Erica e Paul.
Non si erano mai incontrati prima, eppure uscirono insieme dall’ascensore. Lei aveva i tacchi, lui un paio di mocassini da vela. Salendo verso il mio piano, avevano scoperto di essere diretti allo stesso appartamento e addirittura di avere una conoscenza in comune, un certo Clive di cui io ignoravo l’esistenza. Mi colpì che fossero arrivati a lui, una vera stranezza, ma alla fine perché voler trovare qualcosa di strano in una serata che già di per sé prometteva di essere bizzarra, dato che le due persone che desideravo disperatamente vedere alla mia festa di addio erano arrivate insieme? Lui si presentò con il suo fidanzato decisamente più vecchio, lei con il marito, ma ancora non riuscivo a credere che, dopo avere passato mesi a desiderare di avvicinarmi di più a loro, alla fine li avevo entrambi sotto il mio tetto in uno degli ultimi giorni che avrei trascorso in città. C’erano tanti invitati, ma degli altri non mi interessava: il compagno di lui, il marito di lei, l’istruttore di yoga, l’amica che Micol insisteva per farmi conoscere, la coppia che avevo incontrato l’autunno scorso a una conferenza sugli espatriati ebrei del Terzo Reich, l’originale agopunturista di 10H, quel pazzoide del professore di logica del mio dipartimento insieme alla moglie vegana svitata e infine la dolce dottoressa Chaudhuri del Mount Sinai, che era stata felice di reinventare il concetto di finger food per soddisfare i miei ospiti. A un certo punto stappammo il prosecco, e tutti brindarono al nostro ritorno nel New Hampshire. Nell’appartamento già sgomberato riecheggiavano discorsi, e qualche specializzando bevve alla mia salute con affetto e senso dell’umorismo, in un continuo andirivieni di persone.
I due che contavano, però, si trattennero. Addirittura, mentre le persone gironzolavano per l’appartamento vuoto, ci fu un momento in cui lei uscì sul balcone e io la seguii, poi ci seguì anche lui, ed entrambi si appoggiarono alla balaustra con i calici in mano, parlando di questo Clive, lei alla mia sinistra, lui alla mia destra. Allora appoggiai il bicchiere a terra e li cinsi entrambi con un braccio all’altezza della vita, un gesto amichevole, spensierato, in assoluta buonafede. Poi mi staccai e mi appoggiai anch’io alla balaustra, tutti e tre spalla contro spalla a osservare il sole al tramonto.
Nessuno dei due si allontanò, rimasero entrambi appoggiati a me. Avevo impiegato mesi per portarli qui. Era il nostro attimo di silenzio sul balcone affacciato sull’Hudson in questa serata di metà novembre insolitamente calda.
Il dipartimento di Paul all’università si trovava sullo stesso piano del mio, ma non avevamo impegni accademici in comune. Considerato il suo aspetto, avevo dato per scontato che fosse uno specializzando prossimo a terminare la tesi o un neodottorato o un ricercatore in attesa di un contratto fisso. Condividevamo la stessa rampa di scale e lo stesso piano, di tanto in tanto ci incrociavamo in qualche riunione di facoltà, o più di frequente allo Starbucks a due isolati di distanza lungo la Broadway, di solito nel tardo pomeriggio, prima che iniziassero i seminari di specializzazione. Ci eravamo notati anche altre volte alla tavola fredda di là della strada; ritrovandoci nello stesso bagno dopo pranzo per lavarci i denti, non potevamo fare a meno di sorridere. Incrociarsi mentre andavamo al bagno degli uomini con il dentifricio già pronto sullo spazzolino divenne una regolare fonte di sorrisi. A quanto sembrava, nessuno dei due si portava il tubetto in bagno. «Aquafresh?» mi chiese un giorno, e io risposi di sì. Come faceva a saperlo? Le strisce, mi spiegò. E così, cogliendo al volo il suo tentativo di attaccare bottone, gli domandai che marca usava lui. «Tom’s of Maine.» Avrei dovuto immaginarlo. Sì, era proprio il tipo da Tom’s of Maine. Con ogni probabilità usava anche il deodorante e il sapone della stessa marca e altri prodotti di nicchia che si acquistavano perlopiù in negozi biologici. A volte, dopo averlo osservato sciacquarsi i denti, mi chiedevo che gusto avesse l’anice nella sua bocca dopo l’insalata.
Non stavamo flirtando ma, a quanto sembrava, tra noi fluttuava qualcosa di implicito. Il nostro fragile ponte galleggiante si costruiva su timide cortesie pomeridiane e veniva smantellato in tutta fretta la mattina seguente quando, se ci capitava di salire la stessa rampa di scale, a malapena ci salutavamo. Io volevo qualcosa, e sospettavo anche lui, ma non ero mai sicuro di aver interpretato la situazione in modo abbastanza chiaro da introdurre il discorso o spingermi oltre. Durante una delle nostre brevi conversazioni, ne approfittai per dirgli che il mio anno sabbatico stava per concludersi e che presto sarei tornato nel New Hampshire. Rispose che gli dispiaceva; voleva iscriversi al mio seminario sui presocratici. «Il tempo, però!» esclamò. «Il tempo!» combinando un goffo sorriso di scuse con un lieve sospiro. Mi aveva cercato, quindi, e sapeva del mio seminario sui presocratici. Ne ero lusingato. Lui stava per consegnare il suo libro sul pianista russo Samuil Feinberg. Non l’avevo mai sentito nominare, ed ebbi la sensazione che questo aggiungesse un altro aspetto di lui che avrei voluto avere il tempo di conoscere meglio. Se per caso era libero e aveva piacere di venire alla mia festicciola di addio nel nostro appartamento appena sgomberato – ormai restavano solo quattro sedie, gli dissi – sarebbe stato il benvenuto. Sarebbe venuto? Ma certo, rispose. La sua risposta fu così immediata che ebbi la tentazione di non credergli.
