vittore l'uomo di Harrington, quel Panzeri… Capo d'accusa: falsa testimonianza e calunnia. Se lo condannano, avrà il fatto suo…».
De Vincenzi si rannuvolò.
«Poteva aspettare! Non gli avevo chiesto che otto giorni di pazienza ed essi terminano dopodomani…».
«Ha fatto tutto da sé, il giudice! E io non l'ho saputo che dopo».
«Lo credo. Tu non puoi averne colpa. E poi?».
«Null'altro. Il dottor Verga è sempre a letto ammalato».
De Vincenzi annuì con un cenno del capo.
«Ieri sera e questa mattina presto, miss Patt si è recata a trovarlo».
«Naturalmente».
«La vedova continua a rimanere chiusa in casa…».
«Anche questo è naturale».
«Di Fioretta Vaghi… l'infelice innamorata di Verga… nessuno ha più parlato…».
De Vincenzi, ascoltando il collega fargli quel rapporto circostanziato, si mise a sorridere.
«Sorridi?».
«Di te. Devi esserti imposto un vero esercizio mnemonico, per passare in rivista come fai tutte le persone del dramma».
«Ieri sera… tu non c'eri… mi annoiavo… ho messo giù la lista di coloro, che da vicino o da lontano sono entrati nella faccenda».
«Bravo! Dammela. Mi servirà, per fare gl'inviti di domani sera».
«Gl'inviti?» chiese Sani, togliendosi dalla tasca un foglio piegato in quattro. «Offri un ricevimento agli… attori?».
«Qualcosa di simile. Lo saprai, perché dovrai intervenirvi anche tu assieme a Cruni, sebbene non proprio nella sala…».
Aveva preso il foglio e, apertolo, lo aveva scorso.
«Sì. Mi sembra che tu non ne abbia dimenticato nessuno… di quelli che conosci».
E mise il foglio spiegato davanti a sé, sul tavolo.
«Oggi è domenica. Non si può far nulla. Sarà per domattina… Dicevi, dunque? T'eri fermato a Fioretta Vaghi…».
«Sì. Quel pregiudicato… Santini, il fratello della povera Norina… s'è fatto trovare a casa a ogni visita degli agenti… E non sembra che in questi giorni abbia commesso nulla d'irregolare».
«È certo che la morte della sorella è stata per lui un colpo forte!».
«Il dottor Marini è andato ieri sera a far visita alla signora Magni, che non lo ha ricevuto…».
«Come lo sai?».
«L'autista!… Quel ragazzo, da quando ieri lo interrogasti, crede di esserci diventato indispensabile e ieri sera tardi me lo son visto capitar qui a riferirmi tutto quello che era avvenuto durante il pomeriggio».
«Harrington?».
«Sorvegliato. Ieri sera il rapporto di Paoli non segnalava nulla d'importante… Oggi, Paoli non s'è ancora veduto…».
«Bene. Mi sembra che tu non abbia dimenticato nulla… Mentre io ho dimenticato qualcuno e qualcosa…».
Suonò il campanello.
«Debbo andarmene di là?» chiese Sani.
«Ma no…» disse subito il commissario e si volse al piantone, ch'era apparso sull'uscio. «Chiamami il brigadiere Padovani, alla Squadra del buon costume».
Il piantone scomparve.
De Vincenzi spiegò a Sani: «Ho dato un incarico a Padovani… fin dal primo giorno che cominciammo l'inchiesta… e non ne ho saputo più nulla… È vero che io stesso mi ricordo di lui soltanto adesso…».
E alzò gli occhi sul brigadiere che entrava, con quel suo passo elastico e scivolante, più danseur mondain che mai.
«Venite un po' qui, voi!… Martedì notte che faceste?».
«Girai tutti i locali notturni, cavaliere… Non ne ho dimenticato uno solo!».
«Ebbene?».
«Niente! In nessun luogo, tra la notte dal lunedì al martedì, hanno veduto il senatore Magni… In parecchi locali era conosciuto… negli altri, ho mostrato la fotografia, che mi feci dare da Bertolò, ma né i camerieri, né i padroni, né i direttori ricordano di averlo veduto… Se anche è entrato in qualche caffè, non deve esservisi fermato, perché altrimenti me lo avrebbero detto…».
«Ho capito. Grazie. Potete andare».
Padovani s'inchinò e uscì.
«Un altro buco nell'acqua!» esclamò De Vincenzi, guardando Sani. «Da quando ho cominciato a occuparmi di questo affare, non ho potuto raccogliere una prova, una sola! Se dovessi far condannare qualcuno… per quanto convinto della sua colpevolezza… non troverei al mondo un solo collegio, giudicante a darmi ragione!».
«Qualcuno o… qualcuna?».
«Pensi che possa essere stata una donna?».
«Ci sono troppe donne di mezzo! Sta diventando un'ossessione».
«Il fatto non è privo di significato, mio caro! Te lo dico io! Ma non nel senso che credi tu. Non è delitto che può esser stato commesso da una donna, questo! E poi c'è l'assassinio di Norina… nessuna donna avrebbe potuto commetterlo!».
«Hai ragione! Ciò non toglie, però, che le donne siano troppe!».
«Debbono esserlo!».
«Le hai contate? Contale!».
«Ho la tua lista. La signora Magni…» e alzò la mano chiusa, facendo scattare un dito a ogni nome «miss Patt… Fioretta Vaghi… la signora Sorbelli…».
«E sua figlia…».
«Quelle due contano per una. La madre ha valore nel quadro in quanto è medium e, nella vita, non ha valore affatto, senza la figlia. Dunque, sono quattro per ora… E poi c'era Norina, poveretta!… E poi un'altra signora, che tu non conosci e che io sono andato a trovare a Pegli! Ecco! Sono sei donne…».
«Sei donne attorno a un cadavere! Neppure le prefiche erano tante!».
«Sei donne e un… libro!…» mormorò De Vincenzi. «E anche il libro ha per titolo un nome di donna!…».
Sani lo guardava.
«E tu concludi?».
«Io non concludo, mio caro! Ho paura di concludere. Ci sono troppi fatti misteriosi. Troppe domande a cui non si riesce a trovar risposta!».
Sani tacque. Fissava De Vincenzi.
«E tu, allora, inviti tutti quanti a un… ricevimento!».
«Provo a vedere quel che succede a farli riunire al completo attorno a un tavolo!… Chiamo i morti a soccorso, giacché i vivi non vogliono servirmi…».
Il tono era leggero; ma la voce aveva inflessioni stranamente vibranti e profonde. E gli occhi gli brillavano. S'intuiva ch'egli stava attraversando una crisi, che lo sconvolgeva e c'era da ammirare la magnifica padronanza, che aveva di sé e dei suoi nervi.
«Ebbene, qui oggi non c'è più nulla da fare. Vattene a casa… Non ti consiglio di andartene in giro per la città, perché è domenica e la gente in festa è fatta per dar noia…» gli disse Sani.
«Vuoi che continuiamo a parlare, noi due? Ti adopero, per non pensare da solo. Mi sembra che per me sia meno faticoso, così. Perdonami!».
Si alzò, andò a prendere un involto dall'armadio e lo recò sul tavolo.
«Qui dentro ci sono tutti gli oggetti trovati indosso al cadavere del senatore… e tutti quelli che hanno pertinenza col delitto… o che io credo che l'abbiano…».
Aprì l'involto e ne uscì per primi il camice e i ferri. «Questo, per esempio» e sollevò il camice di cotone bianco «non ha appartenuto al professore. E troppo grossolano per essere stato suo. Lo ha affermato Patt… e Patt non s'inganna. E anche i ferri non furono suoi. Lui li aveva di lusso… i bisturi col manico d'onice… Eppure, io mi ostino a considerarli come strettamente legati al delitto… Ecco il foglio sul quale colui, che lasciò ferri e camice sui gradini della chiesa di San Vito al Pasquirolo, ha scritto la sua frase, che potrebbe essere cinica, se non dovesse rispondere alla necessità impellente per lo speditore di disfarsi di essi. Due ipotesi: cinismo e urgenza contingente. Se ne possono trovare altre: inganno, burla, furto… Tutte non risolvono e non spiegano».
Sani lo ascoltava con attenzione, fissando quei quattro ferri lucenti. Indicò il bisturi. «Quelle macchie?». «Non le ho fatte analizzare. Forse, sono di sangue.
Ma, se si fosse trovato che lo sono realmente, di sangue, il mistero si sarebbe fatto più fitto, per me. E io non ho davvero bisogno di complicazioni! Ho preferito rimandare a quando si sarà chiarito il mistero maggiore, la spiegazione del minore mistero di questi ferri e del camice… Non saprei dirtene la ragione, ma ho creduto fin dal principio che non sarebbero stati il camice e i ferri… inviati di proposito alla Questura… a guidarmi verso il colpevole».
Mise da parte, ravvolgendoli nel camice, i ferri, e via via prese gli altri oggetti.
«Il portafogli del morto…».
Ne fece l'inventario.
«Tremila lire… sette biglietti di visita… una carta d'identità… una tessera della Camera Alta… un permanente delle Ferrovie… la fotografia di sua moglie…».
Fissò Sani.
