Erica e Paul.
Non si erano mai incontrati prima, eppure
uscirono insieme dall’ascensore. Lei aveva i tacchi, lui un paio di
mocassini da vela. Salendo verso il mio piano, avevano scoperto di
essere diretti allo stesso appartamento e addirittura di avere una
conoscenza in comune, un certo Clive di cui io ignoravo
l’esistenza. Mi colpì che fossero arrivati a lui, una vera
stranezza, ma alla fine perché voler trovare qualcosa di strano in
una serata che già di per sé prometteva di essere bizzarra, dato
che le due persone che desideravo disperatamente vedere alla mia
festa di addio erano arrivate insieme? Lui si presentò con il suo
fidanzato decisamente più vecchio, lei con il marito, ma ancora non
riuscivo a credere che, dopo avere passato mesi a desiderare di
avvicinarmi di più a loro, alla fine li avevo entrambi sotto il mio
tetto in uno degli ultimi giorni che avrei trascorso in città.
C’erano tanti invitati, ma degli altri non mi interessava: il
compagno di lui, il marito di lei, l’istruttore di yoga, l’amica
che Micol insisteva per farmi conoscere, la coppia che avevo
incontrato l’autunno scorso a una conferenza sugli espatriati ebrei
del Terzo Reich, l’originale agopunturista di 10H, quel pazzoide
del professore di logica del mio dipartimento insieme alla moglie
vegana svitata e infine la dolce dottoressa Chaudhuri del Mount
Sinai, che era stata felice di reinventare il concetto di finger
food per soddisfare i miei ospiti. A un certo punto stappammo il
prosecco, e tutti brindarono al nostro ritorno nel New Hampshire.
Nell’appartamento già sgomberato riecheggiavano discorsi, e qualche
specializzando bevve alla mia salute con affetto e senso
dell’umorismo, in un continuo andirivieni di persone.
I due che contavano, però, si trattennero.
Addirittura, mentre le persone gironzolavano per l’appartamento
vuoto, ci fu un momento in cui lei uscì sul balcone e io la seguii,
poi ci seguì anche lui, ed entrambi si appoggiarono alla balaustra
con i calici in mano, parlando di questo Clive, lei alla mia
sinistra, lui alla mia destra. Allora appoggiai il bicchiere a
terra e li cinsi entrambi con un braccio all’altezza della vita, un
gesto amichevole, spensierato, in assoluta buonafede. Poi mi
staccai e mi appoggiai anch’io alla balaustra, tutti e tre spalla
contro spalla a osservare il sole al tramonto.
Nessuno dei due si allontanò, rimasero
entrambi appoggiati a me. Avevo impiegato mesi per portarli qui.
Era il nostro attimo di silenzio sul balcone affacciato sull’Hudson
in questa serata di metà novembre insolitamente calda.
Il dipartimento di Paul all’università si
trovava sullo stesso piano del mio, ma non avevamo impegni
accademici in comune. Considerato il suo aspetto, avevo dato per
scontato che fosse uno specializzando prossimo a terminare la tesi
o un neodottorato o un ricercatore in attesa di un contratto fisso.
Condividevamo la stessa rampa di scale e lo stesso piano, di tanto
in tanto ci incrociavamo in qualche riunione di facoltà, o più di
frequente allo Starbucks a due isolati di distanza lungo la
Broadway, di solito nel tardo pomeriggio, prima che iniziassero i
seminari di specializzazione. Ci eravamo notati anche altre volte
alla tavola fredda di là della strada; ritrovandoci nello stesso
bagno dopo pranzo per lavarci i denti, non potevamo fare a meno di
sorridere. Incrociarsi mentre andavamo al bagno degli uomini con il
dentifricio già pronto sullo spazzolino divenne una regolare fonte
di sorrisi. A quanto sembrava, nessuno dei due si portava il
tubetto in bagno. «Aquafresh?» mi chiese un giorno, e io risposi di
sì. Come faceva a saperlo? Le strisce, mi spiegò. E così, cogliendo
al volo il suo tentativo di attaccare bottone, gli domandai che
marca usava lui. «Tom’s of Maine.» Avrei dovuto immaginarlo. Sì,
era proprio il tipo da Tom’s of Maine. Con ogni probabilità usava
anche il deodorante e il sapone della stessa marca e altri prodotti
di nicchia che si acquistavano perlopiù in negozi biologici. A
volte, dopo averlo osservato sciacquarsi i denti, mi chiedevo che
gusto avesse l’anice nella sua bocca dopo l’insalata.
Non stavamo flirtando ma, a quanto sembrava,
tra noi fluttuava qualcosa di implicito. Il nostro fragile ponte
galleggiante si costruiva su timide cortesie pomeridiane e veniva
smantellato in tutta fretta la mattina seguente quando, se ci
capitava di salire la stessa rampa di scale, a malapena ci
salutavamo. Io volevo qualcosa, e sospettavo anche lui, ma non ero
mai sicuro di aver interpretato la situazione in modo abbastanza
chiaro da introdurre il discorso o spingermi oltre. Durante una
delle nostre brevi conversazioni, ne approfittai per dirgli che il
mio anno sabbatico stava per concludersi e che presto sarei tornato
nel New Hampshire. Rispose che gli dispiaceva; voleva iscriversi al
mio seminario sui presocratici. «Il tempo, però!» esclamò. «Il
tempo!» combinando un goffo sorriso di scuse con un lieve sospiro.
Mi aveva cercato, quindi, e sapeva del mio seminario sui
presocratici. Ne ero lusingato. Lui stava per consegnare il suo
libro sul pianista russo Samuil Feinberg. Non l’avevo mai sentito
nominare, ed ebbi la sensazione che questo aggiungesse un altro
aspetto di lui che avrei voluto avere il tempo di conoscere meglio.
Se per caso era libero e aveva piacere di venire alla mia
festicciola di addio nel nostro appartamento appena sgomberato –
ormai restavano solo quattro sedie, gli dissi – sarebbe stato il
benvenuto. Sarebbe venuto? Ma certo, rispose. La sua risposta fu
così immediata che ebbi la tentazione di non credergli.
Poi c’era Erica. Frequentavamo lo stesso
centro yoga, e a volte anche lei arrivava insolitamente presto,
alle sei del mattino; a volte invece ci presentavamo tardi, alle
sei di sera. Certi giorni addirittura ci andavamo in entrambi gli
orari, quasi ci stessimo cercando ma non sperassimo di incontrarci
due volte lo stesso giorno. A lei piaceva mettersi sempre nello
stesso angolino, e io mi posizionavo a una trentina di centimetri
di distanza. Anche quando lei non c’era, stendevo il tappetino a
circa un metro e venti dalla parete. All’inizio perché mi piaceva
quel punto, ma poi cominciai a inventarmi trucchi per tenerglielo
libero. Non seguivamo le lezioni regolarmente, però, dunque
passarono secoli prima che ci scambiassimo anche solo un veloce
cenno di saluto con la testa. A volte, già disteso con gli occhi
chiusi, all’improvviso sentivo qualcuno posare a terra un tappetino
accanto a me. Già sapevo chi era senza bisogno di guardare. Avevo
imparato a riconoscerne i passi furtivi e timidi quando si
avvicinava al nostro angolino a piedi nudi, il rumore del suo
respiro, il modo in cui si schiariva la voce dopo essersi sdraiata.