Poi c’era Erica. Frequentavamo lo stesso centro yoga, e a volte anche lei arrivava insolitamente presto, alle sei del mattino; a volte invece ci presentavamo tardi, alle sei di sera. Certi giorni addirittura ci andavamo in entrambi gli orari, quasi ci stessimo cercando ma non sperassimo di incontrarci due volte lo stesso giorno. A lei piaceva mettersi sempre nello stesso angolino, e io mi posizionavo a una trentina di centimetri di distanza. Anche quando lei non c’era, stendevo il tappetino a circa un metro e venti dalla parete. All’inizio perché mi piaceva quel punto, ma poi cominciai a inventarmi trucchi per tenerglielo libero. Non seguivamo le lezioni regolarmente, però, dunque passarono secoli prima che ci scambiassimo anche solo un veloce cenno di saluto con la testa. A volte, già disteso con gli occhi chiusi, all’improvviso sentivo qualcuno posare a terra un tappetino accanto a me. Già sapevo chi era senza bisogno di guardare. Avevo imparato a riconoscerne i passi furtivi e timidi quando si avvicinava al nostro angolino a piedi nudi, il rumore del suo respiro, il modo in cui si schiariva la voce dopo essersi sdraiata. Non nascondeva di essere sorpresa e al contempo contenta di vedermi. Io, invece, ci andavo più cauto e fingevo di essere doppiamente meravigliato, lo sguardo stralunato che diceva: Oh, ma sei proprio tu? Non volevo scadere nell’ovvio né dare l’impressione di essere ansioso di stabilire un contatto tra noi oltre le frivole chiacchiere di circostanza ogni volta che ci ritrovavamo senza scarpe fuori dalla sala yoga in attesa che il gruppo della lezione prima uscisse. Quando discutevamo della nostra mediocre performance a lezione o ci lamentavamo dell’istruttore sostituto o ci auguravamo buon weekend sospirando, dato che le previsioni del tempo annunciavano temporali, nelle nostre parole si coglieva sempre una certa formalità mista a una punta di ironia. Sapevamo entrambi che tutto ciò non ci avrebbe portato da nessuna parte. Però mi piacevano i suoi piedi affusolati e le sue spalle lisce su cui scintillava un’abbronzatura estiva che quasi pareva dispiaciuta di lasciar svanire il profumo della crema solare del weekend appena passato. Soprattutto mi piaceva la sua fronte, non piatta ma arrotondata, che suggeriva pensieri che non avrei saputo mettere per iscritto ma avrei voluto capire meglio, perché ogni volta che sorrideva sui suoi lineamenti balenava un beffardo ripensamento. Indossava abiti aderenti che lasciavano scoperti i polpacci sottili, e se lasciavo vagare la mia mente a briglia sciolta riuscivo a immaginare le sue gambe sollevate a novanta gradi nella posizione di viparita karani, con i talloni appoggiati al mio petto, gli alluci contro le spalle, le mie mani attorno alle sue caviglie mentre stavo inginocchiato di fronte a lei. Poi, se avesse piegato le gambe e a poco a poco avvinghiato le ginocchia attorno alla mia vita, mi sarebbe bastato sentirla respirare ed emettere un gemito per capire che avrei voluto condividere con lei ben più di un corso di yoga.
Stavo pensando di invitare il nostro insegnante alla mia festa di addio, dissi. Lei e suo marito avevano voglia di unirsi a noi? Sarebbe magnifico, rispose.
E così, eccoli qui entrambi. Per essere novembre faceva caldo; le portefinestre erano spalancate, e nella stanza aleggiava una brezza che risaliva dal fiume facendo tremolare le candele sui davanzali. Ci sembrava di essere in un film, immersi in un incantevole sabato sera, di quelli in cui nulla va storto. Io mi limitavo a presentare persone l’una all’altra e, se per caso avvertivo che una conversazione stava languendo, a fare domande, con destrezza, evitando quei tipici quesiti da padrone di casa triti e ritriti, provati e riprovati a lungo. Secondo te che cosa significa la scena finale del film? Come ti sono sembrati quei due attori anziani? Il film ti è piaciuto quanto l’altro dello stesso regista? Ho scoperto di adorare i film che finiscono all’improvviso con una canzone. E tu?
Benché fosse la mia festa di addio, ero pur sempre il padrone di casa. Mi assicurai che il prosecco continuasse a scorrere a fiumi, e tutti sembravano a proprio agio. Da come loro due se ne stavano appoggiati alla parete a chiacchierare, e quando anch’io mi univo a loro di tanto in tanto, sentivo che formavamo un gruppo a parte. Se qualcun altro avesse abbandonato la stanza, non ce ne saremmo accorti e avremmo continuato a parlare di questo o quel libro, di questo film o di quell’opera teatrale, passando da un argomento al successivo senza mai la minima divergenza d’opinione.
Anche loro facevano domande, su di me, ciascuno sull’altro, e un paio di volte si rivolsero a chi si era avvicinato a noi dalla cucina per trascinarlo nella conversazione. Scoppiavamo a ridere e io afferravo le loro mani e sapevo che piaceva a entrambi, infatti rispondevano con una lieve stretta, per nulla fiacca né di circostanza. A un certo punto lui mi accarezzò la schiena, e poi anche lei, con delicatezza, quasi gradissero anche la consistenza del mio maglione e volessero toccarlo di nuovo. Era una serata incredibile, stavamo bevendo, i nostri cellulari non avevano suonato nemmeno una volta e ben presto sarebbe arrivato il dessert della dottoressa Chaudhuri. La festa doveva concludersi alle otto e mezzo, ma quell’ora era passata da un del po’ e, a quanto sembrava, nessuno aveva intenzione di andarsene.
Ogni tanto lanciavo un’occhiata furtiva a Micol, come a dire: Tutto bene da quelle parti? e lei contraccambiava con un veloce cenno del capo a significare: Sì, e lì da te? Benissimo, rispondevo io. Eravamo una squadra perfetta, ed era esattamente questo che ci aveva tenuto insieme. Era il motivo, penso, per cui avevamo sempre saputo di essere una bella coppia. Lavoro di squadra, sì. E passione, a volte.
E quei due? mi fece capire inclinando la testa con fare inquisitorio, riferendosi ai giovani ospiti che non aveva mai visto. Te lo spiego dopo, le risposi con un cenno. Aveva l’aria tesa e un filo sospettosa. Conoscevo quello sguardo guastafeste che diceva: Tu non me la racconti giusta.
I due avevano senso dell’umorismo e ridevano molto, a volte a mie spese, poiché di rado ero aggiornato su cose che invece, a quanto sembrava, sapevano tutti. Li lasciavo fare, però, che si divertissero pure.
A un certo punto Erica intervenne e mi sussurrò: «Non girarti: l’amica di tua moglie continua a fissarci».
«Vuole un lavoro in università, ecco perché la sto evitando.»
«Non ti interessa?» mi domandò lui, una punta di ironia nel tono di voce.
«O non ti convince?» azzardò lei.
«Non mi colpisce» risposi io. Intendevo dire che non provavo attrazione.
«È carina, però» commentò Erica. Io scossi la testa con un sorriso derisorio.
«Zitta! Ha capito che stiamo parlando di lei.»
Distogliemmo lo sguardo tutti e tre imbarazzati. «E poi si chiama Kirin» aggiunsi.
«Non Kirin, Karen» mi corresse lui.
«Io ho sentito Kirin.»
«In effetti ha detto Kirin» confermò la mia compagna di yoga.
«È perché parla michiganiano.»
«Michiganese, vuoi dire.»
«Comunque sia, a me pare fuori di testa.» Scoppiammo a ridere. A quanto pareva, eravamo su di giri.
«Ci stanno osservando» disse Paul.
Mentre tentavamo nuovamente di soffocare le risate, la mia mente prese a vorticare. Li volevo nella mia vita. A ogni costo. Li volevo adesso, con il fidanzato di lui, con il marito di lei, comunque fosse, con eventuali figli, naturali o adottati. Potevano andare e venire a proprio piacimento, sarebbero sempre stati i benvenuti, bastava che facessero parte della mia noiosa e monotona vita nel New Hampshire.
E se Erica e Paul si fossero piaciuti in un altro senso inaspettato – che poi magari così inaspettato non era?
