- Poreda… cazzo.
- Poreda.
POOMERANG - Stanley Poreda si era ritirato due anni prima. Lo avevano fatto ritirare, per essere precisi. Aveva venduto un incontro, solo che le cose erano andate storte. L’avversario era un signorino imparentato con un boss di Belem. Aveva un bello stile, ma quanto a potenza era un disastro, non avrebbe tirato giù neanche un ubriaco. Poreda era un artista nel simulare K.O., ma nelle prime quattro riprese non gli arrivò un solo pugno che assomigliasse con un minimo di approssimazione a un pugno vero. Avrebbe voluto andar giù, e tornarsene a casa. Ma non c’era verso di strappare un pugno decente da quella specie di ballerino sfiatato. Così, tanto per far qualcosa, alla fine del quarto round entrò con un jab e doppiò col gancio. Niente di speciale. Ma il ballerino finì giù. Lo salvò il gong. Tornato nell’angolo, Poreda si vide arrivare un tipo tutto elegante, con in bocca una sigaretta con il filtro di carta dorata. Nemmeno se la sfilò dalle labbra quando si chinò su Poreda e gli sibilò: - Verme, provaci ancora e sei fottuto.
Se la tolse solo quando, subito dopo, sputò nella bottiglia d’acqua e disse al secondo: - Dai da bere al ragazzo, ha sete. - Poreda era, nel suo genere, un professionista. Prese la bottiglia, bevve un sorso senza fare una piega, poi sentì il gong. Il ballerino si alzò un po’ traballante ma arrivato a centro ring ebbe la forza di dire a Poreda: - Facciamola finita, miserabile. - Giusto, pensò Poreda.
Gli aprì la guardia con un paio di jab, poi entrò con un montante e chiuse con un gancio destro. Il ballerino volò indietro come un fantoccio.
Quando atterrò sembrava uno caduto dal decimo piano. Poreda si tolse il paradenti, andò dritto verso l’angolo del ballerino e si limitò a dire: - Date da bere al ragazzo, ha sete. - Dieci giorni dopo, due ragazzotti entrarono di sera a casa sua, con le pistole in mano. Gli spaccarono entrambe le braccia, schiacciandole prima una poi l’altra nella porta. - Capolinea, - pensò Poreda.
DIESEL - Lui aveva iniziato proprio con Mondini. Due o tre incontri, poi il Maestro l’aveva beccato ad andar giù per un pugno ridicolo, e aveva capito. È una professione come un’altra, gli aveva detto Poreda. Non è la mia, gli aveva detto Mondini. E l’aveva cacciato dalla palestra. Aveva continuato a seguirlo, da lontano.
Non era un gran pugile, ma era come un animale che sul ring trovava esattamente il suo habitat. Conosceva tutti i trucchi, alcuni li aveva inventati, e parecchi li eseguiva con una perfezione indiscutibile. E soprattutto: era potente. Era potente come pochi altri in circolazione. Una questione di talento. Quando decideva di farlo, era capace di scaricare su un pugno tutti i suoi 82 chili, era come se qualsiasi centimetro del suo corpo andasse per un attimo a infilarsi nel guantone. Quello colpisce anche con le chiappe, diceva Mondini. Aveva una specie di ammirazione, per lui. Così, quando venne fuori quella storia di Larry, e del mondiale, fu lui che gli venne in mente: con tutti i pugili che c’erano in giro: lui.
POOMERANG - Non era un’idea stupida. Tolti i campioni veri, Poreda era il più sporco, difficile, potente ed esperto avversario che potesse trovare per Larry. Era la boxe, dopo che le hai tolto tutta la poesia. Era combattimento ridotto all’osso. Bisognava solo convincerlo a tornare sul 75
ring. Mondini prese il cappotto buono, andò in banca, ritirò un po’ dei suoi risparmi, e andò a cercare Poreda nella palestra dove faceva l’allenatore. Forse era un caso, ma era vicino al mattatoio.
- Sono un bel po’ di soldi, - annotò Poreda, soppesando il pacchetto di banconote. Un po’
troppi per comprare un pugile che ha smesso di vendere incontri due anni fa.
Mondini non fece una piega.
- Non hai capito, Poreda. Io ti pago se vinci.
- Se vinco?
- Esatto.
- Tu sei matto. Quel ragazzo è un talento, hai un tesoro per le mani, e tu paghi uno perché lo sbatta giù.
- Avrò le mie ragioni, Poreda.
- No, no, io non ne voglio più sapere di quella roba, ho chiuso col giro delle scommesse, non ho altre braccia da farmi rompere, basta.
- Non c’entrano le scommesse, te lo giuro.
- E allora cos’è, alleni la gente per vederla perdere?
- Succede.
- Tu sei matto.
- Può darsi. Accetti?
- Poreda non voleva crederci. Era la prima volta che gli pagavano un extra per vincere.
- Mondini, non raccontiamoci balle, quel Gorman è un talentaccio ma tu sai che, se voglio, un sistema per fregarlo lo trovo.
- Lo so. Per questo son qui.
- Rischi di perderli, i tuoi soldi.
- Lo so.
- Mondini…
- Sì?
- Cosa c’è dietro?
- Niente. Voglio vedere se quel ragazzo riesce ancora a danzare una volta che lo metti a mollo nella merda. Tu saresti la merda.
Poreda sorrise. Aveva un’ex moglie che lo prosciugava a furia di alimenti, un’amante di quindici anni più giovane di lui, e un agente del fisco che prendeva mille dollari al mese per dimenticarsi il suo nome. Così sorrise. Poi sputò per terra. Era, da sempre, il suo modo di firmare un contratto.
- Ha tossito.
- Cosa?
- Shatzy… ha tossito.
- Siamo al buono.
- È pazzo di lei, gliela venderà, giurato che gliela venderà.
- Si è aperto, il bottone?
- Non si vede, da qui.
- Si sarà aperto.
- Secondo me non basterà.
- Dieci che ce la fa -, nondisse Poomerang, e tirò fuori un biglietto bisunto dalla tasca.
- Okay per dieci. E altri venti su Poreda.
- Niente scommesse su Poreda, ragazzi, Mondini gliel’ha giurato.
- Che c’entra, abbiamo sempre scommesso, noi.
- Non questa volta, questa volta è una cosa seria.
- Perché le altre volte no?
- Questa è più seria.
- Va be’, ma è sempre boxe, no?
- Mondini gliel’ha giurato.
- Mondini, non io, io non gli ho mai giurato che non avrei scommesso…
76
- È la stessa cosa.
- Non è la stessa cosa.
- Fu in quel momento che il prof. Bandini disse a Shatzy:
- Verrebbe a cena con me, stasera?
-Shatzy sorrise.
- Un’altra volta, professore.
- Gli porse la mano, e il prof. Bandini gliela strinse.
- Un’altra volta, allora.
- Sì.
- Shatzy si voltò e ridiscese il sentierino di pietra. Poco prima di arrivare davanti al garage, si richiuse il bottone, quello sulle tette. Quando si fermò davanti a Gould aveva una faccia molto seria.
- La moglie lo ha lasciato per una. Una donna.
- Splendido.
- Potevi dirmelo.
- Non lo sapevo.
- Non è un tuo professore?
- Non insegna mica storia del suo matrimonio.
- No?
- No.
- Ah.
- Si voltò. Il professore era ancora là. La salutò con la mano. Lei gli rispose.
- È un brav’uomo.
- Già.
- Non si meritava una roulotte gialla. Alle volte la gente si punisce per cose che nemmeno conosce, così, per il gusto di punirsi… decide di punirsi…
- Shatzy…
- Sì?
- VUOI PER FAVORE DIRE SE GLIEL’HAI SCUCITA ‘STA CAVOLO DI ROULOTTE
O NO?
- Gould?
- Sì.
- Non urlare.
- Okay.
- Vuoi sapere se sono riuscita a comprare una roulotte Pagode del ‘71 color giallo pagandola una miseria?
- Sì.
PORCO DI UN MONDO BASTARDO VIGLIACCO, CERTO CHE SI’!
Gridò così forte che le si aprì il bottone sulle tette. Gould, Diesel e Poomerang rimasero esterrefatti, con gli occhi che sembravano uova in gelatina. Non per il bottone, per la roulotte.
Non gli era mai passato per la testa che sarebbe successo veramente. Guardavano Shatzy come se fosse la reincarnazione di Mami Jane, tornata a tagliare le palle a Franz Forte, direttore finanziario della CRB. Porco di un mondo bastardo vigliacco, ce l’aveva fatta.
Due giorni dopo un carro attrezzi portò la roulotte a casa di Gould. La sistemarono nel giardino. La lavarono per bene, anche le ruote, i vetri e tutto. Era molto gialla. Sembrava una casa giocattolo, qualcosa fatta apposta per i bambini. I vicini ci passavano davanti e si fermavano, a guardarla. Una volta uno disse a Shatzy che non ci sarebbe stata male una veranda, sul davanti, una veranda di plastica, come quelle che vendevano al supermercato. Ce n’erano anche di gialle.
Niente veranda, disse Shatzy.
18.
77
Il cadavere di Pitt Clark lo trovarono dopo quattro giorni di ricerca, seppellito sotto trenta centimetri di terra, vicino al fiume. Il doc lo esaminò e poi disse che Pitt era morto soffocato, probabilmente era stato sepolto vivo. Aveva ecchimosi sulle braccia, sul collo e sulla schiena. Prima di essere sepolto, era stato violentato.
Pitt aveva undici anni.
Adesso ascolta che strana storia, diceva Shatzy.
Lo stesso giorno in cui trovarono Pitt, sparì dal ranch dei Clark un indiano che tutti chiamavano Bear, orso. Qualcuno lo vide uscire dalla città, a cavallo, in direzione delle montagne.
Bear era amico di Pitt. Pitt lo stava ad ascoltare, sempre. Andavano spesso a fare il bagno insieme, giù al fiume. E cacciavano serpenti. Per un po’ li tenevano vivi dandogli da mangiare topi. Poi li uccidevano. Bear doveva avere una ventina d’anni. Lo chiamavano così perché era strano. Con la gente, era strano. Sotto la sua branda trovarono una scatola di latta, e dentro la scatola un braccialetto che Pitt portava sempre al polso destro. Era fatto con pelle di serpente.
Diceva Shatzy che si offrirono in molti, per inseguire l’indiano. Era una cosa che li ubriacava dentro, la caccia all’uomo. Ma lo sceriffo disse: Vado io. Io da solo. Si chiamava Wister, era un brav’uomo. Non gli piacevano le impiccagioni e credeva nei tribunali. Conosceva Pitt, ogni tanto lo portava con sé a pescare, e gli aveva anche promesso che, quando avesse avuto quattordici anni, gli avrebbe insegnato a sparare, e a colpire una bottiglia, a dieci passi, con gli occhi chiusi. Disse: Bear è affar mio.
Partì al mattino, mentre il vento alzava mulinelli di polvere sotto la graticola di un sole imbizzarrito.
Ora sta’ attento, diceva Shatzy. La caccia all’uomo è pura geometria. Punti, linee, distanze.
Disegnala su una mappa: geometria ubriaca, ma implacabile. Può durare ore o settimane. Uno scappa, l’altro insegue. Ogni minuto li allontana dalla terra che li ha generati e che saprebbe, se interrogata, riconoscerli. Presto diventano due punti in un nulla che non può più distinguere, in loro, il buono dal cattivo. A quel punto, anche se volessero non potrebbero più cambiare niente. Sono traiettorie oggettive, deduzioni geometriche calcolate dal destino a partire da una colpa.
Non potranno placarsi che in un risultato finale, scritto in calce alla vita, con inchiostro rosso sangue. Musica.
La musica la faceva Shatzy, a bocca chiusa, una cosa tipo grande orchestra, violini e trombe, una cosa ben fatta. Poi ti chiedeva:
Tutto chiaro?
Più o meno.
Vedrai che non è difficile.
D’accordo.
Andiamo?
Andiamo.
Lo sceriffo Wister parte in direzione delle montagne. Segue la pista per Pinter Pass. Sale in mezzo al bosco, cerca l’ombra e pensa che Bear deve avere una mezza giornata di vantaggio.
Quando gli alberi iniziano a diradarsi si ferma per far riposare il cavallo.
Poi riparte. Sale lungo il crinale della montagna, al passo, e studia le orme sulla pista. Ci mette un po’ ma alla fine impara a riconoscere quelle del cavallo di Bear. Pensa che l’indiano, se volesse, saprebbe come farle scomparire, il ragazzo deve essere sicuro di sé, e tranquillo. Forse pensa di raggiungere il confine. Forse non crede di essere inseguito. Sprona il cavallo e sale verso Pinter Pass. Ci arriva che è sera. Guarda giù, verso la vallata stretta che scende verso il deserto.
Lontano, gli sembra di vedere una piccola scia di polvere che si alza in mezzo al nulla. Scende per qualche centinaio di metri, trova una grotta, ferma il cavallo. È stanco. Si ferma lì per la notte.
Il secondo giorno, lo sceriffo Wister si sveglia all’alba. Prende il binocolo e guarda giù, verso il fondo della vallata. Vede una piccola macchia scura, lungo la pista. Bear. Monta a cavallo, scende con prudenza lungo gli ultimi contrafforti della montagna. Quando arriva in fondo alla valle mette il cavallo al galoppo. Cavalca per un’ora, senza soste. Poi si ferma. Può vedere Bear a occhio nudo, 78
qualche chilometro davanti a lui. Sembra fermo. Wister scende da cavallo. Si ripara sotto un grande albero, e si riposa. Quando riparte, il sole è allo zenit. Mette il cavallo a un’andatura tranquilla, e non smette un attimo di guardare la sagoma di Bear, piccola e scura davanti a sé. Continua a sembrare ferma. Perché non scappa?, pensa lo sceriffo Wister. Cavalca per mezz’ora, poi si ferma.
Bear è a non più di cinquecento metri da lui. Sta immobile, in sella a un cavallo pezzato.
Sembra una statua. Lo sceriffo Wister carica il fucile, e controlla le pistole. Guarda il sole.
Sta per passargli alle spalle. Sei fatto, ragazzo. Parte al galoppo. Cento metri, poi altri cento, cavalca senza fermarsi, vede Bear muoversi, finalmente, uscire dalla pista e lanciarsi verso destra. Dove vuoi andare, ragazzo, da quella parte c’è il deserto, pianta gli speroni nel fianco del cavallo, esce dalla pista e lo insegue. Bear piega verso est, poi di nuovo verso ovest, e ancora verso est. Dove vuoi andare, ragazzo?, pensa lo sceriffo Wister. Rallenta l’andatura, Bear è sempre a cinquecento metri, dopo un po’ si ferma, Wister lo vede e rimette il cavallo al galoppo, Bear riparte, piega ancora verso est, sfumano i colori, cade la luce, d’improvviso. Wister si ferma.
Okay ragazzo. Io non ho fretta. Smonta, si prepara un bivacco, accende un fuoco. Nella notte, prima di addormentarsi, vede la luce del fuoco di Bear, cinquecento metri davanti a lui.
Buona notte, ragazzo.
Il terzo giorno, lo sceriffo Wister si sveglia col buio. Ravviva il fuoco, si scalda un caffè.
Non vede luci, nel buio. Aspetta l’alba. Al primo chiarore, vede Bear, lontano, in piedi, immobile, di fianco al suo baio pezzato. Prende il binocolo. Il ragazzo non ha fucile. Forse una pistola. Lo sceriffo Wister si siede per terra. A te la prima mossa, ragazzo. Se ne stanno fermi, per ore.
Tutt’intorno, sole ad arroventare il niente. Lo sceriffo Wister beve un sorso d’acqua e uno di whiskey, ogni mezz’ora. La luce è accecante, A un tratto rivede Pitt che ride e corre. Poi lo vede urlare, urlare, urlare. Si guarda le mani e le vede tremare. Crepa, figlio di puttana, pensa, crepa indiano bastardo. Si alza. Sente la testa girare. Prende le redini in mano e inizia a camminare, tirandosi dietro il cavallo. Cammina piano, ma si accorge che Bear è sempre più vicino. Il ragazzo è immobile. Non sale a cavallo, non scappa. Trecento metri. Duecento. Lo sceriffo Wister si ferma.
Urla: Falla finita Bear. Dice piano: Fatti ammazzare, da bravo. E poi ancora urlando: Bear, non fare l’idiota. Il ragazzo resta immobile. Wister controlla fucile e pistole. Poi monta in sella. Parte al galoppo. Vede Bear montare a cavallo e partire. Cavalcano per mezz’ora, così. Li separano non più di duecento metri. All’orizzonte appare un pueblo, dimenticato nel nulla. Bear lo punta, Wister lo segue. Una decina di minuti e Bear entra al galoppo nel pueblo, e sparisce. Lo sceriffo Wister rallenta e prima di entrare nel paese scende da cavallo. Estrae la pistola e raggiunge le prime case.
Non c’è anima viva. Cammina lento lungo i muri, attento al minimo rumore. Spia ogni finestra, legge ogni ombra. Sente il cuore pulsargli nelle orecchie. Calma, pensa. Probabilmente non è nemmeno armato. Devi solo trovarlo e fotterlo. È un ragazzo. Vede una vecchia in piedi, sulla soglia di una posada. Si avvicina. Le chiede in spagnolo se ha visto un indiano, con un cavallo pezzato. Lei fa cenno di sì, con la testa, e indica il fondo del villaggio, dove la pista continua nel nulla. Wister le punta la pistola alla testa. Non mentire, le dice in spagnolo. Lei si fa un segno di croce, e indica di nuovo la fine del villaggio. Hai da bere? La donna entra nella posada, poi esce con dell’acquavite. Lo sceriffo Wister beve. Si è portato via dell’acqua, l’indiano? La vecchia fa cenno di sì. Lo sai chi è? Allora la vecchia dice: Sì. Es un chico que va detrás de un asesino. Lo sceriffo Wister rimane a fissarla. Te l’ha detto lui? Sì. Lo sceriffo Wister beve un altro sorso di acquavite. Tu sei morto, ragazzo, pensa. Sale a cavallo, getta una moneta alla vecchia, infila l’acquavite nella sacca, e prosegue, al passo, verso la fine del paese. Quando supera l’ultima casa guarda davanti a sé.
Nulla. Si volta a destra. Vede Bear immobile, in sella, a non più di duecento metri. Es un chico que va detrás de un asesino. Lo sceriffo Wister sfila veloce il fucile dalla sella, mira, e spara. Due volte.
Bear non si muove. L’eco degli spari si perde, lentamente, nell’aria. Lo sceriffo Wister fa saltare via il bossolo. Calma, pensa. Non lo vedi che è troppo lontano? Calma. Rimane a fissare Bear. Vuole urlargli qualcosa, ma non gli viene in mente niente. Volta il cavallo, torna alla prima casa, e smonta.
Passa la notte lì. Ma senza riuscire a dormire. Una pistola, sempre, in mano.
Il quarto giorno, lo sceriffo Wister esce dal pueblo e vede Bear lontano, sulla pista che porta al deserto. Monta a cavallo, e al passo, lo segue. Si lascia portare dalla bestia. Ogni tanto il caldo e 79
la stanchezza lo fanno addormentare. Dopo tre ore si ferma a una sorgente. Pensa che l’indiano potrebbe averla avvelenata. Riempie le borracce e riparte. Non devo lasciarlo arrivare al deserto, pensa. Ci moriremo tutt’e due, là dentro. Devo fermarlo prima, pensa. Beve un sorso d’acquavite.
Aspetta che il sole si abbassi ancora un po’, all’orizzonte. Poi parte al galoppo. Bear non sembra accorgersene. Continua al passo, senza voltarsi. Forse sta dormendo. È mio, pensa lo sceriffo Wister. Trecento metri. Duecento metri. Cento metri. Lo sceriffo Wister estrae la pistola. Cinquanta metri. Bear si volta, ha una pistola a canna lunga in mano, mira e spara. Un colpo. Il cavallo di Wister scarta sulla destra, poi frana sulle zampe anteriori. La bestia finisce sdraiata su un fianco.
Solleva la testa, cerca di rialzarsi. Wister riesce a scivolargli via da sotto. Sente un dolore bruciante alla spalla. Poi sente un secondo colpo entrare nella carne dell’animale. Alza la testa, si appoggia al corpo del cavallo e spara tre colpi di pistola, uno dopo l’altro. Il cavallo di Bear si impenna sulle zampe posteriori e ruota su se stesso, scalciando nell’aria. Lo sceriffo Wister sfila il fucile dalla sella. Bear riprende il controllo del cavallo e parte al galoppo, cercando di scappare. Wister mira e spara due colpi. Gli sembra di vedere Bear piegarsi sul collo dell’animale. Poi vede il cavallo rompere l’andatura, sbandare, fare ancora una ventina di metri e franare a terra. Vede il corpo di Bear sbalzato nella polvere. Addio ragazzo, pensa. Carica il fucile, prende la mira. Bear sta cercando di rialzarsi. Wister spara. Vede uno sbuffo nella polvere, una ventina di metri prima del corpo di Bear. Merda, dice. Spara ancora. Il proiettile va a morire vicino all’altro. Bear si è alzato.
Recupera la sua pistola. Con l’altra mano sgancia le borse dalla sella. Rimane in piedi, lo sguardo su Wister. Un’ottantina di metri, tra loro. Un tiro di fucile. Qualcosa di più. Lo sceriffo Wister guarda il sole. Pensa che ha ancora un paio d’ore, prima del buio. La spalla gli fa male, non riesce a muovere il braccio senza sentire una fitta feroce. Muy bien, ragazzo. Sgancia le borse dalla sella e se le mette a tracolla sulla spalla buona. Carica il fucile. E si mette a camminare. Bear lo vede, si volta, e si allontana, anche lui camminando, lentamente. Lo sceriffo Wister pensa che correre sarebbe ridicolo.