«Non meravigliartene! Tutti coloro che tradiscono la propria moglie ne portano il ritratto nel portafogli… non lo hanno in un medaglione… Non c'è altro, nel portafogli. E nelle altre tasche c'erano: due fazzoletti, un taccuino da ricette, un lapis, una stilografica d'oro, orologio e catena, una piccola rubrica con gli indirizzi dei clienti. L'ho esaminata e non mi ha appreso nulla… Un portasigarette d'oro, con undici sigarette Capstan… Il senatore fumava poco o nulla, perché il tabacco è un antiafrodisiaco… Alle dita, la fede e un anello di brillanti. Niente altro».
De Vincenzi si voltò verso l'armadio.
«Lì, nell'armadio, ho lasciato gli abiti di Norina Santini… Non servono… La borsetta della morta non è stata ritrovata ed era dentro di essa, forse, che si nascondeva qualcosa d'interessante. Assieme agli abiti ho messo anche il ritaglio del giornale col ritratto del senatore, che Norina aveva nel tiretto del suo cassettone… Ecco tutto».
«E poco» mormorò Sani.
«È molto invece quel che non c'è. Il cappello. Quell'accidente di Harrington, con la sua storia del bigatt mi ha confuso la pista! Se avessi saputo dove era andato a finire il cappello, mi sarei avvicinato assai più presto alla soluzione del problema. Ma un'altra cosa non c'è, che appunto con la sua mancanza costituisce un indizio prezioso. Il libro erotico… La Zaffetta - Venetia - 1531».
«Come puoi credere che l'assassino…».
De Vincenzi sorrideva. Sani s'interruppe.
«Continua!».
«Un libro, erotico!… perché rubarlo dopo avere ucciso?».
«E se avessero ucciso per quel libro?».
«Che vuoi dire?».
«Ah! No!» esclamò De Vincenzi. «Spiegartelo non posso! Sento che e così. Che deve essere così. Ma non chiedermene le ragioni, perché le ignoro. E, se le conoscessi, non avrei bisogno di riunire in una sala… a luci spente… le principali persone del dramma!».
Prese gli oggetti sparsi sul tavolo e li ravvolse di nuovo nel giornale. Andò a rimetterli nell'armadio, che chiuse. Poi si volse: «Vedi, che a parlare vengono le idee! A far questo inventario, che abbiamo fatto, io ho rivissuto, una a una, le ore di questi giorni, da martedì a oggi, e ho avuto limpida la visione, dei fatti. Non mi sono ingannato. Non posso essermi ingannato».
Afferrò il cappello e se lo mise in testa.
«Usciamo a prendere un po' d'aria!…».
Sani si alzò in fretta, per seguirlo. E in quel momento apparve sulla soglia l'alta e sottile persona di miss Patt Drury.
I due uomini ebbero un sobbalzo.
«Buon giorno, commissario» disse la ragazza.
De Vincenzi si era riavuto dalla sorpresa e sorrideva.
«È una gradita visita la sua, miss Drury! Vuol sedere?».
E le porse una seggiola.
Sani sparì nell'altra stanza.
La ragazza sedette. Era seria in volto. Le mascelle leggermente sporgenti apparivano contratte duramente. E gli occhi avevano perduto quella loro luce saettante, che era a volte ironica e a volte carica di disprezzo.
Non parlava.
«È venuta a portarmi notizie del suo fidanzato?».
«Sta meglio. È già in piedi, oggi. Non ha avuto che una leggera influenza…».
«Ne sono lieto».
Aspettava.
A un tratto, facendo uno sforzo, la ragazza esclamò, a voce troppo alta, perché non tradisse la sua eccitazione: «C'è una cosa che Edoardo… che il dottor Verga le ha taciuta, quando le confidò quello che noi due avevamo fatto la notte in cui… uccisero il senatore…».
«Lo so» disse De Vincenzi.
L'altra ebbe un sussulto.
«Come fa a saperlo? Che cosa sa?».
Lentamente, De Vincenzi pronunziò: «Che loro due… mentre stavano ad attendere il professore davanti alla sua casa sul viale videro uscire dal portone Norina… la cameriera…».
Patt balzò in piedi.
«Chi glielo ha detto? Dove si trovava lei?».
«Io?» sorrise De Vincenzi. «Qui a San Fedele, mi trovavo! E in quanto a dirmelo, non me lo ha detto nessuno. Ma che Norina quella notte fosse uscita di casa è dimostrato dal fatto che l'hanno uccisa. Oh! Perché l'avrebbero uccisa se non fosse uscita?!…».
La ragazza continuava a guardarlo con profondo stupore.
«Ma lei, miss Drury, viene certamente a fornirmi qualche particolare, che mi sarà prezioso. Non si può intuire tutto! Occorre sapere. E lei sa, perché ha veduto. Mi dica quel che ha veduto».
«Meraviglioso!» mormorò Patt, con ammirazione; poi scosse la testa. «Che magnifico detective americano sarebbe lei!».
«Crede? Io dico di no. Non so neppure fumare!».
E rise.
«Segga e racconti miss… Patt. Mi permette, adesso, di chiamarla così?».
«Naturalmente. Glielo permisi fin dalla prima volta, che mi parlò. Ma lei allora… era disposto a credermi addirittura l'assassina!».
«Non ho mai pensato una cosa simile! E neppure che fosse la complice dell'assassino…».
«Oh! Questo avrebbe avuto il diritto di sospettarlo! Ma, dunque, le dico subito che è stato Edoardo a volere che venissi da lei. Egli, quella sera che le raccontammo quanto era accaduto al Sempioncino e dopo, tacque l'episodio di Norina, per una delicatezza verso la fanciulla e verso il morto, che lei può facilmente capire. E, quando lei ci annunzio la morte di Norina, fummo troppo sconvolti tutti e due, per parlare. Ma il dottor Verga voleva venir qui subito il giorno dopo e lo avrebbe fatto, se non si fosse ammalato. Ieri, che lei lo mandò a chiamare e poi non volle vederlo, le avrebbe certamente detto tutto».
«Capisco».
«Sì, è semplice. Dunque, fu verso la una e mezza che Norina uscì…».
«Prima o dopo, di quando lei e il dottore videro… o credettero vedere il senatore avviarsi verso casa in compagnia di un altro uomo?».
«Dopo. Subito dopo».
«Naturalmente».
«Come?».
«La ragazza senza dubbio stava attendendo il professore alla finestra. Lo vide arrivare… Vide che tornava in dietro… non seppe vincere la propria impazienza… e forse aveva qualche altra ragione che ignoriamo… e scese in istrada per seguirlo, e per raggiungerlo e parlargli, non appena fosse stato solo…».
«È probabile che sia stato così. Certo è che Norina uscì dalla casa del professore poco dopo l'una e mezza… le ore le sentivamo suonare e le contavamo… e non tornò che verso le due… Fu anzi appunto, perché l'avevamo veduta tornare dopo appena mezz'ora, che io e Edoardo ci trattenemmo ancora ad aspettare per la strada fin quasi alle cinque, sicuri che il senatore rincasasse, dal momento che la ragazza era tornata…».
«E invece non rincasò… perché lo avevano ucciso!… Ma Norina doveva aver veduto chi era l'uomo, che accompagnava il senatore e molto probabilmente vide anche il luogo dov'essi entrarono… la libreria di via Corridoni… Sì, tutto questo era chiaro nel mio spirito, anche prima; ma io ringrazio lei e il dottor Verga, per aver voluto darmene la conferma».
«Allora, posso andarmene?» disse la giovane, che, quasi liberata da un peso, aveva ritrovato la sua sicurezza.
«Se vuole… A rivederci domani sera».
«Domani sera?».
«Già. Ho bisogno che lei e il dottor Verga si trovino domani sera alle nove in via Broletto, al Circolo di Studi Psichici… L'avrei avvertita domani, ma dal momento che lei è venuta da me, glielo dico ora. Verranno?».
«Certo verremo. Non ci ha detto, forse, lei stesso di tenerci a disposizione della Giustizia?… E non è per questo che fa piantonare la casa del mio fidanzato?».
«Oh! Miss Drury!».
«… Patt…».
«Miss Patt! Grazie!».
«Grazie a lei!».
E l'americana uscì, sorridendo con blanda ironia.
Capitolo ventunesimo
La seduta
Chirico era fremente.
Il volto pallido gli si era fatto livido. Neppure se fossero andati ad annunziargli che tutti i suoi debitori erano falliti, avrebbe perduto il sangue dal viso a quel modo.
Tutto quanto gli era stato umanamente possibile d'inventare e di opporre, per schermirsi dall'obbligo di presenziare a quella seduta, lui lo aveva inventato e obbiettato.
Per sino d'avere la moglie gravemente ammalata.
Ma De Vincenzi non aveva voluto sentir ragioni. «Per un paio d'ore, sua moglie potrà stare senza di lei. Mentre se non fa quanto desidero io, le faccio spiccare un mandato di cattura e, prima di sera, l'accompagno a San Vittore. Procuri di sceglier bene tra queste due alternative». Naturalmente, Chirico aveva scelto la seduta spiritica e adesso camminava concitatamente su e giù per la vasta sala di lettura del Circolo di Studi Psichici, in preda a un vero orgasmo.
Erano le otto e mezza e la sala era vuota.
Chirico aveva fatto in modo che lo fosse per tutta la serata. E non gli era stato difficile, del resto. Pochi era no i soci che vi convenivano e vi si attardavano e lui, che li conosceva uno a uno, aveva potuto avvertirli di astenersi dall'andare al Circolo, per quella sera.