Chissà, magari di riflesso la cosa mi avrebbe eccitato. La libido accetta pagamenti in valuta di ogni genere, e il piacere per interposta persona ha un tasso di cambio considerato abbastanza affidabile. Nessuno è mai andato in bancarotta prendendo in prestito il piacere altrui. Si va in bancarotta solo quando non si vuole nessuno. «Secondo te riuscirebbe mai a rendere felice qualcuno?» chiesi loro riferendomi all’amica di mia moglie, senza sapere esattamente perché. «Un uomo come te, dici?» aggiunse subito dopo Paul, quasi fosse pronto a scoccare un rapido dardo, mentre l’astuto ma tacito sorriso di Erica, che seguì a ruota quello di lui, mi rivelò che forse aveva intuito il significato nascosto della mia domanda. Sembravano entrambi d’accordo sul fatto che non fosse facile rendermi felice.
«Se solo sapeste quanto sono semplici le cose che desidero...»
«Tipo?» mi domandò lei, quasi troppo diretta, come se fosse ansiosa di sbugiardarmi mentre parlavo a vanvera o raccontavo balle.
«Me ne vengono in mente un paio.»
«Eddai, allora, spara» continuò lei in tono di sfida, senza accorgersi che aveva parlato troppo in fretta e che la mia risposta, chiaramente in attesa sulla punta della lingua, non coincideva affatto con quanto si aspettava.
«Forse non vuole rispondere» intervenne lui, notando la mia esitazione.
«Forse sì, invece» risposi io.
Di nuovo un sorriso triste balenò sulle labbra di lei. «Forse no.»
E così adesso lo sa, lo sa di sicuro. Mi resi conto che la stavo mettendo a disagio. Questo però, e lo sapevo per esperienza, era il momento in cui di solito si poneva l’audace domanda, e a volte non ce n’era nemmeno bisogno, perché la risposta poteva essere solo sì. Ma lei era nervosa.
«E comunque i nostri sono perlopiù bisogni immaginari, giusto?» dissi, anche stavolta nel tentativo di addolcire le mie parole per concederle una via di fuga nel caso in cui ne stesse cercando una e non la trovasse. «E alcuni dei nostri desideri più intensi alla fine risultano per noi più significativi se restano insoddisfatti – non pensate?»
«Non credo di avere mai aspettato abbastanza da sapere che cosa sia un desiderio insoddisfatto.» Paul scoppiò a ridere.
«Io sì» rispose lei.
Li guardai, e loro mi guardarono. Mi piacevano i momenti di imbarazzo come questi. A volte mi bastava innescarli e fare in modo che non morissero sul nascere. La tensione, però, aumentava, e lei si affrettò a dire qualcosa, qualsiasi cosa, a ulteriore conferma che aveva intuito quello che avevo evitato di esplicitare: «Ci sarà pur qualcuno che ti ha ferito o lasciato delle cicatrici, ne sono certa».
«Sì» risposi. «Alcune persone ci lasciano sotto un treno, devastati.» Ci riflettei un istante. «Nel mio caso, benché sia stata colpa mia, alla fine sono io quello che non si è mai ripreso.»
«Lei sì, invece?»
Ebbi un attimo di esitazione. «Lui» corressi.
«Dove?»
«In Italia.»
«In Italia, naturalmente. Laggiù è tutto diverso» commentò lei.
Arguta, pensai.
Erica e Paul.
Be’, sì, andavano d’accordo. Li lasciai chiacchierare e raggiunsi gli altri ospiti. Addirittura scherzai un po’ con l’amica di Micol che, nonostante la voglia sul viso, non era brutta e aveva un vivace senso dell’ironia, per cui intuii che era un’aspirante critica di talento e molto dotata.
Per un fugace istante, la mia mente tornò ai fine settimana dell’ultimo anno accademico, quando la domenica sera i colleghi dell’università venivano a casa nostra per la consueta cena tra amici. Di solito mangiavamo pasticcio di pollo e torte salate, entrambi precotti e pronti da riscaldare, e in più la mia specialità, cavolo in insalata con aggiunta di svariati ingredienti. Qualcuno portava sempre del formaggio e qualcun altro il dolce. E poi c’erano buon vino e buon pane a volontà. Parlavamo delle triremi greche e del fuoco greco e delle similitudini omeriche e delle figure retoriche greche negli autori moderni. Avrei perso tutto quanto, così come avrei perso i miei piccoli rituali newyorkesi inconsapevolmente acquisiti e di cui avrei sentito la mancanza dopo essermi trasferito. Avrei perso i miei colleghi e i miei nuovi amici, per non parlare di loro due, soprattutto adesso che eravamo arrivati a essere in confidenza fuori dal corso di yoga e dall’università.
Mi guardai intorno e vidi che l’appartamento era vuoto come quando io e Micol ci eravamo entrati l’agosto precedente. Un tavolo, quattro sedie, alcune sdraio rovinate dal tempo, una credenza, librerie vuote, un divano sfondato, un letto, armadi con appese innumerevoli grucce dondolanti come uccelli impagliati con le ali spiegate, e quel desolato pianoforte a coda che né io né lei avevamo mai nemmeno toccato e che era ancora ricoperto di mucchi di locandine che promettevamo di riportare nel New Hampshire pur sapendo che non l’avremmo mai fatto. Tutto il resto era già stato imballato e spedito. L’università aveva prolungato la nostra permanenza fino a metà novembre, quando sarebbe arrivato il prossimo inquilino, anche lui del dipartimento di lettere classiche. Io e Maynard avevamo frequentato insieme la scuola di specializzazione e gli avevo già scritto un biglietto di benvenuto. L’asciugatrice ci mette un secolo e il wi-fi funziona a singhiozzi. Non avevo mai provato invidia per lui. Adesso, invece, avrei scambiato la mia vita con la sua in un secondo.
Alla fine, e proprio come avevo previsto, i due ricominciarono a parlare di Clive il giornalista, di cui non ricordavano il cognome. Paul indossava una camicia bianca di lino a maniche corte aperta sul petto. Quando sollevò il gomito e si portò la mano alla testa nel tentativo di ricordarsi il cognome di Clive, gli vidi la pelle del braccio fino alla peluria sotto l’ascella. Probabile che lì sotto si rada, pensai. Mi piacevano i suoi polsi scintillanti, l’abbronzatura omogenea. Mi vedevo già a trascorrere il resto della serata cercando di intercettarlo con la mano sulla testa la prossima volta che avesse cercato di ricordarsi il nome di qualcuno.
Di tanto in tanto lo sorprendevo a scambiare una rapida occhiata elusiva con il suo fidanzato all’estremità opposta della stanza. Complicità e solidarietà – c’era qualcosa di dolce nel modo in cui sembravano cercarsi.