Si immagina la scena, vista dall’alto, due uomini a correre nel nulla, e pensa: siamo due condannati.
Poi per un attimo vede Pitt che corre, e corre, e cerca di scappare, lungo il fiume, corre e scappa.
Maledetto, pensa. Io ti ammazzerò, ragazzo. Arriva di fianco al cavallo di Bear. Respira ancora.
Wister gli scarica la pistola nella testa. Io ti ammazzerò, ragazzo. Poi riprende a camminare.
Quando scende la sera, vede sparire Bear nel buio. Si ferma. La spalla lo fa impazzire. Si sdraia per terra. Tiene la pistola in pugno. Cerca di non addormentarsi. È due giorni che non dormo, pensa.
Il quinto giorno lo sceriffo Wister sente la febbre annebbiargli la vista e accelerargli i battiti del cuore. Ma non dorme mai quel bastardo? Lo vede davanti a sé, gli sembra lontano come il giorno prima, ma gli occhi gli bruciano, e non ci sono ombre, nella luce del mattino. Si mette in marcia. Cerca di ricordarsi dove porta quella pista, e quanti chilometri possono aver fatto, dal pueblo a lì. Bear, là davanti, cammina senza fermarsi. Ogni tanto si volta. Poi continua. È la pista per Salma. Non deve farlo arrivare fino a lì. Non deve entrare a Salma. Si ferma. Si china. Raccoglie un grumo di polvere. Sangue e polvere. Alza lo sguardo verso Bear. Allora ti ho beccato, ragazzo.
Non volevi dirmelo, eh? Si alza. Fa qualche passo. Un’altra macchia di sangue. Muy bien, bastardo.
Non sente più la febbre. Riprende a camminare. Tre ore dopo Bear abbandona la pista e piega verso est. Lo sceriffo Wister si ferma. È pazzo, pensa. Si sta infilando nel deserto. È pazzo. Prende il fucile e spara in aria. Bear si ferma, si volta. Wister lascia cadere le borse per terra. Poi getta il suo fucile. Spalanca le braccia. Bear rimane immobile. Wister gli cammina incontro, lentamente. Bear non si muove. Wister continua a camminare, abbassa le braccia e avvicina le mani al calcio delle pistole. Arriva a una cinquantina di metri dall’indiano. Si ferma. Falla finita, ragazzo, grida. Bear non si muove. C’è il deserto da quella parte, vuoi morire da stupido?, grida. Bear fa qualche passo verso di lui. Poi si ferma. Rimangono così, uno di fronte all’altro, due schizzi neri nel nulla. Il sole picchia verticale. È un mondo senza ombre. C’è un silenzio così orribile che lo sceriffo Wister ci sente dentro Pitt urlare. Cerca di ricordarsi la faccia del ragazzino ma non ci riesce, sente solo quell’urlo, fortissimo. Cerca di concentrarsi su Bear. Ma c’è quell’urlo che non lo lascia in pace.
Devi solo fare il tuo mestiere, si dice. Lascia perdere il resto. Fa’ il tuo mestiere. Si accorge di aver abbassato lo sguardo per terra. Raddrizza di scatto la testa. Fissa Bear. Vede due occhi assenti.
Invincibili, pensa. Allora d’improvviso, come una scossa, sente la paura piombargli addosso, e 80
piegargli le gambe. L’ha tenuta lontana per giorni. Gli arriva addosso, ora, come un’esplosione silenziosa. Cade in ginocchio. Si piega in avanti, si appoggia con le mani per terra. Le vede tremare.
Non riesce a respirare, il sangue gli pulsa nelle tempie. Con una fatica enorme solleva lo sguardo verso Bear. È sempre là, fermo, in piedi. Bastardo. Bastardo. Bastardo. Non ci sono uccelli nel cielo, né serpenti nella polvere, né vento a far volare arbusti, né orizzonte, niente. È mondo sparito.
Lo sceriffo Wister mormora piano: Vai all’inferno, ragazzo. Si alza, getta un ultimo sguardo verso Bear, poi si volta. Si volta e camminando con fatica arriva fino al fucile. Lo prende. Fa ancora qualche passo. Solleva le borse e se le mette a tracolla, sulla spalla buona. Senza più voltarsi cammina guardando i suoi passi. Non si ferma fino a che è buio. Si lascia cadere per terra. Si addormenta. Nel cuore della notte si sveglia. Ricomincia a camminare, seguendo la debole traccia della pista. Ricade per terra. Chiude gli occhi. Sogna.
Il sesto giorno lo sceriffo Wister si sveglia all’alba. Si alza. Vede all’orizzonte, minuscole, le case bianche del pueblo. Si volta. Bear è a un centinaio di metri da lui. In piedi. Fermo. Wister raccoglie le borse e il fucile. Si rimette in marcia. Cammina per ore. Ogni tanto cade a terra, si abbassa il cappello sugli occhi, e aspetta. Quando sente le forze tornare, si alza e riparte. Non si volta mai. Riesce ad arrivare al pueblo prima del tramonto. Gli danno da bere e da mangiare. Dice: Sono lo sceriffo Wister. Gli danno un letto per dormire. Gli dicono in spagnolo che c’è un chico, fuori dal pueblo. Si è accampato qualche centinaio di metri dalle prime case. Gli chiedono se è un suo amico. No, dice lo sceriffo Wister. La spalla lo fa impazzire. Dorme con una pistola carica, a portata di mano.
Il settimo giorno lo sceriffo Wister si fa dare un cavallo, e parte verso le montagne. Ritrova il vento, e nubi di polvere che cancellano la pista. Si ferma una volta sola, per far riposare l’animale.
Poi riparte. Arriva alle montagne. Sale fino a Pinter Pass, scollina senza voltarsi. Prima di aver raggiunto la pianura, devia verso una miniera abbandonata. Smonta, si accende un fuoco. Passa la notte lì, senza dormire. Pensa.
L’ottavo giorno lo sceriffo Wister lascia che il sole sia alto, nel cielo. Poi monta a cavallo.
Prende poche cose, dalle borse, e le lega alla sella. Abbandona il fucile appoggiato a una parete della miniera. Scende lentamente fino a valle. Lontano, intravede le case di Closingtown, e gli alberi piegati dal vento. Procede al passo, senza fretta. Parla a voce alta. Sempre la stessa frase. Quando arriva al fiume, ferma il cavallo. Lo fa girare su se stesso. Socchiude gli occhi, e guarda. Bear è a qualche centinaio di metri da lui. È in sella a un cavallo. Va avanti piano, al passo. Ragazzo, dice Wister. Ragazzo. Poi gira il cavallo e senza più voltarsi, raggiunge Closingtown.
Quando arriva alle prime case, qualcuno si mette a urlare che è tornato lo sceriffo. La gente esce in strada. Lui continua al passo, senza guardare nessuno. Con una mano tiene le redini, con l’altra stringe una pistola. La gente non osa avvicinarsi, sembra un morto a cavallo, o un pazzo. Lo sceriffo Wister attraversa la città, come un fantasma, poi gira intorno alla prigione e prende il sentiero per il ranch dei Clark. La gente gli va dietro, a piedi. Quasi non osano parlare. Wister arriva al ranch. Scende da cavallo. Dà un giro di redini attorno alla palizzata. Va verso la casa, camminando come un ubriaco. Qualcuno gli si avvicina per aiutarlo. Lui gli punta addosso la pistola. Non dice niente, continua a camminare, e arriva alla casa. Davanti alla casa c’è il padre di Pitt. Eugene Clark. Faccia invecchiata dal vento, capelli grigi. Lo sceriffo Wister si ferma a tre passi da lui. Continua a stringere una pistola nella mano destra. Solleva lo sguardo su Eugene Clark. Poi dice: Mi spiace, continuava a urlare, non la voleva smettere. Lui era sempre stato buono con me.
Non aveva mai fatto così, prima. Era un bambino buono. Eugene Clark fa un passo verso di lui.
Wister gli punta contro la pistola. Eugene Clark si ferma. Lo sceriffo Wister solleva il cane della sua Colt 45. Dice: Non l’ho seppellito vivo, giuro. Non respirava più, aveva gli occhi rivoltati, e non respirava più. Poi si appoggia la pistola sotto il mento, e spara. Macchie di sangue sulla faccia e sul vestito di Eugene Clark. La gente accorre, tutti urlano, i bambini vogliono vedere, i vecchi scuotono la testa, il vento non smette di alzare polvere, intorno. Ci mettono un po’, tutti, ad accorgersi di Bear. È a cavallo, fermo, di fianco alla palizzata del ranch. Non ha più occhi, spariti tra gli zigomi da indiano. Respira a bocca aperta, tra labbra secche di polvere e terra. La gente ammutolisce. Lui preme leggermente i talloni sul ventre del cavallo. Tira le redini a sinistra e se ne va. C’è un 81
ragazzino che lo rincorre. Bear, gli urla, Bear. Lo sceriffo si è sparato, Bear. Lui non si volta, continua al passo, in direzione del fiume. Bear, ehi, Bear, dove vai?
Bear non si volta.
A dormire, dice piano.
Musica.
19.
- Pronto, Gould?
- Ciao papà.
- Sono tuo padre.
- Ciao.
- Tutto bene?
- Sì.
- Cos’è questa storia di Couverney?
- Mi hanno invitato a Couverney.
- In che senso?
- Fanno delle ricerche, lì. Vogliono che vada a lavorare con loro.
- Ha l’aria di essere una gran cosa.
- Credo che lo sia.
- E poi?
- Poi basta, mi hanno invitato per tre anni, mi danno un alloggio lì all’università, e mi pagano due viaggi all’anno, per tornare a casa, se ho voglia.
- Natale e Pasqua.
- Tipo.
- Ha l’aria di essere una gran cosa.
- Sì.
- È dall’altra parte del mondo, Couverney.
- È lontana, sì.
- Mangiano da cani, lì, sai?, ci sono stato, una volta, non all’università, lì nella zona, non c’era verso di mangiare qualcosa che non sapesse di pesce.
- Dicono che ci fa un freddo micidiale.
- Probabile.
- Più freddo che qui.
- Ti daranno dei soldi, no?
- Come?
- Dico, ti pagano bene?
- Credo di sì.
- Quella è una cosa importante. Cosa dice il rettore Bolder?
- Lui dice che sono un sacco di soldi per un ragazzino di quindici anni.
- No, dico in generale, cosa dice il rettore Bolder su tutta la faccenda, in generale?
- Dice che è una grande occasione. Lui però vorrebbe che io restassi qui.
- Il vecchio Bolder. E un brav’uomo, sai?, puoi fidarti di lui.
- Dice che è una grande occasione.
- Dev’essere una cosa tipo essere invitato a Wimbledon. Se sei un tennista, voglio dire.
- Più o meno.
- Come se uno giocasse a tennis e un giorno gli scrivono e gli dicono Noi la paghiamo se ci fa l’onore di venire a giocare qui. Pazzesco, eh?
- Già.
- Sono fiero di te, figliolo.
- Grazie papà.
- Pazzesco, veramente.
82
- Abbastanza.
- La mamma sarà contenta.
- Come?
- La mamma sarà contenta, Gould.
- Glielo dirai?
- Sì, glielo dirò.
- Davvero?
- Sì.
- Davvero?
- Lei sarà contenta.
- Non dirle però che ci vado, non so ancora se ci vado, voglio dire, me l’hanno appena chiesto.
- Le dirò che te l’hanno chiesto, le dirò solo questo.
- Sì.
- E che è una grande cosa.
- Sì, spiegaglielo che è una grande cosa.
- Sarà contenta.
- Sì, è una buona idea, diglielo.
- Glielo dirò, Gould.
- Grazie.
- Quando pensi di decidere qualcosa?
- Non so.
- Dovresti partire subito?
- A settembre.
- Hai un po’ di tempo.
- Sì.
- È una grande occasione, forse non dovresti fartela scappare.
- È quello che dicono tutti, qui.
- Però decidi con la tua testa, hai capito?
- Sì.
- Sta’ ad ascoltare tutti quanti e poi decidi con la tua testa.
- Sì.
- È la tua vita che è in ballo, non la loro.
- Già.
- Ci vai poi tu, sotto le bombe, non loro.
- Quali bombe?
- È un modo di dire.
- Ah.
- Si dice così.
- Ah.
- Avevo un colonnello, una volta, che aveva un bel modo di dire. Quando la faccenda si complicava, no?, lui usava sempre la stessa frase. Col sole negli occhi ci si abbronza, non si spara.
Lo diceva anche se pioveva, non c’entrava il tempo, era un simbolo, il sole, capisci, era un modo di dire, valeva anche se quel giorno nevicava o c’era una nebbia così, col sole negli occhi ci si abbronza, non si spara. Diceva così. Adesso è sulla sedia a rotelle. L’ha beccato un colpo mentre nuotava in piscina. Facevano meglio a non ripescarlo, tutto sommato.
- Papà…
- Son qui, Gould.
- Adesso devo andare.
- Sta’ in gamba figliolo, fammi sapere.
- D’accordo.
- Se decidi qualcosa, fammi sapere.
83
- Ti ricordi di dirlo alla mamma?
- Certo che me ne ricordo.
- Okay.
- Me ne ricordo sicuro.
- Okay.
- Allora ciao.
- Ciao papà.
- Gould…
- Sì?
- Shatzy, cosa ne dice Shatzy?
- Sta bene.
- No, voglio dire, cosa ne pensa lei di Couverney?
- Di quello?
- Sì, di quello.
- Dice che è una grande occasione.
- Nient’altro?
- Dice che se sei un deodorante è una grande occasione essere invitato per tre anni nel cesso di un autogrill.
- Un autogrill?
- Sì.
- Cosa cazzo vuol dire?
- Non so. Io sarei il deodorante.
- Ah.
- Credo sia uno scherzo.
- È uno scherzo?
- Credo.
- Forte, quella ragazza.
- Sì.
- Salutamela.
- Va bene.
- Ciao figliolo.
- Ciao.
- Clic.
20.
( Gould va a trovare il prof Taltomar. Entra nell’ospedale. Sale al sesto piano. Entra nella camera n. 8. Taltomar è nel letto. Respira attraverso una maschera collegata a un macchinario. È
magrissimo. Gli hanno tagliato i capelli. Gould avvicina una sedia al letto e si siede. Guarda Taltomar. Aspetta.) …Odore di minestra. E di piselli. Forse i piselli fanno bene ai malati, a qualunque malattia, pensò Gould. Forse l’odore di per sé è curativo, hanno fatto degli studi e hanno capito che. Muri gialli. Giallo roulotte. Ma un po’ più slavati. Slavati, non lavati. Chissà il cesso com’è.
Gould si alzò, e andò a toccare con un dito la mano grigia del prof. Taltomar. Come toccare la pelle di un animale preistorico. Liscia e vecchia. La macchina respirava con Taltomar, gli dava un ritmo costante, tranquillo. Non sembrava una lotta. Sembrava dopo una lotta. Gould tornò a sedersi.
Si mise a respirare al ritmo della macchina. La macchina respira con Taltomar, Gould respira con la macchina, Gould respira con Taltomar. È come passeggiare insieme, professore.
Poi si alzò. Andò in corridoio. C’era qualche vestaglia che girava senza meta e infermiere che parlavano a voce alta. Il pavimento era fatto di piastrelle bianche e nere. Gould si mise a camminare. Teneva gli occhi sul pavimento e cercava di posare i piedi solo sulle piastrelle nere, senza toccare le righe. Gli venne in mente un film che aveva visto in cui c’era un pugile che si 84
allenava correndo lungo i binari della ferrovia. Era inverno, e lui correva con un cappotto. Aveva anche le mani bendate rigide, come prima di infilare i guantoni per combattere, e ogni tanto tirava qualche colpo nell’aria. Sole d’inverno sulla testa, città sullo sfondo, tutto grigio, un gran freddo, il cappotto che svolazza, treni fermi, piuttosto Butch che ha voglia di correre lui potrebbe venire dice che andava a correre forse non sulla ferrovia sulla strada il giro fino al parco e ritorno qui sulla ferrovia con Butch sarebbe meno noioso ma a me piace correre da solo è sempre difficile capire cosa veramente ti piace o cosa vuoi che ti piaccia se provo a chiedermi veramente se mi piaccia correre da solo o se magari preferirei correre con Butch con Butch potremmo parlare lui parla sempre di donne è divertente potrei raccontargli di Jody non mi piacerebbe parlargli di Jody non servirebbe a nulla Jody piccole tette che cazzo penso coglione dai non ci devo pensare perché devi sempre scappare Jody staremmo bene insieme cosa c’è che devi sempre scappare lei è come se ogni volta avesse bisogno di scappare deve ricordarti che non è lì per sempre o completamente porco cazzo pensa ad altro coglione dietro al gasometro c’è l’ombra freddo cane quella volta che c’era un treno proprio lì correre tra i binari del treno Mondini è un genio ti irrobustisce le caviglie collega piedi e occhi corri senza guardare i piedi ma posa i piedi sulle traversine cercale con la coda dell’occhio la coda dell’occhio è quella che legge i piedi dell’avversario okay Maestro i pugni nascono dai piedi i piedi sono pugni non ancora nati aborti pugni abortiti vram vram destro destro sinistro destro Mondini brav’uomo bella l’ombra che faccio col cappotto che svolazza le mani fasciate che colpiscono nell’aria ce l’hanno con me che corro con le mani fasciate non devi mica combattere che stronzata è sempre combattimento stai sempre combattendo questo mi piace della boxe è un combattimento infinito quando corri quando mangi quando salti la corda quando ti vesti come mi allaccio le scarpe quando canto prima del match mi piacerebbe correre con i guantoni è bella la mia ombra sei bellissimo Larry Larry Lawyer Larry Lawyer contro Stanley Poreda stronzate vram vram montante vram Poreda nome del cazzo vram mi taglierò i capelli a zero appena appena più lunghi sulla testa sulla cima toccami qui Jody lei ride passa la mano sulla testa voglio l’accappatoio con scritto sopra Lawyer hai capito togli Gorman e mettici Larry Lawyer hai capito sì che hai capito vram Mondini dirà che sono tutte stronzate Mondini vram vram non le vuole capire lui quelle cose Mondini vaffanculo Larry ‘culo che freddo maiale quanto ce n’è ancora in ombra è quasi un’ora ancora un’oraemmezza vram tu guarda quello che ce l’aveva con il mio orologio d’oro non si va a correre con l’orologio soprattutto se ce l’hai d’oro ma guarda quello ma fatti i cazzi tuoi fatti mi piace perfino il fumo che esce dalla mia bocca in questo freddo porco sei forte Larry Lawyer chiedimi perché faccio la boxe tu con quel microfono che tipo quel Dan De Palma mia madre lo ascolta di nascosto alla radio di nascosto da mio padre che non ne vuole sapere mia madre l’ascolta e non è vero che piange vram non è vero vram Dan De Palma chiedimi una buona volta perché faccio la boxe la faccio perché è bello tutto nella boxe tu sei bello puoi diventare bello Larry Lawyer il mio cappotto di cachemire a svolazzare sulla ferrovia in questo inverno vram vram destro sinistro destro e rientra veloce i piedi sulle traversine potrei chiudere gli occhi e le troverei sotto i piedi ne hai mai visto un altro così Mondini non l’hai mai visto tu e il tuo Poreda nome del cazzo vram vram puttana ascolta qui Dan De Palma lo vuoi sapere perché faccio la boxe lo vuoi sapere te lo voglio dire è perché ho fretta ecco perché vram non avevo voglia di aspettare la boxe è tutta una vita in pochi minuti questo stampatelo bene in mente avrei potuto aspettare non lo conosci mio padre se lo conoscessi capiresti cosa vuol dire tutta una vita per arrivare al momento buono ci sei tu in bilico tra il successo e il disastro quello è il momento buono tu e il tuo talento e basta non c’è bisogno di aspettare sai come va a finire e finisce in una sera è finito tutto se l’hai provata una cosa del genere continuerai a volerla è come vivere cento volte non mi farà smettere niente figuriamoci uno come Poreda 57 incontri quattordici sconfitte tutte vendute tutte per K.O. chi te l’ha fatto fare di tornare ladrone ti hanno messo in testa di fregare Lawyer sei un poveretto chi vuoi che paghi il biglietto per vederti tu e le tue braccia spezzate ti ha fatto male ti farò più male io Poreda vram quella volta a Saratoga forse e un’altra contro Walcot ma solo all’inizio ne sono sempre venuto fuori sempre e comunque non era paura vera stanno sempre a dirti che non devi pensarci chi ci pensa io non ci penso fatemela vedere la paura io non l’ho vista a quello ci pensa Poreda dice Mondini staremo a vedere io voglio la paura Maestro vram vram vram non ho paura di aver paura vram 85
sinistro destro sinistro due passi indietro poi di nuovo sotto vram tienti corto non ballare sì che ballo mi piace ballare non ci capiscono più niente se ballo glielo leggi negli occhi non capiscono più un cazzo belle le mie scarpe con le frange rosse e quello là che non la smetteva più di cagare prima dell’incontro quello sì che aveva paura io la voglio la paura il vecchio Tom sempre in palestra suonato come un sacco troppi pugni nella testa è un bravo vecchio Tom si può crepare o diventare come Tom io creperò piuttosto non mi importa di crepare ma non come Tom voglio crepare in fretta se riescono a darmele non gli lascio fermare il lavoro a metà mi rialzerò fino a crepare mi hai sentito Dan De Palma mi piace tutto questo è veloce non devi aspettare anni io ho fretta mi hai capito io ho fretta non chiedermi perché è strano ma se penso di crepare là sopra mi piace devo essere pazzo come pensare di buttarsi giù da una discesa stranezze ma che cazzo penso vram era meglio se veniva Butch parlavamo se veniva Butch a correre finiscila coglione pensa a Poreda nome del cazzo vram vram se la giocherà sporca non importa ce la giochiamo sporca se è questo che vuoi oppure scivolargli davanti come un dio indietro e avanti indietro e avanti non lo colpisco mai ma gli spappolo il cervello a colpi di finte pensa come sarebbe vincere un incontro con un solo colpo tutto il resto idee che sfiatano quel poveretto fino a farlo rimanere imbambolato e tu giù dai il colpo secco vram ma non con Poreda con Poreda sarà tutto sporco non l’inizio magari ma dopo sarà un pasticcio incontro di merda combattere e dimenticartelo vorrei fosse domani vorrei fosse adesso calma Lawyer calma corri Lawyer corri, adesso.