Non nascondeva di essere sorpresa e al contempo contenta di
vedermi. Io, invece, ci andavo più cauto e fingevo di essere
doppiamente meravigliato, lo sguardo stralunato che diceva:
Oh, ma sei proprio tu? Non volevo
scadere nell’ovvio né dare l’impressione di essere ansioso di
stabilire un contatto tra noi oltre le frivole chiacchiere di
circostanza ogni volta che ci ritrovavamo senza scarpe fuori dalla
sala yoga in attesa che il gruppo della lezione prima uscisse.
Quando discutevamo della nostra mediocre performance a lezione o ci
lamentavamo dell’istruttore sostituto o ci auguravamo buon weekend
sospirando, dato che le previsioni del tempo annunciavano
temporali, nelle nostre parole si coglieva sempre una certa
formalità mista a una punta di ironia. Sapevamo entrambi che tutto
ciò non ci avrebbe portato da nessuna parte. Però mi piacevano i
suoi piedi affusolati e le sue spalle lisce su cui scintillava
un’abbronzatura estiva che quasi pareva dispiaciuta di lasciar
svanire il profumo della crema solare del weekend appena passato.
Soprattutto mi piaceva la sua fronte, non piatta ma arrotondata,
che suggeriva pensieri che non avrei saputo mettere per iscritto ma
avrei voluto capire meglio, perché ogni volta che sorrideva sui
suoi lineamenti balenava un beffardo ripensamento. Indossava abiti
aderenti che lasciavano scoperti i polpacci sottili, e se lasciavo
vagare la mia mente a briglia sciolta riuscivo a immaginare le sue
gambe sollevate a novanta gradi nella posizione di viparita karani, con i talloni appoggiati al
mio petto, gli alluci contro le spalle, le mie mani attorno alle
sue caviglie mentre stavo inginocchiato di fronte a lei. Poi, se
avesse piegato le gambe e a poco a poco avvinghiato le ginocchia
attorno alla mia vita, mi sarebbe bastato sentirla respirare ed
emettere un gemito per capire che avrei voluto condividere con lei
ben più di un corso di yoga.
Stavo pensando di invitare il nostro
insegnante alla mia festa di addio, dissi. Lei e suo marito avevano
voglia di unirsi a noi? Sarebbe magnifico, rispose.
E così, eccoli qui entrambi. Per essere
novembre faceva caldo; le portefinestre erano spalancate, e nella
stanza aleggiava una brezza che risaliva dal fiume facendo
tremolare le candele sui davanzali. Ci sembrava di essere in un
film, immersi in un incantevole sabato sera, di quelli in cui nulla
va storto. Io mi limitavo a presentare persone l’una all’altra e,
se per caso avvertivo che una conversazione stava languendo, a fare
domande, con destrezza, evitando quei tipici quesiti da padrone di
casa triti e ritriti, provati e riprovati a lungo. Secondo te che cosa significa la scena finale del
film? Come ti sono sembrati quei due attori anziani? Il film ti è
piaciuto quanto l’altro dello stesso regista? Ho scoperto di
adorare i film che finiscono all’improvviso con una canzone. E
tu?
Benché fosse la mia festa di addio, ero pur
sempre il padrone di casa. Mi assicurai che il prosecco continuasse
a scorrere a fiumi, e tutti sembravano a proprio agio. Da come loro
due se ne stavano appoggiati alla parete a chiacchierare, e quando
anch’io mi univo a loro di tanto in tanto, sentivo che formavamo un
gruppo a parte. Se qualcun altro avesse abbandonato la stanza, non
ce ne saremmo accorti e avremmo continuato a parlare di questo o
quel libro, di questo film o di quell’opera teatrale, passando da
un argomento al successivo senza mai la minima divergenza
d’opinione.
Anche loro facevano domande, su di me,
ciascuno sull’altro, e un paio di volte si rivolsero a chi si era
avvicinato a noi dalla cucina per trascinarlo nella conversazione.
Scoppiavamo a ridere e io afferravo le loro mani e sapevo che
piaceva a entrambi, infatti rispondevano con una lieve stretta, per
nulla fiacca né di circostanza. A un certo punto lui mi accarezzò
la schiena, e poi anche lei, con delicatezza, quasi gradissero
anche la consistenza del mio maglione e volessero toccarlo di
nuovo. Era una serata incredibile, stavamo bevendo, i nostri
cellulari non avevano suonato nemmeno una volta e ben presto
sarebbe arrivato il dessert della dottoressa Chaudhuri. La festa
doveva concludersi alle otto e mezzo, ma quell’ora era passata da
un del po’ e, a quanto sembrava, nessuno aveva intenzione di
andarsene.
Ogni tanto lanciavo un’occhiata furtiva a
Micol, come a dire: Tutto bene da quelle
parti? e lei contraccambiava con un veloce cenno del capo a
significare: Sì, e lì da te?
Benissimo, rispondevo io. Eravamo una squadra perfetta, ed
era esattamente questo che ci aveva tenuto insieme. Era il motivo,
penso, per cui avevamo sempre saputo di essere una bella coppia.
Lavoro di squadra, sì. E passione, a volte.
E quei due?
mi fece capire inclinando la testa con fare inquisitorio,
riferendosi ai giovani ospiti che non aveva mai visto. Te lo spiego dopo, le risposi con un cenno.
Aveva l’aria tesa e un filo sospettosa. Conoscevo quello sguardo
guastafeste che diceva: Tu non me la
racconti giusta.
I due avevano senso dell’umorismo e ridevano
molto, a volte a mie spese, poiché di rado ero aggiornato su cose
che invece, a quanto sembrava, sapevano tutti. Li lasciavo fare,
però, che si divertissero pure.
A un certo punto Erica intervenne e mi
sussurrò: «Non girarti: l’amica di tua moglie continua a
fissarci».
«Vuole un lavoro in università, ecco perché
la sto evitando.»
«Non ti interessa?» mi domandò lui, una punta
di ironia nel tono di voce.
«O non ti convince?» azzardò lei.
«Non mi colpisce» risposi io. Intendevo dire
che non provavo attrazione.
«È carina, però» commentò Erica. Io scossi la
testa con un sorriso derisorio.
«Zitta! Ha capito che stiamo parlando di
lei.»
Distogliemmo lo sguardo tutti e tre
imbarazzati. «E poi si chiama Kirin» aggiunsi.
«Non Kirin, Karen» mi corresse lui.
«Io ho sentito Kirin.»
«In effetti ha detto Kirin» confermò la mia
compagna di yoga.
«È perché parla michiganiano.»
«Michiganese, vuoi dire.»
«Comunque sia, a me pare fuori di testa.»
Scoppiammo a ridere. A quanto pareva, eravamo su di giri.
«Ci stanno osservando» disse Paul.
Mentre tentavamo nuovamente di soffocare le
risate, la mia mente prese a vorticare. Li volevo nella mia vita. A
ogni costo. Li volevo adesso, con il fidanzato di lui, con il
marito di lei, comunque fosse, con eventuali figli, naturali o
adottati. Potevano andare e venire a proprio piacimento, sarebbero
sempre stati i benvenuti, bastava che facessero parte della mia
noiosa e monotona vita nel New Hampshire.
E se Erica e Paul si fossero piaciuti in un
altro senso inaspettato – che poi magari così inaspettato non
era?
