Da una grande maestra della narrativa fantastica, più volte vincitrice del premio Hugo, un potente racconto di mistero, magia e tradimento. Il destino di un cavaliere, della sua stirpe e di un regno tormentato. Provato nel corpo e nello spirito da una lunghissima prigionia, il comandante Lupe dy Cazaril ritorna nel regno di Chalion, in cui aveva servito come paggio, e viene nominato tutore di Royesse, bella e intelligente sorella dell’erede al trono. Ma quell’occasione di riscatto si trasforma presto in un incubo, poiché Cazaril scopre che a corte proprio quegli uomini che lo hanno tradito ora occupano posti di grande potere. E scopre soprattutto che l’intera stirpe di Chalion è gravata da una terribile maledizione, che non può essere annullata se non con la magia più nera…

Lois McMaster Bujold

L’ombra della maledizione

1

Cazaril sentì i cavalieri avvicinarsi e si voltò per dare un’occhiata. Il sentiero dietro di lui descriveva una serie di curve intorno a uno di quei rilievi arrotondati che, in quelle pianure ventose, passavano per colline, per poi tornare a scendere verso il pianeggiante suolo della Baocia, molle e fangoso a causa del clima invernale. Più a valle, la strada era attraversata da un ruscello verdognolo, troppo insignificante per meritare un ponticello tutto suo.

Cazaril constatò che il tonfo degli zoccoli, unito al tintinnare dei finimenti, allo scricchiolare delle selle e all’eco di voci noncuranti di eventuali pericoli, si stava avvicinando troppo in fretta perché potesse appartenere a qualche cauto contadino alla guida dei suoi buoi o a un convoglio di muli.

Alla fine, la colonna oltrepassò al trotto la svolta che seguiva il fianco dell’altura, e risultò composta di una dozzina di cavalieri che procedevano a coppie, sfoggiando la divisa completa del loro Ordine. Visto che non si trattava di banditi, Cazaril trasse un sospiro di sollievo, sebbene, a ben vedere, non avrebbe avuto nulla da offrire a un gruppetto di malviventi, se non un po’ di divertimento a sue spese. Lentamente si fece da parte e si fermò per assistere al passaggio della colonna.

Le argentate cotte di maglia dei cavalieri scintillavano nell’incerta luce del mattino. Erano armature da parata, coi tabarri azzurri, di una tonalità quasi uniforme, che recavano in bianco l’insegna della Signora della Primavera, mentre i mantelli grigi erano gettati all’indietro e fissati con spille d’argento perfettamente lucidate. Quei soldati-fratelli erano certamente diretti a qualche cerimonia, ed era improbabile che desiderassero sporcare la loro livrea col sangue di un umile viandante come Cazaril.

Inaspettatamente, però, giunto alla sua altezza, il capitano del contingente sollevò una mano, costringendo la colonna ad arrestarsi. La manovra fu compiuta con una certa goffaggine, e venne accompagnata da una serie di risucchi degli zoccoli nel fango, una cosa che avrebbe indotto il vecchio capostalliere del padre di Cazaril a imprecare sonoramente contro quella banda di ragazzi inesperti. Tuttavia ormai cose del genere non avevano più importanza.

«Ehi, tu, vecchio villico», chiamò il capitano, protendendosi oltre la sella del portabandiera per attirare l’attenzione di Cazaril.

Pur sapendo di essere l’unico sulla strada, Cazaril si trattenne a stento dal girare la testa per vedere a chi si stesse rivolgendo. Poi però si rese conto che i soldati dovevano averlo scambiato per qualche contadino locale, diretto al mercato o impegnato ad assolvere qualche incarico, e dovette ammettere che, in effetti, il suo aspetto era tale da avvallare una supposizione del genere. I logori stivali coperti di fango, l’assortimento di abiti spaiati, frutto di elemosina, che lo proteggevano dal gelido vento di sud-ovest — e per i quali lui era profondamente grato a tutti gli Dei — e la barba di due settimane che gli faceva prudere il mento potevano giustificare l’appellativo «villico». Anzi il capitano avrebbe potuto usare termini anche più rozzi… ma perché «vecchio»?

Il capitano del drappello indicò un punto più avanti, lungo la strada, dove un altro sentiero incrociava quello su cui si trovavano. «È quella la strada per Valenda?» chiese.

Erano trascorsi… Cazaril fu costretto a concentrarsi per contare gli anni, e il risultato lo lasciò sgomento. Diciassette anni se n’erano andati dal giorno in cui aveva percorso per l’ultima volta quella strada, diretto non verso una cerimonia, bensì verso la guerra, al seguito del Provincar della Baocia. Benché seccato che la sua cavalcatura fosse un semplice castrato e non un più appariscente destriero da guerra, a quel tempo lui era giovane, arrogante, vanesio e accurato nel vestire quanto quei giovani che lo stavano squadrando dall’alto in basso. Oggi sarei già contento di avere un asino, anche se dovrei piegare le gambe per non far strisciare i piedi nel fango, pensò.

Si concesse un sorriso nel sollevare lo sguardo sui soldati-fratelli, ben sapendo che troppo spesso quelle facciate tirate a lucido erano solo un modo per nascondere borse vergognosamente vuote.

I soldati continuarono a squadrarlo con alterigia, quasi potessero avvertire il suo odore. Del resto lui non era qualcuno su cui desiderassero fare buona impressione: non era un nobile che poteva rivelarsi generoso nei loro confronti, ma un soggetto su cui esercitarsi ad assumere un’aria sdegnosa e aristocratica. Senza dubbio, quei ragazzi stavano scambiando l’espressione con cui lui li osservava per ammirazione, o forse addirittura per stupidità.

Cazaril represse la tentazione d’indicare alla colonna la direzione sbagliata, indirizzandola verso qualche pascolo per le pecore, od ovunque andasse a finire quel bivio dall’aspetto ingannevolmente ampio: non era il caso di giocare uno scherzo del genere ad alcune guardie al servizio della Figlia. Proprio alla vigilia del Giorno della Figlia, poi. Inoltre, gli uomini che entravano a far parte dei sacri ordini militari non erano particolarmente famosi per il loro senso dell’umorismo, e lui avrebbe potato incontrarli ancora, siccome era diretto a Valenda.

«No, capitano», rispose quindi, dopo essersi schiarito la gola, perché era dal giorno prima che non rivolgeva parola ad anima viva. «La strada per Valenda è indicata da una pietra miliare del Roya che si trova qualche miglio più avanti. Non vi potete sbagliare», aggiunse, tirando fuori una mano dalle calde pieghe del cappotto per indicare. Le dita contorte però non si raddrizzarono del tutto e lui si trovò ad accennare alla strada con una mano che sembrava un artiglio. L’aria gelida gli aggredì le articolazioni gonfie, inducendolo a ritrarre in fretta l’arto nel suo nido di stoffa calda.

Il capitano rivolse allora un cenno al suo portabandiera, un individuo dalle spalle massicce, che insinuò l’asta della bandiera nell’incavo del gomito per armeggiare con la propria borsa, frugando per trovarvi una moneta di valore adeguatamente basso. Ne scelse un paio, e le stava tirando fuori per esaminarle alla luce, quando il suo cavallo ebbe un lieve scarto e una delle monete — un reale d’oro e non un vaida di rame — gli sfuggì e cadde nel fango. Sgomento, il soldato seguì con lo sguardo la traiettoria della preziosa moneta, ma subito dopo cercò di controllare la propria espressione e si trattenne dallo smontare davanti ai compagni per frugare nel fango alla ricerca del reale d’oro. Il contadino che credeva di avere davanti si sarebbe comportato così, non lui. A testa alta, l’uomo sfoggiò un sorriso acido e lo fissò, in attesa di vederlo lanciarsi alla frenetica ricerca di quella manna inattesa.

Invece Cazaril s’inchinò e disse: «La benedizione della Signora della Primavera scenda sul vostro capo, giovane signore, con lo stesso spirito con cui voi avete elargito tanta ricchezza a un povero vagabondo e con lo stesso generoso altruismo».

Se fosse stato più intelligente, forse il giovane soldato-fratello si sarebbe reso conto dell’ironia di quelle parole, e Cazaril, nei suoi presunti panni di contadino, si sarebbe guadagnato una meritata frustata in pieno volto. Ma l’espressione vacua del fratello rivelò che non c’era motivo di preoccuparsi, anche se il capitano contrasse le labbra in un’espressione esasperata, limitandosi comunque a scuotere il capo e a segnalare alla colonna di riprendere la marcia.

Se il portabandiera era stato troppo orgoglioso per inginocchiarsi nel fango, Cazaril era troppo stanco per farlo, quindi attese che anche il convoglio dei bagagli — un assortimento di servitori e di muli — fosse passato oltre, prima di accoccolarsi faticosamente per recuperare quella piccola scintilla dorata in mezzo all’acqua fredda, che cominciava già a filtrare nell’impronta lasciata da un cavallo. Per quanto si fosse mosso con cautela, le vecchie ferite sulla schiena gli causarono un intenso dolore. Per gli Dei, mi muovo come un vecchio, si disse, mentre cercava di riprendere fiato e si rimetteva in piedi, sentendosi come un centenario o come una zolla di fango sotto il tacco dello stivale del Padre dell’Inverno, pronto a lasciare il mondo.

Ripulita la piccola moneta d’oro, Cazaril tirò fuori la sacca, che era vuota, lasciò cadere il sottile disco di metallo nella sua bocca di cuoio e indugiò a contemplarne il solitario bagliore, prima di riporre la borsa con un sospiro. Adesso poteva essere derubato dai banditi: aveva di nuovo un motivo per aver paura.

Nell’avviarsi con passo incespicante lungo la strada, indugiò a meditare su quel nuovo fardello, tanto opprimente rispetto al suo peso insignificante, quasi al punto di non valere il rischio. L’oro, la tentazione dei deboli, la stanchezza dei saggi… Cosa rappresentava per quel soldato dallo sguardo ottuso, che aveva mostrato tanto imbarazzo per la propria involontaria generosità?

Cazaril lasciò vagare lo sguardo sullo spoglio panorama circostante. Soltanto sulle rive del lontano corso d’acqua crescevano alberi spogli e cespugli spinosi, scuri come il carbone nella debole luce mattutina. L’unico possibile riparo nelle vicinanze era un mulino abbandonato che sorgeva su un’altura alla sua sinistra, col tetto crollato e con le pale fatiscenti. Tuttavia, giusto per non rischiare…

Allontanatosi dalla strada, iniziò a risalire la collina. Confrontata coi passi montani che lui aveva attraversato appena una settimana prima era soltanto una collinetta, però la salita gli tolse il fiato al punto d’indurlo quasi a tornare indietro. Lassù il vento era più forte, con folate improvvise che agitavano i ciuffi dorati di secca erba invernale. Spostatosi in modo che il mulino lo proteggesse dal vento, Cazaril entrò nell’edificio e salì una scala pericolante che seguiva una parete, sbirciando poi all’esterno attraverso la finestra priva d’imposte.

Sulla strada sottostante, un uomo stava conducendo un cavallo marrone lungo il sentiero: non sembrava uno dei soldati-fratelli, bensì un servitore. Teneva le redini in una mano e un solido randello nell’altra. Possibile che fosse stato mandato dal suo padrone per recuperare la moneta d’oro a spese del vagabondo incontrato lungo la strada? L’uomo superò la curva, scomparendo al di là di essa soltanto per riapparire dopo pochi minuti. Si fermò a fissare il ruscelletto fangoso, girandosi sulla sella per scrutare i pendii deserti, prima di scuotere il capo con aria disgustata e di spronare il cavallo per raggiungere la colonna.

D’un tratto, si rese conto che stava ridendo. Era una cosa che gli pareva strana e poco familiare, un tremito impresso alle sue spalle che non derivava dal freddo o dalla paura. E notò anche un vuoto dentro di sé, una totale assenza di… cosa? D’invidia lacerante? Di ardente desiderio? Sapeva soltanto che non aveva nessuna voglia di seguire i soldati-fratelli, che non voleva più essere uno di loro. Li aveva guardati passare con assoluta indifferenza, come se stesse assistendo a uno spettacolo sulla piazza del mercato.

Per gli Dei, devo proprio essere stanco, pensò, consapevole di essere anche affamato. Mancava però ancora un buon tratto di strada, un quarto di giornata di marcia, prima di arrivare a Valenda, là dove un cambiavalute avrebbe potuto convertire il suo reale d’oro in un gruzzolo di vaida di rame, certamente più facili da spendere. Quella notte, con la benedizione della Signora, forse sarebbe riuscito a dormire in una locanda e non in una stalla, avrebbe potuto comprarsi un pasto caldo, concedersi una rasatura, e soprattutto un bagno…

Cazaril si girò verso l’interno del mulino. Dato che i suoi occhi si erano ormai abituati alla penombra, notò subito la figura che giaceva distesa sul pavimento cosparso di macerie.

Per un momento s’irrigidì, in preda al panico, ma poi si tranquillizzò, constatando che il corpo non si muoveva. Nessun uomo ancora in vita poteva rimanere immobile così a lungo, in quella strana posizione, con la schiena incurvata. A ogni buon conto, lui non aveva paura dei morti. Quanto alla causa di quella morte, però…

Nonostante l’immobilità assoluta dell’uomo, Cazaril raccolse un sasso dal pavimento prima di avvicinarsi. Era un uomo grassoccio, di mezz’età, almeno a giudicare dal grigio misto al bruno della barba curata, sotto la quale il volto appariva tumefatto e violaceo. Che fosse stato strangolato? Ipotesi da scartare, dato che sulla gola non si vedevano segni. I suoi abiti erano sobri e di buona fattura, ma sembravano troppo stretti per lui. La veste di fine lana marrone e la nera e ampia sopravveste senza maniche, bordata d’argento, indicavano che quell’uomo era un ricco mercante oppure un piccolo nobile dai gusti austeri o magari uno studioso pieno di ambizione. Di certo non era un artigiano o un contadino e neppure un soldato, perché le mani, gonfie e chiazzate di porpora e di giallo, non avevano né calli né cicatrici né, soprattutto, mutilazioni di sorta, come pensò Cazaril, lanciando un’occhiata alla propria mano sinistra, cui mancavano due dita, a testimonianza di quanto fosse stolto afferrare una corda da scalata in tensione. L’uomo inoltre non portava ornamenti: nessuna catena, nessun anello o sigillo. Possibile che qualcun altro avesse trovato il corpo prima di lui?

Serrando i denti, si chinò per esaminare meglio il cadavere, un movimento che gli provocò fitte dolorose in tutto il corpo. Le vesti non gli parvero più così strette e l’uomo non era affatto grasso… No, si era gonfiato in maniera innaturale, com’era successo al volto e alle mani. D’altro canto, un corpo in stato di decomposizione tanto avanzato avrebbe dovuto riempire quel mulino di un fetore tale da togliergli il respiro, mentre in quel fatiscente rifugio non si avvertiva nessun puzzo, tranne un sentore di profumo, o d’incenso, misto a fumo di candela e all’odore di sudore stantio.

Spostando lo sguardo sul pavimento di terra battuta, sgombro da rottami, che circondava il cadavere, Cazaril scartò la possibilità che quel poveretto fosse stato assassinato sulla strada e poi trascinato lassù, al riparo da occhi indiscreti. Scorse i mozziconi di cinque candele — blu, rossa, verde, nera e bianca — totalmente consumate, piccoli mucchietti di erbe e di cenere, sparsi un po’ ovunque, e uno scuro ammasso di penne: un corvo morto, col collo spezzato. Una breve ricerca gli permise di trovare anche il ratto morto, con la gola tagliata, che in quel rituale si accompagnava al corvo. Il Ratto e il Corvo, gli animali sacri al Bastardo, il Dio di tutti i disastri fuori stagione: tornadi, terremoti, siccità, inondazioni, aborti e assassini… Hai cercato di farti ubbidire dagli Dei, vero? rifletté. Quello stolto aveva tentato di operare la magia di morte, pagandone poi il prezzo. Ma aveva agito da solo?

Senza toccare nulla, si alzò e fece un rapido giro dentro il mulino e fuori di esso, senza però trovare borse, mantelli o altri oggetti abbandonati. Almeno un cavallo era stato legato all’esterno, sul lato opposto rispetto alla strada, come testimoniavano i mucchietti di sterco ancora freschi.

Sospirando, cercò di convincersi che tutta quella faccenda non lo riguardava. Sarebbe però stato empio abbandonare un morto a marcire senza un’adeguata cerimonia funebre, e soltanto gli Dei sapevano quanto tempo sarebbe passato prima che qualcun altro lo trovasse. Certo, considerato che si trattava di un individuo benestante, prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercarlo: non era il genere di uomo che potesse svanire nel nulla, senza che qualcuno ne sentisse la mancanza, come nel caso di un lacero vagabondo.

Resistendo alla tentazione di tornare sulla strada, ignorando il cadavere, Cazaril si avviò lungo il sentiero che partiva dal retro del mulino, pensando che portasse a una fattoria o comunque a un centro abitato. Stava camminando da pochi minuti quando s’imbatté in un uomo che conduceva per la cavezza un asino carico di fascine di legna, e che stava risalendo il sentiero in direzione opposta alla sua. Arrestandosi, l’uomo lo scrutò con fare sospettoso.

«La Signora della Primavera vi conceda una buona mattinata, signore», lo salutò cortesemente Cazaril, pensando che non c’era nulla di male a usare un onorifico «signore» con un semplice contadino. Non dopo aver baciato i piedi a uomini ben peggiori, nel suo terrificante periodo di schiavitù sulle galee.

Dopo averlo scrutato, l’uomo gli rivolse un cenno di saluto. «La Signora sia con te», borbottò.

«Vivete nelle vicinanze?» chiese Cazaril.

«Già», rispose l’uomo, un individuo di mezz’età, ben nutrito, il cui cappotto dotato di cappuccio, simile a quello più liso di Cazaril, appariva semplice ma pratico. A giudicare dal suo atteggiamento, doveva essere il proprietario della terra su cui si trovava, anche se senza dubbio le sue ricchezze si fermavano lì.

«Io… ecco…» cominciò Cazaril, indicando il sentiero. «Mi sono allontanato dalla strada, per ripararmi in quel mulino lassù e ho trovato un cadavere», spiegò. Non fece tuttavia cenno al perché avesse cercato un riparo.

«Già», ripeté il contadino.

Lui rimpianse di essersi liberato del sasso raccolto in precedenza. «Sapete di lui?» chiese, cauto.

«Ho visto il suo cavallo legato lassù, stamattina.»

«Ah», commentò. Poteva proseguire per la sua strada con la coscienza tranquilla, dunque. «Sapete per caso chi fosse quel poveretto?»

«So soltanto che non è di queste parti», ribatté il contadino, scrollando le spalle e sputando per terra. «Non appena mi sono reso conto del genere di cose malvagie successe qui la scorsa notte, ho mandato a chiamare la Divina del nostro Tempio, che ha portato via tutti i beni di quel tizio, per trattenerli finché non verranno richiesti. Il suo cavallo sta nel mio granaio, ed è uno scambio equo, considerata la legna e l’olio che dovrò consumare a causa sua. La Divina però ha detto che non possiamo lasciarlo così fino al tramonto.» Indicando le fascine legate sul dorso dell’asino, assestò uno strattone alla cavezza e riprese a risalire il sentiero.

«Avete idea di cosa stesse facendo quel tizio?» chiese Cazaril, affiancandosi al contadino.

«Quello che stava facendo è evidente», sbuffò l’uomo. «E ha avuto quello che si meritava.»

«Hmm… Sapete anche a chi lo stesse facendo?»

«Non ne ho idea e lascerò che se ne occupino al Tempio. Vorrei soltanto che non lo avesse fatto sulla mia terra, spargendo la malasorte… È probabile che torni a infestare questo posto, quindi lo purificherò col fuoco e brucerò anche quel rudere fatiscente di un mulino. È inutile lasciarlo così vicino alla strada. Serve soltanto ad attirare… guai.» E gli scoccò un’occhiata.

L’altro avanzò in silenzio per qualche istante, poi, con una certa esitazione, chiese: «Intendete bruciarlo con gli abiti indosso?»

Prima di rispondere, il contadino gli scoccò un’altra occhiata, notando la povertà del suo aspetto. «Io non intendo toccare nulla di suo. Non avrei preso neppure il cavallo, ma non sarebbe stato un atto di carità lasciar morire di fame quella povera bestia.»

«In tal caso, vi dispiacerebbe se prendessi io quei vestiti?» domandò Cazaril, ancor più esitante.

«Non è a me che lo devi chiedere, giusto? Veditela con lui, se ne hai il coraggio. Io di certo non ti fermerò.»

«Se volete… vi aiuterò a prepararlo per il rito funebre.»

«Questa sarebbe una cosa gradita», replicò il contadino, fissandolo con aria un po’ sorpresa.

Cazaril ebbe l’impressione che l’uomo fosse più che contento di affidare a lui il compito di occuparsi del cadavere. A causa delle sue condizioni fisiche, fu però costretto a lasciare al contadino il compito di ammucchiare i ceppi più grossi per il rogo, preparato all’interno del mulino, anche se diede una mano a trasportare le fascine più leggere. Avanzò anche qualche pacato suggerimento su come posizionare il tutto per garantire una migliore circolazione dell’aria e avere la certezza di distruggere l’edificio.

Il contadino rimase a guardare, a distanza di sicurezza, mentre Cazaril procedeva a spogliare il cadavere, sfilando a fatica i diversi strati d’indumenti dal corpo irrigidito, che appariva ancora più gonfio di quanto non fosse sembrato a prima vista. Quando riuscì a rimuovere l’elegante camiciola di cotone ricamato, l’addome risultò sporgente in modo quasi osceno. In effetti, il cadavere costituiva uno spettacolo spaventoso, ma qualsiasi cosa avesse prodotto quel gonfiore non poteva essere contagiosa, considerata l’assenza di qualunque odore di morte. Cazaril si chiese cosa sarebbe successo se il cadavere non fosse stato bruciato prima del tramonto: forse sarebbe esploso o magari si sarebbe aperto e, in quel caso, chissà cosa ne sarebbe uscito… o vi sarebbe entrato. Ripiegò i vestiti, quasi privi di macchie, più in fretta che poté, tralasciando le scarpe, troppo piccole per lui. Poi aiutò il contadino a issare il corpo sul rogo.

Quando tutto fu pronto, si lasciò cadere in ginocchio, chiuse gli occhi e recitò la preghiera per i morti. Non sapendo quale Dio avesse preso con sé l’anima del defunto — benché lui ne avesse un’idea piuttosto precisa — si rivolse a tutti e cinque i membri della Sacra Famiglia, parlando in termini semplici e chiari: dopotutto, le offerte dovevano consistere in ciò che si aveva di meglio, anche se l’unica cosa da offrire erano le parole. «Misericordia dal Padre e dalla Madre, misericordia dalla Sorella e dal Fratello, misericordia dal Bastardo, cinque volte misericordia, o Altìssimi, noi vi imploriamo», recitò. Quell’infelice aveva comunque già pagato per i peccati commessi, per cui la cosa più giusta era chiedere la misericordia degli Altissimi. Non la laro giustìzia… Oh, no, nessuna giustizia. Sarebbe da stolti pregare per avere giustizia.

Quando terminò, si rialzò con mosse rigide e si guardò intorno, procedendo quindi a raccogliere le carcasse del ratto e dei corvo e deponendole sul rogo, accanto alla testa e ai piedi dell’uomo.

A quanto pareva, quel giorno gli Dei avevano deciso di elargirgli un po’ di fortuna, ma lui non poté fare a meno di chiedersi sotto quale forma essa si sarebbe presentata, la volta seguente.

Mentre dal mulino in fiamme cominciava a levarsi una colonna di fumo oleoso, Cazaril tornò a incamminarsi sulla strada di Valenda, coi vestiti del morto legati in un fagotto. Sebbene fossero meno sporchi di quelli che aveva indosso, era comunque intenzionato a trovare una lavandaia per farli pulire. I vaida di rame di cui disponeva parevano ridursi sempre più a ogni conto mentale delle spese da affrontare, però a quello non avrebbe rinunciato.

La notte precedente aveva dormito in un granaio, tremando in mezzo alla paglia, dopo aver cenato con mezza pagnotta di pane stantio, usando poi l’altra metà per la colazione. La distanza che separava Zagosur, sulla mite costa di Ibra, dal cuore della Baocia, la provincia più centrale di Chalion, era di quasi trecento miglia, e lui non era riuscito a percorrerla abbastanza in fretta. Gli Accoliti del Tempio Ospedale della Madre Misericordiosa, un’istituzione di Zagosur votata al soccorso di tutti gli sciagurati restituiti dal mare, gli avevano dato a titolo di elemosina una piccola somma, che però si era esaurita quando, secondo i suoi calcoli, ormai gli rimaneva soltanto un giorno di viaggio, forse anche meno. Se fosse riuscito a camminare ancora per un po’, forse avrebbe potuto raggiungere il suo rifugio e strisciare infine al riparo.

Quand’era partito da Ibra, si era arrovellato sul modo in cui chiedere alla Provincara un posto presso di lei, nella sua casa, in nome dei tempi passati… Qualcosa, qualsiasi cosa — anche sedere ai piedi della sua tavola — purché non comportasse un lavoro troppo faticoso. Le sue ambizioni erano però andate scemando a mano a mano che procedeva verso est, valicando i passi montani per addentrarsi nel più freddo pianoro centrale. Forse il siniscalco o il capo stalliere gli avrebbero concesso un posto nelle scuderie, o magari in cucina, evitandogli così d’infastidire la grande dama. Se fosse riuscito a ottenere un incarico come sguattero, infatti, non sarebbe neppure stato obbligato a dare il suo vero nome… Del resto dubitava che, nella dimora della Provincara, ci fosse ancora qualcuno che si ricordasse di lui, all’epoca in cui aveva servito il defunto Provincar della Baocia in veste di paggio.

Il sogno di un silenzioso e appartato posto accanto al fuoco delle cucine, affrontando creature di certo non pericolose, come i cuochi, e incarichi più impegnativi dell’attingere acqua o trasportare legna da ardere, lo aveva aiutato a continuare la marcia, a testa bassa contro gli ultimi venti invernali. Quell’immagine di quiete lo aveva sospinto come un’ossessione, unita alla consapevolezza che ogni nuovo passo aumentava di una iarda la distanza da quell’incubo che era il mare. Lungo la strada solitaria aveva riflettuto per ore, valutando nomi adeguatamente servili da adottare per quella sua nuova identità anonima, ma adesso sembrava proprio che non sarebbe stato costretto a presentarsi davanti agli sguardi attoniti dei membri della corte della Provincara vestito di stracci, come un mendicante.

Invece Cazaril implora un contadino per avere il permesso d’impadronirsi degli abiti di un cadavere, ed è grato per il favore fattogli da entrambi. Oh, sì, umilmente grato, molto umilmente grato.

La città di Valenda pareva riversarsi lungo il pendio di una bassa collina come una ricca trapunta intessuta in rosso e oro, grazie alle tegole rosse e alla dorata pietra locale, che scintillavano sotto il sole. Abbagliato, Cazaril dovette sbattere le palpebre per contemplare le familiari tonalità della sua terra natale. Le case di Ibra erano tutte imbiancate a calce, troppo luminose e addirittura accecanti sotto i caldi raggi del sole settentrionale, mentre quell’arenaria ocra costituiva il colore ideale per una casa, una città o anche una nazione… Era una carezza per gli occhi. In cima alla collina, simile a una corona d’oro, il castello della Provincara si dispiegava in tutto il suo splendore, con le mura che sembravano tremolare sotto il suo sguardo un po’ appannato. Per qualche momento rimase a contemplarlo, vagamente intimidito, poi riprese a camminare, assumendo un’andatura in qualche modo più veloce di quella che era riuscito a tenere durante tutto il suo lungo viaggio, sebbene le gambe dolenti gli tremassero per la stanchezza.

L’ora del mercato era ormai trascorsa, quindi le strade erano silenziose e tranquille quando lui le percorse, diretto alla piazza principale. Vicino alle porte del Tempio, si accostò a una donna anziana, che difficilmente lo avrebbe seguito per derubarlo, e le chiese dove poteva trovare un cambiavalute. Questi gli diede una soddisfacente quantità di vaida di rame in cambio del suo minuscolo reale d’oro, e gli fornì le indicazioni necessarie per raggiungere la bottega di una lavandaia e i bagni pubblici. Lungo la strada, Cazaril si fermò soltanto il tempo necessario ad acquistare da un venditore ambulante una focaccia all’olio e divorarla.

Entrato nella bottega della lavandaia, depose una manciata di vaida sul bancone e trattò l’affitto di un paio di calzoni, di una tunica di lino e di un paio di sandali di paglia, in modo da poter percorrere il breve tratto di strada che lo separava dai bagni pubblici, affidando quindi il suo vestiario sporco e gli stivali infangati alle mani arrossate della donna.

Ai bagni, il barbiere gli tagliò i capelli e la barba, mentre lui sedeva su una vera sedia — cosa meravigliosa — sorseggiando il tè servitogli dal garzone di bottega. Una volta che il barbiere ebbe finito, Cazaril passò nel cortile dei bagni, dove s’insaponò da capo a piedi con sapone profumato e attese che lo sguattero gli versasse sulla testa una secchiata di acqua calda. Con grande soddisfazione adocchiò l’enorme tinozza di legno dal fondo in rame costruita per ospitare, a giorni alterni, sei uomini o sei donne, ma che lui, per una felice coincidenza dovuta all’ora tarda, poteva avere tutta per sé. Dal momento che sotto la tinozza era acceso un braciere che manteneva sempre calda l’acqua, sarebbe potuto restare piacevolmente a mollo per tutto il pomeriggio, in attesa che la lavandaia avesse finito di ripulire le sue vesti.

Di lì a poco lo sguattero salì su uno sgabello e gli versò l’acqua sulla testa, costringendolo ad annaspare sotto quel getto caldo; quando riaprì gli occhi, scoprì che il ragazzo lo stava fissando a bocca aperta.

«Sei… un disertore?» chiese infine lo sguattero, con un filo di voce.

A sconvolgerlo era stata la sua schiena, un rosso ammasso di cicatrici rigonfie, sovrapposte in maniera tale da non lasciare neppure un lembo di pelle intatta. Era il retaggio dell’ultima fustigazione inflittagli sulle galee dei roknari. Nella royacy di Chalion, quella era una pena inflitta soltanto a poche categorie di criminali, tra cui appunto i disertori.

«No», rispose Cazaril, in tono deciso. «Non sono un disertore.»

Senza dubbio poteva definirsi abbandonato, forse anche tradito, però non aveva mai lasciato il proprio posto, neppure nelle situazioni più pericolose.

Richiusa la bocca, il ragazzino lasciò cadere rumorosamente il secchio e si allontanò in tutta fretta, mentre Cazaril, sospirando, si dirigeva verso la tinozza.

Si era appena adagiato nell’acqua calda, immergendosi fino al mento, quando il proprietario dei bagni entrò a grandi passi nel piccolo cortile. «Fuori!» ruggì. «Fuori di qui, razza di…»

Cazaril si ritrasse in preda al terrore quando l’uomo lo afferrò per i capelli, issandolo fuori dell’acqua.

«Che ti prende?» cercò di protestare, mentre l’altro, infuriato, gli metteva in mano i vestiti e i sandali, prendendolo poi per un braccio e trascinandolo fuori del cortile. «Un momento, aspetta, cosa stai facendo? Non posso certo uscire in strada nudo!»

Il proprietario dei bagni lo fece girare su se stesso e allentò la presa. «Allora vestiti e vattene. La mia è una bottega rispettabile, non un posto per quelli come te! Va’ al postribolo oppure, meglio ancora, va’ ad annegarti nel fiume!»

Sconcertato e grondante, Cazaril s’infilò la tunica e i calzoni, tentando poi di mettersi i sandali, mentre sorreggeva con una sola mano i pantaloni non ancora allacciati e veniva sospinto di peso verso l’uscita. Quando infine il battente gli venne sbattuto in faccia, proprio nel momento in cui si girava di nuovo verso la porta, comprese la natura di quell’equivoco: l’altro crimine che nella royacy di Chalion veniva punito con una fustigazione di quell’entità era la violenza ai danni di una vergine o di un ragazzo.

«Ma non è stato… Io non ho fatto… Sono stato venduto ai corsari di Roknar…» protestò, col volto rosso di vergogna.

Tremando, pensò di picchiare contro la porta, insistendo perché chi si trovava all’interno ascoltasse le sue spiegazioni, i giuramenti che era pronto a fare, sul suo povero onore. Gli venne in mente che il proprietario dei bagni doveva essere il padre del ragazzo e, d’un tratto, scoppiò a ridere e a piangere insieme, barcollando sull’orlo di… qualcosa che lo spaventò più della furia di quell’uomo indignato. Ansimò, sforzandosi di recuperare la calma, consapevole di non avere le forze per sostenere una discussione, e che comunque quella gente non avrebbe avuto nessun motivo per credergli, ammesso che fosse riuscito a farsi ascoltare. Lentamente, si passò sugli occhi umidi la morbida manica di lino e, respirando l’intenso profumo lasciato dal passaggio di un ferro caldo, venne travolto dai ricordi di una giovinezza trascorsa in case degne di quel nome, e non dormendo nei fossi. Sembravano passati mille anni.

Sconfitto, si voltò e ripercorse la strada fino alla bottega della lavandaia e alla sua porta dipinta di verde, cui era attaccata una campanella che trillò non appena lui spinse timidamente il battente.

«C’è un angolo dove mi possa sedere, signora?» chiese, quando la lavandaia fece capolino nella bottega in risposta al suono del campanello. «Io… ho finito prima del previsto…»

Soffocato dalla vergogna, non riuscì a concludere la frase, ma la donna si limitò a scrollare le spalle robuste. «Ah, sì, certo, venite con me. Ah, un momento», aggiunse, chinandosi dietro il bancone e mostrando un libretto grande quanto la mano di Cazaril, rilegato in cuoio grezzo. «Ecco il vostro libro. Siete fortunato che abbia controllato le tasche, altrimenti adesso sarebbe ridotto in poltiglia, ve lo garantisco.»

Sorpreso, Cazaril prese il volumetto. Probabilmente era nascosto nelle spesse pieghe della sopravveste del morto, e ciò gli aveva impedito di scoprirlo quando aveva frettolosamente arrotolato gli abiti, al mulino. Naturalmente avrebbe dovuto essere consegnato alla Divina del Tempio, per essere aggiunto al resto degli averi del defunto. Per questa natte non tornerò di certo fin là, si disse, decidendo che avrebbe consegnato il libro non appena possibile.

«Vi ringrazio, signora», si limitò quindi a rispondere alla lavandaia, seguendola poi nel cortile centrale, simile a quello dei bagni vicini e dotato di un profondo pozzo, accanto al quale bolliva un calderone pieno d’acqua. Quattro giovani donne erano impegnate su altrettante tinozze, in una miriade di spruzzi. La proprietaria della bottega gli indicò una panca addossata al muro, e lui si sedette fuori della portata degli schizzi, rimanendo per qualche tempo a fissare in uno stato di astratta beatitudine quella pacifica scena. Un tempo, non si sarebbe mai degnato di volgere lo sguardo su un gruppo di contadine dal volto arrossato, riservando la propria attenzione soltanto per le dame eleganti. Come aveva fatto in precedenza a non rendersi conto di quanto potessero essere belle le lavandaie? Forti e ridenti, si muovevano come per una danza, ed erano gentili, così gentili…

Dopo qualche tempo, la sua curiosità si risvegliò e lo indusse a riprendere in mano il libro, pensando che forse avrebbe trovato il nome del morto, risolvendo così il mistero della sua identità. Ma, quando lo aprì, scoprì che le sue pagine erano coperte da una selva di annotazioni, intervallate da diagrammi, e scritte interamente in codice.

Sbattendo le palpebre, si concentrò maggiormente sullo scritto e il suo sguardo, agendo quasi di propria volontà, cominciò a decifrare la chiave del codice. Si trattava di una scrittura speculare, abbinata a un sistema di sostituzione di lettere, un sistema che poteva essere faticoso da interpretare. Ma una breve parola era ripetuta tre volte nella stessa pagina e gli fornì la chiave che stava cercando. Il mercante aveva scelto un metodo di codifica quanto mai elementare, limitandosi a spostare ciascuna lettera di una posizione, senza neppure prendersi la briga di modificare a tratti quella sequenza. D’altro canto, però, quella non era la lingua ibrana, parlata nei suoi diversi dialetti nelle royacy di Ibra, Chalion e Brajar, bensì la lingua darthacana, parlata nelle province più meridionali di Ibra e nella grande Darthaca, al di là delle montagne. Inoltre la calligrafia del morto era orribile, l’ortografia era ancora peggiore e la padronanza della grammatica darthacana sembrava quasi inesistente. Decifrare quel testo poteva rivelarsi più difficile di quanto aveva pensato; avrebbe avuto bisogno di carta e penna, di un posto tranquillo, di tempo e di una buona illuminazione. Ma le cose avrebbero potuto essere anche peggiori, per esempio se si fosse trattato di un roknari sgrammaticato…

Era comunque evidente che quel libretto conteneva le annotazioni sugli esperimenti magici del morto. Se non fosse stato già defunto, sarebbe stato più che sufficiente a condannarlo e a mandarlo sulla forca. La punizione per coloro che praticavano — anzi che tentavano di praticare — la magia di morte era spietata. La condanna per chi fosse riuscito nel suo intento in genere veniva considerata superflua perché non si conosceva nessun caso di assassinio mediante magia di morte che non fosse costato la vita anche a colui che aveva praticato il rito. Quale che fosse il vincolo mediante il quale l’esecutore del rito costringeva il Bastardo a inviare nel mondo uno dei suoi demoni, la cosa certa era che esso tornava sempre indietro con due anime, mai con una sola.

Stando così le cose, pareva evidente che la notte precedente qualcun altro dovesse essere morto nella Baocia. Per sua natura, quindi, la magia di morte non era molto popolare, in quanto non permetteva di ricorrere a simulacri o a un sostituto che venisse ucciso al posto dell’officiante del rito: uccidere voleva dire essere ucciso. Il coltello, la spada, il veleno, un randello… qualsiasi altro mezzo era preferibile, se l’autore del crimine voleva sopravvivere; talvolta, però, qualcuno ci provava, forse con l’illusione di cavarsela o per semplice disperazione. Quel libro andava assolutamente consegnato alla Divina del Tempio rurale, che a sua volta l’avrebbe dato al responsabile delle indagini incaricato dal Roya. Raddrizzandosi sulla panca, Cazaril aggrottò la fronte con preoccupazione e si decise infine a chiudere quel pericoloso volumetto.

Il caldo del vapore, il ritmo del lavoro, delle voci delle donne e il suo stesso sfinimento lo indussero a sdraiarsi su un fianco e a raggomitolarsi sulla panca, col libro sotto la guancia come cuscino, dicendosi che avrebbe chiuso gli occhi solo per un momento…

Si svegliò in un sussulto che gli provocò una contrazione al collo, le dita serrate intorno a qualcosa di sconosciuto, che risultò fatto di lana… Una delle lavandaie gli aveva gettato addosso una coperta, un gesto di gentilezza così spontaneo che gli fece sfuggire dalle labbra un involontario sospiro di gratitudine. Sollevatosi a sedere, constatò che ormai il cortile era quasi tutto in ombra, segno che doveva aver dormito per la maggior parte del pomeriggio. Il suono che lo aveva svegliato era stato il tonfo prodotto dai suoi stivali, lucidati il più possibile, che la lavandaia gli aveva lasciato cadere davanti prima di deporre accanto a lui, sulla panca, tutti i suoi abiti puliti e ripiegati, sia quelli eleganti che quelli da mendicante.

«Signora, avete una stanza dove mi possa vestire?» chiese Cazaril, con fare timido, ricordando la reazione del ragazzo dei bagni alla vista della sua schiena.

Annuendo con aria cordiale, la donna lo accompagnò in una modesta camera da letto in fondo alla casa e lo lasciò solo. Alla luce del tramonto, che trapelava dalla piccola finestra, Cazaril passò al vaglio i propri indumenti puliti, adocchiando con repulsione gli squallidi abiti da mendicante che aveva avuto indosso per settimane. Infine, la vista di uno specchio ovale, l’oggetto più prezioso della camera, appoggiato in un angolo su un piedistallo, lo decise nella scelta.

Con esitazione, e recitando un’ennesima preghiera di ringraziamento allo spirito del defunto da cui aveva inaspettatamente ereditato quegli abiti, indossò i pantaloni di cotone, la fine camicia ricamata, la veste di lana marrone e infine la sopravveste nera, che gli ricadde all’intorno in una ricca profusione di stoffa scura, scintillante d’argento intorno alle caviglie. Gli abiti del morto erano della lunghezza giusta, anche se un po’ ampi per il suo corpo smagrito. Sedette sul letto e s’infilò gli stivali, che avevano i tacchi parzialmente consumati e la suola tanto logora da essere ormai sottile quasi quanto la pergamena. Quindi si avvicinò allo specchio, pensando che non si era più riflesso in nulla di più grande o di migliore di un pezzo di acciaio lucido da… Quanto? Da tre anni? Adesso, invece, lo specchio che aveva davanti era di vetro, ed era inclinato in maniera tale da permettergli di vedere la propria figura da capo a piedi, prima la metà superiore e poi quella inferiore.

Il volto che lo fissò dallo specchio era quello di uno sconosciuto. Per i cinque Dei, ma da quando la mia barba è diventata grigia? si chiese, sollevando una mano tremante a sfiorare la barba corta e curata che gli incorniciava i lineamenti. Se non altro, i capelli, anch’essi tagliati di fresco, non accennavano ancora ad assottigliarsi sulla fronte. Dovendo scegliere se definirsi un mercante, un nobile o uno studioso, sulla base degli abiti che indossava, avrebbe senza dubbio optato per l’ultima possibilità. Uno studioso un po’ fanatico, con gli occhi incavati e l’espressione vagamente folle… Non aveva catene d’oro o d’argento, un sigillo, un’elegante cintura di metallo prezioso o adorna di gemme, né anelli che proclamassero la sua appartenenza a una classe più elevata. D’altro canto, gli parve che la linea fluente di quella veste gli si addicesse e, d’istinto, cercò di raddrizzare un po’ la schiena.

Comunque stessero le cose, ormai il lacero vagabondo era svanito, e l’uomo che aveva davanti non era certo tale da implorare un posto da sguattero presso il cuoco di un castello.

All’inizio aveva pensato di spendere gli ultimi vaida per affittare una camera e presentarsi alla Provincara l’indomani mattina, ma in quel momento si chiese, con disagio, se il gestore dei bagni non avesse messo in giro qualche pettegolezzo sul suo conto, col risultato di vedersi negare l’accesso a qualsiasi locanda rispettabile.

Devo andare adesso, stanotte, si disse. Avrebbe raggiunto subito il castello, prima che fosse troppo buio, per scoprire se riusciva a ottenere un aiuto. Non potrei trascorrere un’altra notte nell’incertezza. Devo andare ora, prima che il coraggio mi venga meno.

Riposto il libretto nella tasca interna della sopravveste in cui, a quanto pareva, era già stato nascosto in precedenza, lasciò gli abiti da vagabondo ammucchiati sul Ietto e uscì a grandi falcate dalla stanza.

2

Mentre saliva l’ultimo pendio che conduceva al portone del castello, Cazaril rimpianse di non aver potuto procurarsi una spada. Le due guardie, abbigliate con la livrea verde e nera del Provincar della Baocia, lo stavano infatti osservando: non sembravano allarmate, proprio perché lui non portava armi, tuttavia non manifestavano neppure quell’interesse che di solito apriva la strada al rispetto. Cazaril salutò la guardia che portava sul cappello i gradi di sergente, limitandosi a un misurato, austero cenno del capo. L’atteggiamento servile che aveva pensato di assumere sarebbe andato bene per qualche porta secondaria, non per quella principale; aspettandosi di ottenere qualcosa di più, doveva agire di conseguenza. Se non altro, grazie alla gentile disponibilità della lavandaia, sapeva di chi doveva chiedere.

«Buonasera, sergente. Sono qui per vedere il siniscalco del castello, Ser dy Ferrej. Sono Lupe dy Cazaril», disse, lasciando che il sergente supponesse, sbagliando, che lui era stato convocato.

«Per quale motivo, signore?» ribatté il sergente, in tono cortese, ma senza particolare sollecitudine.

Cazaril squadrò le spalle. Chissà da quale inutilizzato magazzino della sua mente giunse un tono di voce secco e imperioso. «Il motivo riguarda soltanto lui, sergente», replicò.

«Sì, signore», rispose il sergente, salutandolo automaticamente e avvertendo con un cenno del capo il suo compagno di fare altrettanto. Poi indicò a Cazaril di oltrepassare il portone, aggiungendo: «Da questa parte, signore. Vado a chiedere al siniscalco se vi può ricevere».

Lasciando vagare lo sguardo sull’ampio cortile coperto di acciottolato, Cazaril si sentì stringere il cuore. Quante scarpe aveva consumato, correndo avanti e indietro su quelle pietre per assolvere gli incarichi affidatigli da membri della famiglia del Provincar… Il maestro dei paggi si era persino lamentato per i troppi investimenti in partite di cuoio, ma la Provincara, ridendo, gli aveva domandato se avrebbe davvero preferito un paggio pigro, che consumasse invece la stoffa del fondo dei pantaloni, aggiungendo che, se così era, avrebbe provveduto lei a procurargliene qualcuno.

A quanto pareva, la Provincara gestiva ancora il castello con occhio acuto e mano decisa, dato che le livree delle guardie erano in condizioni eccellenti, l’acciottolato del cortile sembrava ben spazzato e i piccoli alberi ancora spogli che crescevano nei vasi, accanto alle porte principali, erano attorniati da fiori, sbocciati con perfetto tempismo per la celebrazione del Giorno della Figlia, prevista per il giorno dopo.

La guardia fece capire a Cazaril di rimanere in attesa, e lui sedette su una panca addossata al muro, ancora gradevolmente calda di sole. Il sergente oltrepassò una porta laterale, che dava accesso alle stanze di lavoro, e parlò con un servitore, affidandogli l’incarico di verificare se il siniscalco intendeva ricevere quello sconosciuto. Non aveva ancora superato metà della distanza che lo separava dalla sua postazione, quando il suo compagno si sporse oltre il portone, affacciandosi nel cortile e gridando: «Il Royse ritorna!»

Girando la testa verso gli alloggi dei servi, il sergente si affrettò a ripetere quel grido. «Il Royse ritorna! Tenetevi pronti!» E accelerò il passo.

Scudieri e servitori uscirono da diverse porte che si affacciavano sul cortile, proprio mentre un martellare di zoccoli e alcune voci echeggiavano fuori del portone. Ad attraversare l’arcata di pietra, accompagnate da una fanfara di poco signorili ululati di trionfo, furono anzitutto due giovani donne in sella a cavalli ansimanti e chiazzati di fango.

«Abbiamo vinto noi, Teidez!» gridò la prima, da sopra la spalla. Indossava una giacca da equitazione di velluto azzurro, abbinata a una lunga gonna pantalone di lana dello stesso colore; i suoi capelli, che sfuggivano dal cappellino di pizzo un po’ di traverso, erano una massa di riccioli né biondi né rossi, ma piuttosto di un intenso colore ambrato, che splendeva sotto i raggi del sole al tramonto. Quella massa dorata incorniciava un volto dalla bocca generosa e dalla pelle chiara, illuminato da occhi dalle palpebre stranamente pesanti, semichiusi in un’espressione ridente. La sua compagna, di statura più alta, era un’ansimante brunetta vestita di rosso; si girò sulla sella con un sogghigno per osservare il resto del gruppo che stava affluendo nel cortile.

Sopraggiunse un gentiluomo, ancora più giovane delle due dame, abbigliato con una corta giacca scarlatta decorata da animali eseguiti in filo argentato. Stava in sella a un impressionante cavallo nero, dal pelo lucido e dalla lunga coda setosa. Il giovane era affiancato da due scudieri dal volto del tutto inespressivo e seguito da un altro gentiluomo dall’aria accigliata, i cui capelli ricciuti erano identici a quelli della… sorella? — Sì, senza dubbio è la sorella… — però avevano una tonalità più rossa. La bocca appariva altrettanto generosa, anche se contratta in un’espressione imbronciata. «La gara è finita in fondo alla collina, Iselle. Hai barato», protestò.

La giovane donna rivolse al fratello uno sguardo di finta commiserazione. Poi, prima ancora che l’agitato stalliere potesse posizionare i gradini per aiutarla a smontare, scese di sella, rimbalzando sui piedi calzati di stivali.

Anche la giovane bruna anticipò lo stalliere e, una volta a terra, gli consegnò le redini. «Fa’ camminare queste povere bestie finché non si saranno raffreddate, Demi», disse. «Le abbiamo maltrattate in maniera orribile.» Quasi a smentire quelle parole, depose un bacio sulla macchia bianca che spiccava sul muso della cavalcatura e, non appena l’animale le assestò una lieve spinta, con la sicurezza nata dall’abitudine, lei gli diede un boccone prelevato da una tasca.

Ultima a varcare il portone, con un paio di minuti di ritardo rispetto ai giovani, fu una donna più anziana, dal volto arrossato. «Iselle, Betriz, rallentate! Nel nome della Madre e della Figlia, voi ragazze non potete galoppare per tutta la campagna di Valenda come un paio di folli scatenate!»

«Abbiamo rallentato… Anzi ci siamo fermate», replicò la ragazza bruna, con logica incontrovertibile. «Per quanto ci proviamo, brava donna, non possiamo sfuggire alla vostra lingua. È troppo veloce, anche per il cavallo più rapido di tutta la Baocia.»

Con una smorfia di esasperazione, la dama anziana attese che lo stalliere posizionasse i gradini per smontare di sella. «Vostra nonna vi ha comprato quell’adorabile mulo bianco, Royesse Iselle, quindi perché non lo montate mai? Sarebbe una cavalcatura molto più adatta a voi.»

«E molto più lenta», ribatté la ragazza dai capelli color ambra, ridendo. «In ogni caso, il povero Fiocco di Neve è stato lavato e preparato per la processione di domani: se lo avessi portato fuori, costringendolo a correre nel fango, agli stallieri sarebbe venuto il crepacuore. A quanto pare, hanno intenzione di tenerlo al sicuro e al pulito per tutta la notte.»

Ansimando, l’anziana dama permise allo stalliere di aiutarla a scendere di sella e, una volta a terra, scosse le gambe avvolte nella gonna pantalone e si stiracchiò la schiena dolorante. Quando il ragazzo si fu allontanato, circondato da uno stuolo di servitori ansiosi, le due giovani donne, per nulla intimorite dalla continua pioggia di rimproveri della loro dama di compagnia, si misero a correre, gareggiando verso la rocca principale. All’anziana dama non rimase che seguirle a passo più lento, scuotendo il capo.

Nel momento in cui le ragazze si avvicinavano alla porta, sulla soglia apparve un uomo robusto, di mezz’età, vestito sobriamente di lana nera, che le apostrofò con voce pacata ma decisa. «Betriz, se farai di nuovo galoppare il tuo cavallo su per la collina in quel modo, te lo toglierò, così potrai usare le tue energie in eccesso per correre dietro alla Royesse a piedi.»

«Sì, padre», mormorò la brunetta, in tono intimidito, accennando una riverenza.

Accanto a lei, la ragazza dai capelli color ambra si fermò immediatamente. «Per favore, Ser dy Ferrej, perdonate Betriz. La colpa è stata mia, e lei non ha avuto altra scelta se non quella di seguirmi.»

«In tal caso, Royesse», ribatté l’uomo, inchinandosi con aria aggrondata, «forse dovreste chiedervi quale onore può mai avere un capitano che conduce i suoi seguaci verso la colpa, ben sapendo di poter sfuggire a qualsiasi punizione.»

La ragazza dai capelli ambrati contrasse leggermente le labbra, scoccò al suo interlocutore una lunga occhiata in tralice e accennò una riverenza. Le due giovani superarono la soglia, sottraendosi a ulteriori rimproveri. Rimasto solo, l’uomo esalò un lungo sospiro e la dama di compagnia, che stava ancora arrancando sulla scia delle due ragazze, gli rivolse un cenno di ringraziamento.

Anche senza quelle frasi rivelatrici, Cazaril non avrebbe avuto difficoltà a identificare in quell’uomo il siniscalco del castello: lo rivelavano le chiavi tintinnanti, appese alla cintura tempestata d’argento, e la catena, simbolo della sua carica, che gli pendeva dal collo. Quando dy Ferrej gli si avvicinò, si affrettò quindi ad alzarsi e poi a inchinarsi, un gesto troncato a mezzo dalle cicatrici che gli tormentavano la schiena. «Ser dy Ferrej, mi chiamo Lupe dy Cazaril», si presentò. «Imploro la Provincara di concedermi udienza, se… così le aggrada», concluse, con la voce che gli si spegneva in gola di fronte all’espressione corrucciata del siniscalco.

«Io non vi conosco, signore», obiettò dy Ferrej.

«Per grazia degli Dei, è possibile che la Provincara si ricordi di me. Un tempo, sono stato un paggio, qui in questa casa, all’epoca in cui il vecchio Provincar era ancora vivo», spiegò Cazaril, abbracciando il cortile con un gesto della mano. Quella era la cosa più vicina a una casa che avesse mai lasciato, ed era terribilmente stanco di essere uno straniero ovunque andasse.

«Domanderò alla Provincara se intende ricevervi», annuì dy Ferrej, inarcando le sopracciglia grigie.

«È tutto quello che chiedo», replicò Cazaril. Era tutto quello che osava chiedere. Accasciatosi di nuovo a sedere sulla panca, intrecciò le dita e rimase a guardare il siniscalco che tornava verso la rocca principale.

Dopo molti, angosciosi minuti di attesa permeata di tensione, durante i quali era stato fissato in tralice da tutti i servitori di passaggio, Cazaril sollevò lo sguardo e vide il siniscalco che si avvicinava, adocchiandolo con aria perplessa.

«Sua Grazia la Provincara acconsente a ricevervi», disse soltanto. «Seguitemi.»

Essendo rimasto seduto nell’aria sempre più fredda della sera, Cazaril si era irrigidito e incespicò leggermente nel muoversi, maledicendo la propria goffaggine mentre seguiva il siniscalco. Ma non aveva bisogno di una guida. La disposizione degli ambienti gli tornò subito alla memoria, affiorando a ogni svolta. Attraversarono l’atrio, con le sue piastrelle blu e gialle, salirono le scale, oltrepassarono una camera imbiancata a calce e raggiunsero la stanza esposta a ovest che la Provincara aveva sempre preferito in quel momento della giornata, dato che offriva la luce migliore alle sue cucitrici o a lei stessa, se voleva leggere qualche libro. Cazaril dovette chinarsi un poco nell’oltrepassare la bassa porta d’ingresso, cosa che non aveva fatto in passato. Questo è l’unico cambiamento, pensò. Ma non è la porta a essere cambiata…

«Ecco l’uomo che Vostra Grazia stava aspettando», annunciò il siniscalco in tono neutro, a dimostrare che non intendeva né avvallare né confutare le credenziali da lui offerte.

La Provincara era seduta su un ampio seggio di legno, coperto di cuscini per rispetto alle sue ossa anziane, e indossava un sobrio abito verde scuro, adatto a una vedova di alto rango, cui si era però rifiutata di abbinare la cuffia vedovile, scegliendo invece d’intrecciare i lunghi capelli grigi intorno alla testa in due nodi, adorni di nastri verdi e trattenuti da fermagli ingioiellati. Al suo fianco era seduta una dama di compagnia, anziana quasi quanto lei e anch’ella vedova, a giudicare dall’abbigliamento, tipico di una Devota laica del Tempio. La dama stringeva fra le mani un lavoro di ricamo, fissando Cazaril con aria accigliata e piena di diffidenza.

Pregando che il suo corpo non lo tradisse proprio in quel momento, facendolo incespicare o barcollare, Cazaril posò al suolo un ginocchio davanti al seggio, chinando il capo in segno di rispetto. Avvertì il sentore di lavanda e di età avanzata che emanava dalla Provincara. Poi tornò a sollevare la testa e scrutò il volto della donna, alla ricerca di qualche segno che gli facesse capire di essere stato riconosciuto. In caso contrario, sarebbe stato davvero un vagabondo senza patria.

La Provincara incontrò il suo sguardo e si morse un labbro, assumendo un’aria meravigliata. «Per i cinque Dei, siete davvero voi! Mio signore dy Cazaril, siete il benvenuto nella mia casa», mormorò, offrendogli la mano da baciare.

Deglutendo a fatica, quasi annaspando, Cazaril chinò il capo su quella mano, un tempo bianca e fine, con le unghie perfette, e adesso invece chiazzata di marrone e dalle nocche gonfie. Le unghie tuttavia erano ben curate, come se la Provincara fosse stata ancora nel fiore degli anni. La donna non reagì in nessun modo, neppure con un minimo sussulto, quando un paio di lacrime, che lui non era riuscito a trattenere, le caddero sul dorso della mano, ma un angolo della sua bocca s’incurvò in un accenno di sorriso; poi la mano si sfilò dalla sua stretta e si sollevò a sfiorargli la barba, seguendo una delle strisce grigie che l’attraversavano.

«Povera me… Sono dunque così invecchiata?» domandò.

Deciso a non mettersi a piangere come un bambino, Cazaril sbatté rapidamente le palpebre poi alzò lo sguardo. «È passato molto tempo, Vostra Grazia…» rispose.

La mano di lei si girò, e le dita ossute gli batterono leggermente su una guancia. «Vi avevo dato la possibilità di sostenere che non ero minimamente cambiata. Non vi ho forse insegnato come mentire a una dama? Non mi pareva di essere stata così trascurata nell’educarvi!» Con assoluta compostezza, la Provincara ritrasse la mano e rivolse un cenno alla dama di compagnia, aggiungendo: «Lasciate che vi presenti mia cugina, Lady dy Hueltar. Tessa, ti presento il Castillar dy Cazaril».

Sempre in ginocchio, Cazaril eseguì un goffo inchino in direzione della donna e, con la coda dell’occhio, vide che il siniscalco, ancora fermo in un angolo, esalava un sospiro di sollievo e assumeva una posa più rilassata, incrociando le braccia e appoggiandosi allo stipite della porta.

«Vostra Grazia è molto gentile, ma non possiedo più Cazaril, né la sua fortezza o le terre di mio padre, quindi non posso reclamare neppure il suo titolo.»

«Non siate sciocco, Castillar», ribatté la Provincara in tono scherzoso, ma anche tagliente. «Il mio caro Provincar è morto ormai da dieci anni, ma il primo che osasse sostenere che io sono qualcosa di meno della Provincara sarà divorato dai demoni del Bastardo. Abbiamo ciò che possiamo tenere in pugno, mio caro ragazzo, e non dovete mai permettere agli altri di vedervi sussultare o esitare.»

Accanto a lei, la Devota dama di compagnia s’irrigidì con aria di disapprovazione, dovuta a quelle parole così brusche, se non al sentimento cui erano improntate. Cazaril ritenne imprudente sottolineare che, al momento, il titolo apparteneva alla nuora della Provincara, proprio come suo figlio era l’attuale Provincar. Del resto, era probabile che anche l’attuale Provincar e la moglie ritenessero poco saggio far notare una cosa del genere all’anziana e autorevole dama. «Per me, Vostra Grazia sarà sempre una grande dama, che tutti noi adoravamo a debita distanza», dichiarò.

«Così va meglio, molto meglio», approvò la Provincara. «Mi piacciono gli uomini che sanno usare il cervello. Dy Ferrej… Porta una sedia per il Castillar e una anche per te: fermo lì, incombi come un corvo», aggiunse, rivolgendo un cenno al siniscalco.

Forse abituato a essere apostrofato in quel modo, il siniscalco si limitò ad assentire con un sorriso, poi accostò un seggio intagliato per Cazaril, accompagnando il gesto con un sommesso e gratificante: «Il mio signore vorrebbe accomodarsi?» Andò quindi a prendere un’altra sedia nella stanza accanto, sistemandosi a una certa distanza dalle due dame e dal loro ospite.

Rialzatosi, lui si abbandonò con sollievo all’accogliente abbraccio della sedia. «Quelli che ho visto sopraggiungere a cavallo al momento del mio arrivo erano il Royse e la Royesse, Vostra Grazia?» chiese, esitante. «Non vi avrei mai disturbato con la mia presenza, se avessi saputo che avevate simili visitatori…» In realtà, non avrebbe osato farlo.

«Non sono in visita, Castillar. Attualmente vivono qui, presso di me, perché Valenda è una città pulita e tranquilla e… mia figlia non sta molto bene. Il suo ritiro qui, dopo la vita frenetica della corte, le sta portando giovamento.»

Per i cinque Dei, anche Lady Ista è qui? Anzi, per essere precisi, la Royina Vedova Ista,pensò Cazaril. Era entrato al servizio del Provincar della Baocia all’epoca in cui era poco più di un ragazzino — come del resto lo erano tutti i paggi -, ma la figlia minore della Provincara, Ista, sembrava già un’adulta, benché fosse poco più vecchia di lui. Per sua fortuna, e nonostante la giovane età, non era stato così avventato da confidare a qualcuno la propria infatuazione senza speranza per quella giovane dama. E il matrimonio di Ista col Roya Ias — il primo per lei, il secondo per lui — avvenuto qualche tempo dopo, era sembrato il giusto destino per una donna così bella, benché tra i due ci fosse una notevole differenza d’età. Aveva ovviamente pensato che Ista sarebbe rimasta vedova, ma forse ciò non era accaduto tanto presto.

La Provincara sembrò accantonare la propria stanchezza con un gesto impaziente. «Cosa mi dite di voi?» chiese. «L’ultima volta che ho avuto vostre notizie, facevate il corriere per conto del Provincar della Guarida.»

«Questo è stato… alcuni anni fa, Vostra Grazia.»

«Come siete giunto qui? E dov’è la vostra spada?» insistette lei, squadrandolo da capo a piedi.

«Ah, quella», replicò lui, abbassando distrattamente la mano verso il fianco, dove non c’erano né cintura né spada. «L’ho persa a… Ecco, quando ha condotto le forze del Roya Orico verso la costa settentrionale per la campagna invernale, tre anni fa, il Marqess dy Jironal mi ha nominato castellano della fortezza di Gotorget. Poi dy Jironal ha subito quella sconfitta… e noi abbiamo tenuto la fortezza per nove mesi contro le forze dei roknari. Sapete come vanno queste cose. Quando ci è giunta notizia che dy Jironal aveva stipulato un nuovo trattato, il quale ci obbligava a deporre le armi, uscire dalla fortezza e consegnarla ai nostri nemici… be’, ormai, in tutta Gotorget non c’era più neanche un topo che non fosse stato arrostito», proseguì, con un sorrisetto tirato, mentre la mano sinistra gli si contraeva in grembo. «Per mia consolazione, mi è stato detto che, stando a quel trattato, la nostra fortezza era costata al principe dei roknari ben trecentomila reali in più. Senza considerare le considerevoli perdite da luì subite sul campo nei nove mesi della nostra resistenza.» Magra consolazione, considerati gli uomini morti a Gotorget, pensò. «Il generale dei roknari ha requisito la spada di mio padre, affermando che l’avrebbe appesa nella sua tenda, per ricordarsi di me, e quella è stata l’ultima volta in cui l’ho vista. E dopo…» La voce, che si era fatta sempre più decisa con l’affiorare dei ricordi, d’un tratto gli si spense. «Dopo, c’è stato un errore, una confusione di qualche tipo», riprese. «Quand’è arrivato l’elenco degli uomini da riscattare, insieme con le casse piene di reali, ho scoperto che il mio nome non era nell’elenco. Il quartiermastro roknari ha giurato che non c’era stato nessun errore, perché le cifre corrispondevano ai nomi, però un errore c’è stato. Tutti i miei ufficiali sono stati riscattati, mentre io… sono stato messo con gli uomini per cui non era stato pagato nessun riscatto e condotto a Visping. Lì siamo stati tutti venduti come schiavi da galea ai corsari roknari.»

La Provincara reagì con un sonoro sussulto, mentre il siniscalco, che si era proteso sempre più in avanti mentre il racconto si dipanava, esclamò: «Di certo avrete protestato!»

«Oh, per i cinque Dei, ho protestato, eccome. L’ho fatto per tutta la strada fino a Visping, e stavo ancora protestando quando mi hanno trascinato lungo la passerella e incatenato al mio remo. Ho continuato a protestare finché non abbiamo preso il largo, ma poi… ho imparato che era meglio non farlo.» Cazaril sorrise di nuovo, ma in modo ancor più tirato, quasi avesse indosso una maschera. «Sono rimasto imbarcato su questa o quella nave per… molto tempo.» L’aveva calcolato: diciannove mesi e otto giorni. A quell’epoca, però, non era neppure in grado di distinguere un giorno dal successivo. «Poi la nave corsara su cui ero si è imbattuta nella flotta reale di Ibra, che si trovava al largo per effettuare delle manovre. Si è trattato di un colpo di fortuna del tutto insperato. I rematori volontari di Ibra hanno manovrato i remi meglio di noi, e ben presto ci hanno raggiunti.»

Quel giorno, i roknari, sempre più disperati, avevano decapitato due uomini, colpevoli di aver sbagliato — volontariamente o accidentalmente — a manovrare i loro remi. Uno di essi era stato seduto accanto a Cazaril, anzi era stato il suo compagno di voga per mesi. Quando lo avevano decapitato, un po’ del suo sangue era schizzato in bocca a Cazaril, tanto che ancora adesso, se commetteva l’errore di ripensare a quell’episodio, gli pareva di sentirne il sapore.

Una volta sconfitta la nave corsara, gli ibrani avevano trascinato i roknari, alcuni ancora agonizzanti, dietro la nave, legandoli poi a corde fatte dei loro stessi intestini, finché i pesci non li avevano divorati. Alcuni degli schiavi liberati avevano aiutato con entusiasmo a remare, ma non Cazaril: quell’ultima fustigazione lo aveva ridotto talmente male che, entro poche ore, i roknari lo avrebbero di certo gettato in mare, ritenendolo ormai un peso inutile. Era rimasto seduto sul ponte, piangendo come un bambino, coi muscoli che si contraevano in maniera incontrollabile.

«Quei bravi ibrani mi hanno sbarcato a Zagosur. E lì sono rimasto a lungo malato. Quando si è sottoposti per mesi a uno stato intollerabile di tensione, e tale stato di colpo viene a cessare, capita di comportarsi in maniera… alquanto infantile», spiegò, fissando i presenti con un sorriso di scusa. Prima aveva avuto un collasso, accompagnato da una violenta febbre; poi, mentre la sua schiena cominciava a guarire, erano subentrate la dissenteria e la febbre malarica. Per tutto quel tempo, era stato assalito a tratti da incontrollabili crisi di pianto. Gli capitava di piangere quando un’Accolita del Tempio gli portava la cena o quando vedeva sorgere o tramontare il sole, ma anche se un gatto lo spaventava o se lo accompagnavano a letto. Talvolta scoppiava in lacrime senza nessun motivo. «Il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre mi ha accolto e curato. Dopo qualche tempo, mi sono sentito meglio…» — le crisi di pianto erano quasi cessate e gli Accoliti avevano deciso che non era pazzo, ma soltanto esaurito — «… e allora mi hanno dato un po’ di denaro e sono venuto fin qui a piedi, un viaggio che mi ha richiesto tre settimane.»

Cazaril tacque e sulla stanza scese un silenzio assoluto.

Sollevando lo sguardo, lui vide che la Provincara aveva le labbra serrate in un’espressione d’ira, e si sentì contrarre lo stomaco per il terrore. «Questo è l’unico posto cui sono riuscito a pensare!» si affrettò a giustificarsi. «Mi dispiace, mi dispiace davvero…»

Il siniscalco esalò un sonoro respiro e si appoggiò allo schienale della sedia, fissandolo con sconcerto, e la dama di compagnia sgranò gli occhi per la sorpresa.

«Voi siete il Castillar dy Cazaril», dichiarò la Provincara, con voce vibrante. «Avrebbero dovuto darvi un cavallo e anche una scorta.»

«No, no, mia signora. Hanno… fatto abbastanza», replicò CazariI, agitando le mani in un gesto di diniego. Soltanto allora comprese che l’ira della dama non era diretta contro di lui, e sentì un nodo formarglisi in gola e la vista che si offuscava. No, non può succedermi anche qui… Controllandosi a fatica, aggiunse: «Mia signora, desidero soltanto servirvi, posto che voi troviate qualcosa di cui posso occuparmi… Anche se, per adesso, non sono in grado di fare granché».

La Provincara si adagiò contro lo schienale del seggio e appoggiò con delicatezza il mento alla mano, scrutandolo con attenzione per un momento. «Quand’eravate un paggio, sapevate suonare il liuto in maniera molto gradevole», osservò.

«Uh…» balbettò CazariI, cercando istintivamente di nascondere le mani distorte e coperte di calli. Poi, con un sorriso contrito, le appoggiò sulle ginocchia, bene in vista. «Ora non credo di poterlo più fare, mia signora.»

Protendendosi in avanti, la Provincara lasciò indugiare lo sguardo sulla mano sinistra, vistosamente mutilata. «Capisco», mormorò, ritraendosi con aria pensosa. Poi disse: «Ricordo che eravate solito leggere tutti i libri della biblioteca di mio marito, al punto che il maestro dei paggi si lamentava sempre di voi e io dovevo ordinargli di lasciarvi in pace. Se ben ricordo, aspiravate a diventare un poeta».

«Credo che a Chalion sia stata risparmiata una notevole quantità di brutte poesie, quando sono partito per la guerra», replicò CazariI che, al momento, non era neppure certo di riuscire a tenere una penna in mano.

«Suvvia, Castillar, mi state rendendo le cose difficili, con l’offerta dei vostri servigi», replicò la Provincara, scrollando le spalle. «Non credo che nella povera Valenda ci siano posti disponibili a sufficienza per trovarvi un’occupazione. Voi siete stato un cortigiano, un capitano, un castellano, un corriere…»

«Non sono più stato un cortigiano da quand’è morto il Roya Ias, mia signora. In veste di capitano… ho contribuito alla sconfitta di Dalus», replicò CazariI, rammentando bene quella battaglia, in seguito alla quale era finito a marcire per quasi un anno nelle segrete della royacy di Brajar. «Quanto a fare il castellano, l’assedio si è concluso con la nostra sconfitta e, come corriere, per ben due volte per poco non mi hanno impiccato come spia.» Per non parlare delle tre volte in cui mi hanno torturato, in aperta violazione alla tregua in corso. «E adesso… so remare e conosco cinque modi diversi per cucinare i ratti.» In effetti, ho così fame che non mi dispiacerebbe un bel ratto arrostito.

La Provincara continuò a scrutarlo, puntandogli addosso i suoi occhi acuti, ma lui non riuscì a capire che cosa stesse scorgendo nei suoi lineamenti… Magari la sua estrema stanchezza… o forse aveva intuito che era affamato. Sì, doveva averlo capito, perché, con un sorrisetto, gli disse: «In tal caso, Castillar, venite a cena con noi… Anche se dubito che il nostro cuoco vi possa offrire dei ratti, perché non è un piatto di moda nella pacifica Valenda. Nel frattempo, rifletterò sulla vostra richiesta».

Cazaril fece un muto cenno di ringraziamento, esitando a parlare per timore che la voce gli s’incrinasse.

Essendo ancora inverno, il pasto principale della famiglia veniva consumato a mezzogiorno, formalmente, nella grande sala. La cena, più leggera, era costituita prevalentemente dal pane e dalle carni avanzati a mezzogiorno. Ciò dipendeva dalla mentalità economa della Provincara, il cui orgoglio tuttavia esigeva altresì che si trattasse di cibo della migliore qualità, accompagnato da dosi generose di vini eccellenti. Quando invece imperversava l’intenso calore estivo, accadeva l’inverso: il pasto di mezzogiorno non era che uno spuntino, mentre la cena si teneva dopo il calare della notte, quando i baociani di ogni classe sociale si sedevano a mangiare nella frescura dei loro cortili, alla luce delle lanterne.

Quella sera, a tavola, erano soltanto in otto e si accomodarono in una camera privata del nuovo edificio, adiacente alle cucine. La Provincara prese posto a centro tavola, concedendo il posto d’onore alla sua destra a Cazaril, che rimase alquanto intimidito nel trovarsi accanto la Royesse Iselle, seduta di fronte al fratello, il Royse Teidez. Ma si rincuorò un poco quando, per far passare il tempo in attesa che tutti i commensali fossero arrivati, Teidez si mise a scagliare palline di mollica di pane contro la sorella maggiore, manovra immediatamente stroncata da un’occhiata severa della nonna. Negli occhi della Royesse Iselle era però affiorato un bagliore che faceva presagire una rappresaglia nei confronti del fratello. La rappresaglia fu sventata soltanto da un tempestivo intervento di Betriz, seduta dalla parte opposta del tavolo e un po’ spostata di lato rispetto a Cazaril.

Dal suo posto, Betriz gli lanciò un sorriso amichevole e venato di curiosità, che rivelò un’affascinante fossetta su una guancia. Sembrò addirittura sul punto di rivolgergli la parola, quando un servitore si accostò al tavolo e offrì a ciascuno una bacinella per lavarsi le mani, piena di acqua calda profumata di verbena. Le dita di Cazaril presero a tremare vistosamente mentre lui le immergeva nell’acqua, asciugandole poi in un fine asciugamano di lino. Provvide a nascondere il più in fretta possibile quel tremore abbassando le mani in grembo.

Notando che la sedia di fronte a lui era ancora vuota, dopo un momento accennò a essa con la testa e, in tono un po’ diffidente, chiese alla Provincara: «La Royina Vedova non si unirà a noi per cena, Vostra Grazia?»

«Purtroppo, stasera Ista non sta abbastanza bene», replicò lei, con espressione tesa. «Lei… consuma la maggior parte dei pasti nella sua camera.»

Reprimendo a fatica il disagio, Cazaril decise di chiedere in seguito, a qualcun altro, quale fosse l’esatta natura del male che opprimeva la madre del Royse e della Royesse. L’espressione della Provincara lasciava comunque intuire che si trattasse di qualcosa di cronico, di una malattia prolungata o di una cosa troppo dolorosa perché lei desiderasse discuterne. La prematura vedovanza aveva risparmiato a Ista il pericolo connesso ad altre gravidanze, che costituivano il rischio maggiore per la salute delle giovani donne, però esistevano molte altre spaventose malattie che affliggevano le donne di mezz’età… In qualità di seconda moglie del Roya Ias, Ista si era trovata sposata con un uomo di mezz’età, il cui figlio primogenito ed Erede, Orico, a quel tempo era già adulto. Nel breve tempo in cui era rimasto alla corte di Chalion, e pur mantenendo sempre le adeguate distanze, Cazaril aveva osservato la Royina, ricavandone l’impressione che fosse felice e che il Roya adorasse lei, ma anche la pìccola Iselle e il neonato Teidez.

Quella felicità era poi stata oscurata dalla tragedia connessa al tradimento di Lord dy Lutez, una tragedia che, come aveva sostenuto la maggior parte degli osservatori, aveva addolorato il Roya Ias a tal punto di affrettarne la morte prematura. Cazaril non poté fare a meno di chiedersi se la malattia che aveva indotto la Royina Ista a lasciare la corte del figlio adottivo non avesse qualche spiacevole risvolto politico… A detta di tutti, comunque, il Roya Orico si era sempre dimostrato rispettoso nei confronti della matrigna e gentile verso Teidez e Iselle.