Gould si fermò. C’era una donna che piangeva, nella stanza n. 3, piangeva forte e ogni tanto urlava che se ne voleva andare, ce l’aveva con tutti perché non la lasciavano andare via. Fuori dalla porta c’era il marito. Parlava con un altro signore, un po’ grasso, e anziano. Stava dicendo che non sapeva più cosa fare, lei si era buttata giù dalle scale la notte di Natale, era successo tutto improvvisamente, da quando era tornata dalla clinica sembrava guarita, era abbastanza normale, poi la notte di Natale ha preso e si è buttata giù dalle scale, non so più cosa fare, non posso riportarla nella clinica psichiatrica, ha una gamba rotta in due punti e tre costole fuori posto, ma non ne posso più, sono qui da diciotto giorni, io non ne posso più. Lo diceva senza piangere, e senza muovere le mani, appoggiato al muro, con molta calma. Dalla camera veniva la voce della donna che gridava.
Quando piangeva sembrava di sentire piangere una bambina. Una donna molto piccola. Gould riprese a camminare. Quando arrivò davanti alla stanza n. 8, entrò e tornò a sedersi sulla sedia accanto al letto del prof. Taltomar. La macchina continuava a respirare. Taltomar era nella stessa posizione di prima, la testa leggermente girata sul cuscino, le braccia fuori dalle coperte, le mani contratte. Gould se ne stette per un bel po’ a guardare l’immobile film di un vecchio che se ne andava. Poi si sporse verso il letto, senza alzarsi dalla sedia, e disse
- Quindicesimo del secondo tempo. Zero a zero. L’arbitro fischia e convoca i due capitani.
Gli dice che è molto stanco, che non sa cosa gli è successo, ma è così stanco, e vuole tornare a casa.
Vorrei tornare a casa, dice. Stringe la mano a tutt’e due, poi si volta e camminando lento attraversa il campo, verso gli spogliatoi, Il pubblico lo guarda in silenzio. I giocatori rimangono immobili. C’è il pallone, fermo in mezzo all’area, ma nessuno lo guarda. L’arbitro si infila il fischietto in tasca, mormora qualcosa che nessuno può sentire e sparisce nel tunnel.
Le mani di Taltomar non si mossero. Le palpebre tremavano appena, la macchina respirava.
Gould rimase immobile, ad aspettare. Guardava le labbra di Taltomar. Senza la solita cicca spenta sembravano disabitate. Dal corridoio si sentiva la donna che piangeva con una voce da bambina.
C’era tempo che passava, del tempo, che passava.
Quando si alzò, Gould rimise la sedia al suo posto. Prese il cappotto e lo tenne sul braccio perché faceva un caldo cane. Diede ancora un’occhiata alla macchina che respirava. Poi si fermò ai piedi del letto, solo un attimo.
- Grazie, professore -, disse.
Grazie, pensò.
Poi uscì. Scese i sei piani di scale, attraversò il grande salone di ingresso dove vendevano i giornali e i malati in pigiama telefonavano a casa. La porta per uscire era a vetri e si apriva da sola quando ti avvicinavi. Fuori c’era il sole. Poomerang e Diesel lo stavano aspettando appoggiati a un cassonetto della spazzatura.
86
Se ne andarono insieme, risalendo il viale alberato che portava verso il centro. Ballavano tutti e tre il passo sbilenco di Diesel, ma con arte, e un’eleganza da professionisti.
Solo dopo un po’, quando erano ormai arrivati all’incrocio con la Settima, Poomerang si passò una mano sul cranio rapato e nondisse:
- I due capitani si consultano, poi le due squadre ricominciano a giocare. E non smettono di farlo fino alla fine dell’eternità.
Gould aveva un vecchio chewingum attaccato sul fondo della tasca, nel cappotto. Lo andò a prendere, lo staccò dalla stoffa e poi se lo mise in bocca. Era freddo e un po’ duro, come un compagno di scuola delle elementari che non vedevi da anni e un giorno lo incontri per strada.
21.
Shatzy tornò a casa che erano le cinque del mattino. Quando andava a letto con qualcuno, poi detestava dormirci insieme. Era ridicolo, ma trovava sempre qualche scusa e se ne andava.
Si sedette sui gradini, senza entrare. Era ancora buio. C’erano rumori strani, rumori che di giorno non si sentono. Come briciole di cose che erano rimaste indietro, e adesso si davano da fare per raggiungere il mondo, e arrivare puntuali all’alba, nel ventre del rumore planetario.
C’è sempre qualcosa che si perde per strada, pensò.
Devo smetterla, pensò.
Finire nel letto di uno che non hai mai visto prima è come viaggiare. Lì per lì è tutta una gran fatica, anche un po’ ridicola.
È bello dopo, quando ci ripensi. È bello averlo fatto, andare in giro il giorno dopo, pulite e impeccabili, e pensare che la notte prima tu eri là a fare quelle cose e a dire quelle cose, soprattutto a dire quelle cose, e a uno che non vedrai mai più.
Di solito non li vedeva mai più.
Devo smetterla, pensò.
Non si finisce da nessuna parte, così.
Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?, sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto. Magari mi iscrivo in palestra, pensò. Ce n’era una lì vicino, che era aperta anche di sera. Perché mi piace fare tutto di sera? Si guardò le scarpe, e i piedi nudi nelle scarpe, e le gambe nude sopra i piedi, fino al bordo della gonna, corta. Le calze, autoreggenti di seta, le aveva appallottolate nella borsa. Non riusciva mai a rimettersele, quando si alzava dal letto per rivestirsi e andarsene. Era come ricaricare le pistole dopo un duello. Stupido. Cosa ne dici vecchio Bird? Anche tu le rimettevi nella fondina scariche, le tue pistole, dopo aver sparato? Le appallottolavi e le cacciavi nella borsa? Vecchio Bird. Ti farò morire in un modo bellissimo.
Pensò di entrare, e di andare a dormire. Ma alla luce dei lampioni si vedeva la roulotte, immobile, posata nel giardino, un po’ meno gialla del solito. Una volta alla settimana la lavava per bene, anche i vetri, e le gomme, tutto. A furia di vederla lì, ogni giorno, per mesi, era diventata un pezzo del paesaggio, come un albero, o un ponte su un fiume. Shatzy lo capì tutto d’un colpo, in quel buio da notte agli sgoccioli, con le calze da puttana appallottolate nella borsa: immobile, luccicante, gialla: non era più qualcosa che aspettava di partire. Era diventata una di quelle cose che hanno come compito rimanere, tenere ferme le radici di un qualche pezzo di mondo. Le cose che, al risveglio o al ritorno, hanno vegliato per te. È strano. Ci si va a cercare marchingegni incredibili per farsi portare via lontano, e poi li si tiene accanto con un amore tale che lontano, prima o poi, diventa lontano anche da loro.
Stronzate, è solo questione di trovare una macchina, pensò.
Non si poteva fare a meno di una macchina. Le roulotte non vanno avanti da sole.
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Avrebbero trovato una macchina, tutto lì.
E sarebbero andati via lontano.
Sembra un albero, pensò. Sentì salire dentro una cosa che non le piaceva, la conosceva e non le piaceva, era una specie di lontano rumore di disfatta. Il segreto, in quei casi, era non lasciarle il tempo di venir fuori. Era urlare così forte da non sentirlo più. Era mettersi un paio di calze autoreggenti nere, uscire da casa, e finire nel letto di uno mai visto prima.
Già fatto, pensò. Così optò per una versione a squarciagola di New York, New York.
- L’hai sentito l’ubriaco, stanotte? - disse Gould la mattina dopo, mentre facevano colazione.
- No, dormivo.
Poi suonò il telefono. Andò Shatzy, e ci mise un bel po’ prima di tornare. Disse che era il rettore Bolder. Voleva sapere se Gould stava bene. Gould chiese se era ancora in linea.
- No. Ha detto che non voleva disturbarti, voleva solo sapere se stavi bene. Poi ha detto qualcosa su un seminario, o qualcosa del genere. Un seminario sulle particole?
- Sulle particelle.
- Dice che hanno dovuto rimandarlo.
Gould disse qualcosa che non si capì bene. Shatzy si alzò e andò a metter la tazza di latte nel microonde.
- È uno grasso il rettore Bolden?, voglio dire, è un signore grasso, o cosa? -, chiese Shatzy.
- Perché?
- Ha la voce grassa.
- Gould chiuse la scatola dei biscotti poi guardò Shatzy.
- Cos’ha detto esattamente?
- Dice che sono ventidue giorni che non ti vedono, all’università, e così voleva sapere se stavi bene. E poi ha detto quella cosa del seminario.
- Volevi altri biscotti?
- No, grazie.
- Se arrivi a duecento scatole vinci un viaggio a Miami.
- Splendido.
- E ci ha messo tutto quel tempo solo per dirti quelle due cose?
- Be’, poi gli ho suggerito qualche trucco per dimagrire, la gente di solito non sa che bastano un paio di trucchi per risparmiarsi un sacco di chili, si tratta solo di mangiare con un po’ di intelligenza. Gliel’ho detto.
- E lui cos’ha detto?
- Non so. Sembrava un po’ a disagio. Diceva delle frasi senza senso.
- È molto magro. Avrà una settantina d’anni, ed è molto magro.
- Ah.
- Shatzy iniziò a sparecchiare. Gould andò di sopra, poi ricomparve con il giubbotto addosso. Cercava le scarpe.
- Gould…
- Sì?
- Mi chiedevo… immagina un ragazzino che è un genio, no?, e che da quando è nato va all’università ogni santo giorno che dio manda in terra, no?, be’ a un certo punto succede che per ventidue giorni di seguito esce di casa ma non va alla sua benedetta università, non ci va neanche una volta, mai, allora mi chiedevo, hai idea di dove potrà mai andare un ragazzino così, tutti i santi giorni?
- In giro.
- In giro?
- In giro.
- È possibile. Sì, è possibile. Facile che se ne vada in giro.
- Ciao Shatzy.
- Ciao.
Quella mattina finì vicino alla scuola Renemport, quella che aveva tutt’intorno una 88
recinzione un po’ arrugginita, alta che non la si poteva scavalcare. Dalle finestre si vedevano i ragazzi in classe, ma nel cortile ce n’era uno che non era in classe perché stava nel cortile e per la precisione giocava con un pallone da basket, precisamente nell’angolo del cortile dove c’era un canestro da basket. Il tabellone era tutto scorticato, ma c’era la retina quasi nuova, dovevano averla sostituita da poco. Il ragazzino avrà avuto dodici anni. Tredici, una cosa così. Era nero. Palleggiava, con calma, come se cercasse qualcosa dentro di sé, poi quando l’aveva trovata si fermava e tirava a canestro. Ci pigliava sempre. Si sentiva il rumore della retina, era una specie di respiro, o un minuscolo colpo di vento. Il ragazzino si avvicinava al canestro, recuperava la palla che stava fermandosi, come esausta per aver respirato quel microscopico vento, la riprendeva in mano e ricominciava a palleggiare. Non sembrava triste e nemmeno contento, palleggiava e tirava a canestro, semplicemente, come fosse scritto così, da secoli.
Io conosco tutto questo, pensò Gould.
Dapprima riconobbe il ritmo. Chiuse gli occhi per sentirlo meglio. Era quel ritmo.
Sto vedendo un pensiero, pensò Gould.
I pensieri quando pensano nella forma dell’interrogazione.
Rimbalzano deambulando per raccogliere intorno tutti i cocci della domanda, secondo un percorso che sembra casuale e fine a se stesso. Quando hanno ricomposto la domanda si fermano.
Occhi al canestro. Silenzio. Stacco da terra, l’intuizione carica tutta la forza necessaria a ricucire la lontananza da una possibile risposta. Tiro. Fantasia e ragione. Nell’aria sfila la parabola logico-deduttiva di un pensiero che ruota su se stesso sotto l’effetto di una frustata di polso impressagli dall’immaginazione. Canestro. La pronuncia della risposta: come una specie di respiro. Pronunciarla è perderla. Scivola via ed è già cocci rimbalzanti della prossima domanda. Da capo.
Shatzy, la roulotte, un ospedale psichiatrico, le mani di Taltomar, la roulotte, Couverney sarebbe per noi un onore associarla alla cattedra di, o si guarda o si gioca, le lacrime del prof.
Kilroy, quando Shatzy ride, quel campo di pallone, Couverney, Diesel e Poomerang, la ferrovia, vram, destro sinistro, mamma. Occhi al canestro. Stacco. Tiro.
Giocava, il bambino nero, ed era solitario, inevitabile e clandestino come i pensieri, quando sono veri e pensano nella forma dell’interrogazione.
Con alle spalle il luogo deputato del sapere, la scuola, blindata e separata, con produzione di domande e risposte secondo metodo guidato, nella cornice confortevole di una comunità intenta a smussare gli angoli taglienti delle domande, astutamente convertendo in cerimonia comunitaria quella che sarebbe iperbole isolata, e abbandonata.
Espulsi dal sapere, lottano i pensieri, pensò Gould.
(Fratello bambino, nel vuoto di un cortile vuoto, tu e le tue domande, insegnami quella calma e il gesto sicuro che trova la retina, quel respiro, all’altro capo di ogni paura.) Camminò i passi del ritorno accostandoli al rimbalzo immaginario di un pallone ipotetico a cui dava movimento con la mano, spingendolo nel vuoto, sentendone i rintocchi sul selciato, caldi e regolari come battiti di cuore rimpallati via da una vita quieta.
Ciò che poteva vedere la gente, e vedeva, era un ragazzino che camminava giocando con uno io-io che di fatto non c’era. Così guardavano, rapiti da quella scheggia ritmata di assurdo, incastonata in un’adolescenza, per giunta, come ad annunciare in largo anticipo una pazzia. La gente teme la pazzia. Sfilava dunque, Gould, come una minaccia, pur non sapendolo senza saperlo, come un’aggressione.
Arrivò a casa.
C’era in giardino una roulotte. Gialla.
22.
All’università di Gould arrivò uno studioso inglese. Era uno molto famoso. Il rettore Bolder lo presentò nell’Aula Magna. Si alzò in piedi e al microfono ne ricostruì la figura e la carriera. Era una cosa lunga perché lo studioso inglese aveva scritto numerosi libri, e inoltre aveva tradotto e fondato e promosso, e oltretutto presiedeva un sacco di roba, o ne era consigliere. Infine 89
collaborava. Quello lo faceva in misura addirittura massiccia. Collaborava da matti. Così il rettore Bolder dovette parlare per un bel po’. Parlava in piedi, leggendo dei fogli che teneva in mano.
Accanto a lui, seduto, c’era lo studioso inglese.
Era una situazione strana perché il rettore Bolder parlava di lui un po’ come se lui fosse morto, non per cattiveria ma perché è così, in quelle situazioni è così, l’oratore deve dire delle cose che sembrano inevitabilmente l’elogio di un morto, hanno qualcosa di funerario, e la cosa strana è che di solito il morto è invece molto vivo, e anzi è seduto proprio lì accanto, e addirittura, contro ogni previsione, se ne sta lì buono, senza protestare, benché sottoposto a quella atroce tortura, alcune volte anzi irragionevolmente godendone.
Quella lì era una di quelle volte. Invece di sprofondare nell’imbarazzo, lo studioso inglese si lasciava colare addosso l’elogio funebre del rettore Bolder cn totale e sapiente naturalezza.
Benché gli altoparlanti dell’Aula Magna diffondessero frasi tipo “con trascinante passione e inarrivabile rigore intellettuale” oppure ” last but not least, ha accettato la presidenza onoraria dell’Alleanza Latina, carica già ricoperta da”, lui sembrava al riparo da qualsiasi vergogna, e per così dire blindato in una sua collaudata camera iperbarica. Aveva messo su un immutabile sguardo che fissava il niente davanti a sé, ma lo faceva con nobile e ferma determinazione; lo sosteneva un mento leggermente sollevato, e lo suffragava qualche ruga che arava la fronte, documentando un sereno stato di concentrazione. Le mascelle, a intervalli regolari, si serravano appena, inasprendo il profilo del volto e lasciando indovinare una sotterranea vitalità mai doma. Molto raramente, lo studioso inglese deglutiva, ma come un altro avrebbe potuto voltare una clessidra: con gesto elegante introduceva un’immobilità in un’altra immobilità, suggerendo l’impressione di una pazienza che da sempre duellava col tempo, ogni volta vincendo. Il tutto finiva per allestire una figura pressoché perfetta che ostentava simultaneamente nitida forza e distratta lontananza: usando la prima per autenticare le lodi del rettore Bolder e la seconda per alleggerirle dal peso della piaggeria e della volgarità. Grande. A un certo punto, proprio mentre il rettore Bolder parlava della sua attività didattica (“sempre in mezzo agli studenti, ma come un primus inter pares“) lo studioso inglese superò se stesso: abbandonò d’improvviso la sua camera iperbarica, si tolse gli occhiali, chinò leggermente il capo, come vinto da una imprevista venatura di stanchezza, portò il pollice e l’indice della mano destra verso gli occhi e, calate le palpebre, si concesse una circolare e leggera pressione sui bulbi oculari, umanissimo gesto in cui l’intera platea poté vedere, riassunti, tutti i momenti di dolore, disillusione e fatica che una vita di successi non aveva cancellato e la cui memoria ora, davanti a tutti, lo studioso inglese desiderava tramandare. Fu molto bello. Poi, come risvegliandosi da un sogno, rialzò d’improvviso la testa, si infilò gli occhiali con gesto rapido ma preciso e infine riassunse la perfetta immobilità di prima, tornando a fissare il nulla davanti a sé, con la forza di chi ha conosciuto il dolore, ma non ne è stato sconfitto.
Fu precisamente a quel punto che il prof. Mondrian Kilroy si mise a vomitare. Era seduto in terza fila, e si mise a vomitare.
A parte piangere una cosa che ormai faceva spesso e con un certo piacere, il prof. Mondrian Kilroy aveva iniziato a vomitare, di tanto in tanto, e questo, ancora una volta, aveva a che fare con i suoi studi e in particolare con un saggio che gli era accaduto di scrivere e che egli, curiosamente, definiva “la confutazione definitiva e salvifica di qualsiasi cosa io abbia scritto, scriva o scriverò”.
In effetti era un saggio molto particolare. Mondrian Kilroy ci aveva lavorato per quattordici anni, senza mai prendere un appunto. Poi, un giorno, mentre era chiuso in una cabina di video porno in cui schiacciando dei tasti numerati potevi scegliere tra 212 programmi diversi, aveva capito di aver capito, era uscito dalla cabina, aveva preso un dépliant che spiegava le tariffe della “sala contact”, e, sul retro, aveva scritto il saggio. L’aveva scritto lì, in piedi, appoggiato alla cassa. Non ci aveva messo più di due minuti: il saggio consisteva in una breve sequenza di sei tesi. La tesi più lunga non superava le cinque righe. Poi era tornato nella cabina, perché aveva ancora tre minuti di visione pagata, e gli spiaceva buttarli via. Cliccava a casaccio sui pulsanti. Quando finiva sui video gay, si incazzava.
La cosa potrà sembrare sorprendente ma il saggio in questione non riguardava l’argomento preferito dal prof. Mondrian Kilroy, e cioè gli oggetti curvi. No. Stando alla realtà dei fatti, il saggio 90
si intitolava così:
SAGGIO SULL’ONESTA’ INTELLETTUALE.
Poomerang, che ne era un grande ammiratore e praticamente lo conosceva a memoria, ne aveva riassunto una volta il contenuto così:
Se un ladro di banche va in galera, perché gli intellettuali girano a piede libero?
Va detto che, con le banche, Poomerang “aveva un conto in sospeso” (la frase era di Shatzy, lei la trovava geniale). Le detestava, anche se non era chiaro il perché. Per un certo periodo si era impegnato in una campagna educativa contro l’abuso del Bancomat. Insieme a Diesel e Gould masticava chewingum in continuazione e poi li attaccava, ancora caldi, sulla pulsantiera degli sportelli automatici. Di solito li attaccava sul pulsante del 5. La gente arrivava, poi al momento di comporre il codice segreto si accorgeva del chewingum. Se non aveva il 5 andava avanti, guardando bene dove metteva le dita. Se aveva il 5 finiva nel panico. Lo spasmodico bisogno di denaro doveva vedersela con lo schifo che faceva quella gomma masticata. Alcuni cercavano di staccare la roba appiccicaticcia con oggetti di tutti i tipi. Di solito finivano per impiastricciare l’intera tastiera. Una minoranza rinunciava e se ne andava. È triste dirlo, ma i più deglutivano forte e poi schiacciavano col dito sul chewingum. Una volta Diesel vide una signora non molto fortunata che aveva nel suo codice segreto tre 5 di fila. Schiacciò il primo con grande dignità e il secondo facendo una strana smorfia con la bocca. Al terzo si mise a vomitare.