Chissà, magari di riflesso la cosa mi avrebbe
eccitato. La libido accetta pagamenti in valuta di ogni genere, e
il piacere per interposta persona ha un tasso di cambio considerato
abbastanza affidabile. Nessuno è mai andato in bancarotta prendendo
in prestito il piacere altrui. Si va in bancarotta solo quando non
si vuole nessuno. «Secondo te riuscirebbe mai a rendere felice
qualcuno?» chiesi loro riferendomi all’amica di mia moglie, senza
sapere esattamente perché. «Un uomo come te, dici?» aggiunse subito
dopo Paul, quasi fosse pronto a scoccare un rapido dardo, mentre
l’astuto ma tacito sorriso di Erica, che seguì a ruota quello di
lui, mi rivelò che forse aveva intuito il significato nascosto
della mia domanda. Sembravano entrambi d’accordo sul fatto che non
fosse facile rendermi felice.
«Se solo sapeste quanto sono semplici le cose
che desidero...»
«Tipo?» mi domandò lei, quasi troppo diretta,
come se fosse ansiosa di sbugiardarmi mentre parlavo a vanvera o
raccontavo balle.
«Me ne vengono in mente un paio.»
«Eddai, allora, spara» continuò lei in tono
di sfida, senza accorgersi che aveva parlato troppo in fretta e che
la mia risposta, chiaramente in attesa sulla punta della lingua,
non coincideva affatto con quanto si aspettava.
«Forse non vuole rispondere» intervenne lui,
notando la mia esitazione.
«Forse sì, invece» risposi io.
Di nuovo un sorriso triste balenò sulle
labbra di lei. «Forse no.»
E così adesso lo sa,
lo sa di sicuro. Mi resi conto che la stavo mettendo a
disagio. Questo però, e lo sapevo per esperienza, era il momento in
cui di solito si poneva l’audace domanda, e a volte non ce n’era
nemmeno bisogno, perché la risposta poteva essere solo sì. Ma lei
era nervosa.
«E comunque i nostri sono perlopiù bisogni
immaginari, giusto?» dissi, anche stavolta nel tentativo di
addolcire le mie parole per concederle una via di fuga nel caso in
cui ne stesse cercando una e non la trovasse. «E alcuni dei nostri
desideri più intensi alla fine risultano per noi più significativi
se restano insoddisfatti – non pensate?»
«Non credo di avere mai aspettato abbastanza
da sapere che cosa sia un desiderio insoddisfatto.» Paul scoppiò a
ridere.
«Io sì» rispose lei.
Li guardai, e loro mi guardarono. Mi
piacevano i momenti di imbarazzo come questi. A volte mi bastava
innescarli e fare in modo che non morissero sul nascere. La
tensione, però, aumentava, e lei si affrettò a dire qualcosa,
qualsiasi cosa, a ulteriore conferma che aveva intuito quello che
avevo evitato di esplicitare: «Ci sarà pur qualcuno che ti ha
ferito o lasciato delle cicatrici, ne sono certa».
«Sì» risposi. «Alcune persone ci lasciano
sotto un treno, devastati.» Ci riflettei un istante. «Nel mio caso,
benché sia stata colpa mia, alla fine sono io quello che non si è
mai ripreso.»
«Lei sì, invece?»
Ebbi un attimo di esitazione. «Lui»
corressi.
«Dove?»
«In Italia.»
«In Italia, naturalmente. Laggiù è tutto
diverso» commentò lei.
Arguta, pensai.
Erica e Paul.
Be’, sì, andavano d’accordo. Li lasciai
chiacchierare e raggiunsi gli altri ospiti. Addirittura scherzai un
po’ con l’amica di Micol che, nonostante la voglia sul viso, non
era brutta e aveva un vivace senso dell’ironia, per cui intuii che
era un’aspirante critica di talento e molto dotata.
Per un fugace istante, la mia mente tornò ai
fine settimana dell’ultimo anno accademico, quando la domenica sera
i colleghi dell’università venivano a casa nostra per la consueta
cena tra amici. Di solito mangiavamo pasticcio di pollo e torte
salate, entrambi precotti e pronti da riscaldare, e in più la mia
specialità, cavolo in insalata con aggiunta di svariati
ingredienti. Qualcuno portava sempre del formaggio e qualcun altro
il dolce. E poi c’erano buon vino e buon pane a volontà. Parlavamo
delle triremi greche e del fuoco greco e delle similitudini
omeriche e delle figure retoriche greche negli autori moderni.
Avrei perso tutto quanto, così come avrei perso i miei piccoli
rituali newyorkesi inconsapevolmente acquisiti e di cui avrei
sentito la mancanza dopo essermi trasferito. Avrei perso i miei
colleghi e i miei nuovi amici, per non parlare di loro due,
soprattutto adesso che eravamo arrivati a essere in confidenza
fuori dal corso di yoga e dall’università.
Mi guardai intorno e vidi che l’appartamento
era vuoto come quando io e Micol ci eravamo entrati l’agosto
precedente. Un tavolo, quattro sedie, alcune sdraio rovinate dal
tempo, una credenza, librerie vuote, un divano sfondato, un letto,
armadi con appese innumerevoli grucce dondolanti come uccelli
impagliati con le ali spiegate, e quel desolato pianoforte a coda
che né io né lei avevamo mai nemmeno toccato e che era ancora
ricoperto di mucchi di locandine che promettevamo di riportare nel
New Hampshire pur sapendo che non l’avremmo mai fatto. Tutto il
resto era già stato imballato e spedito. L’università aveva
prolungato la nostra permanenza fino a metà novembre, quando
sarebbe arrivato il prossimo inquilino, anche lui del dipartimento
di lettere classiche. Io e Maynard avevamo frequentato insieme la
scuola di specializzazione e gli avevo già scritto un biglietto di
benvenuto. L’asciugatrice ci mette un
secolo e il wi-fi funziona a singhiozzi. Non avevo mai
provato invidia per lui. Adesso, invece, avrei scambiato la mia
vita con la sua in un secondo.
Alla fine, e proprio come avevo previsto, i
due ricominciarono a parlare di Clive il giornalista, di cui non
ricordavano il cognome. Paul indossava una camicia bianca di lino a
maniche corte aperta sul petto. Quando sollevò il gomito e si portò
la mano alla testa nel tentativo di ricordarsi il cognome di Clive,
gli vidi la pelle del braccio fino alla peluria sotto l’ascella.
Probabile che lì sotto si rada, pensai. Mi piacevano i suoi polsi
scintillanti, l’abbronzatura omogenea. Mi vedevo già a trascorrere
il resto della serata cercando di intercettarlo con la mano sulla
testa la prossima volta che avesse cercato di ricordarsi il nome di
qualcuno.
Di tanto in tanto lo sorprendevo a scambiare
una rapida occhiata elusiva con il suo fidanzato all’estremità
opposta della stanza. Complicità e solidarietà – c’era qualcosa di
dolce nel modo in cui sembravano cercarsi.
