Capitolo ottavo

2019 Numero 6

La ragazza senza nome

Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò

CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere

La bara numero 6 contiene la più piccola: è una bambina di circa 12 anni, presumibilmente ivoriana come le altre. Su tutte le tredici casse di legno vecchio e scrostato donate dal comune di Agrigento non ci sono nomi. Le targhe portano solo un numero, dall’1 al 13. Di loro, però, almeno sappiamo che sono tutte donne e tutte giovanissime. Due, si dice, erano incinte. Non stupisce: sarebbe stato insolito il contrario, che tra tante donne non ci fossero state quelle ingravidate dalla violenza brutale di chi aveva fatto di loro delle schiave prima di caricarle su quella barca.

La sala in cui sono messe in fila le tredici bare è piena di gente ma regna un silenzio surreale a tratti interrotto dal singhiozzo di una sopravvissuta che non riesce a contenere il dolore. È strano vedere scorrere le lacrime senza far rumore tra chi si trova lì senza aver mai conosciuto né le vittime né i superstiti.

«Come uno piange i propri cari, davanti a questa gente, senza nome, con un volto sconosciuto, c’è bisogno di sentirsi un po’ fratelli, altrimenti le cose non cambiano.»

Sentirsi fratelli di chi non si conosce, condividere il lutto con chi non si è mai incontrato è un modo per scuotere il mondo dall’accidia verso i morti migranti, tuona l’arcivescovo di Agrigento monsignor Francesco Montenegro, venuto apposta dalla Sicilia sullo “scoglio” per benedire le 13 vittime recuperate da quel naufragio. Lo fa con rito cattolico, lasciando spazio all’imam per una preghiera musulmana, tanto i morti per Dio o per Allah sono tutti uguali, se solo li si riesce a onorare avendo recuperato un corpo.

C’è un ragazzino nero, minuscolo e magrissimo, in prima fila: è alto non più di un metro e cinquanta e indossa la stessa tuta blu degli altri uomini neri seduti vicino a lui. Chiede di parlare davanti ai parrocchiani, ai turisti, ai militari di ogni divisa, ai magistrati che hanno dovuto visionare quei cadaveri per raccogliere le informazioni per le indagini, agli amministratori locali, ai giornalisti venuti a filmare i primi morti recuperati a Lampedusa dopo il 3 ottobre del 2013.

«Grazie a tutti voi che siete venuti qui, i nostri parenti, amici o semplici compagni di viaggio ora sono in Paradiso. Prego Dio di poterli incontrare un giorno in quel mondo dove ora speriamo hanno trovato la pace.»

Mentre parla, quel ragazzino sembra crescere a dismisura: sembra un gigante. Mi sembrano giganti tutti loro che hanno affrontato quel viaggio, i vivi e i morti. I sopravvissuti che hanno superato le violenze più atroci in Libia, che hanno vinto la sete del deserto, che sono stati travolti dalle onde del mare con l’acqua dentro la gola, che poi l’hanno sputata tirando con forza il fiato perché non era ora di morire. Li vedo come giganti circondanti da nani.

No, non ci sono passerelle istituzionali davanti a queste 13 bare, ma c’è tanta società civile a salutare questi sconosciuti morti annegati mentre cercavano la vita. Alle istituzioni queste vittime interessano poco. Chi sono, alla fin fine? Non sono italiani, non sono neanche europei, sono africani, asiatici, mediorientali, hanno usi e costumi diversi dai nostri, forse sapevano che rischiavano di morire, forse a loro la morte fa meno paura che a noi? Ma poi, queste persone, quanti di noi hanno davvero voluto conoscerle? Chi le ha mai guardate negli occhi, chi le ha mai sfiorate, toccate, sentendo il calore del sangue che scorre nelle loro vene? Le loro vene, il loro sangue. Loro e noi… Noi e loro. Come se le loro vene e il loro sangue fossero diversi da quelli di noialtri.

Don Carmelo è come trasfigurato. Il volto pacifico e rasserenante ha mutato espressione facendosi duro e accigliato.