A proposito: la prima tesi del Saggio sull’onestà intellettuale recitava così: 1. Gli uomini hanno idee.
- Geniale - commentò Shatzy.
- È solo l’inizio, signorina. E poi, guardi che non è affatto ovvio. Uno come Kant, per dire, non gliela farebbe passare così facilmente.
- Kant?
- È un tedesco.
- Ah.
- Devo lavare anche qui?
- Faccia vedere.
Ogni tanto, quando lavavano la roulotte, veniva anche il prof. Mondrian Kilroy. Dopo la faccenda del purè di Vancouver, erano diventati amici, lui e Gould. E al professore piacevano molto anche gli altri, Shatzy, il gigante e il muto. Lavando, chiacchieravano. Uno degli argomenti preferiti era il Saggio sull’onestà intellettuale. Era un tema che li prendeva.
1. Gli uomini hanno idee.
Il prof. Mondrian Kilroy diceva che le idee sono come galassie di piccole intuizioni, e sosteneva che sono una cosa confusa, che si modifica in continuazione ed è sostanzialmente inutilizzabile a fini pratici. Sono belle, ecco tutto, sono belle. Ma sono un casino. Le idee, se sono allo stato puro, sono un meraviglioso casino. Sono apparizioni provvisorie di infinito, diceva. Le idee chiare e distinte, aggiungeva, sono un’invenzione di Cartesio, sono una truffa, non esistono idee chiare, le idee sono oscure per definizione, se hai un’idea chiara, quella non è un’idea.
- E cos’è, allora?
Tesi numero 2, ragazzi.
La tesi numero 2 recitava così:
2. Gli uomini esprimono idee.
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Questo è il guaio, diceva il prof. Mondrian Kilroy. Quando esprimi un’idea le dai un ordine che essa in origine non possiede. In qualche modo le devi dare una forma coerente, e sintetica, e comprensibile dagli altri. Finché ti limiti a pensarla, essa può rimanere il meraviglioso casino che è.
Ma quando decidi di esprimerla inizi a scartare qualcosa, a riassumere un’altra parte, a semplificare questo e tagliare quello, a ordinare il tutto dandogli una certa logica: ci lavori un po’, e alla fine hai qualcosa che la gente può capire. Un’idea “chiara e distinta”. All’inizio cerchi di fare le cose per bene: cerchi di non buttare via troppa roba, vorresti salvare tutto l’infinito dell’idea che avevi in testa. Ci provi. Ma quelli non ti lasciano il tempo, ti stanno addosso, vogliono capire, ti aggrediscono.
- Quelli chi?
- Gli altri, tutti gli altri.
- Ad esempio?
- La gente. La gente. Tu esprimi un’idea e c’è della gente che l’ascolta. E vuole capire. O
peggio ancora vuole sapere se è giusta o sbagliata. È una perversione.
- Cosa dovrebbe fare? Bersela e basta?
- Non so cosa dovrebbe fare, ma so quello che fa, e per te, che avevi un’idea, e adesso sei lì che cerchi di esprimerla è come essere aggredito. Con una velocità impressionante pensi solamente a renderla più compatta e forte possibile, per resistere all’aggressione, perché ne esca viva, e usi tutta la tua intelligenza per farne una macchina inattaccabile, e più ti riesce meno ti accorgi che quello che stai facendo, quello che realmente stai facendo in quel momento, è perdere contatto a poco a poco, ma con velocità impressionante, dall’origine della tua idea, dal meraviglioso istintivo casino infinito che era la tua idea, e questo per il solo misero scopo di esprimerla e cioè di fissarla in un modo abbastanza forte e coerente e raffinato da resistere all’onda d’urto del mondo intorno, alle obiezioni della gente, alla faccia ottusa di quelli che non hanno capito bene, alla telefonata del tuo capo dipartimento che…
- Si fredda, professore.
Spesso ne parlavano mangiando, perché al prof. Mondrian Kilroy piaceva la pizza come la faceva Shatzy, e così, soprattutto il sabato, si mangiava la pizza. La quale, fredda, era immangiabile.
2. Gli uomini esprimono idee.
Ma non sono più idee, sbottava il prof. Mondrian Kilroy. Sono detriti di idee organizzati magistralmente fino a diventare oggetti solidissimi, meccanismi perfetti, macchine da guerra. Sono idee artificiali. Hanno giusto una lontana parentela con quel meraviglioso e infinito casino da cui tutto era iniziato, ma è una parentela quasi impercettibile, come un lontano profumo. In realtà è tutta plastica, roba artificiale, nessun rapporto con la verità, solo marchingegni per fare bella figura in pubblico. Il che, secondo lui, introduceva necessariamente alla tesi n. 3. Che recitava così: 3. Gli uomini esprimono idee che non sono loro.
- Vuole scherzare?
- Sono serissimo.
- Come fanno a esprimere idee che non sono loro?
- Diciamo che non sono più loro. Lo erano. Ma molto rapidamente gli scappano di mano e diventano creature artificiali che si sviluppano in modo quasi autonomo, e hanno un solo obbiettivo: sopravvivere. L’uomo presta loro la sua intelligenza ed esse la usano per diventare sempre più solide e precise. In un certo senso, l’intelligenza umana lavora costantemente per dissipare il meraviglioso infinito caos delle idee originarie e sostituirlo con l’inossidabile compiutezza di idee artificiali.
Erano apparizioni: adesso sono oggetti che l’uomo impugna, e conosce alla perfezione, ma non saprebbe dire da dove vengono e in definitiva che diavolo di rapporto abbiano ormai con la verità.
In un certo senso non gliene frega nemmeno più tanto. Funzionano, resistono alle aggressioni, 92
riescono a scardinare le debolezze altrui, non si rompono quasi mai: perché farsi tante domande?
L’uomo le guarda, scopre il piacere di impugnarle, di usarle, di vederle in azione. Prima o poi, è inevitabile, impara che le si può usare per combattere. Non ci aveva mai pensato, prima. Erano apparizioni: aveva giusto pensato di farle vedere agli altri, tutto lì. Ma col tempo: più niente di quel desiderio originario si salva. Erano apparizioni: l’uomo ne ha fatto delle armi.
Questo era il passaggio che piaceva di più a Shatzy. Erano apparizioni: l’uomo ne ha fatto delle armi.
- Sa cosa penso spesso, professore?
- Dica, signorina.
- I pistoleri, i pistoleri del West, ha presente?
- Sì.
- Be’, sparavano da dio, sapevano tutto delle loro pistole, ma se lei ci pensa bene, be’: nessuno di loro avrebbe saputo costruirla, una pistola. Capisce?
- Continui.
- Voglio dire: una cosa è usare un’arma, un’altra è inventarla, o costruirla.
- Esatto, signorina.
- Non so cosa significhi, ma ci penso spesso.
- Fa benissimo, signorina.
- Lei crede?
- Ne sono assolutamente sicuro.
- D’altronde, Gould, se ci pensi, guarda cosa succede nella testa di un uomo quando esprime un’idea e qualcuno, di fronte a lui, solleva un’obiezione. Credi che quell’uomo abbia il tempo, o l’ onestà, di tornare all’apparizione che un giorno fu l’origine di quella idea e controllare, laggiù, se per caso l’obiezione non sia sensata? Non lo farà mai. È molto più veloce affinare l’idea artificiale che si è trovato tra le mani in modo che possa resistere all’obiezione e magari trovare il modo di passare all’attacco e aggredire, a sua volta, l’obiezione. Cosa c’entra il rispetto della verità in tutto questo? Niente. È un duello. Stanno stabilendo chi è il più forte. Non vogliono usare altre armi, perché non le sanno usare: usano le idee. Sembra che l’obbiettivo di tutto quello sia chiarire la verità, ma in realtà quello che entrambi vogliono è stabilire chi è il più forte. È un duello. Sembrano brillanti intellettuali, ma sono animali che difendono il territorio, si contendono una femmina, si procurano il cibo. Stammi a sentire, Gould: non troverai mai niente di più selvaggio e primitivo di due intellettuali che duellano. E niente di più disonesto.
Anni dopo, quando tutto era ormai accaduto e non c’era più niente da fare, Shatzy e il prof.
Mondrian Kilroy si incontrarono in una stazione dei treni, per caso. Era un bel po’ che non si vedevano. Se ne andarono a bere qualcosa insieme e parlarono dell’università, e di cosa stava facendo Shatzy, e del fatto che il professore aveva smesso di insegnare. Si vedeva che gli sarebbe piaciuto riuscire a parlare di Gould, e di quel che gli era successo, ma era un po’ troppo difficile. A un certo punto rimasero per un po’ in silenzio, e solo allora il prof. Mondrian Kilroy disse
- È buffo, ma quel che penso di quel ragazzo è che è la sola persona onesta che ho incontrato, in tutta la mia vita. Era un ragazzo onesto. Mi crede?
Shatzy fece sì col capo, e pensò che forse quello era il nocciolo di tutto, e ogni storia andava al suo posto se solo uno si sforzava di ricordarsi che Gould, più di ogni altra cosa, era un genio onesto.
Poi, quella volta, finì che il professore si alzò e prima di andarsene abbracciò Shatzy, un po’
goffamente, ma forte.
- Non ci faccia caso se piango, non sono triste, non sono triste per Gould.
- Lo so.
- È che piango spesso. È così.
- Non si preoccupi professore, a me piacciono quelli che piangono.
- Meglio così.
- Sul serio. Mi son sempre piaciuti.
Non si videro più, dopo quel giorno.
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Comunque, dopo la tesi n. 3 (Gli uomini esprimono idee che non sono loro), veniva, con una certa coerenza, la tesi n. 4. Che recitava così:
4. Le idee, una volta espresse e dunque sottoposte alla pressione di un pubblico, diventano oggetti artificiali privi di un reale rapporto con la loro origine. Gli uomini le affinano con tale ingegno da renderle micidiali. Col tempo scoprono di poterle usare come armi. Non ci pensano su un attimo. E sparano.
- Grande - diceva Shatzy.
- Un po’ lunga, mi è venuta un po’ lunga, devo lavorarci ancora un po’ -, sosteneva il prof.
Mondrian Kilroy.
- Secondo me potrebbe andare anche soltanto così: Le idee: erano apparizioni adesso sono armi.
- Un po’ sintetico, non crede signorina?
- Lei dice?
- Guardi che si tratta di una tragedia, una vera tragedia. Bisogna stare attenti a riassumerla in due parole.
- Una tragedia?
Il professore masticava la pizza e annuiva. Lui era in effetti convinto che si trattasse di una tragedia. Aveva anche pensato di dare un sottotitolo, al Saggio, e il sottotitolo avrebbe dovuto essere: Analisi di una tragedia necessaria. Poi aveva pensato che i sottotitoli sono una cosa ripugnante, come le calze bianche, o i mocassini grigi. Solo i giapponesi avevano mocassini grigi.
Era possibile d’altronde che avessero dei disturbi agli occhi, e fossero assolutamente convinti di avere mocassini marroni. Nel qual caso era assolutamente urgente avvertirli dell’equivoco.
Sai, Gould, ci ho messo anni a rassegnarmi all’evidenza. Non ci volevo credere. Sulla carta è talmente bello, e unico e irripetibile il rapporto con la verità, e quella magia delle idee, magnifiche apparizioni di confuso infinito nella tua mente… Come è possibile che tutti scelgano di rinunciare a tutto questo, di rinnegarlo, e accettino di armeggiare con piccole insignificanti idee artificiali piccole meraviglie di ingegneria intellettuale, per carità ma alla fine gingilli, miseri gingilli, capolavori di retorica e acrobazie logiche, ma gingilli, alla fine, macchinette, e tutto questo solo per il gusto irrefrenabile di combattere? Non riuscivo a crederci, pensavo che ci fosse qualcosa sotto, qualcosa che mi sfuggiva, e invece, alla fine, ho dovuto ammettere che era tutto molto semplice, e inevitabile, e perfino comprensibile, se solo si vinceva la ripugnanza e si andava a vedere da vicino la faccenda, proprio da vicino, anche se ti fa schifo, prova a vederla da vicino. Prendi uno che ci campa, con le idee, un professionista, che ne so, uno studioso, uno studioso di qualcosa, okay? Avrà iniziato per passione, sicuramente ha iniziato perché aveva del talento, era uno di quelli che hanno apparizioni di infinito, possiamo immaginare che le aveva avute da giovane, e che ne era rimasto fulminato.
Avrà provato a scriverle, prima magari ne avrà parlato con qualcuno, poi un giorno avrà pensato che era in grado di scriverle, e si sarà messo lì, con tutta la buona volontà, e le avrà scritte, ben sapendo che sarebbe riuscito solo ad appuntare una minima parte di quell’infinito che aveva in testa, ma pensando che poi avrebbe avuto tempo di approfondire il discorso, che so, di spiegarsi meglio, di raccontare poi tutto per bene. Scrive e la gente legge. Persone che lui nemmeno conosceva iniziano a cercarlo per saperne di più, altri lo invitano a convegni in cui poterlo attaccare, lui si difende, sviluppa, corregge, aggredisce a sua volta, inizia a riconoscere un piccolo popolo intorno a lui che sta dalla sua parte e un fronte di nemici davanti a sé che lo vuole distruggere: inizia a esistere, Gould. Non ha tempo di accorgersene ma tutto quello finisce per appassionarlo, gli piace la lotta, scopre cosa significa entrare in un’aula sotto lo sguardo adorante di un po’ di studenti, vede il rispetto negli occhi della gente normale, si sorprende a desiderare l’odio di qualche personaggio famoso, finisce per andarselo a cercare, lo ottiene, magari tre righe in una nota di un libro su tutt’altro, ma tre righe che trasudano livore, lui ha la furbizia di citarle in un’intervista per qualche rivista di settore, e qualche settimana dopo, su un giornale, si trova ormai etichettato come l’avversario del famoso professore, c’è anche una foto, su quel giornale, una sua foto, lui vede una 94
sua foto su un giornale, e la vedono anche molti altri, è una cosa graduale ma ogni giorno che passa lui e la sua idea artificiale diventano un tutt’uno che si fa largo nel mondo, l’idea è come il carburante, lui è il motore, si fanno strada insieme, ed è una cosa, Gould, che lui neanche si immaginava, questo devi capirlo bene, lui non si aspettava che succedesse tutto quello, non lo voleva neanche, ad essere precisi, ma adesso è accaduto, e lui esiste nella sua idea artificiale, idea sempre più lontana dalla originaria apparizione di infinito perché mille volte nel frattempo revisionata per poter reggere alle aggressioni, ma idea artificiale solida e permanente, collaudata, senza la quale lo studioso cesserebbe all’istante di esistere e sarebbe inghiottito, di nuovo, dalla palude di un’esistenza ordinaria. Detta così, sembra una cosa neanche troppo grave essere inghiottiti di nuovo dalla palude di un’esistenza ordinaria e io per anni non sono riuscito a capirne la gravità, ma il segreto è avvicinarsi ancora, guardare da vicino, lo so che fa schifo, ma bisogna che tu mi segua fin lì, Gould, turati il naso e vieni a vedere da vicino, lo studioso, lui, sicuramente aveva un padre, guardalo più da vicino, un padre severo, stupidamente severo, intento per anni a piegare il figlio facendogli pesare la sua continua e sfrontata inadeguatezza, e questo fino al giorno in cui vede il nome di suo figlio su un giornale, stampato su un giornale, non importa perché, sta di fatto che gli amici iniziano a dirgli “Complimenti, ho visto tuo figlio sul giornale”, fa schifo, vero?, ma lui ne è impressionato, e il figlio trova ciò che non aveva mai avuto la forza di trovare, cioè una tardiva vendetta, ed è una cosa enorme, questa, poter guardare tuo padre dritto negli occhi, non c’è prezzo per un riscatto come questo, cosa vuoi che sia armeggiare un po’ con le tue idee, dimentico ormai di qualsiasi reale nesso con la loro origine, davanti al fatto di poter essere figlio di tuo padre, finalmente, figlio regolarmente autorizzato e approvato? Non c’è prezzo troppo alto per il rispetto di tuo padre, credimi, e neppure a ben pensarci per la libertà che il nostro studioso trova nei primi soldi, soldi veri, che una cattedra strappata a una università periferica inizia a fargli cadere nelle tasche, sottraendolo al quotidiano dettato dell’indigenza, e indirizzandolo sul piano inclinato di piccoli lussi che infine, alla fine, finalmente convergono nella agognata casa in collina con studio e libreria, un’inezia, in teoria, ma un’enormità, invero, quando assurge, nel reportage del giornalista di turno, a covo defilato dello studioso che in essa trova ricovero dalla scintillante vita che lo assedia, vita invero più che altro immaginaria, ma lì, nella realtà del ricovero, improvvisamente dimostrata, e dunque vera, e dunque stampata per sempre nella mente del pubblico, che da quell’istante avrà per lo studioso uno sguardo di cui lui non potrà più fare a meno, perché è uno sguardo che rinunciando a qualsiasi verifica regala, a priori, rispetto e considerazione e impunità. Ne puoi fare a meno quando non lo conosci. Ma dopo? Quando l’hai visto negli occhi del vicino d’ombrellone, e di quello che ti vende la macchina, e dell’editore che mai avresti pensato nemmeno di conoscere, e dell’attrice di sceneggiati televisivi e una volta, in montagna dal Ministro, lui in persona? Fa vomitare, vero?
Meglio, significa che siamo vicini al cuore delle cose. Senza pietà, Gould. Non è il momento di arrendersi. Si può andare ancora più vicino. La moglie. La moglie dello studioso, sua compagna di condominio, all’età di dodici anni, amata da sempre, sposata poi per automatismo e legittima difesa dalle incurie del destino, moglie sbiadita, simpatica, mai passionale, una buona moglie, adesso moglie di un professore affermato e della sua micidiale idea artificiale, moglie felice in fondo, guardala bene. Quando si sveglia. Quando esce dal bagno. Guardala. La vestaglia, tutto. Guardala. E
poi guarda lui, lo studioso, non molto alto, sorriso triste, forfora a scaglie, non che ci sia niente di male, ma ce l’ha, belle mani, quelle sì, mani affusolate e pallide che immancabilmente appaiono accoppiate al mento nelle foto d’ordinanza, mani belle, il resto impietoso, bisogna che fai uno sforzo, Gould, e cerchi di vederlo nudo, uno così, è importante che tu lo veda nudo, credimi, bianchiccio e molle, con muscoli evanescenti e in mezzo all’inguine miti pretese, quali chances può avere un animale maschio di quel tipo nella quotidiana lotta per l’accoppiamento, chances scarsissime, modeste, non c’è santo, e così sarebbe, in effetti, se non fosse che l’idea artificiale ha trasformato l’animale destinato a soccombere in un lottatore e, alla lunga, perfino in un capo branco, con tanto di cartella di cuoio e passo conformatosi a estetizzante simulata zoppia, che ora se guardi bene scende la gradinata dell’università e viene avvicinato da una studentessa che un po’
timidamente si presenta e parlando rotola insieme a lui fino alla strada e poi giù per il piano inclinato di un’amicizia sempre più appiccicosa, da far schifo solo a pensarci, ma così utile da 95
guardare, fino in fondo, per quanto rivoltante possa essere, utile da studiare, imparandola fino all’apoteosi finale quando nel monolocale di lei, una stanza affittata con un grande letto e coperta peruviana, lui ottiene di salire, con la sua cartella e la sua forfora a scaglie, con la scusa di correggere una bibliografia, e in ore di estenuante occultato corteggiamento sfalda la tardiva resistenza della ragazza con le tenaglie e il bisturi della sua idea artificiale, e in virtù di una rubrichetta che da alcune settimane tiene su un settimanale trova il coraggio, e in certo modo il diritto, di appoggiare una mano, una delle sue bellissime mani, sulla pelle di quella ragazza, una pelle che nessun destino gli avrebbe mai consegnato, ma che la sua idea artificiale ora gli regala, insieme a quella camicetta che si apre, alla lingua che irragionevolmente socchiude le sue labbra sottili grigiastre, al respiro femmina affannoso nelle orecchie, e all’abbacinante scorcio di una mano giovane, abbronzata e bella, stretta intorno al suo sesso, incredibile. Pensi che ci sia un prezzo, per tutto questo? Non c’è, Gould. Pensi che sarebbe mai capace quell’uomo di rinunciare a tutto questo solo per il puntiglio di essere onesto, di rispettare l’infinito delle sue idee, di tornare a domandarsi cosa sia vero e cosa no? Pensi che accadrà mai più a quell’uomo di chiedersi, anche in segreto, anche in solitudine assoluta e impenetrabile, se la sua idea artificiale ha ancora qualcosa a che vedere con la verità, con la sua origine? Pensi che sarebbe mai capace di un solo istante, anche segreto, di onestà? No. (Tesi n. 5: Gli uomini usano le idee come armi, e in questo gesto se ne allontanano per sempre.) È così lontano, ormai, da lui, il punto da cui era partito, ed è da così tanto tempo che lui non abita più le sue idee, onestamente, con semplicità e in pace. Non è un’onestà che puoi ricostruire dopo che l’averla tradita ti ha regalato un’esistenza, un’intera esistenza, a te che potevi anche non esistere, per anni, fino a schiattare. Non la restituisci, una vita intera, dopo averla rapinata al destino, solo perché un giorno, guardandoti allo specchio, ti fai schifo. Morirà disonesto, ma almeno morirà di una qualche vita, il nostro professore.