E alla sera, senza essere riuscito a ingoiare neppure una cucchiaiata di minestra e un boccone di carne, con grande e preoccupata meraviglia di sua moglie - la quale godeva del suo consueto ottimo appetito - era scappato in via Broletto, che non erano ancora le otto, e s'era messo ad aspettare, passeggiando pel salone.
Il Circolo di Studi Psichici, se aveva un segretario, non aveva né fattorino, né custode. La pulizia delle quattro stanzette e del salone veniva fatta dalla portinaia detentrice altresì delle chiavi, quando il Circolo era chiuso.
Sicché Chirico aveva aperto da sé le porte delle quattro stanzette - quella d'ingresso e le tre interne, una delle quali era il suo ufficio - che davano sul salone; aveva acceso tutte le luci e… s'era messo ad attendere uomini e avvenimenti.
Con quel cadavere, la maledizione s'era abbattuta su lui e sopra i suoi libri. Il negozio di via Corridoni era diventato l'antro dei misteri.
E poteva esser vero che quella sera il mistero si sarebbe squarciato e dallo spacco di esso - come di tra i due lembi di un velario, sopra un palcoscenico - avrebbe fatto la sua apparizione l'assassino?
Chirico credeva alla materializzazione, alla trasfigurazione, alla ideoplastia, che non è altro se non il modellamento della materia vivente per opera dell'Idea. Ma si trattava di credenze teoriche, di una forma di credo spirituale. Si crede in Dio, ma se Iddio ci apparisse, materializzato, si cadrebbe a terra di colpo, uccisi da un aneurisma, che il volgo chiama accidente secco…
Era appunto l'accidente secco, che Chirico temeva per sé quella sera, dato il caso che la signora Sorbelli fosse riuscita a far tornare nel mondo dei viventi lo spirito visibile - ectoplasma, lui poteva anche permettersi il lusso d'adoperare termini scientifici - del defunto senatore Magni.
Ricordava uno studio dell'illustre Bozzano, del quale aveva appreso a memoria persino le parole: «Il subcosciente del medium è capacissimo di creare fluidicamente o di materializzare fantasmi animati e intelligenti di defunti a lui sconosciuti in vita, ma conosciuti da qualcuno dei presenti».
E alla Sorbelli, per di più, lo spirito, che stava per evocare, era perfettamente conosciuto in vita!
L'ometto si agitava. Aveva deposto il cappello, si era tolto quel suo pastrano troppo lungo. In giacca appariva ancora più miserello. Il vero tipo del gestore di un'agenzia di pegni, in un ghetto d'ebrei romano o veneziano.
Questa volta l'avventura era tanto più grande di lui da schiacciarlo.
Alzò le mani al soffitto e ne fermò poi una sulla testa per grattarsela.
Che cosa avrebbe inventato quel commissario della malora, per scovare un assassino, che era incapace di trovare coi mezzi consueti, logici, onesti, i quali non avrebbero procurato patemi e accidenti secchi ad alcuno?
E perché la sorte si accaniva contro di lui, Chirico, lardellandolo di colpi come un tagliere?
«E permesso» belò una voce tapina e il segretario del Circolo saltò dallo spavento.
Stava sulla porta Pietrosanto.
«Avanti, perbacco! È questo il modo di entrare, senza far rumore?».
Gualmo aveva attraversato la stanzetta d'ingresso con le sue suole di gomma silenziosa. Oh! Come avrebbe potuto fare altrimenti?
«Ma non sono entrato!».
Era vero. E d'entrar proprio in quel salone, nel quale vedeva tanti tavoli e tante seggiole, aveva paura. Sapeva adesso che si trattava di una seduta spiritica e per lui essa voleva dire tavoli e seggiole, che si sollevano, balzano, ricadono.
Anche Gualmo arrivava in via Broletto dopo ore di spaventosa ansia, per quanto in lui il desiderio di conoscere il nome di quell'assassino, ch'era riuscito a introdurre un cadavere attraverso le porte chiuse del negozio, fosse tanto vivo da superare persino lo spavento dell'ignoto, a cui lo avevano obbligato ad andare incontro.
«Venga avanti e mi aiuti a toglier tutti questi tavoli di mezzo. Ne basterà uno. Il più grande».
E Chirico indicò un tavolo massiccio, a quattro gambe.
Sgomberarono, accostando gli altri tavoli e le seggiole alle pareti. L'ometto volle mettere il tavolo scelto per l'esperienza proprio di fronte alla porta aperta di una delle tre stanzette, quella di mezzo. La stanzetta non conteneva che una libreria e una seggiola. La libreria aveva gli sportelli a vetri e Gualmo vide il padrone andarli a chiudere con la chiave, ch'era nella serratura e mettersela poi in tasca.
«È qui dentro che di solito avvengono le materializzazioni… I fantasmi compaiono nel riquadro di questa porta…».
Gualmo lo fissò.
«Ma lei… lei ha veduto proprio?…».
«Sì» fece Chirico sdegnoso e lo guardò con compatimento. «Che crede? Può benissimo accadere che lo spirito del senatore Magni torni in terra, per dirci il nome del suo assassino».
Gualmo inghiottì la saliva.
Nell'ingresso si udì rumore di passi.
Tutti e due si volsero di scatto.
Erano De Vincenzi, Sani, Cruni e due agenti.
De Vincenzi, che alla mattina aveva visitato assieme a Chirico la sede del Circolo, andò subito alla porta della stanzetta di destra e guardò dentro, poi si volse a Sani: «Mettiti lì con gli altri… Portatevi le seggiole, voi tre…».
Quando furono entrati tutti, il commissario fermò in alto e in basso la mezza porta, che Chirico aveva spalancata, e prima di chiuder l'altra chiese a Sani: «Hai capito bene?».
«Non dubitare!».
«Pazienza, allora, e non respirate neppure».
Chiuse la porta e si guardò attorno.
Anche lui era pallido; ma vide Chirico in volto e rise.
«Un po' commosso?».
«Uhm!» fece l'altro e guardò l'orologio. «Son quasi le nove. A che ora verranno?».
«Adesso».
«Quanti sono?».
«Quando ci saranno tutti, li conti».
Era nervoso. Non per i molti rischi, che correva. Carriera spezzata, dimissioni, eccetera. Non ci pensava neppure. Ma perché, se gli fosse fallita quella prova, avrebbe avuto la rivelazione matematica della propria impotenza a dominare avvenimenti e uomini.
La certezza che tutto il suo metodo era sbagliato… Che la sua pretesa di leggere nelle anime e di cercare gli indizi psicologici, invece di quelli materiali visibili, era presunzione e null'altro.
Lui non credeva nello spiritismo, o per lo meno non credeva in esso, se non come forza ipnotica, e suggestiva.
Ma che i morti tornassero? No! Non lo riteneva possibile. E tanto meno che tornassero giusto a tempo per smascherare un assassino.
Sapeva, però, che altri lo credevano fermamente e contava su questa loro convinzione.
Due ore era stato, quel pomeriggio, da solo con la signora Sorbelli, in casa di lei, mentre la figliuola si trovava a scuola, e non s'era fatto leggere le carte e neppure i fondi del caffè. Aveva parlato, quasi sempre lui, anzi, e l'altra lo aveva ascoltato con gli occhi allucinati e con le labbra tremanti.
«Vuole proprio questo da me? Proprio questo? Ma, se cado in trance realmente, come mi avviene sempre, in qual modo potrò ricordarmi, parlare, dire quel che vuole lei?».
De Vincenzi l'aveva rassicurata. Se avesse pensato fortemente a quanto lui le aveva detto, se le sue frasi se le fosse impresse profonde nella memoria, esse si sarebbero rivelate da sole, anche durante il sonno ipnotico. E gliele aveva fatte ripetere, quelle frasi, interminabilmente. Certo, egli contava d'averla soprattutto suggestionata.
Ma tra poco, che cosa sarebbe avvenuto?
Eppure, si sentiva tanto sicuro di non aver commesso alcun errore di osservazione, di deduzione, di sintesi, che non gli sembrava possibile gli avvenimenti si svolgessero diversamente di come li aveva previsti e preparati. E se anche, all'ultimo istante, gli fosse venuto a mancare qualche elemento, se gli si fosse ingranata una o più rotelline di quella delicatissima macchina ch'egli aveva montata, ebbene dalla realtà stessa dei fatti sarebbe sgorgata la verità, come polla dal terreno, come fiamma dalla paglia riarsa, sotto il solleone, se la scintilla la penetra.
Primo, al convegno, giunse quel magro giovanotto, lungo e invasato, del dottor Sigismondi. De Vincenzi lo aveva pregato di non mancare, perché temeva che a un certo punto di un dottore ci sarebbe stato bisogno, con quella medium ammalata di cuore e con le altre donne.
Arrivò con la sua busta nera sotto il braccio e il profilo più tagliente, più rostrato che mai.
«Deponga quella busta dei ferri in un angolo… che non gliela vedano subito e lei segga. Crede nello spiritismo, lei?».
Sigismondi si mostrava disposto anche a crederci. E a ogni modo ferrato nella materia lo era di certo.
«Verrà un tempo, e forse assai presto, in cui queste cose, che oggi appaiono paradossali, diventeranno banalità ammesse e accettate. Siamo infermi intellettualmente e tardi nell'accogliere l'evoluzione della scienza. La ricerca psichica e lo studio della fenomenologia spiritica appartengono al campo della scienza e non a quello della ciarlataneria».