Erica si era messa una morbida camicetta
celeste. Riuscivo a non fissarle il seno perché il profilo era
abbastanza impercettibile da non risultare provocante, ma sapevo
che quando la guardavo se ne accorgeva. L’avevo sempre vista
vestita da yoga. Ero attratto dalle sue sopracciglia scure e dagli
occhioni color nocciola, che non si limitavano a fissarti ma
volevano qualcosa e poi si soffermavano su di te come se si
aspettassero una risposta, mentre il tuo muto sguardo perso nel
vuoto confermava la tua incapacità di rispondere. Ma in realtà non
volevano nulla da te; rivelavano quella totale familiarità di chi
ti conosce e cerca di ricordare dove vi siete incontrati, e
l’accenno di dileggio che si coglieva nel suo sguardo era il suo
modo di dirti che non la stavi affatto aiutando perché lei sapeva
benissimo che tu avevi capito tutto anche se facevi finta di
niente. Quando i suoi occhi si posavano su di me, troppo spesso
notavo qualcosa di implicito, che mi aveva quasi spinto a rompere
il silenzio tra noi quella volta in cui l’avevo vista in fila al
cinema. Stava dicendo qualcosa al marito, quando all’improvviso si
era voltata e mi aveva guardato, per un fugace istante nessuno dei
due aveva distolto lo sguardo finché non ci eravamo riconosciuti e,
andando a ritroso con la mente senza proferire parola,
semplicemente ci eravamo salutati con un cenno del capo, come a
dire: Yoga, giusto? Sì, yoga. Poi
avevamo girato la testa.
Nel frattempo, Micol e l’insegnante di yoga
decisero di uscire sul balcone per accendersi una sigaretta. Lui la
fece ridere. Mi piaceva sentirla ridere; lei non ride spesso – noi
non ridiamo spesso. Scroccai una sigaretta a un ospite e mi unii a
loro. «Abbiamo imballato i posacenere» spiegò mia moglie, reggendo
un bicchiere di plastica mezzo pieno sul cui bordo scrollò la
cenere. «Forza di volontà zero» confessò l’istruttore di yoga.
«Idem io» rispose lei, e scoppiarono a ridere entrambi mentre lui
buttava la cenere nel suo bicchiere. Parlottammo un altro po’ del
più e del meno, finché non accadde qualcosa di totalmente
inaspettato.
Qualcuno aveva aperto il pianoforte e stava
suonando un pezzo che riconobbi all’istante come un brano
attribuito a Bach. Quando tornai dentro, gli invitati si erano
radunati attorno al piano ad ascoltare quello che avrei dovuto, ma
non volevo immaginare: Paul che suonava. Per un attimo rimasi
pietrificato, forse perché non me l’aspettavo. I tappeti li avevamo
già spediti e adesso il suono usciva di gran lunga più cristallino
e corposo, e riecheggiava nell’appartamento vuoto, quasi fossimo in
un’immensa basilica deserta. Come mai non avevo previsto che
sarebbe stato tentato da quella reliquia di un pianoforte o che
avrebbe suonato un pezzo che non sentivo da anni?
Continuò per qualche minuto, e io volevo solo
andare dietro di lui e tenergli la testa e baciarlo sulla nuca e
chiedergli di suonarlo di nuovo, ti prego, suonalo ancora.
Sembrava che nessuno conoscesse quel brano, e
quando Paul ebbe terminato nella stanza calò un rispettoso
silenzio. Alla fine il suo fidanzato si aprì un varco tra i
presenti e con delicatezza gli posò una mano sulla spalla,
probabilmente per chiedergli di smetterla, solo che all’improvviso
Paul eseguì un pezzo di Schnittke che fece ridere tutti. Non
conoscevano nemmeno questo, ma risero di nuovo quando subito dopo
interpretò una folle versione di Bohemian
Rapsody.
A metà esecuzione mi ero seduto sul
rivestimento di metallo che copriva uno dei caloriferi sotto un
davanzale, ed Erica venne a mettersi accanto a me, in silenzio,
come un gatto che cerca di accoccolarsi in un angolino sul
caminetto senza disturbare o far cadere i soprammobili. Si limitò a
guardarsi in giro alla ricerca del marito e nel frattempo mi
appoggiò il gomito destro sulla spalla. Lui era in piedi
all’estremità opposta della stanza con il bicchiere di vino tra le
mani, l’aria imbarazzata. Gli sorrise. Lui annuì. Pensai a loro. Ma
dopo essersi girata a guardare il pianista, lei non spostò il
braccio. Era consapevole di ciò che stava facendo. Audace ma
titubante. Io, invece, non riuscivo a concentrarmi su nient’altro.
Ammiravo quella spensierata confidenza con il proprio corpo che
deriva da un’indole sicura, abituata a ricevere ovunque
un’accoglienza cordiale. Mi ricordò me stesso da giovane, quando
anch’io davo per scontato che agli altri non desse fastidio che li
toccassi e che anzi lo sperassero. La mia gratitudine per quella
fiducia spensierata mi spinse ad afferrare la mano più vicina alla
mia spalla; gliela strinsi con dolcezza, un istante soltanto, per
ringraziarla della sua amicizia, sapendo però che così le avrei
spostato il gomito. Non sembrava le dispiacesse, ma in effetti ben
presto allontanò il braccio. Micol, che prima stava in cucina, si
era posizionata accanto al calorifero e mi aveva appoggiato una
mano sull’altra spalla. Tutt’altra cosa rispetto al gomito di
Erica.
Il fidanzato di Paul gli disse di smetterla
perché presto sarebbero dovuti andare via. «Quando inizia, non la
finisce più, e allora tocca a me fare il prepotente guastafeste.» A
quel punto, mi alzai e raggiunsi Paul al piano, lo cinsi con un
braccio e dissi che avevo riconosciuto l’Arioso di Bach e che non
avevo idea l’avrebbe suonato.
«Nemmeno io» rispose, con uno stupore al
tempo stesso disarmante, candido e fiducioso. Era contento che
avessi riconosciuto il Capriccio di Bach. «Lo compose, come dice il
titolo, ‘sopra la lontananza
del fratello dilettissimo’. Tu stai per partire,
quindi non mi pare del tutto fuori luogo. Se vuoi, te lo suono
ancora.»
Che dolce, pensai.
«È perché stai per partire» ripeté, e lo
sentirono tutti, e l’umanità nel suo tono di voce mi fece nascere
qualcosa nel profondo che non potevo rivelare o esprimere tra tutti
quegli ospiti.
E così, di nuovo, suonò l’Arioso. Chiunque
notò che lo stava suonando per me, e a spezzarmi il cuore era la
consapevolezza che la parte più terribile di congedi e partenze è
la quasi certezza di non rivedersi più, e di sicuro lo sapeva anche
lui. Ignorava, invece, e del resto non avrebbe potuto saperlo, che
questo stesso Arioso era già stato suonato per me una ventina
d’anni prima, e anche allora ero io che stavo per partire.
Senti che cosa sta
suonando? chiesi all’unica persona assente, ma mai assente
per me.
Sì, lo sento.
E sai che ho vissuto male in questi anni, lo
sai bene.
Lo so. Anch’io, però.
Che bella musica suonavi sempre per
me...
Era un piacere.
Non l’hai dimenticato, allora.
Certo che no.
E mentre Paul suonava e io fissavo il suo
viso e non riuscivo a distogliere lo sguardo da quegli occhi che a
loro volta mi fissavano con una grazia e una tenerezza così
immediate che le sentivo fin nelle viscere, sapevo che in quel
preciso istante si stava dipanando anche qualche arcano e
conturbante discorso su com’era stata la mia vita, e come poteva
ancora essere o forse non sarebbe mai stata, e la scelta era
affidata a me e alla tastiera del pianoforte.