Lo diceva, ovviamente, commuovendosi un po’. Non è che proprio piangesse. Ma insomma, occhi lucidi e qualcosa in gola, quelle cose lì. Era fatto così.
Una volta Poomerang chiese al prof. Mondrian Kilroy perché non lo pubblicava, il Saggio sull’onestà intellettuale. Nondisse che se ne poteva fare un libro bello spesso. Tutte pagine bianche e qui e là le sei tesi, dove capitava, il prof. Mondrian Kilroy disse che era una buona idea, ma pensava di non pubblicarlo mai, quel saggio, perché sotto sotto aveva il dubbio che fosse di un’ingenuità pazzesca. Lo trovava infantile. Diceva anche che in certo modo, però, gli piaceva proprio perché era a un pelo dall’essere un’ingenuità pazzesca, e una cosa infantile, ma non riusciva poi a esserlo mai completamente e stava per così dire in bilico, e questo gli dava il sospetto che fosse, in realtà, un’idea, nel senso pieno del termine. Nel senso onesto del termine. Poi diceva che in realtà, a dirla tutta, non ci capiva più un cazzo. E chiedeva se c’era ancora pizza.
La cosa certa era che ormai vomitava sempre più spesso, non per la pizza, ma ogni volta che finiva troppo vicino a studiosi o intellettuali vari. Alle volte gli bastava leggere un articolo sul giornale, o un risvolto di copertina. Il giorno dello studioso inglese, ad esempio, quello con lo sguardo fisso nel nulla, gli sarebbe piaciuto restare ad ascoltare, era curioso di sentirlo parlare e tutto, ma gli era stato completamente impossibile, e alla fine aveva vomitato, facendo un gran casino, oltretutto, tanto che poi era dovuto andare dal rettore a scusarsi, e per scusarsi non gli era venuto in mente nient’altro che ripetere ossessivamente la frase: Guardi che è una brava persona, sono sicuro che è una brava persona.
Si riferiva allo studioso inglese. Il rettore Bolder lo osservava allibito. Guardi che è una brava persona, sono sicuro che è una brava persona. Anche il giorno dopo, mentre stavano lì a lavare la roulotte, non la smetteva più con quella storia che era una brava persona. A Gould sembrava un’idiozia.
- Se fosse una brava persona non la farebbe vomitare.
- Non è così semplice, Gould.
- Ah no?
- Assolutamente no.
Gould lavava le ruote. Più di ogni altra cosa gli piaceva lavare le ruote. Gomma nera lucida insaponata. Un godere.
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Ci ho pensato, ci ho pensato a lungo, Gould, e con tutta la durezza di cui sono stato capace, ma alla fine ho capito che per quanto osceno sia il modo con cui gli uomini abbandonano la verità dedicandosi alla maniacale cura di idee artificiali con cui sbranarsi a vicenda, per quanto mi faccia schifo ormai qualsiasi cosa che puzza di idee, e per quanto io non riesca obbiettivamente a non vomitare di fronte alla quotidiana esibizione di questa lotta primitiva travestita da onesta ricerca della verità per quanto sconfinato sia il mio disgusto io devo dire: è giusto così, è schifosamente giusto così, è semplicemente umano, è quello che deve essere, è la merda che ci spetta, l’unica merda di cui siamo all’altezza. L’ho capito guardando i migliori. Da vicino, Gould, bisogna avere il coraggio di guardarli da vicino. Li ho visti: erano disgustosi e giusti, lo capisci cosa voglio dire?, disgustosi ma inesorabilmente innocenti, volevano solo esistere, puoi togliergli questo diritto?, volevano esistere. Prendi quelli degli alti ideali, quelli con le idee nobili, quelli che delle loro idee hanno fatto una missione, quelli al di sopra di ogni sospetto. Il prete. Prendi il prete. Non quello qualunque. L’altro, quello che sta dalla parte dei poveri, o dei deboli, o degli esclusi, quello con il maglione e le Reebok, quello lì, avrà iniziato con una qualche accecante apparizione caotica di infinito, qualcosa che nella penombra della sua giovinezza gli avrà dettato vagamente l’imperativo di prendere posizione, e il suggerimento della parte in cui stare, tutto sarà iniziato come deve iniziare, in un modo onesto, ma poi, santo Iddio, quando te lo ritrovi adulto e famoso, cristo, famoso, fa senso già a dirlo, famoso, con il nome sui giornali e le foto, con il telefono che squilla in continuazione perché i giornalisti gli devono chiedere la sua, su questo e quello, e lui risponde, porca troia, risponde, e partecipa, e sfila in testa ai cortei, il telefono dei preti non squilla, Gould, voglio dirtelo con tutta la crudeltà necessaria, tu non lo puoi sapere ma il telefono dei preti non squilla perché la loro vita è un deserto, è programmaticamente un deserto, una specie di parco naturale protetto, dove la gente può guardare ma da lontano, loro sono animali da parco naturale, nessuno li può toccare, puoi immaginare questo, Gould?, per i preti è un problema anche solo farsi toccare, l’hai mai visto un prete che bacia un ragazzino o una signora, solo per salutarli, mica per altro, una cosa da nulla, normale, ma lui non lo può fare, la gente intorno immediatamente avrebbe come un senso di disagio e di imminente violenza, e questa è la quotidiana durissima condizione del prete in questo mondo, lui che pure sarebbe un uomo come gli altri, e invece si è scelto quella solitudine vertiginosa, che non avrebbe via d’uscita, nulla, se non fosse che un’idea, un’idea perfino giusta, cade da fuori a mutare quel panorama, a restituirgli un tepore di umanità, un’idea che, usata per bene, raffinata, revisionata, tenuta al riparo da rischiosi confronti con la verità, conduce il prete fuori dalla sua solitudine, semplicemente, e poco a poco fa di lui quell’uomo che è adesso, circondato di ammirazione, e voglia di avvicinarsi, e perfino desiderio allo stato puro, un uomo con il maglione e le Reebok, mai solo, si muove imbacuccato di figli e fratelli, mai disperso perché costantemente collegato a qualche terminale dei media, ogni tanto tra la folla acchiappa al volo gli occhi di una donna carichi di desiderio, pensa cosa può significare questo per lui, quella vertiginosa solitudine e questa vita esplosa, c’è da stupirsi se è disposto a morire per la sua idea?, lui esiste in quell’idea, cosa significa morire per quell’idea?, lui sarebbe comunque morto se gliela togliessero, lui si salva in quell’idea, e il fatto che in essa salvi centinaia e magari migliaia di suoi simili non cambia di una virgola la faccenda, e cioè che lui salva innanzitutto se stesso, con l’alibi accessorio di salvare gli altri, rapinando al suo destino quella necessaria dose di riconoscimento e ammirazione e desiderio che lo rende vivo, vivo, Gould, capisci bene questa parola, vivo, vogliono solo essere vivi, anche i migliori, quelli che costruiscono giustizia, progresso, libertà, futuro, anche per loro è tutta una faccenda di sopravvivenza, vagli più vicino che puoi, se non ci credi, guarda come si muovono, chi hanno intorno, guardali e prova a immaginare cosa sarebbe di loro se per caso un giorno si svegliassero e cambiassero idea, semplicemente, cosa rimarrebbe di loro, prova a estorcergli una risposta una che non sia una istintiva autolegittimazione, vedi se riesci anche una sola volta a sentirli pronunciare la loro idea con lo stupore e l’esitazione di uno che la scopre in quel momento e non con la sicurezza di uno che ti sta mostrando orgoglioso la devastante efficacia dell’arma che impugna, non farti fregare dall’apparente mitezza del tono, dalle parole che scelgono, astutamente miti, stanno lottando, Gould, lottano con i denti per la sopravvivenza, per il cibo, la femmina, la tana, sono animali, e sono i migliori, capisci?, cosa puoi aspettarti di diverso dagli altri, dai piccoli 97
mercenari dell’intelligenza, dalle comparse della grande lotta collettiva, dai piccoli guerrieri vili che sgraffignano detriti di vita ai margini del grande campo di battaglia, commoventi spazzini di salvezze irrisorie, ognuno con la sua ideina artificiale, il primario a caccia di finanziamenti per pagare il college del figlio, il vecchio critico a lenire l’abbandono della sua vecchiaia con quaranta righe a settimana scagliate dove facciano un po’ rumore, lo scienziato e il suo purè di Vancouver con cui cibare di orgoglio moglie figli amanti, le penose comparsate in televisione dello scrittore che ha paura di scomparire tra un libro e l’altro, il giornalista che pugnala a casaccio in prima pagina per essere sicuro di esistere almeno per 24 ore ancora, stanno solo lottando, lo capisci?, lo fanno con le idee perché non sanno usare altro, ma la sostanza non cambia, è lotta, e sono armi le loro idee, e per quanto faccia schifo ammetterlo, è nel loro diritto, la loro disonestà è una logica deduzione da un bisogno primario, e dunque necessario, il loro schifoso quotidiano tradimento della verità è la naturale conseguenza di uno stato naturale di indigenza che va accettato, non si chiede a un cieco di andare al cinema, non si può chiedere a un intellettuale di essere onesto, non credo, veramente, che glielo si possa chiedere, per quanto sia deprimente ammetterlo, ma il concetto stesso di onestà intellettuale è un ossimoro.
6. L’onestà intellettuale è un ossimoro,
o comunque un compito altamente proibitivo e forse disumano, tanto che nessuno, in pratica, si sogna nemmeno di assolverlo, accontentandosi, nei casi più ammirevoli, di fare le cose con un certo stile, una certa dignità, diciamo con buon gusto, ecco, il termine esatto sarebbe con buon gusto, alla fine ti viene da salvare quelli che riescono quanto meno a fare le cose con buon gusto, con un certo pudore, quelli che almeno non sembrano fieri della merda che sono, non così fieri, non così maledettamente fieri, non così impunemente, strafottentemente fieri. Dio che nausea.
- Qualcosa che non va, professore?
- Mi stavo chiedendo…
- Dica professore.
- Di preciso, cosa sto lavando?
- Una roulotte.
- Voglio dire: di preciso, qual è il ruolo di questo oggetto giallo nel vostro ecosistema?
- Per adesso la funzione di questo oggetto giallo nel nostro ecosistema è di aspettare una macchina.
- Una macchina?
- Le roulotte non vanno da nessuna parte senza una macchina.
- Questo è vero.
- Lei ha una macchina, professore?
- L’avevo.
- Peccato.
- Per essere precisi, l’aveva mio fratello.
- Capita.
- Di avere un fratello?
- Anche.
- In effetti a me è capitato tre volte. A lei?
- No, non mi è mai capitato.
- Mi spiace.
- Perché?
- Mi passa la spugna, per favore?
Parlavano. Gli piaceva.
Una volta Gould, Diesel e Poomerang mollarono lì a un certo punto perché avevano una partita da vedere, giù al campo.
Rimasero il prof. Mondrian Kilroy e Shatzy. Lavarono tutto per bene e poi si sedettero sugli scalini dell’ingresso, a guardare la roulotte gialla.
98
Si dissero delle cose.
A un certo punto il prof. Mondrian Kilroy disse che era strano ma quel ragazzino gli sarebbe maledettamente mancato. Intendeva dire che Gould gli sarebbe maledettamente mancato. Allora Shatzy disse che se voleva potevano portare anche lui via con loro, la roulotte era piccola ma un sistema l’avrebbero trovato. Il prof. Mondrian Kilroy si voltò a guardarla e poi chiese se avevano veramente intenzione di andare fino a Couverney con la roulotte, e di andarci tutti quanti. Al che Shatzy disse
- Couverney?
- Couverney.
- Cosa c’entra Couverney?
- Come cosa c’entra?
- Di cosa stiamo parlando, professore?
- Di Gould.
- E allora che c’entra Couverney?
- È l’università di Gould, no? La nuova università di Gould. Un posto agghiacciante, per inciso.
- Gli hanno chiesto di andare a couverney, gliel’hanno solo chiesto.
- Gliel’hanno chiesto e lui ci va.
- Che io sappia, non lo sa.
- Che io sappia, lo sa benissimo.
- E da quando?
- Me l’ha detto lui. Ha deciso di andarci. Inizia a settembre.
- Quando gliel’ha detto?
Il prof. Mondrian Kilroy se ne stette un po’ a pensare.
- Non lo so. Qualche settimana fa, credo. Non so mai bene quando succedono le cose. A lei non capita mai?
- Signorina…
- …
- Lei sa sempre quando succedono le cose?
- …
- Così, glielo chiedo per curiosità.
- Gould le ha detto veramente che va a Couverney, professore?
- Sì, di questo sono sicuro, l’ha detto anche al rettore Bolder, sa lui vorrebbe fare una festa d’addio, o qualcosa del genere, e Gould preferirebbe evitare, dice che sarebbe…
- Come cazzo sarebbe a dire una festa d’addio?
- È solo un’idea, un’idea del rettore Bolder, lui è un uomo apparentemente duro e inflessibile, ma dentro nasconde un animo sensibile, vorrei quasi dire…
- Ma vi siete tutti bevuti il cervello?
- … vorrei quasi dire…
- Cristo, quel ragazzino ha quindici anni, professore, Couverney è un posto da grandi, uno non è grande quando ha quindici anni, lo è quando ha vent’anni, se uno ha vent’anni è grande e allora eventualmente, se proprio vuole buttare nel cesso la sua vita, può prendere in esame la curiosa eventualità di andarsi a seppellire in un covo di…
- Signorina, desidero ricordarle che quel ragazzino è un genio, non è un…
- Ma chi cazzo l’ha detto?, si può sapere chi l’ha detto?, potrei sapere com’è che avete tutti deciso di punto in bianco che un ragazzino come quello è un genio, un ragazzino che non ha mai visto nient’altro che le vostre maledette aule e la strada per arrivarci, un genio che si piscia addosso quando dorme, e si spaventa se per strada gli chiedono che ora è, e non vede sua madre da anni e suo padre lo sente il venerdì sera al telefono, e non riuscirà mai ad avvicinarsi a una ragazza nemmeno a pregarlo in arabo, che punteggio dà tutto questo? Immagino che dia un punteggio bestiale nell’apposita classifica dei geni, peccato che non balbetti, questo lo renderebbe pressoché irraggiungibile…
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- Signorina, non è il caso di…
- Certo che è il caso, se tutti i professori come lei si ostinano a tenere il cervello nella salamoia del loro…
- … non è affatto il caso di…
- … del loro amor proprio, convinti di aver trovato la gallina dalle uova d’oro e quindi completamente…
- … signorina la invito a….
- … completamente instupiditi da questa storia del Nobel, perché parliamoci chiaro, è lì che volete andare a parare, lei e…
- VUOLE CHIUDERE QUELLA SUA BOCCACCIA DI MERDA?
- Prego?
- Le ho chiesto se vuole per caso chiudere quella sua boccaccia di merda.
- Sì.
- Grazie.
- Prego.
- …
- …
- …
- Signorina, è una circostanza sfortunata, ne convengo, ma quel ragazzino è un genio. Mi creda.
- …
Desidero aggiungere un’altra cosa. Gli uccelli volano. I geni vanno alle università. Per quanto possa sembrare banale, è così. Ho finito.
Mesi dopo, il giorno prima di partire, Shatzy passò a salutare il professor Mondrian Kilroy.
Gould se n’era già andato da un po’. il professore girava in pantofole e continuava a vomitare.
Si vedeva che gli spiaceva veder tutti partire, ma non era il tipo da far pesare le cose. Aveva una formidabile capacità di ammettere la necessità degli avvenimenti, quando accadeva loro di avvenire. Disse a Shatzy un mucchio di sciocchezze, e alcune facevano anche ridere. Poi alla fine andò a prendere qualcosa in un cassetto, e lo diede a Shatzy. Era il dépliant con i prezzi della “sala contact”. Sul retro c’era il Saggio sull’onestà intellettuale.
Mi piacerebbe che lo tenesse lei, signorina.
C’erano le sei tesi, una scritta sotto l’altra, in stampatello, un po’ di sbieco, ma con ordine.
Sotto l’ultima, c’era una nota, scritta con un’altra biro, e in corsivo. Non aveva un numero, prima, niente. Diceva così:
Un’altra vita, saremo onesti. Saremo capaci di tacere.
Era il passaggio che faceva letteralmente sbiellare Poomerang.
Era la cosa che lo faceva impazzire. Non la smetteva mai di ripeterla. La nondiceva a tutti, come se fosse il suo nome.
Shatzy prese il dépliant. Lo piegò in due e se lo infilò in tasca.
Poi abbracciò il professore e tutt’e due fecero un po’ di quei gesti che messi insieme prendono il nome, esatto, di addio. Un addio.
Per anni, poi, Shatzy si portò dietro quel foglio giallo, piegato in quattro, se lo portava sempre dietro, nella borsa, quella con su scritto Salva il pianeta terra dalle unghie dei piedi laccate.
Ogni tanto si rileggeva le sei tesi, e anche la postilla, e sentiva la voce del prof. Mondrian Kilroy che spiegava e si commuoveva, e chiedeva altra pizza. Ogni tanto le veniva voglia di far leggere quella roba a qualcuno, ma in verità non incontrò mai nessuno che fosse ancora così ingenuo da poterci capire qualcosa. Alle volte erano anche intelligenti, e tutto, gente in gamba. Ma si vedeva che era troppo tardi per riportarli indietro, per chiedergli di tornare, anche solo un attimo, a casa.
Alla fine il dépliant giallo e tutto il Saggio sull’onestà intellettuale finì per perderlo, una volta che le si rovesciò la borsa a casa di un medico, di mattino presto, mentre cercava di 100
svignarsela e non trovava più le autoreggenti nere. Fece un sacco di casino e mentre rimetteva la roba dentro la borsa lui si svegliò così lei dovette dire qualche frase idiota, e si distrasse, e andò come doveva andare, il dépliant giallo rimase lì.
Fu un peccato. Davvero.
Sull’altra facciata, dove c’era stampato il tariffario della “sala contact”, c’era tutta una lista di servizi, e l’ultimo, quello più caro, si chiamava “Crossing contact”.
Rimase una delle cose che Shatzy non capì mai: cosa diavolo poteva essere un “Crossing contact”.
23.
Abbiamo al microfono Stanley Poreda, siamo venuti a trovarlo nella palestra in cui si sta allenando per l’imminente incontro con Larry “Lawyer” Gorman, l’incontro è stato annunciato per il 12 del mese, sabato, sulla distanza delle otto riprese. Allora, Poreda… tranquillo?
- Tranquillissimo.
- Sono circolate un sacco di voci a proposito di questo tuo ritorno sul ring…
- Alla gente piace parlare.
- Sono in molti a chiedersi perché un pugile ormai fuori carriera abbia deciso dopo due anni…
- Due anni e tre mesi.
- … due anni e tre mesi, un’eternità, se vogliamo, la gente si chiede perché un pugile che aveva ormai chiuso con la boxe professionistica.
- La gente si chiede cose del cazzo.
- Poreda vuol sicuramente dire che…
- Poreda vuole dire che sono domande del cazzo, torno per i soldi, per cosa dovrei tornare?, la boxe mi ha fatto del male, le vedi le mie braccia, storte, sono storte, per i tanti pugni che ho dato, mi si sono stortate le braccia, la boxe mi ha ridotto così, ma è l’unica cosa che so fare e se qualcuno mi dà dei soldi, se me ne dà tanti, io torno là sopra, e… qual era la fottuta domanda?
- La gente dice che è un incontro combinato.
- Chi lo dice?
- L’hanno scritto sui giornali. E i bookmaker dicono che non prenderanno scommesse fino alla vigilia del match. Neanche loro ci vedono chiaro.
- E quando mai ci vedono chiaro, quelli, mi son divertito a fotterli per anni, quelli, non ci hanno mai capito niente, hanno perso più soldi sui miei incontri che io a pagare i conti della mia ex moglie…
- Vuoi dire che è un incontro pulito?
- … sai la mia ex moglie, no?, quella era un’idrovora di soldi, una cosa impressionante, stava sempre a dire che non aveva i soldi per vestirsi, io non ci credevo, la lasciavo dire, ma lei insisteva, non aveva soldi per vestirsi, be’ ho dovuto crederci quando ho visto le sue foto su Playboy…
- Sarà un incontro pulito, Poreda?
- … su Playboy, capisci?…
- Non vuoi rispondere?
- Senti, finocchio: la boxe non è pulita. E non lo sarà questo fottuto incontro. Aspettatelo sporco. Sangue e merda. Ascolta, finocchietto: io porto la merda. Il sangue lo offre Lawyer. Okay?
Gould si alzò, tirò l’acqua, si rimise i pantaloni del pigiama a posto, si diede un’occhiata allo specchio del lavabo, poi aprì la porta, e uscì. Shatzy era seduta sul gradino più alto della scala. Gli dava la schiena e non si voltò neppure quando iniziò a parlare. Non si voltò nemmeno una volta, fino alla fine.