Chirico approvava col capo. Gualmo ascoltava con attenzione e vibrava d'ansia. Fu quasi balbettando che disse: «La culla ha un ieri e la tomba un domani». Vampe di rossore gli salirono al volto, quando tutti si voltarono a guardarlo e subito si scusò: «L'ho letto in Victor Hugo…». Gli altri non sorrisero. Non era il momento. Entrava la signora Sorbelli, accompagnata dal dottor Verga e da miss Patt.
La medium aveva indossato un abito nero, chiuso fino al collo e non portava cappello. Aveva i capelli, ancora tutti nerissimi, divisi in mezzo al cranio e tirati sulle due bande. Il volto grassoccio, così pallido com'era, appariva affinato, spiritualizzato. Gli occhi le brillavano come carbonchi.
Avanzò con passi automatici e De Vincenzi le porse subito una seggiola, inchinandosi davanti a lei, con l'impressione di rendere omaggio a una dama.
Miss Patt non aveva perduto per nulla né la baldanza, né quel sottile fascino, carnalmente turbevole, che obbligava gli uomini a guardarla con gli occhi accesi e con le labbra aride.
Accanto a lei, il dottor Verga assumeva inconsapevolmente l'aspetto di un giovane attore, che si mettesse in posa per un primo piano d'un film di passione. Erano la vamp e il suo partner.
Ma tutto, in quel salone, aveva assunto l'aspetto teatrale e artificioso.
Anche De Vincenzi, che s'era messo un abito grigio, dal taglio impeccabile. Anche Chirico, così miserello e sordido. Persino Gualmo con l'abito scuro delle domeniche.
Doveva essere quella donna vestita di nero, bianca in volto sotto le due ali corvine dei capelli, che, seduta in mezzo alla stanza, taceva, con gli occhi fissi nel vuoto, a spandere attorno a sé una luce irreale, a dare a tutte le cose e alle persone un po' della propria fissità, rendendole quasi inumane.
Certo, anche miss Patt, dopo qualche istante, perdette la sua naturalezza. Il sorriso che aveva sulle labbra si fece troppo segnato, quasi convulso.
De Vincenzi guardava all'ingresso. Soltanto la palpitazione leggermente affrettata delle narici sottili tradiva in lui l'ansia e l'attesa.
Sorrideva con un movimento macchinale e faceva girare attorno al medio, spingendolo col pollice, un anello d'oro liscio, del quale non si ricordava che nei momenti di orgasmo.
Ma ognuno era troppo intento a controllare se stesso, per poter notare le reazioni altrui.
Entrò la vedova in gramaglie e tutti le s'inchinarono, tranne la signora Sorbelli, che non la vide neppure.
De Vincenzi le si fece incontro.
«Voglia perdonarmi, signora» disse a voce bassa. «Forse, è una prova troppo dura per lei e pel suo dolore».
«Se si tratta davvero di quanto mi ha velatamente accennato nella sua lettera… e se io ho saputo legger bene, la ringrazio di farmela subire».
E sedette.
Tutti gli altri rimanevano in piedi.
Nessuno chiedeva che cosa si attendesse, né quale fosse la parte, che gli era stata assegnata.
Che fossero lì per qualcosa di molto grave, tutti sentivano. E ognuno guardava con diffidenza agli altri.
Presenti fra loro erano anche due cadaveri.
Si udì una voce d'uomo e poi un'altra che rispondeva. La seconda era calda, esuberante, quasi gioviale.
De Vincenzi si volse di scatto verso la porta d'ingresso.
Apparivano il dottor Marini e Pietro Santini.
Il giovanotto venne con la sua aria equivoca, la giacca troppo attillata, i pantaloni troppo larghi, lo sguardo obliquo, a completare il quadro. Fu un'altra macchia di colore. Un altro tipo sulla scena.
Marini avanzò subito verso De Vincenzi.
«Ho incontrato questo giovanotto per le scale» disse. «Cercava il Circolo. Gli ho detto di seguirmi. Spero non essermi ingannato, nel condurlo qui».
«No» rispose De Vincenzi. «E ringrazio lei, dottore, per non aver mancato. Come vede, io sono tenace nei miei propositi. Mi ero messo in testa di assistere a una seduta spiritica».
Marini si guardava attorno.
Scorse la signora Magni ed ebbe un gesto. Sussurrò al commissario: «Ma perché proprio lei? Ha fatto male, ha fatto male, De Vincenzi!».
Lo rimproverava con aria paternamente indulgente e pure profondamente addolorata.
De Vincenzi si strinse nelle spalle.
«Lo ha voluto!» disse.
«Ah!» sospirò Marini. «Ma non conti su di me per addormentare la medium…».
«La guardi» interruppe il commissario, indicando con un movimento del capo la signora Sorbelli, che non s'era mossa. «Non le sembra che basterà spegnere la luce, perché cada in trance?».
Anche la vedova volse lo sguardo verso il lampadario, che ardeva al soffitto, e un lampo di sgomento passò negli occhi di tutti.
«Ma lei non la spegnerà! Sarebbe un'imprudenza della quale non calcola le conseguenze. Non si scherza con l'aldilà. Non si scherza coi morti, commissario!…».
De Vincenzi andò a chiudere la porta d'ingresso e poi, nel tornare, l'altra che dava sul salone.
Il dottor Marini si manteneva calmissimo. Sembrava soltanto dolorosamente stupito che anche gli altri non si unissero a lui nel tentar di convincere il commissario della poca opportunità di un esperimento, fatto, in quelle condizioni.
«Tra i fiori c'è l'astero, che è il simbolo di Cristo!».
Una voce, che veniva d'oltretomba. La medium parlava e tutte le luci erano accese.
Le due donne e i sette uomini ebbero un sussulto. La vedova rabbrividì sotto le gramaglie.
De Vincenzi fissò la donna seduta in mezzo alla stanza, che aveva parlato, senza muovere le labbra. Fingeva o era realmente caduta nel sonno ipnotico? Che cosa avrebbe detto ancora? Da quale profondità aveva tratto quella frase, vuota di senso o intensa d'un significato grave e profondo?
Lui non aveva troppo abusato, forse, di quella creatura eccessivamente sensibile, che doveva avere i nervi tesi sino allo spasimo, vibranti al tocco invisibile di onde eteree?
Si sentì afferrare per un braccio. Era Marini.
«Stia attento! Quella signora è ammalata. Lei si sta assumendo una responsabilità di cui mi auguro voglia rendersi conto».
De Vincenzi non rispose.
La donna adesso taceva.
Aveva deposto le mani sulle ginocchia. Il corpo le si protendeva leggermente in avanti.
A un tratto, prima che alcuno potesse sostenerla, rovesciò il capo all'indietro sullo schienale e, poiché ebbe gli occhi rivolti verso la luce, agitò le mani frementi, sollevandole in alto.
De Vincenzi sentì istantaneamente che gli avvenimenti si mettevano da soli pel loro corso e che nulla più avrebbe potuto arrestarli.
Un senso di gelo gli si fece sulla nuca e alle terapie. Ebbe l'impressione di non aver più la possibilità dell'iniziativa, ma d'essere anche lui sotto il dominio di una forza tanto più poderosa, quanto più occulta.
Andò alla parete e spense la luce.
Alcune voci esclamarono: «No!» con terrore.
Nel buio si sentiva il respiro oppresso dei presenti e quello rantolante della medium.
Che cosa sarebbe accaduto?
«7 rododendri sanguigni e paonazzi. le clematidi turchine come fiamma… le campanule amorose… E poi c'è la genzianella, che ama il sole e l'aconito con la sua piuma di corvo…».
Parole. E la voce le proferiva tutte eguali, senza espressione, così fredde da sembrare il filo d'una lama.
I denti di qualcuno battevano con rumore di unghie, che percotessero tasti d'avorio.
Ognuno guardava nel buio per vedere. S'aspettava che sorgesse un bagliore, un corpo evanescente e fosforeo, qualche manifestazione visibile di quel mistero pieno d'orrore.
De Vincenzi non comprendeva di dove nascessero tutti quei fiori. La donna pareva si trovasse in un giardino pieno d'incantamenti. Ma quale facoltà aveva di leggere i colori con quella precisione morbosa? Nessuna delle frasi che lui le aveva apprese, poteva neppur lontanamente richiamare l'idea di un giardino fiorito.
Era finzione?
Era l'inconscio bisogno di parlare per parlare?
O qualcosa di più terribile?
De Vincenzi reagiva a se stesso. S'imponeva di rimaner soltanto spettatore, per giudicare.
Dovette pensare ai due cadaveri, per aggrapparsi a qualcosa di solido, di esistente, di materiale.
«Lo specchio dell'acqua è freddo e immoto e c'è un volto di donna, che mi fissa…».
La voce s'era animata. Le parole non correvano più sul filo d'una lama. Ma s'erano fatte esse stesse d'acciaio flessibile e vibravano.
De Vincenzi sentì che il sangue gli scorreva di nuovo nelle vene. Quella era, press'a poco, una frase sua. Ma allora, la donna fingeva? Aveva preparato tutta quella scena e la recitava da grande attrice? Lui non aveva immaginato nulla di simile e sentiva quasi vergogna di essersi fatto giocare.
Meraviglioso!
Anche la profezia era stata una commedia!
Un grido terribile, inumano, straziante lampeggiò nel buio, come cosa viva.
Tutti rabbrividirono dalle anche al petto, percossi da verghe sottili. L'angoscia li afferrò alla gola.
Il grido si ripetette. E nel buio si udì il rumore di una lotta. L'allacciamento di due corpi, che si dibattevano.