Paul aveva appena finito con l’Arioso di
Bach, e subito dopo spiegò che aveva deciso di suonare un preludio
corale nella trascrizione di Samuil Feinberg. «Meno di cinque
minuti, promesso» disse, rivolgendosi al suo compagno. «Questo
minuscolo preludio corale, però» commentò interrompendo la musica
per poi riprenderla, «può cambiarti la vita. La mia la cambia ogni
volta che lo suono, o almeno credo.»
Stava parlando con me?
Come faceva a sapere della mia vita?
Sapeva, però, e io volevo che sapesse. In che
modo la musica potesse cambiarmi la vita mi risultò
irriducibilmente chiaro nel momento in cui mi rivolse quelle
parole, e tuttavia sentivo già che mi sarebbero sfuggite nel giro
di una manciata di secondi, come se il loro significato fosse
legato in eterno alla musica, a una serata nell’Upper West Side,
quando un ragazzo mi aveva fatto conoscere un brano musicale che
non avevo mai sentito e adesso non volevo più smettere di
ascoltare. Forse, però, era Bach a rendere più vivace quella sera
d’autunno, oppure dipendeva dal fatto che avrei perso questo
affollato appartamento vuoto che alla fine mi aveva conquistato e
che adesso mi piaceva ancora di più grazie al conforto della
musica? Oppure la musica era solo una premonizione di quest’altra
cosa chiamata vita, una vita resa più concreta, una vita resa più
reale – o meno reale – perché musica e magia erano intrappolate nei
suoi recessi? Oppure era il suo viso, sì, il suo viso quando mi
aveva guardato, seduto sullo sgabello, e aveva detto: Se vuoi, te lo suono ancora.
Magari intendeva questo, invece: Se la musica
non ti cambia, caro amico mio, dovrebbe ricordarti almeno qualcosa
che è profondamente tuo ma di cui con ogni probabilità hai perso le
tracce, benché non sia mai svanito del tutto, e che, se evocato
dalle note giuste, risponde ancora, come uno spirito risvegliato
con dolcezza da un prolungato torpore grazie al tocco azzeccato di
un dito e al silenzio azzeccato tra le note. Se vuoi, te lo suono ancora. Qualcuno aveva
pronunciato parole simili due decenni prima: Questo è Bach come l’ho trascritto io.
Mentre guardavo Erica seduta accanto a me sul
rivestimento del calorifero e Paul al piano, volevo che anche le
loro vite cambiassero grazie a stasera, grazie alla musica, grazie
a me. O forse volevo solo che mi riportassero indietro un frammento
del mio passato, perché era il passato, o qualcosa di simile al
passato, come il ricordo, o forse non proprio il ricordo ma
qualcosa più in profondità, sotto molteplici strati, come
l’invisibile filigrana della vita che ancora non riuscivo a
cogliere.
Poi, di nuovo, la sua voce. È me che stai cercando, vero? La musica stasera
rievoca me.
Guardai loro due e capii che erano ignari di
tutto. Anche io. Intuivo che il ponte tra noi tre era destinato a
restare fragile e che dopo stasera sarebbe stato smantellato e
portato a valle dalla corrente, e che l’amicizia e il buonumore,
favoriti dal prosecco, dalla musica e dal finger food della
dottoressa Chaudhuri, sarebbero svaniti nel nulla. Addirittura
magari le cose tra noi sarebbero tornate a essere com’erano prima
che discutessimo di dentifrici o ridessimo di quello sfigato
dell’istruttore di yoga che, sia detto per inciso, aveva un alito
pestilenziale, come aveva commentato Erica una volta con me
all’uscita da una lezione.
Adesso, mentre Paul suonava, pensai alla
nostra casa nel New Hampshire e a quanto ogni cosa laggiù mi
sembrasse distante e triste mentre guardavo fuori, di fronte a me,
il panorama notturno sull’Hudson, e pensai anche ai mobili che
avremmo dovuto disimballare una volta arrivati e a faccende tipo
spolverare e arieggiare le stanze, e alle frettolose cene
infrasettimanali seduti da soli uno davanti all’altra adesso che i
ragazzi studiavano fuori casa. Eravamo vicini, eppure distanti;
com’era svanito tutto in fretta nel corso degli anni, l’indomabile
fuoco, l’entusiasmo, le pazze risate, le corse da Arrigo’s Night
Bar per ordinare martini e patatine fritte... Pensavo che il
matrimonio ci avrebbe avvicinati e che io avrei voltato pagina.
Pensavo che vivere senza figli a New York ci avrebbe riavvicinati.
Invece ero più vicino alla musica, all’Hudson, a loro due, di cui
non sapevo nulla e delle cui vite, dei loro Clive, dei loro
fidanzati o mariti non mi importava un accidenti. Invece, mentre il
preludio corale colmava la stanza e cresceva d’intensità, la mia
mente vagò altrove, come sempre accade quando alzo un po’ il gomito
e sento un pianoforte solcare un oceano e mari e anni fino a un
vecchio Steinway suonato da una persona che quella sera vagava in
quello spoglio salotto come uno spirito evocato da Bach per
ricordarmi: Siamo sempre gli stessi, non
ci siamo allontanati. Così mi parlava sempre in certi
momenti: Siamo sempre gli stessi, non ci
siamo persi, i lineamenti alterati da un languore beffardo.
L’aveva quasi detto cinque anni fa, quando era venuto a trovarmi
nel New Hampshire.
Ogni volta cerco di ricordargli che non ha
nessun motivo per perdonarmi.
Lui, invece, scoppia in una risata
irriverente, zittisce le mie proteste e, mai arrabbiato, sorride,
si leva la camicia, mi si siede in grembo con i pantaloncini corti,
le cosce a cavalcioni sulle mie e le braccia strette intorno alla
mia vita, mentre io cerco di concentrarmi sulla musica e sulla
donna che mi sta accanto, e sollevando il viso verso di me, quasi
fosse sul punto di baciarmi sulle labbra, sussurra: Che sciocco che sei, ci vogliono due di loro per fare
me. Posso essere uomo e donna, oppure tutt’e due, perché tu per me
sei stato entrambi. Cercami, Oliver. Cercami.
È venuto a farmi visita già diverse volte, ma
mai così, mai come stasera.
Parlami, ti prego,
parlami ancora, vorrei dirgli. Potrei, se mi concedessi di
farlo, avvicinarmi a lui con parole caute e con passi titubanti.
Stasera ho bevuto abbastanza da credere che sentirmi gli farebbe
piacere più di qualunque altra cosa. Il pensiero mi eccita e la
musica mi eccita e il giovane al piano mi eccita. Voglio rompere il
silenzio tra noi.
Hai sempre parlato tu per primo. Dimmi
qualcosa. Sono quasi le tre del mattino dove vivi tu. Che stai
facendo? Sei solo?
Basta qualche tua parola e tutti gli altri
si riducono a un rimpiazzo, compreso me stesso, la mia vita, il mio
lavoro, la mia casa, i miei amici, i miei figli, il fuoco greco e
le triremi greche e questa storiella con Mr. Paul e Ms. Erica, ogni
cosa diventa un paravento, e alla fine anche la vita stessa si
trasforma in un semplice diversivo.
E tutto ciò che esiste sei tu.
E tutto ciò a cui penso sei tu.
Stai pensando a me stasera? Ti ho
svegliato?
Lui non risponde.
«Credo che tu debba parlare con la mia amica
Karen» disse Micol. Feci una battuta su di lei. «E credo anche che
tu abbia bevuto abbastanza» aggiunse secca.