Erica si era messa una morbida camicetta celeste. Riuscivo a non fissarle il seno perché il profilo era abbastanza impercettibile da non risultare provocante, ma sapevo che quando la guardavo se ne accorgeva. L’avevo sempre vista vestita da yoga. Ero attratto dalle sue sopracciglia scure e dagli occhioni color nocciola, che non si limitavano a fissarti ma volevano qualcosa e poi si soffermavano su di te come se si aspettassero una risposta, mentre il tuo muto sguardo perso nel vuoto confermava la tua incapacità di rispondere. Ma in realtà non volevano nulla da te; rivelavano quella totale familiarità di chi ti conosce e cerca di ricordare dove vi siete incontrati, e l’accenno di dileggio che si coglieva nel suo sguardo era il suo modo di dirti che non la stavi affatto aiutando perché lei sapeva benissimo che tu avevi capito tutto anche se facevi finta di niente. Quando i suoi occhi si posavano su di me, troppo spesso notavo qualcosa di implicito, che mi aveva quasi spinto a rompere il silenzio tra noi quella volta in cui l’avevo vista in fila al cinema. Stava dicendo qualcosa al marito, quando all’improvviso si era voltata e mi aveva guardato, per un fugace istante nessuno dei due aveva distolto lo sguardo finché non ci eravamo riconosciuti e, andando a ritroso con la mente senza proferire parola, semplicemente ci eravamo salutati con un cenno del capo, come a dire: Yoga, giusto? Sì, yoga. Poi avevamo girato la testa.
Nel frattempo, Micol e l’insegnante di yoga decisero di uscire sul balcone per accendersi una sigaretta. Lui la fece ridere. Mi piaceva sentirla ridere; lei non ride spesso – noi non ridiamo spesso. Scroccai una sigaretta a un ospite e mi unii a loro. «Abbiamo imballato i posacenere» spiegò mia moglie, reggendo un bicchiere di plastica mezzo pieno sul cui bordo scrollò la cenere. «Forza di volontà zero» confessò l’istruttore di yoga. «Idem io» rispose lei, e scoppiarono a ridere entrambi mentre lui buttava la cenere nel suo bicchiere. Parlottammo un altro po’ del più e del meno, finché non accadde qualcosa di totalmente inaspettato.
Qualcuno aveva aperto il pianoforte e stava suonando un pezzo che riconobbi all’istante come un brano attribuito a Bach. Quando tornai dentro, gli invitati si erano radunati attorno al piano ad ascoltare quello che avrei dovuto, ma non volevo immaginare: Paul che suonava. Per un attimo rimasi pietrificato, forse perché non me l’aspettavo. I tappeti li avevamo già spediti e adesso il suono usciva di gran lunga più cristallino e corposo, e riecheggiava nell’appartamento vuoto, quasi fossimo in un’immensa basilica deserta. Come mai non avevo previsto che sarebbe stato tentato da quella reliquia di un pianoforte o che avrebbe suonato un pezzo che non sentivo da anni?
Continuò per qualche minuto, e io volevo solo andare dietro di lui e tenergli la testa e baciarlo sulla nuca e chiedergli di suonarlo di nuovo, ti prego, suonalo ancora.
Sembrava che nessuno conoscesse quel brano, e quando Paul ebbe terminato nella stanza calò un rispettoso silenzio. Alla fine il suo fidanzato si aprì un varco tra i presenti e con delicatezza gli posò una mano sulla spalla, probabilmente per chiedergli di smetterla, solo che all’improvviso Paul eseguì un pezzo di Schnittke che fece ridere tutti. Non conoscevano nemmeno questo, ma risero di nuovo quando subito dopo interpretò una folle versione di Bohemian Rapsody.
A metà esecuzione mi ero seduto sul rivestimento di metallo che copriva uno dei caloriferi sotto un davanzale, ed Erica venne a mettersi accanto a me, in silenzio, come un gatto che cerca di accoccolarsi in un angolino sul caminetto senza disturbare o far cadere i soprammobili. Si limitò a guardarsi in giro alla ricerca del marito e nel frattempo mi appoggiò il gomito destro sulla spalla. Lui era in piedi all’estremità opposta della stanza con il bicchiere di vino tra le mani, l’aria imbarazzata. Gli sorrise. Lui annuì. Pensai a loro. Ma dopo essersi girata a guardare il pianista, lei non spostò il braccio. Era consapevole di ciò che stava facendo. Audace ma titubante. Io, invece, non riuscivo a concentrarmi su nient’altro. Ammiravo quella spensierata confidenza con il proprio corpo che deriva da un’indole sicura, abituata a ricevere ovunque un’accoglienza cordiale. Mi ricordò me stesso da giovane, quando anch’io davo per scontato che agli altri non desse fastidio che li toccassi e che anzi lo sperassero. La mia gratitudine per quella fiducia spensierata mi spinse ad afferrare la mano più vicina alla mia spalla; gliela strinsi con dolcezza, un istante soltanto, per ringraziarla della sua amicizia, sapendo però che così le avrei spostato il gomito. Non sembrava le dispiacesse, ma in effetti ben presto allontanò il braccio. Micol, che prima stava in cucina, si era posizionata accanto al calorifero e mi aveva appoggiato una mano sull’altra spalla. Tutt’altra cosa rispetto al gomito di Erica.
Il fidanzato di Paul gli disse di smetterla perché presto sarebbero dovuti andare via. «Quando inizia, non la finisce più, e allora tocca a me fare il prepotente guastafeste.» A quel punto, mi alzai e raggiunsi Paul al piano, lo cinsi con un braccio e dissi che avevo riconosciuto l’Arioso di Bach e che non avevo idea l’avrebbe suonato.
«Nemmeno io» rispose, con uno stupore al tempo stesso disarmante, candido e fiducioso. Era contento che avessi riconosciuto il Capriccio di Bach. «Lo compose, come dice il titolo, ‘sopra la lontananza del fratello dilettissimo’. Tu stai per partire, quindi non mi pare del tutto fuori luogo. Se vuoi, te lo suono ancora.»
Che dolce, pensai.
«È perché stai per partire» ripeté, e lo sentirono tutti, e l’umanità nel suo tono di voce mi fece nascere qualcosa nel profondo che non potevo rivelare o esprimere tra tutti quegli ospiti.
E così, di nuovo, suonò l’Arioso. Chiunque notò che lo stava suonando per me, e a spezzarmi il cuore era la consapevolezza che la parte più terribile di congedi e partenze è la quasi certezza di non rivedersi più, e di sicuro lo sapeva anche lui. Ignorava, invece, e del resto non avrebbe potuto saperlo, che questo stesso Arioso era già stato suonato per me una ventina d’anni prima, e anche allora ero io che stavo per partire.
Senti che cosa sta suonando? chiesi all’unica persona assente, ma mai assente per me.
Sì, lo sento.
E sai che ho vissuto male in questi anni, lo sai bene.
Lo so. Anch’io, però.
Che bella musica suonavi sempre per me...
Era un piacere.
Non l’hai dimenticato, allora.
Certo che no.
E mentre Paul suonava e io fissavo il suo viso e non riuscivo a distogliere lo sguardo da quegli occhi che a loro volta mi fissavano con una grazia e una tenerezza così immediate che le sentivo fin nelle viscere, sapevo che in quel preciso istante si stava dipanando anche qualche arcano e conturbante discorso su com’era stata la mia vita, e come poteva ancora essere o forse non sarebbe mai stata, e la scelta era affidata a me e alla tastiera del pianoforte.