De Vincenzi si gettò contro il muro, vi fece scorrere sopra le mani, cercando disperatamente. Trovò il commutatore e la stanza s'inondò di luce.
La signora Sorbelli era in terra riversa e, curvo su di lei, comprimendole il ventre con un ginocchio, il dottor Marini la stringeva alla gola con mani inesorabili, e le dita premevano a fondo, penetravano…
De Vincenzi si lanciò di balzo. Ma prima di lui arrivò Pietro Santini. Afferrò il dottore pei capelli, lo rovesciò all'indietro, lo strappò dal corpo della donna con la violenza con cui si svelle un arbusto dalla terra.
Lo tenne sollevato e stava per schiantarne la testa contro il tavolo massiccio, quando De Vincenzi lo raggiunse e lo colpì con un pugno alla mandibola.
«Lascialo!».
Pietro vacillò e lasciò la presa.
Il dottore s'afflosciò, girò su se stesso, s'appoggiò con la schiena al tavolo, vi si aggrappò e rimase così, ansante, rantolante, gli occhi iniettati di sangue, la bocca bavosa.
In terra, la donna aveva perduto conoscenza. Gli altri guardavano terrorizzati.
«Sani!» gridò De Vincenzi.
La porta della stanzetta si aprì e i quattro uomini apparvero.
«Frugalo!» ordinò il commissario.
Sani si gettò sopra Marini e gli passò le mani sul corpo, premendone le tasche. Da quella di destra della giacca tolse una rivoltella.
«Dammela!».
Era una rivoltella piccola, nera.
De Vincenzi se la mise in tasca. Poi si volse a guardare il dottor Sigismondi, che si era inginocchiato vicino alla signora Sorbelli e le ascoltava il cuore.
Il dottore si alzò, corse alla sua busta, ne trasse una fialetta.
«Acqua!».
I due agenti s'affrettarono verso l'ingresso.
«Lì» riuscì ad articolare Chirico e indicò la terza porta.
C'era acqua corrente e un bicchiere. Sigismondi lasciò cadere molte gocce dalla fiala nel bicchiere, per metà pieno d'acqua, poi versò a forza il liquido, tra le labbra della donna immota.
«Non c'è altro da fare» disse. «Non ho con me la siringa delle iniezioni. Non sapevo! Se il cuore le regge è un miracolo».
Ma la donna riprendeva a respirare.
«Portatela in un'altra stanza!» disse De Vincenzi agli agenti ed essi la sollevarono e la trasportarono nella stanzetta di mezzo, là dove avrebbe dovuto apparire il fantasma materializzato.
Sigismondi li seguì e lo si vide prendere il polso della donna e curvarsi nuovamente su di lei, che i due uomini avevano deposta in una poltrona.
«Cruni, conduci via quello lì…» e De Vincenzi indicò Santini.
Il giovanotto era mortalmente pallido e saettava Marini coi suoi obliqui occhi, che la collera rendeva ancor più strabici.
«Fallo chiudere in casa».
Cruni lo afferrò per un braccio. L'altro si lasciava trascinare. Uscirono. Allora, De Vincenzi si volse a guardare la signora Magni.
Si teneva ritta, senza bisogno di appoggio alcuno, e fissava il dottor Marini con intensità, quasi sforzandosi di capire un enigma.
La verità - se pure quella che appariva era la verità - le si era rivelata tanto folgorante e in modo così drammatico, ch'ella non poteva ancora rendersi conto del significato di essa.
Il commissario le si avvicinò, le prese con dolce rispetto una mano e la condusse verso l'ingresso. La donna si strappò dalla sua concentrazione con un sussulto.
«Non ha più bisogno di me?» disse.
«Non credo. Grazie».
Quando passarono dinanzi al dottor Verga, che nel buio aveva afferrato Patt per un braccio e che la teneva ancora, De Vincenzi gli disse: «Vuole accompagnare a casa la signora, dottore?».
Verga lasciò il braccio e s'inchinò, ma l'occhio gli corse con apprensione alla fidanzata.
«Ho giù l'auto» disse la vedova. «Posso condurre a casa la signorina».
I tre uscirono, la signora Magni avanti, Patt e Verga subito dietro.
De Vincenzi, che li aveva accompagnati fin sulla soglia, tornò rapidamente e si guardò attorno.
Non c'erano più che Chirico e Pietrosanto, ch'eran caduti a sedere in un angolo e lì rimanevano inerti e spenti, come i lucignoli dei ceri, a funzione finita, dopo passato il chierico con lo spegnitoio. Tutti raggricciati in se stessi sembravano proprio due stoppini abbruciacchiati.
E poi Sani e gli agenti.
Sani stava presso il tavolo a cui si appoggiava ancora il dottore Marini. Questi si andava calmando. L'occhio gli ritornava normale. Le labbra gli si asciugavano.
Quando vide ritornare De Vincenzi, parlò subito.
«Quella donna è una ciurmatrice!» e diede un'occhiata alla stanza in cui si trovava la Sorbelli con Sigismondi. «Questa sera stava per ripetere la stessa immonda finzione di quando predisse la morte di Magni. Ho perduto il lume della ragione. Voglia perdonarmi».
Allora De Vincenzi disse poche parole, con voce gelida.
«In casa sua, mentre lei era qui, hanno trovato La Zaffetta.».
Il dottore emise un debole gemito e sollevò verso il commissario i suoi tondi occhi fattisi supplici: «Dovevo ucciderlo! Mi creda! Dovevo ucciderlo!».
E De Vincenzi tirò un sospiro, perché nessuno era andato in casa del dottor Marini, quella sera, e nessuno aveva trovato La Zaffetta.
Capitolo trentaduesimo
«Da trent'anni lo odiavo»
«Vuol parlare adesso o domani?».
«Come vuole! Meglio subito».
«Aspetti. Segga. Telefono al giudice».
«No. Prima con lei! Bisogna che lei capisca».
«A che cosa può esserle utile?».
«Vorrei che lei vedesse sino in fondo alla mia anima! Oh! Lo so che non servirà a salvarmi. Ma questa sera, dopo quanto è accaduto, non potrei non dir tutto! Domani, lascerò che parlino gli altri. Firmerò tutto quello che vorranno. Ma lei deve conoscere le ragioni, che mi hanno spinto a ucciderlo».
«Le conosco!».
«No! Le dico di no! Non può conoscerle!».
Sempre aggrappato al tavolo, s'infiammava. Sembrava discutere con trasporto una questione generica e teorica.
Era tornato l'uomo normale, soltanto un poco concitato e un poco ansante, forse per l'accesso di poco prima. Poiché egli aveva avuto un vero accesso. De Vincenzi non ne poteva dubitare: gli occhi di lui e quella bava biancastra alla bocca glielo avevano detto senza possibilità d'errore.
Ma adesso l'accesso era passato e Marini sorrideva con sarcasmo.
«Lei crede che l'abbia ucciso, perché mia moglie mi tradiva con lui! Questo crede, lei! E sbaglia! Le dico che sbaglia. Se non ci fosse stato l'odio, non lo avrei ucciso e non avrei sopportato il tradimento. Avrei scacciato mia moglie sei mesi fa, quando la cosa cominciò. Me ne ero accorto subito. Non sono un marito cieco, io! E stavo in sospetto, perché sapevo che lui avrebbe tentato di togliermi anche quella! Ma l'odio aveva una ragione più forte, aveva radici tanto profonde, che non era più possibile strapparle! Lo vede che lei non sa nulla, ancora?!».
Si guardò attorno. Fece per muoversi verso una seggiola, Sani la prese e gliel'accostò. Sedette. Doveva sentirsi stremato. Le mani gli continuavano a tremare legger mente.
De Vincenzi fece un segno col capo agli agenti, che erano rimasti in mezzo alla stanza, pronti a intervenire, e i due si ritrassero nel fondo, presso la porta d'ingresso.
Sani aveva tratto un blocco di carta e un lapis e diede un'occhiata al commissario. Questi gli rispose di sì con gli occhi e lui andò a sedersi dall'altra parte del tavolo, dietro le spalle del dottor Marini, pronto a scrivere. Marini non se ne accorse neppure. Guardava De Vincenzi, che rimaneva in piedi, con le mani in tasca, la persona un po' curva, lo sguardo stanco quasi stremato anche lui. Adesso che la tensione nervosa della battaglia s'era allentata, adesso che sapeva d'aver vinto, un grande dolore umano, fatto d'amarezza e di scoramento, l'aveva invaso. Quel dramma atroce gli dava il senso terribile di quanto la vita fosse cattiva, pericolosa, inutilmente irta di spine. E anche un senso di sgomento, come se un più tragico mistero e insolubile si fosse sostituito all'altro meschino e impercettibile che l'aveva tenuto sino allora. Che cos'era quella sala, con quegli uomini, con quell'uomo, che era un assassino, sotto la vasta volta celeste? La terra? Un pianeta. E tanti altri astri e pianeti, più grandi, lontani. Tanti! E sulla terra, quel punto così minimo, con un uomo il quale in quel momento doveva credere che tutti gli astri, tutti i pianeti, tutto l'universo facessero capo a lui, che aveva una tragedia tanto grande dentro di sé!
