Sei.

Taliò il ralogio. Squasi le dù. Ma quanto durava ‘na cena a Milano? E che minchia! Manco se i cammareri del ristoranti avivano passata l’ottantina o caminavano con le stampelli! E po’ che avivano da dirisi Marian e il mircanti? Si dovivano ripassari tutta la storia dell’arti? Vabbeni che l’aviva avvirtuto che l’avrebbi chiamato tardo, ma ccà a momenti si facivano le matinate!

«Ora stacco la spina e minni vaio a corcari» pinsò.

E in quel priciso momento il tilefono squillò.

Era addivintato accussì nirbùso nell’urtimi minuti che fici un tali sàvuto dalla seggia che per picca non cadiva ‘n terra.

«Pro–pronto!».

«Ciao, commissario, scusami se ti ho fatto aspettare. Ma la cena è andata per le lunghe».

Il gentilomo Montalbano s’apprisintò in tutto il sò splindori.

«Scusarti? Ma che dici?! Capisco benissimo che son cose che…».

«E poi Gianfranco ha voluto che bevessimo qualcosa in un locale. Sono appena rientrata».

Il gentilomo Montalbano vinni agliuttuto dal cavernicolo Montalbano.

«E chi è ‘sto Gianfranco?».

«Gianfranco Lariani, il mercante. Ah, già, non ti ho mai detto il suo nome. Ha tanto insistito – dai, che ti costa, cinque minuti, non fare la stupida – insomma ho dovuto cedere per diplomazia».

Ma come, si davano macari del tu?

«Lo conoscevi da prima?».

«Chi? Gianfranco? No, ma questo mi pare di avertelo detto, è stato Pedicini a suggerirmi di prendere contatto con lui».

E subito, a primo contatto, diamoci del tu, che ti costa, non fare la stupida… Meglio cangiare discurso.

«Tutto bene?».

«Benissimo. Almeno credo».

«Perché?».

«Perché Lariani è un furbacchione di quelli che… non si sbottona tanto facilmente».

E meno mali! Ci ammancava puro chista! Non arriniscì a tinirisi.

«Com’è?».

«In che senso?».

«Come uomo».

«Beh, molto elegante, signorile, attorno ai quarantacinque, piuttosto attraente…».

Eccola ccà, la fitta di gilusia a longo ma inutilmenti tinuta a distanzia.

Zac! ‘Na fricciata ‘n mezzo al petto.

«Ti ha fatto la corte?».

«Sarei rimasta sorpresa se non me l’avesse fatta. Se tu m’avessi vista! Ero in gran forma. Lui è rimasto letteralmente a bocca aperta. Comunque non è questo l’importante. Credo che Pedicini abbia visto giusto, Lariani la roba ce l’ha».

«Te l’ha detto lui?».

«Non espressamente. Per via indiretta. Te l’ho accennato che è un gran furbo, no? Figurati se si scopriva subito. Ma ho capito che aveva un punto debole. I quattrini. Infatti si è aperto un po’ quando gli ho detto, ma senza dare importanza alla cosa, che era mia abitudine pagare pronta cassa, con bonifici bancari».

«Come siete rimasti d’accordo?».

«Che domani pomeriggio lo vado a trovare».

Un campanello d’allarmi si misi a sonari.

«Dove?» spiò, circanno di fari l’indiffirenti.

«A casa sua».

Ennò! Fino a che si sgherza, si sgherza!

«Scusa, perché a casa sua? Non ha uno studio questo signore? Un ufficio? O a Milano si usa così?».

«Non dire assurdità, dai. M’è parso di capire che ha un appartamento, attiguo alla sua abitazione, dove tiene le tele. Ma sono certa che non risolverò nulla».

«Perché?».

«Conosco la strategia di questa gente. Mi farà vedere qualche crosta per mettermi alla prova. Io gli dirò che quella roba non m’interessa e lui sarà costretto a darmi un nuovo appuntamento. E stavolta, finalmente, mi introdurrà nel suo sancta sanctorum».

«Non ho capito».

«Si deciderà a mostrarmi le cose migliori. E quello sarà il momento di combinare. Sempre che, come mi pare d’avere capito, Lariani abbia quello che cerca Pedicini».

«Perché, che cerca?».

«Ma, sai, nella pittura del Seicento italiano le madonne, i crocefissi, le natività, le resurrezioni abbondano, ce ne sono a bizzeffe. Ma si tratta di soggetti che non l’interessano, così come i ritratti. Lui invece vorrebbe o nature morte o paesaggi o scene di genere. E che siano tele di grandi dimensioni».