«Vi chiedo scusa, fratelli, perché abbiamo permesso ancora di far annegare esseri umani. Noi tutti che non riusciamo a fermare queste tragedie siamo complici di chi ha spezzato queste vite…»

Sono introvabili, sotto onde alte tre metri e un vento forte di maestrale, altri 12 dispersi. Appena sarà possibile i sommozzatori specializzati della guardia costiera scenderanno vicino al relitto a cercare di recuperare ciò che resta di quei corpi. Ma ora no, non è possibile uscire neanche attrezzati fino ai denti. È troppo pericoloso.

C’è anche un bambino di 8 mesi tra quelli che non si trovano più. Se lo ricorda bene uno dei sopravvissuti, un ragazzo tunisino che lo aveva visto staccarsi inesorabilmente dalle braccia della mamma.

Il giovane, annaspando in acqua, era riuscito ad afferrare quel fagotto che ondeggiava tra i flutti. Era ancora vivo mentre la mamma si rigirava su se stessa perdendo l’ultimo alito di vita. Ma il destino aveva deciso che per quel piccolo non ci fosse più futuro. Il ragazzo tunisino si è sentito tirare giù per i piedi. Un altro passeggero di quella barca affondata a un miglio da Lampedusa si era aggrappato a lui. Se non si fosse liberato da quella presa sarebbero andati giù tutti e tre, uno dietro l’altro. Così il giovane tunisino ha mollato per tre secondi la presa, il tempo di sganciarsi i pantaloni e liberarsi dalla morsa dell’uomo che continuava a tirare, tirare, tirare: finché non andò a fondo. Tre interminabili secondi in cui il piccolo fagotto viene scaraventato via da un’onda sparendo per sempre tra i flutti. Il ragazzo tunisino racconta quella storia con l’orrore e il dolore stampati negli occhi.

I corpi di quelle 13 donne erano stati invece recuperati subito e chiusi nelle bare ospitate nella Casa della Fraternità, il grande capannone sulla strada di Ponente tra il santuario della Madonna di Porto Salvo e Cala Galera dove la Caritas e Migrantes mettono insieme cittadini, turisti di passaggio, giovani, anziani e migranti che periodicamente sbarcano e restano per qualche tempo sull’isola prima di essere trasferiti altrove.

Davanti alle bare sono seduti i sopravvissuti. Le donne hanno turbanti di spugna rossa realizzati con gli asciugamani dell’hotspot di Contrada Imbriacola. Una ragazza staccata dal gruppo è seduta nella seconda fila di panche accanto a una suora che le tiene la mano e le cinge una spalla con un braccip. A lei la ragazza racconta di un giovane gentile che, durante la notte, le aveva offerto la sua felpa vedendola intirizzita dal freddo. Sulla barca entravano gli schizzi dell’acqua di mare e della pioggia autunnale che gela al calar della notte. Il sorriso mentre le porge la felpa è l’ultima cosa che ricorda di lui, disperso nel mare di Lampedusa.

Mentre sto ancora contando i numeri su quelle bare, e provo ad aggiungerli ai numeri di tutte le migliaia e migliaia restituite dal mare, mi domando quanti siano quelli rimasti intrappolati nell’abisso di cui non si sa nulla. Quante madri si chiederanno se il figlio partito per raggiungere l’Europa è ancora vivo da qualche parte o si è mescolato per sempre con il mare. So che non c’è abbastanza spazio nella memoria per ricordare i nomi di tutte le vittime del Mediterraneo, che non esiste contenitore reale, e tantomeno virtuale, che possa raccogliere anche solo una parte delle vite spezzate che non avranno la dignità della memoria, perché di loro non si conosce il nome. Chi c’è nella bara numero 6? Chi era quella bambina ivoriana? Perché era su quella barca? Dove sono i suoi genitori, i suoi fratelli? Chi piangerà il corpo della bara numero 6?

«Peppe, stacca quella telecamera. Non riprendere più. Stanno pregando e… piangendo…»

* * *

Erano passati tre mesi da quando il finanziere mi aveva parlato di quella scorta di sacchi per cadaveri arrivata a Lampedusa. Non un semplice presagio quanto invece una tragedia annunciata e accettata come normale evoluzione degli eventi.