- Okay Gould, facciamola breve così nessuno si annoia, tu vai a Couverney, io non lo 101
sapevo, adesso lo so, e non importa come ho fatto a saperlo, comunque me l’ha detto il professor Kilroy, lui sì che in un certo senso è una brava persona, chiacchiera giusto un po’ troppo, gli piace chiacchierare, ma non devi avercela con lui, tanto prima o poi sarei venuta a saperlo lo stesso, magari mi avresti mandato un telegramma, o qualcosa del genere, sono sicura che ti sarebbe venuto in mente, diciamo a Natale, o dopo un numero ragionevole di settimane, so che mi avresti avvertita, giusto il tempo di ambientarti, si capisce, non deve essere facile arrivare come paracadutato in una zona di guerra presidiata da cervelli nevrotici e potenzialmente impotenti, circondato da compagni che pagano per studiare dove tu sei pagato per studiare, per quanto uno cerchi di rendersi piacevole è prevedibile una certa riluttanza a trovare intorno grandi sorrisi e pacche sulle spalle, bisognerà tra l’altro spiegare anche questa roba che tu non giochi nella squadra di pallone, non vai al coro, non vai al ballo di fine anno, non vai in chiesa, sei agghiacciato da qualsiasi cosa che sia o sembri un’associazione o un club o qualsiasi cosa che preveda delle riunioni, e inoltre non ti interessa fumare, non fai collezioni di nessun tipo, non ti frega niente di baciare una ragazza, non ti piacciono le automobili, finiranno per chiederti cosa cazzo fai nel tuo tempo libero, al che non sarà facile spiegargli che vai in giro con un gigante e un muto ad attaccare chewingum sui Bancomat, voglio dire non sarà facile che se la bevano, puoi sempre provare a dirgli che vai a vedere le partite di pallone perché il muto ha perso un’azione vista anni fa e deve ritrovarla, questa è vagamente più ragionevole, potrebbero anche fartela passare, io sarei comunque per tenersi sulle generali, un’ottima risposta potrebbe essere Io non ho tempo libero, fa un po’ genio odioso, ma tanto è quello che sempre vorranno pensare di te, che sei un genio odioso, potresti essere Oliver Hardy e penserebbero comunque di te che sei odioso, loro hanno bisogno di pensarlo, li tranquillizza, e presuntuoso, soprattutto questo, tu per loro sarai sempre presuntuoso, anche se andassi in giro a dire Scusatemi, tutto il tempo, scusatemi scusatemi scusatemi, per loro sarai sempre presuntuoso, è il loro modo di far tornare le cose, i mediocri non sanno di essere mediocri, questo è il fatto, proprio in quanto mediocri gli manca la fantasia per immaginare che qualcuno possa essere meglio di loro, e dunque chi di fatto lo è deve averci qualcosa che non va, deve aver barato da qualche parte, o in definitiva deve essere un matto che si immagina di essere migliore di loro, e cioè un presuntuoso, come certamente ti faranno capire molto presto e con sistemi neanche troppo piacevoli, perfino con crudeltà, alle volte, questo è tipico dei mediocri, essere crudeli, la crudeltà è la virtù per eccellenza dei mediocri, hanno bisogno di esercitare la crudeltà, esercizio per cui non è necessaria la minima intelligenza, cosa che li facilita, ovviamente, che gli rende agevole l’operazione, li fa eccellere, per così dire, in quella operazione che è l’essere crudeli, ogni volta che possono, e quindi spesso, più spesso di quanto tu ti possa aspettare, tanto che ti sorprenderanno, questo è inevitabile, la loro crudeltà ti prenderà alle spalle, facilmente accadrà proprio così, che ti prenderà alle spalle e allora non sarà affatto facile, è meglio che tu lo sappia fin da adesso, se ancora non l’hai capito, ti prenderanno alle spalle, io non sono mai propriamente sopravvissuta a niente che mi abbia preso alle spalle, e so che non c’è modo, in definitiva, di difenderti da ciò che ti colpisce alle spalle, è una cosa contro cui non c’è niente da fare, solo continuare per la propria strada, cercando di non cadere, di non fermarsi, tanto nessuno è così idiota da pensare che si possa arrivare, veramente, da qualche parte in un modo diverso che vacillando, e collezionando ferite da tutte le parti, e in particolare alle spalle, sarà così anche per te, e soprattutto per te, volendo, visto che non vuoi toglierti dalla testa questa curiosa idea, questa idea del cazzo, di camminare davanti agli altri, per una strada, oltretutto, che io non voglio dire ma, la scuola e tutto quanto, il Nobel, quella faccenda lì, non puoi pretendere che io veramente la capisca, fosse per me ti legherei alla tazza del cesso fino a quando non ti passa, ma d’altra parte non sono la persona più adatta a capire, non ce l’ho mai avuta questa cosa di camminare davanti agli altri, non so, e poi con la scuola è stato un fallimento, proprio sempre, senza scampo, quindi è naturale che io non ci capisca niente, anche se mi sforzo, mi viene solo in mente quella storia dei fiumi, se proprio voglio trovare qualcosa che mi faccia digerire tutta questa faccenda, finisco per pensare ai fiumi, e al fatto che si son messi lì a studiarli perché giustamente non gli tornava ‘sta storia che un fiume, dovendo arrivare al mare, ci metta tutto quel tempo, cioè scelga, deliberatamente, di fare un sacco di curve, invece di puntare diritto allo scopo, devi ammettere che c’è qualcosa di assurdo, ed è esattamente quello che pensarono anche loro, c’è 102
qualcosa di assurdo in tutte quelle curve, e così si sono messi a studiare la faccenda e quello che hanno scoperto alla fine, c’è da non crederci, è che qualsiasi fiume, non importa dove sia o quanto sia lungo, qualsiasi fiume, proprio qualsiasi fiume, prima di arrivare al mare fa esattamente una strada tre volte più lunga di quella che farebbe se andasse diritto, sbalorditivo, se ci pensi, ci mette tre volte tanto quello che sarebbe necessario, e tutto a furia di curve, appunto, solo con questo stratagemma delle curve, e non questo fiume o quello, ma tutti i fiumi, come se fosse una cosa obbligatoria, una specie di regola uguale per tutti, che è una cosa da non credere, veramente, pazzesca, ma è quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi, per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c’è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi, voglio dire, il meno che ti puoi aspettare è che anche per noi sia più o meno lo stesso, e che tutto questo sbandare da una parte e dall’altra, come se fossimo matti, o peggio smarriti, in realtà è il nostro modo di andare diritti, modo scientificamente esatto, e per così dire già preordinato, benché indubbiamente simile a una sequenza disordinata di errori, o ripensamenti, ma solo in apparenza perché in realtà è semplicemente il nostro modo di andare dove dobbiamo andare, il modo che è specificatamente nostro, la nostra natura, per così dire, cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, sì, è una storia che se ci pensi è rassicurante, io la trovo molto rassicurante, che ci sia una regola oggettiva dietro a tutte le nostre stupidate, è una cosa rassicurante, tanto che ho deciso di crederci, e allora, ecco, quel che volevo dire è che mi fa male vederti navigare curve da schifo come quella di Couverney, ma dovessi anche andare ogni volta a guardare un fiume, ogni volta, per ricordarmelo, io sempre penserò che è giusto così, e che fai bene ad andare, per quanto solo a dirlo mi venga da spaccarti la testa, ma voglio che tu vada, e sono felice che tu vada, sei un fiume forte, non ti perderai, non importa se io da quella parte non ci sarei andata neanche morta, è solo che siamo fiumi diversi, evidentemente, io devo essere un fiume di un altro modello, anzi se ci penso mi sa che più che un fiume, voglio dire, facile che io sia un lago, non so se capisci, forse alcuni sono fiumi e altri laghi, io sono un lago, non so, qualcosa di simile a un lago, una volta ho fatto il bagno in un lago, era molto strano perché vedi che vai avanti, voglio dire, è tutto così piatto che quando nuoti ti accorgi che vai avanti, è una sensazione strana, e poi c’erano un sacco di insetti e se mettevi i piedi giù, vicino a riva, dove toccavi, se mettevi i piedi giù faceva uno schifo bestiale, come della sabbia unta, da sopra non l’avresti mai detto, ma una specie di sabbia unta, del petrolio, una cosa così, abbastanza schifosa davvero, comunque volevo solo dire due cose, la prima è che se si azzardano a farti del male io vengo lì e li stendo a un filo dell’alta tensione, ce li appendo per le palle, esattamente per le palle, e la seconda è che mi mancherai, cioè, mi mancherà la tua forza, non importa se non lo capisci, adesso, magari poi lo capirai, mi mancherà la tua forza, Gould, piccolo ragazzino strano, la tua forza, porca puttana di quella eva.
Pausa.
- Sai che diavolo di ora è?
- Non so. È buio.
- Vai a dormire, Gould. È tardi, vai a dormire.
24.
Fu tutto così improvviso e, in certo modo, naturale.
Quella mattina Gould se n’era ritornato giù alla Renemport, la scuola. Gli era venuto in mente che magari ci trovava di nuovo quel ragazzino nero con il suo pallone da basket, e tutto il 103
resto: per essere precisi sentiva che era lì, si era svegliato con la certezza che fosse lì.
Ci mise un po’, poi effettivamente arrivò davanti alla Renemport. Forse era l’intervallo, o chissà quale festa o ultimo giorno di qualcosa. Fatto sta che il cortile era pieno zeppo di bambini e bambine e tutti giocavano, facendo un rumore come di voliera, ma una voliera in cui qualcuno stesse sparando, proiettili invisibili silenziosi, con ferocia e pessima mira.
C’erano un sacco di palloni, di tutte le dimensioni, che rimbalzavano in giro e accendevano geometrie contro piedi, mani, cartelle e muri.
La scuola, dietro alla grande voliera, sembrava vuota.
Del ragazzino nero non c’era l’ombra. Ogni tanto qualcuno tirava a canestro. Ma non ci prendevano quasi mai.
Gould andò a sedersi su una panchina del viale, una decina di metri dalla recinzione della scuola. Dietro passava la strada strisciata di auto e camion in velocità. Davanti c’era un po’ di prato e poi le maglie di ferro arrugginito, fino in alto, e infine il cortile pieno di bambini. Non c’era un ritmo, in tutto quello, né una regola, o un centro, cosicché risultava difficile pensare, lì, e in certo modo impossibile avere pensieri. Per questo Gould si tolse il giubbotto, lo appoggiò allo schienale della panchina, e si fermò, lì, a nonpensare.
C’era il sole alto, su tutto.
Il pallone scavalcò la recinzione di poco, due spanne, non di più. Ricadde sul prato, rimbalzò a pochi metri da Gould e rotolò verso la strada. Era un pallone bianco e nero, da calcio.
Gould stava nonpensando. Seguì istintivamente con gli occhi la parabola del pallone, lo vide rimbalzare sull’erba e poi sparire alle sue spalle, verso la strada. Riprese a nonpensare.
Allora una voce bucò tutto il gran casino e urlò
- Palla!
Era una bambina. Stava appoggiata alla recinzione con le dita che artigliavano le maglie di ferro arrugginito.
- Ehi, me la tiri la palla?
Anni di lezioni con il prof. Taltomar avevano insegnato a Gould a non provare il minimo imbarazzo. Rimase a guardare davanti a sé, riprendendo a nonpensare.
- Allora, me la vuoi tirare ‘sta palla, ehi, dico a te, sei sordo?
Andò avanti per un bel po’, con la bambina che strillava e Gould che guardava davanti a sé.
Minuti.
Poi la bambina si stufò, si staccò dalla recinzione e tornò a giocare.
Gould la osservò mentre correva dietro a un’altra bambina, più alta di lei, e poi spariva da qualche parte nel grande animalone fatto di bambini e palloni e grida e felicità. Mise a fuoco la recinzione dove poco prima lei teneva le mani, e si immaginò la polvere di ruggine, sui suoi palmi, e nelle pieghe delle dita.
Allora si alzò. Si girò su se stesso e guardò finché vide il pallone bianco e nero dall’altra parte della strada, attaccato al bordo del marciapiedi, a rotolare con la polvere nell’aria risucchiata dalle auto in velocità.
Fu tutto così improvviso e, in certo modo, naturale.
L’autista del pullman vide il ragazzino da lontano, ma non pensò che potesse davvero attraversare la strada. Pensò che quanto meno si sarebbe girato, avrebbe visto il pullman e si sarebbe fermato. Invece il ragazzino entrò nella strada senza guardarsi attorno, come se fosse nel vialetto di casa sua. L’autista premette d’istinto il pedale del freno, stringendo il volante tra le mani, e tirandosi indietro, sul sedile. Il pullman iniziò a sbandare, con il posteriore che tirava verso il centro della carreggiata. Il ragazzino continuava a camminare, guardando qualcosa davanti a sé. L’autista mollò un po’ il freno per riprendere il controllo del pullman, vide i pochi metri che mancavano e pensò che stava uccidendo un ragazzino. Sterzò con violenza verso destra. Sentì l’urlo della gente arrivargli dai sedili dietro di lui. Vide la fiancata del pullman sfilare a un metro, non più di un metro, dal ragazzino, e sentì sotto le mani l’attrito delle ruote che strisciavano contro il marciapiedi.
Gould arrivò dall’altra parte della strada, si chinò e raccolse il pallone. Si voltò, guardò se arrivava qualche macchina, poi riattraversò la strada. C’era un pullman fermo, un po’ storto contro il 104
marciapiedi: suonava il clacson come un pazzo. Gould pensò che salutasse qualcuno. Risalì sul prato e arrivò di fianco alla panchina. Guardò la recinzione, quanto era alta. Poi guardò il pallone.
Sopra c’era scritto: Maracaná. Non aveva mai visto un pallone da tanto vicino. In realtà non l’aveva neanche mai toccato, un pallone.
Ridiede un’occhiata alla recinzione. Il gesto lo conosceva, l’aveva visto mille volte. Lo ripassò mentalmente, chiedendosi se mai sarebbe riuscito a trasmetterlo a tutte le parti del corpo che gli fossero servite. Gli sembrava una cosa improbabile. Ma era così evidentemente necessario, provarci. Ripassò tutto per bene, con ordine. La sequenza dei passaggi non era complicata.
C’era da inventarsi la velocità, quello sarebbe stato difficile, sincronizzare i tempi, e incastrare tutti i pezzi fino a farli diventare un unico gesto, senza interruzioni. Non bisognava fermarsi a metà, questo era chiaro. Doveva essere una cosa che cominciava e poi finiva, senza perdersi per strada. Come un ritornello di una canzone, pensò. I bambini, di là dalla rete, continuavano a strillare. Canta, Gould. Comunque vada a finire, è il momento di cantare.
L’autista del pullman aveva le gambe che gli tremavano, ma scese lo stesso e lasciando la portiera aperta andò verso quel ragazzino idiota. Stava fermo immobile, a guardare un pallone che teneva in mano. Doveva essere veramente idiota. Stava per gridargli qualcosa, quando lo vide finalmente muoversi: lo vide alzare il pallone nell’aria, con la mano sinistra, e poi colpirlo al volo con il piede destro, spedendolo nel cortile della scuola, oltre la recinzione. Ma guarda ‘sto idiota, pensò.
La curva di cuoio bianco e nero a incontrare nell’aria la fonda di piede gamba caviglia, interno collo destro, impatto morbido perfetto che torna su lungo la carne fino al cervello - puro piacere - mentre il corpo rotea intorno alla muleta della gamba sinistra intenta a salvare l’equilibrio durante l’avvitamento per poi restituirlo alla gamba destra non appena essa ritocca terra, reduce dal gran volo con percussione, trattenendo il corpo dal rotolare in avanti mentre gli occhi istintivamente si alzano a guardare quel pallone che scavalca recinzioni e dubbi, rotolando nel cielo una traiettoria come d’arcobaleno in bianco e nero.
- Sì - disse piano Gould. Era una risposta a un sacco di domande.
L’autista del pullman arrivò a qualche metro dal ragazzino. Le gambe gli tremavano ancora un po’. Era incazzato, davvero.
- Allora, sei completamente pazzo o cosa?, ehi, tu, cos’è, sei pazzo?
- Il ragazzino si voltò a guardarlo,
- Non più, signore.
Disse.
25.
- Pronto?
- Pronto.
- Chi è?
- Sono Shatzy Shell.
- Ah, è lei, signorina.
- Sì, sono io, generale.
- Tutto bene laggiù?
- Non esattamente.
- Bene.
- Ho detto: non esattamente.
- Prego?
- Le ho telefonato per dirle che c’è un guaio.
- In effetti mi ha telefonato lei. Come mai?
105
- Per dirle che c’è un guaio.
- Un guaio?
- Sì.
- Niente di grave, spero.
- Dipende.
- Non è il momento, sa?, per avere brutti guai.
- Mi spiace.
- Non è proprio il momento.
- Mi vuole stare ad ascoltare?
- Certo, signorina.
- Gould è sparito.
- Signorina…
- Sì?
- Signorina, Gould è partito per Couverney.
- È vero.
- Questo non significa sparire.
- Infatti.
- È solo partito per Couverney.
- Sì, però non ci è mai arrivato.
- Come sarebbe a dire?
- Gould è partito per Couverney, ma non ci è mai arrivato.
- Ne è sicura?
- Sicurissima.
- E dove diavolo è finito?
- Non lo so. Credo che abbia deciso di sparire.
- Prego?
- Se n’è andato, generale, Gould se n’è andato.
- Gli sarà successo qualcosa, ha telefonato all’università, alla Polizia, ha telefonato da qualche parte?
- No.
- Bisogna farlo immediatamente, signorina mi richiami tra cinque minuti, penso a tutto io, anzi la richiamo io, tra cinque minuti…
- Generale…
- Non perda la calma.
- Io non perdo la calma, vorrei solo che lei mi stesse ad ascoltare.
- La ascolto.
- Non faccia niente, per favore.
- Cosa diavolo dice?
- Mi ascolti, non faccia niente, non dica niente a nessuno, e, per favore, venga qui.
- Io, venire lì?
- Sì, vorrei che lei venisse qui.
- Non dica cretinate, bisogna trovare Gould, non serve a niente venire li, mi faccia il santo piacere di…
- Generale…
- Sì.
- Si fidi di me. Prenda uno dei suoi aerei, o qualsiasi cosa, e venga qui.
- …
- …
- …
- Mi creda, è l’unica cosa utile che può fare. Venga qui.
- …
- Allora la aspetto.
106
- Generale…
- Sì?
- Grazie.
26.
Una sigaretta che si accende audio al massimo, rumore di tabacco febbricitante, forte come l’accartocciarsi di un foglio grande chilometri le guance si infossano a tirare il fumo, guance sotto occhi come ostriche a molo in un viso rubizzo che si volta verso la signorina di fianco, bionda che ride con risata roca e forte come una promessa di scopate che bagna la mente dei maschi pigiati ognuno al suo posto nel raggio di dieci metri, e si perde a poco a poco sulle altre file di uomini e donne allineati seduti, corpi a contatto, menti a volare, per file e file, dalle più alte giù a digradare, penetrando l’aria sciabolata da ondate di rock espulse dalle grandi casse messe su in alto, e pugnalata da grida che alzate in piedi chiamano per nome da una parte all’altra della sala, viaggiando nella luce a chiazze e lampi FLASH tra gli odori di tabacchi, profumi di lusso, dopobarba, ascelle, giubbotti di pelle, pop corn, facendosi strada nel gran vociare collettivo, grembo ventre di milioni di parole eccitate sciocche s porch e ubriache oppure d’amore che brulicano come vermi quella terra di corpi e menti, campo arato di teste allineate, digradante in modo concentrico e fatale verso il pozzo accecante che al centro di tutto raccoglie sguardi brividi pressioni sanguigne, tutto raccogliendo sul blu del tappeto su cui una scritta rossa urla PONTIAC HOTEL e lo farà per tutta questa incendiata notte che dio la benedica ora che finalmente è arrivata, venendo da lontano e cavalcando fin
…qui sul ring del Pontiac Hotel, dove dai microfoni di Radio KKJ Dan De Palma vi dà il benvenuto per questa meravigliosa serata di boxe. Tutto pronto qui FLASH per la sfida su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e migliaia di scommesse, una sfida che Mondini ha fortissimamente voluto e ottenuto, forse perfino contro il volere del suo pupillo FLASH certo tra la sorpresa generale FLASH e lo scetticismo dei media, scetticismo dobbiamo dire ormai tramutato in spasmodica attesa a giudicare dall’affluenza di pubblico e dalla tensione che si respira FLASH qui a bordo ring, dove ormai mancano pochi secondi all’avvio del match FLASH arbitrerà il messicano Ramòn Gonzales, 8243 spettatori paganti, dodici radio collegate, nell’angolo rosso FLASH in pantaloncini bianchi con fascia oro, 33 anni, 57 incontri, 41 vittorie FLASH 14 sconfitte, 2 pareggi, dodici anni di carriera, due volte sfidante per il mondiale, ritiratosi due anni e tre mesi fa sul ring di Atlantic City, pugile discusso, amato e odiato FLASH incubo dei bookmaker, guardia sinistra, formidabile incassatore e combattente di rara potenza, Stanleeeeeeey Hooooooooooooker Poreeeeeeeeeda FLASH all’angolo blu, pantaloncini neri, 22 anni, 21 incontri, 21 vittorie, 21 prima del limite, FLASH imbattuto e finito al tappeto una sola volta, una delle promesse del pugilato mondiale, guardia destra e sinistra FLASH in grado di boxare FLASH su ritmi vertiginosi, capace di una spettacolare agilità, giovane, imprevedibile, arrogante FLASH odioso, il ragazzo che forse tra qualche anno chiameremo il più grande, Larryyyyyyy “Laaaaaaaaawyer” Gooooooooorman (sentire le dita di Mondini sul collo andare su e giù a sciogliere grumi di paura, non ho paura Maestro, ma fallo lo stesso, mi piace).
- Non avere fretta e lascia perdere le stronzate, Larry.
- D’accordo.
- Salta via, non farlo avvicinare con la testa.
- D’accordo.
- Fai le cose facili e non avrai problemi.
- Me l’ha promesso, Maestro.
- Sì, te l’ho promesso.