Schiarendosi la gola per nascondere il brontolio dello stomaco vuoto, Cazaril osservò il gentiluomo, seduto in fondo alla tavola, oltre Lady Betriz, che faceva da tutore al Royse. In risposta a un regale cenno del capo della Provincara, l’uomo guidò la preghiera alla Santa Famiglia, perché benedicesse il pasto imminente, che Cazaril si augurava essere davvero tale. E il mistero della sedia vuota trovò la sua spiegazione allorché il siniscalco, Ser dy Ferrej, sopraggiunse con aria trafelata, scusandosi per il ritardo prima di prendere posto con gli altri.

«Sono stato trattenuto dal Divino dell’Ordine del Bastardo», spiegò, mentre pane, carne e frutta venivano passati tra i presenti.

Cercando di non lanciarsi sul cibo come un cane affamato, Cazaril si rivolse al siniscalco con un suono interrogativo e cominciò a mangiare.

«Un giovane molto serio e decisamente logorroico», aggiunse dy Ferrej, a mo’ di spiegazione.

«Che voleva?» domandò la Provincara. «Altre donazioni per l’ospizio dei trovatelli? Abbiamo già mandato un carico la settimana scorsa, e i servi del castello rifiutano di rinunciare ad altri vestiti vecchi.»

«Chiede balie», rispose dy Ferrej, con la bocca piena.

«Non dalla mia casa», dichiarò la Provincara, sbuffando.

«No, però voleva che facessi sapere in giro che il Tempio è in cerca di balie, nella speranza che qualcuno abbia una parente decisa a fare un atto di carità. La scorsa settimana un altro neonato è stato depositato davanti alle loro porte e si aspettano di vederne affluire altri. A quanto pare, è il periodo dell’anno in cui questo fenomeno è più frequente.»

Secondo la logica della teologia da cui era animato, l’Ordine del Bastardo classificava le nascite indesiderate fra le cose fuori stagione che ricadevano sotto la giurisdizione del suo Dio, inclusi naturalmente i bastardi e i bambini rimasti orfani di entrambi i genitori quand’erano ancora troppo piccoli. Gli ospedali per i trovatelli e gli orfanotrofi del Tempio erano una delle cose più importanti di cui l’Ordine si occupava; Cazaril non poté fare a meno di pensare che, per un Dio che comandava legioni di demoni, non doveva essere difficile ottenere donazioni per le sue opere buone.

Benché lo considerasse un crimine, dato che si trattava di un’annata eccellente, Cazaril annacquò il proprio vino, temendo che gli andasse alla testa. Accorgendosene, la Provincara gli rivolse un cenno di approvazione, ma nel contempo si lanciò in una discussione relativa proprio all’annacquamento del vino con la sua dama di compagnia, emergendone almeno in parte trionfante e con in mano mezzo bicchiere di vino non allungato.

«Il Divino mi ha però raccontato anche una storia interessante», continuò dy Ferrej, dopo un momento. «Indovinate chi è morto la scorsa notte…»

«Chi, padre?» fu pronta a chiedere Lady Betriz.

«Ser dy Naoza, il famoso spadaccino.»

Quel nome risultò del tutto nuovo a Cazaril, ma non alla Provincara, che sbuffò. «Era ora», disse. «Un uomo orribile. Io non ho mai voluto riceverlo, anche se suppongo che ci siano stati alcuni stolti che lo hanno fatto. Ha finalmente sottovalutato la sua vittima di turno… voglio dire, il suo avversario?»

«È a questo punto che la storia si fa interessante: a quanto pare, è stato assassinato mediante la magia di morte», replicò dy Ferrej, sorseggiando quindi il vino in attesa che il mormorio di sorpresa dei suoi ascoltatori si spegnesse. Di fronte a lui, Cazaril smise di colpo di masticare.

«Il Tempio ha intenzione di risolvere questo mistero?» chiese infine la Royesse Iselle.

«Non esiste nessun mistero in questa che, a quanto ho capito, è una vera e propria tragedia. Circa un anno fa, dy Naoza è stato spinto per strada dal figlio di un mercante di lana di provincia, col solito risultato. Naturalmente, dy Naoza ha sostenuto che si è trattato di un duello, ma chi ha assistito alla scena sostiene che sia stato un vero e proprio omicidio a sangue freddo. Chissà come, però, quando il padre del ragazzo ha cercato di far processare Naoza, nessuno di quei testimoni è più stato reperibile. Sono addirittura corse voci sulla probità del giudice.»

La Provincara accolse quelle affermazioni con un verso di disgusto.

«Continuate», si azzardò a dire Cazaril, sempre più interessato.

«Quel mercante era vedovo, e quello era il suo unico figlio», riprese il siniscalco, incoraggiato dal suo interessamento. «Ad aggravare le cose, il ragazzo era prossimo a sposarsi. Certo, la magia di morte è una cosa decisamente spiacevole, ma non posso fare a meno di nutrire una certa comprensione per quel povero mercante… Ecco, almeno suppongo che fosse ricco, ma di certo era troppo vecchio per usare la spada con un’abilità pari a quella di dy Naoza. Probabilmente la magia nera gli è parsa la sua unica alternativa, e ha dedicato tutto l’anno successivo a studiarla… Al Tempio, badate bene, non hanno idea di come abbia appreso quelle cognizioni. Il mercante, tuttavia, aveva smesso di seguire i propri affari, almeno a quanto mi hanno detto. La scorsa notte, quel mercante si è recato in un mulino abbandonato, a una decina di chilometri da Valenda, ha cercato di evocare un demone… e ci è riuscito! Il suo corpo è stato trovato nel mulino, stamattina.»

Il Padre dell’Inverno era il Dio di tutte le morti che si verificavano a tempo debito, nonché il Dio della giustizia, mentre il Bastardo, oltre a occuparsi di varie calamità, era anche il Dio dei boia ed era preposto a svariati lavori sporchi. Pare che il mercante si sia rivolto alla persona giusta, per ottenere il suo miracolo, pensò Cazaril, mentre il libriccino che aveva in tasca gli sembrava di colpo pesantissimo e a rischio di prendere fuoco da un momento all’altro.

«Io non nutro nessuna compassione per lui», dichiarò il Royse Teidez. «Ha agito da vigliacco.»

«Certo, ma cosa ci si può aspettare da un mercante?» ribatté il suo tutore, seduto dall’altra parte del tavolo. «Gli uomini di quella classe non vengono allevati nell’osservanza del genere di codice d’onore che viene invece insegnato a un gentiluomo.»

«È una storia così triste», interloquì Iselle. «Mi riferisco al fatto che quel ragazzo stava per sposarsi.»

«Ragazze!» sbuffò Teidez. «Tutto quello cui riuscite a pensare è il matrimonio. Cosa costituisce però la perdita maggiore per il regno? Un mercante avido di denaro oppure uno spadaccino? Qualsiasi uomo tanto abile nell’usare la spada non può che essere un buon soldato per il Roya!»

«Non è quello che mi ha insegnato l’esperienza», commentò Cazaril, asciutto.

«Che intendete?» fu pronto a sfidarlo Teidez.

«Chiedo scusa», mormorò Cazaril, intimidito. «Ho parlato a sproposito.»

«Qual è la differenza?» insistette Teidez.

«Spiegatevi, Castillar», intervenne la Provincara, tamburellando con le dita sulla tovaglia e scoccando a Cazaril un’occhiata indecifrabile.

«La differenza, Royse, è che un abile soldato uccide i nemici, mentre un abile spadaccino uccide gli alleati», rispose Cazaril, scrollando le spalle e accennando un inchino in direzione del ragazzo. «Lascio a voi immaginare quale dei due un comandante saggio preferisca avere al suo fianco.»

«Oh», commentò Teidez, poi assunse un’espressione pensosa.

A quanto pareva, non c’era nessuna fretta di restituire il libriccino del mercante alle autorità, cosa che non avrebbe comunque comportato nessuna difficoltà. L’indomani, Cazaril poteva recarsi, con comodo, al Tempio della Sacra Famiglia, lì a Valenda, e consegnarlo, in modo che venisse inoltrato a chi di dovere. Bisognava decifrarlo, certo, un’operazione che alcuni trovavano noiosa o difficile, ma che a lui era sempre piaciuta. Si chiese persino se fosse il caso di offrirsi di provvedere alla decifrazione. Abbassò una mano ad accarezzare la morbida lana della veste, lieto ancora una volta di aver pregato per l’anima di quell’uomo, mentre il suo corpo veniva affrettatamente bruciato.

«Chi era il giudice, padre?» domandò Betriz, che aveva assunto un’espressione accigliata.

«L’Onorevole Vrese», rispose dy Ferrej, dopo una lieve esitazione, accantonata con una scrollata di spalle.

«Ah, lui», commentò la Provincara, arricciando il naso come se avesse sentito un odore sgradevole.

«Lo spadaccino lo ha forse minacciato?» chiese la Royesse Iselle. «In tal caso, non avrebbe dovuto… chiedere aiuto o far arrestare dy Naoza?»

«Dubito che perfino dy Naoza fosse tanto stupido da minacciare un Justiciar della provincia», replicò dy Ferrej. «Anche se è possibile che abbia intimidito i testimoni. Quanto a Vrese… È più probabile che sia stato gestito con metodi più pacifici.» S’infilò in bocca il pezzetto di pane che aveva in mano e sfregò l’indice e il pollice, a indicare che il mezzo utilizzato era stato il denaro.

«Se il giudice avesse fatto il suo mestiere con onore e con coraggio, quel mercante non sarebbe mai stato spinto a ricorrere alla magia di morte», dichiarò Iselle, scandendo le parole. «Due uomini sono ormai morti e dannati, mentre questa sorte sarebbe dovuta toccare a uno soltanto… Senza contare che, se fosse stato giustiziato, dy Naoza avrebbe avuto modo di purificare la propria anima prima di affrontare gli Dei. Se queste cose sono risapute, come mai quell’uomo è ancora un giudice? Nonna, non puoi fare qualcosa al riguardo?»

«La nomina dei Justiciar provinciali non dipende da me, mia cara, e neppure la loro rimozione…» rispose la Provincara con espressione contrariata. «Il loro dipartimento sarebbe gestito in maniera più ordinata, te lo garantisco.» Bevve un sorso di vino; poi, nel notare l’espressione accigliata della nipote, aggiunse: «Qui, nella Baocia, ho grandi privilegi, bambina, ma non ho grandi poteri».

Iselle lanciò un’occhiata a Teidez, poi una a Cazaril, ripetendo la stessa domanda posta poco prima dal fratello, ma con voce molto seria. «Qual è la differenza?»

«Una cosa è il diritto a governare… e a elargire protezione; un’altra è il diritto a ricevere protezione», spiegò la Provincara. «Purtroppo, fra un Provincar e una Provincara esiste una differenza che va ben oltre una semplice lettera in più o in meno nel titolo.»

«Come la differenza tra un Royse e una Royesse?» sogghignò Teidez.

«Davvero?» ribatté Iselle, girandosi a fissarlo con le sopracciglia inarcate. «In tal caso, ragazzo privilegiato, posso sapere come ti proponi di rimuovere quel giudice corrotto?»

«Ora basta, voi due», intervenne la Provincara, nel tipico tono di una nonna abituata a essere obbedita. Cazaril sorrise. All’interno di quelle mura, lei era senza dubbio la sovrana assoluta, in virtù di un codice più antico di quello di Chalion, e quel piccolo Stato le era più che sufficiente.

La conversazione si spostò quindi su argomenti più leggeri, mentre i servi provvedevano a portare formaggio, dolci e un vino di Brajar. Cazaril si era rimpinzato per bene, anche se sperava che nessuno se ne fosse accorto, e sapeva di dover smettere se non voleva correre il rischio di sentirsi male. Ma la vista di quel vino da dessert di colore dorato gli fece quasi salire le lacrime agli occhi e lui non seppe trattenersi dal gustarlo senza allungarlo con l’acqua, anche se si limitò a un bicchiere soltanto.

Il pasto fu concluso da altre preghiere di ringraziamento, poi il Royse Teidez venne trascinato via dal suo tutore per riprendere gli studi; subito dopo, anche Iselle e Betriz si allontanarono a passo spedito, seguite con più calma da dy Ferrej, per andare a dedicarsi al cucito.

«Riusciranno davvero a starsene sedute a cucire?» chiese Cazaril alla Provincara, osservando quel vortice di sottane che svanivano in lontananza.

«Spettegolano e ridacchiano finché non riesco più a sopportarle, ma sono molto brave a cucire», replicò la Provincara, il cui tono di disapprovazione era smentito dalla luce dello sguardo.

«Vostra nipote è una deliziosa giovane dama.»

«Cazaril, quando un uomo raggiunge una certa età, tutte le giovani dame cominciano ad apparirgli deliziose. È il primo sintomo di senilità.»

«È vero, mia signora», convenne Cazaril, con un accenno di sorriso.

«Iselle ha già logorato due governanti, e pare ben avviata a distruggerne una terza, almeno a giudicare dalle sue lamentele, e tuttavia… dev’essere forte», affermò la Provincara, con una nota cauta nella voce tagliente. «Un giorno, inevitabilmente, verrà mandata lontano da me, e non sarò più in grado di aiutarla… di proteggerla…»

Nella politica di Chalion, una giovane e attraente Royesse era una pedina e non un giocatore. Senza dubbio, il prezzo che avrebbero richiesto per darla in sposa sarebbe stato elevato, eppure un matrimonio politicamente e finanziariamente fortunato poteva non essere tale da un punto di vista più intimo e personale. Da quel punto di vista, il destino era stato benigno con la Provincara, ma, nel corso della sua vita, lei di certo aveva visto numerose dame di nobile nascita andare incontro a una sorte molto meno favorevole della sua. Iselle sarebbe stata inviata nella lontana Darthaca? Oppure sarebbe andata in sposa a qualche cugino anche troppo prossimo della royacy di Brajar? Oppure, che gli Dei non volessero, sarebbe stata contrattata la sua unione con qualche principe roknari in cambio di una pace temporanea, e lei avrebbe finito per trovarsi esiliata nell’Arcipelago?

«Quanti anni avete adesso, Castillar?» chiese la Provincara, scoccandogli un’occhiata in tralice alla luce dei grandi candelabri che le erano sempre piaciuti molto. «Mi pare di ricordare che ne avevate tredici, quando vostro padre vi ha inviato al servizio del mio caro Provincar.»

«Sì. Vostra Grazia. Adesso ne ho trentacinque.»

«Ah. Sapete, dovreste radervi quel cespuglio che vi cresce sulla faccia, perché vi fa sembrare quindici anni più vecchio.»

Cazaril pensò di ribattere che una lunga permanenza sulle galee dei roknari poteva invecchiare notevolmente un uomo, ma quella era una cosa su cui non si sentiva di scherzare. «Spero di non aver irritato il Royse con le mie divagazioni, Vostra Grazia», disse invece.

«Credo invece che voi abbiate indotto il giovane Teidez a soffermarsi a riflettere, il che è un evento raro. Vorrei che il suo tutore riuscisse a fare altrettanto con maggiore frequenza.» La Provincara tamburellò per un momento sulla tovaglia con le dita sottili, poi finì il vino che aveva nel bicchiere e aggiunse: «Non so in quale pulciosa locanda voi abbiate preso alloggio, giù in città, Castillar, ma adesso manderò un paggio a prendere le vostre cose. Stanotte vi fermerete qui».

«Ringrazio Vostra Grazia e accetto con gratitudine», rispose Cazaril, rivolgendo una silenziosa preghiera agli Dei per quell’ospitalità. Poi, con fare imbarazzato, proseguì: «Però… ecco… non sarà necessario disturbare il vostro paggio».

«Come forse ricorderete, i paggi esistono proprio per questo», ribatté la dama, inarcando un sopracciglio.

«Sì, però… le mie cose sono tutte qui», confessò Cazaril, indicando se stesso e, nel notare l’espressione d’un tratto addolorata della Provincara, si affrettò a continuare: «Possedevo anche meno, quando sono sbarcato dalla galea ibrana, a Zagosur». Era coperto di croste e aveva addosso soltanto un paio di luridi calzoni, che gli Accoliti poi avevano bruciato.

«In tal caso, il mio paggio vi accompagnerà nella vostra stanza», replicò la Provincara, continuando a fissarlo intensamente. «Buonanotte, mio signore dy Cazaril», si congedò quindi, accennando ad alzarsi, assistita dalla dama di compagnia. «Parleremo ancora domani.»

La camera era una di quelle della vecchia fortezza, riservate agli ospiti di riguardo, più per il fatto che in esse avevano dormito numerosi Roya d’importanza storica che non per la loro effettiva comodità. All’epoca in cui era un paggio, Cazaril aveva servito in centinaia di occasioni coloro che vi avevano alloggiato. Il letto aveva tre materassi — di paglia, di penne e di piume ed era coperto da morbide lenzuola di lino e da un copriletto ricamato dalle dame della famiglia.

Il paggio non si era ancora congedato allorché sopraggiunsero due cameriere, portando acqua da bere e per lavarsi, asciugamani, sapone e una camicia da notte ricamata, completa di papalina e di pantofole. Cazaril, che aveva pensato di dormire con la camicia presa al morto, venne quasi sopraffatto da quell’abbondanza e si sedette sul bordo del letto, con la camicia da notte fra le mani, scoppiando in un pianto violento. Scosso dai singhiozzi, con un cenno fece capire ai servitori, sconvolti, di lasciarlo solo.

«Che gli ha preso?» disse una delle cameriere, mentre i passi dei tre si allontanavano lungo il corridoio, e le lacrime continuavano a scendere.

«Probabilmente è pazzo», replicò il paggio, in tono disgustato.

La voce della cameriera, più fievole per la distanza, arrivò di nuovo all’orecchio di Cazaril. «In tal caso, qui si troverà nell’ambiente adatto a lui, non credi?»

3

Nel grigiore che precedeva l’alba, Cazaril fu svegliato dai rumori tipici del palazzo che si animava: i richiami dei servi nel cortile, il lontano clangore metallico delle pentole… Nell’aprire gli occhi, si sentì disorientato, sull’orlo del panico, ma il rassicurante abbraccio del materasso di piume lo fece scivolare di nuovo nel dormiveglia. No, non giaceva su una dura panca che ondeggiava. Non si muoveva affatto. I cinque Dei gli erano testimoni che quel semplice fatto per lui equivaleva al paradiso. Il calore delle piume, poi, era una vera panacea per la sua povera schiena.

I festeggiamenti previsti per il Giorno della Figlia si sarebbero protratti dall’alba a notte inoltrata, ma forse lui poteva restarsene a letto finché tutti non si fossero uniti alla processione, e andarsene poi in giro senza dare nell’occhio, oziando al sole, insieme coi gatti del castello. Se poi avesse avuto fame, avrebbe potuto attingere ai ricordi di paggio: all’epoca, sapeva bene come convincere il cuoco a dargli qualche boccone in più…

Un colpo deciso battuto contro la porta interruppe quei pensieri piacevoli. Cazaril sussultò, rilassandosi tuttavia subito dopo nel sentire la voce di Lady Betriz.

«Mio signore dy Cazaril? Castillar, siete sveglio?» chiese la ragazza.

«Un momento, mia signora», rispose lui. Scivolato fino al bordo del letto, si strappò dall’amorevole abbraccio del materasso, posando i piedi nudi su una stuoia di canne intrecciate. Assestatasi la lunga camicia da notte di lino, raggiunse la porta e la socchiuse.

Betriz, nel corridoio, stringeva in una mano una candela, protetta da una lanterna di vetro soffiato, e nell’altra un assortimento di stoffa, di cinghie di cuoio e di qualcosa che emetteva un tintinnio metallico. Era vestita per la giornata di festa, con un abito azzurro e una sopravveste bianca lunga dalle spalle alle caviglie; aveva i capelli scuri raccolti in trecce sulla testa e ornati con fiori e foglie. Nel notare l’allegro scintillio dei suoi occhi marroni, Cazaril non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.

«Sua Grazia la Provincara vi augura un benedetto Giorno della Figlia», annunciò Betriz, poi lo costrinse a balzare indietro, assestando un calcio alla porta per spalancarla. Avanzò nella stanza con fare deciso, mettendogli in mano la candela con un distratto: «Reggete questa…» e depositando sul letto un mucchio di stoffa bianca e azzurra nonché una spada, completa di cintura. Mentre Cazaril posava la candela sulla cassapanca ai piedi del letto, aggiunse: «La Provincara vi manda questi abiti e vi chiede di raggiungere il resto della famiglia nella sala degli antenati, per le preghiere dell’alba. Dopo, faremo colazione. Ha detto che sapete benissimo come trovare la strada per la sala da pranzo».

«È vero, mia signora.»

«Ho chiesto io a mio padre la spada», continuò Betriz. «È una delle sue migliori. Per lui sarebbe stato un onore prestarvela, mi ha detto. È vero che avete preso parte all’ultima guerra?» chiese, girandosi a fissarlo con aria interessata.

«Uh… A quale vi riferite?»

«Ne avete combattuta più di una?» esclamò Betriz, sgranando gli occhi.

Credo di averle combattute tutte, negli ultimi diciassette anni, pensò Cazaril. Poi ricordò di aver perso la recente campagna contro Ibra, morta sul nascere, perché rinchiuso nelle prigioni di Brajar, e di non aver partecipato neppure alla stolta spedizione del Roya a sostegno della Darthaca, perché il generale roknari con cui il Provincar della Guarida era impegnato a trattare — peraltro con totale inettitudine -, lo stava ingegnosamente torturando. Ma, a parte quelle due, nell’ultimo decennio non c’era stata un’unica sconfitta cui non fosse stato presente.

«Alcune, qua e là, nel corso degli anni», borbottò, assalito dall’improvvisa, orribile consapevolezza che, fra la sua nudità e gli occhi di quella fanciulla, non c’era che un sottile strato di lino. Arretrò, con le mani incrociate sul ventre e un pallido sorriso sulle labbra.

«Vi ho messo in imbarazzo?» domandò Betriz, notando il suo gesto. «Mio padre dice sempre che i soldati non hanno pudore, giacché devono vivere tutti insieme, negli accampamenti.»

«Stavo pensando al vostro pudore, mia signora», riuscì a rispondere Cazaril, arrossendo.

«Allora non ci sono problemi», fu l’allegra risposta di Betriz.

La ragazza non accennava ad andarsene.

«Non era mia intenzione disturbare la famiglia nel corso della celebrazione», osservò allora Cazaril, indicando il mucchio d’indumenti. «Siete certa che…?»

Betriz congiunse le mani con aria compunta e il suo sguardo, fisso sul volto di lui, si fece più intenso. «Oh, ma voi dovete partecipare alla processione e assistere all’elargizione di doni per il Giorno della Figlia, al Tempio.» Poi, saltellando tutta allegra, gli confidò: «Quest’anno, sarà la Royesse Iselle a rivestire il ruolo della Signora della Primavera».

«D’accordo, allora, se vi fa piacere», si arrese Cazaril, con un sorriso contrito. Come poteva resistere a una supplica tanto insistente? La Royesse Iselle doveva avere quasi sedici anni… Quanti ne aveva Lady Betriz? si chiese. È troppo giovane per te, vecchio mio… Ma poteva almeno osservarla da un punto di vista meramente estetico, rendendo grazie alle Dee per la gioventù, la bellezza e l’energia che loro avevano elargito, giacché quei doni ravvivavano il mondo come altrettanti fiori.

«Inoltre è la Provincara stessa a richiedere la vostra presenza», aggiunse Lady Betriz.

Annuendo, Cazaril accese la propria candela da quella di lei e, per farle capire che era arrivato per lei il momento di andarsene — per permettergli di vestirsi -, le consegnò di nuovo la candela nella lanterna. Quella luce più intensa aveva l’effetto di farla apparire ancora più bella… come di certo faceva risultare lui ancor meno attraente. Betriz si era appena voltata per andarsene, quando Cazaril rammentò la domanda che la sera precedente si era ripromesso di porre alla prima occasione utile.

«Mia signora, aspettate…» disse.

Betriz si girò a guardarlo con un sorriso interrogativo.

«Non volevo turbare la Provincara, né porre domande alla presenza del Royse e della Royesse, ma posso sapere cosa affligge la Royina Ista? Non vorrei dire o fare qualcosa di sbagliato per semplice ignoranza…»

La luce che brillava negli occhi di Betriz si attenuò, e lei scrollò le spalle. «È stanca e nervosa… nulla di più. Speriamo che, col ritorno del sole, si sentirà meglio, dato che il suo stato pare sempre migliorare, durante l’estate.»

«Da quanto tempo vive qui con la madre?»

«Da sei anni, signore», rispose Betriz, quindi accennò una riverenza e concluse: «Ora devo andare dalla Royesse Iselle. Non fate tardi, Castillar!» Gli rivolse un altro sorriso e saettò fuori della stanza.

Cazaril non riuscì a immaginare che quella giovane dama potesse arrivare in ritardo da qualche parte, considerata l’energia di cui disponeva. Scuotendo il capo, ma con un sorriso che ancora gli aleggiava sulle labbra, procedette a esaminare i suoi nuovi abiti.

Stava passando a indumenti di seconda mano di qualità superiore… La tunica era di broccato di seta azzurro e la sopravveste, lunga fino al ginocchio, era di lana candida. Il tutto era pulito e con rammendi e macchioline praticamente invisibili… Probabilmente si trattava di una tenuta da festa scartata da dy Ferrej, oppure appartenuta addirittura al defunto Provincar. Gli abiti gli andavano un po’ larghi, ma la cintura provvedeva a mimetizzare un po’ la cosa. Col peso familiare e nel contempo estraneo della spada che gli gravava sul fianco sinistro, Cazaril lasciò di li a poco la rocca centrale e attraversò il cortile per raggiungere la sala degli antenati.

Nel cortile l’aria era fredda e umida, i ciottoli erano scivolosi sotto le suole sottili degli stivali e si scorgevano ancora alcune stelle. Socchiusa la massiccia porta di legno della sala, Cazaril sbirciò all’interno, individuando varie candele accese e alcune figure. Chiedendosi se fosse arrivato in ritardo, sgusciò dentro e attese che la vista si adattasse alla penombra.

Si rese conto di non essere in ritardo, bensì in anticipo. Una mezza dozzina di candele quasi consumate ardeva davanti alle piccole lapidi di famiglia e due donne, avvolte in scialli, sedevano sulla prima panca, occupate a vegliare su una terza figura.

La Royina Vedova Ista giaceva prona davanti all’altare in un atteggiamento d’intensa supplica, con le braccia protese, le mani che si serravano e si rilassavano, le unghie rosicchiate a sangue. La massa di camicie da notte e di scialli in cui era avvolta formava una chiazza intorno a lei e i folti capelli crespi — un tempo dorati e ora invece di un’opaca tinta castana — si allargavano intorno alla sua testa come un ventaglio, incorniciando il volto pallido, girato lateralmente con la guancia appoggiata sul pavimento. Gli occhi, grigi e fissi, erano aperti, lucidi di pianto trattenuto.

Quello era il volto di chi aveva sperimentato il più profondo dolore. A Cazaril rammentò l’espressione degli uomini spezzati nel corpo e nell’anima a causa della prigionia e degli orrori delle galee… Ma ricordò anche il proprio volto, riflesso in uno specchio di lucido acciaio, nella Casa della Madre, a Ibra, quando gli Accoliti lo avevano rasato, incitandolo poi a verificare quanto il suo aspetto fosse migliorato. Era peraltro assolutamente certo che la Royina non si fosse mai neppure avvicinata a una segreta in tutta la sua vita, che non avesse mai avvertito il morso di una frusta né fosse mai stata colpita da un uomo in preda all’ira. E dunque cosa può averla ridotta così? si chiese, rimanendo immobile, con le labbra socchiuse, timoroso di parlare.

Uno scricchiolio e un fruscio provenienti da un punto alle sue spalle lo indussero a girarsi e lui vide la Provincara e sua cugina sgusciare nella sala. Nel passargli accanto, la Provincara inarcò appena un sopracciglio, gesto cui lui rispose con un accenno d’inchino, poi si diresse verso le due dame di compagnia, che sussultarono e si alzarono con una riverenza.

Avanzando lungo la navata, tra le panche, la Provincara si soffermò a contemplare la figlia. «Oh, Dei! Da quanto tempo è qui?» chiese, senza tuttavia manifestare nessuna emozione particolare.

«Si è alzata nel cuore della notte, Vostra Grazia», rispose una delle dame, con un’altra riverenza. «Abbiamo pensato fosse meglio permetterle di venire qui, piuttosto che ostacolarla. Come voi ci avete ordinato…»

«Sì, sì», la interruppe la Provincara, con un gesto spazientito. «Ha dormito almeno un poco?»

«Una o due ore, credo, mia signora.»

Sospirando, la Provincara s’inginocchiò accanto alla figlia, e la sua voce suonò d’un tratto gentile, senza la consueta asprezza. Per la prima volta, Cazaril avvertì in essa il peso degli anni.

«Ista, tesoro, alzati e torna a letto. Per oggi, provvederanno altri a continuare le preghiere.»

Le labbra della donna prostrata si mossero due volte, prima di riuscire a emettere un fievole sussurro. «Se gli Dei non ci sentono… e se pure ci sentono, non parlano. Il loro viso è distolto da me, madre.»

Con un gesto quasi goffo, la vecchia le accarezzò i capelli. «Altri pregheranno, oggi. Accenderemo nuove candele e tenteremo ancora. Ora lascia che le tue dame ti rimettano a letto. Suvvia, alzati.»

La Royina tirò su col naso, sbatté le palpebre e obbedì con riluttanza. In risposta a un secco cenno del capo della Provincara, le due dame di compagnia si affrettarono a guidare la Royina fuori della sala, raccogliendo lungo la strada gli scialli che lei lasciava cadere dietro di sé. Quando gli passò accanto, Cazaril la scrutò in volto con ansia, senza però scorgere quella tonalità gialla della pelle e quei lineamenti emaciati che potevano indicare la tisi. Quanto alla Royina, non parve neppure vederlo e non dimostrò di riconoscere quello sconosciuto dalla barba brizzolata… Del resto, non c’era motivo per cui dovesse ricordarsi di lui, considerato che era stato soltanto uno dei molti paggi che, nel corso degli anni, si erano avvicendati al servizio della famiglia dy Baocia.

Quando la porta si richiuse alle spalle della figlia, la Provincara distolse infine lo sguardo da essa, e Cazaril la vide sospirare silenziosamente.

«Ringrazio Vostra Grazia per questi abiti da festa», disse, con un inchino, poi esitò, e aggiunse: «Se c’è qualcosa che posso fare per alleggerire il vostro fardello, signora, o quello della Royina, non avete che da dirlo».

Sorridendo, la dama gli batté un colpetto sulla mano, senza però rispondere, quindi andò ad aprire le imposte della finestra esposta a est, in modo da lasciar entrare la luce rosata dell’alba. Vicino all’altare, Lady dy Hueltar provvide a spegnere le candele quasi consumate e a gettarle in un cestino che aveva portato con sé a quello scopo. Poi la Provincara e dy Cazaril l’aiutarono a sostituire quei mozziconi con nuove candele di cera; quando infine dozzine di piccole luci furono accese davanti alle rispettive tavolette, disposte in fila come soldatini, la Provincara indietreggiò di un passo, annuendo con aria soddisfatta.

In quel momento, il resto della famiglia e della servitù cominciò ad arrivare. Cazaril si sedette su una delle ultime panche, in un angolo appartato, mentre cuochi, servitori, garzoni di stalla, paggi, il capo cacciatore e il falconiere, la governante e il siniscalco, tutti con indosso i loro abiti migliori e con la massima quantità di azzurro e di bianco possibile, andarono a prendere posto. Le ultime ad arrivare furono Lady Betriz e la Royesse Iselle, che procedeva un po’ rigida, avvolta com’era nelle elaborate vesti a ricami vivaci e a molteplici strati, proprie della Signora della Primavera, che quel giorno era stata eletta a impersonare. Scélta una delle prime panche, le due ragazze sedettero con aria attenta e concentrata, riuscendo per una volta a non ridacchiare. Subito dopo fece il suo ingresso un Divino della Sacra Famiglia, proveniente dal Tempio cittadino e avvolto non nelle vesti nere e grigie proprie del Padre, indossate fino al giorno precedente, bensì in quelle bianche e azzurre proprie della Figlia. Il Divino guidò l’assemblea in una breve cerimonia per propiziare il cambiamento di stagione e la pace dei morti, che essa rappresentava; poi, quando i primi raggi del sole penetrarono attraverso la finestra esposta a est, spense l’ultima candela, l’unica fiamma ancora presente in tutto il castello.

Seguì una colazione a base di cibi freddi, preparata su tavoli disposti nel cortile. Per quanto fredde, le vivande erano più che abbondanti, tanto che Cazaril dovette ricordare a se stesso di non dover per forza rimediare in un solo giorno a tre anni di privazioni, anche in considerazione del fatto che presto avrebbe dovuto camminare a lungo, in salita e in discesa. Quando infine il mulo bianco della Royesse venne guidato nel cortile, lui si sentiva comunque piacevolmente sazio.

Anche il mulo era stato decorato con nastri azzurri e coi primi fiori primaverili, intrecciati nella criniera, e la gualdrappa era sfarzosamente ricamata con tutti i simboli della Signora della Primavera. Abbigliata nelle vesti del Tempio, coi capelli color ambra che le ricadevano in una splendida cascata lungo le spalle, da sotto la coroncina di fiori e di foglie che le cingeva la fronte, Iselle venne sistemata in sella con ogni cautela e le vesti le furono drappeggiate intorno con cura. Per l’occasione, la ragazza acconsentì a ricorrere ai gradini e all’assistenza di un paio di giovani e agili paggi. Poi il Divino prese la cavezza di seta azzurra del mulo e lo condusse fuori, seguito dalla Provincara, in sella a una tranquilla giumenta saura dai garretti bianchi, decorata a sua volta con nastri e fiori e condotta per le briglie dal siniscalco. Soffocando un rutto, Cazaril rispose a un cenno di dy Ferrej e si affrettò a prendere posto dietro le cavalcature delle due dame, offrendo cortesemente il braccio a Lady dy Hueltar, mentre il resto della processione s’incolonnava alle loro spalle.

Il gruppo festante si avviò lungo le strade cittadine, fino alla vecchia porta orientale, da dov’era previsto che la processione avesse formalmente inizio. In attesa c’erano circa duecento persone, inclusa una cinquantina di cavalieri appartenenti alle associazioni delle guardie votate alla Figlia, provenienti da tutte le terre circostanti Valenda. Fu così che Cazaril si trovò a passare proprio sotto il naso del massiccio soldato che, il giorno precedente, gli aveva gettato per errore la moneta d’oro. Ma il soldato si limitò a guardarlo e a rivolgergli un cortese cenno del capo, prendendo nota dell’abbigliamento di seta, della spada e probabilmente anche dei capelli e della barba ben tagliati. È strano come ci lasciamo abbagliare dall’apparenza delle cose, rifletté Cazaril, pensando altresì che gli Dei probabilmente vedevano al di là dell’aspetto esteriore… Si chiese allora se essi trovassero la cosa complicata proprio come succedeva a lui, da qualche tempo.

Il formarsi della processione lo costrinse ad accantonare quelle meditazioni. Il Divino consegnò la briglia del mulo di Iselle all’anziano gentiluomo scelto per il ruolo di Padre dell’Inverno. Nel corso della processione invernale, il Padre sarebbe stato un giovane abbigliato con abiti scuri, lindi e austeri come quelli di un giudice, in sella a un elegante cavallo nero, che l’uscente, lacero Figlio dell’Autunno avrebbe condotto per la briglia. Quel giorno, invece, l’anziano Padre uscente era avvolto in un assortimento di stracci grigi tale da far sembrare al confronto eleganti perfino gli abiti da mendicante che Cazaril aveva avuto indosso fino al giorno precedente; in più aveva la barba, i capelli e i polpacci nudi cosparsi di cenere. Sorridendo, l’anziano Padre rivolse qualche parola scherzosa a Iselle, che scoppiò a ridere, poi le guardie presero posto alle spalle dei due e l’intera parata iniziò il giro delle vecchie mura cittadine, per quanto fosse possibile dai nuovi edifici. Alcuni Accoliti del Tempio, schierati fra le guardie e il resto dei partecipanti, erano impegnati a guidare i canti e a incoraggiare tutti a usare le parole giuste e non versioni più volgari di quegli stessi inni.

I cittadini che non prendevano parte alla processione fungevano da pubblico, gettando fiori ed erbe. Cazaril vide le giovani donne ancora nubili correre in avanti per toccare l’abito della Figlia, giacché era di buon augurio per trovare un marito in quella stagione. Poi le ragazze si ritraevano altrettanto in fretta con una risatina imbarazzata.

Dopo una lunga camminata, che per fortuna si svolse con un clima piacevolmente mite — contrariamente a una certa primavera in cui la processione si era tenuta sotto una tempesta di grandine -, l’intera colonna aggirò di nuovo la porta orientale ed entrò nel Tempio, che sorgeva su un lato della piazza cittadina, circondato da un po’ di verde e da un basso muretto di pietra. Com’era tradizione, il Tempio si estendeva su quattro aree semicircolari che, come un quadrifoglio, si allargavano intorno al cortile centrale. Le sue mura erano della pietra dorata propria di quei luoghi e tanto cara al cuore di Cazaril, mentre sui tetti c’erano le tegole rosse locali. Ciascuna delle quattro aree circolari ospitava l’altare del Dio di una stagione; quello del Bastardo si trovava nella torre rotonda, separata dal resto, alle spalle delle porte riservate alla Madre.

Lady dy Hueltar trascinò Cazaril in prima fila per assistere al momento in cui la Royesse veniva aiutata a scendere dal mulo e guidata sotto il portico. Poi, piegando il collo, lui continuò a seguire Iselle con lo sguardo; da dove si trovava, si rese conto di poter avvertire il fresco profumo dei fiori e delle foglie intrecciati intorno alla testa di Iselle che, mescolandosi con quello dei suoi capelli, generava un sentore che pareva quello stesso della primavera.

La folla che incalzava alle loro spalle li spinse oltre le porte spalancate e all’interno del Tempio dove, con le ombre del primo mattino che ancora oscuravano il cortile principale, il Padre dell’Inverno procedette a rimuovere le ultime ceneri dal focolare sopraelevato che ospitava il fuoco sacro, spargendole sulla propria persona. Gli Accoliti si affrettarono allora a portare nuova esca e altra legna, cui il Divino impartì la consueta benedizione. Il vecchio Padre venne quindi scacciato dal Tempio con grida, fischi, bastoncini adorni di piccole campanelle e palle di morbida lana, che raffigurava la neve. Se la folla si trovava nella possibilità di usare vere palle di neve, l’anno veniva in genere considerato sfortunato, almeno dall’avatar del Dio che ne era bersagliato.

A quel punto, la Signora della Primavera, impersonata da Iselle, venne fatta avanzare perché accendesse il nuovo fuoco con l’acciarino. Inginocchiatasi su un cuscino, Iselle si morse un labbro con aria concentrata, ammucchiando i pezzetti di esca e le erbe sacre. Tutti trattennero il fiato: erano molteplici le superstizioni legate alla quantità di tentativi che, a ogni stagione, l’avatar del Dio entrante doveva fare per accendere il fuoco.

Tre rapidi colpi, una pioggia di scintille e un vigoroso soffio dei giovani polmoni di Iselle furono sufficienti a far attecchire la fiamma. Il Divino si affrettò a chinarsi per accendere una nuova candela prima che essa potesse estinguersi e la piccola fiamma continuò ad ardere, vigorosa. Quando essa venne infine trasferita nel focolare sacro, dalla folla si levò un. mormorio di sollievo e di approvazione. Iselle, che appariva compiaciuta e, in certa misura, sollevata, venne aiutata a rialzarsi, gli occhi grigi che ardevano con la stessa allegra intensità della nuova fiamma, e accompagnata fino al trono del Dio regnante.

Iniziò così la parte più importante della cerimonia, cioè la raccolta delle elargizioni trimestrali al Tempio, cosicché esso potesse avere di che mantenersi per i tre mesi successivi. Il capo di ciascuna famiglia si fece avanti per deporre una piccola sacca di monete o altre offerte nelle mani della Signora, perché il dono fosse benedetto e il suo ammontare venisse registrato dal segretario del Tempio, seduto a un tavolo alla destra di Iselle; subito dopo, chi aveva fatto l’offerta riceveva una candela accesa col nuovo fuoco, da portare nella propria casa. Naturalmente, la famiglia della Provincara fu la prima a presentare la propria offerta: il siniscalco depose nelle mani di Iselle una pesante borsa piena d’oro. Fu poi la volta di altri uomini di rango, e ogni volta Iselle accettò e benedisse l’offerta con un sorriso, il Divino anziano sorrise a sua volta e trasferì l’offerta nel mucchio con una parola di ringraziamento. Pure il segretario sorrise, annotandone l’ammontare.

D’un tratto Betriz, che era accanto a Cazaril, s’irrigidì e serrò per un momento il braccio del Castillar. «Il prossimo è quell’immondo Giudice Vrese», gli sibilò all’orecchio. «State a guardare.»

Un uomo di mezz’età dall’aria acida, elegantemente abbigliato in velluto blu scuro, tinta esaltata da una pesante catena d’oro, si presentò davanti al trono della Signora con una borsa di denaro, protendendola con un rigido sorriso. «Il Casato Vrese presenta la propria offerta alla Dea», recitò, con voce nasale. «Dateci la vostra benedizione per la stagione entrante, mia signora.»

Iselle incrociò le mani in grembo e sollevò il mento, fissando Vrese con volto serio e impassibile. «La Figlia della Primavera riceve le offerte fatte con cuore onesto», dichiarò, con voce limpida e sonora. «Non accetta tangenti, Onorevole Vrese. Per voi, l’oro è la cosa più importante che ci sia, quindi lo potete tenere.»

Vrese indietreggiò di mezzo passo e rimase a bocca aperta per lo stupore. Sulla folla scese un silenzio stupefatto, che si trasformò quasi subito in un crescente mormorio, dovuto a coloro che non avevano sentito bene e stavano chiedendo cosa fosse successo. Accanto al trono, il Divino anziano si tinse di un pallore mortale e il segretario sollevò lo sguardo con espressione inorridita.

D’un tratto, un giovane ben vestito, che attendeva in fila subito dopo il giudice, scoppiò in una secca risata. Ma non c’era traccia di divertimento in lui; si trattava piuttosto di un segno di apprezzamento per quell’atto di giustizia. Accanto a Cazaril, la giovane Lady Betriz prese quasi a saltellare per l’entusiasmo. Poi una serie di risate soffocate, accompagnate da sussurri di spiegazione, si diffuse tra la folla.

Spostando il proprio sguardo sul Divino anziano, il giudice abbozzò uno strano gesto contratto con la mano che teneva la borsa, quasi intendesse consegnare a lui l’offerta. Aprendo e serrando convulsamente i pugni lungo i fianchi, il Divino rivolse uno sguardo implorante all’avatar della Dea, assisa sul suo trono.

«Lady Iselle…» sussurrò, con un angolo della bocca, senza però riuscire a mantenere la voce abbastanza bassa. «Voi non potete… Noi non possiamo… È la Dea che vi sta parlando e che vi guida in questo?»

«La Dea parla al mio cuore», replicò Iselle a voce alta. «Non è forse così anche per voi? Inoltre, ho chiesto alla Dea di mostrarmi la sua approvazione, concedendomi di accendere la fiamma al primo tentativo, e così è stato.» Perfettamente composta, ignorando l’annichilito giudice, rivolse un luminoso sorriso al cittadino che era il prossimo nella fila, mormorando un cortese: «Venite avanti, signore…»

Il giudice fu costretto a spostarsi di lato, anche perché l’uomo alle sue spalle non ebbe esitazione a spingerlo per avanzare, con un sogghigno dipinto sul volto.

Pungolato da uno sguardo di fuoco del suo superiore, un Accolita si affrettò a farsi avanti per invitare il giudice ad appartarsi con lui da qualche parte, in modo da discutere di quel contrattempo, ma il suo accenno a protendere la mano per accettare l’offerta venne stroncato sul nascere da una gelida occhiata della Royesse. Ritraendo le mani dietro la schiena, l’Accolita invitò con un inchino il giudice a seguirlo. Dalla parte opposta del cortile, la Provincara, seduta in disparte, si serrò l’arco del naso tra pollice e indice, passandosi poi una mano sulla bocca e fissando la nipote con aria esasperata. Iselle, dal canto suo, si limitò ad alzare il mento e continuò a elargire la benedizione della Dea in cambio delle offerte che giungevano dai cittadini i quali, d’un tratto, non apparivano più minimamente annoiati. Le elargizioni in natura come polli, uova e un giovane toro vennero raccolte all’esterno del Tempio, mentre chi aveva fatto l’offerta si presentava per ricevere la benedizione e il nuovo fuoco.

Dopo qualche tempo, Lady dy Hueltar e Betriz andarono a raggiungere la Provincara sulla panca messa a sua disposizione, e Cazaril prese posto alle sue spalle insieme col siniscalco, che persisteva nel fissare la figlia con aria accigliata e insospettita Progressivamente, la folla prese ad assottigliarsi, ma la Royesse continuò a svolgere con entusiasmo il proprio sacro dovere fino agli ultimi, più umili postulanti: un raccoglitore di legna da ardere, un carbonaio e un mendicante, il cui unico dono fu cantare un inno. Eppure la giovane benedisse tutti con lo stesso tono pacato che aveva usato per gli uomini più importanti di Valenda.

La tempesta che, a giudicare dall’espressione della Provincara, era imminente non scoppiò se non quando l’intera famiglia fu tornata al castello per i festeggiamenti pomeridiani. Lungo il tragitto, Cazaril si trovò a condurre per la briglia il cavallo della dama, perché il siniscalco stava provvedendo a reggere con mano salda e attenta la cavezza del mulo di Iselle. Anche per quello, una volta al castello, vide morire sul nascere il suo piano di ritirarsi in silenzio, senza dare nell’occhio.

«Castillar, offritemi il braccio», ordinò infatti seccamente la Provincara, non appena i servi l’ebbero aiutata a scendere dalla giumenta, serrandogli il polso con dita tese e tremanti. Poi, a labbra strette, aggiunse: «Iselle, Betriz, dy Ferrej, qui dentro». E, con un cenno secco del capo, indicò le porte di legno della sala degli antenati, che si affacciava sul cortile.

Una volta ultimata la cerimonia, Iselle aveva lasciato al Tempio le vesti della Signora della Primavera, tornando a essere soltanto una giovane donna elegantemente vestita in azzurro e bianco… No, meglio, si disse Cazaril, notando il modo in cui lei aveva alzato di nuovo il mento, era tornata a essere soltanto una Royesse che, sotto un’apparente ansia, rivelava una determinazione spaventosa. Nel tenere aperta la porta per permettere a tutti di entrare, inclusa Lady dy Hueltar, Cazaril rimpianse l’epoca in cui era stato un paggio: allora, la consapevolezza di un pericolo incombente da parte delle alte sfere lo avrebbe indotto ad andarsene il più in fretta possibile; in quel momento, invece, non gli sarebbe stato permesso allontanarsi… E infatti dy Ferrej si arrestò per aspettarlo, obbligandolo in pratica a seguirlo.

La sala era silenziosa e vuota, benché intensamente illuminata dalle candele sull’altare, candele che, quel giorno, sarebbero rimaste accese fino a consumarsi, e sotto il cui chiarore i banchi di legno, consumati da innumerevoli occupanti, apparivano ancora più lucidi del solito.

Avanzando fino al centro della stanza, la Provincara si girò di scatto verso le due ragazze, che, sotto l’esame del suo sguardo severo, si fecero più vicine l’una all’altra. «Allora: chi di voi due ha avuto quell’idea?» chiese.

Iselle fece un passo e abbozzò un accenno di riverenza. «Sono stata io, nonna», rispose, quasi con lo stesso tono secco e limpido che aveva avuto nel Tempio, e aggiunse: «Anche se Betriz ha pensato di chiedere come conferma che riuscissi ad accendere subito la fiamma».

«Sapevi che questo sarebbe successo?» esclamò dy Ferrej, girandosi di scatto verso la figlia. «E non me lo hai detto?»

Betriz reagì con una riverenza identica a quella di Iselle, eseguita in modo altrettanto rigido. «Mi era sembrato di capire, padre, che dovevo fungere da dama di compagnia per la Royesse Iselle, e non da spia. Se poi la mia fedeltà dovesse andare a qualcun altro, e non a Iselle, be’, nessuno me lo ha comunicato. Proteggi il suo onore con la tua vita: ecco ciò che tu mi hai detto.» Era uno splendido discorso, che tuttavia perse almeno un po’ di fierezza quando la giovane, in tono più cauto, aggiunse: «Comunque non potevo essere certa che sarebbe successo davvero finché lei non ha acceso la prima fiamma».

Rinunciando a discutere con quella giovane sofista, dy Ferrej abbozzò un gesto impotente in direzione della Provincara.

«Tu sei più matura, Betriz», affermò quest’ultima. «Pensavamo che la tua influenza servisse a calmarla, che tu avresti insegnato a Iselle quali siano i doveri di una fanciulla salda nella fede… come quando Beetim, il cacciatore, abbina i bracchi più giovani a quelli più maturi.» Fece una smorfia. «È un peccato che non abbia incaricato lui di educarvi, invece di affidarvi a quelle inutili governanti.»

«Sì, mia signora», ribatté Betriz, con un’altra riverenza.

La Provincara le scoccò un’occhiata in tralice, sospettando che si stesse prendendo gioco di lei, e Cazaril dovette mordersi un labbro per non scoppiare a ridere.

«I Devoti non mi hanno mai insegnato che, tra i primi doveri di una fanciulla salda nella fede, ci sono la tolleranza verso le ingiustizie e la determinazione a ignorare la tragica e inutile dannazione di due uomini», ribatté Iselle, traendo un profondo sospiro.

«Certo che no», scattò la Provincara, attenuando però il tono aspro e cercando di mostrarsi conciliante. «Ma fare giustizia non è un tuo compito, tesoro.»

«Gli uomini cui spetta tale incarico paiono disinteressarsene. Io non sono una contadina, a Chalion ho grandissimi privilegi e doveri altrettanto grandi… Il Divino e la nostra buona Devota me Io hanno detto entrambi!» esclamò Iselle, scoccando un’occhiata di sfida a Lady dy Hueltar.

«Io stavo parlando della necessità di avere costanza nello studio, Iselle», protestò la dama di compagnia.

«Quando i Devoti parlavano dei doveri morali, Iselle, non intendevano… non volevano…» intervenne dy Ferrej.

«Non volevano che li prendessi sul serio?» completò la Royesse, con falsa dolcezza.

Dy Ferrej farfugliò qualcosa e Cazaril non poté fare a meno di simpatizzare con lui. Quella giovane dama innocente, ribelle e ignara dei pericoli che correva — proprio come il cucciolo cui la Provincara l’aveva paragonata — era convinta di avere un vantaggio morale. Cazaril si sentì profondamente grato del fatto di non avere voce in capitolo in quella faccenda.

«Per adesso, potete andare entrambe nelle vostre camere, e rimanerci», dichiarò la Provincara, furente. «Imporrei a entrambe di leggere le scritture per penitenza, ma… Deciderò poi se vi sarà permesso di partecipare alla festa. Mia buona Devota, per favore, seguile e accertati che arrivino a destinazione. Va’!» ordinò, con un gesto imperioso del braccio. Cazaril fece per accodarsi alle tre donne, ma la Provincara, puntando un dito a terra, disse: «Cazaril, dy Ferrej, trattenetevi ancora un momento».

Lady Betriz si scoccò alle spalle un’occhiata piena di curiosità, mentre Iselle uscì a passo di marcia, a testa alta e senza guardarsi indietro.

«Bene», commentò dy Ferrej, dopo un momento. «Speravamo che diventassero amiche.»

Ormai le due giovani donne si erano allontanate, quindi la Provincara si concesse un sorriso e mormorò: «Purtroppo sì».

«Quanti anni ha Lady Betriz?» chiese Cazaril con curiosità, fissando la porta chiusa.

«Diciannove», rispose il siniscalco con un sospiro.

Cazaril rifletté che, rispetto a lei, non era così vecchio come aveva supposto, benché le sue esperienze lo facessero sembrare tale.

«Pensavo davvero che Betriz avrebbe esercitato un’influenza positiva… Invece sembra accaduto il contrario», aggiunse dy Ferrej.

«Stai accusando mia nipote di aver corrotto tua figlia?» chiese bruscamente la Provincara.

«Direi piuttosto che è diventata per lei una fonte d’ispirazione», precisò dy Ferrej, con aria cupa, scrollando le spalle. «È una cosa che mi spaventa tanto che mi chiedo… se non dovremmo dividerle.»

«Le proteste non avrebbero fine», replicò la Provincara, in tono stanco, sedendo su una panca e indicando ai due uomini di fare altrettanto. «Non voglio torcermi il collo», spiegò poi, a mo’ di spiegazione.

Serrando le mani tra le ginocchia, Cazaril attese che la dama si decidesse a dirgli cosa voleva da lui.

«Voi osservate la faccenda con occhi nuovi», disse infatti la Provincara, dopo averlo scrutato con aria pensosa per un lungo momento. «Avete qualcosa da suggerire?»

«Sono abituato ad addestrare giovani soldati, mia signora, e non ho mai avuto a che fare con giovani donne… Esula del tutto dalla mia esperienza», replicò Cazaril, inarcando le sopracciglia. «D’altro canto, mi sembra un po’ tardi per insegnare a Iselle a essere una vigliacca… Piuttosto si può farle notare che le prove su cui si è basata erano piuttosto labili», proseguì, incerto. «Come poteva essere certa che il giudice fosse effettivamente colpevole? Ha prestato ascolto a dicerie, pettegolezzi… prove superficiali, che possono essere fasulle.» Avvilito, ripensò alla prontezza con cui l’uomo dei bagni pubblici era saltato a conclusioni errate, semplicemente guardando la sua schiena. «Questo non ci potrà aiutare per l’incidente di oggi, ma potrebbe indurre Iselle a essere più cauta, in futuro. Inoltre forse sarebbe bene far più attenzione al genere di pettegolezzi di cui si discute in sua presenza.»

Dy Ferrej sussultò, punto nel vivo.

«In presenza di tutte e due», precisò la Provincara. «Quattro orecchie, una sola mente… e una sola cospirazione.» Contrasse le labbra in una smorfia pensosa e, fissando il Castillar con occhi intenti, proseguì: «Cazaril… voi parlate e scrivete il darthacano, vero?»

«Sì, mia signora…» rispose Cazaril, sconcertato da quell’improvviso cambio di argomento.

«E il roknari?»

«Ecco… il mio roknari colto è un po’ arrugginito, attualmente, ma vi garantisco che parlo il roknari popolare in maniera molto scorrevole.»

«E la geografia? Conoscete la geografia di Chalion, di Ibra e dei principati dei roknari?»

«Per i cinque Dei, certo che la conosco, mia signora. Le terre che non ho percorso a cavallo le ho attraversate a piedi, oppure sono stato trascinato su di esse, per cui la loro geografia è incisa sulla mia pelle. Quanto all’Arcipelago, ne ho girato almeno la metà, sulle galee.»

«E sapete scrivere, far di conto, tenere libri contabili, stilare lettere, rapporti, trattati, ordini logistici…»

«Può darsi che in questo momento le mie mani tremino un poco, tuttavia ho fatto tutte queste cose», ammise Cazaril, con aria sempre più guardinga. Quale poteva essere il motivo ultimo di un simile interrogatorio?

«Sì, certo!» esclamò la Provincara, battendo le mani con entusiasmo, un suono secco che strappò un sussulto a Cazaril. «Sono stati senza dubbio gli Dei a mandarvi da me! Che i demoni del Bastardo mi portino via se non sarò abbastanza furba da approfittarne nel modo migliore.»

Sempre più sconcertato, lui le rivolse un sorriso interrogativo.

«Ebbene… Avete detto di volere un incarico e adesso ce l’avete: segretario e tutore della Royesse Iselle», esclamò la dama, trionfante.

A bocca aperta per lo stupore, Cazaril riuscì soltanto a fissarla con aria stupida. «Come?» riuscì infine ad articolare.

«Teidez ha un suo segretario, che gli tiene in ordine i registri, gli scrive le lettere… È tempo che anche Iselle abbia un tutore, qualcuno che faccia da baluardo tra il mondo delle donne e quello più grande in cui ben presto dovrà vivere. Nessuna di quelle stupide governanti è mai riuscita a gestirla: le serve l’autorità di un uomo, e voi avete il rango necessario, l’esperienza che serve…» La Provincara si abbandonò a un sorriso pieno di entusiasmo. «Che ne pensate, mio signore dy Cazaril?»

«Credo…» Cazaril deglutì a fatica. «Be’, credo che se adesso voi mi prestaste un rasoio per tagliarmi la gola, ciò risparmierebbe molta fatica a tutti. Vi scongiuro, Vostra Grazia!»

«Bene, Cazaril, bene», sbuffò la Provincara. «Mi piace un uomo che non sottovaluta le situazioni.»

Dy Ferrej, che in un primo momento si era mostrato sorpreso e allarmato, cominciò a studiare Cazaril con rinnovato interesse.

«Scommetto che voi riuscirete a farla concentrare sulle declinazioni del darthacano. Dopotutto è un paese in cui siete stato, cosa che non si può dire di nessuna di queste stupide donne», insistette la Provincara, con crescente entusiasmo. «E conoscete anche il roknari, sebbene io spero che Iselle non abbia mai bisogno di parlarlo. Potrete leggerle la poesia brajarana… Vi piaceva, no? E le darete lezioni di portamento, dato che avete prestato servizio alla corte del Roya. Suvvia, Cazaril, non mi guardate come un vitello smarrito: dovrebbe essere un lavoro facile per voi, considerato che siete convalescente… Ah, non negate, solo gli Dei sanno quanto dovete essere stato malato», aggiunse, ignorando il piccolo cenno di diniego dell’uomo. «Dovrete rispondere a un paio di lettere alla settimana, e, dal momento che in passato avete fatto il corriere, quando uscirete a cavallo con le ragazze non dovrò poi sentire le lamentele e le proteste di quelle donne con la pelle tenera come pasta di pane. Quanto infine a tenere i registri relativi al contenuto delle camere… dopo aver gestito una fortezza, per voi dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Che ne dite, Cazaril?»

«Non potreste invece affidarmi una fortezza sotto assedio?» replicò il Castillar, affascinato e nel contempo sgomento di fronte alla prospettiva che gli si offriva.

Ogni traccia di allegria svanì dal volto della Provincara, che si protese in avanti e gli batté un colpetto sul ginocchio. «Iselle lo sarà ben presto…» sussurrò. «Mi avete chiesto se potevate fare qualcosa per alleviare il mio fardello. Per la maggior parte dei miei problemi, la risposta è no: non potete ridarmi la giovinezza né far sì che le cose… che molte cose migliorino.» Cazaril si ritrovò a chiedersi quanto quella dama così energica fosse oppressa dallo strano, cagionevole stato di salute della figlia. «Però non potreste concedermi almeno questa piccola cosa?»

Lo stava implorando… La Provincara stava rivolgendo una supplica a lui. Era fondamentalmente sbagliato. «Naturalmente, mia signora, sono ai vostri ordini», rispose Cazaril, suo malgrado. «È solo che… siete sicura di quello che state facendo?»

«Voi non siete… Tu qui non sei uno straniero, Cazaril, e io ho un disperato bisogno di un uomo di cui potermi fidare.»

Sentendo il cuore — o forse il cervello — che gli si scioglieva di fronte a quelle parole così accorate, Cazaril s’inchinò. «Allora sono ai vostri ordini», affermò.

«A quelli di Iselle», ribatté la Provincara.

Puntellando i gomiti sulle ginocchia, Cazaril sollevò lo sguardo, spostandolo dalla Provincara al pensoso, accigliato dy Ferrej, e riportandolo infine sul volto dell’anziana dama. «Io… credo di capire», annuì.

«Ne sono convinta, Cazaril, ed è per questo che voglio avere te al suo fianco.»

4

Fu così che, il mattino successivo, Cazaril venne condotto, dalla Provincara in persona, nello studiolo delle due giovani dame. La stanzetta soleggiata si trovava sul lato orientale della fortezza, all’ultimo piano della struttura, che era occupato dalla Royesse Iselle, da Lady Betriz, dalla loro dama di compagnia e da una cameriera. Anche il Royse Teidez aveva a disposizione alcune camere per il suo piccolo seguito, ma esse si trovavano nel nuovo edificio, dalla parte opposta del cortile, e Cazaril aveva il sospetto che fossero più vaste e dotate di focolari migliori. Lo studiolo di Iselle era arredato con un paio di tavolini, alcune sedie, una libreria mezza vuota e due cassapanche. La compresenza di Cazaril, che si sentiva goffo e troppo alto sotto il basso tetto di travi scoperte, e delle due giovani donne faceva sì che la camera sembrasse davvero piena. Perciò la dama di compagnia, sempre presente, fu costretta a spostarsi col suo lavoro di cucito nella stanza accanto, anche se le porte vennero lasciate aperte per salvaguardare le apparenze.

Cazaril aveva quasi l’impressione di avere davanti a sé un’intera classe, e non una singola allieva: una dama del rango di Iselle, infatti, non veniva quasi mai lasciata da sola, e di certo non in compagnia di un uomo, anche se prematuramente invecchiato, convalescente e al servizio della sua famiglia. Pur non sapendo cosa pensassero le due dame di quella soluzione, Cazaril si sentiva sollevato. Mai, nella sua vita, aveva avuto l’impressione di essere così repellente, goffo, degradato e zotico… Eppure quell’allegra atmosfera femminile era lontanissima da quella che si respirava su una panca per rematori di una galea roknari e, nel rilevare quel contrasto, mentre si abbassava per non battere la testa contro lo stipite nell’entrare nella stanza, Cazaril sentì la gola che gli si contraeva per un’ondata quasi incontrollabile di gioia.

La Provincara spiegò il motivo della sua presenza con poche parole decise, qualificandolo come il segretario-tutore di Iselle. «Adesso ne hai uno anche tu, come tuo fratello», aggiunse.

Dopo essere rimasta interdetta di fronte a quel dono, chiaramente inatteso, Iselle fu pronta ad accettarlo senza la minima rimostranza; anzi, a giudicare dalla sua espressione calcolatrice, la novità di essere istruita da un uomo e l’aumento di prestigio che ciò comportava parvero soddisfarla alquanto. Quanto a Lady Betriz, non si mostrò guardinga né ostile e sembrò accettare la novità con interesse, cosa che fece non poco piacere a Cazaril.

Abbigliato con la veste marrone tolta al mercante, fermata in vita dalla cintura tempestata in argento datagli dal siniscalco, Cazaril era certo di avere l’aspetto dello studioso, almeno quanto bastava per trarre in inganno le due ragazze. Inoltre, prima di presentarsi, si era munito di tutti i libri in darthacano che aveva trovato con una rapida ricerca nella biblioteca del defunto Provincar: una mezza dozzina di volumi in tutto. Lasciò cadere quei libri su uno dei tavolini con un tonfo sonoro e rivolse alle allieve un sorriso volutamente sinistro. Se quell’attività somigliava in qualche misura all’addestramento delle giovani reclute, o dei puledri, allora la chiave del successo consisteva nel prendere l’iniziativa fin dal primo momento e conservarla. Poteva anche essere un ignorante, ma doveva comportarsi in modo autoritario.

Allora la Provincara se ne andò con passo deciso. Per dimostrare di avere un piano, mentre ancora ne stava elaborando uno, Cazaril pensò di verificare la padronanza che la Royesse aveva del darthacano. Le fece leggere una pagina a caso di uno dei volumi, che per pura fortuna risultò trattare un argomento che lui conosceva molto bene: come minare e indebolire le fortificazioni nel corso di un assedio. Con vari aiuti e numerosi incitamenti, Iselle lesse faticosamente tre interi paragrafi. Poi Cazaril le rivolse qualche domanda, chiedendole di spiegare il contenuto di quanto aveva appena letto, ma lei incespicò nelle parole, in palese difficoltà.

«Il vostro accento è orribile», dichiarò infine il Castillar. «Un darthacano lo troverebbe quasi incomprensibile.»

«La mia governante ha sempre affermato che il mio accento era eccellente», ribatté Iselle, sollevando la testa di scatto e fissandolo con occhi di fuoco. «Anzi, secondo lei, ho un’intonazione molto melodica.»

«Certo, parlate come una pescivendola dell’Ibra meridionale che sta declamando la bontà delle sue merci… Anche loro sono molto melodiche, però qualsiasi nobile darthacano vi riderebbe in faccia, perché da quelle parti sono estremamente suscettibili e arroganti, per quanto concerne il loro orribile linguaggio», ribatté Cazaril, memore di un’occasione in cui si era venuto a trovare in una situazione del genere. «La vostra governante vi ha adulata, Royesse.»

«Devo dedurre che non vi considerate un adulatore, Castillar?» chiese Iselle, accigliandosi.

Nel suo tono e nelle sue parole erano presenti sfumature e sottintesi che Cazaril non si era aspettato. Dal suo posto a sedere, su una cassapanca accostata al lato opposto del tavolino, fece un inchino ironico, ma una delle aderenze che gli tormentavano la schiena lo costrinse bruscamente a interrompere il gesto. «Confido di non essere un vero e proprio zoticone», replicò allora. «Tuttavia se desiderate un uomo che sciorini convenienti bugie in merito ai vostri talenti, stroncando così sul nascere qualsiasi vostra speranza di eccellere, sono certo che non faticherete a trovarne. Non tutte le prigioni sono fatte di sbarre di ferro, Royesse… Alcune hanno la forma di letti di piume.»

Iselle dilatò le narici e serrò le labbra. Troppo tardi, a Cazaril venne in mente che quello forse era l’approccio sbagliato: dopotutto, Iselle era giovane, poco più che una ragazzina. Avrebbe dovuto addolcire i suoi modi? Se Iselle si fosse lamentata di lui con la Provincara, inoltre, lui rischiava di perdere…

«Continuiamo», disse in quel momento Iselle, in tono gelido, voltando la pagina.

Aveva un’espressione assolutamente identica a quella — mista di rabbia e frustrazione — che Cazaril aveva scorto in alcuni giovani che, dopo essere caduti, si erano rialzati, sputando la polvere entrata loro in bocca, ed erano maturati fino a diventare i suoi migliori luogotenenti. Forse quel compito non era difficile come aveva temuto… Represse un sorriso e assunse un’aria grave e accigliata, rivolgendo alla ragazza un imperioso cenno di assenso. «Proseguite pure», replicò.

Un’intera ora trascorse in fretta, dedicata a quell’attività facile e piacevole… Piacevole per lui, almeno. Quando si accorse che la Royesse stava cominciando a massaggiarsi le tempie, e che la sua espressione accigliata non aveva più nulla a che vedere coi suoi sentimenti offesi, Cazaril le tolse il libro di mano.

Lady Betriz aveva accompagnato Iselle nella lettura, muovendo silenziosamente le labbra, e Cazaril le fece ripetere l’esercizio; avendo a disposizione l’esempio della Royesse, Betriz fu più rapida nel leggere il brano, ma lo fece con lo stesso accento dell’Ibra meridionale esibito da Iselle, probabile retaggio della loro precedente istitutrice. Iselle ascoltò con attenzione tutte le correzioni apportate da Cazaril.

Finita la lettura, Cazaril ritenne che si fossero ampiamente guadagnati tutti e tre il pasto di mezzogiorno, ma gli rimaneva ancora da assolvere a uno sgradevole compito, esplicitamente impostogli dalla Provincara. Mentre le ragazze accennavano ad alzarsi, si appoggiò allo schienale della sedia e si schiarì la gola. «Il vostro gesto di ieri, al Tempio, è stato davvero spettacolare, Royesse Iselle», disse.

«Vi ringrazio, Castillar», replicò la Royesse, incurvando l’ampia bocca in un sorriso, che si estese agli occhi dalle palpebre stranamente pesanti.

«Un insulto pubblico, rivolto a un uomo costretto a subirlo senza poter ribattere», proseguì lui, sorridendo a sua volta, però in maniera tirata. «Se non altro, i perdigiorno che hanno assistito alla scena si sono enormemente divertiti, almeno a giudicare dalle loro risate.»

«A Chalion ci sono molti mali cui non posso porre rimedio», obiettò Iselle, mostrando un certo disagio. «Ciò che ho fatto è stato ben poco.»

«Se si è trattato di un atto a fin di bene, vi siete comportata nel modo giusto», ammise Cazaril, con un cenno ingannevolmente cordiale. «Ditemi, Royesse, quali passi avete mosso, prima di agire, per accertarvi della colpevolezza di quell’uomo?»

Iselle, che stava sollevando il mento con aria di sfida, si bloccò a metà del gesto. «Ser dy Ferrej ha detto che era colpevole, e so che lui è una persona onesta.»

«Rammento con precisione ciò che Ser dy Ferrej ha affermato, dato che è estremamente attento nella scelta delle parole… E lui ha sostenuto di aver sentito dire che il giudice si era lasciato corrompere dallo spadaccino, e non di avere conoscenza diretta della cosa. Avete forse parlato con lui dopo cena per capire come fosse giunto a formulare quella convinzione?»

«No… Se avessi rivelato ciò che avevo intenzione di fare, me lo avrebbero proibito.»

«Però lo avete confidato a Lady Betriz», obiettò Cazaril, indicando la donna bruna.

«È stato per questo che le ho suggerito di chiedere alla Dea di elargirle la fiamma al primo tentativo», intervenne Betriz, sentendosi chiamata in causa.

«La fiamma al primo tentativo…» ripeté Cazaril, scrollando le spalle. «Lady Iselle, la vostra mano è forte, giovane e salda. Siete certa che accendere subito il fuoco non sia stato soltanto merito vostro?»

«I cittadini hanno applaudito…» mormorò Iselle, accigliandosi.

«Certamente», la interruppe Cazaril. «In media, la metà di quanti si presentano davanti a un giudice se ne va inevitabilmente delusa e furente. Questo però non significa per forza che abbia subito un torto.»

Quella particolare affermazione parve infine colpire nel segno, almeno a giudicare dall’improvviso cambiamento dell’espressione di Iselle, che da arrogante si fece sconvolta, cosa tutt’altro che piacevole a vedersi.

«Ma… ma…» balbettò la giovane.

«Non sto dicendo che abbiate avuto torto, Royesse», sospirò Cazaril. «Intendo soltanto farvi notare che vi siete mossa alla cieca… Se non siete andata a sbattere contro un albero, è stato solo per misericordia degli Dei e non per attenzione da parte vostra.»

«Oh.»

«È possibile che voi abbiate calunniato un uomo onesto, oppure che il vostro sia stato un atto di giustizia… Io non lo so, ma il punto è che non lo sapete neppure voi.»

Dalle labbra di Iselle uscì un altro «Oh», stavolta tanto soffocato da essere a stento udibile.

Cazaril non riuscì a trattenersi e, dando voce a quel tipo di ragionamento pratico e spietato che lo aveva aiutato a sopravvivere in tante situazioni difficili, aggiunse: «Indipendentemente dal fatto che la vostra azione sia stata giusta o sbagliata, rimane il fatto che vi siete creata un nemico, lasciandovelo poi alle spalle, vivo. Un atto di grande carità, ma un errore dal punto di vista tattico…» No, non era proprio il genere di commento da fare davanti a una giovane dama, si rese conto subito dopo. Si trattenne dal premersi le mani sulla bocca, un gesto che non sarebbe servito a consolidare la sua figura di tutore severo e lucido.

Lady Iselle e Lady Betriz inarcarono di scatto le sopracciglia, mantenendo per qualche momento un’espressione sorpresa.

«Vi ringrazio per i vostri buoni consigli, Castillar», disse Iselle dopo un lungo, pensoso silenzio.

La risposta di Cazaril fu un soddisfatto cenno di approvazione: se era riuscito a farle capire quella difficile lezione, allora era partito col piede giusto. E adesso, agli Dei piacendo, avrebbe potuto approfittare della generosa tavola imbandita dalla Provincara…

Iselle, però, si rimise a sedere e incrociò le mani in grembo. «Voi dovrete essere anche il mio segretario, oltre che il mio tutore, giusto?» domandò.

«Sì, mia signora», assentì Cazaril, accasciandosi a sua volta sulla sedia. «Avete bisogno di assistenza per scrivere una lettera?» aggiunse, trattenendosi a stento dal suggerire di farlo dopo aver mangiato.

«Ho bisogno della vostra assistenza, certo, ma non per una lettera. Ser dy Ferrej ha detto che un tempo siete stato un corriere. È così?»

«In passato, ho cavalcato come corriere per conto del Provincar della Guarida, mia signora, quand’ero più giovane.»

«Un corriere è una spia», continuò Iselle, con un lampo calcolatore nello sguardo.

«Non necessariamente, anche se a volte era difficile… convincere la gente del contrario. Noi eravamo anzitutto fidati messaggeri, anche se ci si aspettava che tenessimo occhi e orecchie aperti per riferire quello che avevamo notato.»

«Benissimo», dichiarò Iselle, sollevando il mento di scatto. «In tal caso, il primo incarico che intendo assegnarvi, come mio segretario, è proprio quello di tenere occhi e orecchie aperti per scoprire se ho commesso un errore oppure no. È evidente che io non posso scendere in città o fare domande in giro, perché sono costretta a rimanere in cima a questa collina, nel mio… letto di piume.» Fece una smorfia. «Però voi potete indagare per mio conto», concluse, fissandolo con occhi pieni di fiducia.

Cazaril ne fu quasi sconvolto. «Immediatamente?» balbettò, avvertendo un nodo allo stomaco che non aveva nulla a che fare con la fame. La sua lezione era stata assimilata fin troppo bene.

«Con discrezione, e in base alle opportunità che si presenteranno», replicò Iselle, un po’ a disagio.

«Vedrò cosa fare per accontentarvi, mia signora», replicò Cazaril, deglutendo a fatica.

Mentre scendeva le scale per raggiungere la propria camera, Cazaril si sentì assalire dai ricordi dell’epoca in cui era stato un paggio. A quel tempo, si considerava uno spadaccino soltanto perché era un po’ più abile della mezza dozzina di altri giovani nobili che condividevano con lui addestramento e doveri nella casa del Provincar. Un giorno, era arrivato al castello un nuovo paggio, un ragazzo tozzo e cupo; nel corso della successiva sessione di addestramento, il maestro d’armi del Provincar aveva invitato Cazaril a misurarsi con lui. Orgoglioso di un paio di mosse che aveva elaborato per conto suo — incluso un complicato passaggio che, se eseguito con una spada vera, avrebbe staccato le orecchie alla maggior parte dei suoi compagni -, Cazaril aveva sperimentato quella particolare manovra sul nuovo compagno. Tuttavia, una volta conclusa la sua mossa, ritrovandosi con la spada di piatto contro la testa del nuovo paggio, aveva scoperto che la spada di quest’ultimo era premuta contro l’mbottitura che gli proteggeva il ventre con tanta forza da essere quasi piegata in due.