E io non avevo fatto in tempo a rientrare da Lampedusa, dove ogni anno seguo le iniziative della giornata della Memoria delle vittime migranti in mare, che già ero di nuovo con la valigia in mano. Prima di lasciare l’isola avevo detto ai capi in redazione che stava per succedere qualcosa, che forse sarebbe stato meglio restare uno o due giorni in più. Il vento tirava forte e le nuvole si erano addensate fitte e grosse rendendo il colore del mare come argento invecchiato striato solo dalle scie bianche di onde alte e disordinate. L’aereo diretto che da Lampedusa mi portava a Roma si era alzato da terra con due ore di ritardo aspettando che le sferzate di maestrale calmassero la loro violenza prima di partire.

Eppure, in quei giorni, barche e barchini di migranti con piccoli motori fuoribordo salpavano dal Nord Africa per cercare di raggiungere l’Europa. Numeri sempre meno consistenti ma pur sempre numeri che rappresentavano vite umane.

Avevo appena disfatto la valigia, quando, il pomeriggio del 6 ottobre, era arrivata la notizia di una barca in legno con una cinquantina di persone a bordo partite dalla Libia il giorno prima. Con grande difficoltà per il maltempo erano comunque entrate in acque italiane e quasi avevano toccato la costa di Lampedusa. Ma il mare in autunno è infido, il vento cambia e si rinforza da un momento all’altro: così era successo che a un miglio da terra il maltempo era diventato tempesta.

La capitaneria di porto sapeva che quei disperati erano quasi arrivati a destinazione. La guardia di finanza era in allerta. Ma da quando era stato deciso che i porti italiani non dovevano essere aperti ai migranti, le motovedette restavano immobili fino a ordine contrario, che arrivava sempre quando era scontato che la barca sarebbe comunque entrata in porto, sola o accompagnata.

I militari che erano da poco stati assegnati alla stazione dell’isola non capivano la frustrazione di chi era lì da anni e che avrebbe voluto prendere la motovedetta e correre a salvare quelle vite. Da anni, però, non si partiva più in soccorso perché gli ordini erano di non muovere le imbarcazioni finché quei disperati non fossero arrivati il più possibile vicino alla costa. Violando le millenarie leggi del mare, si attendeva l’ingresso del natante in acque territoriali, poi lo si affiancava fino al porto. Quel giorno, però, il vuoto nei soccorsi si rendeva complice di un naufragio davanti alla “porta d’Europa”.

Proprio quando sembrava fosse in procinto di toccare terra, la barca si era ribaltata trascinandosi dietro metà delle vite a bordo davanti agli occhi impotenti dei militari della guardia costiera arrivati troppo tardi. Le salme delle 13 donne venivano recuperate subito, le altre nei giorni seguenti vicino al relitto individuato dal robot dei sommozzatori della guardia costiera a 60 metri di profondità. Le immagini della telecamera subacquea mostravano il corpo di un uomo sulla sabbia a pancia in su, le braccia verso l’alto come in una disperata richiesta di aiuto. Un altro uomo era rimasto incastrato tra le sartie vicino alla pilotina e trascinato giù con la barca: i piedi nudi, jeans, maglia e felpa, fluttuava in posizione verticale. Legati da un ultimo indissolubile abbraccio, una donna e il suo bambino giacevano sul fondale.

Tra le vittime c’era anche Lazer, un tunisino di 33 anni: malato di cancro, voleva raggiungere l’Europa sperando di trovare una cura per il suo male. I familiari non avevano potuto ottenere il suo corpo e insieme ad altre famiglie tunisine, parenti di vittime di quel naufragio, avevano attivato una battaglia legale per sapere che fine avessero fatto i loro cari.

Ma la scorta di sacchi neri sarebbe ancora servita e il fragile equilibrio di chi operava nei soccorsi a Lampedusa sarebbe stato messo ancora a dura prova, mentre altre vite stavano per lasciare questo mondo che aveva abdicato al rispetto delle leggi del mare per paura di “loro”, dei disperati senza nome e senza passato.

Non era ancora stato superato lo shock di quel naufragio alle porte del nostro paese che il 23 novembre del 2019 si consumava un’altra tragedia. Un barcone con 170 persone provenienti da mezzo mondo, partiti tutti dalla Libia, si ribaltava a pochi metri dalla Spiaggia dei Conigli. Ancora una volta davanti agli uomini della guardia costiera.