- Io vinco e lei mi porta al mondiale.
107
- Pensa all’incontro, idiota.
- Le piacerà, vedrà, il mondiale.
- Vaffanculo Larry.
- ‘culo.
BOXE grida l’arbitro Gonzales, ed è il via, Poreda prende il centro ring, Lawyer usa la guardia destra, gira intorno a Poreda… Poreda adotta una guardia molto chiusa, con i guantoni affiancati davanti al volto, preferisce scoprire il corpo, sguardo impassibile e… feroce dietro ai guantoni rossi, è apparentemente il FLASH Poreda di una volta, stilisticamente non elegante ma roccioso… molto solido, Lawyer gli vola intorno, cambiando spesso direzione FLASH molto sciolto, per ora usa le gambe, non allunga neanche il jab… i due sembrano studiarsi, finta di Lawyer FLASH ancora una finta… Poreda lavora poco con le gambe ma sembra agile a sufficienza col busto, ancora una finta, e ancora un’altra di Lawyer FLASH Poreda non indietreggia, si limita ad abbozzare con il busto… non è ancora partito un pugno, inizio molto prudente da parte dei (sei brutto da far schifo, Poreda, te l’ha mai detto nessuno?, non ha gambe, o fa finta o non ha più gambe, con quelle non scapperà, e picchiare sulle braccia, devo picchiare lì, sono braccia rotte o no?, sì che lo sono porca puttana e allora) USA IL JAB, LARRY, IL JAB, FAI SOLO ARIA così con grande eleganza intorno al centro ring, ma non porta colpi, Lawyer, sembra quasi irrida l’avversario FLASH è tipico di Lawyer d’altronde, gli piace fare spettacolo… anche troppo dicono alcuni suoi detrattori (è questo che vorresti, eh Poreda?, che mi sfiato a correrti intorno come un dio e tu lì ad aspettare il momento giusto per fottermi, credi che ci sono cascato, eh?, bene fine dello spettacolo, era solo per) FLASH FLASH DESTRO DI POREDA, un gancio destro improvviso FLASH
nemmeno preparato, ma ha colto di sorpresa Lawyer, toccato in volto, sale la tensione qui al Pontiac Hotel (bastardo, che cazzo) LARRY DOVE CAZZO SEI? (ci sono, ci sono Maestro, okay, fine del ballo, bastardo) finta di Lawyer, un’altra finta, cambia guardia, jab, UN ALTRO JAB, E GANCIO
SINISTRO, FLASH POREDA SPAZZATO VIA DAL FLASH CENTRO RING, Poreda alle corde, LAWYER, FLASH COMBINAZIONE A DUE MANI, IMPRESSIONANTE SERIE
FLASH AL CORPO FLASH Poreda non abbassa la guardia, si difende il volto FLASH Lawyer colpisce poi recupera la distanza, adesso si fa sotto, continua a colpire alla figura VAI VIA DA LÌ
PORCO CANE, Lawyer indietro e poi di nuovo avanti, Poreda resta alle corde, Lawyer a due mani, Poreda oscilla sul busto, non esce dalla sua guardia, VIA DA LÌ, Lawyer insiste, MONTANTE DI POREDA, E GANCIO, GANCIO DESTRO AL VOLTO, LAWYER TRABALLA, POREDA VA IN CLINCH, VOLA UN PARADENTI, È VOLATO VIA IL PARADENTI DI LAWYER, L’ARBITRO INTERROMPE, il forte gancio di Poreda ha scosso la testa di Lawyer, gli ha strappato via il paradenti, l’arbitro lo raccoglie, adesso lo porge ai secondi di Lawyer, Lawyer può respirare, sembra aver accusato l’uno due di Poreda, sembrava chiuso nella sua guardia, Poreda, poi con un montante ha sorpreso Lawyer per colpirlo di nuovo subito dopo con grande tempismo, Lawyer rimette il paradenti, BOXE, si ricomincia, c’è sangue sul volto di Lawyer, forse una piccola ferita all’arcata sopraccigliare, i due pugili sono tornati a studiarsi, sembra piuttosto una ferita alla bocca, molto sangue in questo momento, cola giù dal collo di Lawyer, forse l’arbitro dovrebbe TRENTA SECONDI LARRY (okay, trenta secondi, testa a posto) TRENTA SECONDI, VIENI VIA, LASCIALI ANDARE. TRENTA SECONDI è Lawyer adesso che cerca le corde, Poreda lo incalza ma con grande cautela, accorcia la distanza nella sua caratteristica positura, la testa in avanti incassata tra le spalle, Lawyer cerca di allontanarlo con il jab, l’arbitro ferma, ammonizione a Poreda per testa bassa, riprende il combattimento, GONG, fine della prima ripresa, una ripresa vissuta praticamente di un solo lampo, l’azione che…
- È un figlio di puttana.
- Fammi vedere.
- L’ha fatto con il gomito… il gomito dritto in bocca appena ha visto volare via il paradenti, porca puttana…
- Sta’ zitto e fammi vedere.
- …
- Okay, QUELL’ACQUA, DAI CON QUELL’ACQUA…
108
- Fa male, Maestro.
- Non dire cazzate.
- C’ho la bocca che…
- CHIUDILA ALLORA, e stammi a sentire. LARRY!
- Sì.
- Si ricomincia da capo. Dimentica tutto, si ricomincia, come se fosse il primo round… senza fretta e con la testa pulita, okay?, è tutto come prima, sei il più forte, sei tranquillo, vai là sopra e fai il tuo lavoro, tutto qui.
- Quanti me ne ha fottuti?
- Due o tre, niente di grave.
- DUE O TRE?
- Ho l’indirizzo di un buon dentista, non c’è problema. Alzati, dai, respira, hai sete?
- Lo ammazzo quel gran figlio di puttana, giuro che…
- LARRY, PORCO CANE, NON È SUCCESSO NIENTE, SI RICOMINCIA DA CAPO, LO VUOI CAPIRE O NO, DA CAPO, tutto da capo, non è successo niente, testa pulita Larry…
- Okay, okay.
- Primo round, d’accordo?
- Primo round.
- Non è successo niente.
- Okay.
- Sai una cosa, ti mancano tre denti, lì davanti.
- Una mazza da baseball, anni fa.
- Okay, vaffanculo Larry.
- ‘culo.
- Secondo round qui sul ring del Pontiac Hotel, siamo in diretta per gli ascoltatori di Radio KKJ, brutto colpo alla bocca per Larry “Lawyer” Gorman che ora guadagna il centro ring… Poreda poco mobile sulle gambe, ma sempre arroccato, e pronto a colpire, diretto destro di Lawyer, ancora diretto, non apre la guardia Poreda, Lawyer gli gira attorno, sembra cercare la JAB DURISSIMO, DOPPIATO DA UN ALTRO JAB E GANCIO ALLA FIGURA, POREDA ALLE CORDE, Poreda all’angolo, esce dalla sinistra, Lawyer non lo molla (attento alla testa, e il montante, quello ci riprova sicuro) Poreda di nuovo all’angolo, prova un montante, a vuoto, Lawyer lo lavora alla figura, sono colpi rapidissimi ai fianchi, Poreda continua a proteggersi il volto, si piega sul busto, prova a uscire sulla destra, A TERRA, POREDA A TERRA HA POSATO UN GINOCCHIO A TERRA (che fai, bastardo?) L’ARBITRO ALLONTANA LAWYER, È STATO PROBABILMENTE UN COLPO
AL FEGATO, UN COLPO RAVVICINATO, SI È PIEGATA LA GAMBA DESTRA DI POREDA, COME SPEZZATA IN DUE, ORA SI ALZA POREDA, respira con fatica mentre l’arbitro Gonzales lo conta, sembra lucido, fa cenno con la testa che tutto va bene LARRY! (gli occhi uguali a prima, non è successo niente, è una trappola) LARRY LASCIALO STARE! (l’ho capito Maestro, lo so, non ci vado dentro, non ci vado, io ballo adesso, eh?, un po’ di ballo gli farà bene) mentre Lawyer gli gira intorno, cambiando direzione, non sembra aver intenzione di attaccare, o forse sta aspettando il momento… Poreda accorcia la distanza, Lawyer non ci sta, arretra, svicola via con grande eleganza sulla destra, gira intorno a Poreda, adesso cambia direzione, Poreda prova di nuovo ad accorciare, Lawyer si appoggia alle corde, gancio di MA È UN DIRETTO D’INCONTRO
DI LAWYER A FAR VACILLARE POREDA, FERMO SULLE GAMBE, LAWYER A DUE
MANI, POREDA IN DIFFICOLTÀ, POREDA, POREDA, A SEGNO CON UN GANCIO, UN
ALTRO, ADESSO È LUI A COLPIRE, SCAMBIO VIOLENTISSIMO, LAWYER TOCCATO, SI APPOGGIA ALLE CORDE (dove cazzo) ANCORA POREDA ALL’ATTACCO , VIA DA LÌ
LARRY, POREDA AL BERSAGLIO BASSO E POI CON UN GANCIO A VUOTO TE NE VUOI ANDARE VIA DA LÌ LARRY? (appena respira) POREDA INSISTE, DISTANZA RAVVICINATA, LAWYER CHIUSO ALLE CORDE, POREDA, POREDA LARRY! (appena respira), POREDA A SEGNO COL DESTRO ANCORA COL DESTRO, A VUOTO QUESTA VOLTA, POREDA MOLLA LA PRESA, due passi indietro (vai) LAWYER COME UNA FIONDA, DIRETTO
109
DESTRO, ANCORA DIRETTO, POREDA A CENTRO RING, CHIUSO A RICCIO, VIOLENTISSIMO GANCIO DI LAWYER, POREDA BARCOLLA, CERCA LE CORDE (il gancio, non vede il gancio), POREDA APPOGGIATO ALLE CORDE, LAWYER MANTIENE LA DISTANZA, STA CERCANDO IL VARCO, POREDA OSCILLA SUL BUSTO (ci sei, bello), Lawyer col jab, ancora col jab, Poreda non risponde, rimane a cercare JAB DURISSIMO E
GANCIO DESTRO, POREDA A TERRA, UNO DUE FULMINANTE, POREDA A TERRA (torna su, pagliaccio) POREDA CONTATO, SI RIALZA (torna su, che non ho finito), SALTELLA SULLE GAMBE, SEI… SETTE… OTTO… fa segno che vuole proseguire, riparte l’incontro, e riparte subito Lawyer, accorcia la distanza, incalza Poreda jab, un altro jab, MA UN COLPO
D’INCONTRO, POREDA GLI HA RUBATO IL TEMPO, DIRETTO D’INCONTRO, BARCOLLA LAWYER, PIEGATE LE GAMBE, DIRETTO D’INCONTRO, LAWYER TOCCATO MA IN
PIEDI (che cazzo…), cerca il clinch, adesso (fottiti quella testa, bastardo), fase dell’incontro di straordinaria intensità, pubblico tutto in piedi, l’arbitro ordina il break, respira a bocca aperta Lawyer, è stato un diretto d’incontro a toccarlo (che pezzo di coglione, Larry) ancora in clinch, Poreda lavora ai fianchi, gancio di Lawyer a segno, montante a vuoto, Poreda ancora ai fianchi, testa contro testa, (che fa questo, parla?).
Poreda sembra muoversi meglio nel corpo a corpo (sta’ zitto bastardo, sta’ zitto) l’arbitro divide i due pugili E QUELLO COS’È ARBITRO? in uscita Poreda colpisce al corpo, Lawyer protesta ARBITRO, COS’ERA QUELLO? GUANTO APERTO!!! difficile giudicare da qui (il pollice nel diaframma, la conosco, bastardo), sembrava un colpo pulito, Lawyer adesso va a rifiatare indietro, Poreda non insiste, prende il centro ring, mette in moto le gambe, è il Lawyer GONG che conosciamo, fine del round, un round che nel mio personale giudizio vede i due pugili sostanzialmente…
- Tutto a posto Larry?
- Incontro del cazzo.
- Fai vedere la bocca.
- È un incontro del cazzo.
- Va bene, lo vinci e torniamo a casa.
- Quello va giù per finta.
- È il suo modo di riposarsi.
- Che diavolo vuol dire, non può andare giù così senza…
- Non gliene frega un cazzo, va giù, prende fiato e intanto tu vai fuori con la testa, l’ha sempre fatto.
- Non gliel’ho nemmeno toccato il fegato.
- Va giù da dio, è la sua specialità.
- Che cazzo…
- Respira.
- Ci prova ogni volta, con la testa…
- Sta’ zitto, respira.
- E parla, quello parla, capito?
- Lascialo parlare.
- Non mi va che parla.
- Respira.
- Dice che lei lo ha pagato per battermi.
- VUOI STARTENE ZITTO E RESPIRARE?
- Ascolta, non staccare mai la spina, Larry, anche se lo vedi che sembra morto, non staccare…
- È vera quella storia?
- Che storia?
- Lo ha pagato?
- PORCA VACCA LARRY, QUESTO È UN INCONTRO DI BOXE, NON È UN
DIBATTITO, RIMANI CON LA TESTA SU QUESTO RING O QUELLO TI SFASCIA QUESTA 110
TUA FOTTUTA FACCIA DA SIGNORINO DI MERDA…
- GONG
- Sei il più forte, Larry. Non buttare via tutto.
- Okay.
- Sei il più forte.
- Da che parte sta, Maestro?
- Vaffanculo Larry.
- ‘culo.
- Terza ripresa qui sul ring del Pontiac Hotel, Larry “Lawyer” Gorman contro Stanley Hooker Poreda, grande tensione, è un incontro che vive di improvvise, fulminee fiammate… la classe di Lawyer contro l’esperienza e la potenza di Poreda… quelli che alla vigilia prevedevano una farsa buona solo a riempire le tasche dei bookmaker adesso dovranno ricredersi NON FARLO
AVVICINARE LARRY con due formidabili combattenti (e vai fuori dai coglioni, merda) Poreda cerca la distanza ravvicinata, costringe Lawyer al corpo a corpo (fottiti), testa contro testa, scariche di colpi ai fianchi da parte di NIENTE RISSE LARRY VIA DA LÌ l’arbitro ordina il break, Poreda richiude immediatamente, non lascia respirare Lawyer, ha evidentemente deciso di non concedergli più lo spazio che VELOCITÀ, LARRY, VELOCE E VIA ancora disordinati scambi nel corpo a corpo (veloce, veloce, okay, veloce), l’arbitro ordina ancora il break, ma Poreda si fa sotto, la testa incassata nelle spalle, scivola via di classe Lawyer, gira intorno all’avversario, cambia passo, cambia direzione, Poreda cerca ancora la corta distanza, LAMPO DI LAWYER, un diretto che ha aperto la guardia di Poreda, ANCORA UN JAB, E ANCORA UN ALTRO, colpi rapidissimi, Lawyer colpisce e poi torna a ballare intorno (adesso, tutto in un minuto, adesso) è la sua boxe migliore, agilità e velocità, ANCORA COL JAB, FINTA IL GANCIO, POREDA SCAPPA COL BUSTO, MA LAWYER COLPISCE COL DIRETTO, POREDA TOCCATO AL VOLTO, CALMO , LARRY, CALMO PORCA PUTTANA, sembra un elastico Lawyer, avanti e indietro, folate velocissime, Poreda non sembra capirci molto, aspetta alle corde e subisce, Lawyer, uno spettacolo, è la sua boxe migliore LARRY, VACCA PUTTANA, FERMATI, AFFONDA DECISO QUESTA VOLTA LAWYER, POREDA RIMBALZA SULLE CORDE, COMBINAZIONE A DUE MANI DI LAWYER, MONTANTE DI POREDA, A SEGNO, LAWYER TOCCATO DURO MA CHIUDE ANCORA, AL CORPO ADESSO, E UN GANCIO, A SEGNO, TRABALLA POREDA, CERCA DI USCIRE, LAWYER LO CHIUDE, GANCIO RAVVICINATO, LAWYER ANCORA A SEGNO (respira e chiudi), LAWYER INDIETRO DI DUE PASSI, Poreda respira, tutto il pubblico in piedi, E ADESSO VATTENE LARRY, VATTENE, nervi a fior di LAWYER, UN
LAMPO, DIRETTO DESTRO E GANCIO, UNA FUCILATA, (vai giù bastardo) POREDA RIMBALZA SULLE CORDE, (giù porca troia) SI PIEGA, LAWYER A DUE MANI, (vaffanculo vaffanculo vaffanculo) POREDA SCIVOLA DI FIANCO, GANCIO LARGO, TOCCATO
LAWYER (basta cristo) CHE RISPONDE CON UN DIRETTO, A VUOTO, (respirare, da quant’è che non respiro?) POREDA SI ABBASSA SUL TRONCO, ESCE COL MONTANTE, A SEGNO
E GANCIO DESTRO, LAWYER ALL’INDIETRO LARRY!!! POREDA LO BRACCA LARRY SU
CON QUELLE BRACCIA!!! (su le braccia) POREDA DUE VOLTE ALLA FIGURA (respirare, devo riuscire a respirare) NON ABBASSARE LE BRACCIA DIO MALED (quanto manca?) POREDA COL GANCIO, A VUOTO, ANCORA GANCIO, (montante) MONTANTE DI LAWYER A VUOTO (su le braccia) TIENI SU QUELLE BRACCIA LARRY!!! DESTRO
VIOLENTISSIMO DI POREDA, LAWYER COLPITO, LAWYER GIÙ ( ) LAWYER GIÙ, LAWYER GIÙ (dov’è?) UN VIOLENTISSIMO DESTRO DI POREDA HA SPEDITO AL
TAPPETO LARRY “LAWYER” GORMAN, È DISTESO A TERRA SULLA SCHIENA (luci, ronzio, luci, freddo) SOLLEVA LA TESTA, L’ARBITRO GONZALES E CHINATO SU DI LUI PER IL CONTEGGIO DI RITO (nausea, sangue su quelle scarpe, scarpe dell’arbitro, da dove cazzo l’ha fatto passare quel pugno?) TRE (devo mettermi seduto, seduto, luci, freddo, facce che guardano, facce enormi, nausea, dio che stanchezza, com’è che non l’ho visto partire, pezzo di coglione) QUATTRO (m’ha beccato in mezzo, porca puttana, guarda le corde e conta, tre, le vedo, tre, okay, tutte quelle facce, una donna che urla, non sento l’urlo, merda) CINQUE (le gambe, le 111
gambe ci sono le gambe, è tutto okay, alzati adesso, ronzio, dov’è Mondini?, respira, ossigeno nel cervello, respira) SEI (non sento la bocca, merda, Mondini quanto manca?, le gambe ci sono, devo fermare la testa, guarda un punto fisso, ferma gli occhi, perché mi vieni così vicino arbitro di merda, un dente d’oro nella sua bocca) SETTE (okay, devo aspettare che torni la testa, ronzio e lo sguardo balla, ci devono pensare le gambe a portarmi via, mi porteranno via, non c’è problema, non sento la bocca, Mondini, su e giù sul busto e danzare con le gambe, non c’è problema) OTTO (certo che posso continuare, continuo arbitro di merda, quanto manca Mondini?, continuo, tutto a posto, dov’è Poreda?, fammi vedere la faccia di Poreda, bastardo, io, che faccia ho, io?) BOXE, ancora 23
secondi alla fine di questo drammatico terzo round, Poreda cerca di costringere Lawyer alle corde, Lawyer indietreggia, lavora con le gambe, usa il jab per tenere lontano Poreda, 18 secondi, POREDA AVANTI, Lawyer sguscia via sulla sinistra, MA BARCOLLA, POREDA GLI È
ADDOSSO, COLPISCE COL DESTRO, A SEGNO, ANCORA CON UN DESTRO AL VOLTO, LAWYER VA IN CLINCH, SEMBRA ESAUSTO, POREDA NON MOLLA, CERCA LO
SPIRAGLIO GIUSTO, LAWYER PROVA A REAGIRE, DESTRO SINISTRO, NON VA A BERSAGLIO, ANCORA DESTRO, COLPO SOTTO LA CINTURA, POREDA PROTESTA, L’ARBITRO FERMA L’AZIONE, AMMONIZIONE A LAWYER, 5 SECONDI, POREDA COME
UNA FURIA SU LAWYER, È UN CORPO A CORPO FURIBONDO, GONG ED E LA CAMPANA CHE TOGLIE LAWYER DA UNA SITUAZIONE non certo comoda, dopo l’atterramento che…
- Respira.
- …
- Siediti e respira, forza.
- …
- Fa’ vedere, okay, guardami, va bene, e dai con ‘sti sali, respira.
- …
- M’è piaciuta l’idea del colpo basso… Poreda non è più quello di una volta, doveva andare giù svenuto e tu ce l’avevi nel culo… neanche lui è più quello di una volta. - …
-Braccia e mani tutto a posto?
- Sì.
- Respira.
- Non l’ho visto.
- Un gancio stretto, è dall’inizio che non lo vedi.
- …
- Acqua, dai.
- Maestro…
- Sciacquati, non bere, NON BERE, sputa, così.
- Che devo fare Maestro?
- Okay così, e adesso respira, RESPIRA.
- Che devo fare?
- Come va la bocca?
- Non la sento.
- Meglio.
- Non so che fare là sopra, Maestro.
- BASTA CON ‘STI SALI, riesci a respirare?
- Maestro…
- Okay, va tutto bene.
- Maestro…
- GONG
- Vaffanculo, Larry
- Che succede, Maestro?
- Vaffanculo, Larry.