«Io, invece, credo che me ne farò un altro
goccio» risposi, poi mi voltai a parlare con i coniugi specialisti
di espatriati ebrei dal Terzo Reich e, senza accorgermene,
cominciai a ridere. Che accidenti ci facevano questi due nella mia
futura ex casa?
Presi un altro prosecco e andai a parlare con
l’amica di Micol. Poi, però, vedendo gli studiosi di espatriati
ebrei dal Terzo Reich, scoppiai di nuovo a ridere.
Evidentemente avevo bevuto troppo.
Ripensai a mia moglie e ai miei figli al
college. A casa, ogni giorno, lei si metterà al lavoro per
terminare il suo libro. Poi me lo farà leggere, dice, quando
torneremo nella nostra cittadina universitaria e dovremo indossare
scarponi da neve per tutto l’anno scolastico, insegneremo con gli
scarponi da neve, andremo al cinema con gli scarponi da neve, a
cena, alle riunioni di facoltà, in bagno, a letto, sempre con gli
scarponi da neve, e tutto quello che riguarda questa serata
apparterrà a un’altra epoca. Erica un oggetto del passato, e anche
Paul intrappolato nel passato, e io non sarò altro che un’ombra
aggrappata a questa parete che domani non mi vedrà più, ma ancora
non mi arrenderò, come una mosca in lotta contro la corrente d’aria
che la spazzerà via. Loro due se ne ricorderanno?
Paul mi chiese perché stavo ridendo.
«Sarà perché sono felice» risposi. «Oppure
troppo prosecco, forse.»
«Uguale io.»
Scoppiammo a ridere tutti e tre.
Mi tornò in mente che, dopo l’Arioso e il
preludio corale, dopo gli interminabili brindisi e il prosecco,
c’era stato un momento di imbarazzo quando avevo aiutato Erica a
cercare il suo cardigan nella stanza degli ospiti. Due invitati
erano già andati via, gli altri aspettavano radunati nell’ingresso.
Eravamo da soli nella stanza e, mentre le spiegavo quant’ero felice
che fosse venuta, avrei potuto prolungare il silenzio tra noi.
Avvertii il suo disagio, ma sapevo che qualche secondo in più così
non le sarebbe dispiaciuto affatto. Decisi, però, di non spingermi
oltre e mi ritrovai a salutarla dandole un bacio sul collo nudo
invece che sulla guancia. Lei sorrise, e io pure. Il mio era un
sorriso di scuse, il suo di indulgenza.
Quando venne il momento di congedarmi da
Paul, feci per stringergli la mano, invece lui mi abbracciò ancor
prima che potessi toccargliela. Belle scapole, pensai quando ci
stringemmo. Poi mi diede un bacio su ciascuna guancia. Il suo
fidanzato mi salutò allo stesso modo.
Ero contento, eccitato e sopraffatto. Rimasi
sulla soglia e guardai le due coppie incamminarsi lungo il
corridoio. Non li avrei rivisti mai più.
Che cosa volevo da loro? Che si piacessero,
così mi sarei potuto mettere seduto, bere dell’altro prosecco e poi
decidere se unirmi al gruppo? O forse mi piacevano entrambi e non
riuscivo a decidere chi dei due desiderassi di più? O magari in
realtà non volevo né l’uno né l’altra, ma mi faceva comodo
pensarlo, perché altrimenti avrei dovuto analizzare la mia vita,
trovando ovunque immensi crateri bui che mi riportavano a
quell’amore naufragato, danneggiato, di cui avevo parlato con loro
giusto poche ore prima.
Micol e la sua amica Karen stavano pulendo la
cucina. Avevo detto loro di lasciar stare i piatti. Di punto in
bianco, Karen mi ricordò che le avrebbe fatto piacere chiacchierare
di nuovo con me. «Presto, magari?» mi propose. «Non appena ripasso
in città» risposi, mentendo.
Micol la accompagnò all’ascensore e poi
rientrò in casa. Voleva aiutarmi a riordinare un po’ prima di
andare a dormire. Le dissi di non preoccuparsi.
«Bella festa» commentò.
«Bellissima.»
«Allora, chi erano quei due?»
«Pivelli.»
Mi lanciò un sorriso d’intesa. «Io vado a
letto, tu vieni?»
Dovevo sistemare, risposi, ma l’avrei
raggiunta subito.
Con calma buttai alcuni piatti di plastica in
due sacchi neri scampati alle operazioni di imballo e, mentre mi
accingevo a spegnere le luci in salotto, trovai un pacchetto di
sigarette sul tavolino accanto all’unico posacenere
dell’appartamento, probabilmente di Karen. Ne presi una, spensi le
luci, misi il posacenere accanto a me sul vecchio divano che non
era più nostro, sollevai i piedi su una delle quattro sedie che
sarebbero rimaste lì con i nuovi padroni di casa e, ripensando
all’Arioso, mi tornò in mente che l’avevo sentito tanto tempo
prima. Poi, nel salotto in penombra, guardai fuori e scorsi la luna
piena. Dio mio, che meraviglia. E più la fissavo, più mi venne
voglia di parlare con lei.
Allora, non te l’ho
cambiata la vita, eh? mi domanda il caro vecchio Johann
Sebastian.
Temo di no.
E perché no?
La musica non dà risposte a domande che non
so come formulare. Non mi dice che cosa voglio. Certo, mi ricorda
che potrei essere ancora innamorato, anche se non sono più sicuro
di sapere che cosa significhi, essere innamorato. Penso sempre agli
altri, eppure sono più le persone che ho ferito di quelle di cui mi
è importato davvero. Non riesco nemmeno a dire che cosa provo,
anche se qualcosa lo sento ancora, ma è più una sensazione di
assenza e perdita, forse anche di fallimento, torpore o totale
inconsapevolezza. Una volta ero sicuro, pensavo di sapere tutto, di
conoscere me stesso e, quando entravo nelle vite delle persone come
una furia, senza chiedermi, o quantomeno farmi venire il dubbio, se
fossi il benvenuto, a loro piaceva che le toccassi. La musica mi
ricorda come sarebbe dovuta essere la mia vita. Non mi cambia,
però.
In effetti, commenta il genio, forse la
musica non ci cambia fino a quel punto, e nemmeno la grande arte.
Piuttosto ci ricorda chi abbiamo sempre saputo di essere e chi
siamo destinati a restare, a dispetto delle nostre pretese e dei
nostri dinieghi. Ci ricorda le tappe salienti che abbiamo sepolto e
nascosto e poi perso, ci ricorda le persone e le cose che contavano
nonostante le nostre bugie, nonostante gli anni. La musica non è
altro che il suono dei nostri rimpianti tradotto in una cadenza che
stimola l’illusione del piacere e della speranza. È la cosa che ci
ricorda con maggiore evidenza che siamo qui per un brevissimo lasso
di tempo e che abbiamo trascurato o ingannato le nostre vite o,
peggio ancora, non le abbiamo vissute. La musica è la vita non
vissuta. Tu hai vissuto la vita sbagliata, amico mio, e hai quasi
sciupato quella che ti è stata data da vivere.
Che cosa voglio? Tu la sai la risposta, Herr
Bach? Davvero si può parlare di vita sbagliata e vita giusta?
Io sono un artista, amico mio, non do
risposte. Gli artisti conoscono solo le domande. E poi la risposta
la sai già.