Quel giorno, un sabato di pioggia, ero in redazione a Roma quando ancora una volta dall’isola arrivarono le prime drammatiche notizie. Nessuno sembrava essersi accorto che un peschereccio stracarico di persone era riuscito a superare il mare in tempesta. Solo in prossimità dell’Isola dei Conigli, un cittadino lampedusano aveva visto quel barcone strapieno di persone ondeggiare incerto e aveva avvisato la capitaneria di porto, che a quel punto aveva inviato due motovedette classe 300 che non avevano potuto far altro che osservare il barcone mentre, all’improvviso, si capovolgeva in mare. Uomini, donne e bambini cominciavano ad annaspare tra le onde che si riempivano di corpi e di copertoni neri, a cui i naufraghi tentavano di aggrapparsi: glieli avevano lasciati a bordo i trafficanti al posto dei salvagente.

I sommozzatori della guardia costiera faranno un miracolo portando in salvo 149 persone tra le onde alte e la pioggia. Almeno 20 persone verranno però inghiottite dai flutti. Una donna marocchina aveva ancora in tasca il suo passaporto e quello delle due figlie. Loro si salveranno ma resteranno senza la mamma.

Il video dei soccorsi girato dalla guardia costiera sembrava un film: i militari lanciavano salvagente e parabordi nel disperato tentativo di salvare più vite possibili: in mare decine di teste cercavano di rimanere a galla, le donne urlavano e si sentivano gli acuti pianti disperati dei bambini. A un certo punto un soccorritore si lanciava da una motovedetta. In mezzo, tra il casco e la maschera, una piccola ma potente telecamera: erano quelli gli occhi sul naufragio. L’uomo carico di attrezzatura ansimava nuotando verso un obiettivo ben preciso: puntava una giacca viola con un cappuccio rosa dal quale usciva una testina piena di riccioli neri: una bambina, di non più di 2 anni, galleggiava ancora viva tra corpi che annaspavano e altri che affondavano. Il soccorritore prendeva la bambina e la tirava su mentre lei piangeva e tossiva con l’acqua salata che le raschiava la gola. Nel tappeto dei corpi dei naufraghi, il soccorritore si faceva strada mantenendosi a galla solo con la forza delle gambe. Con l’affanno sempre più forte, riusciva a riconquistare la motovedetta porgendo la bambina a un collega, finché esausto urlava a un altro militare: «Fammi salire!».

Erano mesi che i trafficanti cercavano di aggirare i blocchi dei porti e la minore presenza di navi in soccorso in mare, facendo arrivare direttamente la loro merce in Sicilia dove si registravano decine di sbarchi autonomi. Ed erano mesi che si registravano naufragi di cui non si poteva avere contezza perché avvenivano lontano dai nostri occhi a poche miglia dalle coste libiche.

La proibizione di soccorrere al di fuori delle acque territoriali aumentava ora il rischio di naufragi anche davanti alle nostre coste, perché quelle barche sarebbero state spinte a oltranza, facendo partire la roulette russa. Qualche settimana dopo quei due naufragi, per la prima volta nella storia dei viaggi nel Mediterraneo centrale, era approdato a Lampedusa un gommone azzurro con circa quaranta persone a bordo. I tubolari si erano sgonfiati a pochi metri dalla spiaggia e solo per puro miracolo tutti i passeggeri si erano salvati dopo aver viaggiato in condizioni inimmaginabili per due giorni su quel pezzo di gomma e legno chiodato.

Intanto, però, nel nostro paese si accumulavano altri corpi da identificare insieme a quelli dei vecchi naufragi: corpi di persone morte per asfissia, una morte lenta dovuta alla perdita di ossigeno che può durare fino a cinque minuti e più. Un tempo interminabile. Poi il corpo viene modificato dalla lunga permanenza in acqua. Si trasforma, si trasfigura. La pelle nera corrosa dal mare diventa bianca.

In base alla normativa internazionale, ogni stato dovrebbe conservare tutte le informazioni utili per un possibile riconoscimento. Se non si hanno le generalità, ci si basa sui post mortem: oggetti ritrovati nelle tasche, testimonianze e soprattutto l’esame del dna. Non esiste, però, in Italia un archivio centrale dove vengono conservati i resti dei corpi non identificati recuperati. Per questo non è semplice per le famiglie dei dispersi risalire a chi possiede i resti e riottenere il corpo del proprio caro.