Cazaril aveva poi saputo che quel paggio era diventato il maestro d’armi del Roya di Brajar. Lui, invece, era rimasto uno spadaccino mediocre: i suoi interessi erano troppo numerosi e diversificati per permettergli di allenarsi con la dovuta costanza. Però non aveva mai dimenticato quel momento, la sorpresa nata dalla consapevolezza che l’avversario lo aveva «ucciso»… E la prima lezione alla delicata Iselle aveva fatto riaffiorare quel particolare ricordo. Sconcertato, cercò di capirne il motivo: forse era a causa dello stesso lampo apparso in occhi così diversi… E poi, come si chiamava quel paggio?…

Al suo ingresso in camera, Cazaril trovò sul letto un altro paio di tuniche e di calzoni, con ogni probabilità appartenuti al siniscalco al tempo in cui era più giovane e magro. Mentre li riponeva nella cassapanca ai piedi del letto, si ricordò d’un tratto del libretto del mercante defunto, ancora riposto nella sopravveste nera, e lo prese, deciso a portarlo al Tempio quel pomeriggio stesso. Subito dopo, però, tornò a posarlo, pensando che forse, all’interno di quelle pagine cifrate, si annidava parte di quella certezza morale che la Royesse gli aveva chiesto di ricercare per suo conto, qualche prova più chiara a favore o contro il giudice e magari anche una guida ai segreti della situazione di Valenda. Prima di consegnarlo, avrebbe provveduto a esaminarlo personalmente, decise.

Dopo pranzo, Cazaril si concesse uno splendido sonnellino, e si stava appena ridestando con tutta calma e con un meraviglioso senso di benessere, quando dy Ferrej bussò alla sua porta. Doveva consegnargli i registri e i libri contabili relativi alle camere della Royesse. Betriz arrivò di lì a poco, con una cassetta piena di lettere da sistemare. Cazaril trascorse quindi il resto del pomeriggio cercando di mettere ordine in quel materiale e di familiarizzarsi col suo contenuto.

I libri contabili erano abbastanza semplici da gestire: vi era segnato l’acquisto di un oggetto o di un gioiello di scarso valore, i regali ricevuti ed elargiti, i gioielli di effettivo pregio, ereditati o avuti in dono, i capi di vestiario. Nei libri erano annotati anche il cavallo da sella di Iselle, il suo mulo, Fiocco di Neve, e un assortimento di altri oggetti. Certe voci, come per esempio la biancheria o il mobilio, non vi figuravano, probabilmente perché inclusi nei registri della Provincara. In futuro, però, lui si sarebbe dovuto occupare anche di quelli. Una dama del rango di Iselle, infatti, aveva di solito una dote che comprendeva interi carri — se non addirittura chiatte — di oggetti di pregio; senza dubbio Iselle avrebbe ben presto cominciato ad accumulare la sua dote, in previsione del futuro viaggio fino alla dimora del marito che le sarebbe stato assegnato. Cazaril si chiese se avrebbe dovuto includere anche se stesso nell’elenco, come prima voce di quell’inventario di nozze, e s’immaginò nell’atto di scrivere: Segretario-tutore, un pezzo, dono della nonna. Età: trentacinque anni. Gravemente danneggiato durante la spedizione. Valore…?

Di norma, la processione nuziale era un viaggio di sola andata. Invece la madre di Iselle, la Royina Vedova, era tornata alla dimora d’origine… distrutta. Cazaril cercò di scacciare quell’immagine. Il pensiero di Lady Ista continuava a turbarlo. Si diceva che la follia scorresse nel sangue di alcune famiglie nobili… anche se non in quella di Cazaril, colpita piuttosto dalla sfortuna nelle alleanze politiche e da una generale imprudenza finanziaria. Era vero che entrambe le cose alla lunga si erano rivelate altrettanto devastanti. Era possibile che Iselle corresse il rischio… Si augurò che così non fosse.

La corrispondenza della Royesse era scarsa, tuttavia non priva d’interesse. C’erano alcune lettere brevi ma gentili, scritte dalla nonna e risalenti a prima che la Royina Vedova lasciasse la corte per tornare a vivere coi figli nella casa paterna. Erano missive piene di consigli generici: Sii buona, obbedisci a tua madre, recita le preghiere, occupati del tuo fratellino… Seguivano alcuni messaggi di zii o di zie, gli altri figli della Provincara. Iselle non aveva altri parenti dal lato del padre, il defunto Roya, perché Ias era l’unico figlio superstite dello sventurato genitore. C’era poi una serie di lettere di buon compleanno e di auguri in occasione delle ricorrenze sacre, inviati dal fratellastro, l’attuale Roya, Orico.

Compiaciuto, Cazaril notò che quelle lettere erano state scritte dal Roya in persona; era infatti improbabile che Orico avesse alle sue dipendenze uno scrivano con una calligrafia così irregolare e stentata. Si trattava prevalentemente di lettere molto brevi, che rivelavano il tentativo di un adulto di essere gentile nei confronti di una bambina. Quando descrivevano il serraglio, però, diventavano fluide e spontanee per almeno un paio di paragrafi, forse perché Orico adorava quel luogo o forse perché era convinto che esso fosse un argomento interessante tanto per lui quanto per Iselle.

Quel piacevole lavoro venne interrotto nel tardo pomeriggio allorché un paggio si presentò a Cazaril, richiedendo la sua presenza per un’uscita a cavallo con la Royesse e con Lady Betriz. Affibbiatasi rapidamente al fianco la spada avuta in prestito, Cazaril scese nel cortile, dove trovò i cavalli già sellati e in attesa. Il paggio lo guardò con aria sorpresa e crìtica quando lui, non essendo più salito in sella per oltre tre anni, chiese l’ausilio dei gradini per sistemarsi con cautela in groppa alla sua cavalcatura. Gli avevano dato un animale tranquillo e docile, lo stesso castrato baio che lui aveva visto cavalcare alla dama di compagnia della Royesse, il pomeriggio del suo arrivo al castello; mentre si preparavano a partire, la dama in questione si affacciò a una finestra, salutandoli con un fazzolettino di lino, palesemente soddisfatta di rimanere a casa. La cavalcata si rivelò più tranquilla di quanto Cazaril avesse anticipato: una semplice passeggiata sino al fiume e ritorno. Inoltre, giacché lui aveva precisato che la conversazione si sarebbe svolta esclusivamente in darthacano, il silenzio fu quasi assoluto, cosa che la rese ancor più rilassante.

Al rientro, andarono a cena, poi Cazaril poté ritirarsi nella propria camera. Provò gli abiti nuovi, li ripiegò nella cassapanca, quindi si mise a decifrare le prime pagine del libro di quel povero, stolto mercante di lana. Ben presto, però, le sue palpebre si fecero pesanti, e lui dormì come un sasso fino al mattino successivo.

Le cose continuarono com’erano cominciate. Le mattine vennero dedicate alle lezioni: darthacano, roknari, geometria, aritmetica e geografia. Per quest’ultima materia, Cazaril fece ricorso ad alcune eccellenti mappe in possesso del tutore di Teidez e intrattenne la Royesse con una serie di resoconti, accuratamente censurati, relativi ad alcuni dei suoi viaggi più interessanti a Chalion, a Ibra, a Brajar, nella grande Darthaca o nei cinque principati roknari della costa settentrionale, perennemente in lotta fra loro.

La sua descrizione dell’Arcipelago Roknari, che era quella di uno schiavo, richiese da parte sua una censura ancora maggiore. Nel trattare quell’argomento, Cazaril scoprì che la noia dimostrata da Iselle e da Betriz per l’apprendimento della lingua roknari parlata dalle caste elevate si poteva curare con lo stesso metodo da lui adottato con un paio di paggi della casa del Provincar della Guarida, cui era stato un tempo incaricato d’insegnare quella lingua. Il sistema era molto semplice: consisteva nell’insegnare alle due dame una parola di roknari volgare (anche se non eccessivamente volgare) per ogni venti vocaboli di roknari di corte che potevano dimostrare di aver memorizzato. Naturalmente non avrebbero mai avuto bisogno di usare quei termini rozzi, ma era comunque utile che fossero in grado di comprenderli, se li avessero sentiti. E riuscivano a farle ridacchiare entrambe in maniera adorabile.

Cazaril affrontò anche con una certa trepidazione il primo incarico che gli era stato assegnato dalla Royesse: indagare sulla probità del Justiciar provinciale. Domande indirette rivolte alla Provincara e a dy Ferrej gli fornirono le informazioni di base, senza però dargli nessuna certezza in un senso o nell’altro. Peraltro lui non ebbe mai modo d’incontrare il Justiciar nella sua veste ufficiale, ma soltanto in occasioni pubbliche. Alcune escursioni in città, mirate a rintracciare qualcuno che potesse parlargli con franchezza — perché aveva conosciuto il Cazaril di diciassette anni prima — lo lasciarono alquanto avvilito: l’unico a riconoscerlo all’istante fu un anziano fornaio, che aveva fatto per molto tempo affari d’oro vendendo dolci durante le parate dei paggi del castello. Un individuo d’indole pacifica, poco incline a invischiarsi in qualche causa legale.

Cazaril cominciò anche a lavorare alla decifrazione del libretto di annotazioni del mercante morto, una pagina dopo l’altra, con la massima rapidità concessagli dai suoi altri doveri. Con suo notevole sollievo, dato che si trattava di esperimenti decisamente disgustosi, scoprì che i primi tentativi del mercante per evocare i demoni del Bastardo erano risultati del tutto inefficaci. Il nome dello spadaccino compariva soltanto accompagnato da aggettivi infuocati, oppure era addirittura sostituito da essi, mentre il nome del giudice non era mai menzionato. Tuttavia, prima che lui riuscisse a decifrare anche solo per metà l’enigma di quel libretto, il problema del giudice ricadde su spalle certamente più esperte delle sue.

Dalla città di Taryoon, dove il figlio della Provincara aveva spostato la propria capitale, una volta ereditato il titolo paterno, giunse infatti un Funzionario Inquirente inviato dalla corte del Provincar della Baocia. Con un rapido calcolo mentale, Cazaril valutò che, tra la festa della Figlia e quell’arrivo inatteso, erano trascorsi esattamente i giorni necessari perché un messaggio della Provincara a suo figlio venisse scritto, inviato e letto, perché gli ordini venissero trasmessi alla Cancelleria di Giustizia della Baocia e perché l’Inquirente si mettesse in viaggio, segno evidente che la Provincara aveva fatto leva sui propri privilegi. Cazaril non sapeva fino a che punto la dama s’intendesse di questioni legali, ma l’idea che la nipote si fosse lasciata alle spalle un nemico libero di far danno aveva di certo toccato in lei un punto sensibile. Almeno così lui interpretò quel fatto.

Il giorno successivo all’arrivo dell’Inquirente, si scoprì che il Giudice Vrese era partito all’improvviso nel corso della notte, con due servitori e pochi bagagli preparati in tutta fretta, lasciandosi alle spalle una casa in subbuglio e un focolare pieno delle ceneri di documenti bruciati.

Cazaril cercò d’indurre Iselle a non considerare quell’evento come una prova della colpevolezza del giudice, ma sapeva che si trattava di una cautela esagerata persino per un uomo come lui, sempre prudentissimo nei giudizi. D’altra parte, l’unica spiegazione alternativa — che Iselle fosse stata davvero toccata dalla Dea, quel giorno — lo turbava troppo perché potesse prenderla in considerazione. Gli Dei, almeno così sostenevano gli eruditi teologi della Santa Famiglia, operavano in maniera segreta, sottile e, soprattutto, parsimoniosa, tramite il mondo e non in esso. Anche per i luminosi, eccezionali miracoli di risanamento — ma, se per questo, anche per gli oscuri miracoli connessi a disastri o decessi — era necessario che la libera volontà degli uomini aprisse un canale, in modo da permettere al bene o al male di penetrare nella vita reale. Cazaril aveva incontrato un paio di individui che sembravano davvero toccati dagli Dei e alcuni che credevano fermamente di esserlo stati: non erano soggetti alla cui presenza ci si poteva sentire a proprio agio. Di conseguenza, si augurava che la Figlia della Primavera se ne fosse andata, soddisfatta dell’azione del suo avatar, e che non fosse più presente nella giovane dama.

Iselle aveva ben pochi contatti col fratello e col suo seguito personale, alloggiati dall’altra parte del cortile, e incontrava Teidez soltanto durante i pasti o se uscivano insieme per una cavalcata. Cazaril, però, aveva l’impressione che l’intimità tra i due fosse stata più forte da bambini, prima che la pubertà li separasse, spingendoli verso i distinti mondi degli uomini e delle donne.

Senza motivazioni precise, il severo segretario-tutore del Royse, Ser dy Sanda, pareva infastidito dal rango privo di valore effettivo, quello di Castillar, assunto da Cazaril, e non perdeva occasione per esigere un posto più importante a tavola o in una processione. E accompagnava la sua richiesta con un sorriso tanto contrito quanto insincero che, a ogni pasto, serviva più ad attirare l’attenzione sulle sue pretese che a lenire gli eventuali sentimenti feriti di Cazaril. Questi, dal canto suo, prese in considerazione l’eventualità di spiegare a dy Sanda quanto poco gli importassero le questioni di rango, ma, poiché dubitava che l’altro tutore avrebbe capito, alla fine si limitò a sorridere a sua volta. La cosa ebbe l’effetto di confondere terribilmente dy Sanda, convinto che quei sorrisi facessero parte di qualche misterioso piano volto a danneggiarlo. Un giorno, poi, dy Sanda si presentò nello studio di Iselle, pretendendo la restituzione delle mappe e dando l’impressione di aspettarsi che Cazaril cercasse di difenderle, neanche fossero documenti contenenti segreti di stato. Lui invece fu pronto a rendergliele, accompagnando il gesto con qualche parola di ringraziamento, e a dy Sanda non rimase che andarsene senza poter dare sfogo alla propria irritazione.

«Che razza di uomo!» esclamò Lady Betriz, a denti stretti. «Si comporta come…»

«Come uno dei gatti del castello, quando arriva un gatto nuovo», concluse per lei Iselle. «Cosa gli avete fatto, Cazaril, per indurlo a soffiarvi contro in quel modo?»

«Vi garantisco che non ho marcato il territorio urinando davanti alla sua finestra», rispose Cazaril serissimo, inducendo Betriz a soffocare una risatina e a guardarsi intorno con aria colpevole, per accertarsi che la dama di compagnia fosse troppo lontana per sentire la loro conversazione.

Subito dopo, tuttavia, Cazaril si chiese se non fosse stato troppo rozzo. Ancora non sapeva bene come comportarsi con quelle due giovani donne, anche se che nessuna delle due si era ancora lamentata di lui, nonostante le lezioni di darthacano.

«Suppongo presuma che mi piacerebbe avere il suo incarico», aggiunse, dopo un momento. «È evidente che non ci ha riflettuto.» O forse, gli venne in mente d’un tratto, dy Sanda ci aveva pensato anche troppo. Quanto Teidez era nato, il fatto che potesse essere l’Erede del suo fratellastro Orico, sposatosi da poco, non era sembrato tanto evidente. Tuttavia, a mano a mano che gli anni si erano susseguiti senza che la Royina di Orico riuscisse a concepire un figlio, l’interesse — forse addirittura malsano — della corte di Chalion nei confronti di Teidez probabilmente era aumentato. Forse era quello il motivo per cui Ista aveva lasciato la capitale: voleva allontanare i figli da un’atmosfera inquieta e portarli in una tranquilla e pulita città di campagna. Una mossa saggia.

«Oh, no, Cazaril, restate con noi, è molto meglio!» esclamò Iselle.

«Lo è senza dubbio», garantì lui.

«Non è giusto. Voi siete due volte più intelligente di dy Sanda e avete viaggiato dieci volte più di lui, quindi perché lo sopportate con tale… tranquillità?» protestò Betriz, faticando a trovare la giusta definizione e pronunciando l’ultima parola con un lieve timore, quasi avesse paura che Cazaril potesse ritenerla un sostituto per un termine meno lusinghiero.

«Credete che lui sarebbe più felice, se mi offrissi come bersaglio per la sua stupidità?» domandò Cazaril, sorridendo alla sua inattesa sostenitrice.

«Certo, è chiaro che lo sarebbe!»

«In tal caso, la vostra domanda contiene già la risposta.»

Betriz aprì la bocca per ribattere, poi la richiuse senza emettere suono, mentre accanto a lei Iselle scoppiava in una risata.

La compassione di Cazaril nei confronti di dy Sanda aumentò una mattina, quando il segretario si presentò pallidissimo, al punto di essere quasi verdastro in volto, portando l’allarmante notizia che il suo reale pupillo era scomparso e non si trovava in casa o nelle cucine, nei canili o nelle stalle. Affibbiatosi la spada al fianco, Cazaril si preparò in tutta fretta a uscire a cavallo con gli altri per cercare il giovane Royse, cominciando già a esaminare mentalmente le campagne e la città e valutando le possibili ipotesi: una ferita, un’aggressione dei banditi, una caduta nel fiume… o una visita alle taverne. Possibile che Teidez fosse già abbastanza grande da cercare una casa di piacere? Be’, quello sarebbe stato un motivo sufficiente per scrollarsi di dosso il seguito di sorveglianti.

Prima però che Cazaril potesse elencare le diverse possibilità a dy Sanda, il quale era assolutamente convinto che il Royse fosse stato vittima di un’aggressione, il giovane entrò a cavallo nel cortile, bagnato e infangato, con l’arco appeso alla spalla e un giovane stalliere che lo seguiva, portando di traverso sulla sella la carcassa di una volpe. Nel vedere il gruppetto di uomini, pronti a partire, Teidez si arrestò, fissando tutti con aria inorridita e cupa.

Abbandonando il tentativo d’issarsi in sella senza sottoporre la schiena a trazioni dolorose, Cazaril si sedette sui gradini per montare, tenendo le redini del castrato baio, e rimase a guardare con affascinato interesse quattro adulti che rimproveravano un ragazzo, ponendogli domande tanto ovvie da essere addirittura retoriche. Dove sei stato? Perché lo hai fatto? erano cose che non c’era neppure bisogno di chiedere. E Perché non lo hai detto a nessuno? era un interrogativo la cui risposta stava diventando ormai evidente.

Teidez sopportò quella tempesta a labbra serrate, ma quando infine dy Sanda s’interruppe per riprendere fiato, protese la preda rossiccia verso Beetim, il capo cacciatore. «Scuoiala per me», ordinò. «Voglio la pelliccia.»

«La pelliccia non vale nulla in questa stagione, giovane signore, perché il pelo è troppo rado e si stacca», replicò il cacciatore, in tono severo, poi indicò le mammelle della volpe, gonfie di latte, e proseguì: «Inoltre porta sfortuna abbattere una madre durante la stagione della Figlia della Primavera. Adesso dovrò bruciare i baffi di questa povera bestia, altrimenti il suo spirito agiterà i miei cani per tutta la notte. E dove sono i cuccioli? Avreste dovuto uccidere anche loro, già che c’eravate, perché è crudele lasciarli morire di fame…» Appuntò uno sguardo di fuoco sullo stalliere terrorizzato e aggiunse: «O forse voi due li avete nascosti da qualche parte, eh?»

«Abbiamo cercato la tana, ma non siamo riusciti a trovarla», ringhiò Teidez, gettando con violenza l’arco sull’acciottolato.

«Quanto a te, sai che saresti dovuto venire da me…» intervenne di nuovo dy Sanda, rivolto allo sfortunato stalliere, inveendo contro di lui con termini più duri di quelli che aveva usato col Royse, per poi concludere, in tono imperioso: «Beetim, provvedi a infliggere una punizione corporale a questo ragazzo per la sua stupidità e insolenza!»

«Con piacere, mio signore», assentì Beetim, cupo in volto. Quindi si allontanò verso le stalle con la volpe in una mano e l’altra che trascinava con decisione il ragazzo.

Due stallieri anziani provvidero a scortare i cavalli nei loro stallaggi. Nel consegnare loro la cavalcatura, Cazaril si concesse di pensare con gioia alla colazione, che non sembrava più rimandata a tempo indefinito. Intanto osservava dy Sanda, il cui terrore era stato sostituito dall’ira: confiscò l’arco di Teidez e scortò in casa il giovane tetro in volto. Poco prima che la porta si richiudesse con violenza alle spalle dei due, la voce di Teidez fluttuò fino a loro in un’ultima obiezione, pronunciata in tono lamentoso. «Ma mi annoio tanto!»

Cazaril scoppiò a ridere, consapevole che quella, per un ragazzo, era un’età orribile, traboccante di slanci e di energia, tormentata da adulti incomprensibili e arbitrari, pieni d’idee stupide che escludevano la possibilità di sottrarsi alle preghiere del mattino per andare a caccia in una splendida alba di primavera… Nel sollevare lo sguardo verso il cielo, che cominciava a tingersi di un azzurro più intenso col dissiparsi delle nebbie mattutine, il Castillar rifletté che la tranquillità propria della casa della Provincara, che per lui era un vero balsamo per l’anima, doveva bruciare come acido lo spirito del povero, controllatissimo Teidez.

Considerati i loro rapporti, dy Sanda non avrebbe accolto di buon grado un consiglio da parte sua, eppure Cazaril aveva l’impressione che, se dy Sanda stava cercando di salvaguardare la propria influenza sul Royse — così da esercitarla quando il giovane fosse diventato adulto, con tutti i privilegi di un nobile di alto rango di Chalion, se non addirittura di un Roya -, allora stava procedendo nel modo più sbagliato possibile. Se avesse continuato così, Teidez si sarebbe liberato di lui alla prima opportunità.

D’altro canto, Cazaril fu costretto ad ammettere che dy Sanda era un uomo coscienzioso. Un individuo meno onesto e con maggiori ambizioni avrebbe potuto benissimo incoraggiare le tendenze di Teidez e i suoi capricci, invece di controllarli, in modo da conquistarsi il suo favore non grazie alla propria fedeltà, ma a una sorta di dipendenza. A Cazaril era capitato d’incontrare qualche rampollo di nobile famiglia rovinato in quel modo… ma era una cosa che non aveva mai visto accadere nella famiglia dy Baocia e, finché la sua educazione fosse dipesa dalla Provincara, era improbabile che Teidez corresse il rischio d’imbattersi in quel genere di parassiti. Sulla scia di quella confortante riflessione, Cazaril si costrinse infine ad abbandonare il suo sedile e ad alzarsi.

5

Il sedicesimo compleanno della Royesse Iselle cadde a metà della primavera, circa sei settimane dopo l’arrivo di Cazaril a Valenda. Il regalo inviatole dalla capitale, Cardegoss, da parte del fratello Orico, fu una splendida giumenta pomellata grigia, una scelta molto ben calcolata o assai fortunata, dato che Iselle s’innamorò immediatamente di quella bellissima cavalla, che era senza dubbio un dono davvero regale, come ammise lo stesso Cazaril. L’entusiasmo della ragazza fu tale che il Castillar riuscì ad aggirare ancora una volta il problema della mano danneggiata e della conseguente difficoltà nello scrivere. Non ebbe infatti difficoltà a persuadere Iselle a stilare un messaggio di ringraziamento di propria mano, per inviarlo alla capitale tramite il corriere reale che aveva consegnato il dono.

Nei giorni che seguirono, però, Cazaril si ritrovò oggetto d’indagini minuziose e attente, per non dire imbarazzanti, da parte di Iselle e di Betriz riguardo al suo stato di salute. Piccoli doni — frutti scelti o altre vivande prelibate -, gli vennero mandati a ogni pasto; le due giovani lo sollecitarono ad andare a letto presto e a bere un po’ di vino, senza esagerare, e a fare brevi e frequenti passeggiate in giardino. Ma quando dy Ferrej scherzò a quel riguardo con la Provincara, Cazaril apprese che Iselle e Betriz erano state costrette a moderare l’andatura nelle loro cavalcate per non aggravare la sua salute cagionevole. Per un soffio, il buon senso ebbe la meglio sull’indignazione: con espressione imperturbata, Cazaril riuscì prima a confermare la cosa e poi ad allontanarsi con un’andatura abbastanza rigida da riuscire convincente. In fondo, quelle attenzioni femminili, per quanto dettate da scopi palesemente egoistici, erano troppo adorabili per poterle respingere. E giudicare il suo stato cagionevole non era poi lontano dal vero.

Alla fine, però, vuoi per il clima sempre più mite, vuoi per un obiettivo miglioramento fisico, Cazaril riconsiderò le sue posizioni, anche perché di lì a poco la calura estiva avrebbe rallentato di nuovo il ritmo dell’esistenza. Contemporaneamente, le preoccupazioni per la sicurezza delle ragazze diminuirono: entrambe saltavano con disinvoltura i tronchi caduti, restando saldamente in sella, e percorrevano le piste tortuose lungo il fiume, simili a scintillanti chiazze dorate e verdi sotto la volta di foglie novelle.

A sorpresa, fu proprio lui a essere disarcionato, allorché il suo cavallo aveva scartato di lato con violenza dopo aver spaventato una cerva, balzata fuori da alcuni cespugli. Cazaril cadde su un mucchio di rocce e radici, ansimando, e avvertì una fitta dolorosa alla schiena. Con lo sguardo velato da lacrime di sofferenza, rimase immobile finché due spaventati volti femminili non entrarono nel suo campo visivo, stagliandosi sullo sfondo della volta di fogliame e del cielo. Con l’aiuto di entrambe le ragazze e di un tronco abbattuto, lui riuscì comunque a issarsi di nuovo in sella. Il ritorno al castello fu caratterizzato da un’andatura così composta ed elegante, per non dire colpevole, da rispondere alle preghiere di qualsiasi governante. Quando infine oltrepassarono l’arco del portone, il mondo aveva smesso di girargli intorno con piccole scosse assurde, ma la schiena continuava a dolere, anche per via di un gonfiore delle dimensioni di un uovo che probabilmente avrebbe impiegato settimane a riassorbirsi. Una volta giunto sano e salvo nel cortile, Cazaril concentrò la propria attenzione sui gradini per montare, sullo stalliere accorso ad aiutarlo e sul compito di scendere vivo da quella dannata sella. Una volta a terra, indugiò per un momento con la testa appoggiata al pomo della sella e il volto contratto in una smorfia di dolore.

«Caz!» esclamò in quel momento una voce familiare, che pareva scaturire dal nulla.

Sollevando la testa di scatto, Cazaril si guardò intorno con aria perplessa, scorgendo un uomo alto e atletico, coi capelli neri, vestito con un’elegante tunica di broccato rosso e alti stivali da equitazione, che gli stava venendo incontro a braccia aperte.

«Per i cinque Dei», sussurrò. Poi, a voce più alta, disse, incredulo: «Palli?»

«Caz, Caz! Ti bacio le mani! Ti bacio i piedi!» esultò l’uomo alto, afferrandolo. Deciso a mettere in pratica la prima parte del proprio saluto, quasi gettò a terra Cazaril e allora sostituì la seconda con un semplice abbraccio. «Caz, per gli Dei, credevo che fossi morto!»

«No, no… Palli…» Quasi completamente dimentico della propria sofferenza fisica, Cazaril afferrò a sua volta le mani del giovane bruno e si girò verso Iselle e Betriz, che avevano affidato i rispettivi cavalli agli stallieri e si stavano avvicinando con evidente curiosità. «Royesse Iselle, Lady Betriz… Permettetemi di presentarvi Ser dy Palliar, che è stato il mio valido braccio destro a Gotorget… Per i cinque Dei, Palli, che cosa ci fai tu qui?»

«Potrei farti la stessa domanda, e con maggior diritto!» ribatté Palli, rivolgendo un inchino alle due dame, che lo stavano osservando con crescente approvazione. I due anni e più trascorsi dalla caduta di Gotorget avevano migliorato ulteriormente il suo aspetto già gradevole, benché alla fine di quell’assedio sembrassero tutti spaventapasseri. «Royesse, mia signora, sono onorato di conoscervi», proseguì, poi guardò Cazaril, e aggiunse: «Caz, adesso sono il March dy Palliar».

«Oh… allora ti porgo le mie condoglianze», si affrettò a replicare Cazaril. «È una perdita recente?»

«Ormai sono trascorsi quasi due anni», rispose Palli. «Mio padre ha avuto un colpo apoplettico mentre noi eravamo ancora chiusi dentro Gotorget, ma ha resistito finché non sono tornato a casa, sia resa grazia al Padre dell’Inverno. Era cosciente e mi ha riconosciuto, quindi ho potuto parlargli e raccontargli della campagna… Sai, l’ultimo giorno ha pronunciato una benedizione per te, anche se eravamo entrambi convinti di pregare per i nostri morti perduti. Caz, amico, dove sei andato a finire?»

«Io… non sono stato riscattato.»

«Non sei stato riscattato? Com’è possibile? Com’è potuto succedere?»

«È stato un errore. Il mio nome è stato omesso dall’elenco.»

«Dy Jironal ha riferito che, secondo i roknari, eri morto a causa di una febbre improvvisa», obiettò Palli.

«No, sono stato venduto come schiavo sulle galee», spiegò Cazaril, con un sorriso sempre più teso.

«E lo definisci un errore?» esclamò Palli, sollevando la testa di scatto. «No, un momento, tutto ciò non ha senso…»

La smorfia apparsa sul volto di Cazaril e la sua mano premuta contro il suo petto troncarono la protesta di Palli, ma non mitigarono l’espressione sorpresa del suo sguardo. Cogliendo, sia pure tardivamente, l’implicito ammonimento dell’amico, il giovane lasciò cadere l’argomento, anche se la piega decisa delle sue labbra lasciava capire che era intenzionato a riprenderlo quanto prima, in privato. Girandosi infine verso Ser dy Ferrej, che si stava avvicinando per assistere con interesse a quel ricongiungimento, dy Palliar tornò a sfoggiare l’allegro sorriso di poco prima.

«Il March dy Palliar è stato invitato a bere un po’ di vino in giardino, con la Provincara», spiegò il siniscalco. «Unitevi a noi, Cazaril.»

«Vi ringrazio», rispose il Castillar.

Palli lo prese sotto braccio, ed entrambi si avviarono per seguire dy Ferrej fuori del cortile e sul retro della fortezza, dove il giardiniere della Provincara aveva creato una piccola area fiorita. Nell’arco di tre passi, però, Cazaril cominciò a rimanere indietro e dy Palliar, vedendolo incespicare, fu costretto a rallentare il passo, cosa che lo indusse a scoccargli un’occhiata in tralice. Seduta sotto un’arcata di rose rampicanti non ancora sbocciate, la Provincara li stava attendendo con un paziente sorriso sulle labbra e li invitò con un cenno a prendere posto sulle sedie preparate dai servitori. Nell’adagiarsi con cautela sulla sua, e nonostante il cuscino, Cazaril non riuscì a trattenere un sussulto e un grugnito di dolore.

«Per i demoni del Bastardo», imprecò Palli, sottovoce. «I roknari ti hanno storpiato?»

«Solo a metà, ma Lady Iselle… sembra decisa a completare la loro opera», rispose Cazaril, appoggiandosi lentamente allo schienale. «Lei e quello stupido cavallo.»

Accigliandosi, la Provincara scoccò un’occhiata alle due ragazze che, pur non essendo state invitate, si erano accodate al gruppo. «Iselle, hai galoppato?» domandò, minacciosa.

«È stata tutta colpa del mio nobile destriero, mia signora», fu pronto a intervenire Cazaril. «Si è creduto minacciato da un daino divoratore di cavalli, quindi ha scartato di lato e io non sono stato pronto a fare altrettanto.» Accettò un bicchiere di vino offertogli da un servitore e ne bevve un sorso con gratitudine, cercando di non rovesciarlo. La sgradevole sensazione di paura che lo aveva oppresso stava finalmente passando.

Iselle gli scoccò un’occhiata colma di gratitudine, che non sfuggì alla Provincara, la quale sbuffò con aria perplessa. «Iselle, Betriz… Andate a indossare qualcosa di adatto per la cena, al posto di quegli abiti da equitazione», ordinò allora, a mo’ di punizione. «Forse siamo gente di campagna, ma non per questo dobbiamo ridurci al livello di selvaggi.»

Riluttanti, le due ragazze si allontanarono a passo lento, girandosi spesso ad ammirare l’affascinante visitatore.

«Come mai sei qui, Palli?» chiese Cazaril, quando quella doppia distrazione ebbe svoltato l’angolo della fortezza.

Anche Palli stava fissando le ragazze e sembrò riscuotersi da chissà quale contemplazione.

Chiudi quella bocca, amico mio, pensò Cazaril, divertito. Non fare anche tu, come me, la figura dell’idiota.

«Oh, sono diretto a Cardegoss, per fare atto di presenza a corte», spiegò infine Palli. «Mio padre faceva sempre tappa qui, per via della sua amicizia col vecchio Provincar… Così, quando siamo passati vicino a Valenda, ho osato inviare un messaggero. La mia signora» — e fece un cenno verso la Provincara -, «è stata tanto cortese da invitarmi a fermarmi.»

«Ti avrei preso a schiaffi, se non avessi fatto il tuo dovere, fermandoti a salutarmi», replicò sorridendo la Provincara, con ammirevole illogicità. «Erano decisamente troppi anni che non avevo più modo di vedere te o tuo padre. Mi è dispiaciuto apprendere della sua morte.»

Palli annuì, poi tornò a rivolgersi a Cazaril. «Abbiamo intenzione di far riposare i cavalli stanotte e di ripartire domattina a un’andatura tranquilla. Il clima è troppo gradevole per affrettarsi. Le strade sono piene di pellegrini diretti a ogni santuario e Tempio, ma purtroppo brulicano anche di predoni. Ci era stato detto che, sui passi, c’erano dei banditi, ma non siamo riusciti a trovarli.»

«Li hai cercati?» esclamò Cazaril, sconcertato. Nel corso del suo viaggio lui aveva sperato e pregato di non incontrare banditi.

«Ehi! Sono il signore di Palliar, quindi un nobile consacrato all’Ordine della Figlia… al posto di mio padre. Di conseguenza, ho doveri da compiere.»

«Cavalchi insieme coi soldati-fratelli?»

«Direi piuttosto che viaggio col convoglio dei bagagli. Non faccio altro che tenere registri, raccogliere affitti, rintracciare equipaggiamenti e occuparmi di logistica. Del resto, queste sono le gioie del comando, come ben sai, dato che sei stato proprio tu a insegnarmele. Per una parte di gloria, dieci parti di letame da spalare.»

«Una proporzione così buona?» sorrise Cazaril. «Allora sei davvero benedetto.»

Sorridendo di rimando, Palli accertò il formaggio e le focacce che un servitore gli porgeva. «Ho alloggiato le mie truppe in città», proseguì. «Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui, Caz! Non appena ho pronunciato il nome Gotorget, mi sono sentito chiedere se ti conoscevo e, allorché questa dama mi ha detto che eri arrivato qui a piedi fin da Ibra, conciato in modo tale da dare l’impressione di essere stato masticato, digerito e sputato da un gatto, sono stato così travolto dallo stupore che un soffio di vento avrebbe potuto gettarmi per terra.»

Cazaril scoccò alla Provincara un’occhiata che voleva essere di rimprovero, ma lei si limitò a scrollare le spalle.

«Nell’ultima mezz’ora, li ho intrattenuti raccontando storie di guerra», aggiunse Palli. «Come va la tua mano?»

«Molto meglio», rispose Cazaril, nascondendola in grembo, poi si affrettò a cambiare discorso. «Come mai stai andando a corte?»

«Ecco, dopo la morte di mio padre, non ho ancora avuto modo di prestare formale giuramento di fedeltà a Orico. Inoltre dovrò rappresentare Palliar come esponente dell’Ordine della Figlia nel corso della cerimonia d’investitura.»

«Investitura?» ripeté Cazaril, perplesso.

«Ah, Orico ha finalmente deciso di cedere il comando generale dell’Ordine della Figlia?» chiese dy Ferrej. «Mi hanno detto che, da quando il vecchio generale è morto, tutte le famiglie di rango elevato di Chalion hanno continuato a tormentarlo per ottenere quella carica.»

«Non ne dubito», commentò la Provincara. «È un incarico che conferisce ricchezza e potere, anche se l’Ordine è più piccolo di quello del Figlio.»

«Sì, ha scelto», disse Palli. «La cosa non è ancora stata annunciata, ma è risaputo che l’incarico andrà a Dondo dy Jironal, il fratello minore del Cancelliere.»

Cazaril s’irrigidì e prese a sorseggiare il proprio vino per nascondere lo sgomento.

«Una strana scelta», osservò la Provincara, dopo una pausa piuttosto lunga. «Di solito, ci si aspetta che il generale di un Ordine militare sacro sia una persona più… più austera.»

«Inoltre il Cancelliere Martou dy Jironal riveste già la carica di generale dell’Ordine del Figlio!» esclamò dy Ferrej. «Due generali in una stessa famiglia? È una pericolosa concentrazione di potere.»

«Se le voci che circolano sono vere, Martou diventerà anche il Provincar dy Jironal non appena il vecchio Ildar si deciderà ad andarsene», mormorò la Provincara.

«Questa è una cosa che non sapevo», osservò Palli, stupito.

«Sì», confermò la Provincara. «La famiglia Ildar non ne è particolarmente contenta, perché credo che sperasse di veder passare il titolo di Provincar a uno dei nipoti del vecchio.»

«Senza dubbio, grazie al favore di Orico, i fratelli dy Jironal hanno molto potere a Chalion», affermò Palli, scrollando le spalle. «Se fossi furbo, dovrei cercare il modo di aggrapparmi al mantello di uno dei due e sfruttarne la scia.»

Fissando il bicchiere di vino con aria accigliata, Cazaril cercò disperatamente il modo di cambiare argomento. «Che altre notizie hai sentito?» domandò allora.

«Pare che, nelle due settimane passate, l’Erede di Ibra abbia innalzato la propria bandiera nell’Ibra meridionale, muovendo di nuovo contro quella vecchia volpe di suo padre. Tutti credevano che il trattato della scorsa estate avrebbe retto…

Pare invece che lo scorso autunno ci sia stato tra loro qualche screzio, tenuto segreto, e che il Roya lo abbia ripudiato ancora una volta.»

«L’Erede presume troppo», dichiarò la Provincara. «Dopotutto, il sovrano di Ibra ha un altro figlio.»

«L’ultima volta, Orico si è schierato dalla parte dell’Erede», le ricordò Palli.

«E Chalion ne ha pagato il prezzo», mormorò Cazaril.

«A me pare che Orico si sia mostrato lungimirante, perché alla fine dovrà essere l’Erede a spuntarla, in un modo o nell’altro», replicò Palli.

«Per il vecchio, sarà una vittoria amara, se sconfiggerà suo figlio», intervenne dy Ferrej, in tono riflessivo. «No, scommetto che sacrificheranno altre vite umane e, alla fine, faranno di nuovo la pace, sui corpi dei loro soldati.»

«Una triste faccenda da cui non può venire nulla di buono», annuì la Provincara. «Avanti, dy Palliar, dammi qualche buona notizia… Dimmi che la Royina di Orico aspetta un figlio.»

«Non che io sappia, mia signora», rispose Palli, scuotendo il capo.

«In tal caso, andiamo a cena e smettiamola di parlare di politica. È una cosa che mi fa venire l’emicrania.»

Quando cercò di alzarsi dalla sedia, Cazaril per poco non cadde, dato che i suoi muscoli, nonostante il vino, si erano raffreddati e contratti. Palli gli afferrò un gomito per sostenerlo e assunse un’espressione molto aggrondata. Scuotendo appena il capo per intimargli di tacere, Cazaril si allontanò per andare a lavarsi e a cambiarsi… e per esaminare i propri lividi in privato.

La cena, cui partecipò la maggior parte della famiglia, fu allegra. Dy Palliar, che non era tipo da tirarsi indietro davanti al cibo o alla conversazione, intrattenne tutti i presenti — da Lord Teidez e Lady Iselle fino al paggio più giovane — con le sue storie e, nonostante il vino, si mantenne lucido, badando a narrare soltanto aneddoti allegri e divertenti, in cui lui, il più delle volte, risultava il capro espiatorio della situazione più che l’eroe. Fece anche il resoconto di una sortita notturna, nella quale era stato coinvolto pure Cazaril, contro i guastatori roknari, che stavano indebolendo le mura; una spedizione così efficace da scoraggiare i roknari per oltre un mese dal riprendere la loro attività. Durante il racconto, tutti fissavano con occhi sgranati sia dy Paillar sia Cazaril. Per nessuno dei presenti era facile immaginare il timido e pacato segretario della Royesse mentre strisciava tra la polvere e le macerie brandendo un pugnale. Dato che la massima aspirazione di Cazaril, al momento, era risultare praticamente invisibile, lui fu contrariato da quel racconto e, nelle due occasioni in cui Palli cercò di coinvolgerlo nei discorsi, perché intrattenesse gli altri commensali, fu pronto a cedere la parola allo stesso Palli o a dy Ferrej. Al secondo tentativo fallito, dy Palliar rinunciò a far uscire l’amico dal suo guscio.

La cena si protrasse fino a tardi, poi giunse inevitabilmente il momento atteso e temuto da Cazaril. Una volta che tutti si furono ritirati per la notte, Palli venne a bussare alla sua porta. Dopo averlo invitato a entrare, Cazaril addossò la cassapanca alla parete, vi gettò sopra un cuscino perché servisse da sedile per il suo ospite e si sedette di fronte a lui, sul letto che scricchiolò al pari delle sue povere ossa.

Palli lo fissò nella luce incerta delle due candele presenti nella stanza. «Un errore, Caz?» chiese. «Hai pensato a come si può essere verificato?» chiese. Una domanda diretta, che rivelava quanto gli stesse a cuore quell’argomento.

«Ho avuto diciannove mesi di tempo per farlo, Palli, e durante quei mesi ho analizzato e rivoltato ogni singola possibilità, pensandoci e ripensandoci fino a sentirmi nauseato alla semplice idea di affrontare il problema. Ho deciso di metterci una pietra sopra. È un argomento chiuso.»

«Credi che i roknari abbiano voluto vendicarsi di te, nascondendoci che eri prigioniero e sostenendo invece che eri morto?» insistette Palli, ignorando quell’invito indiretto a cambiare discorso.

«È una possibilità», annuì Cazaril… Se non fosse per il fatto che ho visto quell’elenco coi miei occhi, aggiunse mentalmente.

«Oppure qualcuno ti ha omesso di proposito dall’elenco?» continuò Palli.

L’elenco è stato stilato da Martou dy Jironal, pensò Cazaril. «È la conclusione cui sono giunto.»

«Che viltà!» esclamò Palli, furente. «Che ignobile tradimento, dopo tutto quello che abbiamo patito… Dannazione, Caz! Quando arriverò a corte, intendo parlarne col March dy Jironal. Gli Dei sanno che adesso lui è il nobile più potente di tutta Chalion e insieme dovremmo riuscire ad andare a fondo del…»

«No!» lo interruppe con violenza Cazaril, alzandosi di scatto con aria terrorizzata. «Non lo fare, Palli! Dy Jironal non deve neppure sapere che io esisto! Non discutere di questa faccenda, non mi menzionare… È meglio che il mondo mi creda morto. Se mi fossi reso conto del rischio che correvo sarei rimasto a Ibra. Lascia perdere.»

«Ma… Valenda non è certo ai confini del mondo», obiettò l’altro, perplesso. «È ovvio che si verrà a sapere che sei vivo.»

«Questo è un posto tranquillo e pacifico. Qui la mia presenza non crea problemi a nessuno.»

C’erano altri uomini coraggiosi quanto Palli, e alcuni erano anche più forti di lui, ma era stata la sua intelligenza a renderlo il luogotenente preferito di Cazaril, quando si trovavano a Gotorget. A Palli era sempre bastato un solo indizio per cominciare a districare un enigma… E infatti, d’un tratto, socchiuse gli occhi nella tenue luce delle candele e sussurrò: «Dy Jironal? È stato luì? Per i cinque Dei, che cosa puoi mai avergli fatto?»

«Non credo che si sia trattato di una questione personale», replicò Cazaril, a disagio. «Penso invece che sia stato un piccolo, facile favore… fatto a qualcuno.»

«Allora sono due gli uomini che conoscono la verità. Per gli Dei, Caz, chi sono?» Cazaril comprese che Palli avrebbe continuato a indagare: ormai non poteva più tornare indietro e nascondergli la verità. Magari, però, dandogli sufficienti informazioni, si sarebbe convinto a tacere. «Chi ti può odiare così tanto?» continuò. «Sei sempre stato il più conciliante tra gli uomini, eri addirittura famoso per il modo in cui rifiutavi i duelli, lasciando che gli attaccabrighe facessero una ben meritata figura da stolti… Tutti conoscevano la tua abilità nel riappacificare le persone e nell’ottenere nei trattati le condizioni più favorevoli. Non ti sei mai lasciato coinvolgere da nessuna fazione… Per l’inferno del Bastardo, non hai mai neppure avuto l’abitudine di fare scommesse! Un piccolo, facile favore! Cosa può aver mai generato un simile, implacabile odio proprio nei tuoi confronti?»

«Ritengo sia stata la paura», rispose Cazaril, massaggiandosi la fronte che cominciava a dolere, e non per il vino bevuto a cena.

Sul volto di Palli si dipinse un’espressione di stupore.

«Se si dovesse venire a sapere che sei al corrente di tutto, Palli, loro avranno paura anche di te», continuò Cazaril. «Non voglio vederti coinvolto in questo pasticcio, quindi promettimi che lascerai perdere.»

«Se si tratta di un timore così grave, il fatto stesso che hai parlato con me sarà sufficiente a rendermi sospetto, e la loro paura, unita alla mia ignoranza dei fatti… Per gli Dei, Caz! Non mi mandare in battaglia alla cieca!»

«Non voglio mandare mai più nessuno in battaglia!» esclamò Cazaril con tale slancio da indurre l’amico a sgranare gli occhi per la sorpresa. Poi, d’un tratto comprese qual era il modo più ovvio per usare la curiosità stessa di Palli contro di lui, e aggiunse: «Se ti dirò quello che so, e come faccio a saperlo, sei disposto a darmi la tua parola di lasciar perdere? La tua parola, bada bene! Sei disposto a promettere che non indagherai, che non accennerai alla cosa neppure a me, che non lascerai cadere velate insinuazioni e che non affronterai l’argomento neppure in maniera indiretta…»

«Come tu stai facendo adesso?» commentò Palli.

«Infatti», annuì Cazaril, con un verso che era in parte una risata e in parte un gemito di dolore.

«Mercante… Tu dunque vuoi che compri un maiale chiuso in un sacco senza neppure farmelo prima vedere?» lo accusò scherzosamente Palli, appoggiandosi al muro.

«Oink», mormorò Cazaril.

«Dannazione… E va bene, comprerò il tuo maiale. Del resto, non è mai successo che tu ci abbia guidati su un terreno infido o in un’imboscata, quindi sono pronto a fidarmi della tua capacità di giudizio… nella misura in cui tu ti fidi della mia discrezione. Su questo, hai la mia parola.»

Cazaril sospirò, costretto suo malgrado ad ammirare quell’abile contrattacco verbale. «Benissimo», assentì. Rimase in silenzio per qualche istante, assaporando quella resa reciproca e mettendo ordine nei pensieri, mentre si chiedeva da dove poteva cominciare. Ma si trattava di eventi che aveva esaminato e riesaminato, nella sua mente, fino a ordinarli in maniera tale da trarne ormai una storia quanto mai chiara e coerente, anche se non l’aveva mai raccontata a nessuno prima di allora. «Non c’è molto da dire», esordì. «Ho incontrato per la prima volta Dondo dy Jironal quattro… No, cinque anni fa, quand’ero al seguito di dy Guarida in quella piccola guerra di confine contro il folle principe roknari Olus, quello che aveva l’abitudine di seppellire i nemici fino alla vita negli escrementi e di bruciarli vivi, e che poi è stato assassinato circa un anno più tardi dalle sue stesse guardie del corpo.»

«Ah, sì, ricordo di aver sentito parlare di lui. Dicono che sia morto a testa in giù negli escrementi.»

«Sulla sua fine esistono numerose versioni. A quel tempo, comunque, lui aveva ancora il controllo delle sue forze, e Lord dy Guarida era riuscito a intrappolare il suo esercito — forse sarebbe meglio dire la sua marmaglia — sulle colline, ai confini del suo principato. Lord Dondo e io siamo stati mandati da Olus come inviati, sotto bandiera di tregua, per consegnargli un ultimatum e stabilire le condizioni per la resa e per i riscatti. Le cose non sono andate bene durante la discussione e Olus ha deciso che un messaggero era più che sufficiente per riferire le sue parole di sfida all’assemblea dei nobili di Chalion. Di conseguenza, ha messo me e Dondo l’uno davanti all’altro nella sua tenda, circondati da quattro di quelle sue mostruose guardie con la spada in pugno, e ci ha dato un’alternativa: a quello di noi che avesse decapitato il compagno sarebbe stato permesso di far ritorno presso le nostre linee; se invece ci fossimo rifiutati di stare al suo gioco saremmo morti entrambi, e le nostre teste sarebbero state rispedite indietro mediante un lancio con una catapulta.»

«Ah», fu tutto quello che Palli riuscì a dire.

«A me è stata data l’occasione di colpire per primo», continuò Cazaril, traendo un profondo respiro. «Quando ho rifiutato la spada, Olus mi ha sussurrato, con quella sua strana voce untuosa: ’Questo è un gioco in cui non potete vincere, Lord Cazaril’. ’Lo so, m’hendi’, ho risposto. ’Ma posso far perdere voi.’ Per un momento, lui è rimasto in silenzio, poi si è limitato a ridere e si è girato, offrendo la possibilità di colpire a Dondo, che a quel punto era verdastro in faccia, più simile a un cadavere che a un uomo vivo…»

Palli si agitò leggermente, ma non lo interruppe, anzi gli fece cenno di continuare.

«Una delle guardie mi ha costretto a inginocchiarmi, e l’altra mi ha preso per i capelli, in modo che appoggiassi la testa su uno sgabello. Poi… Dondo ha calato la spada.»

«Sul braccio della guardia?» chiese Palli, con voce tesa.

«No», rispose Cazaril, dopo un momento di esitazione. «All’ultimo momento, però, Olus ha insinuato la sua spada di piatto tra di noi, e la lama di Dondo è scivolata su di essa…» Nella sua mente, Cazaril sentiva l’acuto stridere del metallo sul metallo. «Me la sono cavata con un livido sul collo che è rimasto nero per un mese. Due guardie hanno tolto a forza la spada a Dondo, poi siamo stati issati entrambi sui nostri cavalli e rimandati al campo di dy Guarida. Mentre mi legavano le mani alla sella, Olus si è avvicinato e mi ha sussurrato: ’Adesso vedremo chi sarà il perdente’. Il viaggio si è svolto in assoluto silenzio, finché non siamo arrivati in vista del campo. A quel punto, Dondo si è girato verso di me per la prima volta, e ha detto: ’Se mai doveste raccontare quello che è successo, vi ucciderò’. La mia risposta è stata: ’Non vi preoccupate, Lord Dondo, a tavola racconto soltanto storie divertenti’. Adesso so che dovevo giurargli di mantenere il segreto, e tuttavia… forse neppure quello sarebbe stato sufficiente.»

«Ma lui ti deve la vita!»

«Ho visto la sua anima messa a nudo», spiegò Cazaril, scuotendo il capo e distogliendo lo sguardo. «È una cosa che non potrà mai perdonarmi. Naturalmente, mi sono ben guardato dal riferire l’accaduto, e ho pensato che la cosa fosse finita lì… fino alla caduta di Gotorget e a quello che è successo dopo. Adesso so di essere doppiamente condannato. Quanto credi che varrebbe la mia vita, se Dondo venisse a sapere non soltanto che sono vivo, ma anche che so esattamente perché sono stato venduto come schiavo sulle galee? Se non dirò e non farò nulla, evitando di ricordargli l’accaduto… Ecco, forse ormai lo ha dimenticato, e io voglio soltanto essere lasciato in pace, in questo posto tranquillo, mentre è possibile che lui abbia nuovi e più importanti nemici. Non fare mai il mio nome, a nessuno dei due dy Jironal», proseguì con voce tesa, fissando l’amico negli occhi. «Non mi nominare mai. Ricorda che non hai mai sentito questa storia e che mi conosci solo superficialmente. Palli, se nutri un po’ di affetto nei miei confronti, dimentica ogni cosa.»

Notando l’aria di disapprovazione dell’amico, Cazaril comprese che questi si sarebbe sentito vincolato dal giuramento, il che però non gli impediva di mostrarsi contrariato. «Come vuoi. Però… dannazione e ancora dannazione!» sbottò Palli, scrutando l’altro come se stesse cercando chissà cosa sui suoi lineamenti. «Non si tratta soltanto di quella tua orribile barba. Sei molto cambiato.»

«Davvero? Ebbene, non posso farci niente.»

«Quanto… è stata dura la tua esperienza?» chiese Palli, distogliendo lo sguardo. «Sulle galee, intendo.»

«Nella sventura, sono stato fortunato, perché sono sopravvissuto, mentre altri non ce l’hanno fatta», rispose Cazaril, scrollando le spalle.

«Si sentono storie orribili su come gli schiavi vengono terrorizzati… o su come si abusa di loro.»

Cazaril si grattò distrattamente la barba che a suo parere contribuiva a farlo apparire meno emaciato. «Quelle storie non sono false, ma piuttosto distorte, esagerate… In esse, eventi eccezionali vengono presentati come occorrenze quotidiane. I comandanti migliori ci trattavano nello stesso modo in cui un contadino tratta il suo bestiame, con gentilezza impersonale, concedendoci cibo, acqua, esercizio fisico, e la pulizia necessaria a rimanere in buona salute. Dopotutto, percuotere un uomo fino a lasciarlo privo di sensi lo pone nell’impossibilità di manovrare un remo, e quel genere di… disciplina veniva applicato soltanto quand’eravamo in porto. Una volta al largo, il mare offriva il migliore strumento di punizione.»

«Non capisco», confessò Palli.

«Perché danneggiare la pelle di un uomo, o le sue ossa, quando puoi spezzare il suo spirito semplicemente gettandolo in acqua, con le gambe a fare da eccellente esca per i grandi pesci?» replicò Cazaril, inarcando le sopracciglia. «I roknari dovevano aspettare ben poco per vederci nuotare dietro la nave, piangendo e implorando di essere accettati di nuovo come schiavi.»

«Sei sempre stato un eccellente nuotatore», osservò Palli, con una nota di speranza nella voce. «Senza dubbio, questo ti avrà aiutato a sopportare la cosa meglio degli altri.»

«Temo sia successo il contrario. Per gli uomini che affondavano come sassi, la fine arrivava rapida e misericordiosa. Riflettici sopra, Palli, come ho fatto io.»

Gli capitava ancora di pensarci, quando si svegliava di colpo e si sollevava a sedere di scatto, emergendo da un incubo in cui l’acqua pareva chiudersi sopra la sua testa o, peggio ancora, che non si chiudesse. Una volta, il vento si era alzato all’improvviso mentre il capo vogatore era impegnato in quel giochetto a spese di un ibrano particolarmente riottoso, e il comandante, impaziente di arrivare in porto prima della tempesta, si era rifiutato di tornare indietro per recuperare lo schiavo. Le urla sempre più fievoli dell’ibrano erano echeggiate sull’acqua a mano a mano che la nave si allontanava. In seguito, per punire quell’errore di valutazione, il comandante aveva detratto il costo della sostituzione dello schiavo dalla paga del capo vogatore, cosa che aveva irritato l’uomo per settimane.

«Oh», mormorò Palli.

«Te lo concedo. Il mio orgoglio e la mia linguaccia mi hanno fruttato non poche percosse all’inizio del mio imbarco, ma a quel tempo mi consideravo ancora un nobile di Chalion, una convinzione che è stata rimossa dalla mia mente… in seguito.»

«Ma… non sei stato… non ti hanno fatto oggetto di… Voglio dire, non ti hanno usato in modo degradante…»

La luce era troppo tenue per permettere a Cazaril di vedere se l’amico era arrossito… Alla fine il Castillar comprese che, in maniera contorta e imbarazzata, Palli stava cercando di chiedergli se era stato violentato, cosa che gli fece affiorare sulle labbra un amaro sorriso. «Ritengo che tu stia confondendo la flotta roknari con quella di Darthaca», rispose. «Temo che siffatte leggende non siano che il frutto dei desideri di qualcuno. A causa della concezione eretica dei roknari, che contempla soltanto quattro Dei, il genere di amori singolari che qui ricade sotto l’egida del Bastardo è considerato un crimine. Secondo i teologi dei roknari, infatti, il Bastardo è un demone, come suo padre, e non un Dio, come la sua santa madre, motivo per cui ci accusano di adorare il diavolo… il che, a mio parere, costituisce una grave offesa per la Signora dell’Estate, e anche per il Bastardo stesso, che non ha certo chiesto di nascere. I roknari torturano e uccidono gli uomini colpevoli di sodomia, e i migliori comandanti roknari non tollerano cose del genere a bordo della loro nave, né tra i loro uomini né tra gli schiavi.»

«Ah», commentò Palli, sollevato. Subito dopo, però, non riuscì a trattenersi dal chiedere «E i peggiori comandanti roknari?»

«Con loro, la necessità di mantenere il segreto poteva rivelarsi letale. A me non è mai successo, forse perché ero troppo magro, però alcuni uomini più giovani e i ragazzi più attraenti… Noi schiavi sapevamo che si sacrificavano per tutti e cercavamo di essere gentili con loro. Alcuni piangevano, altri imparavano a sfruttare quella sventura per ottenere favori. Erano ben pochi gli schiavi che nutrivano rancore verso di loro per qualche razione in più o per qualche regalino comprato a così caro prezzo. Inoltre si trattava di un gioco pericoloso, perché i roknari con quel genere d’inclinazioni segrete avevano la tendenza a rivoltarsi contro quei poveretti e a ucciderli, come se, così facendo, potessero cancellare il loro peccato.»

«Mi fai rizzare i capelli in testa», ammise Palli. «Credevo di conoscere il mondo, ma… pare che non sia così. Se non altro, almeno ti è stato risparmiato il peggio.»

«Tu non sai cosa sia il peggio», ribatté Cazaril, cupo. «Una volta sono stato usato per un orribile scherzo durato un intero, infernale pomeriggio… Un’esperienza al cui confronto quello che succedeva ad alcuni ragazzi era una cosa da nulla, e a causa della quale nessun roknari ha corso il rischio di essere impiccato.» Si rese conto di non aver mai raccontato quell’incidente a nessuno, né ai gentili Accoliti del Tempio, né tantomeno a qualcuno nel palazzo della Provincara, per il semplice fatto che fino a quella sera non aveva avuto nessuno con cui poter davvero parlare. «La galea su cui mi trovavo ha commesso l’errore di attaccare un grosso mercantile di Brajar, avvistando le galee di scorta quando ormai era troppo tardi», proseguì, quasi impaziente di potersi sfogare. «Durante l’inseguimento che è seguito, io sono svenuto al remo a causa del calore eccessivo e, per potermi sfruttare lo stesso, il capo vogatore mi ha fatto spogliare e mi ha appeso oltre la murata di poppa, con le mani legate alle caviglie, per farsi beffe degli inseguitori. Non saprei dirti se le quadrelle di balestra che si sono conficcate nella murata e nello scafo, intorno a me, mi hanno mancato perché gli arcieri brajariani avevano una mira scadente o perché hanno evitato di proposito di colpirmi. E non so neppure per quale atto di misericordia degli Dei la mia vita non sia finita quel giorno, con una manciata di frecce conficcata nel posteriore. Forse quei brajariani hanno pensato che fossi un roknari, o forse hanno cercato di porre fine alle mie sofferenze.» Osservando l’espressione sconvolta di Palli, decise di sorvolare sui dettagli più grotteschi e, dopo un istante, riprese: «Come ricorderai, a Gotorget abbiamo vissuto nella paura per mesi di fila, fino ad abituarci a quella sorta di tensione interiore che riuscivamo ormai a ignorare ma che non ci abbandonava mai».

Palli annuì.

«Io però ho scoperto che… Sai, è strano, non so esattamente come spiegarlo… Ho scoperto che esiste un posto al di là della paura, cui arrivi quando il corpo e la mente non sono più in grado di sostenerti, un posto dove il mondo, il tempo… si riorganizzano in qualche modo. Quel pomeriggio, il battito del mio cuore si è rallentato, ho smesso di sudare e di produrre saliva… Sono quasi scivolato in una sorta di trance sacra. Quando i roknari mi hanno appeso lassù, ho pianto per la paura, la vergogna e il disgusto, ma quando finalmente i brajariani hanno rinunciato all’inseguimento e il capo vogatore mi ha fatto tirare giù, coperto di scottature a causa del sole… Be’, stavo ridendo. I roknari hanno creduto che fossi impazzito, e così pure i miei poveri compagni di voga, ma io non credo che si sia trattato di follia. In qualche modo, il mondo mi appariva… nuovo. Naturalmente, il mondo in questione era lungo soltanto qualche dozzina di passi, era fatto di legno e rollava sull’acqua, e lo scorrere del tempo era costituito dal girarsi di una clessidra. Ho imparato quel giorno a pianificare la mia vita ora per ora, come gli altri la pianificano anno per anno; ho scoperto che tutti gli uomini erano splendidi e gentili, roknari e schiavi in pari misura, sangue nobile o plebeo, e che io ero amico di tutti, che mi piaceva sorridere a tutti. Dopo di allora, però, sono sempre stato ben attento a non svenire mentre stavo remando. Per questo motivo, ogni volta che la paura mi affiora nel cuore, ne sono quanto mai lieto, perché è un segno che non sono davvero pazzo, e che forse sto migliorando. Adesso, la paura è mia amica», concluse, sollevando lo sguardo con un sorrisetto contrito.

Palli sedeva con la schiena addossata alla parete, le gambe rigide e gli occhi dilatati, un sorriso forzato dipinto sulle labbra.

«Per i cinque Dei, Palli, perdonami!» esclamò Cazaril, scoppiando a ridere. «Non volevo scaricarti addosso tutte le mie confidenze, addossandoti questo fardello. Quello di cui ti ho gravato è un peso sgradevole e male assortito. Mi dispiace.» Tuttavia pensò che forse aveva parlato proprio perché l’indomani l’amico sarebbe ripartito, e quelle confidenze sarebbero rimaste fra loro.

Palli accantonò le sue scuse con un gesto distratto, poi mosse a vuoto le labbra un paio di volte, deglutì a fatica, e infine riuscì a replicare. «Sei certo che non si sia trattato soltanto di un’insolazione?» chiese.

«Oh, ho avuto anche un’insolazione», ridacchiò Cazaril. «Se non ti uccide, però, un’insolazione non dura più di un paio di giorni, mentre quello stato d’animo si è protratto… per mesi.» Si era protratto fino all’ultimo incidente con quel ragazzo ibrano terrorizzato e tuttavia audace, l’incidente conclusosi con la fustigazione che per poco non lo aveva ucciso. «Noi schiavi…»

«Smettila!» gridò Palli, passandosi le mani tra i capelli.

«Smettere cosa?» domandò Cazaril, perplesso.

«Smettila di dire ’noi schiavi’. Tu sei un nobile di Chalion!»

«Noi nobili, ai nostri remi, suona meglio?» ribatté Cazaril, con un sorriso amaro. «Noi gentiluomini grugnenti, sudati, imprecanti? Non direi proprio, Palli. Sulle galee, non eravamo nobili e neppure uomini: eravamo uomini o animali, e il rientrare nell’una o nell’altra categoria, a quanto ho visto, non è mai dipeso dalla nascita o dal sangue che si aveva nelle vene. L’anima più generosa e grande che ho incontrato là è stata quella di un conciatore di pelli; in questo momento, se apprendessi che è ancora vivo, sarei pronto a baciargli i piedi per la gioia. Noi schiavi, noi nobili, noi uomini e donne, noi mortali, noi trastulli degli Dei… è sempre la stessa cosa, Palli. Adesso, per me, tutte quelle definizioni si equivalgono.»

Con un lungo respiro, Palli cambiò bruscamente argomento, mettendosi a parlare dei piccoli problemi connessi alla gestione della sua scorta, appartenente all’Ordine militare della Figlia. Così Cazaril si trovò a discutere di metodi per impedire che il cuoio dei finimenti marcisse o per curare le infezioni agli zoccoli dei cavalli. Di lì a poco, inoltre, Palli si ritirò per la notte… o, per meglio dire, si diede alla fuga. La sua fu una ritirata in buon ordine, ma fu comunque una ritirata, cosa che non sfuggì a Cazaril.

Rimasto solo, il Castillar si distese sul letto, coi suoi dolori e coi suoi ricordi e, nonostante il banchetto e il vino, impiegò parecchio tempo a prendere sonno. La paura poteva anche essere sua amica — sempre che quell’affermazione non fosse stata una spacconata a beneficio di Palli -, ma era chiaro che i due fratelli dy Jironal non lo erano di certo. Il fatto che i roknari avessero riferito che lui era morto di febbre era una menzogna astuta, perché ormai la sua fondatezza non era più controllabile. La sua unica consolazione era che lì, nella tranquilla Valenda, lui si trovava senza dubbio al riparo da occhi indiscreti. Gli rimaneva soltanto da sperare di aver messo in guardia Palli quanto bastava perché, una volta alla corte di Cardegoss, non finisse per compiere un involontario passo falso.

Giratosi su un fianco, nel buio, Cazaril sussurrò una preghiera alla Signora della Primavera perché proteggesse Palli, poi aggiunse una preghiera a tutti gli Dei, e anche al Bastardo, per tutti coloro che quella notte si trovavano sul mare.

6

Nel corso della processione organizzata dal Tempio per celebrare l’avvento dell’estate, Iselle non venne invitata a rivestire di nuovo il ruolo della Signora della Primavera. Per tradizione, infatti, quel ruolo veniva assegnato a una giovane donna appena sposata e fu quindi una neo sposa timida e riservata che cedette il trono dell’avatar del Dio regnante a una composta matrona in stato di avanzata gravidanza. Quando la cerimonia si concluse senza sorprese spirituali di sorta, Cazaril, con la coda dell’occhio, vide il Divino della Santa Famiglia trarre un sospiro di sollievo.

Con l’avvento del caldo estivo, la vita assunse un ritmo più lento. Le allieve di Cazaril, come pure il loro insegnante, presero a sospirare e a sbadigliare, mentre il sole arroventava le antiche pietre della fortezza. A un certo punto, sudato e stanco quanto le due ragazze, Cazaril decise di annullare per il resto dell’estate tutte le lezioni pomeridiane.

Come Betriz aveva affermato il giorno della festa della primavera, in effetti la Royina Ista pareva stare meglio, adesso che le giornate si erano allungate e il clima si era fatto più caldo, e lo dimostrava la sua presenza più frequente ai pasti e il fatto che quasi tutti i pomeriggi, insieme con le dame di compagnia, si sedeva all’ombra dei nodosi alberi da frutto che crescevano in fondo al giardino della Provincara. Le sue custodi non le permettevano però di salire sui bastioni, che costituivano la meta preferita di Iselle e di Betriz, quando volevano sfuggire all’afa e alla disapprovazione delle persone più anziane, dunque poco propense a salire le scale ripide.

Scacciato dalla sua stanza dall’intollerabile afa che vi regnava in una giornata più che mai calda e caliginosa, seguita a una notte caratterizzata da un temporale di una violenza insolita, Cazaril si avventurò in giardino, alla ricerca di un angolo più confortevole e fresco, stringendo sotto un braccio uno dei pochi libri della misera biblioteca del castello che ancora non aveva avuto modo di leggere, anche se l’opera di Ordol — Il quintuplice sentiero dell’anima. Della vera metodica della teologia quintariana -, non costituiva certo un argomento che lo appassionasse in modo particolare. D’altro canto, forse le pagine del volume che gli si agitavano in grembo avrebbero dato, agli occhi degli eventuali passanti, una parvenza più erudita al sonnellino che senza dubbio avrebbe finito per concedersi. Aggirato il roseto, Cazaril si arrestò di colpo: sulla panchina verso cui si stava dirigendo era seduta la Royina, accompagnata come sempre da una delle sue dame, che aveva un ricamo in grembo. Le due donne alzarono lo sguardo e Cazaril, aggirando due api ronzanti, rivolse loro un inchino, per scusarsi della propria involontaria intrusione.

«Rimanete, Castillar… dy Cazaril, giusto?» mormorò però Ista, non appena lui accennò ad andarsene. «Come procedono gli studi di mia figlia?»

«Molto bene, mia signora», replicò Cazaril, voltandosi verso la Royina e accennando un altro inchino. «È molto portata per l’aritmètica e la geometria, ed è… ecco, diciamo che è costante nello studio del darthacano.»

«Bene, molto bene», commentò Ista, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare sul giardino assolato.

L’altra dama si chinò sul ricamo per annodare un filo. Quanto a Lady Ista, non stava ricamando; Cazaril aveva sentito sussurrare da una cameriera che la Royina e le sue dame avevano lavorato per sei mesi a un elaborato telo per altare destinato al Tempio. Ma proprio quando il lavoro era ormai quasi concluso, la Royina, lasciata sola per un momento, aveva bruciato il telo nel focolare della propria camera. Vera o no che fosse quella storia, rimaneva il fatto che quel giorno Ista non aveva in mano un ricamo, ma soltanto una rosa.

Osservando la Royina, Cazaril cercò invano nei suoi occhi qualcosa che gli indicasse di essere stato riconosciuto. «Mi stavo domandando…» azzardò poi, esitante. «Ecco… volevo chiedervi, mia signora, se per caso vi ricordate di me, giacché in passato ho servito vostro padre in questa casa, in qualità di paggio. Ormai è passata una ventina d’anni, quindi non mi stupirebbe scoprire che non vi rammentate.» Si concesse un breve sorriso, poi si coprì la parte inferiore del viso e aggiunse: «A quel tempo, non avevo la barba».

Ista ricambiò il sorriso e aggrottò la fronte. «Mi dispiace», disse infine. «Il mio defunto padre ha avuto presso di sé molti paggi, nel corso degli anni…»

«È naturale, considerato che era un nobile di alto rango. In ogni caso, non ha importanza», la rassicurò Cazaril, spostando il libro da una mano all’altra per celare la propria delusione e sfoggiando un sorriso di scusa. Era convinto che il mancato riconoscimento di Ista non dipendesse dal suo aspetto, ma piuttosto dal fatto che lei non lo aveva mai notato. Era stata una fanciulla piena di entusiasmo e portata a guardare in avanti e verso l’alto, non verso il basso o alle proprie spalle.

«Oh, no», mormorò in quel momento la dama di compagnia, intenta a cercare qualcosa nel cestino dei fili da ricamo, poi sollevò lo sguardo e studiò Cazaril per un momento, prima di domandare, con un sorriso invitante: «Vi dispiacerebbe rimanere qui a tenere compagnia alla mia signora, mentre io faccio una corsa fino nella mia stanza, per cercare il filo di seta verde?»

«Ma certo, mia signora», rispose Cazaril in modo meccanico. Però poi aggiunse, in tono incerto: «Cioè… ecco…» Scoccò un’occhiata a Ista e negli occhi di lei scorse un lampo d’ironia. Del resto, quella dama non era certo incline alle urla o al pianto. E perfino se piangeva, cosa che Cazaril le aveva visto fare alcune volte, le lacrime le colavano in silenzio lungo le guance. Cazaril rivolse allora alla dama di compagnia un inchino di assenso, e lei si alzò prontamente, prendendolo per un braccio e trascinandolo a una certa distanza dalla panchina, in direzione del roseto.

«Andrà tutto bene», sussurrò, alzandosi in punta di piedi per parlargli nell’orecchio. «Badate soltanto a non nominare Lord dy Lutez e a restarle vicino fino al mio ritorno. Se poi dovesse essere lei a mettersi a parlare del vecchio dy Lutez, ecco… non lasciatela sola.»

La dama si allontanò di corsa, e Cazaril si ritrovò a riflettere su quella situazione rischiosa. Il brillante Lord dy Lutez era stato per trent’anni il più intimo consigliere del defunto Roya Ias. Era stato suo amico d’infanzia, suo compagno d’armi e di baldoria. Nel corso del tempo, Ias gli aveva elargito ogni onore possibile, nominandolo Provincar di due distretti, Cancelliere di Chalion, maresciallo delle sue truppe personali e maestro del ricco Ordine militare del Figlio… il tutto per poter meglio controllare e comandare il resto dei suoi subordinati, almeno a quanto si diceva in giro. Nemici e ammiratori, in pari misura, sostenevano in un sussurro che dy Lutez era Roya di Chalion a tutti gli effetti, tranne che di nome, e che Ias era la sua Royina…

Era stata una debolezza, da parte di Ias, lasciare che fosse dy Lutez a fare per lui il lavoro sporco e ad addossarsi il peso delle proteste dei nobili, lasciando il suo signore libero di fregiarsi dell’appellativo di Ias il Buono? Oppure era stata una mossa astuta? Cazaril se l’era chiesto spesso. Quel soprannome non era certo disprezzabile, ma di gran lunga migliori sarebbero stati Ias il Forte o magari Ias il Saggio o anche Ias il Fortunato, appellativo, quest’ultimo, che nessuno avrebbe mai potuto attribuire al defunto Roya. Era stato dy Lutez a organizzare il secondo matrimonio di Ias con Lady Ista, provvedendo così a smentire la voce persistente che circolava fra i nobili di Cardegoss, relativa all’esistenza di un innaturale legame amoroso fra il Roya e il suo vecchio amico d’infanzia, e tuttavia…

Cinque anni dopo il matrimonio, dy Lutez era caduto in disgrazia presso il Roya, in modo tanto improvviso quanto letale: accusato di tradimento, era morto sotto tortura nelle segrete dello Zangre, la grande fortezza reale di Cardegoss. Al di fuori della corte di Chalion, era corsa la voce che la vera colpa di dy Lutez fosse stata innamorarsi della giovane Royina Ista, mentre nei circoli più ristretti si sussurrava invece che fosse stata Ista a persuadere il marito ad annientare per amor suo un odiato rivale. Quale che fosse l’effettiva disposizione di quel triangolo, rimaneva il fatto che, nella sua geometria di morte, esso era crollato, perdendo una delle tre punte. Quando poi Ias, dopo aver perso la voglia di vivere, si era spento meno di un anno dopo la morte di dy Lutez, di quel triangolo era rimasta soltanto Ista, che aveva preso con sé i figli ed era fuggita dallo Zangre, o forse ne era stata esiliata.

Dy Lutez. Non nominare Lord dy Lutez… Ciò significava non evocare la maggior parte della storia di Chalion che risaliva alla precedente generazione.

Tornato presso la Royina, Cazaril sedette con una certa cautela al posto occupato in precedenza dalla dama di compagnia, notando che Ista aveva cominciato a fare a pezzi la rosa, non con rabbia, ma in maniera pacata e sistematica, strappando i petali e disponendoli accanto a sé sulla panchina secondo un disegno che imitava la loro struttura originale, cerchi dentro altri cerchi, in una spirale diretta verso l’interno.

«I morti mi hanno visitata in sogno, la scorsa notte», disse, nel tono di chi sta riprendendo una conversazione interrotta. «Ma ho pensato che si trattasse soltanto di un sogno falso. Voi ricevete mai le loro visite, Cazaril?»

Lui esitò, ma alla fine decise che Ista era troppo consapevole di sé perché potesse soffrire di demenza. Le sue affermazioni, per quanto contorte, erano chiaramente comprensibili, il che non sarebbe stato se lei fosse stata davvero pazza. «A volte, mi accade con mio padre e mia madre», rispose. «Per breve tempo, in sogno, si muovono e parlano come se fossero vivi… E al risveglio mi assale di nuovo il rimpianto per la loro perdita.»