«Ho capito. Ma ti porterà via molto tempo? Pensi di riuscire a concludere presto?».

«Spero di sì. Non ce la faccio a stare lontana da te. Non mi era mai capitato di sentirmi così…».

S’interrompì.

«Che hai fatto oggi?».

«In ufficio?».

«Sì. Vorrei condividere ogni minuto della tua vita».

«Guarda, te lo racconterei volentieri, ma ti annoieresti».

«Allora ti facilito il compito, dimmi cosa hai fatto mentre aspettavi che ti telefonassi».

«Ho guardato due film in televisione e…».

Gli stava scappanno di dirle che aviva parlato con Livia, ma si tenni a tempo.

Però Marian sintì la frinata.

«E?» spiò.

Non se la sintì di mittirisi a contare farfantarie macari a lei. Gli abbastava di contarne a una sula.

«E poi m’ha chiamato Livia».

«Ah».

‘Na pausa. E appresso: «Le hai detto di noi?».

«No».

«Perché?».

«Ancora non lo ritengo opportuno».

La pausa stavota fu cchiù longa.

«Guarda, Salvo, spero che tu l’abbia capito che per me non si è trattato dell’avventura di una notte. E non si tratta nemmeno di un capriccio momentaneo, mi conosco troppo bene».

«Questo l’ho capito».

«E, da quello che ho sentito l’altra notte, sono certa che non sia stata un’avventura nemmeno per te».

«Se per me si fosse trattato della storia di una notte non credo che sarei al telefono con te».

«Quando torno ne parliamo assieme. Ora ti lascio. Quando mi metterò a letto, fingerò che tu sia accanto a me. A che ora ti posso chiamare domani?».

«Non so dirtelo. Perché non ci sentiamo direttamente domani sera così potremo parlare con comodo e a lungo?».

«Come vuoi tu. Buonanotte, commissario mio».

I casi erano dù, chiari e pricisi. O arristarisinni vigliante a raggiunari supra a come affrontari la questioni con Livia o circari d’addrummiscirisi subito con nell’oricchi il sono della voci di Marian.

Sciglì il secunno, chiuienno l’occhi e obbligannosi al sonno.

E il bello fu che ci arriniscì.

L’urtimo sò pinsero fu ‘na dimanna: da quanto tempo non parlava accussì con Livia?

S’arrisbigliò sintennosi a posto, la jornata era bella. Si vippi un cicarone di cafè, si fici la doccia, la varba e, prima di nesciri, scrissi un biglietto ad Adelina avvirtennola che avrebbi mangiato ‘n casa la sira.

Si misi ‘n machina all’otto e mezza e alli novi e vinti parcheggiò in via Palermo, davanti al nummaro 28.

Ci aviva mittuto tanto tempo pirchì via Palermo s’attrovava nella parti àvuta di Vigàta, urtima piriferia, confinava addirittura con la campagna ed era fatta tutta di villini singoli, assà distanziati l’uno dall’autro. Ogni villino aviva il sò giardinetto torno torno. Quello del 28 era tinuto bono. Il cancilletto di ferro era aperto.

Lo supirò, si fici il vialetto, sonò al citofono.

«Chi è?» spiò ‘na fìmmina doppo tanticchia.

«Il commissario Montalbano sono».

‘Na pausa.

«Chi cerca?».

«La signora Valeria Bonifacio».

Ci fu ancora silenzio. Po’ la voci dissi: «Sono sola in casa».

E lui che era? ‘No stupratori?

«Signora, le ripeto che sono un…».

«Va bene, ma devo ancora vestirmi».

«Aspetterò».

«Non potrebbe ripassare nel pomeriggio?».

«No, signora, mi dispiace».

«Allora le apro tra una decina di minuti».

La tecnica di non avvirtiri del sò arrivo con una tilefonata privintiva funzionava sempri.

Di sicuro in quel priciso momento la signura Valeria si era attaccata al tilefono per parlari con l’amica Loredana e accapiri come doviva arregolarisi.

Si fumò ‘na sicaretta. Via Palermo era ‘na strata picca frequentata, macari pirchì non ci stavano negozi. Nei deci minuti che aspittò, vitti passare ‘na sula machina.

Tornò a sonari il citofono.

«Commissario Montalbano?».

«Sì».

La serratura scattò, il commissario ammuttò e trasì.

La signura Valeria gli si fici ‘ncontro, gli pruì la mano, lo guidò nel saloni, lo fici accomidare supra a ‘na pultruna.