Tra le persone che cercano di dare un nome a naufraghi senza identità c’è la dottoressa Cristina Cattaneo del LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’università di Milano, che lavora sulle centinaia di corpi recuperati dai naufragi del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015. A volte basta aver trovato un oggetto in tasca per risalire a un pezzo di quella vita. Addosso a un ragazzo, ad esempio, erano state trovate due tessere, una di una biblioteca ghanese, l’altra da donatore di sangue; a un altro, un sacchetto di terra “eritrea” che voleva portarsi dietro per non dimenticare mai da dove era partito. C’era poi il bambino che aveva commosso tutti con la sua pagella scolastica scritta in arabo e in francese cucita in una tasca interna del giubbotto. Da quella pagella si era avuta la certezza che quel ragazzino aveva 14 anni e veniva dal Mali. Non sappiamo nient’altro: né chi lo aspetta invano né chi lo sta piangendo1.

Al laboratorio di Milano sono centinaia i corpi ai quali da anni si cerca di dare un nome. Finora ne sono stati identificati 40 del naufragio del 2013 e solo 2 di quello del 2015.

A quel numero enorme di corpi senza identità adesso se ne aggiungevano altri recuperati negli ultimi naufragi annunciati. E il limbo dei parenti tormentati dall’incertezza aumentava il numero dei suoi abitanti.

Anche quell’anno, alla commemorazione del 3 ottobre, avevo abbracciato la mamma del giovane siriano disperso con altre decine di naufrafghi nel 2013. Come ogni anno, il papà sedeva su uno scoglio davanti alla porta d’Europa a guardare il mare sgranando il suo tasbeeh, pregando Allah che desse un segno di vita o di morte ma che – per favore – interrompesse quel tormento.

«Bisogna piangere e raccontare…» diceva l’attore e sceneggiatore palermitano che aveva scritto il più bel testo teatrale sulla Lampedusa dei viaggi e dei naufragi intervistato prima della rappresentazione de L’Abisso, in scena al santuario della Madonna di Porto Salvo. Davide Enia non aveva soltanto tratto ispirazione dagli anni vissuti sull’isola: aveva esorcizzato i mostri lasciati nel suo “io” più profondo attraverso la sua arte e, per mezzo di essa, aveva inciso nella pietra storie vere di migrazione. Lo avevo intervistato con la telecamera sulla terrazza di un b&b davanti al tramonto su Cala Pisana.

Piangere e raccontare era quello che facevo ormai anche io da anni. Le lacrime non le trattenevo più da un pezzo: da quando avevo la certezza che si stava consumando una delle più grandi stragi degli ultimi tempi di cui non si conosceva la reale entità non avendo che stime in difetto sui numeri effettivi delle vittime. Ciascuno con propri mezzi, competenze, attitudini, sensibilità e talento piangeva e raccontava. Piangere e raccontare aveva una doppia utilità: serviva da un lato a lasciare i segni nella storia, dall’altro a esorcizzare, come aveva fatto Davide, paura e dolore. Sebbene in modo imparagonabile al vissuto delle vittime delle migrazioni forzate, anche chi si era trovato per lavoro o per caso a essere testimone di quel pezzo di storia veniva segnato da ferite profonde e, in un certo qual modo, aveva bisogno di aiuto.

Piangere e raccontare era un modo per salvare la propria psiche dall’Abisso.

Prima di andare a vedere lo spettacolo, ho intervistato Davide lì dove tutto era nato e lì dove tutti noi che avevamo frequentato “lo scoglio” avevamo imparato a sentire e a vedere i morti. In quella casa dove, da tre anni, in primavera, mi rifugiavo per una settimana di ferie per sentire il mare, vivere l’isola e visitare i morti.