Paul aveva appena finito con l’Arioso di Bach, e subito dopo spiegò che aveva deciso di suonare un preludio corale nella trascrizione di Samuil Feinberg. «Meno di cinque minuti, promesso» disse, rivolgendosi al suo compagno. «Questo minuscolo preludio corale, però» commentò interrompendo la musica per poi riprenderla, «può cambiarti la vita. La mia la cambia ogni volta che lo suono, o almeno credo.»
Stava parlando con me?
Come faceva a sapere della mia vita?
Sapeva, però, e io volevo che sapesse. In che modo la musica potesse cambiarmi la vita mi risultò irriducibilmente chiaro nel momento in cui mi rivolse quelle parole, e tuttavia sentivo già che mi sarebbero sfuggite nel giro di una manciata di secondi, come se il loro significato fosse legato in eterno alla musica, a una serata nell’Upper West Side, quando un ragazzo mi aveva fatto conoscere un brano musicale che non avevo mai sentito e adesso non volevo più smettere di ascoltare. Forse, però, era Bach a rendere più vivace quella sera d’autunno, oppure dipendeva dal fatto che avrei perso questo affollato appartamento vuoto che alla fine mi aveva conquistato e che adesso mi piaceva ancora di più grazie al conforto della musica? Oppure la musica era solo una premonizione di quest’altra cosa chiamata vita, una vita resa più concreta, una vita resa più reale – o meno reale – perché musica e magia erano intrappolate nei suoi recessi? Oppure era il suo viso, sì, il suo viso quando mi aveva guardato, seduto sullo sgabello, e aveva detto: Se vuoi, te lo suono ancora.
Magari intendeva questo, invece: Se la musica non ti cambia, caro amico mio, dovrebbe ricordarti almeno qualcosa che è profondamente tuo ma di cui con ogni probabilità hai perso le tracce, benché non sia mai svanito del tutto, e che, se evocato dalle note giuste, risponde ancora, come uno spirito risvegliato con dolcezza da un prolungato torpore grazie al tocco azzeccato di un dito e al silenzio azzeccato tra le note. Se vuoi, te lo suono ancora. Qualcuno aveva pronunciato parole simili due decenni prima: Questo è Bach come l’ho trascritto io.
Mentre guardavo Erica seduta accanto a me sul rivestimento del calorifero e Paul al piano, volevo che anche le loro vite cambiassero grazie a stasera, grazie alla musica, grazie a me. O forse volevo solo che mi riportassero indietro un frammento del mio passato, perché era il passato, o qualcosa di simile al passato, come il ricordo, o forse non proprio il ricordo ma qualcosa più in profondità, sotto molteplici strati, come l’invisibile filigrana della vita che ancora non riuscivo a cogliere.
Poi, di nuovo, la sua voce. È me che stai cercando, vero? La musica stasera rievoca me.
Guardai loro due e capii che erano ignari di tutto. Anche io. Intuivo che il ponte tra noi tre era destinato a restare fragile e che dopo stasera sarebbe stato smantellato e portato a valle dalla corrente, e che l’amicizia e il buonumore, favoriti dal prosecco, dalla musica e dal finger food della dottoressa Chaudhuri, sarebbero svaniti nel nulla. Addirittura magari le cose tra noi sarebbero tornate a essere com’erano prima che discutessimo di dentifrici o ridessimo di quello sfigato dell’istruttore di yoga che, sia detto per inciso, aveva un alito pestilenziale, come aveva commentato Erica una volta con me all’uscita da una lezione.
Adesso, mentre Paul suonava, pensai alla nostra casa nel New Hampshire e a quanto ogni cosa laggiù mi sembrasse distante e triste mentre guardavo fuori, di fronte a me, il panorama notturno sull’Hudson, e pensai anche ai mobili che avremmo dovuto disimballare una volta arrivati e a faccende tipo spolverare e arieggiare le stanze, e alle frettolose cene infrasettimanali seduti da soli uno davanti all’altra adesso che i ragazzi studiavano fuori casa. Eravamo vicini, eppure distanti; com’era svanito tutto in fretta nel corso degli anni, l’indomabile fuoco, l’entusiasmo, le pazze risate, le corse da Arrigo’s Night Bar per ordinare martini e patatine fritte... Pensavo che il matrimonio ci avrebbe avvicinati e che io avrei voltato pagina. Pensavo che vivere senza figli a New York ci avrebbe riavvicinati. Invece ero più vicino alla musica, all’Hudson, a loro due, di cui non sapevo nulla e delle cui vite, dei loro Clive, dei loro fidanzati o mariti non mi importava un accidenti. Invece, mentre il preludio corale colmava la stanza e cresceva d’intensità, la mia mente vagò altrove, come sempre accade quando alzo un po’ il gomito e sento un pianoforte solcare un oceano e mari e anni fino a un vecchio Steinway suonato da una persona che quella sera vagava in quello spoglio salotto come uno spirito evocato da Bach per ricordarmi: Siamo sempre gli stessi, non ci siamo allontanati. Così mi parlava sempre in certi momenti: Siamo sempre gli stessi, non ci siamo persi, i lineamenti alterati da un languore beffardo. L’aveva quasi detto cinque anni fa, quando era venuto a trovarmi nel New Hampshire.
Ogni volta cerco di ricordargli che non ha nessun motivo per perdonarmi.
Lui, invece, scoppia in una risata irriverente, zittisce le mie proteste e, mai arrabbiato, sorride, si leva la camicia, mi si siede in grembo con i pantaloncini corti, le cosce a cavalcioni sulle mie e le braccia strette intorno alla mia vita, mentre io cerco di concentrarmi sulla musica e sulla donna che mi sta accanto, e sollevando il viso verso di me, quasi fosse sul punto di baciarmi sulle labbra, sussurra: Che sciocco che sei, ci vogliono due di loro per fare me. Posso essere uomo e donna, oppure tutt’e due, perché tu per me sei stato entrambi. Cercami, Oliver. Cercami.
È venuto a farmi visita già diverse volte, ma mai così, mai come stasera.
Parlami, ti prego, parlami ancora, vorrei dirgli. Potrei, se mi concedessi di farlo, avvicinarmi a lui con parole caute e con passi titubanti. Stasera ho bevuto abbastanza da credere che sentirmi gli farebbe piacere più di qualunque altra cosa. Il pensiero mi eccita e la musica mi eccita e il giovane al piano mi eccita. Voglio rompere il silenzio tra noi.
Hai sempre parlato tu per primo. Dimmi qualcosa. Sono quasi le tre del mattino dove vivi tu. Che stai facendo? Sei solo?
Basta qualche tua parola e tutti gli altri si riducono a un rimpiazzo, compreso me stesso, la mia vita, il mio lavoro, la mia casa, i miei amici, i miei figli, il fuoco greco e le triremi greche e questa storiella con Mr. Paul e Ms. Erica, ogni cosa diventa un paravento, e alla fine anche la vita stessa si trasforma in un semplice diversivo.
E tutto ciò che esiste sei tu.
E tutto ciò a cui penso sei tu.
Stai pensando a me stasera? Ti ho svegliato?
Lui non risponde.
«Credo che tu debba parlare con la mia amica Karen» disse Micol. Feci una battuta su di lei. «E credo anche che tu abbia bevuto abbastanza» aggiunse secca.