Va a sapiri pirchì il commissario s’era aspittato a ‘na fìmmina di mezza età, ‘nveci Valeria era picciotta assà, doviva aviri la stissa età di Loredana. Biunna, graziusa, bel pirsonali, mittuto ‘n dovirosa mostra dalla cammisetta stritta e dai pantaloni aderentissimi.

«Lo gradisce un caffè?».

«Grazie no».

Lei s’assittò supra a ‘na pultruna davanti a lui. Accavallò le gamme. Lo taliò, gli sorridì. Ma Montalbano s’addunò che il sorriso era tanticchia tirato.

Era chiaramenti supra alle spini, ma si controllava beni.

«In che cosa posso esserle utile, commissario?».

«Sono davvero spiacente d’averla disturbata, ma dal commissariato non l’hanno avvertita della mia visita?».

«Non sono stata avvertita».

«Quando torno in ufficio mi sentiranno. Ho da chiederle qualche piccola informazione che riguarda la rapina subita dalla sua amica Loredana di Marta. Lei saprà che…».

«Sì, so tutto. Loredana m’ha informata per telefono. Era scioccata. Sono andata immediatamente a trovarla e m’ha raccontato tutto, anche… i disgustosi particolari».

«Intende riferirsi al bacio?».

«Non solo».

Montalbano si squietò.

Vuoi vidiri che il signor di Marta aviva contato la mezza missa? Che la facenna era stata cchiù seria?

«C’è stato altro?».

«Sì».

«Può essere più chiara?».

«Provo disgusto a parlarne. Insomma, le ha preso la mano e se l’è portata… capisce».

«Sì. È andato oltre?».

«Per fortuna no. Ma Loredana dice che è stata una cosa disgustosa e terribile».

«Ha perfettamente ragione. E meno male che è finita lì. Si ricorda a che ora è uscita la sua amica da qui quella sera?».

«Con precisione non glielo saprei dire».

«All’incirca».

«Guardi, doveva mancare poco alla mezzanotte, perché dopo che Loredana è andata via l’orologio ha suonato».

‘Ndicò un enormi ralogio a pendolo, di quelli fatti a mobili, che stava in un angolo del saloni.

«Bello» fici il commissario.

Macari se non era priciso. Annava tanticchi avanti.

«Sì. Era di mio padre. Era fissato con gli orologi a pendolo. Ne avevamo la casa piena. Sono riuscita a liberarmene. Ho tenuto solo quello».

«Allora diciamo che era la mezzanotte meno dieci?».

«Forse meno un quarto».

«Non di più?».

«L’escluderei».

«Signora, conoscere con esattezza l’ora nella quale è avvenuta la rapina per noi è essenziale».

«Allora confermerei: mezzanotte meno un quarto».

«Grazie. La signora Loredana va sempre via da qua così tardi?».

«No. In genere, va via per l’ora di cena».

«Quella sera è stata un’eccezione».

«Sì».

«Posso chiederle perché?».

«Non mi ero sentita bene e Loredana non voleva lasciarmi. Si era molto preoccupata, ma era stato un malessere momentaneo».

«Lei vive sola? Non è sposata?».

«Sì, lo sono. Però mio marito è un comandante di portacontainer e sta fuori lunghi periodi».

«Ho capito. Mi levi una curiosità. La signora Loredana s’accorse qui da lei di non avere fatto il versamento per conto di suo marito? Oppure, che lei sappia, se ne ricordò dopo che era andata via?».

«Se ne ricordò appena arrivata qua. Tanto che voleva subito uscire di nuovo. Fui io a dirle che avrebbe potuto versarli dopo. Dovetti insistere un poco».

«Ah. È stata lei?».

«Sì. E mi sento d’essere terribilmente in colpa per quello che è accaduto. Se l’avessi lasciata andare…».

«Ma no, signora! Che le viene in mente! È stata solo un’imprevedibile coincidenza!».

Si susì.

«Lei mi è stata molto utile. La ringrazio».

«L’accompagno» dissi Valeria.

Propio mentre lei gli rapriva la porta, Montalbano le spiò: «Lei conosce Carmelo Savastano?».

Non s’aspittava l’effetto delle sò paroli. Valeria aggiarniò, facenno un passo narrè.

«Per… perché… me… lo chiede?».

«Siccome ho saputo che la sua amica Loredana era stata a lungo fidanzata con questo Savastano…».

«Ma che c’entra lui con la rapina?».

Aviva isato la voci senza addunarisinni.

«Assolutamente niente, signora. La mia è una semplice curiosità».

Ma ora la signura Valeria si era arripigliata.

«Certo che lo conosco. Sono amica da sempre di Loredana. Ma a Carmelo non lo vedo da tempo».