Ogni anno devo andare a Lampedusa per qualche giorno senza che sia il lavoro a portarmici. Ci devo andare perché non posso farne a meno. La prima volta l’ho fatto perché volevo portare con me mio marito, che in tutti questi anni ha seguito i miei racconti con maggiore coinvolgimento di uno spettatore ma con gli stessi dubbi e le stesse difficoltà nel comprendere di chi non vive quelle esperienze in prima persona. Portarlo con me a Cala Pisana e fargli conoscere la storia di alcune delle persone migranti sepolte nel cimitero dell’isola, era un modo per dargli uno strumento in più di condivisione.

«Abbiamo il dovere di raccontare. Quando venite qui con i vostri figli, nipoti, amici o fratelli, raccontate la storia di queste tombe, delle persone che vi sono sepolte, delle circostanze della loro morte. Ricordare i loro nomi è un atto di umanità.» Spiegavano i volontari del Forum Solidale e di Mediterranean Hope, che a Lampedusa non abbandonano né i vivi né i morti e che, con i loro racconti, riuscivano a fare il miracolo di restituire vita ai migranti senza nome annegati a Lampedusa. Chi lo desidera può chiedere di essere accompagnato da uno di loro al cimitero che si trova a 100 metri dalla baia di Cala Pisana. Di solito si presentano persone spinte dal desiderio di capire chi erano gli anonimi viandanti che hanno perso la vita nel disperato viaggio per poter essere – come mi aveva detto Wambobo in Niger – padroni del proprio futuro.

Le tombe delle persone migranti nel cimitero di Lampedusa si riconoscono subito perché intorno fluttuano gli animali marini naïf di Armin Greder, un disegnatore, svizzero di nascita, residente a Lima, che le ha decorate con pesci, gabbiani, conchiglie e stelle marine. Alcune recitano anonimi epitaffi. Tombe essenziali, con solo le cifre della data del ritrovamento della salma e della presunta età della vittima. Morti senza ricordi.

«Immigrato non identificato di sesso maschile, di circa 20 anni, etnia africana, colorito nero, rinvenuto in data 21 gennaio 2009 dalla capitaneria di porto di Lampedusa a bordo di un gommone giunto nel porticciolo di Cala Pisana. La sua giovane vita si è spenta mentre affrontava il viaggio della speranza in cerca di un futuro migliore.»

Grazie al certosino lavoro di ricerca, fatto dai volontari del Forum Solidale e della rete della federazione delle Chiese evangeliche Mediterranean Hope, di qualcuna delle salme sepolte a Lampedusa è stata ricostruita la storia.

Per Welela, Eze, Yassin ed Ester è stato ritrovato un pezzo del passato.

La storia di Ester sembra di oggi ma è accaduta nell’aprile del 2009, quando il mercantile turco Pinar aveva preso a bordo 144 persone. Allora come ora, si giocava un braccio di ferro tra Italia e Malta per lo sbarco. Ministro dell’Interno del Governo Berlusconi era il leghista Roberto Maroni che alla fine cedeva e, dopo giorni di trattative con i naufraghi ammassati a bordo del mercantile, faceva trasbordare su motovedette della guardia costiera italiana tutti i migranti che così sbarcavano in Sicilia.

Tutti tranne una ragazza morta di stenti sul barcone poco prima che l’equipaggio del mercantile portasse tutti gli altri in salvo. Il suo corpo, avvolto in un sacco verde, non seguì i vivi ma fu portato a Lampedusa e lì seppellito dopo aver ricostruito qualche frammento della sua storia. Si chiamava Ester Ade ed era nata in Nigeria l’11 luglio del 1991. Aveva solo 18 anni e nel suo ventre stava crescendo un figlio, quasi certamente frutto di stupri ripetuti. Chi c’era ricorda ancora le lacrime del comandante del mercantile disperato per non aver fatto abbastanza per salvare quella giovane donna. Il suo corpo verrà riconosciuto dal fratello, anche lui tra i naufraghi della Pinar. La tomba di Ester ha una lastra di pietra nera con disegnata una colomba della pace.

Allora come ora si diceva che solo la “linea dura” avrebbe potuto far desistere queste persone dall’affrontare il viaggio con i trafficanti. Si pensava che vietare gli sbarchi e penalizzare chi soccorre sarebbe servito a fermare i trafficanti. Sono passati dieci anni e si parte ancora: qualcuno arriva, qualcuno muore, qualcuno scompare.