In un mondo migliore, lei sarebbe seduta
accanto a me sul divano alla mia sinistra e lui alla mia destra, a
pochi centimetri dal posacenere. Lei si leva le scarpe e le scalcia
via, poi mette i piedi vicini ai miei, sul tavolino. I miei piedi, dice, accorgendosi che li stiamo
fissando. Brutti, vero? ci domanda.
No, affatto, rispondo io. Tengo la
mano a entrambi. Ne libero una, ma solo per passarla sulla fronte
di Paul. Mentre Erica si appoggia alla mia spalla, lui si volta
verso di me e mi bacia sulla bocca. È un bacio lungo, profondo. Non
ci dà fastidio che lei guardi. Anzi, voglio che guardi. Bacia bene,
il ragazzo. All’inizio lei non dice nulla, poi: Voglio che baci anche me. Lui le sorride e,
quasi scavalcandomi, la bacia sulla bocca. Lei gli dice che le
piace come bacia. Concordo, dico
io. Però sa di sigarette.
Colpa mia, intervengo. Non ti è piaciuto il sapore? chiede lui.
Sì, molto, replica lei. La bacio.
Non si lamenta che so di tabacco. Anice, penso. Voglio che lei
sappia di anice come lui, dalla bocca di lui alla bocca di lei alla
mia bocca, e poi di nuovo daccapo.
Più tardi, quella sera, andai a dormire
pensando a noi tre nudi a letto. Ci abbracciamo, ma alla fine loro
due sono accoccolati contro di me, ciascuno con una coscia su una
delle mie. Sarebbe potuto tranquillamente accadere, e in modo del
tutto naturale, quasi fossero venuti a cena entrambi con quell’idea
in testa, e poco altro. Perché tutte quelle strategie e tutti quei
piani e tutte quelle angosce quando, ore prima, stavo riponendo le
bottiglie nei secchielli del ghiaccio? Mi piaceva pensare al loro
sudore mischiato al mio. Eppure alla fine mi ero concentrato solo
sui loro tendini d’Achille. Quelli di lei, quando si era tolta le
scarpe e aveva appoggiato i piedi sul tavolino, quelli di lui
quando era entrato a inizio serata e avevo notato che indossava
mocassini da vela senza calze. Non avevo idea di quanto fossero
sinuosi e delicati i suoi piedi. In seguito anche lui si era tolto
le scarpe prima di appoggiare i piedi sul tavolino, una caviglia
sottile e abbronzata sopra l’altra. Guardate i miei, aveva detto, contorcendo le
dita di un piede. Avevamo riso. Piedi da
ragazzino, dissi. Lo so,
aveva risposto lui. Si era avvicinato di nuovo, mi aveva posato un
ginocchio sulla coscia e mi aveva baciato.
Non ricordo che cosa avessi sognato di
preciso, ma so che, per tutta la notte, svegliandomi innumerevoli
volte accaldato e inquieto, li avevo amati entrambi, insieme o
separatamente non saprei dirlo, perché c’era qualcosa di così reale
nella loro presenza del tutto libera tra le mie braccia che, quando
mi svegliai in piena notte stringendo mia moglie, sentii, come già
avevo immaginato di sera, che non sarebbe risultato forzato
preparare la colazione per noi quattro in una cucina che mi
ricordava una casa in Italia.
Pensai a Micol. In tutto ciò non c’era spazio
per lei. L’Italia era un capitolo di cui non discutevamo mai. Lei
sapeva, però. Sapeva che un giorno... sapeva e basta, e
probabilmente meglio di me. Un tempo volevo raccontarle tutto dei
miei amici di allora e della loro casa al mare e della mia stanza
laggiù e della padrona di casa, che anni prima era stata come una
madre per me ma che adesso soffriva di demenza senile e a stento
ricordava come si chiamava, e poi anche di suo marito che, prima di
morire, viveva in quella stessa casa con un’altra donna, che abita
ancora lì con il loro figlio di sette anni che non vedo l’ora di
conoscere.
Devo tornare, Micol.
Perché?
Perché la mia vita si è fermata lì. Perché
non me ne sono mai andato del tutto. Perché il resto di me qui
sembra la coda mozzata di una lucertola, che si dimena e si
divincola mentre il corpo è rimasto dall’altra parte dell’Atlantico
in quella meravigliosa casa sul mare. Sono stato lontano fin troppo
a lungo.
Mi vuoi lasciare?
Credo di sì.
E vuoi lasciare anche i tuoi figli?
Sarò sempre il loro padre.
E quando lo farai?
Non lo so. Presto.
Non posso dire di essere sorpresa.
Lo so.
Quella stessa notte, dopo che gli ospiti
avevano lasciato l’appartamento e Micol era andata a letto, spensi
le luci nell’ingresso. Stavo per chiudere la portafinestra che dava
sul balcone quando mi ricordai delle candele. Tornai fuori, rimasi
in piedi di fronte al fiume, posai entrambe le mani sulla balaustra
dove mi ero trattenuto prima con Erica e Paul e fissai l’acqua. Mi
piacevano le luci sull’Hudson, mi piaceva quel fresco venticello,
mi piaceva Manhattan in questa stagione, mi piaceva la vista sul
ponte George Washington, che sapevo mi sarebbe mancato una volta
tornato nel New Hampshire ma che adesso, stanotte, mi ricordava
ancora Montecarlo quando di notte le sue luci scintillanti erano
visibili fino in Italia. Presto nell’Upper West Side avrebbe fatto
freddo e sarebbero venuti giorni di pioggia, ma qui alla fine il
cielo si apriva sempre e le strade brulicavano comunque di gente a
tarda ora anche quando faceva freddo, in questa città che non dorme
mai.
Rimisi a posto le sdraio, raccolsi da terra
un bicchiere di vino mezzo vuoto e ne notai un altro che era stato
usato come posacenere e traboccava di mozziconi. In quanti erano
usciti a fumare? L’insegnante di yoga, Karen, Micol, la coppia di
coniugi che avevo conosciuto alla conferenza sugli ebrei espatriati
dal Terzo Reich, i vegani, chi altri?
Adesso, mentre ammiravo la vista e osservavo
due rimorchiatori avanzare silenziosi contro corrente, pensai che
un giorno, fra cinquant’anni, qualcun altro sarebbe uscito su
questo stesso balcone e avrebbe ammirato questa stessa vista,
nutrendo pensieri simili ai miei, ma non sarei stato io. Sarebbe
stato un adolescente oppure un ottantenne, o magari avrebbe avuto
la mia età di adesso e, come me, avrebbe sofferto ancora per un
amore passato e unico, cercando di non pensare a una qualche anima
sconosciuta che, proprio come me in una notte di cinquant’anni
prima, aveva ripensato con struggimento al suo amato sforzandosi di
non pensarci, come mi ero scoperto a fare io, invano, dopo tutti
questi anni?
Il passato, il futuro, sono tutte
maschere.
E pure quei due, Erica e Paul, erano solo un
paravento.
Ogni cosa era un paravento, la vita stessa
era un diversivo.
Ciò che contava ora non l’avevo
vissuto.
Guardai la luna e mi venne voglia di
chiederle della mia vita. La sua risposta, però, mi giunse ancor
prima che potessi formulare la domanda. Per vent’anni hai vissuto la vita di un uomo morto. Lo
sanno tutti. Perfino tua moglie e i tuoi figli e l’amica di tua
moglie e la coppia che hai conosciuto a una conferenza sugli
espatriati ebrei dal Terzo Reich, te lo si legge in faccia. Lo
sanno Erica e Paul, e quegli accademici che studiano il fuoco greco
e le triremi greche, lo sanno perfino i presocratici, morti duemila
anni fa. Sei l’unico a non saperlo. Adesso, però, l’hai capito
anche tu. Sei stato sleale.