«Le ho detto io di voler parlare e adesso mi accorgo che forse le parole non varranno a farle capire perché l'ho ucciso. L'odio per l'odio esiste! Ma in me c'era qualche altra cosa. E poi risaliva lontano! Eravamo fanciulli. In collegio. La nostra camerata, dove trascorrevamo il maggior tempo dello studio e della ricreazione, aveva un'unica finestra, che dava sul giardino. Il resto della sala era buio, tetro. Da quella finestra entrava il sole, si vedevano gli alberi, era uno spiraglio aperto sulla natura miracolosa, sulla libertà. Ognuno di noi collegiali aveva un banco tutto per sé, coi propri libri, con quanto gli apparteneva, lo consideravamo come il nostro sacrario. Ebbene, io avevo il mio banco proprio davanti a quella finestra ed era la mia felicità. Da pochi giorni mia madre mi aveva accompagnato in collegio e mi ci aveva lasciato. Avevo sofferto al distacco.
Piangevo di notte. Mi diedero quel banco e non piansi più! Ma arrivò Magni. Era già un giovanetto, alto, sottile, assai bello. Aveva un sorriso, che conquistava subito tutti. Fu quel sorriso? Fu perché l'aveva accompagnato in camerata proprio il rettore, consegnandolo all'istitutore con molte raccomandazioni sussurrate a voce bassa? Fu perché il mio destino lo volle? Il fatto è che l'istitutore mi ordinò di cedere il mio posto al nuovo arrivato! Da quel momento, l'odiai. Alla notte facevo sogni orribili e sempre lo vedevo morto, strangolato da me! È la verità! Mi sentivo in preda a un'ossessione. Per vincerla, tentai di essergli amico. Ci chiamavano gli inseparabili. Ma lui aveva accettato la mia amicizia, come dovutagli, quasi fosse la sottomissione di schiavo a padrone. Ogni giorno di più faceva pesare su me la sua superiorità. Lui aveva tutto e io nulla. Vivevo della sua luce! Mangiavo gli avanzi dei suoi pasti! Quando fummo più grandi, non potevo guardare una sola delle nostre compagne di scuola, senza che lui, subito, non l'avesse fatta innamorare di sé! L'odio per l'odio! Ah! Esiste. Se esiste!».
Tacque.
Si sentiva il suo respiro e il rumore della matita di Sani sulla carta, contro il legno del tavolo.
Di là, Sigismondi si muoveva, disse qualche parola. De Vincenzi corse a chiudere la porta della stanzetta e poi tornò a mettersi davanti all'uomo seduto.
Nessuno sapeva che Chirico e Pietrosanto esistessero ancora, nel loro angolo.
«Ha capito, adesso? Comincia almeno a capire?».
«Lo sapevo» disse lentamente De Vincenzi e l'altro lo guardò sorpreso.
«Per questo, allora, ha scoperto che ero stato io a uccidere? Per questo mi ha teso il tranello? Per questo ha mandato a prendere quel libro, a casa mia?».
«Anche per questo».
«Meglio così!».
Tacque ancora. Poi sollevò il capo e lo sguardo gli brillava.
«Se non ci fosse stato lei, nessuno mi avrebbe scoperto! Il mio è stato un capolavoro! Vuol sapere come l'ho ucciso? Oh! Debbo riconoscerlo: non avevo stabilito che fosse proprio per quella notte. Ero ben determinato a farlo; ma aspettavo che mi si presentasse l'occasione. Volevo ucciderlo, senza che si potesse mai attribuirne a me la colpa! Stavo in agguato, come il cacciatore d'una belva. Sapevo che era l'amante di mia moglie. Anche quella mi aveva portata via! L'avevo preveduto, del resto, e non avevo fatto nulla per impedirlo. Sarebbe stato inutile. E lei non ne aveva neppur colpa! Lei non faceva che cedere a una forza più forte. Doveva amarlo e tradirmi, perché il mio destino voleva così!».
De Vincenzi rivide l'alcova di via Abbondio Sangiorgio, il ritratto nella cornice d'argento, la donna distesa sulla sedia a sdraio, contro il sole e il mare, con la vestaglia azzurra e i capelli d'oro e quei piedini nudi nelle babbucce…
«Quella notte» continuò il dottore, con voce trionfante, come se narrasse la più bella delle sue imprese «venne lui a cercarmi. Sapeva che alla sera andavo sempre in un caffè di Porta Venezia ed entrò lì dentro che erano le dieci. Mi sembrava nervoso. Si mordeva le labbra a quel modo che faceva sempre, quando qualcosa o qualcuno lo contrariava. «Andiamo a camminare» mi disse, dandomi un ordine, secondo il suo solito. Girammo tutta Milano. Lui parlava. Diceva di averne abbastanza delle donne e che esse lo annoiavano. Mi parlò di sua moglie. Io a bella posta gli parlai della mia. Covavo il mio odio. Vivevo di esso. Mi era necessario come la cocaina a un intossicato. A più riprese palpai la rivoltella, che avevo nella tasca. Avrei voluto condurlo verso la campagna. Forse, pensavo già a ucciderlo. Ma lui non volle. Entrammo in quattro o cinque bar, senza sederci. Bevevamo in piedi. Lui beveva whisky. Volle che anch'io ne bevessi. Le idee mi divennero lucide, il cervello mi si rischiarò. Fu dopo il quarto o quinto whisky, che decisi di ucciderlo quella notte stessa. Ma come? Improvvisamente, mi ricordai d'avere in tasca le chiavi della libreria di via Corridoni…».
Dall'angolo di Chirico e di Pietrosanto venne lo scricchiolio delle seggiole e i due uomini mandarono un «Oh!» di stupefazione e di protesta.
Questa volta anche De Vincenzi ebbe un moto.
La matita di Sani correva sempre sulla carta e i fogli scritti si ammucchiavano sul tavolo.
«Come le avevo? Il destino, le dico! Una quindicina di giorni prima ero entrato in quella libreria, per cercare un libro di occultismo. Avevo in mano la mia borsa, un giornale, i guanti, non so che altro. Il fatto è che, quando volli andarmene, m'accorsi che avevo posato tutta quella roba sulla scrivania del proprietario. Andai a prenderla e vidi accanto ai guanti un piccolo mazzo di due chiavi. Ero distratto… sa come avviene?… quelle chiavi somigliavano alle mie… credetti di avervele posate io, assieme ai guanti… le presi e me le misi in tasca… Fu dopo qualche giorno che mi accorsi di averle e dovetti lambiccarmi il cervello, per ricordarmi dove le avevo prese. Avrei voluto riportarle subito. Non lo feci. Non ne trovai il tempo. O forse fu sempre il destino, che non volle… Quella notte, quando Magni mi disse di voler tornare a casa e ci avviammo dalla piazza del Duomo, dove ci trovavamo, verso Porta Vittoria, passando per via Corridoni, mi ricordai delle chiavi. Pensai subito a ucciderlo lì dentro e poi a richiudere il negozio, nessuno avrebbe potuto sospettare che fossi stato io. Ebbi persino uno scoppio di riso dentro di me, immaginando quel che sarebbe accaduto alla mattina, quando avrebbero trovato il cadavere. Con Magni parlavamo di spiritismo. Gli dissi che Chirico aveva un libro assai raro e interessante, gli proposi di andarlo a prendere subito. "Ho le chiavi" aggiunsi. "Chirico me le ha date, perché andassi a prendermi io stesso il libro, questa notte…". Non c'era nulla di strano. Chirico è il segretario di questo Circolo e Magni lo conosceva benissimo e poteva credermi. Ma non voleva. Diceva di esser stanco. Continuò a camminare fino al principio di viale Bianca Maria. Vidi che mi sfuggiva. Ma conoscevo un'altra debolezza sua, ch'era poi un aspetto del suo erotismo morboso e vizioso. "Lo sai che Chirico ha una collezione di libri porno grafici?". Allora, venne. Tornammo indietro. La strada era deserta. Neppure un'anima al largo di via Cesare Battisti. Aprii la saracinesca e dovemmo metterci in due, per sollevarla. Quando fummo dentro, la riabbassai. "Se vedono la luce" dissi "ci prendono per due ladri!". Lui rideva. "Dove sono gli erotici?" mi chiese. Dovemmo cercarli. Finalmente, li trovammo. Lui prese subito il volume della Zaffetta. Ne scorse qualche pagina. Mi voltava le spalle. Lo sentii dire "Ah, sapevano vendicarsi delle donne, in quel tempo! Le trattavano da quel che erano! P… e nient'altro!". Allora, sparai. Fu più forte di me. Lo avrei fatto, forse, anche se lui non avesse detto quelle parole; ma furono esse che agirono su di me come una frustata. Mi sembrò che in quel momento parlasse di mia moglie, che m'insultasse a sangue, insultando lei!…».
Un altro silenzio.
Chirico si chinò verso Pietrosanto a mormorargli una frase e Gualmo lo guardò coi suoi grandi occhi acquosi, senza capire.
«Poi lei prese un sacco» disse De Vincenzi «che trovò in un angolo, e segnò la striscia del corpo sulla polvere, per far credere che fosse stato trasportato là dentro cadavere, dal di fuori?…».
De Vincenzi parlava lentamente. Voleva dar tempo a Sani di scrivere. Oramai, per lui tutto era così chiaro, che avrebbe potuto fare a meno di muovere domande, tranne una che si riservava per ultima.
«Ha capito anche questo? Sì. Era caduto davanti alla porta della terza stanzetta. Mi guardai attorno.