A cosa serve andare a trovare i morti nel cimitero dei senza nome?

La sintesi è scritta sulla targa posta all’ingresso del cimitero di Lampedusa: «Per uno sconosciuto gli sconosciuti non piangono».

In questo cimitero ha trovato sepoltura un numero imprecisato di donne e uomini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo, unica via per cercare una possibilità di futuro. La quasi totalità delle tombe non ha un nome e le uniche notizie che è stato possibile recuperare delle storie di queste persone riguardano le circostanze della loro morte o del ritrovamento dei loro corpi. Ma tutti loro hanno vissuto, hanno gioito e sofferto, hanno sperato e lottato, e qualcuno li ha attesi e pianti. Nella consapevolezza che ogni frammento di storia è capace di produrre una crepa in quel muro che divide gli uni dagli altri e nella speranza che la memoria di queste vite non vada persa, occorre continuare a raccontare affinché si raggiunga una moltiplicazione delle voci, tale da essere assordante.

Provare lutto per la morte di chi

Non abbiamo mai visto

Implica una parentela vitale

Fra l’anima loro – e la nostra

Per uno sconosciuto

gli sconosciuti non piangono

EMILY DICKINSON

C’erano anime che riuscivano con forza a vincere l’oblio e a comunicare al mondo di essere esistite.

Qualche giorno dopo il naufragio del 23 novembre 2019, un contatto algerino conosciuto su Facebook mi aveva cercato in privato. Da quando avevo iniziato a occuparmi assiduamente di immigrazione venivo spesso contattata da stranieri che si proponevano come fonti. Ovviamente non tutti erano attendibili e di volta in volta li indicavo alla polizia postale per le verifiche. La maggior parte erano profili sospetti: gente legata ai trafficanti o gli stessi trafficanti che tentavano di pubblicizzare i loro viaggi usando giornalisti specializzati nel settore delle migrazioni, o uomini delle milizie libiche che così speravano di ottenere informazioni, oppure mitomani. Qualcuno però era davvero quello che diceva di essere e lo scoprivo con controlli incrociati che confermavano l’attendibilità della fonte.

Mussa aveva più volte inviato notizie poi confermate. Questa volta mi aveva inviato un video girato con uno smartphone su un barcone pieno di persone. Intorno il cielo era grigio e il mare minaccioso. Era il barcone affondato il 23 novembre. A girare il video erano quattro ragazzi nordafricani ben vestiti che ridevano e scherzavano fissando l’obiettivo su uno di loro con un cappellino di lana nero, occhiali da sole scuri e barbetta sul mento, che alzava le dita in segno di “vittoria”. Parlavano arabo, che io non capisco, perciò ipotizzavo che i quattro, così ben abbigliati e in buona salute, a differenza degli altri a bordo, potessero essere scafisti che con quel video volevano pubblicizzare la loro “agenzia di viaggio”. Lo facevano spesso i trafficanti: mettere in rete i video in cui veniva mostrata l’ultima fase del viaggio, per attirare altri pesci nella rete.

C’era una sola cosa da fare: trovare un traduttore dall’arabo. A noi in redazione non mancano: Zouir, un mio collega di origini marocchine, era in sede e in pochi minuti, traducendo la conversazione tra quei ragazzi, smontava la mia prima impressione su quel video.

«Angela, questo documento è interessante. Questi ragazzi sono algerini, riconosco l’accento. Stanno prendendo in giro l’amico con il cappellino che pare sia stato tutto il tempo del viaggio a piangere perché aveva paura del mare in tempesta. Gli dicono che la barca è piena di donne e bambini e che nessuno ha pianto quanto lui. Dicono che questo è un viaggio per uomini veri e che chi non se la sente è meglio se non parte. Dicono che ora lui è tranquillo perché sono quasi arrivati ma che prima tremava come una foglia…»

Mentre i ragazzi ridevano, l’obiettivo girava riprendendo decine di persone ammassate a prua, a poppa, sui ponti laterali. Alcuni si proteggevano da freddo, vento e pioggia con coperte di lana. Sul fondo dello scafo decine di salvagenti a ciambella neri. L’ultima immagine si fermava sul ragazzo che gli amici prendevano ancora in giro: sorridente, mostrava di aver superato la paura facendo ancora con le dita il segno della vittoria. Perché era convinto a quel punto di avercela fatta, di aver pianto inutilmente, di essere stato pavido senza motivo, perché la meta era vicina. La terra era vicina, il ponte verso l’Europa era stato raggiunto.