Con chi? Con che cosa?
Con te stesso.
Mi tornò in mente che qualche giorno prima,
mentre stavo comprando scatoloni e nastro adesivo, avevo intravisto
un mio conoscente dall’altra parte della strada. Gli avevo fatto un
cenno di saluto con la mano, ma lui non aveva risposto e aveva
continuato a camminare, eppure ero certo che mi avesse
riconosciuto. Forse era arrabbiato con me. Sì, ma per che cosa?
Qualche istante dopo adocchiai un tizio del mio dipartimento che si
dirigeva verso una libreria. Ci incrociammo vicino a uno dei
fruttivendoli ambulanti sul marciapiedi e lui guardò nella mia
direzione, ma non ricambiò il mio sorriso. Un momento dopo mi
imbattei in una mia vicina di casa sul marciapiedi; di solito in
ascensore ci scambiavamo convenevoli, invece quando la salutai non
disse nulla né rispose al mio cenno del capo. All’improvviso mi
balenò per la testa che forse ero morto, mi sembrava l’unica
spiegazione possibile, e che la morte funzionava così: tu vedi le
altre persone ma loro non vedono te e, peggio ancora, ti ritrovi
intrappolato in quello che eri nell’istante del trapasso – intento
a comprare scatoloni di cartone, nel mio caso – senza mai diventare
la persona che saresti potuto essere e che sapevi di essere, non
potendo rimediare a quell’unico errore che ha deviato la tua vita
dal proprio corso, ma costretto in eterno a sbrigare la tua ultima
stupida commissione, cioè comprare scatoloni e nastro adesivo.
Avevo quarantaquattro anni. Ero già morto – eppure ero troppo,
troppo giovane per morire.
Dopo avere chiuso le finestre, ripensai
all’Arioso di Bach e presi a canticchiarlo nella mia mente. In
momenti come questi, quando siamo soli e la nostra mente vaga
altrove, al cospetto dell’eternità, pronta a stilare un bilancio di
questa cosa chiamata vita e di tutto quanto abbiamo portato a
termine o lasciato a metà o mai iniziato, quale sarebbe la mia
risposta alle domande di cui, secondo il caro vecchio Bach,
conoscevo già la risposta?
Una persona, un nome – lui lo sa, pensai. In
questo preciso istante, lui sa, lo sa ancora.
Cercami, mi
dice.
Lo farò, Oliver. Lo
farò, gli dico. O l’ha dimenticato?
Si ricorda di ciò che ho appena fatto, però.
Mi guarda, non dice nulla, capisco che è commosso.
E all’improvviso, con l’Arioso ancora in
testa e un altro bicchiere in mano e un’altra delle sigarette di
Karen, volevo che lo suonasse per me questo Arioso, seguito dal
preludio corale che lui non aveva mai eseguito, sì, volevo che lo
suonasse per me, solo per me. E più pensavo a lui che suonava, più
mi si colmavano gli occhi di lacrime, e poco importava se a parlare
era ancora l’alcol o il mio cuore, perché adesso non volevo altro
che sentirlo suonare questo Arioso seduto allo Steinway dei suoi
genitori in una piovosa sera d’estate nella loro casa al mare. Io
mi sarei seduto vicino al pianoforte con qualcosa da bere e sarei
stato con lui e non più così solo com’ero stato per tanti, troppi
anni, in mezzo a sconosciuti che non sapevano nulla di me o di lui.
Gli avrei chiesto di suonare l’Arioso e, suonandolo, di ricordarmi
questa serata, quando avevo spento le candele sul balcone e le luci
in soggiorno, quando mi ero acceso una sigaretta e per una volta
nella vita avevo capito dove volevo essere e che cosa dovevo
fare.
Sarebbe successo come la prima volta o la
seconda o la terza. Prima di tutto inventarsi un motivo che possa
risultare abbastanza credibile agli altri e a me stesso, poi
prendere un aereo, noleggiare una macchina o pagare un autista che
mi accompagni laggiù, percorrere quelle strade familiari, che
probabilmente saranno cambiate negli anni, o magari non tanto, e
che ancora si ricordano di me come io di loro, e in men che non si
dica eccoli là: il vecchio viale di pini, l’inconfondibile rumore
della ghiaia che scricchiola sotto gli pneumatici mentre la
macchina rallenta e si ferma, e poi la casa. Alzo la testa,
immagino non ci sia nessuno, non sapevano che sarei venuto, anche
se gliel’avevo scritto, invece eccolo lì in attesa, ne ero certo.
Gli ho detto di non aspettarmi. Ma certo
che ti aspetterò, risponde, e in un baleno con quel
ma certo ritornano tutti i nostri
anni, perché lì dentro c’è una punta di muta ironia, la stessa con
cui apriva il suo cuore quando eravamo insieme, come a dire:
Sai che ti aspetterò sempre, anche se
arrivassi alle quattro del mattino. Sono anni che aspetto, figurati
se non aspetterò qualche ora in più adesso, cosa
credi?
Aspettare è quello che facciamo da una vita,
e questa attesa mi consente di stare qui a ricordare la musica di
Bach che suona dalla mia parte del nostro pianeta e lasciare che i
miei pensieri arrivino fino a te, perché voglio solo pensare a te,
e a volte non so chi è quello che sta pensando, se tu o io.
Sono qui,
dice.
Ti ho svegliato?
Sì.
Ti scoccia?
No.
Sei solo?
È importante? Comunque, sì.
Dice di essere cambiato. Non è vero.
Io vado ancora a correre.
Anche io.
E bevo un po’ di più.
Idem.
Dormo male, però.
Idem.
Angoscia, e anche una lieve
depressione.
Idem, idem.
Tornerai, vero?
Come fai a saperlo?
Lo so, Elio.
Quando?
chiede Elio.
Tra un paio di settimane.
Voglio che torni.
Credi?
Lo so.
Non percorrerò il viale alberato come avevo
previsto. L’aereo atterrerà a Nizza.
Vengo a prenderti in macchina, allora. In
tarda mattinata. Come la prima volta.
Te lo ricordi.
Me lo ricordo.
E voglio vedere il bambino.
Ti ho detto come si chiama? Mio padre ha
voluto chiamarlo come te. Oliver. Non ti ha mai dimenticato.
Farà caldo e non ci sarà ombra. Ovunque,
però, ci sarà profumo di rosmarino e riconoscerò il tubare delle
colombe e dietro la casa troverò un campo di lavanda selvatica e di
girasoli con le grosse corolle stordite sollevate verso il sole. La
piscina, il campanile ribattezzato da noi «Bello da morire», il
monumento ai soldati caduti sul Piave, il campo da tennis, il
cancello sgangherato che conduce alla spiaggia rocciosa, la mola
ogni mercoledì pomeriggio, l’infinito frinire delle cicale, io e
te, il tuo corpo e il mio.
Se mi chiede quanto mi fermerò, gli dirò la
verità.
Se mi chiede dove ho intenzione di dormire,
gli dirò la verità.
Se me lo chiede.
Non me lo chiederà, però. Non serve. Lo
sa.