- Maestro…
112
- Quarto round qui sul ring del Pontiac Hotel, sale l’urlo degli ottomila presenti, Poreda e Lawyer si inquadrano a centro ring, sono entrambi segnati profondamente al volto, Lawyer la bocca sanguinante, Poreda ha un occhio ormai semichiuso, si muovono lentamente, ora, studiandosi ancora a centro ring (tutto così lontano va tutto più lento, Poreda è più lento i miei guantoni rossi come quelli di un altro flash spilli nelle mani vram vram è il male che mi tiene sveglio, bellissimo male è un’orgia vram Poreda puttana, fottiti non l’ho neanche sentito non sento più niente picchia se vuoi non sento ti faccio venire fin dentro se vuoi vieni vecchio bastardo destro destro sinistro ti fa paura il sinistro non lo vedi il gancio non hai più occhio lì a guardare guardi col sangue pulsa nella testa vieni avanti non ti vengo a prendere fottiti non l’ho sentito non sentirò più niente non c’è più nessuno è l’inferno vieni all’inferno vram bello l’angolo le corde sulla schiena odore di vram puttana vram vram balla gambe di dio vram bastardo testa di pietra le mie dita non puoi vederlo carogna non puoi vederlo più vieni all’inferno adesso) GANCIO SINISTRO DI LAWYER, UNA MAZZATA, INCREDIBILE, POREDA BARCOLLA ALL’INDIETRO È A CENTRO RING, NON
RIESCE A TENERE ALTA LA GUARDIA, BARCOLLA, LAWYER SI AVVICINA LENTO, POREDA FA UN PASSO INDIETRO, LAWYER GLI STA URLANDO QUALCOSA, SI AVVICINA, LAWYER, POREDA IMMOBILE, LAWYER, LAWYER, TUTTO IL PUBBLICO
IN PIEDI
Gould vide il nottolino della serratura girare e la porta aprirsi.
Apparve un signore in divisa.
- Ehi ragazzino, perché non rispondi?
- Come?
- Ho bussato, per i biglietti, non rispondevi, che fai, dormi nel cesso?
- No.
- Ce l’hai il biglietto?
- Sì.
- Tutto bene?
- Sì.
Rimanendo seduto sul cesso Gould gli allungò il biglietto.
- Avevo bussato ma non rispondevi.
- Non fa nulla.
- Bisogno di qualcosa?
- No, no, tutto bene.
- Sai alle volte ci rimangono secchi, per un malore, dobbiamo aprire, per regolamento.
- Certo.
- Che fai, esci?
- Sì adesso esco.
- Ti accosto la porta, okay?
- Sì.
- Rispondi, un’altra volta.
- Sì.
- Okay, buon viaggio.
- Grazie.
Il bigliettaio accostò la porta. Gould si alzò, si tirò su i pantaloni. Si guardò un attimo allo specchio. Aprì la porta, uscì, e si richiuse la porta dietro. C’era una signora, in piedi, che lo guardava. Lui tornò verso il suo posto. La campagna scivolava via dai finestrini senza sorprese. Il treno correva.
27.
113
Il padre di Gould arrivò di sera tardi, quando era già buio. Si guardò un po’ intorno.
- Tutto cambiato, qui.
Non era in divisa. Aveva qualcosa, in faccia, da ragazzino. Tipo il sorriso. E aveva delle scarpe allacciate, marroni, abbastanza eleganti. Era difficile immaginare che ci si potesse fare una guerra, con scarpe del genere. Sembravano più adatte a farci una pace, qualcosa come una noiosa, rassicurante pace.
Shatzy guardò fuori dalla finestra perché si aspettava soldati, guardie del corpo, o cose del genere. Ma non c’era nessuno.
Pensò che era strano. Non se l’era mai immaginato solo, quell’uomo. E adesso era lì. Solo.
Va’ a capire.
Il padre di Gould disse che si chiamava Halley. Disse che gli sarebbe piaciuto se Shatzy lo chiamava semplicemente Halley. E non: generale.
Disse anche che, a voler essere precisi, lui non era proprio un generale.
- Ah no?
- Be’, è una storia noiosa. Lei mi chiami Halley, d’accordo?
Shatzy disse che era d’accordo. Aveva preparato la pizza, così si misero a mangiare, sul tavolo della cucina, con la radio accesa, e tutto. Il padre di Gould disse che era una buona pizza. Poi chiese di Gould.
- Se n’è andato, generale.
- Vuole spiegarmi esattamente cosa significa?
Shatzy glielo spiegò. Disse che Gould era partito, ma non era andato a Couverney, aveva preso un treno per un posto che lei non conosceva, e da lì le aveva telefonato.
- Le ha telefonato?
- Sì. Voleva dirmi che non sarebbe tornato, e…
- Vuole dirmi precisamente le parole che ha usato?
- Non so, ha detto solo che non sarebbe tornato e che per favore non lo cercassimo, e lo lasciassimo andare, ha detto esattamente così, lasciatemi andare, va tutto bene, e poi mi ha detto adesso ti spiego come fare per i soldi. E me l’ha spiegato.
- Quali soldi?
- Dei soldi, semplicemente, dei soldi, mi ha detto se potevo mandargli dei soldi, per le prime settimane, che poi si sarebbe arrangiato.
- Dei soldi.
- Sì.
- E lei non gli ha detto nulla?
- Io?
- Lei.
- Non so, credo di no, non gli ho detto molto. Stavo ascoltando. Stavo cercando di capire dalla voce se era… non so, cercavo di capire se aveva paura, una cosa del genere, se aveva paura o…
o se era tranquillo. Capisce? Credo che fosse tranquillo. Mi ricordo di aver pensato che aveva una voce calma, e che sembrava perfino allegro, ecco, adesso può sembrarle strano, ma era la voce di un ragazzino allegro.
- Non le ha detto dov’era?
- No.
- E lei non gliel’ha chiesto, vero?
- No, credo di no.
- Ci sarà senz’altro un sistema per individuare la chiamata controllando i tabulati dei telefoni.
Non dovrebbe essere difficile.
- Non si azzardi a farlo, generale.
- Come sarebbe a dire?
- Se vuole bene a Gould, non lo faccia.
- Signorina, quello è un ragazzino, non può andarsene in giro per il mondo così, senza nessuno, è pericoloso andarsene in giro per il mondo, non lascerò certo che…
114
- Lo so che è pericoloso, ma…
- È solo un ragazzino…
- Sì, ma non ha paura, questo è il punto, lui non ha paura, ne sono sicura. E allora non dobbiamo averla noi. Credo che sia una questione di coraggio, capisce?
- No.
- Credo che dovremmo avere il coraggio di lasciarlo andare.
- Dice sul serio?
- Sì.
Diceva sul serio. Era convinta che Gould stesse facendo esattamente quello che aveva deciso di fare, e quando è così non c’è molta scelta, tutto ciò che puoi fare se sei uno che sta lì intorno è non disturbare, solo questo, disturbare il meno possibile.
Il padre di Gould disse che lei era matta.
Allora Shatzy disse - Questo non c’entra niente - e poi gli raccontò la storia dei fiumi, quella faccenda che se un fiume deve arrivare al mare lo fa a furia di girare a destra e sinistra, quando indubbiamente sarebbe più veloce, più pratico, andare dritti allo scopo invece di complicarsi la vita con tutte quelle curve, ottenendo solo di allungare il cammino di tre volte tre virgola quattordici volte, ad essere precisi come hanno appurato gli scienziati con scientifica precisione, e bella.
- È come se fossero obbligati a girare, capisce?, sembra un’assurdità, se ci pensa non può evitare di prenderla per un’assurdità, ma il fatto è che loro devono andare avanti in quel modo, mettendo in fila una curva dopo l’altra, e non è un modo assurdo o logico, non è né giusto né sbagliato, è il loro modo, semplicemente, il loro modo, e basta.
Il padre di Gould se ne stette un po’ zitto, a pensare. Poi disse:
- Dove ha detto di mandarglieli, quei soldi?
- Non glielo dirò nemmeno se mi lega su una testata nucleare e mi sgancia su un’isola giapponese.
Allora non parlarono più per un bel po’. Shatzy si mise a togliere la roba dal tavolo, mentre il padre di Gould camminava avanti e indietro, fermandosi ogni tanto davanti alle finestre, e gettando un’occhiata fuori. A un certo punto salì al primo piano.
Shatzy poteva sentire i suoi passi sul soffitto. Lo immaginò che guardava la stanza di Gould, e toccava gli oggetti, apriva gli armadi, prendeva le foto in mano, cose così. A un certo punto lo sentì entrare in bagno. Sentì anche la vaschetta scrosciare e così le venne in mente Larry “Lawyer”
Gorman, e si accorse che le mancava, accidenti come le mancava. Il padre di Gould tornò giù. Andò a sedersi sul sofà. Aveva una delle scarpe marroni slacciata, ma o non se n’era accorto o non gliene importava un accidente.
Shatzy spense la luce in cucina. Lasciò la radio accesa, ma spense la luce, e andò a sedersi per terra, appoggiata con la schiena al sofà. L’altro sofà, quello verde. Il padre di Gould era seduto su quello blu. Alla radio davano le informazioni sul traffico. C’era un incidente sull’autostrada.
Nessun morto, per quel che se ne sapeva. Ma chi può mai dire.
- Mia moglie era una donna molto bella, lo sa signorina? Quando la sposai era davvero bella.
Ed era divertente. Non stava mai ferma un attimo, e le piaceva qualsiasi cosa, era una di quelle persone che danno un senso anche alle cretinate più insignificanti, si aspettano qualcosa anche da quelle, aveva fiducia nella vita, capisce?, era fatta così. L’ho sposata che nemmeno la conoscevo bene, ci eravamo incontrati tre mesi prima, non di più, non era da me fare una cosa del genere, ma lei mi chiese di sposarla, e io lo feci, e quel che penso è che è la cosa migliore che ho fatto, in tutta la mia vita, sul serio. Eravamo molto felici, la prego di credermi. Anche il bambino, quando lei scoprì che aspettava un bambino, non pensai di spaventarmi, fu una cosa allegra, semplicemente, pensammo tutt’e due che sarebbe stato bello, che era una cosa giusta. Cambiavamo città ogni anno, l’esercito è così, ti porta in giro, e lei veniva con me, e dovunque andassimo lei sembrava nata lì, sembrava la sua città. Riusciva a farsi amici dappertutto. Quando arrivò Gould eravamo alla Base di Almenderas.
Radar e ricognizioni, cose del genere. E arrivò Gould. Io lavoravo molto, quello che riesco a ricordarmi è che lei sembrava felice, mi ricordo che ridevamo, ed era come prima, era una bella vita.
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Non so quando ha iniziato tutto a complicarsi. Vede, Gould non è mai stato un bambino semplice, voglio dire, non era un bambino normale, ammesso che ci siano bambini normali, era un bambino che non sembrava un bambino, per così dire. Sembrava una persona grande. Che io mi ricordi, noi non facevamo niente di speciale, con lui, lo trattavamo come veniva, non pensavamo che ci fosse da fare qualcosa di speciale, per lui. Forse ci sbagliavamo. Quando andò a scuola, allora venne fuori quella faccenda del genio. Gli fecero dei test, delle prove scientifiche, e alla fine ci dissero che tutto lasciava intendere che quel bambino era un genio. Usarono proprio quella parola. Genio. Risultò che il suo cervello stava ai margini alti della fascia delta. Ha idea di cosa voglia dire?
- No.
- Sono i parametri Stocken.
- Ah.
Un genio. Io non ero contento né triste, e anche mia moglie, non sapeva cosa pensare, per noi era uguale, capisce? Si chiama Ruth, mia moglie. Ruth. Iniziò a stare male quando eravamo a Topeka. Le prendevano come dei momenti di vuoto, non si ricordava più chi era, e dopo tornava normale, ma era come se avesse fatto qualcosa di enormemente faticoso, era per così dire sfinita. È
strano cosa può accadere dentro un cervello. Nel suo andò tutto un po’ sottosopra. Si vedeva che cercava di ritrovare la forza, e anche l’interesse per la vita, ma ogni volta doveva ricominciare da capo, non era una cosa semplice, sembrava che dovesse rimettere a posto tutti i pezzi di qualcosa che si era spaccato. Dissero che era la fatica, solo una questione di affaticamento, poi a un certo punto iniziarono a farle tutta una serie di esami. Lì mi ricordo che non eravamo più felici. Ci amavamo ancora, ci amavamo molto, ma era difficile con quel suo dolore in mezzo, era tutto un po’
diverso. In quel periodo lei e Gould stavano molto insieme. Io non ero sicuro che per Gould fosse l’ideale, e adesso, a ripensarci, capisco che anche per lei, stare con quel bambino, non doveva essere la cura migliore. Era un bambino che ti complicava le cose, in testa. Lei non aveva bisogno di complicarsi le cose. Ma sembrava che stessero bene, insieme. Sa, la gente di solito ha un po’ paura delle persone come Rudi, non sta volentieri con chi ha, diciamo, dei problemi psichici, problemi veri, voglio dire. Gould invece, lui non aveva paura. Si capivano, ridevano, avevano tutte delle storie loro. Sembrava un gioco, ma non so, non credo che tutto quello facesse bene, a Rudi, o a lui.
Si direbbe di no, da com’è andata a finire. Da un certo punto in poi Rudi si mise a peggiorare molto velocemente e a un certo punto mi dissero che aveva bisogno di tagliare con tutto, e che per quanto fosse sgradevole, bisognava convincersi che aveva bisogno di una clinica, e di cure costanti, non era più in grado di vivere in un posto normale. Fu un brutto colpo. Sa, io ho lavorato sempre nell’esercito, non sono stato allenato a capire, lì impari ad eseguire dei compiti, non a capire. Feci quello che mi dicevano. La portai in una clinica. Lavoravo molto, poi appena avevo tempo andavo da lei. Stavo lì, volevo che lei continuasse a stare con me, e io con lei. La notte tornavo qui a casa, spesso era troppo tardi per trovare ancora Gould sveglio. Mi ricordo che gli scrivevo dei bigliettini.
Ma non sapevo mai bene cosa scrivere. Ogni tanto mi sforzavo di tornare un po’ più presto, e allora giocavamo a qualcosa, io e Gould, o sentivamo gli incontri di boxe alla radio, perché non abbiamo mai avuto la televisione, Rudi la odiava, e io ero appassionato di boxe, ho anche fatto qualche incontro, da giovane, mi è sempre piaciuta. Insomma, stavamo lì e ascoltavamo. Parlare, parlavamo poco. Sa, non è una cosa che puoi improvvisare, quella di parlare con tuo figlio.
O hai iniziato molto presto, o è un pasticcio, mi creda. Nel mio caso era innegabilmente un pasticcio. Alla fine tutto andò a pezzi, definitivamente, quando l’esercito mi trasferì a Port Larenque.
Migliaia di chilometri da qui. Ci pensai un bel po’, e alla fine presi una decisione. Lo so che potrà sembrarle assurdo, e perfino cattivo, ma decisi che io volevo stare con Rudi, rivolevo la mia vita con lei, bella come all’inizio, e avrei fatto qualunque cosa perché questo accadesse. Trovai una clinica non lontana dalla base militare e portai Rudi con me. Ma Gould, lo lasciai qui. Ero sicuro che era meglio se lo lasciavo qui. Lo so che lei mi giudicherà male, ma non ho bisogno di giustificarmi o di spiegare. Vorrei solo dire che Gould era un mondo, quel bambino è un mondo, e io e Rudi un altro. E pensai che avevo il diritto di vivere nel mio mondo. Andò così. Giusto o sbagliato che fosse, andò così. Mi sono sempre preoccupato che a Gould non mancasse niente, e che potesse crescere studiando, perché quella era la sua strada. Ho cercato di fare il mio dovere. Quello 116
che restava del mio dovere. E mi è sempre sembrato che la cosa bene o male funzionasse. Mi sa che mi sbagliavo. Rudi però sta meglio, adesso la lasciano uscire per lunghi periodi, lei torna a casa e ogni tanto sembra davvero quella di una volta. Ridiamo e la gente riesce a stare con noi, non ha più molta paura. Lei, ogni tanto, è molto bella. Una volta, che sembrava davvero a posto, tranquilla, le ho chiesto se per caso voleva vedere Gould, che potevamo farlo venire li, qualche giorno. Lei mi rispose di no. Non ne abbiamo mai più parlato.
Lì fu come se qualcuno gli avesse improvvisamente spento la voce. Qualcuno gliel’aveva accesa, e adesso aveva deciso di spegnergliela. Disse
- Scusi
ma in verità non si sentì nulla. Shatzy capì che aveva detto
- Scusi
ma poi chissà: non si può mai dire.
Si era fatto tardi, tra una cosa e l’altra, e Shatzy si chiese cosa doveva ancora succedere.
Cercò di ricordarsi se aveva qualcosa da dire. O da fare. Era tutto un po’ complicato da quell’uomo che se ne stava immobile, seduto sul sofà, a fissarsi le mani deglutendo, ogni tanto, con fatica. Le venne in mente di chiedergli cos’era quella storia che lui era generale ma non lo era proprio completamente, insomma quella faccenda lì. Poi pensò che non era una buona idea. Si ricordò anche che sarebbe stato meglio affrontare l’argomento dei soldi. In qualche modo bisognava mandarli, a Gould, quei soldi. Stava pensando da che parte attaccare la questione quando udì il padre di Gould dire:
- Com’è, adesso, Gould?
L’aveva detto con una voce che sembrava nuova, sembrava che gliel’avessero restituita in quel momento, lavata e stirata. Come se l’avesse mandata in tintoria.
- Com’è, adesso, Gould?
- Cresciuto.
- A parte questo, voglio dire.
- Cresciuto bene, credo.
- Ride, qualche volta?
- Certo che ride, perché?
- Non so. Non rideva tanto, una volta.
- Ci siamo fatti delle grandi risate, se è questo che la preoccupa.
- Bene.
- Da crepare, veramente.
- Bene.
- Ha le mani come le sue.
- Sì?
- Sì, ha le dita uguali.
- Buffo.
- Perché?, è suo figlio, no?
- Sì, naturalmente, volevo dire che è buffo che ci sia un ragazzino, da qualche parte del mondo, che porta in giro le tue mani, delle mani come le tue. È una cosa strana. A lei piacerebbe?
- Sì.
- Le succederà. Quando avrà dei figli.
- Già.
- Dovrebbe fare dei figli, invece che dei western, lei.
- Dice?
- O dei figli insieme a dei western, almeno.
- Magari è un’idea.
- Ci pensi.
- Già.
- Ha degli amici?
- Io?
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- No, volevo dire… Gould.
- Gould? Be’…
- Avrebbe bisogno di qualche amico.
- Be’… ha Diesel e Poomerang.
- Intendo dire degli amici veri.
- Loro gli vogliono molto bene, davvero.
- Sì, ma non sono veri, signorina.
- Fa differenza?
- Certo che fa differenza.
- A me sono molto simpatici.
- Lo diceva anche Rudi.
- Lo vede?
- Sì, ma non esistono, signorina. Se li è inventati lui.
- D’accordo, ma…
- Non è una cosa normale, no?
- È una cosa un po’ strana, ma non c’è niente di male, a lui fanno del bene.
- Lei non li trova spaventosi?
- Io? No.
- Lei non trova spaventoso che un bambino giri tutto il tempo con due amici che non esistono?
- No, perché?
- A me spaventava, mi ricordo che era una delle cose di Gould che mi spaventava. Diesel e Poomerang. Mi facevano paura.
- Scherza?, non farebbero male a una mosca, e fanno morire dal ridere. Le giuro che mi mancano, a parte Gould, voglio dire, ma mi piaceva di più quando c’erano anche loro due, in giro.
- Vuole dire che sono scomparsi anche il gigante e il muto?
- Sì, sono andati via con lui.
- Il padre di Gould si mise a ridere piano, scuotendo la testa.
- Disse
- Roba da matti.
- E poi lo disse un’altra volta
- Roba da matti.
- Non si preoccupi, generale, Gould se la caverà.
- Lo spero.
- Bisogna solo avere fiducia in lui.
- Certo.
- Ma se la caverà. È forte, quel ragazzino. Non sembra, ma è - forte.
- Lo pensa davvero?
- Sì.
- Ha un sacco di possibilità, un sacco di talento, rischia di buttare tutto all’aria.
- Sta semplicemente facendo quello che vuole fare. E non è cretino.
- Gli è sempre piaciuto studiare, a Couverney lo pagavano per farlo, non c’era ragione per scappare. Non le sembra una cosa un po’ strana sparirsene proprio adesso?
- Non so.
- Possibile che non le abbia spiegato niente, al telefono?
- Non mi ha spiegato molto.
- Qualcosa le avrà pur detto.
- Quella cosa dei soldi.
- E nient’altro?
- Non so, si sentiva anche un po’ male.
- Era una cabina, per la strada?
- A un certo punto ha detto qualcosa sul fatto che aveva dato un calcio a un pallone.
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- Fantastico.
- Non ho capito bene, però.
- Non ha capito bene?
- No.
Il padre di Gould si mise di nuovo a sorridere, scuotendo la testa. Ma senza dire
- Roba da matti.
Questa volta disse
- Non mi aiuterà a cercarlo, vero?
- Lei non lo cercherà, generale.
- No?
- No.
- E lei come lo sa?
- Prima non ne ero sicura, adesso lo so.
- Davvero?
- Sì, adesso che l’ho vista ne sono sicura.
- …
- Lei non lo cercherà.
Il padre di Gould si alzò, si mise a girare un po’ per la stanza.
Si avvicinò al televisore. Sembrava di legno, ma poi chissà, poteva essere benissimo di una plastica che sembrava legno.
- L’avete comprato?
- No, l’ha rubato Poomerang a un giapponese.