«I sogni falsi sono caratterizzati da questa tristezza, mentre i sogni veri sono crudeli», annuì Ista. «Gli Dei vi risparmino dal fare sogni veri, inviati da loro, Cazaril.»

«Tutti i miei sogni sono ammassi confusi, che al risveglio si dissolvono come fumo», ribatté lui, accigliandosi, con aria sempre più confusa.

Ista chinò il capo di lato, contemplando la rosa denudata, che mostrava gli stami dorati, sottili come fili di seta e disposti a ventaglio all’interno del cerchio dei petali. «I sogni veri gravano come piombo sul cuore e sullo stomaco, pesano quanto basta per… far annegare la nostra anima nel dolore. I sogni veri ci accompagnano di giorno, da svegli, e tuttavia è certo che finiranno per tradirci, come qualsiasi uomo in carne e ossa è pronto a rimangiarsi le promesse fatte. Non fidatevi dei sogni, Castillar, e neppure delle promesse degli uomini.» Sollevò lo sguardo dai petali con un’espressione improvvisamente molto intensa.

«No di certo, mia signora, fidarsi sarebbe da stolti», replicò Cazaril, schiarendosi la gola. «Però è piacevole vedere mio padre, di tanto in tanto, considerato che non potrò mai più vederlo in altro modo.»

«Non temete i vostri morti?» domandò Ista, con uno strano sorriso in tralice.

«No, mia signora, non nei sogni.»

«Forse i vostri morti non sono persone temibili.»

«Per la maggior parte no, mia signora», annuì Cazaril.

Sulla parete della fortezza, una finestra si spalancò, e la dama di compagnia di Ista si affacciò per scrutare il giardino; apparentemente rassicurata dalla vista della sua signora impegnata in una tranquilla conversazione col trasandato tutore, la donna agitò una mano in un gesto di saluto e scomparve all’interno.

Tornando a osservare la Royina, si chiese come facesse quella donna a passare il tempo, considerato che non gli era mai accaduto di vederla leggere o cucire e che non aveva musici al suo seguito. Gli era capitato di vederla pregare per ore intere nella sala degli antenati o davanti al piccolo altare portatile nelle sue camere, oppure, più raramente, presso il Tempio cittadino, dove veniva scortata dalle sue dame e da dy Ferrej, benché mai nei momenti di maggiore affollamento. In altri periodi, invece, passavano intere settimane senza che Ista sembrasse rammentare anche soltanto l’esistenza degli Dei.

«Trovate molta consolazione nella preghiera, mia signora?» domandò infine Cazaril, spinto dalla curiosità per quello strano comportamento.

«Io?» ribatté la dama, sollevando lo sguardo, mentre il suo sorriso si faceva meno spontaneo. «Io non trovo più molta consolazione da nessuna parte. Senza dubbio, gli Dei si sono fatti beffe di me, e sarei lieta di restituire loro il favore, se non fosse che hanno il mio cuore e il mio respiro in ostaggio, prigionieri del loro minimo capriccio. I miei figli sono prigionieri della sorte, e la sorte è impazzita, qui a Chalion.»

«Credo ci siano prigioni peggiori di questa soleggiata fortezza, mia signora», osò replicare Cazaril.

«Oh, sì», annuì lei, inarcando le sopracciglia e appoggiandosi allo schienale della panchina. «Siete mai stato alla fortezza di Zangre, a Cardegoss?»

«Sì, quand’ero più giovane, ma non di recente. È un palazzo molto vasto, e mi ci perdevo di continuo.»

«Strano. Anch’io mi sono persa là… Sapete, è infestato dai fantasmi.»

Cazaril si concesse qualche istante per vagliare quel commento, offerto come un dato di fatto. «La cosa non mi stupisce», replicò quindi. «È nella natura di una. grande fortezza che molti muoiano nel costruirla, difenderla o conquistarla… Uomini di Chalion, i famosi costruttori roknari che ci hanno preceduti, i primi re e gli uomini vissuti ancora prima, che senza dubbio, all’alba dei tempi, trovavano rifugio nelle grotte sottostanti la fortezza. Il castello di Zangre è più antico di Chalion e senza dubbio deve aver… accumulato anime.» Essendo stata la dimora dei Roya e dei loro nobili per generazioni, la fortezza di Zangre aveva ospitato schiere e schiere di uomini e donne che avevano concluso la loro vita al suo interno, alcuni in modo spettacolare… altri scomparendo con la massima segretezza.

Lentamente, Ista cominciò a rimuovere le spine dallo stelo della rosa, allineandole in fila, come i denti di una sega. «Sì, essa accumula… questa è la definizione esatta. Raccoglie calamità come una cisterna, come le sue grondaie raccolgono l’acqua piovana. Farete bene a evitare lo Zangre, Cazaril.»

«Non ho nessun desiderio di recarmi a corte, mia signora.»

«Io lo desideravo, un tempo, con tutto il mio cuore. Sapete, le peggiori maledizioni inflitte dagli Dei si manifestano come una risposta alle nostre preghiere. Le preghiere sono una cosa pericolosa, tanto che credo dovrebbero essere dichiarate illegali», dichiarò Ista, procedendo a sbucciare lo stelo della rosa, staccandone sottili strisce verdi e mettendo così in mostra il candore sottostante.

Non sapendo cosa replicare, Cazaril si limitò a un sorriso esitante.

«A Lord dy Lutez era stata fatta una profezia, secondo la quale non sarebbe mai annegato, se non sulla cima di una montagna», riprese Ista, aprendo in due quel che restava dello stelo. «Da allora, lui non ha mai più avuto paura di nuotare, per quanto alte potessero essere le onde, perché tutti sanno che non ci può essere acqua sulla cima di una montagna, in quanto tutti i fiumi scorrono verso valle.»

Cercando di soffocare un’ondata di panico, Cazaril si guardò intorno con discrezione, sperando di veder tornare la dama di compagnia, che però ancora non si scorgeva. A dar retta alle voci, Lord dy Lutez era morto mentre veniva sottoposto alla tortura dell’acqua, nelle segrete dello Zangre, cioè nelle viscere del castello che sorgeva sulla collina sovrastante la città di Cardegoss. «È una cosa di cui non ho mai sentito parlare, quando quel nobile era ancora in vita», azzardò, umettandosi nervosamente le labbra aride. «Secondo me, è una storia inventata in seguito, per dare un alone di terrore alla sua morte. In genere, le giustificazioni emergono a posteriori, soprattutto dopo una caduta… spettacolare come la sua.»

Socchiudendo le labbra in uno stranissimo sorriso, Ista finì di separare in due lo stelo e se lo appoggiò sulle ginocchia, appiattendolo. «Povero Cazaril!» esclamò. «Come avete fatto a diventare tanto saggio?»

Lui poté evitare di rispondere perché, in quel momento, la dama di compagnia di Ista riapparve, tenendo in mano una matassa di filo colorato. Scattando in piedi, lui si affrettò a rivolgere un inchino alla Royina. «La vostra dama di compagnia sta tornando…» annunciò, avviandosi.

Nell’incrociare la donna, che si stava avvicinando in tutta fretta, accennò un inchino anche nella sua direzione.

«Si è comportata bene, mio signore?» sussurrò la dama.

«Sì, alla perfezione», annuì Cazaril, anche se avrebbe voluto aggiungere: a modo suo…

«Non ha detto nulla di dy Lutez?»

«Nulla… d’importante», replicò il Castillar. Non aveva certo intenzione di riferire quel dialogo.

Con un respiro di sollievo, la dama di compagnia si concesse un momento per assumere un’espressione sorridente, poi cominciò a chiacchierare di tutte le cose che aveva dovuto spostare per trovare il filo mancante, mentre Ista la fissava con annoiata tolleranza. Del resto, come Cazaril rifletté nel contemplare la scena, era impossibile che la figlia della Provincara nonché madre di una fanciulla sveglia come Iselle fosse mentalmente ritardata. D’altro canto, se Ista parlava alle sue ottuse dame di compagnia nello stesso modo ermetico che aveva usato con lui, saltando da un argomento all’altro, non c’era da meravigliarsi che la considerassero pazza. Tuttavia Cazaril aveva l’impressione che quelle sue affermazioni oscure non fossero tali per un problema mentale, ma perché lei si esprimeva in una sorta di linguaggio cifrato, dotato di una sua elusiva coerenza, se si disponeva della chiave giusta per decifrarlo. Lui però non possedeva quella chiave, e comunque gli era capitato d’incontrare alcuni folli che sembravano possedere quella velata forma di coerenza nel parlare. Serrando il libro, andò a cercare un angolo ombroso che non fosse già occupato da persone tanto sconcertanti.

L’estate stava progredendo con un passo pigro che armonizzava con lo stato fisico e mentale di Cazaril, ma non si poteva dire lo stesso per il povero Teidez, che risentiva invece della forzata inattività, in quanto le spedizioni di caccia gli erano state proibite dalla calura, dal tipo di stagione e dal suo tutore. Nell’osservarlo abbattere qualche coniglio con la balestra nella frescura dell’alba nebbiosa, intorno alle mura del castello, tra gli applausi dei giardinieri, Cazaril pensò ancora una volta che quel ragazzo accaldato, irrequieto e grassoccio sembrava davvero fuori stagione; a suo parere Teidez era infatti l’incarnazione di un Devoto al Figlio dell’Autunno, Dio della caccia, della guerra e di un clima più fresco.

Un giorno, mentre stava andando a pranzo, Cazaril rimase sorpreso nel vedersi avvicinare da Teidez e dal suo tutore. I due dovevano essere nel bel mezzo di una delle loro solite discussioni, almeno a giudicare dai volti arrossati.

«Lord Caz!» esclamò Teidez, col fiato corto per il caldo e la foga. «Non è forse vero che il maestro d’armi del vecchio Provincar conduceva i paggi al mattatoio perché affrontassero e abbattessero i giovani tori? Così insegnava loro ad avere coraggio in un vero combattimento, invece di limitarsi a farli saltellare nel cerchio per i duelli, con una spada in mano.»

«Ecco, in effetti…» cominciò Cazaril.

«Cosa vi avevo detto?» sbottò Teidez, rivolto a dy Sanda.

«Però ci esercitavamo anche nel cerchio», fu pronto ad aggiungere Cazaril, in caso dy Sanda avesse bisogno della sua solidarietà.

«L’abbattimento dei tori è un’antica pratica contadina, Royse, e non si adatta all’addestramento dei nobili», dichiarò dy Sanda, con una smorfia. «Voi siete destinato a diventare un gentiluomo, se non qualcosa di più… Non certo l’apprendista di un macellaio.»

La Provincara non aveva alle sue dipendenze un maestro d’armi, quindi aveva trovato al Royse un tutore che fosse anche un esperto spadaccino. Avendo assistito a qualche sessione di addestramento del giovane Royse, Cazaril rispettava l’abilità e la precisione di dy Sanda, le cui mosse erano caratterizzate da una grande correttezza. Se però dy Sanda conosceva anche tutti quei disperati, brutali trucchi che permettevano agli uomini di sopravvivere in battaglia, non pareva intenzionato a insegnarli a Teidez.

«Il maestro d’armi non ci stava addestrando per fare di noi dei gentiluomini, ma perché diventassimo soldati», affermò Cazaril, con un sorriso. «A favore del suo metodo, posso dire che qualsiasi campo di battaglia da me visto somigliava più a un mattatoio che a un cerchio per i duelli. Per quanto sgradevole, la sua tecnica ci ha permesso d’imparare il nostro mestiere, e non ha comportato nessuno spreco. Non credo infatti che, alla fine della giornata, ai tori abbattuti importasse se erano morti per mano di uno stolto armato di spada che li aveva inseguiti per un’ora o a causa di un colpo di maglio sul cranio.» Lui non aveva mai gradito prolungare quell’esperienza più del dovuto, come facevano alcuni dei suoi compagni, che avviavano un macabro e pericoloso gioco con quegli animali infuriati. Con un po’ di pratica, aveva imparato ad abbattere il toro con un affondo di spada, in modo preciso e rapido proprio come un macellaio. «L’unica differenza, ve lo concedo, è che sul campo di battaglia non mangiavamo ciò che abbattevamo… tranne a volte i cavalli.»

Di fronte a quella macabra battuta, dy Sanda s’irrigidì con aria di disapprovazione. «Domattina, se il clima rimarrà sereno, potremmo uscire coi falchi, mio signore…» propose poi, cercando di placare il suo allievo. «Sempre che voi prima risolviate quel problema con la cartografia…»

«Falchi e piccioni… un divertimento per dame! Piccioni! Che m’importa dei piccioni?» ribatté Teidez e, con una nota di malinconia nella voce, aggiunse: «Alla corte del Roya, a Cardegoss, in autunno danno la caccia ai cinghiali, nella foresta di querce. Quello è un vero svago per uomini. Dicono che i cinghiali siano pericolosi!»

«Verissimo», annuì Cazaril. «Le loro grosse zanne possono sventrare un cane, un cavallo o anche un uomo… e sono più veloci di quanto si possa supporre.»

«Avete mai cacciato, a Cardegoss?» chiese Teidez, pieno di entusiasmo.

«A volte, quand’ero là, ho seguito a caccia il mio signore, dy Guarida.»

«A Valenda non ci sono cinghiali», sospirò Teidez. «Però abbiamo i tori! È pur sempre qualcosa, meglio dei piccioni… o dei conigli!»

Dy Sanda reagì scoccandogli un’occhiata di fuoco. Quanto a Cazaril, si congedò con un inchino e con un sorriso, lasciando Teidez a tempestare il suo tutore con le proprie richieste.

Durante il pranzo di mezzogiorno, poi, Iselle sollevò una questione simile a quella intavolata dal fratello, anche se l’autorità presa di mira era quella della nonna, e non del suo tutore. «Nonna, fa così caldo!» esclamò. «Perché non possiamo andare a nuotare nel fiume, come fa Teidez?»

Con l’intensificarsi della calura estiva, le cavalcate che il Royse si concedeva di pomeriggio in compagnia del tutore, degli stallieri e dei paggi erano state sostituite da nuotate pomeridiane in una polla riparata che il fiume formava poco lontano da Valenda. Era lo stesso luogo che gli accaldati abitanti del castello frequentavano all’epoca in cui Cazaril era ancora un paggio. Le dame, naturalmente, erano escluse da simili escursioni e, fino ad allora, Cazaril si era sempre rifiutato di prendervi parte, trincerandosi dietro i doveri nei confronti di Iselle. In realtà, se si fosse spogliato per nuotare, avrebbe messo in mostra la storia di sofferenza scritta sulla sua pelle, una storia che non gli andava di raccontare. Il ricordo del fraintendimento col gestore nei bagni pubblici lo mortificava ancora.

«Assolutamente no!» esclamò la Provincara. «Sarebbe una cosa quanto mai sconveniente.»

«Non con lui, certo», insistette Iselle. «Potremmo formare un gruppo di sole dame. Voi mi avete detto che le dame del castello andavano a nuotare, quand’eravate un paggio!» aggiunse, rivolta a Cazaril.

«Le serve, Iselle», specificò la nonna, in tono stanco. «Gente di basso rango. Non è un passatempo adatto a te.»

Iselle si accasciò sulla sedia, cupa e accaldata in volto. Anche Betriz appariva abbattuta, ma la calura la rendeva pallida e sfiorita. Di lì a poco, venne servita la zuppa, e tutti fissarono quelle ciotole fumanti quasi con repulsione. Pronta come sempre a dare l’esempio, la Provincara prese il cucchiaio e cominciò a mangiare, con fare deciso.

«Però Lady Iselle sa nuotare, vero, Vostra Grazia?» domandò d’un tratto Cazaril. «Voglio dire, posso presumere che le sia stato insegnato, quand’era più piccola?»

«No, è ovvio», dichiarò la Provincara.

«Oh, Dei», gemette Cazaril, poi si guardò intorno per essere certo che la Royina Ista non fosse a tavola con loro, non volendo far riaffiorare in sua presenza un certo argomento per lei ossessivo. Tranquillizzato, si azzardò ad aggiungere: «Questo mi richiama alla mente un’orribile tragedia di cui sono stato testimone».

Socchiudendo gli occhi con sospetto, la Provincara si guardò bene dall’abboccare a quell’amo, cosa che fece però Betriz. «Davvero? E quale?» domandò.

«È successo quando cavalcavo agli ordini del Provincar della Guarida, nel corso di una serie di scontri contro il principe roknari Olus», rispose Cazaril. «Approfittando della copertura fornita da una notte di tempesta, le truppe di Olus hanno effettuato una scorreria oltre il confine, e a me è stato ordinato di far uscire le dame dalla fortezza di dy Guarida prima che la città venisse circondata. Verso l’alba, dopo aver cavalcato per metà della notte, abbiamo attraversato un fiume in piena. Il cavallo di una delle dame di compagnia della Provincara è scivolato e la donna è stata trascinata via dalla corrente, insieme col paggio che ha cercato di aiutarla. Nel tempo che ho impiegato a girare il cavallo erano già scomparsi alla vista… Abbiamo trovato i corpi più a valle, l’indomani mattina. Il fiume non era molto profondo, ma quella dama ha ceduto al panico perché non sapeva nuotare. Un po’ di addestramento avrebbe potuto trasformare un fatale incidente in un semplice spavento, e salvare tre vite.»

«Tre vite?» interloquì Iselle. «La dama, il paggio…»

«Quella dama aspettava un bambino.»

«Oh.»

Sulla tavola scese un profondo silenzio.

«È una storia vera, Castillar?» domandò infine la Provincara, scrutando Cazaril.

«Sì», sospirò questi, ricordando la pelle livida, fredda e inerte come argilla di quella donna e i suoi indumenti intrisi d’acqua, pesanti quanto il macigno che sembrava opprimergli il cuore in quel momento. «Ho dovuto provvedere io a informare il marito di quella dama.»

«Uh», grugnì dy Ferrej. Per quanto di solito fosse il più abile a raccontare storie a effetto, per una volta tacque.

«È un’esperienza che spero di non dover ripetere mai più», aggiunse Cazaril.

Sbuffando, la Provincara distolse lo sguardo. «D’altro canto, mia nipote non può certo andare a divertirsi nel fiume nuda come un’anguilla!» borbottò dopo un momento.

«Se però indossassimo… sottovesti di lino?» propose Iselle.

«In effetti, se si deve imparare a nuotare in previsione di qualche emergenza, è meglio abituarsi al peso dei vestiti», fu pronto ad aggiungere Cazaril.

«Inoltre in questo modo ci porremmo rinfrescare due volte:

prima nuotando e poi rimanendo sedute ad asciugarci», aggiunse Betriz, in tono quasi sognante.

«Non c’è qualche dama che possa insegnare a Lady Iselle a nuotare?» insistette Cazaril.

«Nessuna delle mie dame sa nuotare», dichiarò la Provincara.

«Si limitano a camminare nell’acqua bassa», annuì Betriz, a titolo di conferma. Quindi sollevò lo sguardo e lo appuntò su Cazaril. «Non potreste insegnarci voi a nuotare, Lord Caz?»

«Oh, sì!» esclamò Iselle, battendo le mani.

«Io… ecco…» balbettò lui, preso in contropiede. Tuttavia rifletté che, essendo in compagnia di due dame, poteva tenere addosso la camicia senza suscitare commenti. «Suppongo di sì…» disse allora. «Certo, se le vostre dame ci accompagnassero e col consenso di vostra nonna…» E guardò la Provincara.

Seguì un’altra, lunga pausa di silenzio.

«Badate a non prendere tutti un raffreddore», acconsentì infine la Provincara, con riluttanza.

Saggiamente, Iselle e Betriz si trattennero dal lanciare grida di trionfo, ma scoccarono a Cazaril occhiate così scintillanti di gratitudine da indurlo a chiedersi se fossero convinte che la storia di quell’annegamento notturno non fosse stata solo una sua invenzione.

Le lezioni cominciarono quello stesso pomeriggio, con Cazaril nel centro del fiume, impegnato a convincere due giovani donne, alquanto irrigidite dalla paura, che non sarebbero annegate nell’istante stesso in cui si fossero bagnate i capelli. Il suo timore di aver esagerato nelle ammonizioni per salvaguardare la loro sicurezza si placò a mano a mano che le due giovani si rilassarono, imparando a lasciarsi sorreggere dall’acqua. Per loro, inoltre, era più facile che per Cazaril, il cui fisico appariva ancora molto asciutto, sebbene i mesi trascorsi presso la Provincara, mangiando alla sua tavola, avessero rimediato almeno in parte alla sua eccessiva magrezza.

La sua pazienza venne ben presto premiata. Entro la fine dell’estate le due ragazze furono in grado di nuotare e di tuffarsi come due lontre, mentre lui se ne rimaneva seduto nell’acqua bassa, immerso fino alla cintura, offrendo di tanto in tanto qualche suggerimento.

La posizione adottata non dipendeva soltanto dal desiderio di mantenersi fresco. Doveva ammettere che la Provincara aveva avuto ragione nel sostenere che nuotare era un’attività lasciva: quelle sottili camiciole di lino, una volta bagnate, aderivano ai giovani corpi delle due dame, facendosi beffe della modestia che cercavano di preservare e creando un effetto che lui evitava accuratamente di rivelare alle due damigelle, indifferenti a tutto, tranne che a rinfrescarsi e a divertirsi. La cosa peggiore, però, era che si trattava di un effetto a doppio taglio, in quanto i calzoni di lino fradici che gli aderivano ai lombi rivelavano uno stato mentale e fisico… Sì, insomma, un rifiorire, della sua salute che lui sperava sinceramente di far passare inosservato. Iselle non pareva essersi accorta di nulla, ma lui non si sentiva altrettanto certo che la cosa fosse sfuggita a Betriz; quanto all’anziana dama di compagnia, Nan dy Vrit, che aveva rifiutato le lezioni e preferiva passeggiare nell’acqua bassa con le gonne sollevate fino ai polpacci, era evidente che non le era sfuggito assolutamente nulla. D’altro canto, la dama sembrava abbastanza caritatevole da pensare che lui non avesse cattive intenzioni, ed evitava di ridere apertamente o di fare commenti in merito con la Provincara… almeno per quanto ne sapeva lui.

Cazaril era inoltre sgradevolmente consapevole del fatto che il fascino esercitato su di lui da Betriz aumentava di giorno in giorno. Ma non era certo arrivato al punto d’infilare poesie anonime sotto la sua porta, conservando un brandello di sanità mentale di cui non poteva che rendere grazie agli Dei. Per sua fortuna, le lesioni subite gli impedivano altresì di andare a suonare il liuto sotto le finestre della ragazza… Tuttavia, nel corso di quella lunga e tranquilla estate vissuta a Valenda, nel suo animo era riaffiorata la capacità di pensare a una vita che andasse al di là del semplice girarsi di una clessidra.

Betriz gli sorrideva ed era gentile nei suoi confronti, ma Cazaril non intendeva farsi illusioni e si diceva spesso che la ragazza si comportava nello stesso modo col suo cavallo. La sua onesta e amabile cortesia non era certo un terreno adatto a costruire un castello di speranze, e tantomeno di aspettative più concrete, eppure… lei continuava a sorridergli.

Cazaril aveva già cercato di cancellare quei pensieri, ma essi continuavano ad affiorare… insieme con altre cose. E purtroppo ciò accadeva soprattutto durante le lezioni di nuoto. D’altro canto, lui aveva rinunciato a ogni ambizione, deciso com’era a non coprirsi di ridicolo più di quanto non avesse già fatto. Se pure quel risveglio dei sensi poteva essere il segno di una ritrovata salute, a cosa poteva mai servirgli? Lui era privo di averi e di possedimenti, proprio come lo era stato al tempo in cui serviva come paggio in quella stessa casa. E le sue speranze, rispetto a quell’epoca, erano davvero pochissime… Sì, era folle da parte sua coltivare sogni passionali o amorosi. Tuttavia il padre di Betriz era di buona famiglia, ma privo di terre, e prestava servizio presso la famiglia della Provincara, dunque non avrebbe disprezzato un uomo costretto — dalle necessità della vita — a fare le sue stesse scelte.

No, certo, dy Ferrej era troppo saggio per nutrire disprezzo nei suoi confronti, e lo era abbastanza da sapere che sua figlia, grazie alla sua bellezza e alla sua amicizia con la Royesse, poteva aspirare a un partito migliore di un nullatenente come Cazaril o dei figli di nobili minori che prestavano servizio come paggi presso la Provincara. A giudicare dal suo comportamento, Betriz vedeva quei ragazzi soltanto come cuccioli irritanti, ma senza dubbio alcuni di essi avevano fratelli maggiori, eredi di piccole tenute…

Quel giorno, Cazaril si lasciò scivolare nell’acqua fino al mento e socchiuse gli occhi, fingendo di non osservare le manovre di Betriz, mentre lei si arrampicava su una roccia, la camiciola di lino grondante quanto i capelli neri, l’acqua che colava sulle curve provocanti. Protendendo le braccia verso il cielo, Betriz si lasciò cadere nell’acqua a faccia in giù, schizzando Iselle che s’immerse con uno strillo e prese a schizzarla a sua volta. Cazaril pensò che le giornate si stavano accorciando, le notti si erano fatte più fredde e anche la temperatura pomeridiana aveva cominciato ad abbassarsi. La festa per celebrare l’ascesa del Figlio dell’Autunno si stava avvicinando. Già la settimana precedente aveva fatto troppo freddo per nuotare e, con ogni probabilità, i giorni abbastanza caldi da consigliare quelle escursioni al fiume sarebbero stati ormai pochissimi. Ben presto, le due dame si sarebbero dedicate di nuovo a passatempi più… asciutti, come cacce e galoppate, e il suo buon senso sarebbe tornato ad affiorare. Almeno così lui si augurava.

Quel giorno, il progressivo abbassarsi del sole e il raffreddarsi dell’aria indussero i bagnanti a uscire dall’acqua prima del solito, per asciugarsi sulle rive sassose del fiume. Mentre aspettavano che gli abiti smettessero di grondare, Cazaril era così rilassato da non avere, per una volta, voglia d’imporsi; non cercò neppure d’indurre le ragazze a chiacchierare in darthacano o in roknari. Dopo qualche tempo, infine si riscosse e s’infilò i pesanti calzoni da equitazione e gli stivali nuovi, dono della Provincara, affibbiandosi alla vita la cintura con la spada, poi procedette a stringere la cinghia della sella dei cavalli intenti a pascolare e a rimuovere le pastoie, aiutando infine le due dame a montare. Con riluttanza, voltandosi più volte a guardare in direzione della piccola radura che ospitava la polla, il gruppetto si avviò su per la collina, diretto al castello.

Sulla spinta di un impulso improvviso, Cazaril spronò il cavallo in modo da affiancarlo a quello di Betriz, che gli scoccò un’occhiata in tralice, accompagnata da un fugace sorriso. Una volta accanto a lei, tuttavia, Cazaril scoprì di non sapere che cosa dire, per mancanza di coraggio o per carenza d’inventiva, o più probabilmente per entrambi i motivi. Lui e Lady Betriz prestavano entrambi servizio presso Lady Iselle e, se un suo maldestro tentativo di corteggiamento fosse stato male accolto, la cosa avrebbe danneggiato la familiarità creatasi tra loro, quell’armonia che li aiutava a svolgere i loro compiti al servizio della Royesse. Vincendo le proprie esitazioni, Cazaril infine decise che bisognava dire qualcosa… ma proprio in quel momento il cavallo di Betriz scattò in avanti al trotto nell’avvistare il portone del castello, e quel prezioso, fugace istante passò.

Nel momento stesso in cui entrarono nel cortile, che risuonò cupamente del rumore degli zoccoli sull’acciottolato, Teidez sbucò a precipizio da una porta laterale. «Iselle! Iselle!» chiamò, a gran voce.

Nel vedere che la tunica e i calzoni del ragazzo erano schizzati di sangue, Cazaril portò immediatamente la mano alla spada. Subito dopo, però, scorse la figura cupa e impolverata di dy Sanda dietro il suo giovane protetto e la ritrasse. L’aspetto di Teidez era soltanto il risultato di una sessione di addestramento nel mattatoio, e la causa delle sue grida non era l’orrore, bensì l’esaltazione, come dimostrava la gioia sul suo volto rotondo, sollevato verso la sorella.

«Iselle, è successa una cosa meravigliosa! Prova a indovinare?»

«Come faccio a indovinare…» cominciò la Royesse, ridendo.

Con un gesto d’impazienza, Teidez si affrettò a riferire la portentosa notizia. «È appena arrivato un corriere del Roya Orico. Tu e io abbiamo l’ordine di presentarci a lui a corte, quest’autunno, a Cardegoss! E la mamma e la nonna non sono state invitate! Iselle, finalmente riusciremo a fuggire da Valenda!»

«Andremo al castello di Zangre?» gridò Iselle, ululando di gioia, poi scivolò giù di sella e afferrò le mani insanguinate del fratello, vorticando con lui in mezzo al cortile, mentre Betriz si appoggiava in avanti sulla sella e osservava la scena, le labbra socchiuse in un’espressione eccitata ed entusiasta.

Alle spalle delle ragazze, la dama di compagnia contrasse invece la bocca in una smorfia di preoccupazione e, nel guardare dy Sanda, Cazaril constatò che anche il volto del tutore appariva cupo e accigliato.

Fu soltanto un momento più tardi, afferrando le conseguenze che quella notizia aveva per lui, che Cazaril sentì un nodo allo stomaco. Alla Royesse Iselle era stato ordinato di recarsi a corte, il che significava che il suo piccolo seguito l’avrebbe accompagnata a Cardegoss, compresi la sua dama di compagnia, Lady Betriz e… il suo segretario.

7

La carovana che accompagnava il Royse e la Royesse si avvicinò a Cardegoss dalla strada meridionale, risalendo a fatica un’ultima altura per poi trovare la vasta pianura che si stendeva davanti a essa, annidata tra le montagne. Respirando a fondo, Cazaril assaporò l’aroma tagliente del vento teso, conseguenza della fredda pioggia che, la notte precedente, aveva ripulito l’aria. Ammassi di nubi color ardesia si accalcavano ancora verso est, seguendo i contorni delle cime azzurrine, che limitavano l’orizzonte; da occidente, la luce del sole fendeva la pianura come una spada incandescente. Ergendosi sulla grande sporgenza di roccia che dominava la congiunzione dei due fiumi, le pianure, i passi montani e l’occhio di chiunque contemplasse quel panorama, la fortezza di Zangre coglieva in pieno quella luce e brillava come oro fuso sullo sfondo delle nuvole sempre più lontane, con le torri di pietra color ocra coronate da tetti di ardesia dello stesso colore delle nubi in corsa, simili a una schiera di elmi d’acciaio che proteggessero un coraggioso drappello di soldati. Seggio preferito dei Roya di Chalion da generazioni, il castello di Zangre aveva prevalentemente l’aspetto di una fortezza e sembrava dedicata alla guerra al pari di qualsiasi soldato-fratello votato ai sacri ordini militari che servivano gli Dei.

Spingendo il proprio cavallo nero in modo da affiancarlo al baio di Cazaril, il giovane Teidez indugiò a fissare la loro meta con un’espressione nel contempo ammirata e avida. Senza dubbio, in lui c’era il desiderio di veder realizzata la promessa di una vita più libera, priva delle costrizioni imposte da madri e nonne. D’altro canto, Teidez sarebbe stato molto stupido se in quel momento non si fosse chiesto quali possibilità c’erano che quello scintillante capolavoro di pietra potesse diventare suo. E Teidez non era affatto stupido. Per quale altro motivo era stato chiamato a corte, se non perché Orico, disperando ormai di avere un Erede diretto, aveva deciso di prepararlo a succedergli sul trono?

Arrestato a sua volta il pomellato grigio su cui era montata, Iselle indugiò a fissare il castello con avidità quasi pari a quella di Teidez. «È strano, lo ricordavo più grande», commentò infine.

«Aspetta di essere più vicina», le consigliò Cazaril.

Ser dy Sanda, in testa alla colonna, segnalò di riprendere la marcia, e l’intera processione di cavalieri e di muli da soma si avviò di nuovo lungo la strada fangosa. La carovana comprendeva i due giovani di sangue reale, i loro segretari-tutori, Lady Betriz, alcuni servitori e stallieri, una scorta armata che sfoggiava la livrea verde e nera della Baocia, cavalli di scorta, Fiocco di Neve — che ormai si poteva ribattezzare Palla di Fango — e una considerevole quantità di bagagli. Avendo una lunga esperienza di quegli spostamenti — segnati dalle interminabili, irritate lamentele delle nobildonne -, Cazaril valutò alla stregua di un miracolo la rapidità con cui si era svolto il viaggio: avevano impiegato soltanto quattro giorni e mezzo per arrivare fin lì da Valenda. Abilmente coadiuvata da Betriz, la Royesse Iselle aveva gestito il suo seguito con decisione ed efficienza. Nessuna delle inevitabili cause di ritardo che si erano presentate si poteva attribuire a qualche suo capriccio femminile.

A dire il vero tanto Teidez quanto Iselle avevano costretto il loro seguito a mantenere l’andatura più rapida possibile fin dal momento in cui erano usciti da Valenda, precedendo al galoppo il resto del convoglio per allontanarsi dai lamenti angosciosi di Ista, che echeggiavano perfino al di là dei bastioni. Iselle era arrivata al punto di premersi le mani sulle orecchie e di guidare il cavallo soltanto con le ginocchia finché non si era allontanata abbastanza da sottrarsi alle eccessive manifestazioni di dolore della madre.

La notizia che i suoi figli stavano per allontanarsi da lei, per ordine regio, aveva fatto sprofondare la Royina Vedova in uno stato che, pur non essendo di vera e propria follia, era senza dubbio improntato a una profonda disperazione. Ista aveva pianto, pregato e protestato con tanta veemenza che, quando infine si era chiusa nel silenzio, tutti avevano sospirato di sollievo. Prima della partenza, dy Sanda aveva confidato a Cazaril di essere stato preso in disparte dalla Royina, che aveva cercato di corromperlo per indurlo a fuggire con Teidez. Ma dalle sue parole — che dy Sanda aveva definito farneticanti e sconclusionate — non si era capito né come né dove.

La notte precedente la partenza, Ista era andata a cercare anche Cazaril, trovandolo nella sua stanza, intento a riporre le proprie cose nelle sacche da sella. Nel suo caso, però, la conversazione si era svolta in maniera diversa o quantomeno non era stata farneticante.

Per un lungo, snervante momento, Ista si era limitata a fissarlo. «Avete paura, Cazaril?» aveva chiesto poi, senza preamboli.

«Sì, mia signora», aveva risposto lui, con sincerità, dopo una breve riflessione.

«Dy Sanda è uno stolto. Se non altro, voi non lo siete», aveva dichiarato la Royina.

Non sapendo come ribattere, Cazaril si era limitato a un cortese cenno del capo.

«Proteggete Iselle», aveva proseguito la dama, con occhi d’un tratto dilatati dal timore. «Se mai mi avete amata, giurate sul vostro onore di proteggerla. Giuratelo, Cazaril!»

«Lo giuro.»

Ista lo aveva scrutato in volto, ma non aveva chiesto promesse più elaborate né ulteriori rassicurazioni.

«Da che cosa dovrò proteggerla?» si era comunque azzardato a chiedere Cazaril. «Cosa temete, Lady Ista?»

Lei era rimasta in silenzio, sotto la luce delle candele.

«Mia signora, vi prego, non mi mandate in battaglia alla cieca», aveva insistito Cazaril, ricordando la supplica analoga formulata da Palli.

Sbuffando, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, Ista aveva scosso il capo con aria disperata, si era girata di scatto e aveva lasciato di corsa la stanza, seguita dalla sua dama di compagnia, che sembrava ansiosa ed esasperata nel contempo.

Ormai la meta era vicina e l’eccitazione dei suoi giovani compagni di viaggio stava gradualmente scacciando dall’animo di Cazaril il ricordo della contagiosa inquietudine di Ista. Più avanti, la strada incontrava il fiume che usciva da Cardegoss, e procedeva parallelamente a esso, addentrandosi in un’area boschiva. Più avanti, c’era un altro corso d’acqua, che confluiva nel primo. Una gelida corrente d’aria attraversava la valle ombreggiata e, sulla riva del fiume opposta rispetto alla strada, s’innalzava una parete di roccia alta almeno trecento piedi, coperta di felci e con qualche stento alberello che cresceva nelle fenditure.

Soffermandosi vicino a quel bastione naturale, Iselle levò lo sguardo, mentre Cazaril si arrestava accanto a lei. Da quel punto, era impossibile vedere dove cominciavano le misere aggiunte difensive che i costruttori umani avevano posto sulla sommità di quel muro naturale.

«Oh!» mormorò Iselle.

«Per gli Dei!» esclamò Betriz, raggiungendoli e gettando a sua volta indietro il capo per guardare.

«In tutta la sua storia, la fortezza di Zangre non è mai stata conquistata con un assalto diretto», commentò Cazaril.

«Capisco», mormorò Betriz.

Alcune foglie gialle, segnali dell’autunno imminente, scivolarono via sulle acque scure del fiume mentre il gruppo riprendeva la marcia, uscendo dalla valle nel punto in cui un grande arco di pietra sovrastava il corso d’acqua, dando accesso a una delle sette porte cittadine. Cardegoss condivideva con la fortezza quella pianura scavata dai fiumi, e i bastioni si levavano lungo la sommità dei burroni circostanti con una sagoma tale da creare la forma di una barca: la fortezza era la prua e, da essa, partiva un lungo muro curvo verso l’interno che creava una specie di poppa.

Nella luce limpida di quel terso pomeriggio autunnale, la città aveva un aspetto tutt’altro che sinistro. Le stradine laterali erano piene di banchetti che offrivano cibi, fiori e altre mercanzie e affollate da uomini e donne di ogni genere: fornai e banchieri, tessitori e sarti, gioiellieri e sellai. C’erano anche le botteghe di numerosi artigiani che, per esercitare il loro mestiere, non avevano bisogno di acqua corrente e quindi potevano stare lontani dal fiume. Il gruppo reale raggiunse la cosiddetta Piazza del Tempio, dotata di cinque lati, uno per ciascuna grande casa regionale dei sacri ordini degli Dei. Là, Divini, Accoliti e Devoti andavano e venivano con un piglio indaffarato che dava loro più l’aspetto di burocrati che di asceti. Nel centro della grande piazza pavimentata spiccava poi la mole dalla familiare forma di quadrifoglio, con torre annessa, del Tempio della Santa Famiglia di Cardegoss, decisamente più vasto e impressionante di quello di Valenda.

Nonostante la malcelata impazienza del fratello, Iselle pretese di fare una sosta davanti al Tempio. Su suo ordine, Cazaril entrò nell’echeggiante cortile interno a deporre un’offerta in denaro sull’altare della Signora della Primavera, in segno di gratitudine per il buon esito del viaggio. Un’Accolita prese in consegna il denaro con qualche parola di ringraziamento e fissò con curiosità Cazaril, che si limitò a borbottare una rapida e distratta preghiera per poi uscire subito e rimontare in sella.

Nel risalire il lungo e dolce pendio che portava alla fortezza di Zangre, il gruppo percorse alcune strade lungo le quali sorgevano le alte e squadrate case dei nobili, costruite in pietra levigata e dotate d’inferriate che proteggevano porte e finestre. All’inizio della sua vedovanza, la Royina Ista aveva abitato per qualche tempo in una di esse e Iselle, piena di eccitazione, credette per tre volte di riconoscere la dimora della sua infanzia. Alla fine, confusa, desistette, facendo però promettere a Cazaril di accertare quale fosse la vera casa.

Il gruppo raggiunse così il portone della fortezza, davanti al quale il suolo del pianoro si apriva in una fenditura naturale, più profonda e minacciosa di qualsiasi fossato. Al di là di essa, c’erano le basi delle mura: enormi massi irregolari, ma così ben incastrati che tra essi non poteva passare neppure la lama di un coltello. Le mura, invece, erano in pietra finemente lavorata dai roknari, decorata con eleganti disegni geometrici, che la facevano apparire delicata come zucchero filato. Sulla sommità, tuttavia, le pietre erano squadrate in modo più grezzo. Pareva che gli uomini avessero voluto competere con gli Dei, costruendo un edificio possente al pari del baluardo di roccia su cui esso sorgeva. Zangre era l’unico castello che riuscisse a dare a Cazaril un senso di vertigine anche semplicemente guardandolo dal basso.

Dalla sommità delle mura giunse uno squillo di corno, poi alcuni soldati che indossavano la livrea del Roya Orico salutarono i nuovi venuti, mentre essi oltrepassavano il ponte levatoio e la stretta arcata di accesso al cortile. Lady Betriz prese a guardarsi intorno con le labbra socchiuse per la meraviglia, serrando le redini con un certo nervosismo. Il cortile era dominato da un’enorme torre rettangolare, edificata durante il regno del Roya Ias e di Lord dy Lutez, quindi piuttosto recente. Cazaril si era sempre chiesto se le sue grandi dimensioni fossero un indice della forza degli uomini che l’avevano eretta o non piuttosto delle loro paure. A poca distanza dalla torre squadrata, e alta quasi quanto essa, si scorgeva una torre rotonda, che incombeva sul corpo principale della fortezza; il suo tetto di ardesia era sfondato, la sua sommità infranta e irregolare.

«Dei santissimi… Cos’è successo a quella torre? Perché non la riparano?» mormorò Betriz.

«Ah, quella è la torre del Roya Fonsa il Saggio», rispose Cazaril, assumendo il suo atteggiamento da precettore, più per la propria tranquillità che per quella di Betriz. Evitò di aggiungere che, dopo la sua morte, quel sovrano era diventato comunemente noto come Fonsa l’Abbastanza Saggio. «Dicono che lui avesse l’abitudine di starvi per tutta la notte, cercando di leggere nelle stelle la volontà degli Dei e il destino di Chalion. Durante la notte in cui ha operato il suo miracolo di magia di morte a spese del Generale Dorato, una grande tempesta accompagnata da fulmini ha abbattuto il tetto e appiccato un fuoco che, nonostante la pioggia torrenziale, non si è spento fino al mattino successivo.»

L’invasione dei roknari iniziata con uno sbarco, aveva portato alla conquista della maggior parte di Chalion, di Ibra e di Brajar. Sull’onda di quei successi, i roknari avevano addirittura oltrepassato Cardegoss e si erano spinti fino ai piedi delle catene montuose meridionali, con scorrerie che avevano minacciato perfino la Darthaca. Dalle ceneri dei deboli Vecchi Regni e dalla dura culla delle colline erano però emersi uomini nuovi, che avevano combattuto per generazioni, decisi a riconquistare i territori perduti. Essendo guerrieri-ladri, avevano elevato il saccheggio a stile di vita: i nobili non creavano il loro patrimonio, lo rubavano. Una vera beffa del destino per i roknari, per i quali «riscuotere un tributo» significava mandare un gruppo di soldati a prendere con la forza tutto ciò di cui si aveva bisogno. A forza di corruzioni e di contro corruzioni, i roknari erano stati ricacciati indietro, finché Chalion non era diventata teatro di una strana danza in cui si avvicendavano eserciti e contabili. Col tempo, poi, i roknari erano stati confinati nella zona settentrionale, verso il mare, e si erano lasciati alle spalle numerosi castelli in rovina e una lunga serie di brutalità. Si erano poi ridotti a cinque principati lungo la costa orientale, in perenne lotta fra loro.

Il Generale Dorato, il Leone di Roknar, aveva cercato d’invertire il flusso di quella marea. Con la guerra, l’astuzia e un matrimonio, in dieci anni aveva riunito i cinque principati: era la prima volta, da quando i roknari erano sbarcati sul continente. Appena trentenne, aveva ai suoi ordini una grande quantità di uomini e si era preparato a calare nuovamente verso il sud, dichiarando che avrebbe spazzato via con la spada e col fuoco gli eretici quintariani, che adoravano il Bastardo. Disperate e disunite, Chalion, Ibra e Brajar avevano cominciato a subire sconfitte su ogni fronte.

Dato che i tentativi «convenzionali» di assassinare quel genio militare erano falliti, si era fatto ricorso alla magia di morte almeno una dozzina di volte, ma invano. Basandosi su studi approfonditi, Fonsa il Saggio era allora giunto alla conclusione che il Generale Dorato era stato prescelto da uno degli Dei e che nessun sacrificio inferiore a quello della vita di un re avrebbe potuto controbilanciare il suo sfolgorante destino. Nel corso delle guerre contro il nord, Fonsa aveva già perso cinque figli ed eredi, e il suo figlio più giovane, Ias, era impegnato in una lotta serrata contro i roknari, per difendere gli ultimi passi montani e bloccare le vie d’invasione. In una notte di tempesta, prendendo con sé soltanto un Divino del Bastardo che godeva della sua confidenza e un giovane paggio fedele, Fonsa era salito sulla sua torre, e si era chiuso a chiave la porta alle spalle…

La mattina successiva, i cortigiani di Chalion avevano estratto dalle macerie tre corpi carbonizzati. Soltanto la diversa statura aveva permesso loro di distinguere il Divino dal paggio e dal Roya. Sconvolta e terrorizzata, l’intera corte aveva atteso che il suo fato si compisse, ma il corriere partito da Cardegoss alla volta del settentrione, per portare la luttuosa notizia, si era incontrato con un altro corriere diretto a sud per annunciare la vittoria. Funerale e incoronazione erano così stati celebrati contemporaneamente all’interno del castello di Zangre.

«Quand’è tornato dalla guerra, il Royse Ias — ora divenuto Roya — ha ordinato di murare le finestre più basse e le porte della torre del padre, proclamando che nessuno vi doveva entrare», spiegò Cazaril a Betriz, contemplando quelle alte mura.

In quel momento, una nera sagoma svolazzante si lanciò dalla sommità della torre, inducendo Betriz ad abbassare la testa con uno strillo spaventato.

«I corvi vi hanno fatto il nido fin da allora», osservò Cazaril, piegando la testa all’indietro per seguire il corvo che volava in cerchio sullo sfondo azzurro del cielo. «Credo si tratti degli stessi corvi che i Divini del Bastardo nutrono nel cortile del Tempio. Sono uccelli intelligenti, tanto che gli Accoliti li addomesticano e insegnano loro a parlare.»

«Cosa dicono?» domandò Iselle, che si era fatta più vicina.

«Non molto», ammise Cazaril, scoccandole un rapido sorriso. «Non ne ho mai visto uno il cui vocabolario consistesse di più di tre stridii, benché alcuni Accoliti sostenessero che stavano dicendo molto di più.»

Avvertito dal messaggero che dy Sanda aveva mandato a precederli, uno stuolo di servitori e di garzoni di stalla stava accorrendo per assistere gli ospiti, e il siniscalco del castello di Zangre provvide a sistemare i gradini perché la Royesse Iselle potesse smontare di sella. Osservando quella testa grigia china davanti a lei, forse Iselle si rammentò del proprio rango e, per una volta, si servì dei gradini, scendendo da cavallo con la grazia propria di una dama. Teidez consegnò le redini della propria cavalcatura a uno stalliere che continuava a inchinarsi e a guardarsi intorno con occhi scintillanti. Il siniscalco conferì poi rapidamente con dy Sanda e con Cazaril per risolvere una dozzina di problemi pratici immediati, che andavano dal trovare una sistemazione ai cavalli e ai servi al fare altrettanto col Royse e con la Royesse.

Subito dopo, il siniscalco accompagnò i due giovani figli della Royina verso le stanze loro assegnate, nell’ala sinistra del corpo principale del palazzo, precedendo una lunga fila di servitori carichi di bagagli. A Teidez e al suo seguito venne data metà di un intero piano, mentre Iselle e le sue dame furono sistemate al piano superiore. Quanto a Cazaril, si vide assegnare una camera sul piano riservato ai gentiluomini, proprio in fondo al corridoio, tanto da indurlo a chiedersi se ci si aspettava da lui che sorvegliasse la porta.

«Riposate e rinfrescatevi», consigliò il siniscalco. «Il Roya e la Royina vi riceveranno stasera, nel corso di un banchetto per celebrare il vostro arrivo, un banchetto cui presenzierà tutta la corte.»

Seguì un’altra processione di servitori che portavano acqua per lavarsi, asciugamani e lenzuola puliti, pane, frutta, pasticcini, formaggio e vino. Prima del banchetto, i visitatori giunti da Valenda non avrebbero patito né la fame né la sete.

«Dove sono il mio regale fratello e mia cognata?» chiese Iselle al siniscalco.

«La Royina sta riposando», rispose l’uomo, con un inchino. «Il Roya invece sta visitando il suo serraglio, che costituisce per lui una grande consolazione.»

«Mi piacerebbe vederlo», osservò Iselle, in tono un po’ malinconico. «Me ne ha parlato spesso, nelle sue lettere.»

«Diteglielo, e di certo sarà lieto di mostrarvelo», garantì il siniscalco, con un sorriso.

Le dame si trovarono ben presto impegnate in una frenetica ricerca per scegliere gli indumenti adatti al banchetto. Era un’attività che non richiedeva l’assistenza di Cazaril, il quale ordinò al servitore messogli a disposizione di scaricare il baule col suo vestiario nella stanzetta. Poi, dopo aver chiesto al giovane di andarsene, gettò le sacche da sella sul letto e vi frugò dentro, cercando la lettera per Orico che la Provincara gli aveva ingiunto di consegnare al Roya al più presto possibile, dopo il suo arrivo al castello di Zangre. Trovata la lettera, Cazaril si concesse appena il tempo di lavarsi le mani dalla polvere accumulata durante il viaggio e di dare una rapida occhiata dalla finestra della sua stanza. Era affacciata su un profondo burrone che, su quel lato del castello, sembrava partire proprio dal suo davanzale ed estendersi fino a un vago scintillare d’acqua che rivelava la presenza del fiume, a stento visibile tra gli alberi, molto più in basso. Infine uscì per andare alla ricerca di Orico.

Nel tragitto fino al serraglio — annesso alle stalle e quindi situato fuori delle mura e al di là dei giardini -, Cazaril si perse soltanto una volta, individuando infine la sua meta grazie a un acuto odore di letame che però non era né umano né equino. Indugiando davanti all’ingresso, fissò con diffidenza la soglia ad arco dell’edificio di pietra, attendendo che la vista gli si abituasse alla penombra, poi entrò con cautela.

Venne immediatamente attratto da un paio di stallaggi, convertiti in gabbie, che ospitavano due splendidi orsi neri dal pelo lucido e folto. Uno di essi stava dormendo su un mucchio di paglia pulita; l’altro sollevò il muso al suo passaggio e annusò l’aria con fare speranzoso. Sul lato opposto del passaggio, altri stallaggi ospitavano bestie che lui non riuscì neppure a identificare: sembravano capre alte e dinoccolate, con un lungo collo ricurvo, occhi miti e una pelliccia folta e morbida. Subito dopo, in una stanza laterale, grandi uccelli dai colori vivaci — almeno una dozzina — erano appollaiati sui trespoli, intenti a ciangottare e a pavoneggiarsi, mentre altri volatili più piccoli, ma ugualmente colorati, svolazzavano all’interno di una serie di gabbie appese alla parete. Dalla parte opposta, in una rientranza aperta, Cazaril trovò infine alcuni esseri umani: uno stalliere che indossava la livrea del Roya e un uomo grasso che sedeva a gambe incrociate su un tavolo, la mano stretta intorno al collare adorno di gemme di un leopardo. Sussultando, Cazaril s’immobilizzò nel vedere l’uomo protendere la testa, avvicinarla alle fauci aperte del grande felino e mettersi a pettinare l’animale con gesti decisi, in mezzo a una nuvola di peli gialli e neri. Il leopardo si contorse sul tavolo in preda a quella che, dopo un momento, Cazaril identificò come una manifestazione felina di estasi. Ma, concentrato com’era sul leopardo, impiegò un altro istante a rendersi conto che l’uomo impegnato a spazzolarlo era il Roya Orico.

Erano trascorsi almeno dodici anni da quando l’aveva visto e il tempo non era certo stato clemente con Orico. A dire il vero, non era mai stato un uomo avvenente, neppure quand’era ancora nel fiore degli anni. Di statura leggermente inferiore alla media, Orico aveva il naso un po’ troppo corto e, purtroppo, deformato da una frattura in seguito a una caduta da cavallo avvenuta quand’era ancora un ragazzo. Ormai sembrava che, al centro del viso, pallido e gonfio, ci fosse una sorta di fungo schiacciato. Gli occhi erano segnati da spesse borse; i capelli, un tempo ramati e ricciuti, erano diventati rossicci e molto più radi; il corpo appariva vistosamente ingrassato. Mentre procedeva a spazzolarlo, Orico rivolgeva al leopardo versi gorgoglianti e il felino gli strusciava la testa contro la tunica, spargendo altro pelo, e leccando il broccato con colpi vigorosi di una lingua grande quanto uno strofinaccio. Senza dubbio, era interessato a una grossa macchia di grasso che si stendeva sull’ampio ventre del Roya. Le maniche di Orico erano arrotolate, rivelando una mezza dozzina di graffi; d’un tratto, il leopardo chiuse le fauci intorno a un braccio nudo e lo trattenne brevemente, senza però accentuare la stretta. Costringendosi a rilassare le dita, strette intorno all’impugnatura della spada, Cazaril si schiarì la gola per annunciare la propria presenza e, quando il Roya girò la testa, posò al suolo un ginocchio.

«Sire, vi porto i rispettosi saluti della Provincara della Baocia e questa sua lettera», disse, porgendo il documento. Poi, nell’eventualità che nessuno avesse ancora provveduto a informare Orico, aggiunse: «Il Royse Teidez e la Royesse Iselle sono arrivati a palazzo sani e salvi».

«Oh, sì», commentò il Roya, rivolgendo un cenno del capo all’anziano stalliere, che si avvicinò a Cazaril e gli rivolse un aggraziato inchino, prendendo la lettera.

«Sua Grazia la Provincara mi ha ordinato di consegnarla nelle vostre mani», precisò Cazaril, in tono incerto.

«Sì, sì… Aspettate un momento soltanto…»

Con uno sforzo, impacciato dal ventre sporgente, Orico si chinò in avanti per abbracciare il felino, poi attaccò una catena d’argento al collare e, con qualche altro verso d’incitamento, indusse la bestia a saltare giù dal tavolo, scendendo a sua volta con maggiore lentezza. «Prendi, Umegat», disse.

Evidentemente quello era il nome dello stalliere e non del felino, dato che l’uomo venne avanti e s’impadronì del guinzaglio d’argento, consegnando la lettera prima di condurre il leopardo verso la sua gabbia. Ve lo spinse dentro con un ginocchio senza troppe cerimonie e, mentre l’animale si sfregava contro le sbarre, Cazaril osservò lo stalliere chiudere la gabbia e si concesse un sospiro di sollievo.

Orico infranse il sigillo della lettera, spargendo frammenti di cera sul pavimento di piastrelle spazzato con cura, poi segnalò distrattamente a Cazaril di rialzarsi e si mise a leggere con fatica le righe stilate dalla Provincara nella sua calligrafia angolosa e minuta, ora avvicinando e ora allontanando il foglio per vedere meglio. Rammentando come si doveva comportare un messaggero, Cazaril incrociò le mani dietro la schiena e si dispose ad attendere di essere interrogato o congedato, a seconda delle esigenze di Orico.

Per passare il tempo, durante l’attesa indugiò a osservare lo stalliere — forse addirittura il capo stalliere? -, che era di origini roknari, cosa peraltro chiara già dal suo nome. Sebbene la sua figura fosse piuttosto curva, da giovane, Umegat probabilmente era stato alto. Così la sua pelle, che doveva aver avuto una tonalità dorata, si era incartapecorita e aveva un colore simile al cuoio. I ricciuti capelli ramati, abbondantemente striati di grigio, erano raccolti in due trecce aderenti al cranio: partivano dalle tempie e seguivano il contorno della testa, fino a incontrarsi sulla nuca in una coda ordinata, secondo un antico stile roknari. Quella pettinatura suggeriva che lui fosse un roknari di razza pura… Era però vero che, a Chalion, i mezzosangue abbondavano. Lo stesso Roya Orico aveva un paio di principesse roknari nel proprio albero genealogico, sia sul lato chalionese sia su quello brajariano, cosa che spiegava i suoi capelli ricciuti. Abbigliato con la livrea usata da tutti i servitori di Zangre — tunica e calzoni, più un tabarro lungo fino al ginocchio su cui spiccava lo stemma di Chalion, un leopardo rampante sulla sagoma stilizzata di un castello -, lo stalliere appariva molto più pulito e ordinato del suo padrone.

«La Royina Ista non ha preso bene la cosa, vero?» sospirò Orico, rivolto a Cazaril, quando ebbe finito di leggere.

«Naturalmente è rimasta turbata all’idea di doversi separare dai suoi figli», replicò lui, soppesando le parole.

«Era quello che temevo, ma non ho potuto evitarlo. Considerati i suoi disturbi, preferisco saperla a Valenda e non a Cardegoss. Non la voglio qui, perché è troppo… difficile da gestire», dichiarò Orico, sfregandosi il naso col dorso della mano. «Riferite a Sua Grazia la Provincara che gode di tutta la mia stima, e garantitele che mi preoccuperò personalmente del benessere dei suoi nipoti, che godranno della mia fraterna protezione.»

«Intendo scriverle stanotte stessa, sire, per informarla che siamo arrivati a destinazione sani e salvi, e le riferirò le vostre parole.»

Orico annuì, si massaggiò nuovamente il naso, poi fissò CazariL socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco il suo volto. «Vi conosco?» domandò, infine.

«Io… non credo, sire. Di recente, la Provincara mi ha nominato segretario della Royesse Iselle e, in passato, quand’ero più giovane, ho servito il defunto Provincar della Baocia in qualità di paggio.» Non volendo far affiorare nella mente del Roya ricordi più recenti, Cazaril evitò di spiegare che era stato anche al servizio di dy Guarida. Senza dubbio, una certa copertura gli era garantita dalla barba, dai capelli spruzzati di grigio e dal suo aspetto generalmente debilitato. Il fatto che Orico non fosse in grado di riconoscerlo lo indusse a sperare che anche altri non sarebbero stati capaci di farlo. Nel contempo, però, si chiese per quanto tempo poteva vivere lì a Cardegoss senza rivelare il proprio nome.

Ma, a quanto pareva, il suo anonimato si sarebbe protratto ancora per qualche tempo, dato che Orico annuì con aria soddisfatta e, senza chiedergli come si chiamasse, lo congedò con un cenno della mano. «Suppongo quindi che sarete presente al banchetto», disse soltanto. «Riferite alla mia affascinante sorella che sono impaziente d’incontrarla.»

Inchinatosi, Cazaril batté in ritirata e, tormentandosi un labbro tra i denti con fare preoccupato, si diresse verso lo Zangre. Se tutta la corte sarebbe stata presente al banchetto di benvenuto di quella sera, senza dubbio ci sarebbe stato anche il Cancelliere, March dy Jironal, principale consigliere di Orico. E, dove c’era March dy Jironal, di solito si trovava anche suo fratello, Lord Dondo.

Forse neppure loro si ricorderanno di me, si disse, pensando che erano trascorsi oltre due anni dalla caduta — dalla vergognosa vendita — di Gotorget, e un tempo ancora più lungo dallo sgradevole incidente nella tenda del folle Principe Olus. Dopotutto, la sua esistenza di certo non era stata che una minuscola seccatura, per quei potenti nobili, ed essi ignoravano che lui era al corrente della verità, vale a dire del fatto che la sua vendita come schiavo era dipesa da un ponderato tradimento e non da un errore. Se non avesse fatto nulla per attirare l’attenzione su di sé, quei due non si sarebbero ricordati di nulla, e lui non avrebbe corso rischi.

È da stolti sperarlo, pensò tuttavia, un momento più tardi, incurvando le spalle e accelerando il passo.

Tornato in camera, Cazaril indugiò per un momento a contemplare la semplice veste marrone accompagnata dalla consueta sopravveste nera: quei due capi costituivano il suo abbigliamento preferito, per la sobrietà e l’anonimato che gli assicuravano. Ma, obbediente agli ordini giunti dal piano superiore tramite una cameriera, fu costretto a scegliere una tenuta molto più appariscente ed elegante: una tunica celeste abbinata a una sopravveste di broccato turchese e a calzoni blu scuro. Erano indumenti appartenuti al vecchio Provincar e ancora vagamente pervasi dal sentore delle spezie riposte insieme con essi per proteggerli dalle tarme. Spada e stivali completarono quel suo abbigliamento da cortigiano, cui mancava soltanto qualche anello e monile per renderlo perfetto.

Dietro insistente richiesta di Teidez, il Castillar salì quindi al piano superiore per controllare se le dame fossero pronte, scoprendo così che l’abbigliamento da lui indossato — e tanto vistoso, a suo parere — armonizzava col resto del gruppo. Iselle aveva infatti scelto la sua veste bianca e azzurra preferita, unita a una sopragonna con gli stessi colori; i colori indossati da Betriz e dalla dama di compagnia erano rispettivamente il turchese e il blu notte. All’interno del gruppetto, qualcuno aveva deciso che non era però il caso di eccedere nello sfarzo, per cui Iselle sfoggiava soltanto gioielli adatti a una giovane donna nubile: piccoli orecchini di diamanti, una spilla che ornava la scollatura, una cintura smaltata e due anelli. Quanto a Betriz, le erano stati prestati alcuni degli altri gioielli di proprietà della Royesse. Raddrizzandosi, Cazaril cessò di rimpiangere i suoi abiti anonimi e si ripromise di recitare sino in fondo il proprio ruolo nell’interesse di Iselle.

Dopo le ultime, piccole modifiche al vestiario o ai gioielli, Cazaril scortò le donne al piano di sotto, dove si unirono a Teidez e al suo piccolo seguito, costituito da dy Sanda, dal capitano delle guardie baociane che li avevano scortati durante il viaggio e dal suo sergente, questi ultimi abbigliati con la loro divisa migliore e tutti con al fianco una spada dall’impugnatura adorna di gemme. Tra un frusciare di stoffe e un tintinnare di metalli, il gruppetto seguì il paggio reale fino alla sala del trono di Orico.

Giunti nell’anticamera, si fermarono per disporsi nel giusto ordine, in obbedienza alle istruzioni sussurrate dal siniscalco, poi le porte si spalancarono, ci fu uno squillare di corni e il siniscalco annunciò il loro ingresso con voce stentorea. «Il Royse Teidez dy Chalion! La Royesse Iselle dy Chalion! Ser dy Sanda…» scandì, presentando l’uno dopo l’altro i nuovi venuti nell’opportuno ordine di rango e finendo con: «Lady Betriz dy Ferrej, il Castillar Lupe dy Cazaril, Sera Nan dy Vrit!»

«Lupe?» sussurrò Betriz, scoccando un’occhiata in tralice a Cazaril, con una luce divertita negli occhi scuri. «Il vostro nome è Lupe

Considerata la situazione, Cazaril si ritenne esentato dal dare una risposta, che comunque sarebbe stata incoerente e confusa. La sala era affollata di dame e di cortigiani, l’aria era intrisa di un sentore di profumo e d’incenso, pervasa di eccitazione. Nel contemplare quella massa scintillante, adorna di gioielli e di stoffe preziose, Cazaril si rese conto che il suo abbigliamento era comunque austero e anonimo. Anzi, se avesse optato per la severa veste marrone, avrebbe fatto la figura di un corvo in mezzo a una marea di pavoni, dato che persino le pareti erano rivestite di broccato rosso.

Su una piattaforma rialzata, posta in fondo alla sala e sovrastata da un baldacchino di broccato rosso frangiato con trecce dorate, il Roya Orico e la sua Royina sedevano su due seggi dorati. Lavato e con indosso abiti puliti, Orico aveva un aspetto decisamente migliore, con le guance gonfie pervase da una sfumatura di colore e la coroncina d’oro che gli conferiva un’aria quasi regale, nonostante il fisico tozzo e tutt’altro che giovanile. La Royina Sara indossava eleganti vesti scarlatte e sedeva tenendosi eretta, quasi rigida. Ormai oltre la trentina, appariva sfiorita. Anzi aveva un’aria così impassibile che Cazaril si chiese quali fossero i suoi sentimenti riguardo al ricevimento a corte dei regali cognati. Non avendo avuto figli, la Royina aveva mancato di adempiere al suo principale dovere nei confronti della royacy di Chalion… Sempre che quella colpa fosse da attribuire a lei, rifletté Cazaril. Fin dall’epoca in cui era un semplice paggio, lui aveva sentito sussurrare che Orico non aveva mai generato nessun bastardo, anche se a quel tempo la cosa veniva attribuita alla sua fedeltà nei confronti della Royina. Ma quel riconoscimento ufficiale, concesso a Teidez dalla coppia reale, equivaleva all’ammissione pubblica di una disperazione quanto mai privata e personale.

A turno, Teidez e Iselle avanzarono verso la piattaforma, scambiando col Roya e con la Royina fraterni baci di benvenuto sulle mani. Per quell’occasione, i formali baci di sottomissione sulla fronte, sulle mani e sui piedi non vennero contemplati dal cerimoniale. E infatti anche al seguito fu concesso d’inginocchiarsi e di baciare soltanto la mano ai regnanti. Sotto il tocco rispettoso delle labbra di Cazaril, la mano di Sara parve gelida come cera.

Preso posto alle spalle di Iselle, il Castillar si dispose a esercitare la virtù della pazienza, dato che i due fratelli dovevano ricevere il saluto di una lunga fila di cortigiani. Sapeva bene che sarebbe stato offensivo escludere qualcuno da quella breve cerimonia, negandogli di presentarsi personalmente al Royse e alla Royesse. D’un tratto, però, sentì il respiro che gli si bloccava in gola e fissò con terrore i due uomini che stavano avanzando per presentarsi a Teidez e a Iselle.

Abbigliato in marrone, arancione e giallo — la tenuta da corte completa richiesta per un generale del sacro Ordine militare del Figlio -, il March dy Jironal non era cambiato da quando lo aveva visto l’ultima volta, cioè tre anni prima. Quell’incontro era avvenuto sotto la tenda da campo di dy Jironal, il quale aveva consegnato a Cazaril le chiavi di Gotorget e l’incarico di difendere la fortezza. Il March dy Jironal era sempre magro, brizzolato, freddo, pervaso di energia e poco propenso al sorriso. La larga cintura a bandoliera cui era appesa la spada era decorata coi simboli del Figlio — armi, animali e botti di vino — realizzati in smalto e gemme; al collo, lui sfoggiava la catena d’oro simbolo della sua carica di Cancelliere di Chalion. Sulle mani, poi, erano visibili tre grossi anelli con sigillo: quello del suo ricco casato, quello di Chalion e quello dell’Ordine del Figlio. Non portava altri gioielli, ma non ce n’era bisogno: il suo potere era già più che evidente.

Anche Lord Dondo dy Jironal indossava le vesti di un generale di un sacro Ordine, nel suo caso quelle azzurre e bianche dell’Ordine della Figlia. Più massiccio del fratello, e con la sgradevole tendenza a sudare abbondantemente, a quarant’anni Lord Dondo emanava ancora il dinamismo tipico della sua famiglia e, a parte la nuova carica indicata dal vestiario, non appariva cambiato o invecchiato rispetto a quando Cazaril lo aveva visto per l’ultima volta, nell’accampamento del fratello. Osservandolo, Cazaril si rese conto di aver sperato che Dondo fosse almeno diventato grasso quanto Orico, considerato che era famoso per i suoi eccessi — a letto, a tavola o altrove -, ma il suo fisico appariva soltanto un poco appesantito. I gioielli che gli decoravano le mani, le orecchie, il collo, le braccia e gli stivali dagli speroni d’oro costituivano uno sfoggio di ricchezza tale da compensare abbondantemente la sobrietà del fratello.

Dy Jironal lanciò un’occhiata distratta a Cazaril, però non sembrò riconoscerlo. Dondo invece si accigliò, indugiando a scrutare con aria sempre più corrucciata il volto del Castillar, ben attento a mantenere un’espressione neutra e affabile. Ma l’attento esame di Dondo s’interruppe allorché il fratello fece cenno a un servitore di presentare i propri doni al Royse Teidez: una sella e briglie decorate in argento, un eccellente arco da caccia e una lancia per cinghiali dalla scintillante punta di acciaio cesellato. Teidez accettò quei regali con parole di ringraziamento tanto eccitate quanto sincere.

Dopo essersi presentato formalmente, Lord Dondo schioccò le dita in direzione di un servitore, che si affrettò a porgergli un piccolo cofanetto, dal quale, con fare teatrale, Dondo prelevò una collana di perle di una lunghezza incredibile, che sollevò perché tutti potessero vederla. «Royesse, vi porgo il benvenuto a Cardegoss per conto del mio sacro Ordine, della mia gloriosa famiglia e della mia nobile persona! Permettetemi di offrirvi questo filo di perle, la cui lunghezza equivale alla vostra statura, quindi la raddoppia.» Mostrò nuovamente la collana, che in effetti era lunga come Iselle, che la guardava, stupita. «Intendo inoltre rendere grazie agli Dei per il fatto che voi non siete ancora più alta… altrimenti sarei andato in bancarotta.» Mentre una risatina si diffondeva tra i cortigiani, Lord Dondo sfoggiò un accattivante sorriso e aggiunse, in tono sommesso: «Posso?»

Senza attendere una risposta, si chinò in avanti per passare le perle sopra la testa di Iselle, che sussultò leggermente nel sentire la mano di lui che le sfiorava la guancia. Subito dopo, tuttavia, prese ad accarezzare quelle piccole sfere scintillanti con un sorriso pieno di meraviglia, balbettando parole di ringraziamento cui Dondo rispose con un inchino un po’ troppo accentuato, tanto che a Cazaril sembrò improntato più a una sottile derisione che al rispetto.

Conclusa la presentazione e l’offerta del suo dono, Dondo si concesse infine un momento per mormorare qualcosa all’orecchio del fratello e, pur essendo troppo lontano per distinguere le parole, Cazaril ebbe la netta impressione di vedere le sue labbra formare la parola Gotorget. Per un istante, dy Jironal si girò a guardare Cazaril con occhi sorpresi e attenti, poi entrambi i fratelli furono costretti a spostarsi per fare posto al nobile successivo.

I doni di benvenuto elargiti al Royse e alla Royesse erano così numerosi che Cazaril fu costretto ad assumersi l’incarico di catalogare quelli di Iselle. Con l’aiuto di Betriz, annotò il nome di ciascun donatore, il regalo ricevuto e trascrisse poi tutto nell’inventario personale della Royesse. Ma ciò non impedì al Castillar di notare — con una punta di divertimento — che quei cortigiani stavano sciamando intorno ai due giovani come mosche intorno a un vasetto di miele. Teidez era senza dubbio esaltato da tutte quelle attenzioni — infatti riusciva a stento a soffocare risatine entusiaste -, mentre dy Sanda appariva un po’ rigido: era soddisfatto, sì, però anche molto teso. Quanto a Iselle, pur essendo felice di quei doni, si stava comportando con notevole dignità. Si mostrò allarmata soltanto quando le venne presentato un inviato roknari, proveniente da uno dei principati del settentrione: un uomo alto, dalla pelle dorata, coi capelli ramati raccolti in un insieme elaborato di trecce e abbigliato con eleganti vesti di lino che fluttuarono come bandiere allorché lui eseguì un profondo inchino. Scura in volto, Iselle rispose con una cortese riverenza e accettò con qualche parola di ringraziamento una splendida cintura d’oro decorata con coralli intagliati e pezzi di giada.

Benché fossero soprattutto armi, i doni di Teidez risultarono più assortiti; Iselle ricevette prevalentemente gioielli, ma anche tre eleganti carillon. Alla fine della cerimonia, i regali non immediatamente indossati vennero disposti su un tavolo, dato che il loro scopo ultimo era appunto permettere a tutti di ammirare la ricchezza, l’ingegnosità o la generosità di chi li aveva elargiti. Infine, lasciati quei doni alla sorveglianza di due paggi, la folla dei cortigiani di Cardegoss passò nella sala dei banchetti.

Il Royse e la Royesse vennero scortati alla tavola d’onore e fatti sedere rispettivamente accanto a Orico e alla Royina; i posti successivi vennero occupati dai fratelli dy Jironal, dal Cancelliere — accomodato vicino al quattordicenne Teidez, al quale riservò un sorriso alquanto teso -, e da Lord Dondo, che, seduto accanto a Iselle, cercò subito di accattivarsene il favore. Ma le sue battute ebbero scarso successo.

Cazaril fu sistemato a uno dei lunghi tavoli disposti perpendicolarmente alla tavola d’onore, più avanti rispetto alla massa e abbastanza vicino alla sua protetta. Ben presto scoprì che il gentiluomo di mezz’età seduto alla sua destra era un inviato di Ibra.

«Gli ibrani mi hanno trattato bene nel corso del mio ultimo soggiorno nella vostra terra», disse con cortesia, dopo che si furono presentati, evitando peraltro di scendere nei dettagli. «Cosa vi ha condotto a Cardegoss, mio signore?»

«Siete il segretario di Iselle, vero?» replicò l’ibrano, con un sorriso cordiale. «Ecco, a parte il fatto che è senza dubbio piacevole venire a caccia a Cardegoss, in autunno, il Roya di Ibra mi ha inviato qui perché persuadessi il Roya Orico a non sostenere la ribellione scatenata dall’Erede nell’Ibra meridionale. Attualmente, l’Erede sta accettando aiuti dalla Darthaca, ma, col tempo, scoprirà che sono una lama a doppio taglio.»

«La ribellione del suo Erede deve costituire un doloroso contrattempo per il Roya di Ibra», osservò Cazaril, sincero, ma in tono volutamente neutro. Negli ultimi trent’ anni, infatti, la vecchia Volpe di Ibra aveva fatto il doppio gioco con Chalion tante di quelle volte da poter essere considerata un dubbio alleato e un pericoloso nemico, anche se quell’orribile, intermittente guerra contro il figlio poteva essere considerata una punizione inflittagli dagli Dei per la sua infida astuzia. «Non ho idea di quali siano le intenzioni del Roya Orico», proseguì. «Tuttavia preferire un contendente giovane a uno anziano mi sembra una scommessa vincente. Quei due dovranno fare di nuovo la pace, altrimenti sarà il tempo a risolvere la contesa: per quel vecchio, sconfiggere il figlio sarebbe come sconfiggere se stesso.»

«Non stavolta, dato che il Roya di Ibra ha un altro figlio», ribatté l’inviato, poi si guardò intorno e si protese verso Cazaril, proseguendo in un sussurro: «Questo fatto non è sfuggito all’Erede che, per garantire la propria posizione, lo scorso autunno ha cercato di aggredire il fratello minore. Badate, lui sostiene di non aver ordinato affatto una simile azione… Dice che sono stati alcuni suoi seguaci a fraintendere certe affermazioni avventate, ma, a mio parere, le sue parole erano state comprese fin troppo bene… Comunque, grazie agli Dei, il tentativo di rapire il giovane Royse Bergon è stato sventato. Con quel gesto, però, l’Erede ha esaurito ogni possibilità di fare appello alla clemenza del padre. Non ci sarà pace tra loro, a meno che l’Ibra meridionale non scelga di arrendersi».

«Una triste vicenda», affermò Cazaril. «Spero che finiscano tutti per ritrovare un po’ di buon senso.»