Volli completare l'opera. Afferrai il libro, che lui aveva lasciato cadere e me lo misi in tasca. Perché? Non so! Mi sembrava che quel libro mi avrebbe sempre ricordato la mia azione e volevo tenermelo. Le ho detto che l'odiavo! Ma nello stesso tempo, mi preoccupai di confondere gli indizi, di perfezionare il delitto. Segnai la striscia per terra. Aprii la porta, che dava sul cortile, uscii e vidi che il portone era aperto. Me ne sarei andato per di lì. Così non avrei avuto bisogno di rialzare la saracinesca, che sarebbe stato sempre un rischio. Tornai indietro, presi il cappello di Magni, spensi tutte le luci, accostai la porta dietro di me, in modo che sembrasse chiusa. Quando fui in istrada la vidi sempre deserta e diedi un giro di chiave alla saracinesca, per dar meglio l'impressione che avessero introdotto il cadavere nel negozio dalla porta del cortile…».
«E non pensò che uno dei proiettili era andato a conficcarsi in un libro, di fronte al cadavere!».
«No, a questo non pensai. E come avrei potuto? Ma pensai al cappello!».
Fu un grido di vittoria il suo.
«Me lo tenevo stretto contro il petto, sotto il soprabito. Andai a piedi fino in via Commenda e lo lasciai cadere contro il muro del Dormitorio. Lo avrebbe trovato qualcuno di quegli ospiti… forse un pregiudicato… un disgraziato, certo, che non avrebbe esitato ad appropriarselo».
Ah! Dunque, il bigatt doveva aver trovato davvero il cappello. Se Harrington non gli avesse imbrogliato quella pista! E De Vincenzi pensò alla vedova, che andava a chiedere l'aiuto del detective.
«Sua moglie vide il libro, che lei aveva portato con sé?».
«Sì. Come lo sa? Alla mattina, quando mi alzai, glielo trovai tra le mani. Lo avevo posato sulla scrivania del mio studio. Glielo tolsi di scatto, dicendole che lo avevo acquistato per ragioni di studio».
Ecco, perché la donna gli era caduta davanti, di colpo, appena lui aveva nominato la Zaffetta.
Ma adesso bisognava toccare il punto più orribile.
«E quella ragazza?» chiese con voce gelida.
L'uomo rabbrividì. Gli occhi gli si empirono d'orrore.
«Ah! No! Mi faccia grazia! E mostruoso! Norina ci aveva veduti dalla finestra… ci seguì… vide che entravamo nella libreria… La sera dopo mi venne a cercare a casa. Povera disgraziata! Un'altra sua vittima. Lo amava! Mi sentii perduto… La condussi fuori con me… La feci bere… Poi… poi… sul parapetto della Darsena… E mostruoso!».
Si coprì il volto con le mani.
De Vincenzi guardò Sani. Tutti e due erano lividi. Sani gli fece segno d'aver scritto.
Ma a lui toccava il compito d'insistere. Era come bere un calice di tossico.
«Sospettava di lei, quella ragazza?».
«No» mormorò l'assassino. «Voleva soltanto sapere. Ma avrebbe parlato! Avrebbe detto che io quella notte mi trovavo in compagnia di Magni… Non potevo non fare quel che ho fatto…».
«E avrebbe strangolato anche la Sorbelli!».
«Oh! Quella lì!».
E, togliendosi le mani dal volto, diede un'occhiata alla porta chiusa. Di nuovo gli occhi gli si erano iniettati di sangue. Un ammalato, certo. Quando aveva ucciso, doveva essersi trovato in preda a un accesso di follia sanguinaria.
«Quella lì!» ripeté.
«Fu lei a dirle di profetizzare la morte?».
L'altro esitò. Poi si decise.
«Sì. Volevo mettergli paura. Sapevo che era superstizioso e che amava la vita».
«Anche allo spiritismo lo aveva attirato per la stessa ragione?».
«Forse. Nell'oscuro del mio animo, certo pensavo di danneggiarlo, mettendolo a contatto con qualcosa di soprannaturale e di terrorizzante».
«E… quella donna perché si prestò alla commedia?».
«L'avevo suggestionata. Da principio volevo pagarla; ma vidi subito che non sarebbe stato il mezzo e che era inutile, del resto. Lei non poteva non fare quel che volevo io!».
«E questa, sera?».
«Questa sera, ho capito subito, che avrebbe parlato».
Ebbe un lampo. Balzò in piedi, fissando De Vincenzi. Sollevò una mano accusatrice, verso di lui. Fremeva. Di nuovo le labbra gli schiumavano.
«Lei… lei… è stato lei a suggestionarla… a insegnarle che cosa doveva dire questa sera!».
De Vincenzi lo fulminò con lo sguardo.
«Risponda a questo!» martellò con voce dura. «Ha indotto la signora Magni ad andare da Harrington, con la speranza che si trovasse un innocente da far condannare?».
Il dottore non rispose subito. Abbassò la mano. Ansava.
«Risponda!».
«Sì. Era il piano del cappello, che continuava».
«Quanto ha dato ad Harrington?».
«Lo domandi a lui. Tutto questo non ha importanza, oramai!».
«Era vero».
«Questa è la stessa con cui ha ucciso il senatore?».
E traendola dalla tasca, gli mostrò la rivoltella nera.
«Sì. Ne ho una sola».
«Sta bene. E finito».
L'altro disse: «Lo so. È finito».
«Sani! chiamò De Vincenzi».
Sani raccolse i fogli.
«Deve firmare?».
«No. Domani. Perquisiscilo un'altra volta e mettigli le manette».
«Ha paura che tenti di avvelenarmi?» esclamò il dottor Marini con voce triste, mentre il vicecommissario lo frugava.
Era tranquillo. Rassegnato.
«Oh! Non abbia questa paura! Lascerò che la Giustizia segua il suo corso».
Nelle tasche non aveva nulla di sospetto.
I cerchi d'acciaio scattarono. I due agenti s'avvicinarono e presero i capi delle catenelle, uno per parte.
S'avviarono.
De Vincenzi li fermò.
«Perché ha messo quattro ferri chirurgici e un camice sui gradini della chiesa di San Vito?».
Marini non capiva. Dovette ripetergli la domanda.
«Quattro ferri e un camice? Non so di che cosa voglia parlare. Io non ho messo nulla sui gradini della Chiesa di San Vito».
Doveva esser vero. Non avrebbe avuto ragione di mentire.
«Andate» ordinò il commissario.
Fu il dottore a fermarsi, questa volta.
«La prego! Mia moglie si trova a Pegli… Villa Doria… L'avverta lei».
De Vincenzi pensò che non lo avrebbe fatto, ch'era l'unica cosa che non avrebbe avuto la forza di fare, fece un cenno evasivo col capo e si volse subito a Sani.
«Accompagnalo in guardina. Al Questore penserò io».
«Tu rimani?» chiese Sani, guardandolo con apprensione, perché lo vedeva pallidissimo, con gli occhi cerchiati e stanchi.
«Sì» e indicò la porta dietro cui stava la medium. «Quella mi preoccupa».
Poi ebbe un gesto. Le guardie scendevano già le scale col prigioniero. Prese Sani per un braccio.
«Dimenticavo! Appena lo hai condotto a San Fedele, va' a casa sua, corso Plebisciti, 17, e trova il libro.
È intitolato: La Zaffetta. Reca la data di Venezia, 1531. Trovalo a ogni costo».
«Non dubitare».
De Vincenzi rimase in mezzo alla sala, fissando il vuoto.
Si sentì toccare un braccio. Era Chirico. Aveva i pomelli accessi.
«Le mie chiavi!» disse. «Potrò riavere il mazzo delle mie chiavi?».
Epilogo
Fu il giorno del processo, quando quei quattro ferri chirurgici e quel camice apparvero fra i corpi di reato col foglio contenente lo strano invito di consegnarli alla Questura, che anche l'enigma di essi fu chiarito.
Nessuno era riuscito a capire che cosa c'entrassero col duplice delitto e non c'entravano per nulla, infatti.
Una coincidenza del Caso!
Venne uno studente a deporre e a riprenderseli. Uno studente del quarto anno di chirurgia. Glieli avevano sottratti, mentre si trovava nell'Anfiteatro dell'Università, a sezionare un cadavere. Era stato lo scherzo di un compagno…
Il dottor Marini fu condannato all'ergastolo. Non avevano ammesso l'infermità mentale, o non gli avevano accordato le attenuanti.
De Vincenzi quella sera stessa partì per l'Ossola.
Manteneva la promessa fatta a Sani di prendersi un po' di riposo.
E rivide la casetta in mezzo all'orto, la mamma, la domestica e il cane…
Nelle notti stellate, andava a sedere sull'erba dei monti e guardava il cielo. «Tutto un mondo ci circonda, che noi non conosciamo».
IL CANDELIERE A SETTE FIAMME
1.
La mattina del 17 maggio 1930 i grandi giornali d’informazione di Milano e Torino recavano questa notizia:
MISTERO INDECIFRABILE ATTORNO ALLA “MUMMIA” DI BLACKFRIARS
Londra, 16 notte
L’esame del cadavere mummificato rinvenuto ieri avvolto in bende in una delle cantine della vecchia osteria di Blackfriars ha non solo permesso di identificare il morto, ma di modificare radicalmente le opinioni espresse circa la data della sua scomparsa. Il dottor Spilbsbury, che ha effettuato oggi l’autopsia, è stato costretto a discostarsi dalla teoria della polizia, secondo la quale il vecchio sarebbe stato vittima di un delitto commesso trentanni or sono. Si tratta, invece, del sessantenne William Ellis, residente a Wands Worth, il quale scomparve or è poco più di un anno. Il mistero che avvolge la fine dell’Ellis sarà difficilmente chiarito. Egli era uscito un anno fa in abito da passeggio. Nella cantina dell’osteria, il cadavere è stato per contro rinvenuto in abito da mendicante con grossi scarponi sprovvisti di lacci. L’autopsia ha confermato che egli è stato ucciso mediante una martellata alla testa.