«Io, invece, credo che me ne farò un altro goccio» risposi, poi mi voltai a parlare con i coniugi specialisti di espatriati ebrei dal Terzo Reich e, senza accorgermene, cominciai a ridere. Che accidenti ci facevano questi due nella mia futura ex casa?
Presi un altro prosecco e andai a parlare con l’amica di Micol. Poi, però, vedendo gli studiosi di espatriati ebrei dal Terzo Reich, scoppiai di nuovo a ridere.
Evidentemente avevo bevuto troppo.
Ripensai a mia moglie e ai miei figli al college. A casa, ogni giorno, lei si metterà al lavoro per terminare il suo libro. Poi me lo farà leggere, dice, quando torneremo nella nostra cittadina universitaria e dovremo indossare scarponi da neve per tutto l’anno scolastico, insegneremo con gli scarponi da neve, andremo al cinema con gli scarponi da neve, a cena, alle riunioni di facoltà, in bagno, a letto, sempre con gli scarponi da neve, e tutto quello che riguarda questa serata apparterrà a un’altra epoca. Erica un oggetto del passato, e anche Paul intrappolato nel passato, e io non sarò altro che un’ombra aggrappata a questa parete che domani non mi vedrà più, ma ancora non mi arrenderò, come una mosca in lotta contro la corrente d’aria che la spazzerà via. Loro due se ne ricorderanno?
Paul mi chiese perché stavo ridendo.
«Sarà perché sono felice» risposi. «Oppure troppo prosecco, forse.»
«Uguale io.»
Scoppiammo a ridere tutti e tre.
Mi tornò in mente che, dopo l’Arioso e il preludio corale, dopo gli interminabili brindisi e il prosecco, c’era stato un momento di imbarazzo quando avevo aiutato Erica a cercare il suo cardigan nella stanza degli ospiti. Due invitati erano già andati via, gli altri aspettavano radunati nell’ingresso. Eravamo da soli nella stanza e, mentre le spiegavo quant’ero felice che fosse venuta, avrei potuto prolungare il silenzio tra noi. Avvertii il suo disagio, ma sapevo che qualche secondo in più così non le sarebbe dispiaciuto affatto. Decisi, però, di non spingermi oltre e mi ritrovai a salutarla dandole un bacio sul collo nudo invece che sulla guancia. Lei sorrise, e io pure. Il mio era un sorriso di scuse, il suo di indulgenza.
Quando venne il momento di congedarmi da Paul, feci per stringergli la mano, invece lui mi abbracciò ancor prima che potessi toccargliela. Belle scapole, pensai quando ci stringemmo. Poi mi diede un bacio su ciascuna guancia. Il suo fidanzato mi salutò allo stesso modo.
Ero contento, eccitato e sopraffatto. Rimasi sulla soglia e guardai le due coppie incamminarsi lungo il corridoio. Non li avrei rivisti mai più.
Che cosa volevo da loro? Che si piacessero, così mi sarei potuto mettere seduto, bere dell’altro prosecco e poi decidere se unirmi al gruppo? O forse mi piacevano entrambi e non riuscivo a decidere chi dei due desiderassi di più? O magari in realtà non volevo né l’uno né l’altra, ma mi faceva comodo pensarlo, perché altrimenti avrei dovuto analizzare la mia vita, trovando ovunque immensi crateri bui che mi riportavano a quell’amore naufragato, danneggiato, di cui avevo parlato con loro giusto poche ore prima.
Micol e la sua amica Karen stavano pulendo la cucina. Avevo detto loro di lasciar stare i piatti. Di punto in bianco, Karen mi ricordò che le avrebbe fatto piacere chiacchierare di nuovo con me. «Presto, magari?» mi propose. «Non appena ripasso in città» risposi, mentendo.
Micol la accompagnò all’ascensore e poi rientrò in casa. Voleva aiutarmi a riordinare un po’ prima di andare a dormire. Le dissi di non preoccuparsi.
«Bella festa» commentò.
«Bellissima.»
«Allora, chi erano quei due?»
«Pivelli.»
Mi lanciò un sorriso d’intesa. «Io vado a letto, tu vieni?»
Dovevo sistemare, risposi, ma l’avrei raggiunta subito.
Con calma buttai alcuni piatti di plastica in due sacchi neri scampati alle operazioni di imballo e, mentre mi accingevo a spegnere le luci in salotto, trovai un pacchetto di sigarette sul tavolino accanto all’unico posacenere dell’appartamento, probabilmente di Karen. Ne presi una, spensi le luci, misi il posacenere accanto a me sul vecchio divano che non era più nostro, sollevai i piedi su una delle quattro sedie che sarebbero rimaste lì con i nuovi padroni di casa e, ripensando all’Arioso, mi tornò in mente che l’avevo sentito tanto tempo prima. Poi, nel salotto in penombra, guardai fuori e scorsi la luna piena. Dio mio, che meraviglia. E più la fissavo, più mi venne voglia di parlare con lei.
Allora, non te l’ho cambiata la vita, eh? mi domanda il caro vecchio Johann Sebastian.
Temo di no.
E perché no?
La musica non dà risposte a domande che non so come formulare. Non mi dice che cosa voglio. Certo, mi ricorda che potrei essere ancora innamorato, anche se non sono più sicuro di sapere che cosa significhi, essere innamorato. Penso sempre agli altri, eppure sono più le persone che ho ferito di quelle di cui mi è importato davvero. Non riesco nemmeno a dire che cosa provo, anche se qualcosa lo sento ancora, ma è più una sensazione di assenza e perdita, forse anche di fallimento, torpore o totale inconsapevolezza. Una volta ero sicuro, pensavo di sapere tutto, di conoscere me stesso e, quando entravo nelle vite delle persone come una furia, senza chiedermi, o quantomeno farmi venire il dubbio, se fossi il benvenuto, a loro piaceva che le toccassi. La musica mi ricorda come sarebbe dovuta essere la mia vita. Non mi cambia, però.
In effetti, commenta il genio, forse la musica non ci cambia fino a quel punto, e nemmeno la grande arte. Piuttosto ci ricorda chi abbiamo sempre saputo di essere e chi siamo destinati a restare, a dispetto delle nostre pretese e dei nostri dinieghi. Ci ricorda le tappe salienti che abbiamo sepolto e nascosto e poi perso, ci ricorda le persone e le cose che contavano nonostante le nostre bugie, nonostante gli anni. La musica non è altro che il suono dei nostri rimpianti tradotto in una cadenza che stimola l’illusione del piacere e della speranza. È la cosa che ci ricorda con maggiore evidenza che siamo qui per un brevissimo lasso di tempo e che abbiamo trascurato o ingannato le nostre vite o, peggio ancora, non le abbiamo vissute. La musica è la vita non vissuta. Tu hai vissuto la vita sbagliata, amico mio, e hai quasi sciupato quella che ti è stata data da vivere.
Che cosa voglio? Tu la sai la risposta, Herr Bach? Davvero si può parlare di vita sbagliata e vita giusta?
Io sono un artista, amico mio, non do risposte. Gli artisti conoscono solo le domande. E poi la risposta la sai già.