«Già», convenne l’inviato, con un sorrisetto teso, apprezzando l’abilità con cui Cazaril aveva evitato di schierarsi e rinunciando a smuoverlo dalla sua posizione chiaramente a favore dell’Erede.

Il banchetto fu davvero superbo e Cazaril si ritrovò pieno fin quasi a scoppiare quando finalmente la corte si trasferì nel salone in cui si sarebbero svolte le danze. Il Roya Orico si addormentò immediatamente sul suo seggio, suscitando in lui una notevole invidia. L’esibizione dei musici di corte risultò eccellente e la Royina Sara, pur non prendendo parte alle danze, si addolcì progressivamente in volto nell’ascoltare la musica e ne seguì il ritmo battendo la mano sul bracciolo. Accostatosi a una parete, Cazaril vi si appoggiò comodamente con le spalle, cercando di digerire quello che aveva mangiato, e rimase a guardare gli ospiti più giovani, più vigorosi o semplicemente meno sazi descrivere le eleganti figure della danza. Né Iselle, né Betriz e neppure Nan dy Vrit erano mai senza cavaliere.

Nel vedere Betriz eseguire una danza con un altro cavaliere — il quinto -, Cazaril si accigliò un poco. Infatti la Royina Ista non era stata l’unica ad averlo interpellato prima della partenza da Valenda. Ser dy Ferrej aveva fatto altrettanto.

«Tenete d’occhio la mia Betriz», aveva implorato, combattuto tra il timore di un disastro e la speranza di un’opportunità. «Dovrebbe avere accanto sua madre, o comunque una dama più matura ed esperta delle cose di mondo, ma purtroppo… Aiutatela a tenersi alla larga da uomini indegni di lei, perditempo privi di patrimonio e buoni soltanto a gozzovigliare… Sapete cosa intendo.»

Cazaril aveva annuito, chiedendosi se lui stesso rientrasse in quella categoria.

«D’altro canto, se lei dovesse incontrare una persona affidabile e onorevole, non sarei contrario a permetterle di seguire le inclinazioni del suo cuore… Sapete, magari una persona piacevole come, come per esempio quel vostro amico, il March dy Palliar…»

L’esempio sembrava gettato li per caso, ma casuale non era suonato all’orecchio di Cazaril. Possibile che Betriz avesse una segreta simpatia per il suo amico? Quella sera, purtroppo, Palli non era presente, perché aveva dovuto tornare al distretto dopo l’elezione di Lord Dondo alla carica di generale del suo Ordine. Quanto sarebbe piaciuto a Cazaril scorgere un volto familiare in mezzo a quella folla…

Un accenno di movimento lo indusse a spostare lo sguardo di lato, distogliendolo dalla danza, e lui si trovò davanti proprio un volto familiare, atteggiato a un freddo sorriso. Ma quell’incontro non gli fece minimamente piacere. Allontanandosi dalla parete, rispose al lieve inchino di saluto del Cancelliere dy Jironal e cercò nel contempo di sgombrare la mente dai fumi del vino e dalla pesantezza indotta dal cibo. Doveva tornare immediatamente lucido.

«Dy Cazaril, siete proprio voi. Vi avevamo creduto morto.»

Non ne dubito, pensò lui.

«No, mio signore, sono fuggito», si limitò a rispondere.

«Alcuni vostri amici temevano che aveste disertato…» continuò dy Jironal, anche se Cazaril sapeva benissimo che nessuno dei suoi amici avrebbe mai ipotizzato una cosa del genere. «Però i roknari hanno riferito che eravate morto.»

«Una sporca menzogna, mio signore», si azzardò a ribattere Cazaril, trattenendosi però dallo specificare chi fosse stato a mentire. «Mi hanno venduto come schiavo sulle galee, insieme con gli uomini per cui non è stato pagato riscatto.»

«Che ignominia!»

«L’ho pensato anch’io.»

«È un miracolo che siate sopravvissuto a una simile esperienza.»

«Infatti, è stato un miracolo», annuì Cazaril, con un sorriso cortese. «Avete almeno recuperato il denaro del mio riscatto, come conseguenza di quella menzogna? Oppure qualche ladro se lo è intascato? Mi piacerebbe essere certo che qualcuno abbia pagato per quell’inganno.»

«Non lo rammento. È una cosa di cui si è occupato il quartiermastro.»

«Bene, si è trattato di uno spaventoso equivoco, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio.»

«Infatti. Prima o poi, mi racconterete le vostre avventure.»

«Quando volete, mio signore.»

Sorridendo, dy Jironal gli rivolse un austero cenno del capo e si allontanò, evidentemente rassicurato.

Cazaril sorrise a sua volta, compiaciuto del proprio autocontrollo… sempre che non si fosse trattato di puro e semplice terrore. Ma no. Era stato in grado di sorridere e di trattenersi dal prendere quel furfante per la gola. Sono ancora un cortigiano, eh?

Ora che i suoi peggiori timori si erano placati, Cazaril abbandonò ogni tentativo di restare invisibile e chiamò a raccolta il proprio coraggio per chiedere a Lady Betriz di concedergli una danza. Sapeva di essere alto, dinoccolato e privo di grazia, ma almeno non era ubriaco fradicio, cosa che gli assicurava una posizione di vantaggio rispetto a una buona metà dei giovani presenti. Inoltre Lord Dondo dy Jironal, dopo aver monopolizzato Iselle per qualche tempo, si era allontanato col suo seguito di compagni di gozzoviglia, diretto a piaceri più grezzi, o forse — come sperava e ipotizzava Cazaril — a un corridoio vuoto dove vomitare in pace. Per qualche istante, mentre danzavano, Cazaril si dimenticò persino di Dondo, perdendosi invece negli occhi di Betriz.

D’un tratto, Orico si svegliò, i musici cessarono di suonare e la serata si avviò al termine. Convocati alcuni paggi, Lady Betriz e Sera dy Vrit, Cazaril prelevò i doni di Iselle, per riporli al sicuro, lasciando dy Sanda a occuparsi di Teidez, il quale aveva ignorato le danze e si era concentrato più sull’incredibile assortimento di dolci che sulle bevande. Eppure, benché il ragazzo fosse più ubriaco d’attenzioni che di vino, c’era da scommettere che, prima dell’alba, dy Sanda si sarebbe dovuto confrontare con qualche violento malessere.

«Lord Dondo sostiene che chiunque potrebbe pensare a me come a un diciottenne», annunciò Teidez a Iselle, in tono trionfante. La sua crescita improvvisa, avvenuta l’estate precedente, lo aveva ormai reso molto più alto della sorella maggiore, un fatto che Teidez aveva commentato spesso e con crescente soddisfazione, adducendolo a segno di superiorità nei confronti della sorella. Gongolante, il giovane si allontanò verso la camera da letto, coi piedi che quasi non toccavano terra.

Betriz, con le mani piene dei gioielli di Iselle, chiese allora a Cazaril di aiutarla a riporli nelle cassette dotate di lucchetto che la Royesse teneva nella sua anticamera. «Allora, Lord Gaz, posso sapere perché non usate mai il vostro nome?» domandò poi. «Cosa c’è che non va in Lupe? Dopotutto, è un nome assolutamente virile.»

«È un’avversione che risale all’infanzia», sospirò Cazaril. «Il mio fratello maggiore e i suoi amici mi provocavano di frequente, uggiolando e ululando sino a farmi piangere di rabbia, cosa che mi rendeva ancora più irato. Purtroppo, quando finalmente sono diventato abbastanza grande da poterlo picchiare, lui era maturato a sua volta e aveva smesso di fare quel gioco… cosa che ho sempre considerato decisamente sleale, da parte sua.»

«Capisco!» esclamò Betriz, ridendo.

Approdato finalmente alla quiete della propria camera da letto, Cazaril si rese conto di non aver stilato il promesso messaggio di rassicurazione per la Provincara. Combattuto tra il dovere e la stanchezza, si decise a tirare fuori penna, inchiostro e pergamena, accingendosi con un sospiro a svolgere il proprio dovere. Il suo resoconto fu molto più breve del dettagliato rapporto che aveva avuto intenzione di fornire, riducendosi a poche righe che si concludevano con: A Cardegoss tutto procede per il meglio.

Sigillato il messaggio, rintracciò un paggio assonnato che lo consegnasse al corriere destinato a lasciare lo Zangre il mattino successivo e infine crollò sul letto, sfinito.

8

Il banchetto di benvenuto organizzato per la notte del loro arrivo venne seguito, anche troppo presto, dalla colazione e dal pranzo del giorno successivo e poi da una festa serale in maschera. Quel programma si ripeté nei giorni successivi, con pasti sempre più sontuosi, tanto che Cazaril smise di pensare che il Roya Orico fosse sgradevolmente grasso e cominciò invece a chiedersi come mai la sua mole non fosse ancora tale da impedirgli di camminare. Col passare del tempo, se non altro, l’iniziale pioggia di doni caduta sui due regali fratelli cominciò a scemare, permettendo così a Cazaril di mettersi in pari con l’inventario e di procedere a valutare a chi, e in quale occasione, alcuni oggetti potessero essere donati. Da una Royesse, infatti, ci si aspettava un’indubbia generosità.

La mattina del quarto giorno, Cazaril si risvegliò da un sogno confuso: stava correndo per i corridoi del castello di Zangre con le mani piene di gioielli, che non riusciva a consegnare al momento giusto e alla persona giusta, il tutto seguendo le assurde indicazioni di un grosso topo parlante. Soffregandosi gli occhi, valutò l’opportunità di astenersi dai vini offerti alla tavola di Orico, oppure dai dolci che contenevano troppa pasta di mandorle, anche se non sapeva a quale delle due cose attribuire l’origine dei suoi incubi. Dopo un momento, però, ricordando quand’era stato costretto a vivere con le razioni elargite durante gli assedi, si mise a ridere e, sempre ridendo, si alzò dal letto.

Prese la tunica che aveva indossato il pomeriggio precedente, la scrollò e slacciò il polsino dell’ampia manica per recuperare la mezza forma di pane che Betriz gli aveva fatto riporre li il giorno prima, quando il picnic in riva al fiume era stato bruscamente interrotto da un acquazzone. Mentre soppesava la possibilità che, in origine, l’ampiezza di quelle maniche fosse stata studiata apposta per permettere d’immagazzinarvi viveri, posò la tunica, si tolse la camicia da notte, indossò i calzoni e si avvicinò alla bacinella per lavarsi.

In quel momento, dalla finestra aperta, giunse il rumore di uno sbattere d’ali. Colto di sorpresa, Cazaril alzò lo sguardo e vide uno dei corvi del castello atterrare sull’ampio davanzale di pietra. L’uccello piegò la testa nella sua direzione, mettendosi prima a gracchiare e poi a emettere strani borbottìi. Divertito, Cazaril si asciugò la faccia e prese un pezzetto di pane, avanzando con lentezza verso il corvo. Voleva capire se era abbastanza addomesticato da accettare il cibo dalle sue mani. E infatti il volatile lo fissò con espressione intensa, poi gli sfilò il pane dalle dita con un colpo di becco. Al contatto con quell’appendice aguzza, Cazaril cercò di non sussultare, ma si rese subito conto che il becco non lo aveva ferito. Inghiottito il pane, il corvo cambiò posizione sul davanzale, scrollò le ali, allargando la coda, cui mancavano due penne, e riprese a borbottare e a gracchiare, un aspro suono echeggiante che invase la piccola camera.

«Non dovresti dire Cra, cra! bensì Caz, Caz!» commentò Cazaril. Quindi, per parecchi minuti, si divertì a istruire il volatile nell’uso di quel nuovo linguaggio, arrivando a ripetere Cazaril! Cazaril! con una voce trillante che, a suo parere, imitava il verso di un uccello. Nonostante le abbondanti elargizioni di pane, però, il corvo sembrava ancor più refrattario all’apprendimento di una nuova lingua di quanto non lo fosse Iselle col darthacano.

Un colpo alla porta interruppe bruscamente la lezione.

«Sì?» rispose Cazaril, in tono distratto.

All’aprirsi del battente, il corvo svolazzò all’indietro e cadde dalla finestra. Cazaril seguì con lo sguardo il suo volo, osservandolo precipitare per un breve tratto e poi allargare di scatto le ali, tornando a librarsi nell’aria. Si allontanò con un moto circolare, sulla spinta di una corrente d’aria mattutina che saliva lungo la superficie del burrone.

«Mio signore dy Cazaril, la…» cominciò una voce, che poi s’interruppe di colpo.

Cazaril si voltò e, nel trovarsi davanti un paggio dall’aria sconvolta, fermo sulla soglia della sua stanza, si rese conto con un improvviso senso d’imbarazzo di non aver ancora indossato la camicia. «Sì, ragazzo?» domandò, allungando senza fretta la mano verso la tunica e scrollandola ancora, prima d’infilarla. «Cosa c’è?»

Il suo tono, pacato e indifferente, intimava a non fare commenti o domande in merito al disastro, vecchio ormai di un anno, che gli segnava la schiena. Deglutendo a fatica, il paggio infine ritrovò la voce. «Mio signore dy Cazaril… La Royesse Iselle vi prega di raggiungerla nella camera verde, subito dopo la colazione.»

«Ti ringrazio», replicò freddamente Cazaril, congedandolo poi con un cenno.

L’escursione mattutina per la quale Iselle richiedeva la scorta di Cazaril contemplava semplicemente la visita al serraglio che Orico le aveva promesso. Al suo ingresso nella camera verde, Cazaril trovò il Roya su una sedia, immerso nel sonnellino successivo alla colazione; di lì a poco, comunque, Orico si riscosse con uno sbuffo, si massaggiò la fronte come se gli dolesse, si ripulì l’ampia tunica da alcune briciole appiccicose, poi prese qualcosa avvolto in un pezzo di lino e si avviò con la sorella e con Cazaril, oltrepassando il portone del castello e addentrandosi nei giardini.

Nel cortile delle stalle, i tre s’imbatterono nel gruppo formato da Teidez e dai suoi compagni di caccia, in procinto di muoversi. Fin dal suo arrivo a Zangre, Teidez aveva implorato di poter andare a caccia e, a quanto pareva, Lord Dondo aveva realizzato il suo desiderio, chiamando a raccolta una mezza dozzina di cortigiani, stallieri, battitori, sei cani e Ser dy Sanda. In sella al suo cavallo nero, Teidez salutò con allegria la sorella e il suo regale fratello. «Lord Dondo sostiene che probabilmente la stagione non è ancora abbastanza avanzata da poter avvistare un cinghiale», gridò. «Ma forse saremo fortunati.»

Lo stalliere di Teidez, che lo seguiva in sella al proprio cavallo, trasportava un vero e proprio arsenale di armi, comprese la nuova balestra e la lancia per cinghiali. Iselle, che non era stata invitata, lanciò alla piccola compagnia uno sguardo d’invidia. Persino dy Sanda sfoggiava un sorrisetto soddisfatto di fronte alla prospettiva di una mattinata dedicata a quella nobile attività. Poi Lord Dondo lanciò un grido di entusiasmo e il gruppo uscì dal cortile al piccolo trotto.

Cazaril cercò di capire perché si sentisse a disagio a contemplare quella gradevole immagine di caccia autunnale e d’un tratto comprese: nessuno degli uomini accanto a Teidez aveva meno di trent’anni, il che significava che nessuno lo stava seguendo per amicizia o almeno nella speranza d’instaurarne una. Quei cortigiani erano mossi esclusivamente dall’interesse personale. Se avessero posseduto un minimo d’intelligenza, pensò Cazaril, quegli uomini avrebbero fatto bene a chiamare a corte i loro figli, lasciando che la natura seguisse il suo corso. Certo, anche quello era un quadro non scevro da pericoli, tuttavia…

Con passo pesante, Orico si avviò per aggirare le stalle, costringendo le dame e Cazaril a seguirlo. Il capo stalliere Umegat, che di certo era stato avvertito, li stava aspettando tutto compunto vicino alle porte del serraglio, spalancate per lasciar entrare il sole e la brezza mattutina. Mentre si avvicinavano, lo stalliere fece un profondo inchino.

«Questo è Umegat», spiegò Orico alla sorella. «Gestisce il serraglio per mio conto. È un roknari, ma sotto molti aspetti è un brav’uomo.»

Controllando un sussulto di allarme, Iselle rivolse allo stalliere un aggraziato cenno del capo. «Che i santi vi benedicano in questo giorno, Umegat…» Aveva parlato in roknari e anche in modo abbastanza corretto. L’unico neo era l’aver fatto ricorso alla forma grammaticale adatta al rapporto padrone-guerriero e non a quello padrone-servitore.

Sgranando gli occhi, Umegat s’inchinò ancor più profondamente. «La benedizione degli Altissimi scenda anche su di voi, m’hendi», rispose, con un purissimo accento dell’Arcipelago, utilizzando la forma grammaticale richiesta a uno schiavo che si rivolga al suo padrone.

Nel sentirlo parlare, Cazaril inarcò di scatto le sopracciglia, perché era chiaro che quello non era un mezzosangue chalionese. Quali vicissitudini lo avevano condotto al castello di Zangre? «Siete molto lontano da casa, Umegat», azzardò allora, spinto dalla curiosità, utilizzando la forma propria del rapporto servitore-servo inferiore.

«Avete un orecchio acuto, m’hendi», osservò Umegat, con un accenno di sorriso. «È una cosa rara, a Chalion.»

«Lord dy Cazaril è il mio maestro…» iniziò a spiegare Iselle.

«In tal caso, mia signora, siete servita in maniera eccellente», replicò Umegat, poi si girò verso Cazaril e, passando alla forma servitore-studioso, una raffinatezza grammaticale ancora superiore alla modalità servitore-padrone, aggiunse: «Adesso, Saggio, Chalion è la mia casa…»

«Mostriamo a mia sorella i miei animali», intervenne Orico, annoiato da quelle amenità bilingui. Con un sorriso da cospiratore, sollevò il pacchettino avvolto nel tovagliolo e proseguì: «A colazione, ho rubato un favo per i miei orsi, e ben presto il miele comincerà a colare, se non mi libero di questo fagotto».

Ricambiando il sorriso, Umegat li precedette all’interno del serraglio, che quella mattina sembrava ancora più pulito e ordinato di quanto Cazaril lo rammentasse. Senza dubbio era più pulito delle sale per i banchetti di Orico.

Congedatosi dagli altri, Orico si diresse immediatamente verso una delle gabbie degli orsi. Al suo ingresso, l’animale che la occupava si svegliò, sollevandosi a sedere sulle zampe posteriori, posizione immediatamente imitata da Orico, che si accoccolò sulla paglia pulita. I due rimasero a fissarsi, il Roya stranamente simile all’orso nella posa e nella figura. Dopo un po’, Orico aprì il tovagliolo e staccò un pezzetto del favo, porgendolo all’orso che si protese in avanti, annusò e cominciò a leccargli le dita con una lunga lingua rosata. Lanciando esclamazioni ammirate, Iselle e Betriz fecero alcuni commenti sulla splendida pelliccia dell’animale, ma non accennarono a raggiungere il Roya nella gabbia.

Umegat le accompagnò poi a vedere quelle strane creature simili a capre. Giacché gli animali erano palesemente erbivori, le due dame non ebbero timore di entrare negli stalli per accarezzarli ed elogiare i loro grandi occhi scuri dalle lunghe ciglia. Spiegando che si chiamavano velia, e che venivano importati da un luogo che si trovava al di là dell’Arcipelago, Umegat porse alle dame alcune carote, che esse diedero ai velia con grande soddisfazione reciproca.

Dopo essersi pulita sulla veste le mani sporche di carota e della saliva dei vella, Iselle e gli altri seguirono Umegat verso le voliere, mentre Orico, con un cenno, fece loro capire che sarebbe rimasto ancora un po’ nella gabbia dell’orso.

In quel momento, una sagoma scura scese in picchiata dal cielo e s’insinuò nel corridoio di pietra dalla volta arcuata, arrestandosi poi con un borbottio e uno sbattere d’ali sulla spalla di Cazaril; sussultando con violenza, l’uomo girò la testa di scatto e si trovò davanti un corvo, probabilmente lo stesso che si era posato sulla sua finestra, almeno a giudicare dalla coda, cui mancavano due penne.

«Caz, Caz!» stridette il corvo, flettendo gli artigli intorno alla sua spalla.

«Era ora che imparassi, stupido uccello!» rise Cazaril. «Adesso però non ti serve più a nulla, perché ho finito tutto il pane.» Poi scrollò la spalla, ma il corvo mantenne la presa e continuò a strillare: «Caz, Caz!» in toni tanto acuti da riuscire dolorosi.

«Chi è il vostro amico, Lord Caz?» sorrise Betriz, stupita.

«Si è posato sulla mia finestra, stamattina, e ho tentato d’insegnargli qualche parola», spiegò Cazaril. «Non credevo però di esserci riuscito…»

«Caz, Caz!» insistette il corvo.

«Dovreste essere altrettanto diligente con lo studio del darthacano, mia signora!» esclamò Cazaril. «Avanti, Ser dy Corvo, adesso vattene. Non ho altro pane, quindi va’ a cercare qualche pesce sotto le cascate oppure una carcassa di pecora, o chissà che altro… sciò!» gridò, abbassando la spalla. Ma, dato che il volatile non accennava a muoversi, aggiunse: «Questi corvi del castello sono decisamente avidi e pigri. I corvi di campagna devono svolazzare di qua e di là per procurarsi il cibo; loro si aspettano quasi di essere imboccati».

«In effetti, i corvi del castello di Zangre sono veri e propri cortigiani», commentò Umegat, con un sorriso.

Trattenendo a stento una risata, Cazaril si girò a guardare l’impeccabile stalliere. Se lavorava lì da parecchio tempo, Umegat doveva aver avuto modo di studiare a fondo i cortigiani del palazzo… «Questo interessamento sarebbe più lusinghiero se tu non fossi un uccello del malaugurio!» disse poi, rivolto al corvo. «Ora vattene!» E spinse via il corvo, ma esso si limitò a svolazzargli sulla testa e ad affondargli gli artigli nel cuoio capelluto, strappandogli un grido di dolore.

«Cazaril!» gracchiò poi, dalla sua nuova posizione.

«Dovete essere davvero molto bravo nell’insegnare le lingue, Lord dy Cazaril», intervenne Umegat, con un sorriso sempre più ampio. «Se abbassate la testa, mio signore, cercherò di liberarvi del vostro… passeggero.» Quindi si rivolse al corvo, mormorando: «Sì, sì, ti ho sentito…»

Cazaril obbedì e Umegat prese a mormorare qualcosa in roknari. Dopo un po’, il corvo passò sul suo braccio, cosa che permise allo stalliere di condurlo fuori e lanciarlo in aria. L’uccello si allontanò svolazzando e, con sollievo di Cazaril, gracchiando in maniera più normale.

I tre visitatori si accostarono quindi alle voliere. Lì Iselle scoprì di essere tanto popolare presso gli uccelli in gabbia quanto Cazaril lo era stato con quel corvo arruffato; quando essi le si posarono sulle maniche, Umegat le insegnò come indurre quelle creature ad accettare chicchi di grano tenendoli tra i denti. Passarono poi agli uccelli sui trespoli, e Betriz ammirò in modo particolare un grosso volatile di un colore verde acceso, col petto giallo e con la gola color rubino, che emetteva versi chioccianti dal grosso becco giallo e si dondolava di continuo sulle zampe.

«Questo è un arrivo piuttosto recente, ma credo abbia avuto una vita difficile ed errabonda», spiegò Umegat. «È abbastanza quieto, ma ci è voluto non poco tempo per riuscire a calmarlo.»

«Sa parlare?» domandò Betriz.

«Sì, ma conosce soltanto parole volgari, anche se, per fortuna, esclusivamente in roknari… Ho il sospetto che sia appartenuto a qualche marinaio», rispose Umegat. «Il March dy Jironal lo ha portato con sé dal nord questa primavera, come bottino di guerra.»

Nel pensare alle voci giunte fino a Valenda in merito a quella campagna, che si era conclusa senza vincitori né vinti, Cazaril si chiese se anche Umegat avesse fatto parte di un bottino di guerra, proprio come lui. Forse è arrivato a Chalion proprio così… «Un uccello grazioso», commentò. «Tuttavia non mi pare che possa compensare la perdita di tre città e del controllo di un passo.»

«Ritengo che Lord dy Jironal abbia ottenuto in cambio anche altre cose di valore», replicò Umegat. «Al suo ritorno a Cardegoss, il convoglio dei suoi bagagli ha impiegato un’ora a oltrepassare il portone.»

«So quanto possono essere lenti e caparbi i muli da soma», ribatté Cazaril, per nulla colpito. «In quella sconsiderata avventura, Chalion ha perso più di quanto dy Jironal abbia guadagnato.»

«Non è stata una vittoria?» chiese Iselle, inarcando di scatto le sopracciglia.

«Come la si potrebbe mai definire tale? Noi e i principati dei roknari ci stiamo contendendo quella zona di confine ormai da decenni, e abbiamo reso una landa desolata quella che era una terra fertile. Frutteti, oliveti e vigneti sono stati dati alle fiamme, le fattorie sono state abbandonate, gli animali domestici sono regrediti allo stato selvatico o sono morti di fame… È la pace, e non la guerra, ad arricchire: la guerra si limita a trasferire il possesso di ciò che resta da un padrone più debole a uno più forte. La cosa peggiore, però, è che quanto viene comprato col sangue è poi venduto per denaro, solo per essere rubato di nuovo. Vostro nonno, il Roya Fonsa, ha pagato la conquista di Gotorget con la vita dei suoi figli, ma il March dy Jironal ha venduto quella fortezza per trecentomila reali d’oro… Una trasmutazione alchemica davvero incredibile, considerato che il sangue di un uomo viene trasformato in denaro a vantaggio di altri. Al confronto, convertire il piombo in oro appare davvero cosa da poco.»

«Non ci potrà mai essere la pace nel nord?» domandò Betriz, sorpresa da quella veemenza insolita per Cazaril.

«Non finché la guerra porterà simili profitti. Anche i principi dei roknari si comportano così. Si tratta di una forma di corruzione universale.»

«Vincere la guerra potrebbe tuttavia porre fine a questo stato di cose», obiettò Iselle.

«Una vittoria del genere è soltanto uno splendido sogno», sospirò Cazaril. «Per realizzarlo, un Roya dovrebbe indurre i nobili a prestarsi al suo gioco senza far capire loro che, in tal modo, loro perderanno enormi profitti futuri… Senza contare che, anche così, la vittoria non sarebbe possibile, perché, da sola, Chalion non potrebbe mai sconfiggere tutti e cinque i principati. E se pure, per qualche miracolo, ci riuscisse, dopo non avrebbe la potenza navale necessaria per conservare il controllo delle coste. Se tutte le royacy quintariane unissero le loro forze e combattessero con coraggio per una generazione, un Roya dotato di un potere e di una determinazione immensi potrebbe forse riuscire a unire l’intero continente, ma il costo in termini di uomini e di denaro sarebbe enorme.»

«Più elevato del costo generato da questo interminabile fiume di sangue e di disonestà che scorre nel nord?» chiese Iselle, soppesando le parole. «Se lo si facesse una volta, nel modo giusto, il problema sarebbe risolto per sempre.»

«Ma non c’è nessuno in grado di realizzare una cosa del genere. Il Roya di Brajar è un vecchio ubriacone che pensa solo a divertirsi con le dame della sua corte, la Volpe di Ibra è perennemente impegnata in una guerra civile, e Chalion…» Cazaril s’interruppe, rendendosi conto che il ridestarsi di emozioni sopite lo stava inducendo a parlare con una franchezza assai poco saggia e diplomatica.

«Teidez…» mormorò Iselle. «Forse questo nobile compito spetterà a Teidez, una volta che sarà diventato adulto.»

Non addosserei a nessuno un simile fardello, pensò Cazaril. Doveva tuttavia ammettere che il ragazzo sembrava dotato di un certo talento in quella direzione. Certo, sarebbe stato necessario insegnargli come farlo affiorare e indirizzarlo nel modo giusto…

«La conquista non è l’unico modo per unire i popoli», interloquì Betriz. «Esiste anche il matrimonio.»

«Sì, ma nessuno potrebbe mai unire in questo modo tre royacy e cinque principati», obiettò Iselle, arricciando il naso. «Non in una volta sola, comunque.»

L’uccello verde, forse irritato dal fatto che il suo pubblico si era distratto, scelse proprio quel momento per fare sfoggio della propria conoscenza del roknari con una frase particolarmente lasciva. Era senza dubbio appartenuto a un marinaio, probabilmente in servizio su qualche galea, rifletté Cazaril e sogghignò. Anche Umegat sorrise, ma poi inarcò le sopracciglia nel vedere Betriz e Iselle serrare di scatto le labbra, tingersi di un velato rossore e scambiarsi un’occhiata. Con noncuranza, allora, lo stalliere prese un piccolo cappuccio e lo infilò sulla testa del volatile.

«Buonanotte, mio verde amico», gli disse. «Credo che tu non sia ancora pronto per trattare con l’alta società locale. Forse Lord dy Cazaril dovrebbe passare di qui, ogni tanto, e insegnarti anche un po’ di roknari di casta alta.»

Cazaril stava per commentare che Umegat sembrava perfettamente in grado di assolvere quel compito, allorché venne distratto da un rumore di passi che proveniva dalla porta della voliera. Era Orico, che avanzò, sorridente, mentre si puliva sui calzoni le mani sporche di saliva dell’orso.

Il commento fatto dal siniscalco il giorno stesso del loro arrivo corrispondeva alla realtà, pensò allora Cazaril. Quel serraglio era fonte di enorme consolazione per Orico, che adesso aveva lo sguardo limpido e il volto soffuso di un colorito sano, senza più traccia dello sfinimento manifestato subito dopo la colazione.

«Dovete venire a vedere i miei gattoni», annunciò il Roya alle due dame.

Il gruppetto lo seguì lungo il corridoio di pietra, mentre lui mostrava con orgoglio alcune gabbie contenenti un paio di splendidi felini dal pelo dorato, con grossi ciuffi di pelo sulle orecchie, che provenivano dalle montagne nella parte sud di Chalion; un’altra gabbia ospitava un raro esemplare albino della stessa razza, con gli occhi azzurri e le orecchie sovrastati da ciuffi di pelo nero. Quell’estremità del corridoio accoglieva anche un paio di creature — volpi del deserto dell’Arcipelago, a detta di Umegat — simili a lupi, ma ossute e di taglia più piccola, con enormi orecchie triangolari e un’espressione insolitamente cinica.

Infine Orico mostrò loro il leopardo, senza dubbio il suo animale preferito. Condotto fuori dalla gabbia mediante il guinzaglio d’argento, il grosso felino prese a sfregarsi contro le gambe del Roya, emettendo strani, piccoli versi gorgoglianti. Cazaril trattenne il fiato quando Iselle, incoraggiata dal fratello, s’inginocchiò per accarezzare il leopardo, accostando il volto a quelle fauci possenti. La giovane cominciò a grattarlo sotto il muso, passando nel contempo la mano sullo splendido pelo maculato e, sebbene i tondi occhi ambrati dell’animale apparissero tutt’altro che amichevoli, esso socchiuse le palpebre con aria palesemente beata, l’ampio naso rossiccio che vibrava di piacere.

Incoraggiato, Cazaril provò a inginocchiarsi a sua volta, ma il ronfare del felino assunse subito un altro tono, che a lui parve ostile. Gli occhi ambrati, poi, lo scrutavano con tale freddezza da indurlo a rialzarsi.

Il Roya decise di trattenersi nel serraglio per parlare col capo stalliere, quindi toccò a Cazaril riaccompagnare le dame allo Zangre. Lungo il tragitto esse discussero allegramente, cercando di capire qual era la bestia più interessante.

«Secondo voi, qual è l’esemplare più strano, là dentro?» domandò infine Betriz a Cazaril.

Lui esitò un istante prima di replicare, ma alla fine decìse di rispondere con sincerità. «Umegat.»

Betriz stava per ribattere a quella che pensava fosse una battuta scherzosa, ma poi vide Iselle scoccare a Cazaril un’occhiata penetrante e tacque. Sui tre scese un pensoso silenzio, che continuò a regnare finché non raggiunsero il portone del castello.

L’accorciarsi delle giornate, dovuto al sopraggiungere dell’autunno, non venne vissuto come una perdita dagli abitanti del castello di Zangre. Le notti, infatti, continuarono a essere movimentate da banchetti e feste; i cortigiani sembravano fare a gara nell’offrire intrattenimenti, spendendo denaro a piene mani e sforzando al massimo la loro ingegnosità. Teidez e Iselle ne erano abbagliati, ma la fanciulla non perse del tutto il suo senso critico. Anzi, grazie ai commenti sussurrati da Cazaril, la Royesse cominciò a cogliere messaggi nascosti, a intuire intenzioni, aspettative e spese calcolate in previsione di qualche futuro vantaggio.

Teidez, invece, almeno secondo Cazaril, stava assorbendo ogni cosa. Gli scontri sempre più frequenti e aperti tra lui e dy Sanda ne erano un segno: il tutore si ostinava a combattere una battaglia persa in partenza, deciso com’era a costringere il ragazzo a osservare la disciplina vigente nella casa della Provincara. La stessa Iselle cominciò a preoccuparsi per i crescenti segni di tensione tra il fratello e il suo tutore. Cazaril lo comprese una mattina, quando Betriz, con fare noncurante, lo prese in disparte, e lo portò verso una finestra che sovrastava la confluenza dei due fiumi e buona parte dell’entroterra di Cardegoss. Dopo qualche vago commento sul clima, che rispecchiava la stagione, e sulla caccia, Betriz passò all’argomento che le stava a cuore. «Qual è stato il motivo della spaventosa lite che Teidez e il povero dy Sanda hanno avuto la scorsa notte?» chiese, in un sussurro. «Urlavano a tal punto che li sentivamo attraverso le finestre e il pavimento.»

«Uh… ecco…» annaspò Cazaril. Come poteva spiegare l’accaduto? Non era certo adatto alle orecchie di una fanciulla… Sarebbe stato più facile parlarne con Nan dy Vrit, dato che quella vedova piena di buon senso partecipava senza dubbio a tutte le discussioni che si svolgevano al piano di sopra. D’altro canto, era meglio essere franco che rischiare un fraintendimento, ed era di gran lunga meglio esserlo con Betriz, che non con Iselle. Betriz non era una bambina e, soprattutto, non era la sorella di Teidez: sarebbe stata più adatta di lui a decidere cosa riferire a Iselle e cosa tenere per sé. «La scorsa notte, Dondo dy Jironal ha portato a Teidez una donna a pagamento. Naturalmente, dy Sanda l’ha subito buttata fuori, e Teidez si è infuriato», spiegò allora. Teidez era furioso, a disagio, ma forse anche segretamente sollevato. Più tardi, nel corso della notte, era stato male per il troppo vino… Ah, la splendida vita di corte!

«Oh!» commentò Betriz che, con sollievo di Cazaril, non appariva eccessivamente sconvolta. «Oh», ripeté, chiudendosi poi in un silenzio assorto. Fissava la pianura dorata che si stendeva al di là del fiume e l’ampia vallata, dove il raccolto era ormai stato quasi ultimato. Infine, mordendosi un labbro, riportò lo sguardo su Cazaril e, in tono preoccupato, riprese: «Non è… Di certo non… Voglio dire, c’è senza dubbio qualcosa di molto strano nello spettacolo offerto da un quarantenne come Lord Dondo, che frequenta con assiduità un ragazzino di quattordici anni».

«Se si trattasse di un semplice ragazzino, lo troverei davvero strano, ma, considerato che stiamo parlando di un Royse, forse del prossimo Roya, futuro dispensatore di cariche, ricchezze, preferenze, opportunità militari… Be’, in tal caso direi che il suo comportamento ha una ragione evidente. Del resto, se pure Dondo smettesse di stare tanto addosso a Teidez, il suo posto sarebbe subito preso da altri tre uomini. Non è tanto la frequentazione assidua a colpire, bensì… la maniera in cui essa si svolge.»

«Senza dubbio», convenne Betriz, contraendo le labbra in un’espressione disgustata. «Una donna a pagamento, addirittura! Quanto a Lord Dondo… Il suo ruolo è stato quello del mezzano, vero?»

«Infatti, anche se ci sono definizioni più volgari. D’altro canto… In effetti, Teidez è prossimo all’età adulta, e prima o poi dovrà pur imparare…»

«La notte di nozze non è più che sufficiente per questo?» lo interruppe Betriz. «Noi dobbiamo imparare tutto in quella circostanza.»

«Gli uomini… di solito si sposano più tardi», replicò Cazaril, con una certa cautela. Era un argomento che preferiva evitare, anche perché il suo tardivo apprendistato in quel campo lo imbarazzava ancora. «Di norma, un uomo ha un amico, un fratello, o anche il padre o uno zio, che s’incarica… d’insegnargli come comportarsi con le donne. Ma Dondo dy Jironal non è nulla di tutto questo, per Teidez.»

«Però Teidez non ha vicino una persona del genere», obiettò Betriz, accigliandosi. «Ecco, tranne… il Roya Orico, che in un certo senso è per lui padre e fratello.»

I loro sguardi s’incontrarono e Cazaril comprese. No, non c’era bisogno di esprimere il pensiero che entrambi avevano formulato: in quella duplice veste di padre e di fratello, il Roya non era certo molto utile.

Seguì un altro silenzio pensoso.

«E non riesco a immaginare Ser dy Sanda che…» riprese poi Betriz.

«Oh, povero Teidez, non ci riesco neppure io», convenne Cazaril, con una risata soffocata. «Quella di Teidez è un’età difficile. Se avesse sempre vissuto a corte, si sarebbe abituato a quest’atmosfera e non ne sarebbe rimasto così… impressionato. Se fosse stato portato qui a un’età più matura avrebbe avuto già un carattere definito e una volontà più solida. Naturalmente, la corte può abbagliare a qualsiasi età, soprattutto quando ci si ritrova al centro dell’attenzione… Però, se Teidez deve diventare l’Erede di Orico, è tempo che si cominci a insegnargli come equilibrare piaceri e doveri.»

«Non mi pare proprio che lo si stia sottoponendo a un addestramento del genere», obiettò Betriz. «Dy Sanda ci prova in tutti i modi, ma…»

«È in netta inferiorità numerica», concluse per lei Cazaril, con aria cupa. «E questa è la radice del problema. Nella casa della Provincara, dy Sanda aveva l’appoggio della sua autorità, che completava e integrava la propria. Qui a Cardegoss, dovrebbe essere il Roya Orico ad addossarsi quel compito, ma lui non dimostra il minimo interesse al riguardo. Così dy Sanda deve lottare da solo e senza speranza di vittoria.»

«Questa corte…» cominciò Betriz, aggrottando la fronte nello sforzo di mettere a fuoco pensieri per lei poco familiari. «Questa corte ha un… centro?»

«Una corte ben gestita ha sempre al suo centro una figura che detiene l’autorità morale», sospirò Cazaril. «Se non il Roya, può trattarsi della sua Royina, di qualcuno che, come la Provincara, impone criteri e controlla che vengano osservati. Orico è…» Cazaril esitò di nuovo, consapevole di non poter dire che il Roya era debole e non osando asserire che era malato. Alla fine optò per una frase più vaga e diplomatica. «Orico non è interessato a rivestire tale compito e neppure la Royina Sara…» Voleva aggiungere che, ai suoi occhi, la Royina Sara appariva davvero molto pallida ed esile, sottile come un fantasma, ma si trattenne. «Ci rimane quindi soltanto il Cancelliere dy Jironal, che però è molto assorbito dagli affari di Stato e non si preoccupa di tenere a freno il fratello.»

«State dicendo che è lui a istigare Dondo?» chiese Betriz, socchiudendo gli occhi.

«Ricordate la battuta di Umegat, quando ha paragonato i corvi dello Zangre ai cortigiani?» chiese Cazaril, accostandosi un dito alle labbra con fare ammonitore. «Provate a invertire quell’affermazione. Avete mai visto i corvi combinare le loro forze per depredare il nido di un altro uccello? Uno allontana i genitori, mentre un altro sottrae le uova o i pulcini… Per fortuna, la maggior parte dei cortigiani di Cardegoss non è in grado di collaborare con la stessa efficacia dei corvi.»

«Non sono neppure certa che Teidez si renda conto che non tutto viene fatto nel suo interesse», sospirò Betriz.

«Temo che dy Sanda, nonostante la sua preoccupazione quanto mai concreta, non gli abbia spiegato la faccenda in termini abbastanza crudi. È pur vero che bisognerebbe essere quanto mai crudi, per dissolvere la nebbia di adulazione in cui Teidez sta fluttuando.»

«Ma è una cosa che voi fate di continuo per Iselle», replicò Betriz. «La spingete a osservare questo o quell’uomo, a notare cosa sta facendo e perché lo sta facendo… E, una volta constatato che quelle osservazioni corrispondono alla realtà, Iselle e io non possiamo fare a meno di darvi retta. Di conseguenza, anche noi cogliamo quei particolari rivelatori. Dy Sanda non potrebbe fare lo stesso per il Royse Teidez?»

«È più facile vedere una macchia sulla faccia di un altro che non sulla propria. Le pressioni esercitate su Iselle da questo stuolo di cortigiani sono infinitamente minori a quelle cui è sottoposto Teidez, cosa di cui rendo grazie agli Dei. Tutti sanno che lei verrà data in sposa lontano dalla corte e, probabilmente, fuori da Chalion, quindi non riveste per loro nessun interesse. Da Teidez, invece, dipenderà il loro benessere.»

La conversazione si dovette interrompere su quella nota inconcludente, ma Cazaril fu lieto di constatare che Betriz e Iselle cominciavano a essere consapevoli dei pericoli insiti nella vita di corte. Quell’ambiente era abbagliante e seducente, una vera festa per gli occhi, e per alcuni cortigiani era davvero soltanto un gioco allegro e innocente, anche se costoso. Per altri, invece, era un modo per mettersi in mostra, un susseguirsi di messaggi cifrati, una serie di attacchi e di parate analoga a quella di un duello vero, anche se non altrettanto letale, almeno a breve. Da quel turbine, la ragione rischiava di uscirne ubriaca, barcollante. Per rimanere in piedi, era necessario distinguere i giocatori dalle pedine. Dondo dy Jironal era senza dubbio uno dei principali giocatori, eppure ogni sua mossa doveva avere l’avvallo del fratello maggiore, sempre che non fosse addirittura diretta e controllata da lui. Tuttavia, anche se quella riflessione aveva un innegabile fondamento di verità, era molto più sicuro non formularla ad alta voce.

Quale che fosse il suo parere in merito alle direttive morali della corte, Cazaril dovette ammettere che almeno i musici impiegati da Orico erano decisamente abili. Ascoltandoli suonare, nel corso del successivo ballo serale, Cazaril pensò che il conforto provato da Orico nel suo serraglio equivaleva al conforto che la Royina Sara traeva dai menestrelli e dai cantori del castello di Zangre. La Royina non danzava, sorrideva di rado, ma non mancava mai una festa allietata dalla musica. Sedeva accanto al suo sposo ubriaco e addormentato oppure, se Orico si ritirava con passo barcollante, indugiava nel salone, in una galleria posta di fronte a quella occupata dai musici, insieme con le sue dame, al riparo di un paravento di legno intagliato. Non era difficile capire perché gradiva la musica, pensò Cazaril, mentre, appoggiato alla parete, in quello che era ormai diventato il suo posto abituale, batteva il tempo con un piede e osservava con fare benevolo le dame a lui affidate vorticare sul lucido pavimento di legno.

Dopo un brano particolarmente vivace, musici e danzatori si concessero una pausa e Cazaril si unì agli applausi generali, avviati dalla Royina. D’un tratto, una voce familiare quanto del tutto inaspettata, gli risuonò all’orecchio.

«Bene, Castillar, mi fa piacere constatare che cominci ad avere di nuovo l’aspetto di un tempo.»

«Palli!» esclamò Cazaril, controllando appena in tempo l’impulso di abbracciare l’amico e trasformando il gesto in un profondo inchino.

Palli era vestito coi calzoni azzurri, con la tunica e col tabarro bianchi, propri dell’Ordine militare della Figlia, e aveva gli stivali lucidi e la spada che gli scintillava al fianco. Scoppiò a ridere e rispose con un inchino altrettanto cerimonioso, seguito però da una salda e calorosa stretta di mano.

«Cosa ti conduce a Cardegoss?» chiese poi Cazaril, incuriosito.

«La giustizia, per la Dea! E non è stato lavoro da poco, considerato che ci è voluto un anno per mettere insieme tutti i pezzi. Sono qui per sostenere uno dei Lord Devoti, il Provincar dy Yarrin, in una sua piccola impresa di natura sacra. Non mi dispiacerebbe dirti di più al riguardo, ma non qui.» Lasciò vagare lo sguardo per la sala, dove le danze stavano riprendendo. «A quanto pare, sei sopravvissuto al tuo viaggio fino a corte… Significa che hai superato quella tua lieve crisi di nervi?»

«Finora sono sopravvissuto», replicò Cazaril, con una smorfia. «Anch’io preferisco non dire altro, qui, perciò suggerirei di trovare un angolo più fresco dove poter parlare tranquillamente.» Con una rapida occhiata, vide che Lord Dondo e suo fratello non c’erano, ma lì intorno si aggirava almeno una mezza dozzina di uomini che avrebbero senza dubbio riferito a entrambi di quel loro incontro.

I due si avviarono con passo noncurante verso la camera successiva, dove Cazaril guidò Palli verso la rientranza di una finestra che si affacciava su un cortile rischiarato dalla luna; di sotto, una coppia sedeva sul lato opposto del cortile, ma era troppo lontana per poterli sentire e aveva di certo altre cose cui pensare.

«Allora, cosa sta facendo bollire in pentola il vecchio dy Yarrin, per essere venuto a corte con tanta determinazione?» chiese Cazaril.

Il Provincar dy Yarrin era uno dei nobili di Chalion di rango più elevato tra coloro che avevano scelto di affiliarsi all’Ordine militare della Figlia. In genere, la maggior parte dei giovani nobili inclini alla vita militare preferiva votarsi all’Ordine del Figlio, per via della sua gloriosa tradizione nel combattere contro gli invasori roknari. Da giovane, perfino Cazaril aveva pronunciato un giuramento di Devoto laico all’Ordine del Figlio, giuramento che aveva poi rinnegato… in circostanze cui preferiva non pensare. Di dimensioni assai ridotte, il sacro Ordine militare della Figlia s’interessava di problemi umili e domestici, come la protezione dei Templi, il pattugliamento delle strade di accesso ai santuari oggetto di pellegrinaggio e, per estensione, si occupava della cattura di ladri di cavalli e di bestiame nonché degli assassini. Per quanto inferiori in numero rispetto agli altri ordini, i soldati votati alla Dea compensavano abbondantemente quella mancanza con la loro appassionata dedizione al loro servizio, come dimostrava il comportamento dello stesso Palli che, a parere di Cazaril, aveva finalmente trovato la sua vera vocazione.

«Si tratta di pulizie di primavera», spiegò Palli, sfoggiando un sorriso degno di una delle volpi del deserto di Umegat. «Un piccolo, sgradevole pasticcio insorto all’interno delle mura del Tempio, che finalmente si sta risolvendo. Da tempo dy Yarrin sospettava che qui a Cardegoss qualcuno si fosse appropriato dei fondi dell’Ordine, approfittando della lunga malattia del vecchio generale. Che qualcuno, insomma, facesse finire nella propria borsa quel denaro.»

«Una cosa sgradevole», borbottò Cazaril.

«La notizia non ti sorprende?» domandò Palli, inarcando un sopracciglio.

«In linea di massima, no», replicò Cazaril, scrollando le spalle. «Certi uomini, davanti a una tentazione così forte, cedono e basta. Non ho sentito dire nulla di preciso contro il controllore dell’Ordine della Figlia, qui a Cardegoss, a parte le abituali calunnie… Ma quelle vengono mosse a qualsiasi funzionario e ogni stolto è pronto a ripeterle.»

«Dy Yarrin ha impiegato oltre un anno a raccogliere prove e testimoni… Due ore fa, abbiamo colto di sorpresa il controllore, appropriandoci dei suoi libri mastri. Adesso lui è rinchiuso nelle celle della Casa della Figlia, sotto sorveglianza, e domattina dy Yarrin presenterà il caso al consiglio dell’Ordine. Il controllore verrà privato della sua carica e del suo rango entro il pomeriggio e sarà consegnato entro sera alla Cancelleria di Cardegoss per ricevere la meritata punizione», concluse, serrando il pugno.

«Ben fatto! Ti fermerai per qualche tempo, una volta concluso il processo?»

«Spero di restare qui un paio di settimane, per andare a caccia.»

«Oh, splendido», esclamò Cazaril, assaporando già il doppio piacere del tempo che avrebbe trascorso con l’amico e della possibilità di conversare con un uomo intelligente e onorevole.

«Ho preso alloggio in città, a Palazzo Yarrin, e stanotte non mi posso fermare a lungo. Sono venuto allo Zangre soltanto per accompagnare dy Yarrin, che è andato a presentare i suoi omaggi e il suo rapporto al Roya Orico e al generale Lord Dondo dy Jironal. Considerato il tuo aspetto decisamente sano, devo dedurre che i tuoi timori relativi ai fratelli Jironal siano risultati infondati.»

Cazaril non rispose immediatamente. La brezza che giungeva dalla finestra si era fatta gelida, tanto che perfino i due amanti nel cortile avevano scelto di rientrare. «Sto bene attento a non contrastare l’uno o l’altro, in nessun modo», rispose, infine.

Palli si accigliò, e parve lottare con se stesso per trattenere le parole che gli bruciavano sulle labbra.

In quel momento, un paio di servitori entrarono nella stanza, spingendo un carrettino su cui era sistemato un otre di vino caldo, che esalava un aroma di spezie e di zucchero, destinato alla sala da ballo. Sulla soglia, incrociarono una giovane dama che usciva ridacchiando, inseguita da presso da un cortigiano che rideva a sua volta. Ben presto, i due svanirono in lontananza, anche se l’eco delle loro risate continuò ad aleggiare, confondendosi con la musica, le cui note cadevano come fiori dall’alto della galleria.

«Lady Betriz dy Ferrej ha accompagnato qui da Valenda la Royesse Iselle?» domandò Palli.

«Non l’hai vista, tra le coppie che danzavano?» ribatté Cazaril.

«No… Ho visto anzitutto te, simile a un lungo bastone impegnato a puntellare le pareti. Quando ho saputo che la Royesse era qui, sono venuto a vedere se per caso c’eri anche tu, sebbene il modo in cui ti eri espresso nel corso del nostro ultimo incontro m’inducesse a dubitarne. Credi che potrei danzare con lei, prima che dy Yarrin finisca di conferire con Orico?»

«Se ritieni di avere le forze necessarie per aprirti un varco tra la calca che la circonda…» commentò Cazaril. «Io, in genere, preferisco rinunciare.»

Palli riuscì nell’impresa senza sforzo apparente, e ben presto si trovò a guidare una sorpresa e ridente Betriz nelle complesse figure della danza. Dedicò la danza successiva alla Royesse Iselle che, come Betriz, sembrò lieta di rivederlo. Poi si concesse una pausa e una mezza dozzina di nobili si avvicinò per salutarlo. Anche un paggio gli si accostò, mormorandogli all’orecchio un messaggio, in risposta al quale Palli si affrettò ad accomiatarsi con un inchino. Probabilmente doveva raggiungere il Lord Devoto dy Yarrin e accompagnarlo a casa.

Nel guardarlo allontanarsi, Cazaril si augurò che, il giorno dopo, il nuovo generale del sacro Ordine della Figlia, Lord Dondo dy Jironal, si mostrasse lieto e grato per l’opera di pulizia che quei due avevano intrapreso per suo conto, e a sua insaputa.

9

Cazaril trascorse la giornata successiva col sorriso sulle labbra, pieno di anticipazione per il piacevole diversivo costituito dalla visita di Palli. Lo turbava soltanto un poco il fatto che Iselle e Betriz si mostravano colpite dal giovane, le cui qualità senza dubbio risaltavano sullo splendido sfondo della corte. Si ripeteva che dy Palliar era un possidente terriero dotato di ricchezza, di fascino e di uno spiccato senso dell’onore, per cui sarebbe stato più che giusto se tra lui e Lady Betriz, per esempio, fosse nato qualcosa… Eppure, nel corso della giornata, Cazaril si trovò suo malgrado a elaborare piani per la serata che includevano l’amico, ma non le due dame.

Con sua notevole delusione, però, quella sera Palli non si presentò a corte. Neppure dy Yarrin si fece vedere e Cazaril ne dedusse che la presentazione delle prove al comitato, radunato nella Casa della Figlia, si era probabilmente prolungata fin dopo cena. D’altro canto, se la discussione di quel caso si fosse protratta, la permanenza di Palli a Cardegoss sarebbe durata anche più delle due settimane da lui previste.

Cazaril rivide l’amico soltanto il mattino successivo, quando lui si presentò all’improvviso sulla soglia del suo studio, che poi era l’anticamera dell’appartamento assegnato alla Royesse Iselle e alle sue dame. Nel sollevare lo sguardo dalla scrivania, Cazaril si accorse che Palli aveva abbandonato l’abbigliamento adatto alla corte a favore di una tenuta da viaggio: alti e logori stivali, una spessa tunica e un corto mantello da equitazione.

«Palli! Siediti…» lo invitò, indicando uno sgabello.

Spostato lo sgabello in modo da potersi sedere davanti a Cazaril, il giovane si adagiò su di esso con un grugnito di stanchezza. «Posso fermarmi solo un momento, amico mio… Ma non potevo partire senza salutarti. Io, dy Yarrin e le nostre truppe abbiamo l’ordine di lasciare Cardegoss prima del mezzogiorno di oggi, pena l’espulsione dal sacro Ordine della Figlia», spiegò, con un sorriso carico di tensione.

«Come? Che è successo?» esclamò Cazaril, posando la penna e spingendo di lato il registro della sempre più complessa contabilità personale di Iselle.

«Non sono certo di poterne parlare senza esplodere», ammise Palli, passandosi una mano tra i capelli neri e scuotendo il capo con aria incredula. «La scorsa notte sono riuscito a stento a trattenermi dall’estrarre la spada e trapassare il molle ventre di quel sogghignante figlio d’un cane. Caz, hanno respinto il caso presentato da dy Yarrin! Hanno confiscato tutte le prove, ricusato e congedato i testimoni senza neppure averli convocati e ascoltati!… Hanno permesso a quel ladro di un controllore di uscire di cella…»

«Chi lo ha fatto?»

«Il nostro Santo Generale, Dondo dy Jironal e le sue creature in seno al consiglio della Figlia, quei suoi cani tremebondi… Ah, che la Dea mi accechi, se mento nel dire che prima d’ora non avevo mai visto un simile branco di bastardi terrorizzati. Sono una vergogna per i suoi puri colori!» ringhiò Palli, calandosi il pugno serrato su un ginocchio. «Noi tutti sapevamo che da qualche tempo la Casa dell’Ordine, qui a Cardegoss, era nel caos… Quando il vecchio generale si è ammalato così gravemente, avremmo dovuto inviare una petizione al Roya per chiedergli di congedarlo. Però nessuno ha avuto il cuore di fare a quel povero vecchio una cosa del genere, anche perché pensavamo che un successore più giovane e vigoroso non avrebbe avuto difficoltà a rimettere le cose a posto e a ripartire da zero. Questo, però… è peggio della nostra leggerezza! È palese malafede! Caz, hanno assolto il controllore da ogni colpa, senza quasi degnare di uno sguardo le lettere e i libri mastri che lo incriminavano e che, la Dea mi è testimone, erano così numerosi da riempire due bauli! Sono pronto a giurare che la decisione era già stata presa ancor prima che l’udienza avesse inizio!»

Cazaril non aveva più sentito dy Palliar balbettare per la rabbia dal giorno in cui la notizia della vendita di Gotorget era stata comunicata all’affamata e malconcia guarnigione da un ben nutrito corriere del Roya, che aveva attraversato le linee dei roknari. Sconcertato, si appoggiò allo schienale, tormentandosi la barba con fare pensoso.

«Ho il sospetto… No, nel profondo del mio cuore, ho la certezza che Lord Dondo è stato pagato per emettere questo giudizio, sempre che non sia lui stesso il padrone che gestisce quel controllore disonesto… Così, adesso, due bauli pieni di prove vengono usati per alimentare i fuochi accesi sull’altare della Signora e il nostro nuovo generale dirige l’Ordine della Figlia come se fosse una mucca da mungere a piacimento. Ieri, un Accolita mi ha fermato sulle scale e, tremando come una foglia, mi ha sussurrato che dy Jironal ha posto sei contingenti di soldati della Figlia a disposizione dell’Erede di Ibra, nell’Ibra meridionale, come se fossero semplici mercenari. Questo non rientra nel loro mandato, non è opera da svolgere al servizio della Dea… È rubare sangue, il che è peggio che rubare denaro!»

Un frusciare di stoffa e un sussulto indussero entrambi gli uomini a guardare la porta di accesso alle stanze interne. Lady Betriz era ferma sulla soglia, con una mano appoggiata allo stipite, e la Royesse Iselle stava sbirciando da sopra la sua spalla. Entrambe avevano un’espressione allibita.

Sorpreso, Palli aprì la bocca senza emettere suono, la richiuse, deglutì a fatica e balzò in piedi, inchinandosi alle due dame. «Royesse, Lady Betriz, purtroppo mi devo congedare da voi», disse. «Farò ritorno a Palliar stamattina stessa.»

«Rimpiangeremo la perdita della vostra compagnia, March dy Palliar», replicò Iselle, con voce flebile.

«Caz…» proseguì Palli, girandosi verso Cazaril e abbozzando un altro inchino con aria contrita. «Mi dispiace non averti creduto riguardo ai fratelli dy Jironal. Dopotutto, non eri pazzo, e avevi ragione in pieno.»

«Credevo che mi avessi creduto…» mormorò Cazaril, sconcertato.

«Il vecchio dy Yarrin è astuto quanto te, e deve aver sospettato fin dall’inizio che potesse succedere qualcosa del genere. Quando gli ho chiesto perché pensava che avessimo bisogno di una scorta così nutrita per entrare a Cardegoss, mi ha risposto che non serviva per entrare, ma per uscire… Una battuta di cui capisco il significato soltanto adesso.»

«Non… tornerete più qui?» domandò Lady Betriz, con voce soffocata, portandosi una mano alle labbra.

«Giuro davanti alla Dea che non tornerò a Cardegoss se non per presenziare al funerale di Dondo dy Jironal», dichiarò Palli, passandosi una mano sulla fronte, sulle labbra, sul ventre e sull’inguine, per poi allargarla sul cuore nel sacro gesto della quintuplicità. «Mie signore…» salutò, con un rispettoso inchino, poi si protese ad afferrare le mani di Cazaril, baciandole, onore che lui si affrettò a ricambiare, mentre l’altro concludeva: «Caz… arrivederci».

Giratosi, dy Palliar lasciò a grandi passi la stanza e, non appena se ne fu andato, lo spazio da lui precedentemente occupato parve collassare su se stesso, come se a uscire fossero stati quattro uomini, e non uno solo. Betriz si avvicinò alla porta e si protese a sbirciare oltre lo stipite, per seguire con lo sguardo il giovane che si allontanava lungo il corridoio.

«Quanta parte della conyersazione avete sentito?» chiese Cazaril alle due dame, giocherellando nervosamente con l’estremità piumata della penna.

«Tutta, credo» replicò Betriz, scoccando un’occhiata a Iselle. «Dy Palliar non stava certo parlando a bassa voce.» Voltandosi, riattraversò lentamente l’anticamera, con espressione turbata.

«È un evento che si è verificato nel corso di un consiglio a porte chiuse di un Ordine militare sacro», mormorò Cazaril, cercando un modo per metterle in guardia. «Sono cose di cui Palli non avrebbe dovuto parlare, al di fuori della Casa della Figlia.»

«Ma essendo un Lord Devoto, un membro di quel consiglio, non ha dunque il diritto — anzi il dovere — di parlare dell’accaduto al pari di chiunque altro?» obiettò Iselle.

«Sì, però… L’ira nei confronti del suo stesso generale lo ha portato a formulare una serie di gravi accuse che non ha il… potere di provare.»

«Voi gli credete?» domandò Iselle, scoccandogli un’occhiata penetrante.

«Il problema non è ciò che credo io», ribatté Cazaril.

«Se è vero, però, si tratta di un crimine… Anzi di un atto peggiore di un crimine: è una violazione della fiducia accordata non solo dal Roya e dalla Dea, ma anche da tutti coloro che, nel loro nome, hanno pronunciato un giuramento di obbedienza.»

Vede le conseguenze, in entrambe le direzioni… bene, rifletté Cazaril, ma si rese subito conto che non era esattamente così. «Noi non abbiamo visto le prove, quindi è possibile che il consiglio abbia fatto bene a ignorarle. Non abbiamo modo di saperlo per certo.»

«Se non possiamo vedere le prove, come ha fatto invece il March dy Palliar, non possiamo valutare l’attendibilità degli uomini e da questo valutare le cose a ritroso?» chiese Iselle.

«No», dichiarò Cazaril con fermezza. «Talvolta anche un bugiardo dice la verità… Ed è possibile che un uomo onesto sia indotto a mentire da circostanze straordinarie e imprevedibili.»

«Credete che il vostro amico abbia mentito?» esclamò Betriz, sorpresa.

«No, è ovvio, perché è mio amico e lo conosco bene… Potrebbe essersi sbagliato, però.»

«Tutto questo è troppo confuso», affermò Iselle, in tono deciso. «Pregherò la Dea perché mi guidi.»

«Non avete bisogno di rivolgervi così in alto per avere una guida, Royesse», si affrettò a replicare Cazaril, ricordando cos’era successo l’ultima volta che Iselle aveva fatto una cosa del genere. «Avete involontariamente ascoltato un discorso confidenziale, quindi avete il dovere di non riferirlo a nessuno.»

«Ma se ciò che ho sentito è vero, allora la cosa ha importanza, Lord Caz… Ha una grande importanza!»

«In ogni caso, l’antipatia o la simpatia non costituisce una prova», insistette Cazaril.

«È vero, Lord Dondo non mi piace», osservò Iselle, accigliandosi. «Ha un odore strano, e ha sempre le mani calde e sudate.»

«Già», aggiunse Betriz, con una smorfia di disgusto. «Inoltre cerca sempre di toccare le persone…»

La penna si spezzò nelle mani di Cazaril, spargendogli la manica di goccioline d’inchiostro. «Davvero?» commentò lui, con un tono che sperava suonasse adeguatamente neutro. «E quando farebbe una cosa del genere?»

«Oh, ovunque, durante le danze, a cena, nei corridoi. Intendiamoci, qui sono molti i gentiluomini che fanno la corte alle dame, alcuni in maniera anche molto gradevole, ma Lord Dondo è… pressante. A corte, le dame avvenenti della sua stessa età abbondano, quindi non capisco perché lui non cerchi di esercitare il suo fascino su di esse.»

Per poco, Cazaril non le chiese se trentacinque anni le sembravano un’età avanzata per fare la corte alle giovani dame, ma si trattenne. «Naturalmente desidera acquisire influenza sul Royse Teidez», disse. «Quindi è deciso a entrare in ogni modo nelle grazie della Royesse, direttamente o tramite il suo seguito.»

«Oh, lo pensate sul serio?» esclamò Betriz, con un sospiro di sollievo. «Ero disgustata al pensiero che fosse davvero innamorato di me, però, se mi sta adulando soltanto per il proprio tornaconto, allora la cosa non mi crea problemi.»

«Lord Dondo deve avere un’idea davvero strana del mio carattere, se pensa che sedurre le mie dame possa farlo entrare nelle mie grazie!» esclamò Iselle, mentre Cazaril era ancora impegnato a dare un senso al contorto ragionamento di Betriz. «Inoltre, da quello che abbiamo visto finora, non credo che gli serva una maggiore influenza su Teidez. Sì, insomma, se la sua influenza fosse positiva, Teidez si dedicherebbe agli studi con maggiore impegno, godrebbe di una salute eccellente e la sua mente si aprirebbe a un mondo più vasto.»

Cazaril si trattenne a stento dal ribattere che Lord Dondo stava avendo un certo effetto su Teidez, almeno riguardo all’ultima voce di quell’elenco.

«Teidez non dovrebbe apprendere l’arte di governare?» proseguì Iselle, con crescente fervore. «Se non altro, dovrebbe seguire il lavoro che si svolge nella Cancelleria, partecipare ai consigli, ascoltare gli inviati, farsi un’idea della diplomazia, o almeno acquisire qualche cognizione nell’arte della guerra. La caccia è un’attività eccellente, ma non credete che Teidez dovrebbe partecipare alle esercitazioni militari, insieme coi soldati? Quanto alla sua dieta spirituale, sembra composta solo da dolci, senza nessun nutrimento sostanzioso. Che sorta di Roya intendono farlo diventare?»

Probabilmente, uno come Orico, sempre ubriaco e malato, che non competa col Cancelliere dy Jironal per la gestione del potere a Chalion, pensò Cazaril. «Non lo so, Royesse», si limitò però a rispondere.

«E come posso saperlo io? Come posso scoprire qualcosa?» si lamentò Iselle, camminando avanti e indietro, con la schiena irrigidita dalla frustrazione e le gonne che frusciavano. «La mamma e la nonna vorrebbero che io mi prendessi cura di lui. Cazaril, potete almeno scoprire se è vero che Lord Dondo ha venduto alcuni uomini della Figlia all’Erede di Ibra? Questa non è certo cosa che si possa mantenere facilmente segreta!»

Consapevole che Iselle aveva ragione, Cazaril deglutì a fatica. «Ci proverò, mia signora, ma… Dopo, cosa pensate di fare?» chiese, nel suo tono più severo, per enfatizzare i rischi. «Dondo dy Jironal è un uomo di enorme potere e lo si può avvicinare soltanto con la massima cautela.»

«Anche se è corrotto?» ribatté Iselle, girandosi di scatto per fissarlo con espressione intensa.

«Quanto più è corrotto, tanto maggiore è il pericolo», dichiarò Cazaril.

«Allora ditemi, Castillar… A vostro parere, quanto è pericoloso Dondo dy Jironal?» chiese Iselle, sollevando il mento di scatto.

Quella domanda colse Cazaril alla sprovvista. Avanti, dillo… Ammetti che Dondo dy Jironal è il secondo uomo più pericoloso di tutta Chalion, naturalmente dopo suo fratello, pensò. Tuttavia, invece di rispondere, prelevò una nuova penna dal portapenne d’argilla e procedette ad appuntirla col coltellino. «Neppure a me piacciono le mani sudate», replicò infine, dopo qualche istante.

Iselle sbuffò, tutt’altro che convinta, ma a Cazaril vennero risparmiate ulteriori discussioni perché, in quel momento, Nan dy Vrit chiamò le due dame. Era sorto un piccolo problema riguardante certe sciarpe e alcune perle di fiume disperse. Così le giovani furono costrette a rientrare nelle loro stanze.

Nei pomeriggi sempre più freschi, quando non venivano organizzate partite di caccia, la Royesse Iselle sfogava la propria energia in eccesso uscendo a cavallo col suo piccolo seguito e addentrandosi nella foresta di querce che cresceva vicino a Cardegoss. Con Lady Betriz e un paio di stallieri, Cazaril stava procedendo al trotto al seguito della giumenta pezzata di Iselle, percorrendo un verde sentiero erboso, solcato dalle chiazze dorate delle foglie cadute, e assaporando l’aria pungente, quando gli giunse all’orecchio il rumore di un martellare di zoccoli che si avvicinavano. Si lanciò un’occhiata alle spalle e sentì lo stomaco che gli si contraeva: un gruppo di uomini mascherati stava sopraggiungendo al galoppo lungo il sentiero.

Urlando, gli inseguitori furono loro addosso in un lampo. Cazaril aveva quasi estratto la spada dal fodero quando si accorse che i cavalli e gli equipaggiamenti appartenevano ad alcuni dei cortigiani più giovani del castello di Zangre. Subito dopo notò l’incredibile assortimento di stracci con cui i cavalieri erano abbigliati e vide che le chiazze di «sporcizia» sulle braccia e sulle gambe somigliavano a macchie di lucido per stivali.

Mentre i sorridenti banditi «catturavano» la Royesse e Lady Betriz, legando tutti i prigionieri con nastri di seta, Cazaril trasse un profondo respiro di sollievo e si appoggiò al pomo della sella, imponendo al proprio cuore di calmarsi e desiderando con fervore che qualcuno avesse pensato ad avvertire almeno lui di quello scherzo. Benché apparentemente non se ne fosse reso conto, il gaio Lord dy Rinal era stato a un passo dall’avere la gola squarciata. Una sorte simile sarebbe toccata al robusto paggio che si era avvicinato a Cazaril sull’altro lato e probabilmente la spada del Castillar si sarebbe conficcata nel ventre di un terzo avversario, prima che gli altri, se fossero stati veri banditi, avessero avuto il tempo di coordinare le loro forze… E tutto ciò in risposta a un riflesso condizionato, prima ancora cioè che il cervello di Cazaril potesse formulare una linea d’azione e che lui lanciasse un grido di avvertimento. Ignari, quei giovani cortigiani ridevano allegramente dell’espressione di terrore che gli avevano scorto sul viso e scherzavano sul fatto che lui avesse accennato a estrarre la spada. Così, sfoggiando un sorriso contrito, Cazaril preferì non spiegare qual era l’aspetto di quella faccenda che lo aveva fatto impallidire per il terrore.

Il gruppo raggiunse quindi l’«accampamento dei banditi», un’ampia radura dove numerosi servitori del castello, vestiti a loro volta con abiti volutamente laceri, stavano arrostendo allo spiedo daini e altra selvaggina. Banditesse, pastorelle e alcune mendicanti dall’aria alquanto nobile, nonostante gli abiti laceri, accolsero il ritorno dei rapitori. Iselle scoppiò in una risata velata d’indignazione quando il re dei banditi, dy Rinal, le tagliò una ciocca di capelli ricciuti e la sollevò, pretendendo un riscatto. E fu proprio in quel momento che un contingente di «soccorritori», vestiti in blu e bianco e capitanati da Lord Dondo dy Jironal, fece irruzione al galoppo nel campo. Seguì una battaglia finta ma serratissima, con alcuni tocchi macabri ottenuti grazie a vesciche di maiale piene di sangue. In conclusione, tutti i banditi furono abbattuti. E mentre alcuni si lamentavano che non si era trattato di un combattimento equo, Dondo recuperò la ciocca di capelli. Subito dopo, un finto Divino del Fratello prese a circolare tra i morti, facendo miracolosamente risorgere i banditi con l’ausilio di una borraccia piena di vino. Ben presto, l’intera compagnia si sedette per terra intorno ad ampie tovaglie, per banchettare e brindare.

Cazaril si trovò a dividere una tovaglia con Iselle, Betriz e Lord Dondo; sedutosi in disparte a gambe incrociate, prese a mangiare distrattamente un po’ di cacciagione e di pane, ascoltando Lord Dondo che intratteneva la Royesse con battute che, a suo parere, erano un po’ troppo pesanti per una dama. Poi Dondo implorò Iselle di fargli dono della ciocca di capelli, come premio per averla salvata e, con uno schiocco delle dita, chiamò a sé un paggio, che reggeva una custodia di cuoio lavorato. Dentro di essa c’erano due splendidi pettini di tartaruga adorni di gemme.

«Un tesoro in cambio di un tesoro, e saremo pari», dichiarò, riponendo la ciocca di capelli in una tasca interna del suo giustacuore, all’altezza del cuore.

«Però è un dono crudele… Regalare pettini a una donna che non ha più capelli su cui appuntarli», fu pronta a ribattere belle, sollevando uno dei pettini, che scintillò alla luce del sole.

«Potrete sempre farvi ricrescere i capelli, Royesse», obiettò Dondo.

«Ma voi potete far crescere un nuovo tesoro?»

«Con la stessa facilità con cui crescono i vostri capelli, ve lo garantisco», sorrise Dondo, appoggiandosi su un gomito accanto a lei e arrivando quasi a posarle la testa in grembo.

«Trovate allora che la vostra nuova carica sia molto remunerativa, Santo Generale?» domandò Iselle, smettendo di sorridere.

«Indubbiamente.»

«In tal caso, forse avete scelto il ruolo sbagliato, e oggi avreste dovuto recitare la parte del re dei banditi.»

«Se il mondo non funzionasse così, come potrei comprare abbastanza perle da soddisfare le belle dame?» replicò Dondo, con un sorriso forzato.

Due intense chiazze di colore si allargarono sulle guance di Iselle, che distolse lo sguardo, mentre il sorriso di Dondo si allargava. Stringendo i denti per trattenersi dall’intervenire, Cazaril si protese a prendere una caraffa di vino, con l’idea di rovesciare il liquido nel collo di Iselle e interrompere quello scambio pericoloso. Ma la caraffa era vuota. Con sollievo del Castillar, comunque, Iselle non accennò a ribattere e si mise invece a mangiare un po’ di pane e di carne. Di lì a poco, nel cambiare posizione, fece in modo di allontanare le proprie gonne da Lord Dondo.

Il gelo della sera autunnale stava cominciando ad accentuarsi, quando il gruppo, ormai sazio, si avviò a passo lento verso lo Zangre. Costringendo la propria giumenta a rallentare il passo, Iselle si affiancò a Cazaril

«Castillar, siete riuscito a scoprire cosa ci sia di vero in quella voce secondo cui le truppe della Figlia sarebbero state vendute come contingenti mercenari?» domandò.

«Ho ascoltato la stessa storia da un paio di persone, ma non direi che è stata confermata», replicò Cazaril. In realtà, aveva raccolto ampie conferme di quell’ignobile traffico, però gli sembrava imprudente rivelarlo a Iselle in quella circostanza.

Accigliandosi, la Royesse non aggiunse altro e spronò il cavallo, tornando a raggiungere Lady Betriz.

Quella notte, il banchetto risultò più spartano del solito e la serata si concluse senza danze, in quanto i cortigiani e le dame, stanchi per le attività pomeridiane, si ritirarono per tempo, per dormire o per indulgere in piaceri privati. Mentre attraversava un’anticamera, Cazaril si trovò a essere affiancato da Dondo dy Jironal, che gli mormorò: «Facciamo due passi insieme, Castillar? Credo che noi due si debba parlare…»

Scrollando le spalle, Cazaril lo seguì senza protestare, fingendo di non notare due giovani bravacci, un paio degli amici più corrotti di Dondo, che li seguivano a qualche passo di distanza. Usciti dalla torre che si ergeva all’estremità più stretta del palazzo, i due si trovarono in un cortiletto che dominava la confluenza dei due fiumi. A un segnale di Dondo, entrambi i giovani si disposero ad attendere vicino alla porta, appoggiandosi alla parete di pietra con l’aria di sentinelle stanche e annoiate.

Cazaril cercò di valutare la situazione. Nel caso di un duello, la sua portata con la spada era superiore a quella di Dondo; inoltre, benché fosse stato malato, i mesi trascorsi ai remi della galea avevano reso le sue braccia molto più forti di quanto sembrassero. D’altro canto, l’addestramento di Dondo era superiore al suo. Quanto ai due bravacci, erano giovani e un po’ ubriachi… Ma era anche possibile che quei tre non cercassero affatto lo scontro. No, in fondo non era necessario: un segretario tutt’altro che agile beveva un po’ troppo vino, poi andava a fare una passeggiata sui bastioni, scivolava e precipitava nel buio, rimbalzando contro le rocce, prima di finire nell’acqua, un centinaio di metri più in basso… Avrebbero trovato il suo corpo soltanto il giorno successivo, senza neppure una ferita d’arma da taglio, e avrebbero archiviato quella morte come un malaugurato incidente.