Ma quella disperazione che lo aveva accompagnato fino a poco prima era spinta da un tragico presagio, e poco dopo il barcone sarebbe finito inghiottito dal mare a pochi passi dalla spiaggia dove le tartarughe Caretta caretta, specie protetta dall’estinzione, vanno a depositare le uova.

Il ragazzo del video sarà inizialmente inserito tra le vittime non riconosciute. Il filmato che mi aveva inviato la fonte algerina, con il quale avevo realizzato e mandato in onda un servizio per Rainews24, è stato preso agli atti dalla procura di Agrigento. Gli amici erano comunque certi di averlo visto annaspare e poi sprofondare giù in acqua. Djihad, così si chiamava questo ragazzo algerino di 28 anni, non sapeva nuotare e il suo peggiore incubo si stava avverando, dandogli anche il tempo di capire che le sue paure erano giustificate. Chissà cosa aveva pensato Djihad mentre l’acqua entrava nei suoi polmoni. Lui che voleva, come molti suoi connazionali, raggiungere i parenti in Francia ma che non aveva alternativa ai trafficanti, perché in Europa i nordafricani con regolare visto li prendono con il contagocce. Lui, che avevo scambiato per uno scafista, era una vittima: vittima del sistema che impedisce alle persone di viaggiare legalmente, vittima dei trafficanti che approfittano del proibizionismo per i loro sporchi affari, vittima del blackout nei soccorsi dei paesi europei nel Mediterraneo, sempre più arretrati e fermi dentro i propri confini.

La Natura, il mare, Dio, Allah o chi per loro avrebbero deciso chi avrebbe proseguito quel viaggio e chi no. Il Destino, la Sorte, il Fato, l’anello mancante della catena degli eventi, avrebbero deciso chi tra i morti avrebbe avuto l’onore di una sepoltura con un nome e chi invece sarebbe rimasto nella nebbia dei senza nome e senza volto.

C’era poi chi come Djihad si opponeva all’oblio manifestandosi in quel filmato, arrivatomi attraverso un informatore, in cui ci raccontava quanto può essere spaventoso attraversare in quel modo il mare. Che chi si è messo in viaggio su quelle barche, giovani, vecchi, bambini, di nazionalità ed etnie diverse, per svariati motivi ma tutti accomunati dal divieto al movimento, lo fa accompagnato dalla paura di morire.

Djihad era stato recuperato il 1° dicembre, a una settimana dal naufragio, insieme ad altri corpi, talmente deturpati che per alcuni non era stato possibile il riconoscimento. I suoi genitori avevano lanciato un appello alla tv algerina perché il loro governo e quello italiano li aiutassero a effettuare l’esame del dna così da poter avere la salma del figlio che era salito su quella barca per assecondare il desiderio di conoscere il mondo e raggiungere i cugini in Francia. Senza un certificato di morte nessuna salma può essere infatti rimpatriata, né può ottenere un nome su una lapide finché non vi è certezza del decesso.

Grazie alla tenacia del parenti del ragazzo e a quel video che mi era arrivato, che avevo pubblicato e consegnato alla procura di Agrigento, il corpo di Djihad verrà infine identificato e i suoi funerali celebrati in Algeria il 21 febbraio del 2020. Altre vittime del 23 novembre rimanevano però senza identità, senza che nessuno potesse piangerle e senza neanche una tomba anonima. A gennaio erano ancora abbandonate in un magazzino del cimitero di Lampedusa. Attraverso una grata dell’edificio, un visitatore aveva scattato una foto in cui si leggeva bene la scritta incisa sulla targa di una delle sette bare accatastate in una pila informe.

«Cadavere n. 18. Rinvenuto in mare il 1/12/2019. Sesso: uomo.»

Abbandonato in mare da vivo, abbandonato a terra da morto.

1. CRISTINA CATTANEO, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, 2018; www.lifegate.it/persone/news/migranti-bambino-pagella-cristina-cattaneo.