Nei giorni seguenti, i lettori appassionati di tal genere di notizie impressionanti, cercarono invano particolari e rivelazioni sul “morto mummificato” di Blackfriars. I corrispondenti da Londra avevano abbandonato il mistero. Vero è che il Gandhi, trinceratosi nel suo accampamento di Untadi, aveva bandito la crociata del “sale e delle tasse”, e la legge marziale era stata proclamata a Slatapur. L’India sotto il tallone britannico... Il pubblico dei grandi giornali d’informazione ebbe altra pastura e ben altrimenti appassionante. Soltanto qualche accanito lettore di romanzi polizieschi ricordò ancora per qualche tempo quel cadavere di un uomo, che un giorno era uscito in abito da passeggio e che, dodici mesi dopo, era stato ritrovato “mummificato” nella cantina di un’osteria, con in dosso stracci da mendicante e ai piedi grossi scarponi sprovvisti di lacci...
2.
Lo spettacolo di quel morto, steso sul piancito di mattoni porosi e sgretolati, in quella stanza buia, che la lampadina accesa al soffitto illuminava d’una luce smorta e polverosa, non era davvero bello. De Vincenzi, spalancata la porta e girato l’interruttore, diede addietro di un passo. Sani e Cruni, che lo seguivano, urtati da lui, indietreggiarono alla loro volta e dovettero scendere d’un gradino per non cadere, tanto il ballatoio era stretto, a termine della ripida scala di legno, davanti a quella porta giallastra, che recava stampigliato in nero, enorme come un numero da tombola di villaggio, il numero 48. Era l’ultima camera dell’albergo, sotto i tetti. Dietro di essi, per la scala male illuminata, si teneva il gruppo dell’albergatore, del cameriere lercio, di qualche ospite. Dietro ancora, a sbarrare il passo, gli agenti del pattuglione e quelli venuti col commissario capo della Squadra Mobile da San Fedele.
Nello sgabuzzino del portiere, che era poi anche ufficio e cassa, sul tavolo, tra i registri e le chiavi delle camere, era seduto il commissario Bianchi e, poiché lo sgabuzzino era stato costruito in un angolo dell'atrio, là dove la volta s’abbassava, lui, con quella sua persona gigantesca, toccava quasi col capo una delle travi. Aspettava. Tra poco se ne sarebbe andato. Avevano chiamato lui, naturalmente, come reggente il commissariato di Porta Garibaldi, perché quel malfamato albergo dello Specchio d’Oro stava in via Anfiteatro; ma oramai era arrivato il commissario della Squadra Mobile e i fastidi per Bianchi erano finiti. Un assassinio volgare, in fondo, e in un luogo di teppa e di delinquenza. Ma pur sempre noie. Raderle al suolo avrebbero dovuto tutte quelle casupole e casacce lebbrose di via Anfiteatro, raduno di peripatetiche e di ladri, di ricettatori e di mezzane. In alto, De Vincenzi aveva vinto la prima repugnanza. Quel cadavere era orribile. In pigiama da notte, coi piedi nudi all’aria, aveva il ventre aperto da un fianco all’altro. E tutt’attorno il sangue aveva formato lago. Cominciava a coagularsi e ad annerirsi.
La stanza - la solita stanzaccia squallida di quegli alberghi di infimo ordine - non presentava traccia di lotta. Il letto era disfatto e le lenzuola giacevano ripiegate, come se l’uomo ne fosse disceso tranquillamente: certo non lo avevano aggredito mentre dormiva e non lo avevano strappato giù a forza. Gli abiti e la biancheria, che s’era tolti per coricarsi, giacevano piegati con cura sulla seggiola, accanto al letto. In mezzo alla stanza, presso al cadavere, un’altra seggiola. Vi si era seduto? Ma perché a piedi nudi? Il commissario si guardò attorno e vide le pantofole, una da una parte e una dall’altra, quasi sotto al cassettone. Gli erano state tolte dopo morto o gli erano cadute e l’assassino le aveva fatte schizzar lontano. E non c’era altro: il letto, due seggiole, il cassettone con lo specchio e, di fianco alla finestra, mezzo nascosto dalla tenda di percalle a fiorami, lurida e a sbrendoli, il catino sul treppiedi di ferro e la brocca. Una valigia gialla aperta sul cassettone. E si vedeva l’argento degli oggetti di toletta messi in fila. Una valigia di lusso. Anche la biancheria dello scannato era di lusso. La faccia del morto, però, appariva volgare. Volto pieno, naso potente, diritto, carnoso; due basettini castani, come i capelli, che avevano la riga da un lato e si ripiegavano in un ciuffettino pretenzioso. Gli occhi spalancati non dicevano nulla. Terrorizzanti, sicuro, come tutti gli occhi spalancati di un cadavere; ma non esprimevano sorpresa, meraviglia, paura: nulla! Traslucidi, opachi, sembravano quelli di un pesce morto ed erano se mai impressionanti appunto per quella loro atonia senza luce.
“Chiamami l’albergatore”.
Cruni s’avviò.
“Manda un agente a cercare il medico e telefona tu stesso, per sentire se dal Gabinetto di Polizia Scientifica possono far venire subito il fotografo e gli esperti...”
“A quest’ora?” fece Sani. “È quasi mezzanotte...”
“Prova lo stesso, Cruni!... Di’ che si tratta di un caso grave...”
Sani guardò il suo Capo con meraviglia contenuta: un caso grave, quello? Grave, certo, per quel disgraziato, che avevano conciato a quel modo; ma non si trattava poi di un qualsiasi delitto di teppa? Cruni era uscito. Si sentirono voci per le scale, poi un passo che saliva, facendo scricchiolare i gradini di legno. L’albergatore comparve nel riquadro della porta.
“Il registro”, ordinò il commissario con voce fredda.
L’uomo alzò le spalle,
“Il suo collega giù lo ha consultato. È in regola, sa?... Non sono mica così bestia da non prendere il nome di chi entra...”
“Portami il registro”.
L’uomo ingozzò una maledizione e scomparve. Nella stanza, davanti a quel cadavere dissanguato, i due rimasti tacevano. Sani pensava che il commissario, certo impressionato dall'atrocità del delitto, doveva aver perduto un po’ della sua freddezza abituale. Quale mistero voleva che ci fosse li dentro? Tutt’al più qualche donna di mezzo o un “regolamento di conti” per la divisione del bottino. De Vincenzi si avvicinò al cassettone e guardò dentro alla valigia. S’era messe le mani in tasca e aveva il volto stranamente concentrato.
“Ma come hanno fatto a tagliarlo a quel modo?”
De Vincenzi sussultò e si volse a fissare il vice-commissario.
“Qual è la tua idea, Sani?...”
“Averne una! Per lavorare un uomo a questo modo, occorre l’odio. Una vendetta...”
Ma De Vincenzi non lo ascoltava: aveva fatto la domanda meccanicamente per il desiderio spontaneo di mostrarsi cortese col suo subalterno, ch’era poi soprattutto per lui un amico e un compagno. Ma s’era di nuovo assorto a contemplare il volto del morto. La fronte altissima perdeva ogni luce per l’immobilità vitrea, appannata degli occhi. Gli zigomi sporgevano, le gote irrigidendosi apparivano gonfie. I baffetti corti, l’arco delle sopracciglia prominente, la linea della mascella che appariva esile per la durezza sporgente degli zigomi, indicavano lo straniero. Anche il pigiama di seta, verde e rosso, di taglio e foggia insoliti, confermava a prima vista l’ipotesi. Il commissario si avvicinò alla seggiola sulla quale giacevano gli indumenti dell’ucciso e li osservò. Non recavano nome di sarto, cifre, indicazione alcuna. Ogni possibilità di riconoscimento era stata fatta sparire dagli assassini, i quali s’erano preoccupati dei particolari, strappando l’etichetta del sarto dalla giacca e persino i bottoni dei pantaloni, che dovevan recare impresso qualche marchio riconoscibile. Avevano operato con metodo e con perfetta tranquillità, sino al punto di riporre i vestiti piegati sulla seggiola dopo averli ispezionati. E nelle tasche, nulla. Tutto era sparito, anche il fazzoletto, il portafogli, il borsellino. Sani seguiva i movimenti di De Vincenzi.
“Niente?”
“Niente”.
“Rimane la valigia...”
“Non troveremo nulla neppure lì...”
L’albergatore tornava col registro.
“Ecco qua... Tutto in regola... Il nome dell'assassinato è l’ultimo... È arrivato ieri sera alle sette... E dopo di lui...”
“Dammi...”
Sapeva benissimo, De Vincenzi che dalle sette di sera alla mezzanotte, che era allora, chi sa quante altre persone erano state accolte nell’albergo, che non avevano dato il loro nome e che se ne erano di già andate; ma quel lurido commercio abituale non lo interessava, adesso. Lesse: Gehenlyan Melkon, nato a Talas nel 1888, proveniente da Zurigo.
“Ha dato il passaporto?”
“Certo. Me lo ha mostrato. Ho copiato i dati e gliel'ho restituito. Non è questo che debbo fare?”