Alcune lanterne appese alla parete proiettavano una tremolante luce arancione. Dondo indicò una panchina di granito addossata alle mura esterne, la cui pietra risultò ruvida e fredda contro le gambe di Cazaril. Dondo prese posto accanto a lui con un piccolo grugnito, spingendo automaticamente di lato la sopravveste per lasciare libera l’impugnatura della spada.

«Allora, Cazaril… Ultimamente godete di molta confidenza da parte della Royesse Iselle», esordì.

«La carica di segretario comporta una grande responsabilità, come pure quella di tutore. E io svolgo con la massima serietà entrambi gli incarichi.»

«Questo non mi sorprende… Avete sempre preso tutto troppo sul serio. Però eccedere in una cosa, anche buona, può essere un difetto.»

Cazaril si limitò a scrollare le spalle, e Dondo appoggiò la schiena contro le mura, incrociando le gambe all’altezza delle caviglie, quasi si stesse mettendo comodo in previsione di una lunga chiacchierata. «Una ragazza della sua età e del suo rango dovrebbe cominciare a interessarsi agli uomini… Invece trovo la Royesse stranamente gelida.» Fece un cenno verso la torre, che si ergeva davanti a loro. «Una giumenta simile è fatta per la riproduzione… Ha due fianchi ampi, adatti a ospitare un uomo. C’è da sperare che sia riuscita a sfuggire alla corruzione presente nel sangue della sua famiglia, e che non stia già mostrando i primi sintomi dei… problemi mentali che hanno afflitto la sua povera madre.»

Cazaril si limitò a un borbottio inarticolato, preferendo non addentrarsi in quell’argomento.

«C’è da sperarlo», proseguì Dondo. «D’altro canto, se non si tratta di questo, viene quasi da chiedersi se qualche… persona dall’indole eccessivamente seria non abbia provveduto ad avvelenare la mente della Royesse, rendendomela ostile.»

«La corte è piena di pettegolezzi, e di gente pronta a diffonderli.»

«Non ne dubito. A proposito… Voi, Cazaril, in che termini le parlate di me?»

«Con cautela.»

«Fate bene», annuì Dondo, incrociando le braccia. «Tuttavia preferirei che le parlaste di me con calore. Sì, credo che sarebbe molto meglio.»

«Iselle è una ragazza molto intelligente e sensibile», ribatté Cazaril, umettandosi le labbra. «Se mentissi, sono certo che se ne accorgerebbe, quindi è meglio lasciare le cose come stanno.»

«Ah, ecco che arriviamo al dunque», sbuffò Dondo. «Sospettavo che mi portaste rancore per quel piccolo giochetto malvagio escogitato dal folle Olus…»

«No, mio signore, è una cosa dimenticata», garantì Cazaril, con un piccolo gesto di diniego. Ma la prossimità di Dondo, vicino a lui quanto lo era stato nella tenda di Olus, con quel suo odore particolare, gli stava facendo riaffiorare nella mente con nitidezza ogni dettaglio, dall’ansimante disperazione allo stridio del metallo e al violento colpo sul collo. «È successo molto tempo fa», concluse.

«Avere una memoria… malleabile è una virtù, tuttavia… Ritengo che i vostri sentimenti abbiano bisogno di essere un po’ riscaldati. Suppongo che siate ancora povero… Eh, certi uomini sembrano non riuscire a imparare i trucchi necessari per farsi strada nel mondo», dichiarò Dondo. Poi, con una certa difficoltà, si sfilò da un dito grasso e umido un anello d’oro piuttosto sottile in cui era però incastonata una grossa e scintillante gemma verde. «Lasciate che questo riscaldi il vostro cuore e la vostra lingua… nei miei confronti», aggiunse, offrendo il monile a Cazaril.

«La Royesse mi dà tutto ciò di cui ho bisogno, mio signore», ribatté Cazaril, senza accennare a muoversi.

«Non ne dubito», borbottò Dondo, aggrottando le sopracciglia nere sugli occhi scuri, che scintillavano alla luce incerta delle lanterne. «Suppongo che la vostra posizione vi dia ampie opportunità di riempirvi le tasche.»

«Se rifiutate di credere alla mia probità, mio signore, riflettete almeno su quello che sarà il futuro della Royesse Iselle, e sul fatto che io possiedo ancora il cervello elargitomi dagli Dei», scandì Cazaril, serrando i denti per nascondere il tremito d’indignazione che lo pervadeva. «Oggi la Royesse ha un piccolo seguito, ma un domani potrebbe avere una royacy, o un principato.»

«Lo pensate davvero?» chiese Dondo, con uno strano sorriso, poi scoppiò a ridere. «Ah, povero Cazaril, l’uomo che ignora la preda vicina e si lancia a inseguire quella che fugge probabilmente finirà a mani vuote. Questa vi sembra una dimostrazione d’intelligenza?» E posò l’anello sulla panchina, in mezzo a loro.

Aperte entrambe le mani, Cazaril le protese davanti al proprio petto col palmo sollevato, poi le abbassò con decisione sulle ginocchia. «Mio signore… Risparmiate il vostro tesoro e compratevi un uomo che abbia un prezzo più basso. Sono certo che non faticherete a trovarne uno», rispose in tono pacato.

Recuperato l’anello, Dondo lo fissò con espressione sempre più accigliata. «Non sei cambiato affatto, Cazaril», disse. «Sei sempre lo stesso moralista ipocrita. Tu e quello stupido di dy Sanda siete uguali, ma immagino che non ci sia da stupirsi, considerato che siete stati entrambi scelti da quella vecchia che risiede a Valenda.»

Alzatosi di scatto, si rimise l’anello al dito e si avviò a grandi passi. I due uomini rimasti ad attenderlo si affrettarono a seguirlo, dopo aver scoccato un’occhiata incuriosita a Cazaril, il quale trasse un profondo sospiro. Quel momento di furente soddisfazione era forse stato comprato a un prezzo troppo alto? Non sarebbe stato più saggio accettare l’anello e lasciare Lord Dondo con la felice convinzione di avere un altro uomo alle sue dipendenze, un individuo come lui, facile da capire e da controllare? Sentendosi molto stanco, si alzò e rientrò nella torre, salendo le scale verso la sua camera da letto.

Stava infilando la chiave nella serratura quando dy Sanda lo oltrepassò nel corridoio, sbadigliando e scambiando con lui un saluto abbastanza cortese.

«Aspettate un momento, dy Sanda», chiamò Cazaril.

«Castillar?» replicò questi, scoccandogli un’occhiata da sopra la spalla.

«In questi giorni, state ben attento a chiudere a chiave la porta e a tenere la chiave sempre con voi?»

«Ho un baule con una serratura robusta: una protezione sufficiente per le mie cose di valore», replicò dy Sanda, girandosi a guardarlo con espressione perplessa.

«Non è sufficiente. Dovete impedire l’accesso alla stanza.»

«In modo che non si possa rubare nulla? Ho ben poco che…»

«No, in modo che nulla di rubato possa essere messo al suo interno», precisò Cazaril.

Per un momento, dy Sanda rifletté su quelle parole, poi sollevò lo sguardo a incontrare quello di Cazaril. «Oh», mormorò infine, con un lento cenno di ringraziamento che era quasi un inchino. «Vi ringrazio, Castillar. Non ci avevo pensato.»

Ricambiato il cenno, Cazaril si ritirò nella propria camera.

10

Seduto in camera da letto, circondato da una quantità di candele accese e reggendo il classico poema brajariano La leggenda dell’albero verde, Cazaril si concesse un sospiro appagato. La biblioteca dello Zangre, famosa ai tempi di Fonsa il Saggio, era stata da allora molto trascurata. Quel particolare volume, a giudicare dalla polvere che lo copriva, di certo non era stato più estratto dallo scaffale fin da quando il regno di Fonsa si era concluso… Ma, a parte i versi di Behar, ciò che Cazaril apprezzava era potersi concedere una quantità di candele tale da rendere la lettura fino a notte tarda un piacere e non una sofferenza. Al di là del suo appagamento, però, Cazaril si sentiva un po’ in colpa: il costo di quelle candele si sarebbe infatti accumulato sui libri contabili di Iselle, e sarebbe parso un po’ strano.

Con le tonanti cadenze dei versi di Behar che gli echeggiavano nella mente, si umettò un dito e girò la pagina… poi però si rese conto che la poesia di Behar non era l’unica cosa intorno a lui che stava tuonando ed echeggiando. Lanciò un’occhiata al soffitto, da dove giungevano rapidi tonfi e rumori striscianti, misti a risa soffocate e a voci che si chiamavano a vicenda. Ma imporre a Iselle e a Betriz di andare a letto a un’ora ragionevole era un compito che spettava a Nan dy Vrit e non a lui, quindi Cazaril tornò a concentrarsi sulle visioni teologicamente simboliche del poeta, ignorando quel chiasso, almeno finché non sentì uno stridio, simile a quello di un maiale spaventato.

Soltanto allora — pensando con un sogghigno che si trattava di un mistero con cui neppure il grande Behar poteva competere -, si alzò dal letto, si allacciò la tunica, infilò le scarpe e prese un candelabro protetto da una campana di vetro per farsi luce nel salire le scale.

Lungo la strada, incontrò Dondo dy Jironal che stava scendendo i gradini. Abbigliato, come sempre quand’era a corte, con una tunica di broccato azzurro e calzoni bianchi di lana e lino, Dondo teneva in mano la sopravveste bianca, insieme con la cintura e la spada. Appariva teso e arrossato in volto. Quando s’incrociarono, Cazaril fece per rivolgergli un saluto cortese, ma le parole gli morirono sulle labbra di fronte all’espressione omicida dello sguardo del nobile, che lo oltrepassò in silenzio con aria tempestosa.

Nell’imboccare il corridoio del piano superiore, poi, Cazaril scoprì che i candelabri fissati alle pareti erano tutti accesi e che li era radunata una quantità inspiegabile di persone… Non c’erano soltanto Betriz, Iselle e Nan dy Vrit, ma anche Lord dy Rinal, uno dei suoi amici, un’altra dama e Ser dy Sanda, stretti in un gruppetto e intenti a ridere di gusto. All’improvviso, Teidez e un paggio saettarono in mezzo a loro, lanciati all’inseguimento di un maialino ben pulito e adorno di nastri che, nel fuggire, si stava trascinando dietro una sciarpa. Il paggio riuscì finalmente a catturare l’animale proprio davanti ai piedi di Cazaril e Teidez lanciò un grido di trionfo.

«Nel sacco, nel sacco!» gridò dy Sanda.

Il tutore e Lady Betriz avanzarono proprio mentre Teidez e il paggio, unendo i loro sforzi, riuscivano a infilare la creatura in un grosso sacco di tela, nel quale essa non aveva nessuna voglia di entrare; chinandosi in avanti, Betriz accarezzò rapidamente dietro le orecchie la creatura che si dibatteva.

«Ti ringrazio, Lady Porcellina», disse. «Hai recitato a meraviglia la tua parte, ma adesso per te è ora di tornare a casa.»

Issatosi in spalla il pesante sacco, il paggio salutò i presenti e si allontanò, con passo barcollante a causa del peso, ma con un sorriso divertito che gli aleggiava ancora sulle labbra.

«Cosa sta succedendo qui?» chiese allora Cazaril, combattuto tra la voglia di ridere e un vago senso di allarme.

«Oh, è stato uno scherzo davvero grandioso!» esclamò Teidez. «Avreste dovuto veder l’espressione sulla faccia di Lord Dondo!»

«Che cosa avete fatto?» insistette Cazaril, con crescente apprensione. Aveva appena visto l’espressione di Dondo, e non aveva riso affatto.

Fu Iselle che intervenne a spiegare: «Dal momento che né i miei velati avvertimenti né le parole più esplicite di Lady Betriz sono riusciti a indurre Lord Dondo a desistere dalle sue attenzioni, o almeno a fargli capire che esse non erano gradite, abbiamo cospirato per procurargli l’appuntamento amoroso che tanto desiderava. Però, al posto della vergine che lui si aspettava di trovare, quando si è avvicinato in punta di piedi al letto di Betriz, Dondo ha trovato… Lady Porcellina!»

«Oh, state diffamando quella povera porcella, Royesse!» esclamò Lord dy Rinal. «Dopotutto, è possibile che anche lei sia vergine!»

«Dev’esserlo di certo, altrimenti non avrebbe strillato tanto», interloquì, ridendo, la dama che accompagnava dy Rinal.

«È un vero peccato che Lord Dondo non l’abbia trovata di suo gradimento», aggiunse dy Sanda, in tono acido. «Confesso di esserne sorpreso. Stando a quello che ho sentito dire sul suo conto, mi sarei aspettato che fosse pronto a dividere il letto con qualsiasi creatura.» E scoccò un’occhiata in tralice a Teidez, per verificare l’effetto che quelle parole avevano su di lui.

«E dopo che abbiamo inondato quella porcellina col mio miglior profumo darthacano, per di più!» sospirò Lady Betriz, nel cui sguardo il divertimento rivaleggiava con una rabbia bruciante e con una profonda soddisfazione.

«Dovevate dirmelo…» cominciò Cazaril, ma subito dopo si chiese cosa, esattamente, gli avrebbero dovuto dire. Era evidente che non gli avevano rivelato il tenore dello scherzo perché lui si sarebbe opposto. Allora dovevano forse riferirgli le insistenti pressioni di Dondo? Domandandosi fino a che punto quelle pressioni fossero diventate sgradevoli, Cazaril serrò i pugni sino ad affondare le unghie nei palmi, consapevole che non c’era nulla che lui poteva fare. Rivolgersi a Orico o alla Royina Sara sarebbe stato del tutto inutile…

«Sarà la storia più interessante della settimana in tutta Cardegoss», dichiarò Lord dy Rinal. «Era da anni che Lord Dondo non era più vittima di uno scherzo, e credo che fosse davvero ora di pareggiare i conti. Mi pare già di sentire la gente che si mette a esclamare oink al suo passaggio, e sono certo che per mesi lui non potrà mangiare maiale senza sentire intorno a sé quel verso. Royesse, Lady Betriz… Vi ringrazio dal profondo del cuore.»

I due cortigiani e la dama si congedarono dagli altri, probabilmente per raccontare lo scherzo agli amici ancora svegli.

«Royesse… Non è stata una mossa saggia», mormorò Cazaril, dopo aver represso gli altri commenti che gli erano saliti alle labbra.

Per nulla intimidita, Iselle si girò a guardarlo con espressione accigliata. «Quell’uomo indossa le vesti di un sacro generale dell’Ordine della Signora della Primavera, e tuttavia cerca di derubare le donne della loro verginità, sacra alla Dea, proprio come deruba… Ecco, avete detto che non ci sono prove delle sue altre ruberie, però in questo caso la Dea ci è testimone che abbiamo prove a sufficienza! Se non altro, l’episodio di stasera gli insegnerà quanto sia poco saggio derubare chi dipende da me. Dopotutto, si suppone che lo Zangre sia un palazzo reale, non un fienile!»

«Rallegratevi, Cazaril», aggiunse dy Sanda. «Lord Dondo non può certo vendicare la propria vanità offesa a spese del Royse e della Royesse.» Poi si guardò intorno e vide che Teidez si era allontanato lungo il corridoio per recuperare i nastri che il maialino aveva seminato durante la fuga. Allora abbassò la voce, prima di aggiungere: «Inoltre, è valsa la pena mostrare a Teidez il suo… eroe sotto una luce meno lusinghiera. Quand’è uscito incespicando dalla camera di Betriz, reggendosi i pantaloni, Lord Dondo ha trovato i nostri testimoni ad attenderlo e, nel passargli tra le gambe per fuggire, Lady Porcellina per poco non lo ha gettato a terra, facendogli fare la figura del perfetto idiota. È stata la lezione migliore che sono riuscito a impartire a Teidez in tutto il mese trascorso dal nostro arrivo, e adesso forse riusciremo a riguadagnare un po’ del terreno perduto».

«Prego che voi abbiate ragione», replicò Cazaril, con cautela, evitando di precisare che il Royse e la Royesse erano le uniche persone a essere al sicuro dalla vendetta di Dondo.

Nonostante i suoi timori, per parecchi giorni non ci furono segni di rappresaglie e Lord Dondo sopportò le battute di dy Rinal e dei suoi amici con aria tesa ma sorridente. A ogni pasto, Cazaril si sedette a tavola con l’aspettativa — quasi con la certezza — di veder servire un particolare maiale, arrostito e decorato con nastri. Non successe mai, eppure lui continuò a sentirsi tutt’altro che tranquillo, mentre Lady Betriz, che in un primo tempo si era lasciata contagiare dai suoi timori, adesso pareva calmissima. Contrariamente a lei, però, Cazaril aveva avuto ampia dimostrazione del fatto che Dondo, a onta del temperamento irascibile, era capace di aspettare a lungo l’occasione giusta per vendicarsi.

Con sollievo di Cazaril, entro una quindicina di giorni i cortigiani smisero d’imitare il verso del maiale nei corridoi del castello. Nuove feste, altre burle e pettegolezzi più freschi presero il posto dello scherzo giocato a Lord Dondo; col trascorrere dei giorni, Cazaril arrivò addirittura a sperare che Dondo avesse deciso d’inghiottire in silenzio l’amara medicina che gli era stata pubblicamente somministrata. Forse era stato merito del fratello, incline a considerare orizzonti più vasti della piccola società chiusa dentro le mura del castello di Zangre. Sì, poteva darsi che fosse intervenuto per smorzare la reazione di Lord Dondo… anche perché dall’esterno stavano giungendo notizie allarmanti. Si parlava di un intensificarsi della guerra civile nell’Ibra meridionale, di atti di banditismo nelle province e del fatto che il maltempo aveva bloccato i passi montani molto in anticipo rispetto al solito.

Alla luce di quei rapporti, Cazaril cominciò a pensare ai problemi logistici connessi al trasferimento della Royesse e del suo seguito, qualora la corte avesse lasciato il castello di Zangre in anticipo per trasferirsi presso la sua residenza invernale prima della Giornata del Padre. Era dunque seduto nel suo studio, intento a calcolare la quantità di cavalli e di muli necessari, quando uno dei paggi di Orico si presentò sulla porta dell’anticamera.

«Mio signore dy Cazaril… Il Roya vi chiede di raggiungerlo nella Torre di Ias», disse il giovane.

Inarcando le sopracciglia con aria sorpresa, Cazaril posò la penna e seguì il paggio, chiedendosi quale servizio intendesse richiedergli Orico, ben noto per le sue idee tanto improvvise quanto eccentriche. Già due volte, in precedenza, gli aveva ordinato di accompagnarlo nel serraglio, dove gli aveva fatto svolgere compiti più adatti a un paggio o a uno stalliere, come tenere un animale per la catena o andare a prendere le spazzole o il foraggio. Però… No, non si era trattato solo di quello: con aria apparentemente distratta, il Roya ne aveva approfittato anche per porgli domande ben mirate sul conto di sua sorella Iselle. Cazaril non si era fatto pregare, rivelando l’orrore di Iselle all’idea di poter essere data in sposa a qualche regnante dell’Arcipelago o a un altro principe roknari. Aveva spiegato ogni cosa con tatto, augurandosi che Orico lo stesse ascoltando più attentamente di quanto lasciava supporre il suo atteggiamento assonnato.

Preceduto dal paggio, Cazaril raggiunse la lunga stanza al secondo piano della Torre di Ias, che dy Jironal usava come Cancelleria quando la corte risiedeva al castello di Zangre. Era un ambiente rivestito di scaffali carichi di libri e di pergamene. Lì venivano ospitate anche le sacche da sella con sigillo utilizzate dai corrieri reali. All’arrivo di Cazaril, le due guardie in livrea, sull’attenti davanti alla porta, lo seguirono all’interno, tenendolo d’occhio.

Il Roya Orico era seduto insieme col Cancelliere dietro un grande tavolo coperto di documenti e aveva l’aria stanca; quanto a dy Jironal, abbigliato quel giorno come un semplice cortigiano, anche se con la catena simbolo della sua carica, appariva teso e attento. Un altro cortigiano, che Cazaril riconobbe come Ser dy Maroc, responsabile dell’armeria e del guardaroba reale, era fermo a un’estremità del tavolo, mentre dall’altra parte c’era uno dei paggi di Orico, che aveva l’aria molto preoccupata.

«È Castillar dy Cazaril, sire», annunciò il paggio che aveva accompagnato Cazaril, poi scoccò una rapida occhiata all’altro paggio e si addossò alla parete opposta, cercando di rendersi invisibile.

«Sire, Lord Cancelliere», salutò Cazaril, con un inchino.

Dy Jironal si accarezzò la barba brizzolata e guardò Orico, prendendo la parola allorché questi si limitò a scrollare le spalle. «Castillar… Volete fare a sua maestà il favore di togliervi la tunica e girarvi?»

Con la gola serrata da un improvviso senso di disagio, Cazaril si limitò ad annuire e slacciò il colletto della tunica, sfilandosela insieme con la sopravveste e ripiegando il tutto su un braccio. Teso in volto, eseguì quindi un dietro-front in perfetto stile militare e rimase immobile. Alle proprie spalle, sentì due uomini sussultare.

«Ve l’avevo detto», borbottò poi una voce giovanile. «Io l’ho visto.»

Ah, dunque si trattava di quel paggio.

Sentendo qualcuno schiarirsi la gola, Cazaril attese che il rossore gli fosse svanito dalle guance prima di tornare a voltarsi. «È tutto, sire?» chiese in tono calmo.

«Castillar…» replicò Orico, agitandosi sulla sedia. «Si sussurra… Siete accusato… È stata formulata un’accusa… Pare che voi siate stato riconosciuto colpevole del crimine di stupro, a Ibra, e pubblicamente fustigato.»

«È una menzogna, sire. Chi lo afferma?» ribatté Cazaril, guardando Ser dy Maroc, che era leggermente impallidito.

Dy Maroc non era al soldo dei due fratelli dy Jironal e, per quanto ne sapeva Cazaril, non era neppure uno dei complici abituali di Dondo… Possibile che fosse stato corrotto per l’occasione? O che fosse onesto ma stupido?

«Anch’io voglio vedere mio fratello, e subito!» esclamò in quel momento una voce limpida e decisa, nel corridoio. «È nel mio diritto!»

Le guardie di Orico scattarono in avanti, poi si affrettarono a indietreggiare di nuovo quando la Royesse Iselle, seguita da una pallidissima Lady Betriz e da Ser dy Sanda, fece irruzione nella stanza.

Un semplice colpo d’occhio fu sufficiente a Iselle per capire cosa stava accadendo. «Cosa significa tutto questo, Orico?» esclamò. «Dy Sanda mi ha riferito che hai arrestato il mio segretario! E questo senza neppure avvertirmi!»

Mentre la bocca del Cancelliere dy Jironal assumeva una piega contrariata, a indicare che quell’intrusione non rientrava nei suoi piani, Orico agitò le mani grassocce in un gesto conciliatorio. «No, no, non lo abbiamo arrestato», garantì. «Nessuno è stato arrestato. Siamo qui riuniti soltanto per indagare su un’accusa.»

«Che genere di accusa?»

«È una cosa molto grave, Royesse, e non è adatta alle vostre orecchie», intervenne dy Jironal. «Sarebbe meglio se vi ritiraste.»

Ignorandolo, Iselle prese una sedia e vi si lasciò cadere, incrociando le braccia. «Se viene mossa una grave accusa contro un mio fidato servitore, la cosa è indubbiamente adatta alle mie orecchie. Cazaril, di cosa si tratta?»

«Alcune persone hanno messo in giro una voce diffamante», replicò Cazaril, inchinandosi. «Le cicatrici che ho sulla schiena sarebbero, a dir loro, la punizione che ho subito per un crimine da me commesso.»

«Lo scorso autunno, a Ibra», intervenne dy Maroc, con fare nervoso.

Un sussulto di Betriz, unito a un improvviso dilatarsi dei suoi occhi, indicò che, nell’aggirare Cazaril per seguire Iselle, anche lei aveva visto la devastazione presente sulla sua schiena. Accanto a lei, Ser dy Sanda sussultò a sua volta.

«Posso rimettermi la tunica, sire?» domandò Cazaril, impassibile.

«Sì, sì», concesse Orico.

«La natura del crimine in questione, Royesse, è tale da gettare gravi dubbi sul fatto che quest’uomo possa essere accettato come fidato servitore, presso di voi o presso qualsiasi altra dama», riprese dy Jironal, con disinvoltura.

«Di cosa lo accusate, di stupro?» esclamò Iselle, in tono sprezzante. «Cazaril? È la menzogna più assurda che abbia mai sentito.»

«Tuttavia quelle sono cicatrici lasciate da una fustigazione», sottolineò dy Jironal.

«Dono di un capo vogatore roknari, a causa di un mio sconsiderato atto di sfida», precisò Cazaril, a denti stretti. «È successo lo scorso autunno, al largo della costa di Ibra… Questi dettagli, se non altro, sono esatti.»

«Plausibile, eppure… strano», insistette dy Jironal, assorto. «Le crudeltà commesse sulle galee sono leggendarie, ma un capo vogatore competente si guarda bene dal danneggiare uno schiavo al punto di renderlo inutilizzabile.»

«L’ho provocato», spiegò Cazaril, con un accenno di sorriso.

«In che modo?» chiese Orico, appoggiandosi allo schienale della sedia e tormentandosi il doppio mento.

«Gli ho passato la mia catena intorno alla gola, cercando di strangolarlo. Ci sono quasi riuscito, ma mi hanno staccato da lui un po’ troppo presto.»

«Dei santissimi… Avete cercato di suicidarvi?» esclamò il Roya.

«Io… non lo so con certezza. A quel punto, credevo di non avere più la capacità d’infuriarmi, ma… Mi avevano dato un nuovo compagno di panca, un ragazzo ibrano di non più di quindici anni. Sosteneva di essere stato rapito, e io gli ho creduto, perché era chiaro che era di buona famiglia, curato, educato nel parlare… Si è riempito subito di vesciche e le sue mani hanno preso a sanguinare sui remi. Quel ragazzo — mi ha detto di chiamarsi Danni, ma non ho mai saputo il suo cognome — era spaventato, ma anche pieno di orgoglio e, quando il capo vogatore ha cercato di usarlo in un modo proibito ai roknari, lui lo ha colpito, prima che potessi fermarlo. Il suo è stato un gesto folle e sciocco, ma il ragazzo non si è reso conto delle conseguenze, e io ho pensato… Ecco, a dire il vero non avevo le idee molto chiare, ma ho pensato che se avessi colpito ancora più forte sarei riuscito a distrarre il capo vogatore, che non se la sarebbe presa con lui.»

«Attirando così la sua rappresaglia su di voi?» interloquì Betriz, meravigliata.

Cazaril si limitò a scrollare le spalle. Prima di passargli la catena intorno al collo, aveva sferrato al capo vogatore una ginocchiata all’inguine tale da garantire il sopirsi di ogni ardore amoroso per almeno una settimana. Non aveva riflettuto che quella settimana sarebbe passata, e che si sarebbe tornati al punto di partenza. «È stato un gesto inutile o, meglio, lo sarebbe stato, se per puro caso il mattino successivo non ci fossimo imbattuti nella flotta ibrana, che ci ha salvati tutti», concluse.

«In tal caso, avrete qualche testimone», osservò dy Sanda, in tono incoraggiante. «Dalla vostra storia, pare addirittura che ce siano parecchi: il ragazzo, gli schiavi sulla galea, i marinai ibrani… Sapete che ne è stato del ragazzo?»

«Non ne ho idea. Per parecchio tempo sono rimasto presso il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre, a Zagosur, perché ero troppo malato per muovermi e, quando ne sono uscito, gli altri si erano sparpagliati chissà dove.»

«Una storia veramente eroica», commentò dy Jironal, in un tono sbrigativo, rammentando così implicitamente che quella era la versione di Cazaril. Poi si accigliò e fece correre lo sguardo sui presenti, soffermandosi per un momento su dy Sanda e sull’indignata Iselle, prima di aggiungere: «Tuttavia… Suppongo che voi potreste chiedere alla Royesse un mese di licenza per raggiungere Ibra e rintracciare alcuni di questi testimoni così convenientemente sparpagliati, sempre che vi sia possibile trovarli».

Lasciare le dame prive di protezione per un mese? E poi, avrebbe fatto ritorno o sarebbe stato assassinato e sepolto in una fossa nei boschi circostanti Cardegoss, lasciando che tutti a corte pensassero a una sua fuga e ne deducessero che era veramente colpevole? Accanto a Iselle, Betriz impallidì e si portò una mano alle labbra, ma il suo sguardo di fuoco rimase appuntato su dy Jironal, segno che almeno lei era disposta a credere alle parole di Cazaril e non ai segni sulla sua schiena.

«No», dichiarò Cazaril, raddrizzandosi. «Quest’accusa mi diffama ingiustamente, e la mia parola giurata si contrappone a qualsiasi diceria. A meno che abbiate prove più concrete dei semplici pettegolezzi di palazzo, respingo questa menzogna. Oppure… Da chi avete saputo questa storia? Ne avete rintracciato le origini? Chi è che mi accusa… Siete voi, dy Maroc?» E fissò il cortigiano con aria accigliata.

«Spiegatevi, dy Maroc», lo invitò dy Jironal, con un cenno della mano.

«Me ne ha parlato un mercante di seta ibrano, con cui ho trattato per rifornire il guardaroba del Roya», affermò dy Maroc, traendo un profondo respiro. «Quell’uomo ha asserito di aver riconosciuto il Castillar per averlo visto fustigare pubblicamente a Zagosur e si è mostrato sconvolto di trovarlo qui. Si era trattato di un caso molto spiacevole, mi ha detto. Il Castellar aveva violato la figlia di un uomo che lo aveva accolto presso di sé e gli aveva dato ospitalità. Ecco perché gli era rimasto impresso.»

«Siete certo che non mi abbia semplicemente scambiato per qualcun altro?» chiese Cazaril, grattandosi la barba.

«No, perché conosceva il vostro nome», ribatté dy Maroc.

Cazaril socchiuse gli occhi, consapevole ormai che non si trattava di un errore, ma di una vera e propria menzogna, proferita a pagamento. Ma chi era stato a mentire: il mercante o il cortigiano?

«Dov’è adesso questo mercante?» intervenne dy Sanda.

«È ripartito alla volta di Ibra. Temeva cominciasse a nevicare.»

«Quando, esattamente, avete appreso questa storia?» chiese Cazaril, senza scomporsi.

Dy Maroc esitò, agitando le dita lungo il fianco, come se stesse contando. «Il mercante è partito tre settimane fa, e mi ha parlato della cosa proprio prima di andarsene.»

Sì, adesso so chi sta mentendo, pensò Cazaril, con un vago, amaro sorriso. Non dubitava che a palazzo ci fosse stato davvero un mercante di seta ibrano e che fosse ripartito da Cardegoss nella data indicata. Ma se n’e andato molto prima che Dondo provasse a corrompermi con lo smeraldo… Al momento della partenza di quel mercante, Dondo non poteva sapere che il tentativo di comprarmi sarebbe fallito. Non aveva bisogno d’inventare quella menzogna per liberarsi di me. Sfortunatamente, però, quello non era certo un ragionamento che Cazaril poteva addurre a propria difesa.

«Quel mercante non aveva ragione di mentire», aggiunse dy Maroc.

Tu però ce l’hai, una ragione… Mi chiedo quale sia, pensò Cazaril. «Dunque sapete di questa grave accusa da tre settimane», disse. «Tuttavia l’avete sottoposta soltanto adesso all’attenzione del vostro signore. Mi sembra un comportamento davvero strano da parte vostra, dy Maroc.»

Il cortigiano si limitò a fissarlo.

«Se l’ibrano se n’è andato, ormai è impossibile appurare chi sta dicendo la verità», intervenne Orico, in tono lamentoso.

«In tal caso, a Lord dy Cazaril dovrebbe essere concesso il beneficio del dubbio», dichiarò dy Sanda, raddrizzandosi. «Forse voi non lo conoscete bene, ma lo stesso non si può dire della Provincara dy Baocia, che gli ha dato la propria fiducia. Dopotutto, il Castillar ha servito il suo defunto marito per sei o sette anni.»

«Quand’era più giovane», osservò dy Jironal. «Gli uomini cambiano, soprattutto se vengono esposti alla brutalità della guerra. Se su di lui esiste anche il minimo dubbio, a mio parere non dovrebbe occupare un ruolo così importante e, se posso dirlo, ricco di tentazioni», aggiunse, guardando Betriz.

Chiamata in causa indirettamente, la dama trasse un lungo, furente respiro, ma la sua esplosione venne prevenuta da Iselle. «Oh, stupidaggini!» esclamò la Royesse. «Nel bel mezzo della brutalità della guerra voi stesso avete consegnato a quest’uomo le chiavi della fortezza di Gotorget, che nel nord ancorava l’intero schieramento di battaglia di Chalion. È chiaro che a quel tempo vi fidavate a sufficienza di Cazaril, March dy Jironal, e non è stato certo lui a infrangere quella fiducia!»

Il sorriso di dy Jironal divenne più teso. «Chalion è diventata un vero Stato belligerante, se adesso perfino le fanciulle cercano di darci consigli sulle strategie da adottare», commentò, a denti stretti.

«Non potrebbero certo consigliarcene di peggiori», ringhiò a mezza voce Orico, ma soltanto un fugace spostarsi dello sguardo nella sua direzione indicò che il Cancelliere lo aveva sentito.

«Già che ci siamo, dy Jironal…» intervenne dy Sanda, in tono perplesso. «Si può sapere come mai il Castillar non è stato riscattato insieme col resto degli ufficiali, quando avete consegnato Gotorget ai roknari?»

Cazaril serrò i denti, implorando silenziosamente dy Sanda di lasciar cadere l’argomento.

«I roknari hanno riferito che lui era morto», fu la risposta del Cancelliere. «Quando ho appreso che era ancora vivo, ho supposto che ci avessero mentito per vendicarsi di lui. Però, se il mercante di seta ha detto la verità, è possibile che lui si fosse nascosto per la vergogna. Dev’essere sfuggito ai roknari, aggirandosi per qualche tempo nelle terre di Ibra, fino al suo arresto.» E scoccò una fugace occhiata a Cazaril.

Menti sapendo di mentire, pensò questi. D’altro canto, dy Jironal non poteva ancora essere certo che Cazaril sapesse della sua menzogna. La cosa, peraltro, non gli era particolarmente utile, dato che quello non era il momento più adatto per lanciare una contro-accusa. Quell’accusa infamante aveva già dimezzato la sua credibilità, a prescindere dall’esito dell’inchiesta voluta da Orico.

«Io comunque non capisco come la sua perdita sia stata accettata senza nessuna indagine», insistette dy Sanda, fissando dy Jironal. «Dopotutto, lui era il comandante della fortezza.»

«L’ipotesi di una vendetta roknari nei confronti di Cazaril implicava che lui, in battaglia, avesse fatto pagare ai nemici un caro prezzo, no? Non si spiegherebbe altrimenti il trattamento che ha subito in seguito», intervenne Iselle.

La smorfia sul volto di dy Jironal indicò che la piega presa dal discorso non era di suo gradimento. Appoggiatosi allo schienale della sedia, il Cancelliere accantonò quella digressione con un cenno della mano. «A quanto pare, siamo arrivati a una situazione di stallo: la parola di un uomo contro quella di un altro e nessun mezzo per arrivare a una decisione. Sire, vi consiglio di usare prudenza e di assegnare al Castillar dy Cazaril un posto di minore importanza, o di rimandarlo presso la Vedova dy Baocia.»

«Lasciando che questa accusa diffamante non venga confutata? No, non intendo accettarlo!» esclamò Iselle, furente.

Massaggiandosi la testa come se gli dolesse, Orico scoccò una serie di occhiate in tralice al suo distaccato consigliere e all’agitatissima sorellastra. «Oh, Dei, odio questo genere di cose…» gemette. Subito dopo, tuttavia, la sua espressione cambiò e lui si sollevò di scatto, esclamando: «Ma certo, esiste la giusta soluzione… proprio la giusta soluzione, eh, eh…» Chiamato a sé con un cenno il paggio che aveva convocato Cazaril, gli mormorò qualcosa all’orecchio, sotto lo sguardo accigliato di dy Jironal, che però non riuscì a sentire le parole del sovrano.

«Quale sarebbe la giusta soluzione, sire?» domandò, apprensivo, dopo che il paggio fu uscito.

«Non è una soluzione mia, bensì degli Dei», precisò Orico. «Lasceremo che siano gli Dei a decidere chi è innocente e chi sta mentendo.»

«Non penserete di sottoporre la questione all’ordalia delle armi, vero?» esclamò dy Jironal, con una nota di orrore nella voce.

Cazaril non faticò a condividere quel suo stato d’animo, e così fece pure dy Maroc, almeno a giudicare dal modo in cui il sangue gli defluì dal volto.

«Ecco un’altra idea valida», osservò Orico, guardando dy Maroc e Cazaril. «Questi due mi sembrano due avversari che si equivalgono. Certo, dy Maroc è più giovane, e se la cava bene negli addestramenti con la spada, ma l’esperienza ha i suoi vantaggi.»

Lady Betriz appuntò lo sguardo su dy Maroc e assunse un’aria preoccupata. Anche Cazaril era turbato, benché per ragioni probabilmente opposte alle sue. Senza dubbio, dy Maroc era molto abile nell’arte del duello, il che significava che, nel corso di una vera battaglia, sarebbe sopravvissuto al massimo cinque minuti. In quel momento, dy Jironal incontrò il suo sguardo per la prima volta da quando l’inchiesta era iniziata e, nel comprendere che lui stava facendo il medesimo calcolo, Cazaril si sentì contrarre lo stomaco per il disgusto all’idea di massacrare quel ragazzo, per corrotto che fosse.

«Non so se quell’ibrano abbia mentito», interloquì dy Maroc. «So soltanto quello che mi ha detto.»

«Sì, sì», annuì Orico, accantonando quelle giustificazioni con un cenno impaziente. «Credo che il mio piano sia il migliore.» Poi sbuffò, si sfregò il naso con la manica e si dispose ad attendere, mentre sulla stanza calava un silenzio pieno di tensione.

Fu il paggio, di ritorno nella sala, a romperlo. «Umegat, sire», annunciò il ragazzo.

L’azzimato e vivace stalliere roknari entrò nella stanza e, nel vedere quel gruppetto, assunse un’aria vagamente sorpresa. Tuttavia continuò ad avanzare senza indugi e si fermò davanti, al suo padrone con un profondo inchino. «Come posso servirvi, mio signore?» domandò.

«Umegat… Voglio che tu vada fuori e che catturi il primo corvo sacro che vedrai, portandolo qui», rispose Orico. Poi si rivolse al paggio. «Tu! Va’ con lui per fare da testimone. Avanti, spicciatevi», concluse, battendo le mani.

Senza manifestare la minima sorpresa o porre domande di sorta, Umegat s’inchinò di nuovo e uscì; contemporaneamente, Cazaril sorprese dy Maroc nell’atto di scoccare a dy Jironal una supplichevole occhiata in cui sembrava chiedere direttive… Un’occhiata che il Cancelliere non notò.

«Dunque, come possiamo organizzare la cosa?» borbottò Orico. «Sì, ci sono… Cazaril, voi vi metterete su un lato della stanza, e dy Maroc si metterà sul lato opposto.»

Dopo una rapida — e approssimativa — valutazione delle probabilità, dy Jironal, con un impercettibile cenno del capo, indicò a dy Maroc l’estremità della stanza dove c’era la finestra aperta, relegando di conseguenza Cazaril sul lato più buio.

«Voi spostatevi tutti di lato, per fare da testimoni», proseguì Orico, rivolto a Iselle e al suo seguito. «Questo vale anche per voi», aggiunse, guardando il paggio e le due guardie. Alzatosi, aggirò quindi il tavolo per disporre le sue pedine umane nel modo più soddisfacente possibile, mentre dy Jironal rimaneva seduto, intento a giocherellare con una penna, scuro in volto.

Umegat tornò molto prima di quanto Cazaril si sarebbe aspettato, tenendo un corvo sotto un braccio. Il paggio che gli saltellava intorno con fare eccitato.

«È il primo corvo che avete visto?» chiese Orico al ragazzo.

«Sì, mio signore», rispose il ragazzo, con un filo di voce. «Ecco, i corvi erano tutti in volo sopra la Torre di Fonsa, quindi ne abbiamo visti contemporaneamente almeno sei o sette. Umegat si è fermato in mezzo al cortile con le braccia protese e gli occhi chiusi, e questo corvo gli si è andato a posare sulla manica!»

Cazaril sforzò invano la vista per cercare di determinare se a quel volatile borbottante mancassero per caso due penne della coda.

«Benissimo», dichiarò Orico, soddisfatto. «Umegat, ora voglio che tu ti metta nel centro esatto della stanza e che, al mio segnale, lasci andare il corvo sacro, così vedremo verso quale uomo volerà e avremo la risposta al nostro interrogativo. Un momento, però… Prima tutti dovrebbero pregare in cuor loro gli Dei perché ci guidino.»

«Ma, sire, come interpreteremo la risposta?» obiettò Betriz, mentre accanto a lei Iselle stava già assumendo un composto atteggiamento di preghiera, poi fissò intensamente Umegat e aggiunse: «Il corvo deve volare verso il bugiardo, o verso l’uomo sincero?»

«Oh», mormorò Orico, incerto.

«E cosa faremo se quell’uccellaccio si limiterà a volare in cerchio?» aggiunse dy Jironal, con una sfumatura esasperata nella voce.

In tal caso, sapremo che gli Dei sono confusi quanto noi, pensò Cazaril.

«Dal momento che la verità è sacra agli Dei, essi lasceranno volare il corvo verso l’uomo sincero, sire», interloquì Umegat, con un inchino, accarezzando il corvo per calmarlo.

«Oh, benissimo», annuì Orico. «Allora puoi procedere.»

Umegat, che Cazaril cominciava a ritenere dotato di una spiccata inclinazione teatrale, si posizionò in un punto equidistante dai due accusati e protese il braccio su cui era appollaiato l’uccello, ritraendo con lentezza la mano con cui lo controllava e rimanendo quindi del tutto immobile, con un’espressione di assoluta devozione sul volto.

Cazaril non poté fare a meno di chiedersi quale effetto avesse sugli Dei la cacofonia di preghiere che, senza dubbio, in quel momento si stava levando dalla stanza.

Un istante dopo, Umegat proiettò il corvo verso l’alto e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi: stridendo, l’uccello allargò le ali e aprì a ventaglio la coda, cui mancavano due penne.

Immediatamente dy Maroc allargò le braccia con aria speranzosa: sembrava chiedersi se gli sarebbe stato concesso afferrare il volatile a mezz’aria, qualora gli fosse passato sopra. Cazaril, che era sul punto di gridare Caz, Caz, fu invece assalito da una curiosità teologica: che cos’altro avrebbe potuto rivelargli quella prova, considerato che lui conosceva già la verità? Rimase allora immobile e in silenzio, le labbra socchiuse, osservando il corvo che, ignorando la finestra aperta, volava dritto verso di lui.

«Bene, bravo», sussurrò al volatile, quando esso gli affondò gli artigli nella spalla, dondolandosi sulle zampe. Poi, inclinato all’indietro il becco nero, il corvo lo fissò con occhi scintillanti e inespressivi.

Da un lato della stanza, Iselle e Betriz presero a saltellare e a gridare di gioia, abbracciandosi con tale impeto che per poco il corvo non spiccò di nuovo il volo, spaventato. Accanto a loro, dy Sanda si concesse un cupo sorriso, mentre dy Jironal serrava i denti per l’irritazione e dy Maroc appariva vagamente sgomento.

«Bene», dichiarò Orico, facendo il gesto di spolverarsi le mani grassocce. «La questione è risolta. E adesso, per gli Dei, voglio il mio pranzo!»

Circondato Cazaril come una sorta di guardia d’onore, Iselle, Betriz e dy Sanda lo scortarono fuori della Torre di Ias e nel cortile.

«Come avete fatto a scoprire cosa stava succedendo e venire in mio soccorso?» chiese Cazaril, guardando verso il cielo, nel quale adesso non c’era traccia di corvi.

«Un paggio mi ha informato che sareste stato arrestato stamattina, e sono andato immediatamente dalla Royesse», spiegò dy Sanda.

Cazaril si domandò se anche dy Sanda, come lui, avesse l’abitudine di pagare svariati osservatori, sparsi per il palazzo, per sapere in anticipo ogni novità, e come mai, in quel caso, lui non fosse stato avvertito in tempo dai suoi informatori. «Ti ringrazio per avermi protetto le… Per il tuo intervento tempestivo», replicò, rifiutandosi di proferire la parola spalle. «Sarei già stato allontanato, se non foste venuti tutti in mio soccorso.»

«Non c’è bisogno di ringraziamenti», affermò dy Sanda. «Sono convinto che voi avreste fatto lo stesso per me.»

«Mio fratello aveva bisogno di qualcuno che lo pungolasse», aggiunse Iselle, con una vena di amarezza nella voce. «Lasciato a se stesso, si piega sotto il vento più forte.»

Combattuto tra l’impulso di lodare l’acutezza dell’analisi e quello di rimproverare la giovane per la sua eccessiva franchezza, Cazaril preferì evitare di ribattere e si girò invece verso dy Sanda. «Da quanto tempo questa storia sul mio conto sta circolando a corte?» chiese.

«Credo da quattro o cinque giorni», replicò dy Sanda, scrollando le spalle.

«Noi non ne abbiamo saputo nulla fino a oggi!» protestò Betriz, indignata.

«Probabilmente, è sembrata troppo cruda per le vostre orecchie di fanciulla, mia signora», disse dy Sanda, in tono di scusa, poi accettò i rinnovati ringraziamenti di Cazaril e si congedò dagli altri, per andare a controllare i progressi di Teidez nello studio.

«È stata tutta colpa mia, vero?» commentò allora Betriz, con voce soffocata e aria depressa. «Dondo vi ha attaccato per vendicarsi dello scherzo del maiale. Oh, Lord Caz, mi dispiace!»

«No, mia signora», dichiarò Cazaril, deciso. «Tra Dondo e me esiste una vecchia ruggine che risale a prima… di Gotorget.» La ragazza sembrò rasserenarsi e lui continuò: «Posso tuttavia concedervi che lo scherzo del maiale non ha migliorato le cose, per cui non dovreste davvero rifare una cosa del genere».

Betriz sospirò, ma le sfuggì anche un accenno di sorriso. «Ecco, se non altro ha smesso di cercare d’impormi le sue attenzioni», disse. «Almeno a questo, lo scherzo è servito.»

«Non posso negare che sia un beneficio, ma… Dondo è un uomo potente, quindi v’imploro — imploro entrambe — di girare alla larga da lui.»

«Qui siamo sotto assedio, vero? Io, Teidez e il nostro seguito», osservò Iselle, scoccandogli una rapida occhiata.

«Confido che la situazione non sia così grave», mormorò Cazaril. «D’ora in avanti, però, cercate di agire con maggiore cautela, d’accordo?»

Dopo aver accompagnato le dame nelle loro camere, Cazaril non tornò ai suoi calcoli e scese invece di nuovo le scale, oltrepassando le stalle e raggiungendo il serraglio, dove trovò Umegat nella voliera, intento a persuadere gli uccelli più piccoli a fare una sorta di bagno secco in una bacinella piena di cenere, come terapia preventiva contro i pidocchi. Pulito e ordinato come sempre, col tabarro protetto da un grembiule, il roknari sollevò lo sguardo su di lui e lo accolse con un sorriso, che però Cazaril non ricambiò.

«Umegat, devo saperlo», esordì, senza preamboli. «Siete stato voi a scegliere il corvo oppure è stato lui a scegliere voi?»

«Ha importanza, mio signore?»

«Per me sì!»

«Perché?»

Cazaril aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse senza emettere suono. «È stato un trucco, vero?» chiese quindi, in tono quasi di supplica. «Li avete ingannati, portando il corvo che nutro sulla mia finestra. Gli Dei non sono veramente intervenuti in quella stanza, non è così?»

«Il Bastardo è il più subdolo tra gli Dei, mio signore», ribatté Umegat, inarcando le sopracciglia. «Soltanto perché una cosa è un trucco, non è detto che il Dio non c’entri. Temo che così funzionino le cose…» Rivolse un ciangottio all’uccello che aveva in mano, e che aveva finito di svolazzare nella cenere, lo attirò sul proprio dito con un seme prelevato dalla tasca del grembiule, e lo rimise nella vicina gabbia.

«Era il corvo cui do da mangiare», insistette Cazaril, seguendolo verso la gabbia. «È ovvio che sia volato da me. Gli date da mangiare anche voi, vero?»

«Io nutro tutti i corvi sacri della Torre di Fonsa, come fanno anche i paggi, le dame, i visitatori che giungono al castello e gli Accoliti e i Divini dei Templi cittadini. Il vero miracolo di quei corvi è che non siano diventati tanto grassi da non riuscire più a volare», ribatté lo stalliere. Con un’abile torsione del polso afferrò un altro uccello e lo immerse nella ciotola di cenere.

«Voi siete un roknari, ma non appartenete alla fede quaternariana», disse Cazaril, ritraendosi per evitare le nuvolette di cenere.

«No, mio signore», fu la serena risposta di Umegat. «Sono un Devoto quintariano fin da quand’ero giovane.»

«Vi siete convertito al vostro arrivo a Chalion?»

«No, quand’ero ancora nell’Arcipelago.»

«Come… mai non siete stato impiccato per eresia?»

«Sono riuscito a imbarcarmi su una nave per Brajar prima che mi prendessero», spiegò Umegat, con un sorriso d’un tratto più teso.

In effetti, lo stalliere aveva ancora i pollici… Accigliandosi, Cazaril scrutò con maggiore attenzione i fini lineamenti del suo interlocutore. «Che tipo era vostro padre, nell’Arcipelago?» chiese infine.

«Era di mentalità ristretta, ma molto devoto alla sua fede quadruplice.»

«Non era questo che intendevo.»

«Lo so, mio signore, ma lui è morto ormai da vent’anni, e la cosa non ha più importanza. Sono contento di ciò che sono adesso.»

Cazaril si grattò la barba, riflettendo, mentre Umegat prendeva un altro volatile. «Da quanto tempo siete capo stalliere di questo serraglio?» domandò poi.

«Fin dall’inizio, cioè da circa sei anni. Sono arrivato qui col leopardo e coi primi uccelli, come dono.»

«Da parte di chi?»

«Oh, dell’Arcidivino di Cardegoss e dell’Ordine del Bastardo… Un dono in occasione del compleanno del Roya. Da allora, al serraglio sono stati aggiunti molti splendidi animali.»

«È una collezione davvero insolita», convenne Cazaril.

«Sì, mio signore.»

«Quanto insolita?»

«Molto.»

«Non potete dirmi di più?»

«Vi supplico di non chiedermi altro, mio signore.»

«Perché?»

«Perché non desidero mentirvi.»

«Come mai?» insistette Cazaril. Gli sembrava che tutti gli altri non avessero problemi a mentirgli.

Umegat trasse un profondo respiro e gli sorrise, scrutandolo con attenzione. «Perché, mio signore, è stato il corvo a scegliere me», replicò.

Ricambiato il sorriso con aria alquanto tesa, Cazaril si congedò con un inchino e si affrettò ad andarsene.

11

Tre giorni più tardi, la mattina, Cazaril stava uscendo dalla sua stanza per andare a colazione quando venne accostato da un paggio, che lo afferrò per una manica.

«Mio signore dy Cazaril!» esclamò il giovane, affannato. «Il siniscalco vi prega di raggiungerlo immediatamente nel cortile.»

«Perché? Cos’è successo?» chiese Cazaril, avviandosi insieme col ragazzo.

«Si tratta di Ser dy Sanda. La scorsa notte è stato aggredito da alcuni tagliaborse ed è stato derubato e pugnalato.»

«Quanto sono gravi le sue ferite? Dove si trova?»

«Non è ferito, mio signore, è morto!»

Oh, per gli Dei, no, gemette tra sé Cazaril, mentre si lasciava alle spalle il paggio e scendeva di corsa le scale, uscendo nel cortile principale del castello in tempo per vedere un uomo che indossava il tabarro del conestabile di Cardegoss e un altro individuo, vestito da contadino, scaricare una forma rigida dalla groppa di un mulo e adagiarla sull’acciottolato. Cupo in volto, il siniscalco del castello di Zangre si chinò sul cadavere, mentre un paio di guardie del Roya osservavano la scena tenendosi a qualche passo di distanza, quasi che le ferite da coltello potessero essere contagiose.

«Cos’è successo?» domandò Cazaril.

Notando il suo abbigliamento da cortigiano, il contadino si affrettò a togliersi il cappello di lana in un saluto rispettoso. «L’ho trovato stamattina sulla riva del fiume, signore, quando ho portato il mio bestiame ad abbeverarsi», spiegò. «In quel punto, il fiume fa una curva, e mi capita spesso di trovare cose impigliate nelle rocce. La scorsa settimana, per esempio, c’era una ruota di carro, ed è per questo che controllo sempre. I cadaveri non sono frequenti — sia resa grazie alla Misericordia della Madre — e non ne avevo più visto uno dopo la povera dama che si è annegata, due anni fa…» Scambiò con l’uomo del conestabile un cenno del capo da cui si capiva che entrambi rammentavano quell’episodio, poi concluse: «Questo, però, non sembra essere annegato».

I calzoni di dy Sanda erano ancora fradici, ma i capelli avevano smesso di gocciolare; la tunica era stata rimossa da chi lo aveva trovato ed era ripiegata sul dorso del mulo. Sul torace messo a nudo spiccavano le ferite, che il fiume aveva ripulito dal sangue, scure lacerazioni ben visibili sulla pelle pallida del collo, del ventre e della schiena. Erano oltre una dozzina, inferte con forza e in profondità.

Appoggiandosi all’indietro sui talloni, il siniscalco indicò un pezzetto di corda fradicia che pendeva dalla cintura di dy Sanda. «Dovevano avere fretta», osservò. «Hanno tagliato i cordoni della sua borsa.»

«Non si è trattato soltanto di una rapina», dichiarò Cazaril. «Un paio di queste ferite sarebbero state sufficienti a metterlo fuori combattimento e a porre fine a ogni resistenza da parte sua, quindi non c’era bisogno di… No, volevano essere sicuri che fosse morto.» Aveva usato il plurale e ciò lo indusse a chiedersi se davvero gli aggressori erano più di uno. Non c’era modo di appurarlo, almeno per il momento, ma, considerato che dy Sanda non era certo un avversario facile, lo ritenne più che probabile. «Immagino che gli abbiano preso la spada», aggiunse, dopo un momento. Dy Sanda aveva avuto il tempo di estrarla, oppure il primo colpo lo aveva colto alla sprovvista, provenendo da un uomo che gli camminava accanto e di cui lui si fidava?

«Gliel’hanno presa, oppure l’ha portata via il fiume», affermò il contadino. «Se avesse avuto ancora addosso quel peso che lo trascinava verso il basso, non si sarebbe arenato sulla curva tanto presto.»

«Indossava anelli o altri gioielli?» chiese l’uomo del conestabile.

«Parecchi anelli e un orecchino d’oro», annuì il siniscalco.

Naturalmente di quei monili non c’era più traccia.

«Voglio una descrizione di ognuno di quei preziosi, mio signore», disse la guardia, e il siniscalco si limitò ad annuire.

«Sapete dov’è stato trovato», osservò Cazaril, rivolto alla guardia. «Avete scoperto anche dov’è stato aggredito?»

«Difficile a dirsi», replicò l’uomo, scuotendo il capo. «Forse, da qualche parte nei bassifondi…» Si riferiva alla parte più bassa, socialmente e geograficamente, di Cardegoss, addossata su entrambi i lati del muro che correva tra i due fiumi. «Ci sono una mezza dozzina di punti da dove si potrebbe gettare un cadavere dalle mura cittadine con la certezza che venga portato via dalla corrente, e alcuni sono più isolati di altri. Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno di voi lo ha visto, ieri sera?»

«Io l’ho visto a cena, ma non mi ha accennato di voler scendere in città», rispose Cazaril, pensando che anche all’interno dello Zangre c’erano un paio di posti da cui un cadavere poteva essere gettato nel fiume. «Ha riportato qualche frattura?»

«Io non ne ho notate nel toccarlo, signore», rispose la guardia del conestabile. In effetti, il cadavere non mostrava quasi lividi di sorta.

Una rapida indagine presso le guardie del castello rivelò che dy Sanda aveva effettivamente lasciato lo Zangre la notte precedente, da solo e a piedi, più o meno nel corso del turno di guardia intermedio. Quella notizia indusse Cazaril ad accantonare l’intenzione di passare al setaccio ogni angolo dei corridoi e delle nicchie del vasto castello, alla ricerca di macchie di sangue recenti. Nel tardo pomeriggio, poi, le guardie del conestabile trovarono tre persone che avevano visto il segretario del Royse bere in una taverna dei bassifondi e andarsene dal locale da solo. Una di esse aggiunse che dy Sanda era ubriaco e barcollava, una frase che indusse Cazaril a desiderare di poter trascorrere qualche tempo da solo con quell’uomo nelle celle di pietra dello Zangre, situate nelle gallerie che scendevano fino ai fiumi. Era infatti certo che laggiù sarebbe riuscito a estorcergli la verità, considerato che, da quando lo aveva conosciuto, non gli era mai capitato di vedere dy Sanda ubriaco.

Su Cazaril ricadde il triste compito d’inventariare e impacchettare i pochi averi di dy Sanda, che sarebbero stati inviati al suo unico parente ancora in vita, un fratello maggiore che risiedeva in una delle province di Chalion. Poi, mentre gli uomini del conestabile setacciavano i bassifondi cittadini alla ricerca dei supposti tagliaborse — fatica inutile, a suo parere -, lui procedette ad analizzare ogni pezzo di carta presente nella stanza di dy Sanda. Quale che fosse stato il contenuto del messaggio che lo aveva attirato nella parte bassa della città, però, dy Sanda doveva averlo ricevuto verbalmente oppure aveva portato il biglietto con sé.

Giacché il defunto segretario non aveva parenti che vivessero abbastanza vicini da poter assistere al funerale, il rito si svolse il giorno successivo, alla presenza del Royse, della Royesse e del loro seguito, come pure di alcuni cortigiani ansiosi di conquistarsi il loro favore. La cerimonia si tenne nella camera del Figlio, su un lato del cortile principale del Tempio, e fu piuttosto breve. Nel prendervi parte, Cazaril si rese improvvisamente conto di quanto fosse stata solitaria la vita dy Sanda. Non c’erano amici intorno al feretro che si disputavano l’onore di elogiare le virtù del defunto, non c’erano pianti né tentativi di confortarsi a vicenda. Fu lo stesso Cazaril a pronunciare poche parole di rammarico per quella perdita, per conto della Royesse, e riuscì ad arrivare in fondo al discorso senza neppure dover sbirciare sul pezzo di carta sul quale lo aveva affrettatamente composto, quella mattina, e che teneva nella manica.

Cazaril si ritrasse quindi dalla bara per lasciare il posto alla benedizione degli animali e si unì alla piccola folla raccolta vicino all’altare. Gli Accoliti, vestiti ciascuno coi colori del Dio cui si erano votati, si fecero avanti con le loro bestiole e si disposero intorno alla cassa in cinque punti equidistanti. Nei Templi di campagna, per quel rito veniva utilizzato l’insieme più assurdo di animali. Una volta, per la figlia defunta di un uomo privo di mezzi, Cazaril lo aveva visto eseguire da un unico Accolita, munito di un cesto contenente cinque gattini, ciascuno con un nastro di colore diverso legato intorno al collo.

I roknari, invece, usavano spesso i pesci, anche se il loro numero sacro era il quattro e non il cinque. I Divini della fede Quadripartita contrassegnavano i pesci con la tintura e interpretavano la volontà degli Dei in base alle figure che essi creavano nuotando in una vasca. Quali che fossero i mezzi utilizzati, comunque, quel messaggio di commiato era l’unico, minuscolo miracolo che gli Dei concedevano a ogni persona defunta, per quanto umile fosse la sua condizione sociale.

Naturalmente il Tempio di Cardegoss aveva risorse tali da potersi permettere i più splendidi animali sacri, selezionati secondo il colore e il sesso più appropriati. L’Accolita della Figlia, avvolta nelle sue ampie vesti azzurre, era accompagnata da una ghiandaia femmina dalla bellissima cresta azzurra, nata la primavera precedente; l’Accolita della Madre, abbigliata in verde, teneva invece sul braccio un grande uccello verde che, a parere di Cazaril, era strettamente imparentato con quelli presenti nel serraglio del Roya. Vestito in rosso e arancio, l’Accolita del Figlio aveva con sé uno splendido cucciolo maschio di volpe, il cui manto rossiccio pareva risplendere come fuoco nella cupa atmosfera dell’echeggiante camera a volta; l’Accolita del Padre, tutto in grigio, era accompagnato da un anziano, robusto e dignitoso lupo grigio. Quanto all’Accolita del Bastardo, avvolta in vesti candide, Cazaril si era aspettato di vederla con uno dei corvi sacri della Torre di Fonsa; invece la donna teneva tra le braccia un paio di grassi ratti bianchi dall’aria curiosa.

Prostratosi al suolo, il Divino implorò gli Dei di mandare un segno, poi si rialzò e si mise accanto alla testa di dy Sanda, mentre gli Accoliti, l’uno dopo l’altro, incitavano le loro bestiole a farsi avanti. In risposta a uno scatto dell’Accolita della Figlia, la ghiandaia azzurra svolazzò nell’aria, ma tornò subito a posarsi sulla spalla della sua custode. L’uccello verde della Madre fece altrettanto. Sganciato dal suo guinzaglio di rame, il cucciolo di volpe annusò l’aria, avanzò trotterellando fino alla cassa, uggiolò e, con un salto, si accoccolò accanto a dy Sanda, appoggiandogli il muso sul cuore con un profondo sospiro. Quanto al lupo, che sembrava avere una notevole esperienza di quelle cerimonie, non dimostrò il minimo interesse per la bara o per il defunto. I ratti dell’Accolita del Bastardo, invece, una volta liberati sul pavimento, risalirono le maniche della donna, andando ad annusarle le orecchie e affondandole gli artigli nei capelli fino a quando lei non li districò con pazienza.

Nulla di singolare, insomma. A meno che non si fossero votati in vita a un altro Dio, in genere coloro che morivano senza aver generato figli venivano reclamati dalla Figlia o dal Figlio, mentre i genitori defunti appartenevano di solito alla Madre o al Padre. Dal momento che dy Sanda era morto senza avere figli e che, da giovane, era stato un Devoto laico dell’Ordine militare del Figlio, rientrava nel corso naturale delle cose che proprio il Figlio reclamasse la sua anima, benché qualche famiglia avesse scoperto proprio durante il funerale di un congiunto che questi doveva avere un figlio da qualche parte. Quanto al Bastardo, chiamava a sé tutti i membri del suo Ordine, e le anime che venivano respinte dagli Dei più importanti; per sua natura, infatti, il Bastardo era il Dio dell’ultima spiaggia, l’estremo, seppure ambiguo, rifugio per coloro che avevano rovinato la loro vita.

Obbedendo alla limpida voce della volpe, l’Accolita del Figlio si fece avanti per concludere il rito, invocando la speciale benedizione del suo Dio sull’anima di dy Sanda. Infine tutti sfilarono davanti alla bara per deporre sull’altare del Figlio piccole offerte per l’anima del defunto.

Cazaril per poco non si conficcò le unghie nel palmo delle mani, nel vedere Dondo dy Jironal recitare la parte dell’afflitto. Accanto a lui, Teidez, silenzioso e sconvolto, offrì una notevole somma in oro. Probabilmente rimpiangeva tutte le lamentele con cui aveva bersagliato il suo fedele segretario-tutore. A almeno così si augurava Cazaril.

Iselle e Betriz rimasero quasi sempre in silenzio, sia nel corso del rito sia in seguito, facendo soltanto qualche commento sui pettegolezzi che la corte stava già facendo su quell’omicidio. Rifiutarono una serie d’inviti a scendere in città e trovarono sempre una scusa per controllare, anche cinque o sei volte per sera, che Cazaril continuasse a godere di buona salute.

A corte si parlò a lungo di quel mistero, e vennero addirittura stabilite nuove e più severe punizioni per rapinatori e tagliaborse, ma Cazaril si guardò sempre dal dare il suo parere al riguardo. La morte di dy Sanda, per lui, non aveva nulla di misterioso, e l’unica cosa da fare era trovare qualche prova a carico dei veri colpevoli, i fratelli dy Jironal. Ma non riuscì a escogitare nessun modo per incastrarli e non osava far avviare un processo contro di loro senza aver prima definito ogni singolo passo: sapeva che lui stesso rischiava di finire con la gola tagliata.

D’altro canto, se qualche sfortunato tagliaborse fosse stato ingiustamente accusato di quel crimine, sarebbe stato suo dovere… Già, quale sarebbe stato il suo dovere? Che valore avrebbe mai avuto la sua parola, dopo la calunnia legata alle cicatrici che portava sulla schiena? Gran parte della corte era rimasta favorevolmente impressionata dalla testimonianza resa dal corvo sacro, però era evidente che, per alcuni, essa non aveva nessun valore. Gli era facile stabilire a quale delle due categorie appartenessero i cortigiani in base al modo in cui i gentiluomini allontanavano da lui il mantello e le dame si ritraevano con disgusto da un eventuale contatto. Per fortuna, dal conestabile non giunse nessuna vittima sacrificale per garantire la chiusura di quel caso e, ben presto, la gaiezza della vita di corte si estese a coprire quello sgradevole incidente, come una crosta su una ferita.

A Teidez venne assegnato un nuovo segretario, scelto dal Cancelliere dy Jironal all’interno del personale della Cancelleria del Roya. Si trattava di un individuo dal volto aguzzo, completamente dipendente dal Cancelliere, che non cercò in nessun modo di stringere amicizia con Cazaril. Nel contempo, Dondo dy Jironal si assunse il compito di distrarre il giovane Royse dal dolore della perdita subita, fornendogli ogni sorta di piacevoli intrattenimenti, il cui genere Cazaril immaginò fin troppo bene, vedendo l’assortimento di donne di malaffare e di bravacci che presero a frequentare la camera del ragazzo fino a notte inoltrata. Una volta, ubriaco al punto di non riuscire più a distinguere una camera dall’altra, Teidez entrò incespicando nella stanza di Cazaril e vomitò ai suoi piedi un quarto di litro di vino rosso, prima che il Castillar lo guidasse fino alle sue stanze e alle cure dei suoi servitori.

Ciò che però lasciò più turbato Cazaril, nei giorni che seguirono, fu cogliere il bagliore di una gemma verde sulla mano del capitano della guardia di Teidez, giunto con loro fin dalla Baocia. Quell’uomo, prima di partire, aveva giurato formalmente alla madre e alla nonna del Royse di proteggere entrambi i ragazzi, a costo della sua stessa vita.

Mentre il capitano gli passava accanto, Cazaril si protese di scatto ad afferrargli la mano, costringendolo a fermarsi e abbassando lo sguardo sulla familiare gemma dal taglio piatto. «Un bell’anello», commentò.

«Lo penso anch’io», ribatté il capitano, ritraendo la mano e accigliandosi.

«Spero che non l’abbiate pagato troppo, perché credo che la pietra sia falsa.»

«È uno smeraldo vero, mio signore.»

«Al vostro posto, lo farei controllare da un tagliatore di gemme. Ultimamente, è per me una continua fonte di stupore constatare quali menzogne gli uomini siano disposti a dire per profitto.»

«È un anello di valore», insistette il capitano, coprendosi una mano con l’altra.

«Io dico che non vale nulla, considerato ciò con cui lo avete barattato.»

Serrando le labbra, il capitano si liberò con uno strattone e si allontanò a grandi passi.

Se questo è un assedio, noi stiamo perdendo, si ritrovò a pensare Cazaril.

Il clima divenne ben presto gelido e piovoso e il livello dei fiumi salì: la stagione del Figlio si avviava al termine. In una sera di pioggia, nel corso di un intrattenimento musicale, Orico si protese verso la sorella. «Domani, a mezzogiorno, vieni col tuo seguito nella sala del trono per assistere all’investitura di dy Jironal, perché al termine avrò alcuni lieti annunci da fare a tutta la corte. Inoltre, metti il tuo abito più elegante e le tue perle… Appena la scorsa notte, Lord Dondo mi diceva che non te le ha mai viste indosso.»

«Non ritengo che mi si addicano», replicò Iselle, scoccando un’occhiata a Cazaril, seduto poco lontano, e abbassando poi lo sguardo sulle proprie mani, serrate in grembo.

«Sciocchezze. Non c’è fanciulla cui non si addicano le perle», ribatté il Roya, interrompendosi per applaudire i musici per il brano vivace che avevano appena eseguito.

Iselle non fece commenti su quel suggerimento finché Cazaril non l’ebbe scortata insieme con le sue dame fino all’anticamera che fungeva da studio. Il Castillar stava per augurare loro la buonanotte e per congedarsi, sbadigliando, quando la Royesse esplose. «Non intendo indossare le perle di quel ladro di Dondo!» esclamò. «Sarei pronta a restituirle all’Ordine della Figlia, se non considerassi un gesto del genere un insulto alla Dea. Quelle perle sono infette, Cazaril. Cosa posso farne?»

«Il Bastardo non è un Dio che guarda troppo per il sottile. Regalatele al Divino, per il suo ospedale dei trovatelli, in modo che le venda per il mantenimento degli orfani», suggerì Cazaril.

«Questo irriterebbe non poco Lord Dondo, che però non potrebbe neppure protestare…» rifletté Iselle. «È una buona idea. Porterete le perle agli orfani, come segno del mio interessamento. Quanto a domani… Indosserò la sopragonna di velluto rosso e l’abito di seta bianca, coi granati che mi ha regalato mia madre. Nessuno potrà rimproverarmi perché ho messo i gioielli di mia madre, no?»

«Ma cosa supponete che intendesse vostro fratello, parlando di lieti annunci?» intervenne Nan dy Vrit. «Credete che abbia già preso una decisione in merito al vostro fidanzamento?»

Per un momento Iselle s’immobilizzò, sconcertata, poi scosse il capo. «No, non è possibile», rispose. «Prima dovrebbero esserci dei negoziati — ambasciatori, lettere, scambi di regali, trattati relativi alla dote — e si dovrebbe ottenere il mio consenso. Dopo, bisogna inviare il mio ritratto al futuro sposo, e io intendo vedere un suo ritratto, chiunque egli sia… Un ritratto vero e onesto, eseguito da un artista inviato da me. Qualora il mio principe fosse grasso, strabico, calvo o con un labbro leporino, potrei anche accettarlo, ma non intendo fidarmi di un ritratto menzognero.»

«Quando verrà il momento, spero che ti tocchi in sorte un uomo avvenente», commentò Betriz, storcendo il naso di fronte alle ipotesi avanzate da Iselle.

«Mi piacerebbe, ma non lo ritengo probabile, considerata la maggior parte dei nobili che ho avuto modo di vedere», sospirò la Royesse. «Credo che mi accontenterò di avere un marito sano, senza assillare gli Dei con preghiere impossibili. Mi basta che sia sano e quintariano.»

«Un atteggiamento molto razionale», interloquì Cazaril, incoraggiando quel modo pratico di vedere le cose, che avrebbe facilitato la vita di tutti, e la sua in particolare, nel prossimo futuro.

«Quest’autunno ci sono stati molti scambi d’inviati coi principati dei roknari», osservò Betriz, un po’ a disagio.

Iselle serrò le labbra di scatto, senza fare commenti.

«In effetti, tra i nobili quintariani di alto rango, le alternative non sono molte», ammise Cazaril.

«Il Roya di Brajar è rimasto di nuovo vedovo», intervenne Nan dy Vrit, con aria dubbiosa.

«È un partito da escludere», dichiarò Iselle, senza esitazioni «Ha cinquantasette anni, la gotta e un Erede già adulto e sposato. A cosa potrebbe mai servirmi generare un figlio che sia in buoni rapporti con suo zio Orico, o con suo zio Teidez, se poi questo figlio non salirà mai al trono?»

«C’è il nipote del Roya di Brajar…» le ricordò Cazaril.

«Ha sette anni! Ne dovrei aspettare altri sette!» protestò Iselle.

Il che non sarebbe una cosa malvagia, pensò Cazaril.

«Adesso è troppo presto e fra sette anni potrebbe essere troppo tardi», mormorò Iselle. «Può accadere qualsiasi cosa nel frattempo. Le persone muoiono, le nazioni entrano in guerra…»

«È vero», annuì Nan dy Vrit. «Quando avevate due anni, vostro padre, il Roya Ias, vi aveva fidanzata con un principe roknari, ma di lì a poco quel povero ragazzo è morto di febbre e l’accordo è stato sciolto. Sareste già partita da due anni per il suo principato…»

«Anche la Volpe di Ibra è vedovo», suggerì Betriz, in tono volutamente provocatorio.

«Ha settant’anni!» esclamò Iselle, con voce soffocata.

«Però non è grasso, e immagino che non dovresti sopportarlo troppo a lungo» le fece notare l’amica.

«Ah! Col carattere che ha, potrebbe vivere altri vent’anni giusto per farmi dispetto. Quanto al suo Erede, è sposato, quindi credo che il suo secondo figlio sia l’unico Royse che abbia più o meno la mia stessa età, ma non è Erede al trono.»

«Per quest’anno, non vi verrà offerto un ibrano, Royesse», intervenne Cazaril. «La Volpe è ancora infuriata con Orico per le sue goffe intromissioni nella guerra nell’Ibra meridionale.»

«Sì, ma… Si dice che i nobili ibrani di alto rango vengano tutti addestrati come ufficiali di marina», obiettò Iselle.

«Di che utilità potrebbe essere questo, per Orico?» sbuffò Nan dy Vrit. «Chalion non possiede neppure un miglio di costa.»

«Cosa che torna a nostro detrimento», mormorò Iselle.

«Quando avevamo Gotorget, e controllavamo quei passi, eravamo quasi nella posizione adatta per calare sul porto di Visping e conquistarlo», affermò Cazaril, in tono di rammarico. «Adesso però abbiamo perso quella base… Royesse, la mia ipotesi è che voi siate destinata a un nobile darthacano. Ecco perché la prossima settimana sarà bene dedicare un po’ di tempo a quelle declinazioni, non credete?»

Iselle assentì, con una smorfia e un sospiro.

Congedatosi con un inchino, Cazaril prese a scendere le scale, riflettendo che, se a Iselle non fosse toccato in sposo un Roya regnante, a lui non sarebbe dispiaciuto un nobile darthacano di confine, il signore di una delle calde province settentrionali della Darthaca. Sia il potere sia la distanza sarebbero infatti stati sufficienti a proteggere Iselle dalle… difficoltà che stava incontrando alla corte di Chalion. Quanto prima fosse riuscita da andarsene da lì, tanto meglio sarebbe stato.

Per lei, o per te? si chiese. Per entrambi, fu la risposta.