In un mondo migliore, lei sarebbe seduta accanto a me sul divano alla mia sinistra e lui alla mia destra, a pochi centimetri dal posacenere. Lei si leva le scarpe e le scalcia via, poi mette i piedi vicini ai miei, sul tavolino. I miei piedi, dice, accorgendosi che li stiamo fissando. Brutti, vero? ci domanda. No, affatto, rispondo io. Tengo la mano a entrambi. Ne libero una, ma solo per passarla sulla fronte di Paul. Mentre Erica si appoggia alla mia spalla, lui si volta verso di me e mi bacia sulla bocca. È un bacio lungo, profondo. Non ci dà fastidio che lei guardi. Anzi, voglio che guardi. Bacia bene, il ragazzo. All’inizio lei non dice nulla, poi: Voglio che baci anche me. Lui le sorride e, quasi scavalcandomi, la bacia sulla bocca. Lei gli dice che le piace come bacia. Concordo, dico io. Però sa di sigarette. Colpa mia, intervengo. Non ti è piaciuto il sapore? chiede lui. Sì, molto, replica lei. La bacio. Non si lamenta che so di tabacco. Anice, penso. Voglio che lei sappia di anice come lui, dalla bocca di lui alla bocca di lei alla mia bocca, e poi di nuovo daccapo.
Più tardi, quella sera, andai a dormire pensando a noi tre nudi a letto. Ci abbracciamo, ma alla fine loro due sono accoccolati contro di me, ciascuno con una coscia su una delle mie. Sarebbe potuto tranquillamente accadere, e in modo del tutto naturale, quasi fossero venuti a cena entrambi con quell’idea in testa, e poco altro. Perché tutte quelle strategie e tutti quei piani e tutte quelle angosce quando, ore prima, stavo riponendo le bottiglie nei secchielli del ghiaccio? Mi piaceva pensare al loro sudore mischiato al mio. Eppure alla fine mi ero concentrato solo sui loro tendini d’Achille. Quelli di lei, quando si era tolta le scarpe e aveva appoggiato i piedi sul tavolino, quelli di lui quando era entrato a inizio serata e avevo notato che indossava mocassini da vela senza calze. Non avevo idea di quanto fossero sinuosi e delicati i suoi piedi. In seguito anche lui si era tolto le scarpe prima di appoggiare i piedi sul tavolino, una caviglia sottile e abbronzata sopra l’altra. Guardate i miei, aveva detto, contorcendo le dita di un piede. Avevamo riso. Piedi da ragazzino, dissi. Lo so, aveva risposto lui. Si era avvicinato di nuovo, mi aveva posato un ginocchio sulla coscia e mi aveva baciato.
Non ricordo che cosa avessi sognato di preciso, ma so che, per tutta la notte, svegliandomi innumerevoli volte accaldato e inquieto, li avevo amati entrambi, insieme o separatamente non saprei dirlo, perché c’era qualcosa di così reale nella loro presenza del tutto libera tra le mie braccia che, quando mi svegliai in piena notte stringendo mia moglie, sentii, come già avevo immaginato di sera, che non sarebbe risultato forzato preparare la colazione per noi quattro in una cucina che mi ricordava una casa in Italia.
Pensai a Micol. In tutto ciò non c’era spazio per lei. L’Italia era un capitolo di cui non discutevamo mai. Lei sapeva, però. Sapeva che un giorno... sapeva e basta, e probabilmente meglio di me. Un tempo volevo raccontarle tutto dei miei amici di allora e della loro casa al mare e della mia stanza laggiù e della padrona di casa, che anni prima era stata come una madre per me ma che adesso soffriva di demenza senile e a stento ricordava come si chiamava, e poi anche di suo marito che, prima di morire, viveva in quella stessa casa con un’altra donna, che abita ancora lì con il loro figlio di sette anni che non vedo l’ora di conoscere.
Devo tornare, Micol.
Perché?
Perché la mia vita si è fermata lì. Perché non me ne sono mai andato del tutto. Perché il resto di me qui sembra la coda mozzata di una lucertola, che si dimena e si divincola mentre il corpo è rimasto dall’altra parte dell’Atlantico in quella meravigliosa casa sul mare. Sono stato lontano fin troppo a lungo.
Mi vuoi lasciare?
Credo di sì.
E vuoi lasciare anche i tuoi figli?
Sarò sempre il loro padre.
E quando lo farai?
Non lo so. Presto.
Non posso dire di essere sorpresa.
Lo so.
Quella stessa notte, dopo che gli ospiti avevano lasciato l’appartamento e Micol era andata a letto, spensi le luci nell’ingresso. Stavo per chiudere la portafinestra che dava sul balcone quando mi ricordai delle candele. Tornai fuori, rimasi in piedi di fronte al fiume, posai entrambe le mani sulla balaustra dove mi ero trattenuto prima con Erica e Paul e fissai l’acqua. Mi piacevano le luci sull’Hudson, mi piaceva quel fresco venticello, mi piaceva Manhattan in questa stagione, mi piaceva la vista sul ponte George Washington, che sapevo mi sarebbe mancato una volta tornato nel New Hampshire ma che adesso, stanotte, mi ricordava ancora Montecarlo quando di notte le sue luci scintillanti erano visibili fino in Italia. Presto nell’Upper West Side avrebbe fatto freddo e sarebbero venuti giorni di pioggia, ma qui alla fine il cielo si apriva sempre e le strade brulicavano comunque di gente a tarda ora anche quando faceva freddo, in questa città che non dorme mai.
Rimisi a posto le sdraio, raccolsi da terra un bicchiere di vino mezzo vuoto e ne notai un altro che era stato usato come posacenere e traboccava di mozziconi. In quanti erano usciti a fumare? L’insegnante di yoga, Karen, Micol, la coppia di coniugi che avevo conosciuto alla conferenza sugli ebrei espatriati dal Terzo Reich, i vegani, chi altri?
Adesso, mentre ammiravo la vista e osservavo due rimorchiatori avanzare silenziosi contro corrente, pensai che un giorno, fra cinquant’anni, qualcun altro sarebbe uscito su questo stesso balcone e avrebbe ammirato questa stessa vista, nutrendo pensieri simili ai miei, ma non sarei stato io. Sarebbe stato un adolescente oppure un ottantenne, o magari avrebbe avuto la mia età di adesso e, come me, avrebbe sofferto ancora per un amore passato e unico, cercando di non pensare a una qualche anima sconosciuta che, proprio come me in una notte di cinquant’anni prima, aveva ripensato con struggimento al suo amato sforzandosi di non pensarci, come mi ero scoperto a fare io, invano, dopo tutti questi anni?
Il passato, il futuro, sono tutte maschere.
E pure quei due, Erica e Paul, erano solo un paravento.
Ogni cosa era un paravento, la vita stessa era un diversivo.
Ciò che contava ora non l’avevo vissuto.
Guardai la luna e mi venne voglia di chiederle della mia vita. La sua risposta, però, mi giunse ancor prima che potessi formulare la domanda. Per vent’anni hai vissuto la vita di un uomo morto. Lo sanno tutti. Perfino tua moglie e i tuoi figli e l’amica di tua moglie e la coppia che hai conosciuto a una conferenza sugli espatriati ebrei dal Terzo Reich, te lo si legge in faccia. Lo sanno Erica e Paul, e quegli accademici che studiano il fuoco greco e le triremi greche, lo sanno perfino i presocratici, morti duemila anni fa. Sei l’unico a non saperlo. Adesso, però, l’hai capito anche tu. Sei stato sleale.