Si misi ‘n machina, taliò il ralogio. Le deci e trentuno. Partì.

Ma ‘nveci di addiriggirisi verso il commissariato, annò verso vicolo Crispi circanno di guidari sverto. Il trafico era normali.

Quanno arrivò in vicolo Crispi e fu all’artizza tra il negozio di tessuti e la gioilliria Burgio taliò daccapo il ralogio. L’unnici e unnici. Ci aviva mittuto quaranta minuti.

Per fari lo stisso percorso, a stari a quanto avivano addichiarato Valeria e Loredana, la picciotta ci avrebbi ‘mpiegato diciannovi minuti. Senza calcolari che il ralogio di Valeria annava avanti. Però quella vota era squasi la mezzannotti e abbisognava considerari che il trafico era assà di meno.

Appena che fu trasuto in ufficio, volli aviri ‘na conferma e chiamò al tilefono a Loredana.

«Montalbano sono».

«Ancora?!».

«Mi perdoni ma ho una sola domanda da farle».

«E va bene».

«Ricorda con precisione a che ora ha lasciato la casa della sua amica Bonifacio la sera che…».

«Mancava un quarto a mezzanotte».

Sparata, senza la minima esitazioni.

Evidentementi, appena che lui sinni era ghiuto, Valeria aviva ‘nformato a Loredana del colloquio.

Si fici viniri a Fazio.

«Hai novità?».

«Qualichiduna».

«Io macari».

«Allura parlasse prima vossia».

Gli contò quello che gli aviva ditto Pasquali, tanto Fazio sapiva come stavano le cose col figlio d’Adelina, e po’ gli arrifirì l’incontro con Valeria Bonifacio, concludenno ‘nfini con la tilefonata che aviva appena fatto a Loredana.

«Mi scusasse» dissi Fazio. «Ma se sapemo con sicurizza che la machina della di Marta quella sira non passò da vicolo Crispi, pirchì a vossia ‘ntiressa tanto sapiri quanto tempo la picciotta dici che ci ‘mpiegò ad arrivari da via Palermo?».

«Rifletti tanticchia. Pozzo scriviri nel rapporto che il fatto che la machina non passò da vicolo Crispi l’ho saputo da un latro che parlò col palo d’una banna di svaligiatori? Pozzo fari chiamari a Pasquali e al palo a testimoniari? No».

«Raggiuni avi».

«E po’, macari se arriniscissi nel miracolo di chiamarli a tistimonii, nisciuno cridirebbi a quello che dicino. L’avvocati difinsori li farebbiro a pezzi. Pirchì sunno latri accanosciuti dalla liggi epperciò bollati come farfanti di natura. Mentri tanti farfanti e sdilinquenti, che però non sono accanosciuti dalla liggi, ponno diri le farfantarie che vonno e tutti ci cridino, pirchì sunno avvocati, òmini politici, economisti, bancheri e via di ‘sto passo. E allura abbisogna addimostrari, stanno sempri dintra alle regoli, che Loredana non dici la virità».

«E come facemo?».

«Tu ‘ntanto mi fai un favori pirsonali».

«A disposizioni».

«Stanotti a mezzannotti meno un quarto tinni parti con la tò machina da via Palermo e vai in vicolo Crispi. Po’ dumani a matino, mi dici quanto ci mittisti».

«Non è meglio mannarici a Gallo?».

«No. Pirchì quello ci ‘mpiegherebbi setti minuti e mezzo se non di meno. E ora dimmi tu».

«Dottore, annai a parlari con Intelisano. Mi detti i nomi e l’indirizzi dei dù tunisini che abitano a Montelusa. Sunno dù cinquantini che travagliano bono e sunno in regola pirchì arrivaro quattro anni fa come clandistini e ottinniro asilo politico».

Montalbano appizzò l’oricchi.

«Asilo politico?».

«Sissignura».

«Bisognerebbi ‘nformarsi come ficiro ad addimostrari che…».

«Già fatto».

Quanno Fazio diciva accussì, a Montalbano gli viniva il nirbùso.

«Se hai già fatto, abbi la cortesia di mettermi al corrente».

Fazio sinni addunò.

«Dottore, mi scusasse, ma ho criduto che…».

Il commissario si era già pintuto del sò scatto.

«Scusami tu».

«Tutti e dù hanno i figli mascoli ‘n galera. Erano contro al governo. E macari per loro c’era l’ordini d’arresto, ma sunno arrinisciuti a scappari a tempo».

Montalbano storcì la vucca.

«‘Sti dù tunisini picca mi quatrano» dissi.