Anche se Nan dy Vrit sussultò, portandosi una mano agli occhi come per proteggerli, Cazaril pensò che Iselle appariva luminosa e piena di calore nelle sue vesti color carminio, coi riccioli ambrati che le ricadevano lungo le spalle fin quasi alla cintura. Per essere in armonia con gli altri, Cazaril aveva optato per una tunica di broccato rosso, appartenuta al vecchio Provincar, abbinandola a una sopravveste di lana bianca. Per l’occasione, anche Betriz aveva scelto il suo completo rosso preferito. Solo Nan dy Vrit, asserendo di preferire la sobrietà, si era abbigliata in bianco e nero.

Anche se le diverse tonalità di rosso contrastavano leggermente, nel complesso il gruppetto creava un effetto sgargiante che sfidava l’atmosfera deprimente generata dalla pioggia.

In fretta, i quattro si diressero verso la grande Torre di Ias, attraversando il fradicio cortile acciottolato e passando accanto alla Torre di Fonsa, dove tutti i corvi parevano aver cercato rifugio nel nido… No, non proprio tutti, considerato che un certo uccello, cui mancavano due penne della coda, sbucò dalla pioggia e calò in picchiata verso Cazaril, stridendo Caz, Caz! Temendo che il volatile gli macchiasse la sopravveste bianca, lo schivò e il corvo completò il suo volo circolare, tornando ad appollaiarsi sul tetto in rovina con un triste stridio.

Nella sala del trono di Orico, vividamente illuminata dai candelabri a parete che dissipavano il grigiore autunnale, c’erano almeno due dozzine di cortigiani. Avvolto nelle vesti formali della sua carica, e con la corona in testa, Orico sedeva sul trono, ma senza la Royina Sara al suo fianco. Accanto a lui, alla sua destra e su un seggio più basso, c’era invece Teidez.

Baciata la mano al sovrano, Iselle e il suo seguito presero posto a loro volta. Iselle si accomodò su una sedia più piccola, alla sinistra di quella riservata a Sara, e gli altri rimasero in piedi alle sue spalle.

Sorridendo, Orico diede inizio alle elargizioni previste per quel giorno, assegnando a Teidez i proventi di altre quattro città per il proprio sostentamento, cosa per cui il giovane lo ringraziò col baciamano previsto dall’etichetta di corte e con un breve discorso. Evidentemente, la notte precedente, Dondo non lo aveva tenuto sveglio fino a tarda ora, dato che il suo volto appariva meno verdastro e malsano del solito.

Poi Orico fece cenno al suo Cancelliere di avvicinarsi e, com’era già stato annunciato, gli consegnò le lettere di nomina e la spada in cambio del giuramento che lo rendeva il nuovo Provincar dell’Ildar. Alcuni nobili minori della provincia dell’Ildar procedettero quindi a prestare il giuramento di fedeltà a dy Jironal.

Più spettacolare e imprevisto fu l’atto che seguì: il re e dy Jironal, insieme, trasferirono infatti il titolo di March dy Jironal, insieme con le città e con le tasse a esso connessi, a Lord Dondo, ora il nuovo March dy Jironal.

Iselle rimase sorpresa, ma anche palesemente compiaciuta, quando suo fratello le assegnò i proventi di sei città per il proprio sostentamento. Non era di certo una donazione affrettata, dato che, fino a quel momento, le sue disponibilità economiche erano state assai scarse, almeno per una Royesse. Mentre Iselle pronunciava un cortese discorsetto di ringraziamento, la mente di Cazaril cominciò a elaborare una successione di possibilità: con quel denaro, Iselle avrebbe potuto permettersi una propria compagnia di guardie, al posto degli uomini prestati dalla Provincara e condivisi con Teidez? Se sì, lui avrebbe potuto sceglierli di persona… E poi Iselle avrebbe potuto anche insediarsi in una casa propria, in città, protetta da quelle guardie…

Iselle tornò al suo posto, sulla piattaforma, e si assestò le gonne, il volto adesso sereno, privo di quella tensione che non era apparsa evidente a nessuno finché non si era dissolta.

«E ora sono lieto di annunciare la più meritata e desiderata tra le ricompense oggi elargite», disse Orico, schiarendosi la gola, «Iselle, alzati, ti prego», proseguì, alzandosi a sua volta e protendendo la mano verso la sorellastra. Perplessa, ma sorridente, Iselle obbedì e gli si mise al fianco. «March dy Jironal, venite avanti», ordinò allora Orico.

Vestito con la tenuta di gala propria del generale del sacro Ordine della Figlia, e accompagnato da un paggio che indossava la livrea dei dy Jironal, Lord Dondo raggiunse Orico sull’altro lato.

Che cosa mai avrà in mente Orico? si chiese Cazaril, agghiacciato.

«Il mio amato e fedele Cancelliere e Provincar dy Jironal mi ha supplicato per avere il dono di un legame di sangue col mio casato e, dopo aver riflettuto, sono giunto alla conclusione che è per me una gioia assecondare il suo desiderio», dichiarò Orico, che però appariva più nervoso che felice. «Il Cancelliere ha chiesto la mano di mia sorella Iselle per suo fratello, il nuovo March dy Jironal. Di mia libera volontà, acconsento e suggello questo fidanzamento.» Girò verso l’alto il palmo massiccio di Dondo, accostando a esso la mano snella di Iselle e congiungendo le due mani all’altezza del proprio petto, prima d’indietreggiare.

Pallidissima in volto, Iselle rimase del tutto immobile, fissando Dondo come se non riuscisse a credere a ciò che aveva sentito; quanto a Cazaril, il sangue gli stava pulsando nelle orecchie con una violenza martellante, assordandolo. Non riusciva quasi a respirare.

«Come dono di fidanzamento, mia cara Royesse, credo di aver intuito che il tuo più grande desiderio fosse quello di completare la tua parure», disse Dondo a Iselle, chiamando a sé il paggio con un cenno.

«Hai intuito che desidero una città costiera, con un porto eccellente?» ribatté Iselle, continuando a fissarlo con totale distacco.

Dondo soffocò una risata e le volse le spalle. Il paggio aprì il cofanetto di cuoio lavorato, rivelando una tiara di perle e argento che Dondo sollevò a beneficio della corte. Gli amici del Lord risposero a quel gesto con un applauso. Cazaril, invece, serrò la mano intorno all’impugnatura della spada, calcolando quali probabilità aveva di estrarla e di scattare in un affondo… ma soltanto per concludere che sarebbe stato falciato prima ancora di poter muovere qualche passo.

Quando poi Dondo sollevò la tiara per posarla sulla testa di Iselle, lei si ritrasse come una giumenta spaventata.

«Orico…» sussurrò.

«Questo fidanzamento rispecchia la mia volontà e i miei desideri, cara sorella», dichiarò Orico, con voce carica di tensione.

Riluttante all’idea di dover inseguire Iselle con la tiara, Dondo si fermò e scoccò al Roya un’occhiata significativa. Iselle, dal canto suo, era riuscita a reprimere un istintivo grido d’indignazione e adesso stava disperatamente cercando di decidere come rispondere. Per carattere, non avrebbe mai risolto quella difficile situazione fingendo di svenire… «Sire, come ha detto il Provincar della Labran, quando le forze del Generale Dorato si sono riversate oltre le sue mura… questa è decisamente una sorpresa», disse infine.

I cortigiani si abbandonarono a una risatina esitante.

«Non me lo hai detto», aggiunse allora Iselle, a denti stretti e a bassa voce. «Non hai chiesto il mio consenso.»

«Ne parleremo in seguito», ribatté Orico in un sussurro.

Iselle rimase immobile ancora per qualche istante, poi accettò quella risposta con un lieve cenno del capo, e finalmente Dondo poté consegnarle la tiara di perle, chinandosi quindi a baciarle la mano. Tuttavia non pretese il consueto bacio di risposta: a giudicare dall’espressione sorpresa e disgustata di Iselle, c’erano notevoli probabilità che lei potesse morderlo.

Conclusi quei preliminari, il Divino di corte di Orico si fece avanti, abbigliato nelle vesti stagionali del Fratello, e invocò sulla nuova coppia la benedizione di tutti gli Dei.

«Fra tre giorni c’incontreremo qui di nuovo per veder celebrare questa unione», annunciò allora Orico.

«Tre giorni! Tre giorni!» esclamò Iselle, con la voce che cominciava a incrinarsi. «Sire, di certo volevi dire tre anni.»

«Tre giorni», ribadì Orico. «Preparati.» E si accinse a lasciare la sala, chiamando a sé i propri servitori.

La maggior parte dei cortigiani se ne andò insieme coi dy Jironal, porgendo loro le congratulazioni di rito. Soltanto i più audaci e curiosi indugiarono nella sala, tendendo le orecchie per cogliere la conversazione che, prevedibilmente, stava per svolgersi tra fratello e sorella.

«Come posso prepararmi in tre giorni? Non c’è neppure il tempo di mandare un corriere fino nella Baocia, e tantomeno quello di avere una risposta da mia madre o da mia nonna…» sibilò Iselle.

«Come tutti sanno, tua madre è troppo malata per poter sostenere la fatica di un viaggio fino a corte, e tua nonna deve rimanere a Valenda per prendersi cura di lei», la interruppe Orico.

«Ma io non…» accennò a ribattere Iselle, ma Orico le aveva ormai dato le spalle e si stava affrettando a uscire dalla sala del trono.

La giovane lo inseguì nella stanza successiva, tallonata da Betriz, Nan e Cazaril, e dopo averlo raggiunto ed essersi piantata di fronte a lui, esclamò: «Orico, io non desidero sposare Dondo dy Jironal!»

«Una dama del tuo rango non si sposa in base alle proprie inclinazioni, ma per fare progredire il proprio casato», la ammonì Orico, in tono severo.

«Ah, è così? Allora spiegami quale vantaggio reca alla Casa di Chalion sprecarmi col figlio minore di un casato secondario! Mio marito avrebbe dovuto portarci una royacy!»

«Questo matrimonio vincola i dy Jironal a me… e a Teidez»

«Direi piuttosto che vincola noi a loro! A mio parere, soltanto una delle due partì ne trae vantaggio!»

«Hai detto che non volevi sposare un principe roknari, e io ho assecondato questo tuo desiderio, anche se le offerte non sono certo mancate… In questa stagione, ne ho già rifiutate due. Pensaci, sorella, e dimostrami un po’ di gratitudine!»

La sta minacciando o supplicando? si ritrovò a pensare Cazaril.

«Inoltre, non desideravi lasciare Chalion. Benissimo, adesso potrai rimanere qui. Volevi sposare un nobile quintariano… e io te ne ho dato uno, che è anche un generale di un sacro Ordine!» sbottò Orico, scrollando le spalle. «Per di più, se ti avessi data in moglie a un sovrano di una potenza troppo vicina ai miei confini, rischiavi di essere usata come scusa per reclamare parte delle mie terre. Con questa scelta, ho fatto del mio meglio per garantire il futuro di Chalion.»

«Lord Dondo ha quarant’anni ed è un ladro, un uomo empio e corrotto! E un libertino! Ed è anche di peggio! Orico, non mi puoi fare questo!» insistette Iselle, in tono sempre più acuto.

«Non intendo ascoltarti», dichiarò lui, premendosi le mani sulle orecchie. «Hai tre giorni di tempo per calmarti e provvedere al tuo guardaroba» Poi fuggì, come da una torre in fiamme, ribadendo: «Non voglio sentire altro!»

Nel corso della giornata, Orico si mostrò deciso a rimanere su quella posizione. Durante quel pomeriggio, Iselle tentò per ben quattro volte di andare nel suo alloggio per rinnovare la propria supplica, ma ogni volta lui la fece allontanare dalle guardie, arrivando poi addirittura ad abbandonare il castello per installarsi in un capanno di caccia tra le querce, una mossa che indicava una notevole vigliaccheria.

Quando lo venne a sapere, CazariI si augurò che il tetto perdesse e che la pioggia gelida colasse a raffreddare la testa del sovrano.

Quella notte, il Castillar dormì molto male e al mattino, quando si avventurò al piano di sopra, si ritrovò davanti tre donne che non avevano chiuso occhio.

Iselle lo trascinò per una manica fino al suo salotto, lo fece sedere nella rientranza della finestra e si protese in avanti, per sussurrargli con voce tesa: «Cazaril, potete procurare quattro cavalli? O anche tre, due, o perfino uno soltanto? Ci ho pensato, ho passato tutta la notte a riflettere, e sono giunta alla conclusione che l’unica soluzione sia la fuga».

«Anch’io ci ho pensato a lungo», sospirò Cazaril. «Per prima cosa, mi stanno sorvegliando. La scorsa notte, quando ho cercato di lasciare il castello, due guardie mi hanno accompagnato… per la mia protezione, hanno detto. Potrei anche ucciderne o corromperne una, ma non due.»

«Potremmo uscire a cavallo fingendo di andare a caccia», suggerì Iselle.

«Con questa pioggia?» replicò Cazaril, indicando la pioggerella che colava lungo la finestra, velando di caligine la valle al punto di rendere impossibile scorgere il burrone sottostante e trasformando i nudi rami degli alberi in macchie scure. «Inoltre, anche se ci permettessero di uscire, senza dubbio ci farebbero accompagnare da una scorta armata.»

«Se potessimo acquisire soltanto un po’ di vantaggio…»

«Cosa potremmo fare? Una volta raggiunti, per prima cosa le guardie mi tirerebbero giù di sella e mi taglierebbero la testa, lasciandomi in pasto alle volpi e ai corvi, poi vi riporterebbero qui. E se pure, per qualche miracolo, non dovessero raggiungerci, sapete dirmi dove potremmo andare?»

«Verso un confine… un confine qualsiasi.»

«Brajar e l’Ibra meridionale vi rimanderebbero subito indietro per far piacere a Orico, mentre i cinque principati e la Volpe di Ibra vi terrebbero come ostaggio. Quanto alla Darthaca… per arrivarci, dovremmo attraversare metà Chalion e tutto l’Ibra meridionale. Temo proprio che la cosa non sia realizzabile, Royesse.»

«Che altro posso fare?» domandò Iselle, con una nota di disperazione nella voce.

«Nessuno può essere costretto al matrimonio, ed entrambe le parti devono dare liberamente il loro assenso davanti agli Dei. Se avrete il coraggio di presentarvi alla cerimonia e di opporre un semplice rifiuto, il matrimonio non potrà essere celebrato. Credete di poterlo fare?»

«Ma certo», ribatté lei, serrando le labbra. «Però… cosa succederà, dopo? Mi pare che adesso siate voi a non considerare tutti gli aspetti della situazione: credete che a quel punto Lord Dondo sarebbe disposto a rinunciare?»

«Tutti sanno che un matrimonio contratto con la forza non è valido», insistette Cazaril scuotendo il capo. «Aggrappatevi a questo pensiero.»

«Ah, Cazaril, voi non capite», esclamò Iselle, scuotendo il capo, angosciata e spazientita.

Sul momento, il Castillar interpretò quell’affermazione come un lamento giovanile, ma, quel pomeriggio stesso, Dondo si presentò nelle camere della Royesse per fare opera di persuasione.

Come richiedevano le regole, le porte del salotto della Royesse vennero lasciate aperte, e una guardia armata prese posto su ciascuna soglia, in modo da tenere lontani sia Cazaril, da un lato, sia Nan dy Vrit e Betriz dall’altro. Il Castillar non riuscì quindi a cogliere più di una parola su tre della rabbiosa discussione, condotta peraltro a bassa voce, che si stava svolgendo tra il massiccio cortigiano e la Royesse. Alla fine, però, Dondo se ne andò a grandi passi, con un’espressione di selvaggia soddisfazione dipinta sul volto, e Iselle si accasciò sul sedile antistante la finestra, ansimando per il terrore e l’ira che l’attanagliavano.

«Ha detto… che mi prenderà comunque, anche se non darò le risposte di rito», spiegò con voce soffocata, aggrappandosi a Betriz. «E quando ho ribattuto che Orico non gli avrebbe mai permesso di violentare sua sorella, mi ha chiesto di spiegargli per quale motivo sarebbe intervenuto, dato che aveva permesso a lui e a suo fratello di violentare sua moglie. Infatti, giacché la Royina Sara non riusciva a concepire, nel letto di Orico sono state… infilate dame, fanciulle e prostitute, per tacere di cose ancor più disgustose. Ma mio fratello si è rivelato del tutto impotente e allora i dy Jironal lo hanno persuaso a lasciarli… provare con sua moglie. Dondo e suo fratello l’hanno posseduta ogni notte, per un anno, uno alla volta o insieme, finché lei non ha minacciato di uccidersi. Dondo ha sostenuto che mi avrebbe posseduta fino a quando non avesse piantato il suo seme nel mio grembo, aggiungendo che, una volta incinta, non avrei più fatto tante storie nell’accettarlo come marito.» Iselle sbatté le palpebre sugli occhi velati di lacrime e spostò lo sguardo su Cazaril, le labbra ritratte sui denti in un’espressione che era quasi un ringhio. «Ha detto che il mio ventre si sarebbe fatto molto grosso, perché sono bassa di statura. Cazaril, quanto coraggio credete che mi possa servire per pronunciare un semplice no? E cosa succede se il coraggio non fa nessuna differenza?»

Credevo che l’unico posto in cui il coraggio non avesse importanza fosse una galea roknari manovrata da schiavi, ma mi sbagliavo, pensò Cazaril. «Non lo so, Royesse», sussurrò poi, avvilito.

Oppressa e disperata, Iselle si rivolse alle preghiere e al digiuno. Nan dy Vrit l’aiutò a erigere nelle sue camere un altare e lo decorò con tutti i simboli della Signora della Primavera che riuscì a trovare. Seguito dalle solite due guardie, Cazaril si recò allora a Cardegoss, trovando un fioraio che aveva delle violette fuori stagione, cresciute in serra, che portò al castello perché venissero messe sull’altare, in un bicchiere pieno d’acqua. Nel ringraziarlo, la Royesse gli fece cadere una lacrima sulla mano, però lui continuò a sentirsi stupido e impotente di fronte a quella situazione.

Senza mangiare né bere, Iselle si prostrava di continuo sul pavimento davanti all’altare. Cazaril non poté trattenersi dal ripensare alla prima volta in cui aveva visto la Royna Ista, nella sala degli antenati della Provincara, e, notando quella somiglianza, ne fu così sconvolto da dover lasciare la stanza in tutta fretta. Trascorse le ore successive aggirandosi per il palazzo e cercando di riflettere, ma senza nessun risultato.

In tarda serata, Lady Betriz lo convocò nell’anticamera di quello che stava rapidamente diventando un luogo da incubo. «Ho trovato una soluzione!» annunciò. «Cazaril, insegnatemi come si fa a uccidere un uomo con un coltello.»

«Come?»

«Le guardie di Dondo hanno l’ordine di non farvi avvicinare a lui, però, la mattina del matrimonio, io sarò al fianco di Iselle, come sua testimone, e nessuno si aspetta una mossa da parte mia. Nasconderò il coltello nel corpetto e, quando Dondo si chinerà per baciarle la mano, potrò colpirlo, anche due o tre volte, prima che qualcuno riesca a fermarmi. Però non so dove e come colpire per essere certa di uccidere. Suppongo di dover mirare al collo, ma in che punto?» Poi tirò fuori da sotto le gonne un sottile pugnale. «Avanti, fatemi vedere così potremo esercitarci finché non sarò certa di poter agire rapidamente e con scioltezza.»

«Per gli Dei, no, Lady Betriz! Rinunciate a questo folle piano! Vi ucciderebbero sul posto… o comunque v’impiccherebbero!»

«Sarei lieta di andare sulla forca, se prima potessi uccidere Dondo. Ho giurato di proteggere Iselle con la mia vita, e sono pronta a farlo», ribatté Betriz, con gli occhi scuri che ardevano come fuoco nel volto pallido.

«No», ribadì con fermezza Cazaril, togliendole di mano il coltello e chiedendosi come se lo fosse procurato. «Questo non è un incarico adatto a una donna.»

«Secondo me, è un incarico adatto a chiunque abbia la possibilità di portarlo a termine, cioè io. Avanti, fatemi vedere!»

«No, ascoltate… Aspettate. Io… tenterò qualcosa, vedrò di scoprire cosa posso fare.»

«Potete uccidere Dondo? Iselle è là dentro, intenta a pregare la Signora della Primavera perché faccia morire o lei o Dondo prima del matrimonio… Chi dei due non le importa più molto, ormai, però a me importa, e credo che a morire dovrebbe essere Dondo.»

«Sono assolutamente d’accordo. Ascoltatemi, Lady Betriz, dovete aspettare. Vedrò cosa posso fare.» E pensò: Se gli Dei non risponderanno alle tue preghiere, Lady Iselle, allora proverò a farlo io.

Il giorno successivo, alla vigilia del matrimonio, Cazaril trascorse ore intere a pedinare Lord Dondo per tutto il castello di Zangre, come se fosse un cinghiale in una foresta di pietra, ma non riuscì mai ad avvicinarsi abbastanza da poterlo colpire. Verso la metà del pomeriggio, poi, Dondo fece ritorno al grande palazzo che i dy Jironal possedevano in città, e Cazaril provò per ben due volte a valicarne le mura o le porte. La seconda volta, i bravacci al soldo di Dondo lo gettarono fuori e uno dei due lo tenne fermo, mentre l’altro lo tempestava di pugni al petto, al ventre e all’inguine. Tornò allo Zangre con passo lento e incerto, sorreggendosi ai muri come un ubriaco. Le guardie del Roya, che lui era riuscito a seminare nei vicoli di Cardegoss e che avevano assistito sia al pestaggio sia al suo cammino verso a casa, non intervennero.

Sulla spinta di un’ispirazione improvvisa, Cazaril si ricordò poi del passaggio segreto che univa lo Zangre col palazzo dei dy Jironal, all’epoca in cui esso era stato di proprietà di Lord dy Lutez. Si diceva che Ias e dy Lutez lo usassero di giorno per le riunioni di Stato e di notte per gli appuntamenti amorosi. Cercò allora di capire dove fosse, ma ben presto scoprì che quel passaggio era segreto quanto la strada principale di Cardegoss, sorvegliato da guardie e difeso da porte sprangate. Tentò persino di corrompere un paio di guardie, ricevendone in cambio spinte, imprecazioni e la minaccia di altre percosse.

Sono davvero in gamba, come assassino, pensò con amarezza, mentre tornava barcollando verso la sua camera, al crepuscolo. Si lasciò cadere sul letto, gemendo, con la testa che pulsava e il corpo dolorante, rimanendo immobile per qualche tempo prima di riscuotersi quanto bastava per accendere una candela. Doveva salire al piano di sopra per controllare come stavano le dame, ma temeva di non poter reggere al loro pianto, né se la sentiva di riferire a Betriz il proprio fallimento e di fare fronte a ciò che lei gli avrebbe chiesto. Lui non era riuscito a uccidere Dondo, quindi che diritto aveva di stroncare sul nascere un tentativo da parte della fanciulla?

Morirei con gioia, se ciò impedisse l’abominio che si verificherà domani… pensò.

Dici sul serio?

Si sollevò a sedere di scatto, rigido, chiedendosi se quella voce che gli era echeggiata nella mente fosse effettivamente la sua. Be’, la lingua gli si era mossa leggermente dietro le labbra, come gli capitava di solito quando discuteva con se stesso. E la risposta era come… nata dentro di lui.

Sì.

Si portò ai piedi del letto e si lasciò cadere in ginocchio, aprendo il coperchio del baule e cominciando a frugare tra gli indumenti ripiegati e profumati con chiodi di garofano, a difesa dalle tarme, fino a trovare una sopravveste di velluto nero avvolta intorno a una veste di lana marrone… e a un librettino in codice al quale non aveva più pensato da quando il giudice corrotto era fuggito da Valenda. Gli venne in mente che non l’aveva neppure restituito al Tempio, frenato dalle imbarazzanti spiegazioni che avrebbe dovuto fornire per giustificare il ritardo con cui lo aveva consegnato. Con mosse febbrili, lo tirò fuori e accese altre candele. Non aveva molto tempo a disposizione, e quasi un terzo del volumetto era ancora da decifrare.

Lascia perdere tutti gli esperimenti falliti, e va’ all’ultima pagina, si disse.

A onta della rozzezza di quel codice, la disperazione del mercante di lana emergeva concreta da quelle pagine, con una sorta di strana, scintillante semplicità: abbandonando tutte le precedenti, bizzarre elaborazioni, il mercante aveva fatto ricorso alla pura e semplice preghiera, a un ratto e a un corvo come mezzi per trasmettere la sua supplica, alle candele come strumento per illuminare la via, alle erbe aromatiche per elevare il suo cuore col loro profumo. Queste ultime lo avrebbero aiutato a improntare la mente alla purezza della volontà nonché ad accantonare la volontà stessa, deposta spontaneamente come un’offerta sull’altare del Dio.

Aiutami. Aiutami. Aiutami.

Quelle erano le ultime tre parole annotate sul libretto.

Posso farlo anch’io, pensò Cazaril, con un senso di meraviglia.

E se avesse fallito… ci sarebbe stata pur sempre Betriz, col suo coltello.

Ma non fallirò, promise a se stesso. Nella mia vita, ho fallito in quasi ogni cosa. Però non fallirò nella morte.

Riposto il volumetto sotto il cuscino, chiuse a chiave la porta della stanza e andò in cerca di un paggio, scegliendo infine un ragazzo assonnato che era in attesa nel corridoio, pronto a sopperire alle esigenze dei nobili e delle dame che stavano cenando nella sala dei banchetti di Orico. In quel luogo, senza dubbio, la prolungata assenza di Iselle era oggetto di scottanti pettegolezzi, scambiati senza remore e a voce alta, dato che nessuno degli interessati era presente. Dondo stava infatti cenando nel suo palazzo, coi suoi amici, e Orico si trincerava ancora nel capanno di caccia.

Prelevato dalla borsa un reale d’oro, Cazaril lo mostrò al paggio, tenendolo bene in vista tra pollice e indice. «Senti, ragazzo!» chiamò. «Ti andrebbe di guadagnarti un reale?»

Per i paggi dello Zangre, la cautela era d’obbligo. E un reale d’oro era una somma sufficiente a comprare servizi assai intimi da coloro che erano disposti a venderli, ma anche da ispirare cautela in quelli che non amavano giochi simili. «Cosa dovrei fare, mio signore?» chiese quindi il ragazzo.

«Cattura un ratto per me.»

«Un ratto, mio signore? Perché?»

Ah, già, ci voleva una motivazione, e Cazaril non poteva certo dichiarare di voler mettere in atto una magia di morte ai danni del secondo nobile più potente di tutta Chalion. Appoggiatosi con le spalle alla parete, il Castillar sfoggiò un sorriso da cospiratore. «Quando mi trovavo nella fortezza assediata di Gotorget, tre anni fa, dov’ero il comandante, almeno finché il mio coraggioso generale non ci ha venduti tutti al nemico, abbiamo imparato a mangiare i ratti», spiegò. «Sono piccole creature saporite, se riesci a catturarne abbastanza da saziarti, e adesso sento un’acuta nostalgia del sapore di una bella coscetta di ratto arrostita sulla fiamma di una candela. Procurami un bel ratto grasso e avrai una seconda moneta come questa.» Lasciò cadere la moneta nella mano del paggio e si leccò le labbra con un’aria che doveva senza dubbio apparire folle, almeno a giudicare dal modo in cui il ragazzo prese a indietreggiare. «Sai dove si trova la mia camera?» domandò poi.

«Sì, mio signore.»

«Allora portami là il ratto, in un sacco, più in fretta che puoi, perché ho davvero fame», ribadì Cazaril e si allontanò, ridendo… Una risata vera, dovuta a una strana, selvaggia esaltazione che gli pervadeva il cuore.

Quello stato d’animo durò finché, nella sua stanza, non sedette sul letto per elaborare il resto del suo piano, quell’oscura preghiera che si sarebbe conclusa con un suicidio. Era notte, dunque il suo corvo non sarebbe venuto sul suo davanzale, neppure se avesse cercato di adescarlo col pezzo di pane prelevato nella sala dei banchetti, prima di tornare nella parte centrale del palazzo. Dal momento che i corvi avevano il loro nido nella Torre di Fonsa, doveva essere lui a strisciare fino a loro, passando per i tetti. C’era tuttavia il rischio di scivolare al buio… Senza contare la difficoltà di tornare nella propria camera con un fagotto stridente sotto il braccio.

No. Doveva andare col sacco in cui c’era il ratto. Se avesse fatto ciò che doveva lassù, avvolto dall’oscurità del tetto in rovina, un unico viaggio sarebbe bastato. E poi in quella torre la magia di morte aveva già funzionato una volta, in modo spettacolare, a favore del nonno di Iselle, no? Non c’era dunque da sperare che lo spirito di Fonsa fosse disposto ad aiutare l’empio soldato che stava difendendo sua nipote? La sua torre era un luogo temuto, sacro al Bastardo e ai suoi uccelli, soprattutto nel cuore della notte e sotto quella pioggia gelida… Lassù il suo corpo non sarebbe mai stato trovato, né avrebbe avuto bisogno di sepoltura. I corvi avrebbero banchettato coi suoi resti… Un equo scambio, considerato il sacrificio che lui intendeva richiedere a uno di essi. Dopotutto, gli animali erano creature innocenti, anche i macabri corvi, e senza dubbio quell’innocenza li rendeva tutti sacri, almeno in certa misura. Il paggio tornò molto più in fretta di quanto lui si aspettasse, portando un sacco dentro cui qualcosa si contorceva disperatamente. Controllato il contenuto — un ratto infuriato che pesava più di una libbra e mezzo -, Cazaril consegnò al ragazzo l’altra moneta. Dopo averla riposta in tasca, il paggio si allontanò lentamente lungo il corridoio, continuando a guardarsi indietro con aria dubbiosa.

Cazaril richiuse il sacco e lo ripose nel baule, per impedire la fuga del «prigioniero», poi si tolse la tenuta da cortigiano e, come buon augurio, si mise la veste marrone e la sopravveste nera che il mercante di lana aveva indossato al momento della morte. Indugiò per qualche istante a chiedersi se, per affrontare la scalata delle pietre e delle tegole bagnate di pioggia, fosse meglio usare gli stivali, le scarpe o restare scalzo e, alla fine, optò per quest’ultima strada. Prima d’iniziare la sua impresa, però, s’infilò le scarpe per fare un’ultima visita.

«Betriz?» chiamò qualche minuto più tardi, fermandosi davanti alla porta dell’anticamera. «Lady Betriz? So che è tardi… Ma potete venire fuori per parlare con me?»

Ancora completamente vestita, pallida ed esausta, Betriz oltrepassò la soglia e gli permise di stringerle le mani, arrivando ad appoggiargli per un momento la fronte contro il petto; per un vertiginoso istante, il profumo dei suoi capelli riportò Cazaril al secondo giorno che aveva trascorso a Valenda, quando si era trovato accanto a lei, in mezzo alla calca che affollava il Tempio. L’unica cosa rimasta immutata, da quel giorno sereno, era la sua lealtà.

«Come sta la Royesse?» le chiese.

«Continua a pregare la Figlia senza un attimo di sosta», rispose Betriz, sollevando lo sguardo su di lui alla tenue luce delle candele. «Non ha mangiato né bevuto da ieri. Non so dove siano gli Dei, o perché ci abbiano abbandonati…»

«Oggi non ho potuto uccidere Dondo. Avvicinarlo mi è stato impossibile», confessò Cazaril.

«L’avevo immaginato… Altrimenti avremmo sentito qualcosa al riguardo.»

«Mi rimane ancora una cosa da tentare. Se non dovesse funzionare… Be’, in tal caso, tornerò domattina, e vedremo cosa si potrà fare col vostro coltello. Volevo soltanto che voi sapeste… Ecco, se domattina non dovessi tornare, sappiate che comunque starò bene. Non vi preoccupate per me e non mi cercate.»

«Non ci state abbandonando, vero?» esclamò Betriz, stringendogli spasmodicamente le mani.

«No, mai.»

«Non capisco», mormorò lei, sbattendo le palpebre, stupita.

«Non importa. Abbiate cura di Iselle, e non vi fidate mai, per nessun motivo, del Cancelliere dy Jironal.»

«Non c’è bisogno che me lo diciate!»

«Ancora una cosa. Il mio amico Palli, il March dy Palliar, conosce la verità: sa che, dopo Gotorget, io sono stato tradito… E sa anche come Dondo e io siamo diventati nemici… Adesso non ha più importanza, ma è bene che Iselle sappia che il fratello maggiore di Dondo ha deliberatamente escluso il mio nome dall’elenco degli uomini da riscattare, condannandomi alla schiavitù sulle galee e alla morte. Non ci sono dubbi al riguardo, perché ho visto l’elenco, stilato di suo pugno. Conoscevo fin troppo bene la sua calligrafia, per aver letto più volte i suoi ordini militari.»

«Non si può fare nulla al riguardo?» chiese Betriz.

«Ne dubito. Se si potesse dimostrarlo, una buona metà dei nobili di Chalion rifiuterebbe di cavalcare in futuro sotto la sua bandiera, e forse ciò sarebbe sufficiente a farlo cadere in disgrazia… o forse no. Questa è una freccia che Iselle deve tenere nella sua faretra, perché un giorno potrebbe tornarle utile.» Indugiò per un lungo momento a fissare il volto di lei, sollevato verso il suo, con la pelle d’avorio, le labbra di corallo e i profondi occhi d’ebano, che apparivano enormi nella penombra, poi si chinò con fare impacciato, e la baciò.

Per un attimo, Betriz smise di respirare, poi scoppiò in una risata stupita e si portò una mano alla bocca.

«Scusatemi… La vostra barba punge», disse.

«Io… perdonatemi. Palli sarebbe per voi un marito quanto mai onorevole, se voleste prenderlo in considerazione. Inoltre è sincero proprio come voi. Potete riferirglielo da parte mia.»

«Cazaril, cosa state…»

«Betriz?» chiamò in quel momento Nan dy Vrit, dalle camere della Royesse. «Puoi venire qui, per favore?»

Per Cazaril era giunto il momento di separarsi da tutto, anche dal rimpianto. Le baciò ancora una volta le mani e si allontanò in fretta.

L’arrampicata notturna sui tetti dello Zangre, dal corpo principale del palazzo fino alla Torre di Fonsa, fu difficoltosa proprio come Cazaril aveva anticipato. Stava ancora piovendo, la luna brillava a tratti fra le nuvole, ma la sua luce cupa e intermittente non era molto utile. A peggiorare le cose, le superfici su cui si muoveva, a piedi nudi, erano dolorosamente ruvide o spaventosamente scivolose, oltre a essere tanto gelide da eliminare ogni sensibilità. La parte peggiore fu il piccolo salto finale di circa due iarde fino alla sommità della torre rotonda; per fortuna, tuttavia, il balzo risultò inclinato verso il basso, evitando in tal modo a Cazaril di schiantarsi sull’acciottolato sottostante.

Stringendo il sacco col ratto, che continuava a dibattersi, e respirando a fatica, ancora tremante per il salto, Cazaril si accovacciò sul tetto, contro una fila di tegole viscide di pioggia. Però, temendo che una si staccasse, cadendo nel cortile e attirando l’attenzione di una guardia, dopo qualche istante il Castillar prese a spostarsi lungo il contorno della torre. Raggiunse così lo squarcio nel tetto e lì si sedette, lasciando penzolare le gambe all’interno e tastando coi piedi alla ricerca di una superficie solida. Non trovandola, attese che la luna uscisse da dietro le nubi, fornendo un po’ di luce, ma cominciò anche a dubitare del fatto che, sotto i suoi piedi, ci fosse un pavimento o anche solo un tratto di ringhiera. Davanti a lui, nel buio, un corvo gracchiò sommessamente.

Cazaril trascorse almeno dieci minuti in quella posizione precaria, mentre, con mani tremanti, cercava di accendere il mozzicone di candela che si era portato appresso, lavorando al tatto con accendino ed esca posati in grembo. Com’era prevedibile, finì per scottarsi, ma riuscì anche a ottenere una piccola fiamma, grazie alla quale vide che, più sotto, c’erano in effetti una ringhiera e un tratto di rozzo pavimento. Sembrava che, dopo l’incendio, per evitare un crollo rovinoso, qualcuno avesse costruito all’interno della torre una piattaforma di travi massicce. Trattenendo il respiro per la tensione, Cazaril saltò atterrando su quella superficie di dimensioni assai ridotte, ma piuttosto solida. Poi infilò la candela in una fessura tra due travi e ne accese una seconda, accostandola alla sua fiamma. Infine estrasse il pane e il sottile pugnale tolto a Betriz.

Prendere un corvo… Mentre era nella sua camera, la cosa gli era sembrata abbastanza semplice, ma adesso, in quel rudere avvolto da ombre tremolanti, non riusciva neppure a vedere quei dannati uccelli.

Accanto alla sua testa ci fu un improvviso sbattere d’ali e un corvo andò a posarsi sulla ringhiera. Tremando di spavento, Cazaril protese un pezzetto di pane e, quando il corvo glielo strappò di mano, per poi spiccare nuovamente il volo, si concesse una sonora imprecazione. Quindi trasse alcuni profondi respiri e si costrinse a procedere con ordine. Aveva il pane, il coltello, le candele, il sacco col ratto… ed era anche in ginocchio. Ma poteva dire di avere il cuore sereno? Certamente no.

Aiutami, aiutami, aiutami, pregò.

Il corvo, o un suo gemello, tornò verso di lui, stridendo: «Caz, Caz!» in tono non troppo alto. Quel richiamo, tuttavia, riecheggiò potente nella torre in rovina.

«D’accordo», sbuffò Cazaril. «Così va bene.» Estratto il ratto dal sacco, gli appoggiò il coltello contro la gola. «Corri dal tuo signore con la mia preghiera», sussurrò, sgozzando l’animale con un gesto rapido e preciso. Il fiotto di sangue, caldo e scuro, gli bagnò la mano. Lui posò il piccolo cadavere accanto alle ginocchia e protese il braccio verso il corvo. Come se obbedisse a un ordine, il volatile saltò su di esso e si chinò a lambire il sangue sulla mano di Cazaril, protendendo di scatto la lingua nera. Quel gesto colse così di sorpresa il Castillar da strappargli un violento sussulto. Allora, per evitare che il corvo volasse via, Cazaril bloccò l’uccello sotto il braccio e lo baciò sulla testa. «Perdonami, perché il mio bisogno è grande», disse. «Forse il Bastardo ti nutrirà col pane degli Dei e potrai posarti sulla sua spalla, quando lo raggiungerai. Vola dal tuo signore con la mia preghiera.»

Una rapida torsione fu sufficiente a spezzare il collo del corvo, che agitò per un istante le ali e giacque immobile tra le sue mani. Lentamente, Cazaril depose quel cadavere accanto all’altro. «Bastardo, Dio della giustizia quando ogni giustizia viene meno, Dio dell’equilibrio di tutte le cose fuori stagione, e Dio del mio bisogno. Per dy Sanda, per Iselle, per tutti coloro che la amano… per Lady Betriz, la Royina Ista, la vecchia Provincara… per il disastro sulla mia schiena, per la verità contrapposta alle menzogne, ricevi la mia preghiera…» Ignorava se quelle erano le parole giuste, ammesso che ci fossero parole «giuste» per quel rito. D’un tratto, però, il suo respiro divenne affannoso. Quindi cominciò a piangere e si piegò in avanti, sopra i corpi degli animali, straziato da un intenso dolore al ventre, una sorta di crampo unito a un bruciore devastante. Non sapeva di dover soffrire tanto… In ogni caso, è meglio che trovarsi su una galea e ricevere una scarica di quadrelle brajariane sul posteriore, si disse. Poi, rammentando le preghiere della sera che diceva da ragazzo, aggiunse: «Per le tue benedizioni, noi ti ringraziamo, Dio delle cose fuori stagione…»

Aiutami, aiutami, aiutami…

Oh.

La fiamma delle candele tremolò e si spense, l’oscurità si fece ancora più intensa e sembrò inghiottire ogni cosa.

12

Cazaril aprì a fatica le palpebre, che parevano incollate, e si guardò intorno, senza capire cosa fosse quella grigia fenditura nel cielo, incorniciata nell’oscurità. Umettandosi le labbra aride, deglutì, e, a poco a poco, si rese conto di essere disteso supino su alcune travi… Era la struttura di sostegno della Torre di Fonsa. I ricordi della notte precedente riaffiorarono.

Sono vivo, pensò. Quindi ho fallito.

Annaspando alla cieca intorno a sé, incontrò con la mano destra un inerte mucchietto di penne fredde e si ritrasse di scatto. Rimase disteso, rammentando il terrore provato e col ventre ancora contratto da un dolore sordo. Si sentiva gelido come un cadavere. Ma respirava, dunque non era morto. Perciò anche Dondo dy Jironal era ancora vivo. E quella era la mattina delle sue nozze.

A mano a mano che lo sguardo gli si abituava alla penombra, Cazaril si rese conto di non essere solo: sulla rozza ringhiera che delimitava la piattaforma, c’era appollaiata una dozzina di corvi, assolutamente silenziosi e quasi immobili. Sembravano fissarlo.

D’impulso, Cazaril si portò una mano al volto. Ma non era ferito. Nessuno di quegli uccelli aveva ancora provato a beccarlo. «No», sussurrò, con voce tremante. «Non sono la vostra colazione, mi dispiace.»

Nel sentire la sua voce, uno dei corvi arruffò le ali, ma nessuno accennò a volare via. E anche quando lui si sollevò a sedere, i volatili si agitarono, ma non si mossero.

Non tutto era stato fagocitato dall’oscurità: la sua memoria conservava ancora qualche frammento di un sogno. Aveva sognato di essere Dondo dy Jironal, seduto a una tavola scintillante di boccali d’argento, con le mani massicce adorne di anelli. Intorno a lui, in una sala rischiarata da torce e candele, la solita compagnia di amici e di prostitute. Mentre beveva all’imminente sacrificio della verginità di Iselle, accompagnando il brindisi con gesti osceni, era stato assalito da una tosse improvvisa, un fastidio in gola che si era rapidamente trasformato in dolore. A poco a poco, la gola gli si era gonfiata, come se qualcosa lo stesse strangolando dall’interno. I volti arrossati dei compagni si erano girati verso di lui e le loro risate si erano trasformate in grida di panico, giacché il suo viso, ormai livido, aveva convinto tutti che non si trattava di uno scherzo. C’erano stati strilli allarmati, coppe di vino rovesciate, esclamazioni sconvolte, in cui ricorreva la parola «veleno». Lui, invece, non era più riuscito a parlare, per via della gola sempre più contratta e della lingua che si andava gonfiando. Niente ultime parole, quindi, solo silenziose convulsioni, il cuore affaticato che martellava, un dolore simile a una morsa che gli attanagliava il petto e la testa, nubi nere venate di rosso che salivano a oscurargli la vista…

È stato solo un sogno, si disse Cazaril. Se io sono vivo, anche lui lo è.

Per mezzo giro di clessidra rimase ancora sdraiato sulla piattaforma, piegato in due per il dolore al ventre, in preda allo sfinimento e alla disperazione, mentre la fila di corvi continuava a vegliarlo, immersa in uno snervante silenzio.

D’un tratto, Cazaril si rese conto che doveva rientrare. Ma come? Non ci aveva pensato. Poteva calarsi lungo le travi di rinforzo, ma in tal modo si sarebbe trovato sul fondo di una torre murata, in cima al mucchio di detriti e di escrementi accumulatisi negli anni. L’unico modo per farsi tirare fuori sarebbe stato gridare… Ma qualcuno l’avrebbe sentito, attraverso quelle spesse pareti di pietra? E la sua voce non sarebbe stata scambiata per un’eco del gracchiare dei corvi, o per il lamento di qualche fantasma?

No, l’unica via a sua disposizione era quella verso l’alto, la stessa da cui era entrato.

Cazaril si alzò lentamente, aggrappandosi alla ringhiera, cercando di distendere i muscoli contratti e doloranti. I corvi non accennarono a spostarsi e lui ne dovette spingere via un paio, che si allontanarono svolazzando, ma continuarono a mantenere uno spettrale silenzio. Sollevata la veste marrone, Cazaril ne infilò il bordo nella cintura, poi salì sulla ringhiera, in equilibrio precario, e scoprì di poter raggiungere da lì il bordo del tetto. Afferrandosi a esso, si sollevò, confidando nella forza delle braccia e nel suo corpo snello e muscoloso. Per un momento, avvertì la spaventosa sensazione di essere sospeso nel vuoto, quindi i suoi piedi trovarono un appiglio sulle pietre e lui riuscì ad arrivare sulle tegole di ardesia. La nebbia era tanto densa da permettergli di distinguere appena il cortile sottostante, segno che l’alba era prossima, o che il sole era appena sorto. Gli abitanti più umili del castello erano senza dubbio già svegli e intenti ai loro compiti, in quella mattina di fine autunno. Seguito dai corvi, che uscirono a uno a uno dal foro nel tetto, andando ad appollaiarsi sulle tegole o sulla pietra e continuando a seguire i suoi spostamenti, Cazaril avanzò fino a portarsi sul lato opposto della torre.

Gli venne in mente soltanto allora che forse i corvi intendevano scagliarsi addosso a lui per fargli mancare il salto dalla torre al corpo principale del castello, vendicando così il compagno da lui ucciso. E, nello spiccare il salto, immaginò altresì di non trovare un appiglio per i piedi e, abbandonata la presa delle mani tremanti, di precipitare nel vuoto, schiantandosi sulle pietre sottostanti. Nello stesso istante, un nuovo, acutissimo crampo gli assalì il ventre, togliendogli il respiro e strappandogli un sussulto. Fu quasi sul punto di abbandonare davvero la presa, ma venne trattenuto dall’improvviso timore di poter sopravvivere alla caduta e di ritrovarsi storpio, con le gambe devastate. Soltanto sull’onda di quell’idea terribile riuscì a trovare la forza e la volontà necessarie per issarsi al di sopra delle grondaie e delle tegole, ignorando i muscoli che protestavano e le mani sanguinanti per lo sforzo di mantenere la presa.

In quella fitta nebbia, inoltre, gli era difficile capire da quale abbaino fosse uscito la notte precedente. Ce n’erano almeno una dozzina… E cosa avrebbe fatto, se avesse scoperto che, nel frattempo, qualcuno era passato di lì e lo aveva chiuso? Lentamente, strisciando, si avvicinò a un abbaino e provò ad aprire i vetri, ma invano. I corvi continuavano a seguirlo lungo le grondaie, sbattendo le ali e facendo piccoli balzi, con gli artigli che scivolavano sulle tegole bagnate, scintillanti di gocce di condensa che si erano formate anche sulle loro penne nere, sulla barba e sui capelli di Cazaril e sulla sua sopravveste nera. La quarta finestra si spalancò sotto la pressione delle sue dita: era proprio quella della legnaia in disuso da cui lui era passato la notte precedente. Sollevato, Cazaril entrò e richiuse i vetri appena in tempo, giacché la sua scorta di volatili neri stava per seguirlo all’interno. La sua mossa fu tanto repentina che un corvo rimbalzò contro il vetro con un tonfo.

A fatica, scese quindi le scale fino al suo piano, senza incontrare nessun servitore, rientrò incespicando nella sua camera e si richiuse la porta alle spalle. Sentendo il ventre che si contraeva dolorosamente, usò poi il pitale, che si riempì di spaventosi grumi di sangue. Tremando, si lavò le mani nella bacinella e, quando aprì la finestra per gettar via l’acqua sporca di sangue, costrinse un paio di corvi a sloggiare dal suo davanzale.

Bloccata col chiavistello la finestra, si diresse verso il letto, abbandonandosi poi su di esso e avvolgendosi nel copriletto. Continuava a tremare. In lontananza, sentiva i servitori del castello, ormai svegli, che passavano nei corridoi per consegnare acqua, lenzuola o pitali, salendo e scendendo le scale e chiamandosi a bassa voce. Forse Iselle, al piano di sopra, era già sveglia… Probabilmente la stavano lavando e vestendo. La legavano con fili di perle e la incatenavano coi gioielli in modo che fosse pronta per il suo spaventoso appuntamento con Dondo. La Royesse era riuscita a dormire un poco, oppure aveva pianto per tutta la notte, pregando quegli Dei che sembravano ignorare le sue suppliche? E Betriz… Si era forse procurata un altro pugnale? Cazaril sapeva che sarebbe stato suo dovere andare da Iselle, per darle almeno un po’ di conforto, ma, alla luce del suo fallimento, non se la sentiva di affrontare né lei né Betriz. Raggomitolandosi su se stesso, serrò gli occhi, in preda al dolore.

Era ancora disteso a letto, col respiro che usciva in una serie di ansiti, quando nel corridoio echeggiò un rumore di piedi calzati di stivali, poi la porta della sua stanza si spalancò con violenza e il Cancelliere dy Jironal apparve sulla soglia. «So che è stato lui!» ringhiò. «Dev’essere stato lui!»

I passi avanzarono sul pavimento di legno. Il copriletto venne tirato via di scatto. Girandosi, Cazaril fissò con sorpresa il volto arrossato di dy Jironal, che lo guardò a sua volta, stupefatto e disse, in tono indignato: «Siete vivo!»

Una mezza dozzina di cortigiani, tra cui Cazaril riconobbe anche un paio dei bravacci di Dondo, si accalcarono intorno a dy Jironal, guardando con pari meraviglia lo sconcertato Castillar e tenendo la mano sull’impugnatura della spada, quasi fossero pronti a ucciderlo a un minimo cenno del Cancelliere. Il Roya Orico, più arretrato rispetto al minaccioso gruppetto, stava immobile, in camicia da notte e con un trasandato mantello chiuso al collo dalle dita grassocce. Spostando lo sguardo su di lui, Cazaril si accorse che Orico aveva un aspetto… strano. Sempre più perplesso, sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi, eppure continuò a vedere una sorta di aura, fatta non di luce, bensì di oscurità, intorno alla figura del Roya. Lo vedeva con chiarezza, quindi non poteva paragonare quell’oscurità a una nebbia, perché essa non velava minimamente i suoi tratti… Tuttavia lo avvolgeva come un indumento, muovendosi insieme con lui.

Mordendosi un labbro per il disappunto, dy Jironal fissò Cazaril con occhi penetranti. «Se non sei stato tu… chi, allora? Dev’essere stato qualcuno… qualcuno vicino a… a quella ragazza! Quell’immonda, piccola assassina!» esclamò, poi si volse di scatto e uscì a precipizio, segnalando con un gesto secco ai suoi uomini di seguirlo.

«Che succede?» domandò Cazaril a Orico, che si era girato a sua volta per uscire dietro agli altri.

«Il matrimonio è annullato», rispose Orico, lanciandogli un’occhiata da sopra la spalla e allargando le mani in un gesto di sconcertata impotenza. «La scorsa notte, verso mezzanotte, Dondo dy Jironal è stato assassinato… tramite una magia di morte.»

Cazaril aprì la bocca per replicare, ma riuscì a emettere soltanto un flebile «Oh!» Poi si accasciò sul letto, stordito, mentre Orico s’incamminava per seguire il suo Cancelliere. Non capisco, rifletté Cazaril, sempre più confuso. Se Dondo è morto e io sono vivo, non mi può essere stato concesso un miracolo di morte. D’altro canto, Dondo è morto. Come può essere accaduto?

L’unica spiegazione era che qualcuno aveva celebrato lo stesso rito prima di lui. Betriz… Il suo cervello arrivò infine alla stessa conclusione cui dy Jironal era già giunto. Possibile che si trattasse di Betriz?

Con un gemito interiore, Cazaril si alzò di scatto dal letto, cadde pesantemente sul pavimento e si rialzò, incamminandosi con passo barcollante per seguire la piccola folla di cortigiani infuriati e arrivando nell’anticamera, intasata di gente, in tempo per sentire le richieste di dy Jironal.

«Allora falla uscire, in modo che la possa vedere!» stava tuonando il Cancelliere, rivolto all’arruffata Nan dy Vrit che, per quanto spaventata, stava bloccando la porta di accesso alle stanze interne col proprio corpo, come se intendesse difendere un ponte levatoio. Quando Betriz apparve alle spalle di Nan, fissando gli invasori con aria accigliata, Cazaril quasi svenne per il sollievo. Mentre la dama di compagnia era in camicia da notte, Betriz indossava ancora lo stesso abito di lana verde della notte precedente e, a giudicare dall’aria stanca e scomposta, non aveva chiuso occhio. A ogni buon conto era viva!

«Perché state facendo tutto questo chiasso, mio signore?» domandò Betriz, gelida. «È una cosa sconveniente e poco consona all’ora.»

Sconcertato, dy Jironal socchiuse le labbra, e, dopo un momento, tuonò: «Dov’è la Royesse? Devo vederla!»

«Sta dormendo per la prima volta da giorni, e non intendo disturbarla, considerato che i suoi sogni ben presto si tramuteranno in incubi», dichiarò Betriz.

«Non volete disturbarla?» sibilò dy Jironal. «Vi sto chiedendo se potete svegliarla!»

Per gli Dei, possibile che Iselle abbia… pensò Cazaril, atterrito. Ma non ebbe il tempo di abbandonarsi al panico, perché Iselle sopraggiunse alle spalle delle due dame, si fece largo tra loro e avanzò nell’anticamera, fronteggiando dy Jironal. «Non sto dormendo, mio signore. Che cosa volete?» domandò, sfiorando con lo sguardo Orico, che si teneva ai margini della folla. Ma gli occhi della giovane tornarono subito su dy Jironal. Non c’erano dubbi su chi la stesse forzando a contrarre quel matrimonio.

Dy Jironal spostò lo sguardo dall’una all’altra donna, entrambe innegabilmente vive, poi si girò di scatto a fissare ancora Cazaril, che stava guardando Iselle con aria interdetta, giacché aveva scorto intorno a lei un’aura simile a quella di Orico. Nel caso di Iselle, però, essa appariva più disturbata, un ribollire di oscurità mista a un luminoso azzurro. Si rammentò di un’aurora che gli era capitato di contemplare nei lontani cieli del sud…

«Chiunque sia stato e ovunque lo abbia fatto, troverò il cadavere di quell’ignobile vigliacco, a costo di passare al setaccio tutta Chalion», ringhiò dy Jironal.

«Poi cosa farai?» domandò Orico, accarezzandosi le grasse guance non rasate. «Lo impiccherai?» E inarcò un sopracciglio con fare ironico.

Per tutta risposta, dy Jironal gli rivolse un’occhiata furente e, momentaneamente sconfitto, uscì a grandi passi dalla stanza.

Nello spostarsi di lato per far passare lui e il suo seguito, Cazaril continuò a osservare Orico e Iselle, confrontando quelle due… Che cos’erano? Allucinazioni, forse? Non sapeva come altro definirle: intorno a lui, nessun altro pulsava di oscurità in quel modo. Forse sono malato, si disse. O magari sto impazzendo.

Non appena i cortigiani se ne furono andati e Nan ebbe chiuso la porta alle loro spalle, Iselle si rivolse al Castillar e, con voce tremante, chiese: «Cazaril… Cos’è successo?»

«La scorsa notte, qualcuno ha ucciso Dondo dy Jironal con la magia di morte.»

Iselle socchiuse le labbra e si serrò le mani sul cuore, come una bambina cui fosse appena stata promessa la realizzazione del suo più grande desiderio. «Oh! Oh! Oh, questa sì, che è una notizia gradita!» esclamò. «Oh, sia ringraziata la Signora, sia ringraziato il Bastardo… Manderò splendidi doni per il suo altare… Oh, Cazaril, chi…?»

Nel cogliere l’occhiata di Betriz, Cazaril fece una smorfia. «Non sono stato io, questo è ovvio», dichiarò. Anche se non si può dire che non ci abbia provato, rifletté.

«Avete…» cominciò Betriz, poi s’interruppe.

Cazaril le rivolse un cenno del capo quasi impercettibile. La giovane comprese: non poteva chiedergli, davanti a due testimoni, se lui aveva premeditato un crimine che comportava la pena capitale. D’altro canto, era possibile leggere nello sguardo della giovane una tale ridda d’ipotesi…

«Credo di averlo avvertito», riprese Iselle, meravigliata, camminando avanti e indietro con passo reso leggero dal sollievo. «In ogni caso, ho avvertito qualcosa… A mezzanotte… Avete detto che è successo verso mezzanotte, vero?»

Cazaril evitò di precisare che, in presenza della Royesse, nessuno aveva parlato di un’ora precisa.

«A quell’ora, il mio cuore si è rasserenato, come se qualcosa, dentro di me, avesse appreso che le mie preghiere erano state ascoltate. Tuttavia non mi sarei mai aspettata questo», proseguì Iselle. «Io avevo chiesto alla Signora che permettesse a me di morire… o che si compisse la sua volontà.» Si portò una mano alla fronte e chiese, con voce d’un tratto esitante «Cazaril… È possibile che… Potrei essere stata io a fare questo? È così che la Dea ha scelto di rispondermi?»

«Io… non credo proprio, Royesse. Avete rivolto le vostre preghiere alla Signora della Primavera, giusto?»

«Sì, a lei e alla Madre dell’Estate, ma soprattutto alla Signora della Primavera.»

«Ed entrambe concedono miracoli di vita e di risanamento, non di morte», le ricordò Cazaril. In effetti, quella era la norma. D’altro canto, però, tutti i miracoli erano rari e imprevedibili, perché nessuno poteva conoscere i limiti e gli scopi degli Dei.

«Non ho avuto una sensazione di morte», ammise Iselle. «Tuttavia ho provato sollievo, al punto che sono riuscita a mangiare qualcosa senza vomitare e che ho perfino dormito per un po’.»

«Cosa di cui sono stata lieta, mia signora», interloquì Nan dy Vrit, annuendo.

«Sono certo che dy Jironal risolverà questo mistero per conto di tutti noi», tagliò corto Cazaril, traendo un profondo respiro. «Senza dubbio, individuerà coloro che, la scorsa notte, sono morti all’interno di Cardegoss — anzi in tutta Chalion — e finirà per trovare l’assassino di suo fratello.»

«Sia benedetta quella povera anima che ha sventato in questo modo i suoi ignobili piani e che ha pagato un simile prezzo», esclamò Iselle, toccandosi formalmente la fronte, le labbra, il ventre, l’inguine e il cuore, con le dita allargate. «Che i demoni del Bastardo gli concedano tutta la misericordia possibile.»

«Così sia», commentò Cazaril. «Speriamo solo che dy Jironal non trovi amici o parenti del colpevole su cui vendicarsi.» Poi venne colto da un crampo e si serrò le braccia intorno al ventre.

Subito Betriz gli si avvicinò e lo scrutò in volto, protendendo la mano verso di lui, ma lasciandola subito ricadere. «Avete un aspetto spaventoso, Lord Caz… La vostra pelle ha il colore del porridge freddo.»

«Sto… male. Probabilmente è colpa di qualcosa che ho mangiato», ansimò Cazaril, traendo un faticoso respiro. «Dunque oggi non ci prepareremo per uno sgradito matrimonio ma per un gioioso funerale. Posso confidare che voi signore riuscirete a contenere in pubblico la vostra soddisfazione?»

Nan dy Vrit reagì a quelle parole con uno sbuffo, ma Iselle bloccò con un cenno la sua reazione. «Vi prometto che avremo un atteggiamento compassato e solenne», garantì. «Se nel mio cuore ci saranno gioia e rendimento di grazie, non dolore, questo lo sapranno soltanto gli Dei.»

Cazaril annuì, massaggiandosi il collo dolorante. «Di solito, una vittima della magia di morte viene bruciata prima di notte, in modo da impedire l’accesso al corpo a cose ultraterrene che cerchino di penetrarvi… o almeno così asseriscono i Divini», mormorò. «A quanto pare, questo genere di morte invita ogni sorta di creature spettrali. Dovendo approntare ogni cosa prima che faccia buio, sarà un funerale terribilmente affrettato per un nobile di rango così elevato.» Nel parlare, dovette distogliere lo sguardo da Iselle, perché la sua aura corrusca e vibrante cominciava quasi a dargli la nausea.

«In tal caso, Cazaril, sarà meglio che, fino ad allora, andiate a sdraiarvi», suggerì Betriz. «Per quanto si tratti di una cosa inattesa, adesso siamo salve, e non c’è bisogno che voi facciate altro.» Strinse per un istante le mani gelide del Castillar nelle sue e gli rivolse un sorriso pieno di preoccupazione, che lui riuscì a stento a ricambiare, prima di ritirarsi.

Rientrato nella propria camera, Cazaril si stese di nuovo sul letto. Era là da circa un’ora, ancora sconcertato e tremante, quando la porta si spalancò. Betriz entrò in punta di piedi e gli posò una mano sulla fronte. «Temevo che aveste la febbre… Invece siete gelido», disse.

«Ho… Sì, ho preso freddo. Devo essermi scoperto durante la notte.»

«I vostri vestiti sono fradici di umidità», continuò lei, toccandogli la spalla. «Quand’è stata l’ultima volta che avete mangiato?»

«Ieri mattina, credo», rispose Cazaril.

«Capisco», commentò Betriz, indugiando ancora a fissarlo con espressione accigliata, poi si girò di scatto e lasciò la stanza.

Dieci minuti più tardi, arrivò una cameriera con uno scaldino pieno di carboni ardenti e una trapunta di piume d’oca. Poi fu la volta di un servitore con un secchio d’acqua calda. L’uomo aveva ricevuto l’ordine di lavare Cazaril e di rimetterlo a letto con indosso una camicia da notte pulita… Due incarichi che contrastavano alquanto con la frenetica atmosfera del castello, giacché i nobili e le dame erano tutti impegnati a prepararsi per una cerimonia formale. Il servitore aveva appena finito di sistemarlo a letto, avvolto nelle lenzuola calde e asciutte, quando Betriz riapparve sulla soglia, reggendo su un vassoio una tazza di terracotta; puntellata la porta perché rimanesse aperta, la ragazza si sedette sul bordo del letto.

«Cercate di mangiare», disse, procedendo a imboccarlo.

Cazaril accettò il primo cucchiaio di pane, latte e miele con aria sorpresa, poi si sforzò di sollevarsi a sedere. «Non sono malato fino a questo punto», protestò. Nel tentativo di recuperare un po’ di dignità, prese la tazza dalle mani di Betriz, la quale gli rimase accanto per essere sicura che continuasse a mangiare. Ma non ce n’era bisogno: Cazaril scoprì di essere davvero affamato e, una volta finito di mangiare, si rese conto che non tremava più.

«Ah, il vostro colorito è molto migliorato», approvò Betriz, con un sorriso soddisfatto. «Bene.»

«Come sta la Royesse?»

«Molto meglio. Dovrei dire che è crollata, ma non bisogna interpretare questo termine in senso negativo, bensì immaginando quel gradevole rilassamento che subentra allorché si dissolve una tensione intollerabile. Guardarla è una gioia per gli occhi»

«Sì, lo capisco.»

«Adesso sta riposando, in attesa che arrivi l’ora di prepararsi», continuò Betriz, prendendo la tazza vuota e posandola di lato. Poi abbassò la voce e aggiunse: «Cazaril, che cosa avete fatto, la notte scorsa?»

«Nulla, è evidente.»

La giovane serrò le labbra, esasperata. Lui però non voleva gettarle addosso il fardello del suo segreto. Una confessione avrebbe dato sollievo alla sua anima, certo, però avrebbe anche messo in pericolo quella di Betriz. Se fosse stata aperta un’inchiesta e lei avesse dovuto testimoniare sotto giuramento… No, non poteva parlare.

«Lord dy Rinal ha saputo che la scorsa notte voi avete pagato un paggio perché vi procurasse un ratto… È stato questo che ha spinto dy Jironal a precipitarsi nella vostra stanza, almeno a quanto sostiene dy Rinal. Il paggio, dal canto suo, ha affermato che voi volevate mangiare il ratto…»

«Infatti. Mangiare un ratto non è un crimine. Era un piccolo banchetto commemorativo, in ricordo dell’assedio di Gotorget.»

«Davvero? Eppure mi avete appena detto di non aver più mangiato nulla da ieri mattina», obiettò Betriz. «Inoltre, la cameriera addetta alla vostra camera ha detto di aver trovato del sangue nel vostro pitale, stamattina, quando lo ha svuotato.»

«Per i demoni del Bastardo!» imprecò Cazaril. «I pettegolezzi di corte non rispettano proprio nulla? Qui un uomo non può definire suo neppure il proprio pitale?»

«Non scherzate, Lord Caz», lo ammonì Lady Betriz, sollevando una mano. «Ditemi piuttosto… state davvero così male?»

«Ho avuto dei dolori al ventre, ma adesso si stanno placando… Una cosa passeggera», rispose Cazaril, con una smorfia, decidendo di non far cenno alle allucinazioni. «Ovviamente, il sangue nel pitale era quello del ratto macellato, e i dolori al ventre sono l’inevitabile conseguenza dell’aver mangiato una creatura tanto disgustosa.»

«È una storia plausibile, in cui tutto combacia», annuì Betriz.

«Infatti.»

«Ma, Caz… La gente penserà che siete strano.»

«E quella gente si unirà a coloro che mi considerano un violentatore. Suppongo che mi serva una terza forma di perversione, per equilibrare le altre due, eh?» In realtà, potrei essere sospettato di aver messo in atto la magia di morte, e finire sulla forca… pensò.

«D’accordo, non intendo insistere», si arrese Betriz, con aria accigliata, fissandolo. «Però mi stavo chiedendo una cosa… Se due persone tentassero la magia di morte sulla stessa vittima e agissero nello stesso momento, potrebbe ciascuna delle due risultare… morta a metà

Cazaril la guardò, vide con sollievo che non appariva disgustata, e scosse il capo. «Non credo», rispose. «Considerati i numerosi, e vani, tentativi compiuti per forzare gli Dei con la magia di morte, senza dubbio una cosa del genere si sarebbe già verificata in passato. Nelle incisioni dei Templi, il demone della morte del Bastardo viene sempre raffigurato con un giogo sulle spalle e due secchi identici, uno per ciascuna anima. Non credo che il demone possa fare una scelta diversa…» D’un tratto rammentò le parole di Umegat: Soltanto perché una cosa è un trucco, non è detto che il Dio non c’entri. Temo che così funzionino le cose… «Dubito che perfino gli Dei possano fare una scelta diversa», concluse.

«Mi avete detto che, se stamattina non foste tornato, non avrei dovuto preoccuparmi per voi o cercarvi, che quello sarebbe stato il segno che andava tutto bene. E avete anche sostenuto che, se i corpi non vengono adeguatamente bruciati, possono accadere cose spettrali e terribili», gli ricordò Betriz.

«Avevo adottato misure di sicurezza», garantì Cazaril, a disagio.

«Quali misure? Siete sgusciato via, senza che coloro cui state a cuore sapessero dove cercarvi o se pregare per voi…»

«I corvi di Fonsa… La scorsa notte, ho scalato la Torre di Fonsa per… Ah, ecco… per pregare», mormorò Cazaril. «Ho pensato che se le cose fossero andate… in maniera diversa, i corvi avrebbero provveduto a fare pulizia, come fanno i loro confratelli sui campi di battaglia, o con una pecora caduta in un burrone.»

«Cazaril!» gridò Betriz, indignata, poi si affrettò ad abbassare la voce, riducendola quasi a un sussurro. «Caz, questo è… Mi state dicendo che siete strisciato via da solo per morire in preda alla disperazione, con la prospettiva di lasciare che il vostro corpo venisse divorato dai… Ma è orribile!»

«No, aspettate!» protestò Cazaril, sorpreso di vedere gli occhi di lei velarsi di lacrime. «Non è poi così terribile, e mi è parsa una cosa degna di un soldato.» Allungò la mano per asciugare le lacrime sulla guancia di lei, ma poi la lasciò ricadere con esitazione sul copriletto.

«Se mai farete di nuovo una cosa del genere senza dirmelo… senza dirlo a qualcuno… io… vi prenderò a schiaffi!» s’infuriò Betriz, serrando i pugni in grembo, poi si sfregò gli occhi, si passò le mani sul volto e si sedette più eretta, riportando bruscamente la voce a un tono colloquiale. «Il funerale dovrebbe tenersi nel Tempio, un’ora prima del tramonto. Intendete presenziarvi, oppure rimarrete a letto?»

«Se riuscirò a camminare, intendo essere presente sino in fondo», replicò Cazaril. «Ogni nemico di Dondo presenzierà al rito, se non altro per dimostrare di non essere lui il colpevole, quindi si tratterà di un evento notevole, cui varrà la pena di assistere.»

Le persone che assistettero al rito funebre per Dondo dy Jironal nel Tempio di Cardegoss furono molto più numerose di quelle che avevano partecipato al funerale del povero, solitario dy Sanda. Il Roya Orico in persona, abbigliato in colori adeguati alla circostanza, si mise alla testa del gruppo dei dolenti che, usciti dallo Zangre, scesero a piedi la collina in una lenta processione. Su una portantina c’era anche la Royina Sara. Sebbene inespressiva in volto quanto una statua intagliata in un blocco di ghiaccio, la Royina aveva scelto abiti dai colori vivaci, mescolando le tinte proprie di tre diverse festività, il tutto corredato da una vera profusione di gioielli. Pareva che Sara avesse indosso almeno la metà dei preziosi in suo possesso.

Naturalmente tutti finsero di non notare la cosa.

Cazaril continuò invece a osservare di nascosto la Royina per tutto il tragitto, ma non per quel suo abbigliamento bizzarro. Lui scrutava quel mantello d’ombra, simile a una nebbia e gemello di quello di Orico, che stuzzicava tormentosamente il suo occhio mentale. Anche Teidez possedeva un’analoga aura scura, che si spostava insieme con lui sull’acciottolato, segno che quella sorta di nero miraggio, qualsiasi cosa fosse, si estendeva a tutta la famiglia. Sempre più perplesso, Cazaril non poté fare a meno di chièdersi che cosa avrebbe visto se avesse posato lo sguardo sulla Royina Ista.

Il numero dei presenti risultò così elevato che la cerimonia, condotta dall’Arcidivino di Cardegoss in persona, avvolto nelle sue vesti a cinque colori, venne tenuta nel cortile principale del Tempio. La processione giunta dal palazzo dei dy Jironal depose il feretro contenente il corpo di Dondo a pochi passi dal focolare degli Dei, una rotonda piattaforma di pietra al di sopra della quale una tenda di rame con un foro centrale, retta da cinque sottili colonne, si levava a proteggere dagli elementi il fuoco sacro. Il crepuscolo di quel cupo giorno di pioggia tingeva l’aria di una caliginosa sfumatura violetta e diffondeva ovunque un’opaca luce grigiastra, pervasa dal sentore della miriade di incensi bruciati in preghiera e nei riti di purificazione.

Il cadavere di Dondo, composto nella bara e circondato da fiori ed erbe di buon augurio e di protezione simbolica — una precauzione che Cazaril giudicò un po’ tardiva — era stato abbigliato con le vesti azzurre e bianche proprie della sua carica di Santo Generale dell’Ordine militare della Figlia, e la spada che simboleggiava il suo rango era stata deposta sul suo petto, le mani chiuse intorno all’elsa. Sottovoce, dy Rinal aveva diffuso la diceria secondo cui il corpo era stato avvolto strettamente in fasce di lino prima di essere vestito, eppure esso non sembrava particolarmente gonfio o deformato. Anche il volto non era più gonfio di quanto lo fosse stato nelle mattine in cui Dondo si era trovato a smaltire i postumi di qualche sbornia. D’altro canto, il cadavere sarebbe stato arso con gli anelli ancora infilati nelle dita grassocce: per sfilarli, sarebbe stato necessario ricorrere a un coltello da macellaio.

Cazaril era riuscito a camminare dallo Zangre fino al Tempio senza incespicare, ma i crampi stavano tornando ad aggredirgli lo stomaco, che sembrava persino tendere la cintura. A disagio, il Castillar si mise in un posto abbastanza appartato, cioè alle spalle di Betriz e di Nan. Quanto a Iselle, venne accompagnata accanto a Orico e al Cancelliere: il suo breve fidanzamento rendeva infatti il suo lutto, almeno formalmente, più doloroso. Sotto il manto dell’aura scintillante nera e azzurra, che, agli occhi di Cazaril, la rendeva simile a un’aurora, la Royesse appariva cupa e pallida in volto. Il cadavere di Dondo sembrava aver smorzato in lei qualsiasi impulso a sconvenienti manifestazioni di gioia.

Due cortigiani si fecero avanti per pronunciare un sentito e sincero elogio funebre per Dondo, anche se Cazaril non riconobbe nelle loro parole l’effettivo carattere del defunto né la descrizione del suo stile di vita. Il Cancelliere dy Jironal sembrava troppo sopraffatto dall’emozione per parlare a lungo, sebbene fosse difficile stabilire se il suo stato d’animo dominante fosse il dolore o l’ira. Si limitò ad annunciare una ricompensa di mille reali d’oro per chi avesse fornito informazioni atte a identificare l’assassino del fratello. E quello fu l’unico riferimento a ciò che aveva causato l’improvvisa dipartita di Dondo.

Un’altra cifra non indifferente era stata di certo deposta sull’altare del Tempio. Poi tutti i Devoti, gli Accoliti e i Divini di Cardegoss presero a cantare le preghiere con tale slancio da far supporre che il semplice volume di quel coro potesse garantire al defunto una maggiore santità. Uno dei cantori, che faceva parte del gruppo dei contralto, attirò l’attenzione dell’occhio interiore di Cazaril. Si trattava di una donna di mezz’età dall’aria triste, abbigliata con una veste verde, che pareva risplendere come una candela osservata attraverso un vetro color smeraldo. Mentre cantava, la donna guardò a sua volta Cazaril, ma si affrettò subito a riportare gli occhi sul Divino incaricato di dirigere il coro.

«Conoscete quell’Accolita in coda alla seconda fila dei cantori della Madre?» sussurrò Cazaril a Nan.

«È una delle levatrici al servizio della Madre», rispose la dama, dopo aver guardato nella direzione indicata. «Ho sentito dire che è molto brava.»

«Capisco.»

Giunse poi il momento della scelta da parte degli animali sacri. La folla si fece attenta, giacché non era assolutamente chiaro o prevedibile quale Dio avrebbe preso con sé l’anima di Dondo dy Jironal. Il suo predecessore nella carica di generale della Figlia, pur essendo padre e nonno, era stato immediatamente reclamato dalla Signora della Primavera, che lui aveva servito a lungo, fino alla morte. Dondo, dal canto suo, in gioventù aveva prestato servizio nell’Ordine militare del Figlio, spargendo in giro più di un bastardo. Dalla defunta moglie aveva anche avuto due figlie, che lui disprezzava e che aveva affidato ad alcuni parenti di campagna perché le allevassero. Ma il pensiero di tutti i presenti era un altro: se l’anima di Dondo era stata portata via dal demone della morte del Bastardo, allora adesso si trovava nelle mani di quel Dio, quindi era possibile che esso decidesse di appropriarsene.

In risposta a un gesto dell’Arcidivino Mendenal, l’Accolita cui era affidata la ghiandaia della Figlia si fece avanti e sollevò il polso, ma la ghiandaia oscillò su di esso senza abbandonare la presa sulla manica. L’Accolita guardò allora l’Arcidivino, che si accigliò, accennando impercettibilmente con la testa al feretro. Allora l’Accolita, pur riluttante, avanzò e chiuse entrambe le mani intorno alla ghiandaia, deponendola con decisione sul petto del cadavere.