Con chi? Con che cosa?
Con te stesso.
Mi tornò in mente che qualche giorno prima, mentre stavo comprando scatoloni e nastro adesivo, avevo intravisto un mio conoscente dall’altra parte della strada. Gli avevo fatto un cenno di saluto con la mano, ma lui non aveva risposto e aveva continuato a camminare, eppure ero certo che mi avesse riconosciuto. Forse era arrabbiato con me. Sì, ma per che cosa? Qualche istante dopo adocchiai un tizio del mio dipartimento che si dirigeva verso una libreria. Ci incrociammo vicino a uno dei fruttivendoli ambulanti sul marciapiedi e lui guardò nella mia direzione, ma non ricambiò il mio sorriso. Un momento dopo mi imbattei in una mia vicina di casa sul marciapiedi; di solito in ascensore ci scambiavamo convenevoli, invece quando la salutai non disse nulla né rispose al mio cenno del capo. All’improvviso mi balenò per la testa che forse ero morto, mi sembrava l’unica spiegazione possibile, e che la morte funzionava così: tu vedi le altre persone ma loro non vedono te e, peggio ancora, ti ritrovi intrappolato in quello che eri nell’istante del trapasso – intento a comprare scatoloni di cartone, nel mio caso – senza mai diventare la persona che saresti potuto essere e che sapevi di essere, non potendo rimediare a quell’unico errore che ha deviato la tua vita dal proprio corso, ma costretto in eterno a sbrigare la tua ultima stupida commissione, cioè comprare scatoloni e nastro adesivo. Avevo quarantaquattro anni. Ero già morto – eppure ero troppo, troppo giovane per morire.
Dopo avere chiuso le finestre, ripensai all’Arioso di Bach e presi a canticchiarlo nella mia mente. In momenti come questi, quando siamo soli e la nostra mente vaga altrove, al cospetto dell’eternità, pronta a stilare un bilancio di questa cosa chiamata vita e di tutto quanto abbiamo portato a termine o lasciato a metà o mai iniziato, quale sarebbe la mia risposta alle domande di cui, secondo il caro vecchio Bach, conoscevo già la risposta?
Una persona, un nome – lui lo sa, pensai. In questo preciso istante, lui sa, lo sa ancora.
Cercami, mi dice.
Lo farò, Oliver. Lo farò, gli dico. O l’ha dimenticato?
Si ricorda di ciò che ho appena fatto, però. Mi guarda, non dice nulla, capisco che è commosso.
E all’improvviso, con l’Arioso ancora in testa e un altro bicchiere in mano e un’altra delle sigarette di Karen, volevo che lo suonasse per me questo Arioso, seguito dal preludio corale che lui non aveva mai eseguito, sì, volevo che lo suonasse per me, solo per me. E più pensavo a lui che suonava, più mi si colmavano gli occhi di lacrime, e poco importava se a parlare era ancora l’alcol o il mio cuore, perché adesso non volevo altro che sentirlo suonare questo Arioso seduto allo Steinway dei suoi genitori in una piovosa sera d’estate nella loro casa al mare. Io mi sarei seduto vicino al pianoforte con qualcosa da bere e sarei stato con lui e non più così solo com’ero stato per tanti, troppi anni, in mezzo a sconosciuti che non sapevano nulla di me o di lui. Gli avrei chiesto di suonare l’Arioso e, suonandolo, di ricordarmi questa serata, quando avevo spento le candele sul balcone e le luci in soggiorno, quando mi ero acceso una sigaretta e per una volta nella vita avevo capito dove volevo essere e che cosa dovevo fare.
Sarebbe successo come la prima volta o la seconda o la terza. Prima di tutto inventarsi un motivo che possa risultare abbastanza credibile agli altri e a me stesso, poi prendere un aereo, noleggiare una macchina o pagare un autista che mi accompagni laggiù, percorrere quelle strade familiari, che probabilmente saranno cambiate negli anni, o magari non tanto, e che ancora si ricordano di me come io di loro, e in men che non si dica eccoli là: il vecchio viale di pini, l’inconfondibile rumore della ghiaia che scricchiola sotto gli pneumatici mentre la macchina rallenta e si ferma, e poi la casa. Alzo la testa, immagino non ci sia nessuno, non sapevano che sarei venuto, anche se gliel’avevo scritto, invece eccolo lì in attesa, ne ero certo. Gli ho detto di non aspettarmi. Ma certo che ti aspetterò, risponde, e in un baleno con quel ma certo ritornano tutti i nostri anni, perché lì dentro c’è una punta di muta ironia, la stessa con cui apriva il suo cuore quando eravamo insieme, come a dire: Sai che ti aspetterò sempre, anche se arrivassi alle quattro del mattino. Sono anni che aspetto, figurati se non aspetterò qualche ora in più adesso, cosa credi?
Aspettare è quello che facciamo da una vita, e questa attesa mi consente di stare qui a ricordare la musica di Bach che suona dalla mia parte del nostro pianeta e lasciare che i miei pensieri arrivino fino a te, perché voglio solo pensare a te, e a volte non so chi è quello che sta pensando, se tu o io.
Sono qui, dice.
Ti ho svegliato?
Sì.
Ti scoccia?
No.
Sei solo?
È importante? Comunque, sì.
Dice di essere cambiato. Non è vero.
Io vado ancora a correre.
Anche io.
E bevo un po’ di più.
Idem.
Dormo male, però.
Idem.
Angoscia, e anche una lieve depressione.
Idem, idem.
Tornerai, vero?
Come fai a saperlo?
Lo so, Elio.
Quando? chiede Elio.
Tra un paio di settimane.
Voglio che torni.
Credi?
Lo so.
Non percorrerò il viale alberato come avevo previsto. L’aereo atterrerà a Nizza.
Vengo a prenderti in macchina, allora. In tarda mattinata. Come la prima volta.
Te lo ricordi.
Me lo ricordo.
E voglio vedere il bambino.
Ti ho detto come si chiama? Mio padre ha voluto chiamarlo come te. Oliver. Non ti ha mai dimenticato.
Farà caldo e non ci sarà ombra. Ovunque, però, ci sarà profumo di rosmarino e riconoscerò il tubare delle colombe e dietro la casa troverò un campo di lavanda selvatica e di girasoli con le grosse corolle stordite sollevate verso il sole. La piscina, il campanile ribattezzato da noi «Bello da morire», il monumento ai soldati caduti sul Piave, il campo da tennis, il cancello sgangherato che conduce alla spiaggia rocciosa, la mola ogni mercoledì pomeriggio, l’infinito frinire delle cicale, io e te, il tuo corpo e il mio.
Se mi chiede quanto mi fermerò, gli dirò la verità.
Se mi chiede dove ho intenzione di dormire, gli dirò la verità.
Se me lo chiede.
Non me lo chiederà, però. Non serve. Lo sa.