Nel momento stesso in cui ritrasse le mani, la ghiandaia sollevò la coda, scaricò una chiazza di guano e spiccò il volo, trascinandosi dietro i lacci di seta ricamata e lanciando strida acute. Almeno tre uomini accanto a Cazaril emisero suoni soffocati, ma l’espressione furente del Cancelliere dy Jironal fu sufficiente a trattenere chiunque dallo scoppiare a ridere. Accanto al Cancelliere, Iselle abbassò gli occhi azzurri, che ardevano come fuochi cerulei, e la sua aura si fece ancor più ribollente, mentre l’Accolita indietreggiava e piegava indietro il capo per seguire con ansia il volo della ghiandaia, che infine si appollaiò sulla sommità di una delle elaborate colonne di porfido che circondavano il cortile, continuando a stridere. L’Accolita scoccò quindi un’occhiata all’Arcidivino, che si affrettò a congedarla con un cenno. Con un inchino, la donna si diresse verso la colonna e cercò di convincere la ghiandaia a tornare sul suo polso.

Anche l’uccello verde, sacro alla Madre, rifiutò di lasciare il braccio dell’Accolita cui era affidato. Stavolta, tuttavia, l’Arcidivino Mendenal si limitò a segnalare con un cenno del capo all’Accolita di tornare al proprio posto.

L’Accolita del Figlio si servì del guinzaglio di rame per trascinare la volpe fino alla cassa, ma l’animale prese a uggiolare e a mordere, cercando di far presa sul pavimento coi suoi artigli neri. All’Arcidivino non rimase altro che indicare all’Accolita di tirarsi indietro.

Seduto sulle zampe posteriori, con la lunga lingua rosea che pendeva dalle fauci socchiuse, il robusto lupo grigio emise un cupo ringhio quando la sua custode dalle vesti grigie accennò a sollevare il guinzaglio d’argento. Tuttavia, mentre quel suono sordo echeggiava ancora nel cortile di pietra, il lupo si adagiò sul ventre e protese le zampe davanti a sé. Accanto a lui, l’Accolita riabbassò con cautela le mani e s’immobilizzò, rivolgendo all’Arcidivino uno sguardo in cui si leggeva la sua determinazione a non insistere. E Mendenal accettò quella resa.

Lo sguardo di tutti, carico di aspettativa, si appuntò allora sulla figura vestita di bianco dell’Accolita del Bastardo, che aveva con sé i suoi ratti candidi. Il Cancelliere dy Jironal, accanto al feretro, aveva le labbra serrate e quasi bianche a causa della furia impotente che lo divorava. Tratto un profondo respiro, l’Accolita avanzò verso il cadavere e depose le sue creature sacre sul petto di Dondo, indicando così che il Dio accettava quell’anima scartata dalle altre divinità.

Nel momento in cui le sue mani abbandonarono la presa sui bianchi corpi setosi, però, entrambi i ratti saettarono lontano dal feretro, in direzioni opposte, così rapidi da sembrare scagliati da una catapulta. Colta alla sprovvista, l’Accolita oscillò, come se non riuscisse a decidere quale delle sacre bestiole a lei affidate inseguire per prima, e sollevò le mani in un gesto di disperazione. Nel frattempo, uno dei ratti si diresse verso il rifugio sicuro offerto dalle colonne, e l’altro si allontanò in mezzo alla folla, che si agitò al suo passaggio, accompagnato dagli strilli nervosi di un paio di donne e da uno sgomento mormorio d’incredulità che si diffuse tra i cortigiani e le dame, mutandosi ben presto in un coro di sconvolti sussurri.

Betriz si avvicinò a Cazaril per sussurrargli all’orecchio: «Ma cosa significa tutto questo? Il Bastardo prende sempre gli scarti degli altri Dei, sempre. È il suo… lavoro, e non può rifiutare di accogliere un’anima respinta… Anche se credevo che se ne fosse già impossessato».

«Se nessun Dio ha preso con sé l’anima di Lord Dondo… allora essa è ancora nel mondo», rispose Cazaril, altrettanto sgomento. «Se l’anima non è , allora dev’essere qui, da qualche parte…» Uno spettro inquieto, uno spirito senza riposo, reciso e dannato.

La cerimonia s’interruppe, e l’Arcidivino e il Cancelliere dy Jironal si appartarono dietro il focolare per conferire a bassa voce, anche se di tanto in tanto il loro tono di voce si alzava, attizzando la curiosità della folla in attesa. Facendo capolino da dietro il focolare, l’Arcidivino chiamò poi a sé un giovane Accolita del Bastardo che, dopo aver scambiato con lui poche, sommesse parole, si allontanò di corsa.

Mentre il cielo grigio si scuriva sempre di più, un Divino di rango inferiore, di sua iniziativa, guidò i cantori in un inno non previsto, inteso a riempire quella pausa forzata. Sulle ultime note di quel canto, dy Jironal e Mendenal tornarono a unirsi agli altri, ma l’attesa si protrasse, inducendo il coro ad avviare un altro inno.

Cazaril si sorprese a desiderare di aver utilizzato l’opera di Ordol, Il quintuplice sentiero dell’anima, in maniera più proficua che come semplice paravento per i propri sonnellini e si rammaricò di aver lasciato quel testo a Valenda, perché di colpo si sentiva assillato da una quantità d’interrogativi. Dov’era finita l’anima di Dondo, se il suo spirito non era stato riportato dal demone al suo padrone? Dov’era l’anima recisa dell’ignoto assassino di Dondo, se davvero il demone poteva tornare indietro soltanto col suo doppio bagaglio di anime? E che fine aveva fatto il demone stesso? La teologia non l’aveva mai interessato granché: gli era sempre sembrato un soggetto dagli scarsi risvolti pratici, adatto ai sognatori, a quelli che vivevano fuori del mondo… Adesso, però, si pentiva di non averlo approfondito.

Uno stridio proveniente da un punto vicino al suo stivale lo indusse ad abbassare lo sguardo: il sacro ratto bianco si stava aggrappando alla sua gamba, col minuscolo naso rosato che vibrava intensamente nello strusciarsi contro il suo stinco. Chinatosi, Cazaril raccolse la bestiola con l’intenzione di restituirla all’Accolita, ma il ratto prese subito a rotolarsi con fare estatico tra le sue mani, leccandogli il pollice. In quel momento, l’Accolita affannata rientrò nel cortile insieme con Umegat, che indossava la livrea dello Zangre. E fu proprio la visione dello stalliere a sconvolgere Cazaril.

Il roknari risplendeva infatti di un’aura di un candore assoluto, come se fosse davanti a una finestra di vetro trasparente, investita dalla luce di un’alba che sorgesse sul mare. Quel bagliore era così intenso che Cazaril serrò le palpebre, pur sapendo che non si trattava di un fenomeno fisico. E infatti quel chiarore incandescente continuò a muoversi davanti a lui nonostante gli occhi chiusi, insieme con tre chiazze di oscurità, che non era precisamente tale, un’aurora ribollente e, di lato, una fievole scintilla verde.

Riaprendo gli occhi di scatto, sorprese Umegat che lo fissava con tale intensità da dargli l’impressione che lo stesse sezionando. Dopo un secondo, tuttavia, lo stalliere passò oltre e andò a fermarsi davanti all’Arcidivino con un inchino un po’ teso, appartandosi con lui per scambiare qualche rapida parola in tono sommesso.

Subito dopo l’Arcidivino chiamò a sé l’Accolita del Bastardo, che nel frattempo era riuscita a recuperare l’altro ratto, e consegnò l’animale a Umegat. Tenendo la bestiola nell’incavo del braccio, lo stalliere si diresse verso Cazaril, facendosi largo con umiltà ossequiosa tra i cortigiani, i quali non lo degnarono neppure di un’occhiata. La cosa lasciò Cazaril assai perplesso, giacché gli sembrava impossibile che la folla non si aprisse di fronte all’aura incandescente dello stalliere proprio come le onde del mare si aprivano davanti alla prua di una nave. Arrestandosi di fronte a lui, Umegat protese la mano aperta. Per un momento, Cazaril rimase a fissarla con aria ottusa.

«Il ratto sacro, mio signore», mormorò allora Umegat.

«Ah, sì», annuì Cazaril, abbassando lo sguardo sulla creatura, ancora intenta a succhiargli le dita.

Umegat procedette a staccare la riluttante bestiola dalla sua manica, quasi stesse rimuovendo una zecca, e nel contempo impedì alla sua compagna di spiccare un balzo per prenderne il posto. Tenendo sotto controllo entrambi i ratti, tornò quindi con calma verso la bara, dov’era in attesa l’Arcidivino, che quasi sembrò volersi chinare davanti allo stalliere. Almeno così parve a Cazaril, talmente stupito da dubitare di essere in possesso delle proprie facoltà. I cortigiani dello Zangre, invece, non sembravano trovare strano il fatto che l’Arcidivino avesse convocato il più esperto addestratore di animali del Roya per far fronte a quell’imbarazzante crisi: l’attenzione generale dunque era concentrata sui ratti, piuttosto che su Umegat. Cazaril si convinse di essere il solo a vedere quei fenomeni assurdi.

Tenendo le creature tra le braccia, Umegat parlò loro in tono sommesso e si avvicinò al corpo di Dondo, indugiando per un lungo istante. I ratti rimasero tranquilli, ma non accennarono a muoversi per reclamare l’anima del defunto per il loro Dio. Alla fine, Umegat si decise a indietreggiare e, scuotendo il capo in direzione dell’Arcidivino, riconsegnò i ratti all’ansiosa fanciulla che li aveva in custodia.

Prostratosi tra il focolare e la cassa, Mendenal mormorò una preghiera, ma si rialzò quasi subito. Il tempo cominciava a scarseggiare, come indicava il fatto che alcuni Devoti stavano già accendendo le lanterne nel cortile ormai quasi buio. L’Arcidivino si affrettò quindi a convocare i portatori perché trasportassero la cassa fino al rogo, e i cantori si accodarono al feretro in una lunga processione.

Tornando accanto a Betriz e a Cazaril, la Royesse si passò il dorso della mano sugli occhi affaticati. «Non credo di poter sopportare oltre questa cerimonia», disse. «Dy Jironal può anche presenziare da solo al rogo del fratello. Accompagnatemi a casa, Cazaril.»

Il piccolo gruppo formato dalla Royesse e dal suo seguito si staccò quindi dalla folla, che si era già un poco ridotta, e oltrepassò il portico frontale del Tempio, avviandosi nell’umido crepuscolo di quel giorno d’autunno.

Non appena usciti, Umegat, che evidentemente li aveva aspettati, andò loro incontro. «Mio signore dy Cazaril… Potrei scambiare qualche parola con voi?» chiese, con un inchino.

Sorpreso che il chiarore della sua aura non si riflettesse sulla pavimentazione bagnata, Cazaril si scusò con Iselle e rientrò nel Tempio col roknari, lasciando le tre donne ad attenderlo al limitare del portico, Iselle appoggiata al braccio di Betriz.

«Mio signore, vi supplico di concedermi un’udienza privata, non appena vi sarà possibile», disse Umegat.

«Vi raggiungerò al serraglio dopo aver riaccompagnato a casa Iselle», replicò Cazaril. Poi, con voce esitante, aggiunse: «Siete consapevole di brillare quanto una torcia accesa?»

«Mi è già stato detto dai pochi che hanno occhi per scorgere queste cose», rispose lo stalliere, con un cenno di assenso. «Purtroppo, una persona non può vederlo da sé, perché nessuno specchio può riflettere questo fenomeno, visibile soltanto agli occhi dell’anima.»

«Nel Tempio c’era una donna che brillava come una candela verde.»

«Madre Clara? Sì, mi ha appena parlato di voi. È un’eccellente levatrice.»

«Ma cos’è dunque quella sorta di anti-luce?» chiese ancora Cazaril, lanciando un’occhiata alle donne in attesa.

«Per favore, mio signore, non qui», lo pregò Umegat, portandosi un dito alle labbra.

Sebbene un po’ stupito, Cazaril annuì.

Dopo un profondo inchino, lo stalliere si voltò e fece per avviarsi nel crepuscolo sempre più fitto. D’un tratto, però, girandosi verso Cazaril, disse: «A proposito, voi risplendete come una città in fiamme».

13

La Royesse era così spossata dallo strano funerale di Lord Dondo che percorse la salita verso il castello con passo incerto. Cazaril la lasciò con Nan e Betriz — ben decise a mettere a letto Iselle dopo una cena frugale, servita nelle loro camere — e oltrepassò di nuovo il portone del castello, soffermandosi all’esterno per guardare verso la città, cercando di capire se una colonna di fumo si stesse ancora levando al di sopra del Tempio. Sforzando la vista, gli parve d’intravedere un debole bagliore arancione contro le nuvole basse, ma l’oscurità era ormai tale da impedirgli di scorgere altro.

Nell’attraversare il cortile delle stalle, ebbe un violento sussulto a causa di un improvviso battere d’ali tutt’intorno a lui, ma scoprì che si trattava soltanto dei corvi di Fonsa. Due cercarono addirittura di posarsi sulla sua spalla, ma lui li schivò, allontanandoli poi con ampi gesti delle braccia e battendo i piedi. I corvi si portarono a distanza di sicurezza, però lo scortarono per tutto il tragitto fino al serraglio.

Trovò ad attenderlo uno dei sottoposti di Umegat, fermo accanto alle lanterne a parete che rischiaravano la soglia. Lo stalliere, un ometto anziano privo dei pollici, gli rivolse un ampio sorriso che rivelò una lingua mozzata, e lo accolse con un mormorio di saluto, unito ad alcuni cenni cordiali con cui lo invitò a seguirlo, poi socchiuse il pesante battente appena quanto bastava a permettere a Cazaril di entrare, respinse i corvi che cercavano di seguirlo e arrivò a gettare fuori il più testardo con un calcio, prima di richiudere la porta.

Reggendo un candelabro protetto da una campana di vetro soffiato e dotato di una maniglia, lo stalliere precedette Cazaril lungo il corridoio principale del serraglio, mentre gli animali chiusi nelle gabbie sbuffavano al suo passaggio, premendosi contro le sbarre per seguirlo con lo sguardo. Nella penombra, gli occhi del leopardo scintillavano come due gemme verdi e il suo ringhio echeggiò contro le pareti, non ostile, ma pervaso di uno strano tono interrogativo e cantilenante.

Il personale addetto al serraglio aveva i suoi alloggi in una metà del piano superiore dell’edificio, l’altra metà del quale era adibita a magazzino per la paglia e il foraggio. Giunto davanti a una porta aperta, da cui la luce di una candela si riversava nel corridoio buio, lo stalliere bussò contro lo stipite.

«Bene», rispose la voce di Umegat. «Ti ringrazio.»

In risposta a un inchino della sua guida, Cazaril oltrepassò la soglia. Si ritrovò in una camera stretta, la cui finestra si affacciava sul cortile delle stalle, ormai immerso nel buio. Tirate le tende a coprire la finestra, Umegat prese ad armeggiare intorno a un rozzo tavolo di legno di pino, coperto da una tovaglia colorata su cui erano posati una caraffa di vino, alcune coppe d’argilla e un piatto di pane e formaggio.

«Vi ringrazio per essere venuto, Lord Cazaril. Per favore, entrate e sedetevi. Grazie, Daris, non ho bisogno di altro», disse, chiudendo la porta.

Nel dirigersi verso la sedia, Cazaril si soffermò a osservare un alto scaffale carico di libri, che raccoglieva opere in ibrano, in darthacano e in roknari, di argomento soprattutto teologico. In particolare, fu attratto da un titolo a lettere dorate su un volume dall’aspetto familiare che si trovava sullo scaffale più alto: Il quintuplice sentiero dell’anima. La rilegatura in cuoio appariva logora per l’uso e il libro, come la maggior parte degli altri, non recava traccia di polvere. Come mai la cosa non mi sorprende? si chiese allora, accomodandosi sulla semplice sedia di legno.

Umegat riempì una coppa di vino rosso e la porse al suo ospite con un sorriso.

«Grazie», disse Cazaril, accettandola con gratitudine e con dita tremanti. «Ne ho bisogno.»

«Posso immaginarlo, mio signore», commentò Umegat, riempiendo una coppa anche per sé e sedendosi di fronte a lui. Il tavolo era di umile fattura, però le coppie di candele di cera che ardevano su di esso proiettavano una luce intensa e limpida… una luce adatta per la lettura.

Accostatosi la coppa alle labbra, Cazaril ne trangugiò il contenuto e, non appena l’ebbe posata sul tavolo, Umegat tornò a riempirla. A titolo di esperimento, Cazaril provò a chiudere gli occhi e poi a riaprirli, ma in entrambi i casi Umegat continuò a risplendere. «Tu sei un Accolita… no, un Divino… giusto?» domandò.

«Sì, dell’Ordine del Bastardo», ammise Umegat, schiarendosi la gola. «Ma non è per questo che sono qui.»

«E allora perché?»

«Ci arriveremo a tempo debito», garantì Umegat, prendendo il coltello sul piatto e procedendo ad affettare il pane e il formaggio.

«Io ho pensato… Ho sperato… Ecco, mi sono chiesto se non fossi stato mandato dagli Dei, per proteggermi e per guidarmi»

«Davvero?» fece Umegat, con un accenno di sorriso. «E io che mi stavo chiedendo se tu non fossi stato inviato dagli Dei per proteggere e guidare me

«Oh. Allora… le prospettive non sono molto buone, pare», mormorò Cazaril, accasciandosi un poco sulla sedia e bevendo un altro lungo sorso di vino. «Da quando ti sei accorto di me?»

«Da quel giorno nel serraglio, quando quel corvo della Torre di Fonsa si è praticamente messo a saltellare sulla tua testa, strillando ’È lui! È lui!’ Ammetto che a volte il mio Dio può essere spaventosamente ambiguo, ma quello era un segnale piuttosto difficile da ignorare.»

«Stavo già brillando, allora?»

«No.»

«Quando ho cominciato a… emanare luce?»

«In un momento imprecisato tra l’ultima volta che ti ho visto, cioè ieri pomeriggio, quando sei rientrato allo Zangre, zoppicando come se fossi caduto da cavallo, e stamattina al Tempio. Tu puoi individuare meglio di me qual è stato il momento esatto in cui il fenomeno si è manifestato. Perché non mangi qualcosa? Non hai un bell’aspetto.»

Cazaril non si fece pregare, perché non aveva più toccato cibo dopo il pane col latte e col miele che Betriz gli aveva portato a mezzogiorno.

Umegat attese che il suo ospite avesse la bocca piena di pane e formaggio, prima di riprendere la conversazione. «Prima del mio arrivo a Cardegoss, uno dei miei compiti in qualità di giovane Divino è stato quello di assistente di un Inquisitore del Tempio, nelle indagini su alcune accuse di magia di morte», disse e, mentre Cazaril quasi si strozzava col cibo, proseguì in tono serafico: «O del miracolo di morte, per usare una definizione più accurata dal punto di vista teologico. Abbiamo scoperto una quantità d’ingegnose simulazioni… di solito mediante l’impiego di veleno, anche se certi assassini meno documentati e intelligenti avevano usato metodi più crudi. In quei casi ho dovuto spiegare ai colpevoli che il Bastardo non si abbassa mai a giustiziare un peccatore che rifiuta di pentirsi ricorrendo a un pugnale o a un grosso martello. I veri miracoli sono molto più rari di quanto la loro notorietà possa far supporre, però non mi sono mai imbattuto in un caso autentico in cui la vittima fosse un innocente. Di conseguenza, per usare una definizione ancora più sottile, possiamo dire che il Bastardo concede miracoli di giustizia». La sua voce si era fatta più secca e decisa, perdendo l’abituale tono servile e buona parte del morbido accento roknari.

«Ah», borbottò Cazaril, trangugiando altro vino. Questo è l’uomo più acuto e intelligente che abbia incontrato finora a Cardegoss, pensò. E io l’ho praticamente ignorato per tre mesi soltanto perché indossa la livrea di un servitore. Be’, è anche vero che lui è poco propenso ad attirare su di sé l’attenzione… «Sai… quel tabarro costituisce per te un valido mantello dell’invisibilità», disse poi.

«Infatti», annuì Umegat, bevendo un sorso di vino.

«Dunque… adesso sei un Inquisitore?» chiese allora Cazaril, domandandosi se fosse dunque giunta la fine, se sarebbe stato incriminato, condannato e giustiziato per il suo attentato — fallito — alla vita di Dondo.

«No, non lo sono più.»

«Cosa sei, allora?»

«Sono un santo», spiegò Umegat, con un sorriso nello sguardo.

Attonito, Cazaril lo fissò per un lunghissimo istante, poi svuotò la propria coppa, e Umegat provvide a riempirla ancora. Erano ben poche le certezze di quella notte, ma di sicuro Umegat non era matto e non stava mentendo. «Un santo. Del Bastardo», riassunse.

Umegat annuì.

«Questo… è un lavoro insolito, per un roknari. Com’è successo che…» Era vagamente consapevole della vacuità delle sue domande, ma dopo due coppe di vino bevute a stomaco vuoto, cominciava a sentirsi un po’ stordito.

«A te… posso dire la verità», replicò Umegat, con un sorriso triste. «È trascorso tanto tempo, una vita intera, da farmi supporre che i nomi non abbiano più importanza. Quand’ero un giovane nobile, e vivevo nell’Arcipelago, mi sono innamorato.»

«Succede a tutti giovani nobili, di qualsiasi luogo e anche ai giovani zotici», commentò Cazaril.

«All’epoca il mio amante aveva circa trent’anni, ed era un uomo dalla mente acuta e dal cuore gentile.»

«Ah, capisco. No, questa è una cosa che nell’Arcipelago non si può fare.»

«Infatti. A quell’epoca, non avevo il minimo interesse per la religione, ma, per ragioni ovvie, mi ero segretamente convertito alla fede quintariana. Io e il mio amante avevamo progettato di fuggire insieme, ma soltanto io sono riuscito a raggiungere la nave diretta a Brajar. Per tutto il viaggio ho patito il mal di mare e sono caduto in preda alla disperazione, imparando a pregare, almeno così ho creduto allora. Mi auguravo che lui fosse riuscito a imbarcarsi su un’altra nave, speravo che ci saremmo ritrovati nel porto scelto come nostra destinazione. Dopo più di un anno, sono venuto a sapere, da un mercante roknari che avevamo conosciuto entrambi, qual è stata la sua fine.»

«La solita…»

«Oh, sì. Via i genitali e i pollici, perché non potesse compiere il segno sacro al quinto Dio…» Umegat si toccò la fronte, il ventre, l’inguine e il cuore, ripiegando il pollice sotto il palmo nel gesto proprio della fede quaternariana, che ricusava il quinto dito, quello del Bastardo. «Hanno lasciato la lingua per ultima, nella speranza che potesse tradire altri eretici, ma lui non lo ha fatto. È morto da martire, impiccato.»

«Mi dispiace», mormorò Cazaril, sfiorandosi fronte, labbra, ventre, inguine e cuore, con le dita allargate.

«Nei rari momenti in cui non ero troppo impegnato a ubriacarmi, a vomitare o ad agire da stupido, come sono soliti fare i giovani, mi ritrovavo a riflettere sulla vicenda. Accettare la sua morte non è stato facile, e alla fine, un giorno, sono entrato in un Tempio e mi sono offerto agli Dei.» Trasse un profondo respiro. «L’Ordine del Bastardo mi ha accolto nel suo seno, ha dato una casa a chi non l’aveva, amici a chi era solo, onore a chi era disprezzato, e mi ha dato anche un lavoro. A quanto pare… ero sottoposto a un incantesimo.»

Ed era diventato un Divino del Tempio. Cazaril ebbe la certezza che Umegat stesse tralasciando alcuni dettagli, circa una quarantina d’anni di eventi, ma ritenne che non ci fosse nulla d’inesplicabile nel fatto che un uomo devoto, intelligente ed energico fosse riuscito a scalare la gerarchia interna del Tempio fino a raggiungere il rango di Divino. No, ciò che continuava a sconvolgerlo era il fatto che lui risplendesse come una luna piena riflessa su un campo innevato. «Un bel lavoro, splendido, grandioso. Fondazioni per gli orfani e… inquisizioni. Adesso però spiegami perché brilli al buio», disse, riflettendo cupamente che aveva bevuto troppo o forse non aveva bevuto ancora abbastanza.

Umegat si massaggiò il collo e giocherellò coi capelli raccolti a coda. «Capisci cosa significa essere un santo?» chiese quindi.

«Suppongo che tu sia molto virtuoso», replicò Cazaril, schiarendosi al gola con un certo disagio.

«A dire il vero, no. Non è necessario essere buoni e neppure gentili», ribatté Umegat, con una smorfia. «D’altro canto, posso concederti che, quando si sperimentano determinate cose, i gusti personali cambiano, le ambizioni materiali sembrano perdere valore, l’avidità, l’orgoglio, la vanità e l’ira appaiono cose troppo noiose per dare loro peso.»

«E la lussuria?»

«Sono lieto di affermare che il desiderio carnale non sembra essere influenzato in nessun modo», replicò Umegat, illuminandosi in volto. «O forse dovrei dire che non lo è l’amore, perché crudeltà ed egoismo rendono tedioso il desiderio carnale. Credo però che non sia tanto una crescita della virtù quanto una sostituzione dei vizi precedenti con una sorta di dipendenza dal proprio Dio.» Svuotò la coppa. «Gli Dei amano gli uomini e le donne che possiedono una grande anima proprio come un artista ama un pezzo di marmo di qualità… Il punto fondamentale non è la virtù, bensì la volontà, che è cesello e scalpello nel contempo. Qualcuno ti ha mai citato il classico sermone di Ordol, quello delle coppe?»

«Quello in cui il Divino versa l’acqua su tutto? L’ho sentito per la prima volta quando avevo dieci anni, e mi è parso divertente il punto in cui il Divino si bagna le scarpe… ma del resto ero un bambino. Temo che il Divino del nostro Tempio, a Cazaril, fosse piuttosto noioso.»

«Ascolta me, adesso, e vedrai che non ti annoierai», garantì Umegat, rovesciando la propria coppa sulla tovaglia. «La volontà degli uomini è libera, e gli Dei non possono invaderla, non più di quanto io possa versare del vino in questa coppa attraverso il suo fondo.»

«No, non sprecare il vino!» protestò Cazaril, vedendo Umegat protendere la mano verso la brocca. «È una dimostrazione cui ho già assistito.»

Sorridendo, Umegat ritrasse la mano dalla brocca. «Ma hai mai capito davvero quanto gli Dei siano impotenti, se anche il più infimo schiavo li può escludere dal proprio cuore?» domandò. «E, se vengono esclusi dal cuore, rimangono esclusi anche dal mondo, perché non possono arrivarvi se non tramite le anime dei viventi. Se gli Dei potessero farsi trasportare da chiunque andasse loro a genio, gli uomini sarebbero semplici marionette, invece ottengono un piccolo canale tramite il quale agire soltanto se e quando una creatura dotata di volontà propria mette se stessa e la propria volontà a loro disposizione, spontaneamente. Gli Dei possono inoltre filtrare attraverso la mente degli animali, sebbene con grande difficoltà. Quanto alle piante… richiedono troppa preveggenza.» Raddrizzò la coppa e prese la caraffa. «D’altro canto, capita che un uomo si apra agli Dei e permetta loro di riversarsi in lui e, per suo tramite, nel mondo. Un santo non è un’anima virtuosa, bensì un’anima vuota, giacché l’uomo — o la donna — in questione sceglie liberamente di donare la propria volontà al suo Dio e, nel rinunciare ad agire, rende possibile l’azione da parte della divinità.» Umegat riempì la sua coppa e, portandosela alle labbra, fissò Cazaril in modo inquietante. Poi bevve un lungo sorso e aggiunse: «Il tuo Divino non doveva usare l’acqua, perché non attira adeguatamente l’attenzione. Bisognava ricorrere al vino o al sangue… A un liquido che abbia valore».

«Hmm», riuscì a borbottare Cazaril.

Appoggiandosi allo schienale della sedia, Umegat indugiò a osservarlo per qualche tempo, anche se Cazaril ebbe l’impressione che non lo stesse studiando sul piano fisico. Allora, dimmi, come mai un rinnegato roknari, che è anche un Divino del Tempio, uno studioso e un santo del Bastardo, si traveste da stalliere del serraglio dello Zangre? pensò il Castillar. Ma riuscì soltanto a chiedere: «Si può sapere cosa ci fai tu qui?»

«Faccio ciò che il Dio vuole», replicò Umegat, scrollando le spalle. Poi, in apparenza colpito dall’espressione esasperata sul volto di Cazaril, precisò: «E ciò che lui vuole è tenere in vita il Roya Orico, almeno così pare».

Cazaril si raddrizzò di scatto, lottando per dissipare la nebbia che il vino gli aveva creato nel cervello. «Orico è malato?» domandò.

«Sì. È un segreto di Stato, bada bene, sebbene sia ormai diventato abbastanza evidente per chiunque abbia un po’ di cervello e lo sguardo abbastanza acuto. In ogni caso…» E si accostò un dito alle labbra.

«Io credevo che il risanamento rientrasse nei compiti della Madre e della Figlia», osservò Cazaril.

«Sì, se la malattia del Roya dipendesse da cause naturali.»

«Ha una causa innaturale?» mormorò Cazaril, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco le idee. «Quel mantello di oscurità… riesci a vederlo anche tu?»

«Sì.»

«Ma quell’ombra avvolge pure Teidez e Iselle… E la Royina Sara ne è contaminata a sua volta. Che cosa malvagia è mai questa?»

Posata la coppa, Umegat si tormentò ancora la coda di capelli brizzolati, esalando un profondo sospiro. «Risale al tempo di Fonsa l’Abbastanza Saggio e del Generale Dorato. Suppongo che per te questa sia soltanto storia passata, ma io ho vissuto in quei tempi disperati. Sai, una volta ho avuto modo di vedere il generale, perché all’epoca ero una spia e mi ero insinuato nel suo principato. Odiavo tutto ciò che lui rappresentava, e tuttavia… se mi avesse rivolto una parola, una sola parola, credo che l’avrei seguito strisciando sulle ginocchia. Quell’uomo non era soltanto toccato da un Dio, era un avatar incarnato, diretto a grandi passi verso il fulcro del mondo nella perfetta pienezza dei tempi… o quasi. Il momento del suo trionfo era ormai prossimo, quando Fonsa e il Bastardo lo hanno abbattuto», disse, abbassando la voce sulla scia dei ricordi. Per un momento, rimase in silenzio, assorto nelle immagini della memoria, poi si riscosse e riportò l’attenzione su Cazaril. Sorridendo, sollevò la mano col pollice rivolto verso l’alto, e lo agitò. «Per quanto sia l’elemento più debole della sua famiglia, il Bastardo è il Dio dell’equilibrio. È la capacità di opposizione che permette alla mano di serrare la presa. Si dice che se mai uno degli Dei riuscisse ad assorbire tutti gli altri, la verità diverrebbe singola, semplice e perfetta, e il mondo finirebbe in un’esplosione di luce. Certi uomini particolarmente inclini all’ordine considerano attraente quest’idea, ma io la trovo orribile… Del resto, ho sempre avuto gusti scadenti. Nel frattempo il Bastardo, unico e immutato in ogni stagione, agisce per preservarci tutti.» E batté con le altre quattro dita — la Figlia, la Madre, il Figlio e il Padre — contro il polpastrello del pollice. «Il Generale Dorato era un’onda di marea generata dal destino, che si stava preparando ad abbattersi sul mondo. L’anima di Fonsa poteva reggere il confronto con la sua, ma non poteva controbilanciare il suo immenso destino. Di conseguenza, quando il demone della morte ha portato via dal mondo le loro anime, il destino del Generale Dorato è straripato, riversando sugli eredi di Fonsa un miasma di sfortuna e di amarezza. L’ombra scura che tu vedi è il destino irrealizzato del Generale Dorato, che avvolge l’esistenza dei suoi nemici, rovinandola. Se preferisci, puoi definirla la sua maledizione di morte.»

«Come si può annullare questa maledizione?» domandò Cazaril, chiedendosi se quella fosse la vera spiegazione del fallimento di tutte le campagne militari avviate da Ias e da Orico.

«In sei anni, non mi è stata inviata nessuna risposta», sospirò Umegat. «Forse essa si estinguerà con la morte di tutti coloro che discendono da Fonsa.»

Ma… ciò vuol dire… Il Roya, Teidez… Iselle!

«O forse anche allora la maledizione continuerà a colare come un rivolo di veleno», continuò Umegat. «Avrebbe dovuto uccidere Orico già alcuni anni fa… Il contatto con le creature sacre riesce a purificarlo soltanto per breve tempo. Il serraglio serve unicamente a rimandare la sua distruzione, ma il Dio non mi ha mai rivelato il perché. Sai, gli Dei non scrivono lettere d’istruzioni, neppure per i loro santi. È una cosa che ho suggerito spesso, nelle mie preghiere, e sono perfino rimasto seduto per un’ora, con l’inchiostro che si seccava sulla penna, concentrato interamente nell’intento di servire lui. E cosa mi ha mandato invece il Bastardo? Un corvo sovreccitato e capace di dire un’unica parola.»

Cazaril ebbe un sussulto colpevole, perché la morte del povero corvo gli dava più dolore di quella di Dondo.

«Ecco. Questo è ciò che sto facendo qui», disse Umegat, scoccandogli un’occhiata penetrante. «Ora, vorresti dirmi cosa stai facendo tu, invece?»

«Non lo so», ammise Cazaril, allargando le mani in un gesto impotente. «Non porresti spiegarmelo tu? Hai detto… che risplendo. Somiglio a te? O a Iselle, o addirittura a Orico?»

«Non somigli a nulla che io abbia scorto da quando mi è stata concessa la vista interiore. Se Iselle è una candela, tu sei una conflagrazione… Guardarti crea qualche problema alla vista.»

«Non mi sento una… conflagrazione.»

«Come ti senti?»

«Adesso? Come un mucchio di letame, ubriaco e malato… Ho questi crampi al ventre che vanno e vengono», dichiarò Cazaril, facendo vorticare il vino sul fondo della coppa. In quel momento, il dolore pareva essersi placato, ma lo stomaco era sempre gonfio. «Inoltre sono stanco. Anche più di quando sono stato ricoverato nella Casa della Madre, a Zagosur.»

«Ritengo davvero molto importante che tu mi confidi la verità», disse Umegat, scandendo ogni parola. Le sue labbra stavano ancora sorridendo, ma gli occhi grigi parevano ardere di una luce interiore.

Cazaril si sorprese a pensare che un buon Inquisitore del Tempio doveva probabilmente essere gentile e abile nell’ottenere confidenze dalle persone su cui stava indagando. Nonché bravo nel farle ubriacare. Hai rinunciato alla tua vita, rifletté. Non è giusto piagnucolare per riaverla indietro. «La scorsa notte ho tentato una magia di morte contro Dondo dy Jironal», ammise infine.

«Sì. Dove?» chiese Umegat, che non appariva affatto sorpreso.

«Nella Torre di Fonsa. Sono strisciato sul tetto e mi sono portato dietro un ratto, mentre il corvo… Be’, è venuto lui da me. Era quello cui davo da mangiare.»

«Continua…» sussurrò Umegat.

«Ho ucciso il ratto con un coltello, ho spezzato il collo a quel povero corvo e ho pregato in ginocchio. Poi è cominciato il dolore… Non me l’aspettavo. È stata una sofferenza così intensa che non riuscivo a respirare. Le candele si sono spente, e io ho detto un ’grazie’, perché ho provato…» D’un tratto scoprì di non essere in grado di spiegare ciò che aveva provato. Era uno strano senso di pace, come se fosse stato disteso in un posto sicuro, dove avrebbe potuto riposare per sempre. «Poi sono svenuto, e ho creduto che per me fosse giunta la fine.»

«E dopo?»

«Dopo… nulla. Mi sono svegliato nella nebbia dell’alba, nauseato e infreddolito, sentendomi un perfetto idiota. No, un momento… Ho avuto un incubo in cui mi è sembrato che Dondo morisse soffocato. Però, quando ho capito di essere vivo, e di avere fallito, sono strisciato fino al mio letto. Poco dopo, dy Jironal ha fatto irruzione nella mia camera…»

Umegat tamburellò sul tavolo con le dita, fissando Cazaril con occhi socchiusi. Provò a chiudere le palpebre e di lì a poco tornò a sollevarle. «Mio signore, ti posso toccare?» domandò.

«Certamente…» assentì Cazaril

Il roknari si chinò su di lui e Cazaril, per un istante, temette che quello fosse un tentativo di entrare in intimità con lui. Ma il tocco di Umegat fu impersonale al pari di quello di un medico. La sua mano gli sfiorò la fronte, la faccia, il collo, la spina dorsale, il cuore e il ventre… Suo malgrado, Cazaril s’irrigidì, però la mano di Umegat non scese più in basso, e il suo volto s’incupì progressivamente col procedere dell’esame. Alla fine, lui andò a prendere un’altra caraffa di vino in un cesto posato vicino alla porta, prima di rimettersi a sedere.

«Ho bevuto abbastanza», protestò Cazaril, schermando la coppa. «Se continuo così, finirò per non reggermi in piedi.»

«Tra poco, i miei stallieri ti accompagneranno nella tua stanza», replicò Umegat. Poi, dopo aver riempito solo la propria coppa, indugiò a far scorrere le dita sulla tovaglia, tracciando lo stesso piccolo disegno, ripetuto tre volte. Cazaril non avrebbe saputo dire se si trattava di un incantesimo, o soltanto di una manifestazione di nervosismo.

«In base alla testimonianza resa dagli animali sacri, nessun Dio ha accettato l’anima di Dondo dy Jironal. Di norma, questo è un segno che uno spirito inquieto si aggira ancora nel mondo, e parenti, amici e nemici si affrettano a comprare riti e preghiere presso il Tempio, gli uni in suffragio dell’anima del defunto, gli altri per la loro protezione», mormorò Umegat.

«Sono certo che Dondo avrà tutte le preghiere che si possono comprare», commentò Cazaril, con una certa amarezza.

«Lo spero.»

«Perché? Cosa…» farfugliò il Castillar, non osando chiedere: Che vedi? Cosa sai?

Umegat sollevò lo sguardo su di lui e trasse mi profondo respiro. «Sappiamo che lo spirito di Dondo è stato preso dal demone della morte, ma non è stato trasmesso agli Dei. A mio parere, il demone della morte non è potuto tornare dal suo padrone perché gli è stato impedito di prendere la seconda anima, quella che avrebbe ripristinato l’equilibrio.»

«Gli è stato impedito?» esclamò Cazaril, spaventato, umettandosi le labbra.

«Ritengo che, nel momento in cui ha tentato di prendere la seconda anima, il demone sia stato catturato… vincolato o legato, se preferisci, da un secondo, simultaneo miracolo. A giudicare dai colori che ti ribollono intorno, esso dev’essere scaturito dalla sacra e aggraziata mano della Signora della Primavera. Se ho ragione, gli Accoliti del Tempio possono andare tutti a dormire tranquilli, perché lo spirito di Dondo non è in circolazione, è vincolato al demone della morte, che è a sua volta imprigionato nel luogo di residenza della seconda anima. E l’anima risiede attualmente nel proprio corpo, ancora vivente. Questo», concluse Umegat, protendendo un dito verso Cazaril.

A bocca aperta per lo stupore, il Castillar abbassò lo sguardo sul proprio ventre gonfio e dolente, poi lo riportò sul volto del… santo, che sembrava affascinato da quella situazione. Violente parole di diniego gli salirono alle labbra, ma vennero bloccate dalla vista della limpida, scintillante aura di Umegat. «Io non ho pregato la Figlia, la scorsa notte!» protestò.

«A quanto pare, qualcuno lo ha fatto.»

Iselle.

«La Royesse ha detto di aver pregato la Signora. Hai visto il suo aspetto, oggi?» chiese Cazaril, accompagnando le parole con una serie di gesti confusi, perché non sapeva come spiegare la ribollente perturbazione luminosa che avviluppava Iselle. «È questo ciò che scorgi in me? E Iselle mi vede come io vedo lei?»

«Te ne ha fatto parola?» domandò Umegat.

«No, ma del resto neppure io le ho detto nulla.»

«Quando ti trovavi nell’Arcipelago, ti è mai capitato di vedere una di quelle notti in cui il mare è toccato dalla Madre? Hai visto il modo in cui le acque risplendono di una scia verde al passaggio di una nave?»

«Sì…»

«Ciò che hai scorto intorno a Iselle è una scia di questo tipo, è il passaggio della Figlia, simile a un profumo rimasto nell’aria. Ciò che io vedo in te non è un passaggio, bensì una Presenza, una benedizione molto più intensa. Adesso il tuo alone di luce sì sta lentamente attenuando, perciò, entro un paio di giorni, gli animali sacri dovrebbero essere meno affascinati dalla tua vicinanza… Al suo centro, però, c’è un compatto nucleo azzurro di zaffiro, dentro il quale non riesco a vedere. Credo che sia una specie d’involucro…» Il roknari accostò le mani a coppa, come se stesse intrappolando in esse una lucertola.

«Stai dicendo che la Dea ha trasformato il mio ventre in una piccola sede distaccata dell’inferno?» ansimò Cazaril, deglutendo a fatica. «Un demone, un’anima persa, sigillati insieme come serpenti in una bottiglia? La definisci una benedizione?» E si serrò le mani sullo stomaco, come se volesse squarciarselo.

Sul volto di Umegat passò un’ombra di pietà. «Ebbene, cos’è mai una benedizione, se non una maledizione vista da una diversa prospettiva?» commentò. «Se può consolarti, immagino che Dondo dy Jironal sia anche meno felice di te di questi recenti sviluppi. Inoltre ritengo che anche il demone sia tutt’altro che soddisfatto della situazione.»

«Per i cinque Dei!» esclamò Cazaril, prossimo a contorcersi sulla sedia. «Come posso liberarmi di questo… orrore?»

«Ecco… Ti suggerisco di non avere troppa fretta di provarci», replicò Umegat, con un gesto di ammonimento. «Le conseguenze potrebbero essere complesse.»

«Esiste qualcosa di più complesso di questa mostruosità?»

Umegat si appoggiò allo schienale della sedia e congiunse le mani. «Be’, il modo più ovvio per infrangere la benedizione sarebbe la tua morte. Una volta liberata la tua anima dal suo locus materiale, il demone sarebbe libero di portare via entrambi i suoi fardelli.»

Cazaril rammentò il momento in cui un improvviso crampo al ventre lo aveva quasi fatto precipitare, quando aveva spiccato il salto dal tetto della torre a quello del castello. Per sfuggire al terrore, cercò rifugio in un atteggiamento distaccato analogo a quello di Umegat. «Davvero meraviglioso», commentò. «Hai altre cure da suggerirmi, medico?»

Umegat contrasse le labbra in un accenno di sorriso, liquidando la battuta con un fugace cenno della mano. «In maniera simile, se il miracolo che ospiti dovesse cessare, cioè se la Signora dovesse ritrarre la sua mano, credo che il demone tenterebbe all’istante di completare il proprio destino.» Allargò le mani come per liberare un uccello. «Non che abbia possibilità di scelta, naturalmente, dato che i demoni del Bastardo non sono dotati di libera volontà. Non si può discutere con loro per cercare di persuaderli. Anzi è inutile persino parlare con uno di essi.»

«Stai affermando che potrei morire in qualsiasi momento», mormorò Cazaril.

«Sì. D’altro canto, questa consapevolezza non è forse stata sempre presente nella tua vita, anche nel passato?» ribatté Umegat, inclinando la testa di lato con fare interrogativo.

Cazaril si limitò a sbuffare. Era un ben misero conforto, però lo era, sia pure in maniera distorta. Umegat era un santo «razionale», una cosa del tutto inattesa… D’altronde, aveva mai incontrato un santo, prima di allora? E come faceva a sapere se ne aveva mai incontrati altri, dato che aveva frequentato Umegat senza neppure accorgersi della sua vera natura?

«A dire il vero, questo stato di cose potrebbe rispondere a una domanda che mi sto ponendo da tempo», continuò Umegat, col tono incuriosito proprio dello studioso. «Il Bastardo ha a sua disposizione una schiera di demoni della morte, oppure soltanto uno? Adesso che il demone è imprigionato dentro di te, se cessassero tutti i miracoli di morte nel mondo, allora ci sarebbe una prova inconfutabile della singolarità di quel potere sacro.»

«Sono al servizio della teologia quintariana!» esclamò Cazaril, con una risata sarcastica. «Per gli Dei… Umegat, cosa devo fare? Nella mia famiglia non c’è mai stato nulla di tutto ciò, non c’è mai stata questa follia indotta dal tocco divino. Non sono adatto a questo tipo d’incarico. Io non sono un santo!»

Umegat aprì la bocca per ribattere, ma esitò un momento, prima di replicare. «Col tempo, ci si fa l’abitudine. Neppure a me è piaciuto, la prima volta in cui sono stato strumento di un miracolo, sebbene si possa dire che io sia del mestiere. Per stanotte, il mio consiglio è ubriacarti per bene e andare a dormire.»

«In modo da ritrovarmi domattina afflitto dalla presenza di un demone dentro di me e dai postumi di una sbornia?» ribatté Cazaril. Ma, dentro di sé, ammise che probabilmente quello era l’unico modo per riuscire a dormire, a parte forse un colpo sulla testa.

«Per me ha funzionato, una volta. Inoltre vale la pena di sopportare i postumi di una sbornia se si ha in cambio la certezza di essere così intontiti da non poter fare stupidaggini, almeno per qualche tempo. Gli Dei non concedono miracoli per i nostri scopi, ma per i loro. Se sei diventato un loro strumento, ciò significa che esiste un motivo più grande e urgente della tua stessa vita. Ricorda però che tu sei lo strumento, non l’opera, e aspettati di essere valutato di conseguenza.»

Mentre Cazaril si sforzava di seguire quel ragionamento, Umegat si protese in avanti e gli riempì nuovamente la coppa di vino. E lui non ebbe più la forza di protestare.

Circa un’ora più tardi, furono necessari due dei sottoposti di Umegat per guidare i suoi passi incerti e barcollanti sull’acciottolato del cortile, oltre le porte e su per le scale, fino alla camera, dove i due lasciarono cadere sul letto il suo corpo quasi inerte. Cazaril non riuscì a stabilire il momento in cui la sua angosciata consapevolezza lo abbandonò, ma sapeva di non essere mai stato tanto contento di scivolare nell’oblio.

14

Il vino di Umegat ebbe almeno un merito: l’indomani, Cazaril trascorse le prime ore della giornata a desiderare la morte, piuttosto che a temerla. Poi, quando la paura ricominciò ad avere il sopravvento, comprese che la sbornia stava passando.

Stranamente, scoprì di nutrire ben pochi rimpianti all’idea che la sua vita stesse per finire. Dopotutto, aveva girato il mondo più della maggior parte degli uomini, e aveva avuto le sue occasioni, anche se gli Dei gli erano testimoni del fatto che non aveva saputo sfruttarle. Sotto le coltri, mettendo ordine nei suoi pensieri, si rese conto con una certa meraviglia che la sua maggiore preoccupazione andava al lavoro che avrebbe lasciato a metà. E i timori su cui non si era potuto soffermare quando si era messo a pedinare Dondo, presero corpo nella sua mente. Se lui fosse morto, chi avrebbe protetto le dame? Quanto tempo aveva per trovare un sostituto onesto e pronto a difenderle? Sposando un rispettabile nobile di campagna, come il March dy Palliar, Betriz sarebbe stata tutelata… ma Iselle? Sua nonna e sua madre erano troppo deboli e distanti, Teidez era troppo giovane e Orico, a quanto pareva, era completamente in balia del suo Cancelliere, quindi lei non sarebbe stata al sicuro se non abbandonando la corte. D’un tratto, un altro crampo gli rammentò il letale inferno racchiuso nel suo ventre, inducendolo a sbirciare con preoccupazione lo stomaco contratto, sotto le coperte. Quanto sarebbe stato doloroso quel genere di morte? Stamattina, usando il pitale, non ho perso troppo sangue… Sbattendo le palpebre, lasciò vagare lo sguardo per la camera, rischiarata dalla luce del primo pomeriggio: le pallide chiazze sfocate, che si muovevano al limite del suo campo visivo e che aveva attribuito al troppo vino, erano ancora presenti. Possibile che si trattasse di un altro sintomo del suo nuovo stato?

Un colpo deciso battuto contro la porta lo indusse a strisciare fuori del suo caldo rifugio per andare ad aprire. Scese dal letto e si avviò a fatica, notando tuttavia che camminava meno curvo rispetto al giorno precedente. Umegat, che reggeva una caraffa chiusa, gli augurò un buon pomeriggio ed entrò con decisione nella stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Il roknari emanava ancora un tenue chiarore, e Cazaril, con un sospiro, si rassegnò all’idea che gli eventi del giorno precedente non erano davvero stati soltanto un sogno tanto bizzarro quanto sgradevole.

«Per gli Dei!» esclamò lo stalliere, guardandosi intorno con stupore, poi agitò una mano. «Via! Via!»

Le pallide chiazze sfocate presero a vorticare per la camera, svanendo attraverso le pareti.

«Cosa sono quelle cose?» domandò Cazaril, adagiandosi di nuovo nel letto. «Le vedi anche tu?»

«Sono spettri. Su, bevi questo», rispose Umegat, versando parte del contenuto della caraffa nella coppa a fianco della bacinella per lavarsi e porgendola a Cazaril. «Ti assesterà lo stomaco e ti schiarirà la mente.»

Cazaril fu tentato di respingere la coppa con disgusto, paventando che fosse vino. In realtà si trattava di un infuso freddo di erbe che lui sorseggiò con cautela. Il suo sapore amaro era gradevole e gli ripulì la bocca inaridita dal vino.

Intanto Umegat, accostato uno sgabello al letto, si sedette.

«Spettri?» ripeté infine Cazaril, serrando gli occhi per un momento prima di riaprirli.

«Sì, quelli del castello. Non ne ho mai visto così tanti raccolti in uno stesso posto. Evidentemente, come gli animali sacri, anch’essi sono attratti da te.»

«Chiunque può vederli?»

«Chiunque possieda l’occhio interiore, sì. Da quel che so, in tutta Cardegoss siamo soltanto in tre ad avere questo talento.»

E due sono in questa stanza, pensò Cazaril. «Sono sempre stati presenti, per tutto questo tempo?» chiese.

«Io li intravedo, di tanto in tanto, ma di solito sono più schivi. In ogni caso, non devi temerli, perché non ti possono fare del male. Sono soltanto povere anime perdute», spiegò Umegat e, notando l’espressione stupefatta di Cazaril, aggiunse: «Accade talvolta che nessun Dio accetti un’anima recisa ed essa allora viene lasciata a vagare per il mondo, perdendo lentamente la consapevolezza di sé e svanendo nell’aria. I nuovi spettri assumono inizialmente la forma che avevano in vita, ma poi non riescono a mantenerla a causa della disperazione e della solitudine».

«Ah», mormorò Cazaril, confuso, stringendosi le braccia intorno al ventre. Era dunque quello il fato delle anime che non venivano accettate dagli Dei? E cosa stava succedendo, esattamente, allo spirito infuriato rimasto intrappolato dentro di lui? D’un tratto, gli tornarono in mente le parole della Royina Ista sullo Zangre — Sapete, è infestato dai fantasmi… - e si rese conto che esse non erano una metafora o un indizio di follia, bensì una pura e semplice constatazione. Ma allora quante delle strane cose da lei dette corrispondevano a una verità… vista con occhi alterati? Sollevando lo sguardo, Cazaril scoprì che Umegat lo stava osservando con aria pensosa.

«Come ti senti?» domandò il roknari, in tono cortese.

«Rispetto a stamattina, sto meglio», rispose Cazaril. Con una certa riluttanza, aggiunse: «E mi sento meglio di ieri».

«Hai mangiato?»

«Non ancora. Forse più tardi», rispose Cazaril, passandosi una mano sulla barba. «Cosa sta succedendo, là fuori?»

«Non avendo trovato in città nessun possibile colpevole, il Cancelliere dy Jironal ha lasciato Cardegoss, alla ricerca del cadavere dell’assassino di suo fratello e di eventuali complici ancora in vita», disse Umegat, scrollando le spalle.

«Spero che non catturi qualche innocente.»

«Lo accompagna un esperto Inquisitore del Tempio, il che dovrebbe essere sufficiente a impedirgli di commettere errori», garantì Umegat. Poi, mentre Cazaril era ancora impegnato ad assimilare quell’informazione, aggiunse: «Inoltre, una fazione dell’Ordine militare della Figlia ha inviato corrieri a tutti i suoi Lord Devoti, convocandoli per un consiglio generale, il che significa che non hanno intenzione di permettere che il Roya Orico imponga un altro comandante come Lord Donde»

«Come potrebbero mai sfidarlo?» ribatté Cazaril. «Ribellandosi?»

«Certamente no», replicò Umegat, affrettandosi ad accantonare con un gesto quell’ipotesi che sapeva di tradimento. «Invieranno una petizione o una richiesta.»

«Hmm. Mi pare che abbiano già protestato l’ultima volta, ma inutilmente. Dy Jironal non permetterà che il controllo di quell’Ordine gli sfugga di mano.»

«L’Ordine militare stavolta è sostenuto da tutta la sua casa.»

«Capisco. Tu che cos’hai fatto, oggi?»

«Ho pregato di ricevere una guida.»

«E hai avuto risposta?»

«Forse», rispose Umegat, con un sorriso ambiguo.

Cazaril si concesse un momento di riflessione. «Tu sei a conoscenza d’informazioni interessanti», disse infine. «Devo dedurre che sia inutile per me andare al Tempio e confessare all’Arcidivino Mendenal la responsabilità dell’assassinio di Dondo?»

Umegat inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Be’, non dovrebbe stupirmi il fatto che la Signora della Primavera abbia scelto uno strumento così affilato.»

«Sei un Divino, un Inquisitore addestrato, quindi suppongo che tu non possa e non voglia mancare ai tuoi giuramenti né tradire la tua disciplina. Di conseguenza, mi hai stordito col vino per avere il tempo di riferire sulla situazione e discuterne», riepilogò Cazaril. «Il fatto che io non sia stato arrestato dovrebbe rivelarmi qualcosa sull’esito di quella discussione… ma non so esattamente cosa.»

«Come Divino, dipendo dai miei superiori», replicò Umegat, guardandosi le mani, allargate sulle ginocchia. «Come santo, invece, rispondo soltanto al mio Dio. Se lui si fida della mia capacità di giudizio, io devo fare altrettanto, e così pure devono fare i miei superiori.» Sollevò lo sguardo, osservando Cazaril con fermezza. «La Dea ti ha incaricato di compiere un viaggio per suo conto, come corriere… Questo è indiscutibile, giacché sta preservando la tua vita. Il Tempio non è al tuo servizio, ma al suo, e credo di poterti promettere che nessuno interferirà con te.»

«Ma cosa ci si aspetta che io faccia?» gemette Cazaril.

«Basandomi sulla mia esperienza, posso ipotizzare che tu debba svolgere i tuoi doveri quotidiani, così come ti si presentano.»

«Questo non mi è di molta utilità.»

«Sì, lo so», annuì Umegat, con un sorriso tirato. «Credo tuttavia che sia il modo in cui gli Dei umiliano coloro che aspirano a ritenersi saggi. A proposito di doveri quotidiani… Devo tornare ai miei, perché oggi Orico non si sente bene. Ritieniti libero di visitare il serraglio in qualsiasi momento.»

«Aspetta…» lo richiamò Cazaril, protendendo una mano. «Puoi dirmi… Orico è informato del miracolo costituito dal serraglio? È consapevole… di essere maledetto? Posso garantirti che Iselle non ne sa nulla, e neppure Teidez. Oppure il Roya capisce soltanto che il contatto con gli animali lo fa stare meglio?»

«Orico sa tutto, perché glielo ha detto suo padre, in punto di morte», replicò Umegat, con un piccolo cenno di assenso. «Il Tempio ha fatto molti segreti tentativi per infrangere la maledizione, e finora il serraglio è l’unico che sembri dare qualche risultato positivo.»

«E che mi dici della Royina Ista? È avvolta anche lei dall’ombra, come Sara?»

Umegat si tormentò i capelli, accigliandosi. «Potrei darti una risposta se avessi avuto modo di conoscerla di persona, ma la famiglia dy Baocia l’ha allontanata da Cardegoss poco prima che io venissi inviato qui.»

«Il Cancelliere dy Jironal è informato della cosa?»

«Se lo sa, non lo ha appreso dalle mie labbra», replicò Umegat, sempre più accigliato. «Ho ammonito spesso Orico di non discutere di questo miracolo, ma…»

«Se davvero Orico glielo ha tenuto nascosto, si tratta dell’unica cosa di cui non lo abbia informato», commentò Cazaril.

«Alla luce degli iniziali disastri che hanno caratterizzato il suo regno, Orico è convinto che qualsiasi azione da lui direttamente intrapresa servirebbe soltanto a danneggiare Chalion. Quindi usa il Cancelliere per le questioni di Stato senza riversare su di esse la sua maledizione.»

«Viene da chiedersi se dy Jironal sia davvero la soluzione del problema, o se non ne costituisca invece una parte integrante.»

«In un primo tempo, sembrava che la sua mediazione funzionasse.»

«E ultimamente?»

«Ultimamente… abbiamo raddoppiato le nostre petizioni agli Dei perché ci vengano in aiuto.»

«E che risposta avete avuto?»

«A quanto pare… gli Dei hanno inviato te.»

«Nessuno mi ha mandato!» esclamò Cazaril, in preda a un rinnovato terrore, sollevandosi a sedere di scatto con le mani serrate intorno alle coltri. «Sono venuto qui per caso.»

«Allorché riterrai opportuno spiegarmi come si sia verificato questo caso, sarò ben lieto di ascoltarti», ribatté Umegat, fissando Cazaril con un’espressione speranzosa che lo atterrì, poi si congedò con un inchino.

Dopo qualche altra ora trascorsa sotto le coperte, Cazaril decise che, a meno che un uomo potesse morire per un eccesso di agitazione, per lui la fine non sarebbe giunta quel pomeriggio. A ogni buon conto, non c’era nulla che potesse fare al riguardo e il suo stomaco ormai stava borbottando per la fame in maniera tutt’altro che soprannaturale. Mentre la luce della fredda giornata autunnale si spegneva a poco a poco, il Castillar scivolò fuori del letto, stiracchiò i muscoli doloranti, si vestì e scese a cena.

L’atmosfera che regnava nel castello era plumbea: a causa del lutto, per quella sera non erano previsti né feste né intrattenimenti musicali. Perfino la sala dei banchetti era quasi deserta. Iselle e il suo seguito erano assenti, come pure Teidez e la Royina Sara; quanto al Roya Orico, avvolto come sempre nella sua ombra scura, mangiò in fretta e se ne andò quasi subito.

Cazaril venne a sapere che Teidez non era al castello perché il Cancelliere dy Jironal se lo era portato appresso per effettuare le sue indagini. La notizia lo lasciò interdetto: stentava a credere che dy Jironal intendesse proseguire l’opera di seduzione e di corruzione che suo fratello aveva condotto con tanta abilità. Decisamente austero, soprattutto se paragonato a Dondo, il Cancelliere non aveva infatti né i gusti né i comportamenti adatti a simili puerili piaceri. Era impossibile immaginarlo a fare baldoria con un ragazzo. Sarebbe stato troppo sperare che avesse deciso di conquistare il favore di Teidez con un atteggiamento protettivo e paterno, iniziandolo all’arte del governo? Dopotutto, il giovane Royse stava soffrendo non solo per la vita dissoluta che conduceva, ma anche per la noia che lo divorava. Essere avviato ad attività più adulte sarebbe stato per lui un vero toccasana. D’altro canto, rifletté stancamente Cazaril, era più probabile che il vero obiettivo del Cancelliere fosse non perdere di vista la persona su cui si basava il suo benessere futuro.

«Stanno disertando tutti», commentò in quel momento Lord dy Rinal, seduto di fronte a Cazaril, contraendo le labbra in un’espressione sardonica nel contemplare la sala semivuota. «Chi ha una tenuta di campagna si sta affrettando a raggiungerla prima che cominci a nevicare… Se contìnua così, la festa del Giorno del Padre risulterà davvero deprimente. Gli unici a essere attivi sono sarti e cucitrici, impegnati a rinnovare l’abbigliamento da lutto per tutta la corte.»

Attraversando con la mano una presenza spettrale che aleggiava vicino al suo piatto, Cazaril prese il boccale per accompagnare l’ultimo boccone con un abbondante sorso di vino annacquato, senza badare più di tanto ai quattro o cinque spettri che lo avevano seguito nella sala e che gli si stringevano intorno, come bambini infreddoliti accalcati intorno a un focolare. Istintivamente, quella sera lui aveva scelto un abbigliamento dai colori sobri, ma in quel momento si chiese se non sarebbe stato più opportuno procurarsi una tenuta che abbinasse le richieste tonalità nera e lavanda, come quella sfoggiata dall’elegante dy Rinal. L’abominio rinchiuso nel suo ventre avrebbe interpretato quel gesto come una forma d’ipocrisia o come un atto di rispetto? Oppure non ne sarebbe stato neppure consapevole? Fino a che punto l’anima di Dondo, recentemente strappata dal corpo, conservava ancora la propria natura ripugnante? Possibile che il suo spìrito lo stesse osservando dall’interno, come quegli antichi spettri avvizziti lo contemplavano dall’esterno? Non volendo sconcertare il povero dy Rinal con un grido di frustrazione, Cazaril reagì a quelle riflessioni con un fugace sorriso. «Intendete rimanere o partire?» chiese infine, in tono cortese.

«Credo che partirò. Accompagnerò la Marchess dy Heron fino alla sua tenuta, poi attraverserò i passi più bassi per arrivare a casa. D’altro canto, è possibile che quell’anziana dama m’inviti a rimanere presso di lei, pur di avere un’altra spada a sua difesa.» Bevve un sorso di vino, abbassò la voce, e aggiunse: «Se neppure il Bastardo ha voluto prendere con sé l’anima di Lord Dondo, di certo essa è ancora qui, da qualche parte e, sebbene sia logico che si aggiri nel palazzo dei dy Jironal, dove Dondo è morto, in realtà potrebbe essere ovunque, a Cardegoss. Considerato che Dondo era già abbastanza pericoloso prima di essere assassinato, è inevitabile che adesso sia divorato dalla sete di vendetta. Per gli Dei, dopotutto è stato ucciso la notte prima delle sue nozze!»

Cazaril borbottò qualcosa d’indistinto.

«Il Cancelliere sembra deciso a sostenere che si è trattato di magia di morte», continuò dy Rinal. «Io però non mi meraviglierei se si scoprisse che hanno usato del veleno. Adesso tuttavia è impossibile stabilirlo, dato che hanno bruciato il corpo, cosa che torna a tutto vantaggio di qualcuno.»

«Ma lui era circondato di amici», obiettò Cazaril. «Di certo nessuno può averlo avvelenato nel suo stesso palazzo… Voi eravate presente?»

«Dopo la faccenda di Lady Porcellina?» ribatté dy Rinal, con una smorfia. «No, grazie ai suoi stridii non sono stato testimone di quell’assassinio.» Si guardò intorno di soppiatto, quasi avesse paura di avere alle spalle uno spettro animato da risentimento nei suoi confronti e senza rendersi conto della mezza dozzina di presenze spettrali che gli aleggiavano davvero intorno. Quanto a Cazaril, sollevò una mano per allontanare uno di quegli spettri dal proprio viso, cercando di non puntare lo sguardo su qualcosa che, per il suo interlocutore, doveva essere invisibile.

«Dy Rinal!» chiamò in quel momento Ser dy Maroc, il guardarobiere reale, avvicinandosi al tavolo. «Avete sentito le notizie giunte da Ibra?» Poi si accorse di Cazaril, seduto di fronte a dy Rinal coi gomiti appoggiati sul tavolo, ed esitò, arrossendo leggermente.

«Si può sperare che le vostre fonti di pettegolezzi provenienti da Ibra siano più affidabili del solito, Maroc?» commentò Cazaril, con un acido sorriso.

«Sì, considerato che si tratta del corriere della Cancelleria», ribatté dy Maroc, irrigidendosi. «È arrivato a precipizio proprio mentre il capo dei sarti stava riadattando l’abbigliamento da lutto di Orico, allargandolo di quattro dita, e ha riferito una notizia che sembra ormai ufficiale. L’Erede di Ibra è morto all’improvviso la settimana scorsa, di una febbre dei bronchi, nell’Ibra meridionale. Scomparso lui, la sua fazione si è dissolta e i suoi membri si stanno affrettando a stipulare trattati con la vecchia Volpe, denunciandosi a vicenda nel tentativo di salvarsi la vita. La guerra nell’Ibra meridionale è finita.»

«Bene!» esclamò dy Rinal, raddrizzandosi e prendendo ad accarezzarsi la barba. «È una notizia positiva oppure negativa? Gli Dei sanno che è senza dubbio positiva per Ibra, ma, a quanto pare, il nostro Orico ha scelto di nuovo di schierarsi con la fazione perdente.»

«Corre voce che la Volpe sia infuriata con Chalion, per aver agitato le acque e averle mantenute così, anche se non si può dire che il suo Erede avesse bisogno di aiuto nel fare ciò.»

«Forse adesso la passione per la guerra del vecchio Roya verrà sepolta col suo primogenito», suggerì Cazaril, ma senza troppa speranza.

«Quindi adesso la Volpe ha un nuovo Erede, quel figlio avuto in età matura… Com’è che si chiama?» chiese dy Rinal.

«Il Royse Bergon», suggerì Cazaril.

«Già», annuì Maroc. «Il Royse è molto giovane, e la Volpe potrebbe morire da un momento all’altro, lasciando sul trono un ragazzo inesperto.»

«Non lo riterrei poi così inesperto», obiettò Cazaril. «Ha assistito a un assedio e alla fine di un altro, viaggiando al seguito della sua defunta madre ed è sopravvissuto a una guerra civile. Inoltre, è logico pensare che un figlio della Volpe non sia stupido.»

«Il suo primogenito lo era», dichiarò dy Rinal, con convinzione. «Basta vedere lo scompiglio in cui ha lasciato i suoi sostenitori.»

«Non potete accusarlo di mancanza d’intelligenza per essere morto di febbre», protestò Cazaril.

«Supponendo che si sia trattato davvero di una febbre», ribatté dy Rinal.

«Pensate che la Volpe abbia avvelenato suo figlio?» esclamò dy Maroc.

«Penso che lo abbiano fatto i suoi agenti.»

«In tal caso, avrebbe potuto pensarci prima e risparmiare a Ibra una quantità di sofferenze…»

Con un sorriso forzato, Cazaril si alzò da tavola e lasciò dy Rinal e dy Maroc a elaborare le loro congetture. Ormai i postumi della sbornia erano completamente passati e, dopo la cena, lui si sentiva meglio, ma era anche oppresso da una stanchezza cui non era abituato. Tuttavia, giacché la Royesse non lo aveva convocato, decise di tornare a letto.

Spossato oltre ogni dire, si addormentò subito, ma verso mezzanotte si svegliò di soprassalto nel sentire le urla di un uomo che echeggiavano nella sua mente: grida, pianti, rochi ululati di rabbia… Un insieme di suoni che lo indusse a sollevarsi a sedere di scatto, col cuore che gli martellava nel petto. Cercò d’individuare la provenienza di quella voce… A giudicare dal tono fievole e strano, era possibile che giungesse dal burrone sottostante il castello o dal fiume che scorreva sotto la sua finestra. Ma allora perché nessuno reagiva, perché non si sentivano passi o richiami di guardie mandate a indagare? Impiegò qualche istante per rendersi conto che quegli ululati non erano reali, non più dei pallidi spettri che aleggiavano intorno al suo letto. Infine riconobbe quella voce urlante.

Riadagiatosi nel letto, ansimante e raggomitolato su se stesso, sopportò quel fragore per altri dieci minuti, chiedendosi se l’anima dannata di Dondo si stesse preparando a liberarsi dal miracolo intessuto dalla Signora e a trascinarlo con sé all’inferno. Era ormai sul punto di lasciare il letto e di precipitarsi al serraglio, in camicia da notte, per svegliare Umegat e chiedergli aiuto — sempre che Umegat potesse fare qualcosa per lui — quando le urla cessarono.

D’un tratto rammentò che la morte di Dondo era avvenuta più o meno a quell’ora e si domandò se, per caso, in quel momento, il suo spirito non acquisisse poteri particolari; quanto alla notte precedente, non era in grado di determinare se si fosse verificato un fenomeno del genere. Era così ubriaco che, nella sua mente, si era avvicendata una caotica successione di incubi. Potrebbe andare peggio di così, si disse infine, quando il suo cuore rallentò il suo battito frenetico. Già, la voce di Dondo avrebbe potuto articolare parole compiute… L’idea dello spettro di Dondo che di notte acquistava la capacità di parlargli, per inveire o per avanzare immondi suggerimenti, minò alla base il suo coraggio, e lui scoppiò in pianto, atterrito e scosso da quelle semplici supposizioni. Confida nella Signora. Confida nella Signora, si ripeté, sussurrando preghiere incoerenti, e lentamente ritrovò il controllo. Se mi ha portato fin qui, senza dubbio non mi abbandonerà proprio adesso, pensò.

Subito dopo, però, proprio mentre ripeteva il sermone spiegatogli da Umegat, fu assalito da un nuovo, orribile pensiero: se la Dea poteva entrare nel mondo soltanto a patto che lui rinunciasse alla propria volontà a suo beneficio, era possibile che il suo disperato desiderio di vivere — un atto di volontà quanto mai preciso — fosse sufficiente a escludere sia lei sia il suo miracolo? In tal caso, l’involucro protettivo creato dalla Dea poteva dissolversi, liberando un paradosso di morte e di dannazione…

Il tentativo di districare quel circolo vizioso di logica teologica fu sufficiente a tenerlo sveglio per ore, mentre la notte volgeva lentamente al termine. Un vago grigiore trapelava dalla finestra della sua stanza quando lui riuscì infine a scivolare di nuovo nel benefico oblio del sonno.

Fu soltanto a tarda ora che, l’indomani mattina, Cazaril, fiancheggiato dalla sua scorta spettrale, salì le scale per raggiungere l’anticamera che gli faceva da studio. La mancanza di sonno lo faceva sentire stordito e stanco, e lo induceva a guardare con scarso entusiasmo alla prospettiva del lavoro di una settimana — lettere e note di contabilità — che si era accumulato sulla sua scrivania dal momento dell’annuncio del fidanzamento di Iselle.

Al suo arrivo, trovò le dame già sveglie e in piena attività. Nel salotto, che si apriva al di là dell’anticamera, tutte le nuove, eccellenti mappe che lui si era procurato per le lezioni di geografia erano sparse su un tavolo, e Iselle era protesa in avanti, intenta a studiarle, mentre Betriz guardava da sopra la sua spalla con aria accigliata, le braccia conserte sul petto. Entrambe le giovani dame, come pure Nan dy Vrit, seduta a cucire in disparte, erano vestite in nero e lavanda, in stretta osservanza del lutto imposto alla corte, una prudente dissimulazione che Cazaril non mancò di approvare.

Al suo ingresso, Cazaril notò, accanto alla mano di Iselle, alcuni fogli sparsi su cui erano scribacchiati vari elenchi, con voci cancellate o cerchiate o spuntate. Accigliandosi, Iselle indicò un punto della mappa che era stato contrassegnato con uno spillone per cappelli. «Ma questo non è meglio di…» cominciò a dire, da sopra la spalla, rivolta a Betriz, interrompendosi però di colpo nel vedere Cazaril.

Il cupo, invisibile mantello di oscurità le aderiva ancora alla persona, solcato soltanto a tratti da qualche fioco bagliore azzurro. Di fronte a esso, le masse spettrali che scortavano Cazaril si ritrassero di scatto, scomparendo alla sua seconda vista e sollevandolo almeno in parte delle sue angosce.

«State bene, Lord Caz?» domandò Iselle, scrutandolo con aria preoccupata. «Non avete un bell’aspetto.»

«Chiedo scusa per la mia assenza di ieri, Royesse», replicò Cazaril, salutandola con un inchino. «Sono stato costretto a letto da… da una colica. Adesso però è passato quasi tutto.»

Seduta nel suo angolo, Nan dy Vrit sollevò lo sguardo dal cucito per fissarlo con aria ostile. «La cameriera sostiene che siete stato male per aver bevuto e gozzovigliato con gli stallieri», commentò. «Ha detto che siete rientrato dal funerale di Lord Dondo in uno stato di ubriachezza tale da non riuscire quasi a reggervi in piedi.»

«Sì, ho bevuto, ma non ho gozzovigliato, mia signora, ed è una cosa che non si ripeterà», ammise Cazaril, consapevole dell’aria contrariata di Betriz. «In ogni caso, bere non mi è stato d’aiuto…»

«È uno scandalo per la Royesse, il fatto che il suo segretario sia stato visto così ubriaco da…»

«Smettetela, Nan», intervenne Iselle. «Lasciate perdere.»

«Cosa significa tutto questo, Royesse?» chiese Cazaril, indicando la mappa tempestata di spilloni.

«Ci ho pensato a lungo, per giorni interi», rispose lei, traendo un profondo respiro. «Finché rimarrò nubile, continuerò a trovarmi al centro di una miriade di complotti. Senza dubbio, dy Jironal tirerà fuori al più presto un altro candidato per vincolare me e Teidez al suo clan, e le altre fazioni… Ormai è risaputo che Orico sarebbe disposto a darmi in moglie a un nobile di rango minore, dunque ogni nobile di Chalion, quale che sia il suo rango, lo assillerà per sposarmi. La mia sola difesa, il mio unico rifugio, sta nell’avere già un marito che non sia nobile di basso rango.»

«Royesse, devo confessare di aver riflettuto anch’io, giungendo alle vostre stesse conclusioni», replicò Cazaril, inarcando le sopracciglia con una certa sorpresa.

«E bisogna fare in fretta, Cazaril, molto in fretta, prima che trovino un pretendente ancora più disgustoso di Dondo», aggiunse Iselle, con una nota di tensione nella voce.

«Questa sarebbe una vera sfida perfino per il nostro caro Cancelliere», borbottò Cazaril, strappando a Iselle una breve risata, poi assunse un’espressione assorta, e proseguì: «Convengo con voi che la situazione è grave, ma ritengo che il pericolo non sia così incombente: sono infatti certo che provvederà lo stesso dy Jironal a bloccare le richieste dei nobili di rango minore. Di conseguenza, la vostra prima linea di difesa sarà bloccare il prossimo candidato del Cancelliere, ma, nell’esaminare la composizione della sua famiglia, non riesco proprio a capire chi possa suggerire, dato che lui ha già una moglie, e che la hanno anche entrambi i suoi figli, motivo per cui lui non ha proposto se stesso o uno di essi al posto di Dondo».

«Le mogli possono morire, a volte in maniera molto conveniente», opinò Betriz, cupa.

«Dy Jironal ha programmato con cura le alleanze strette dalla sua famiglia», ribatté Cazaril, scuotendo il capo. «Le sue nuore, e anche sua moglie, lo collegano ad alcune delle più grandi famiglie di Chalion, in quanto sono figlie e sorelle di potenti Provincar. Non voglio dire che lui non sarebbe pronto a sfruttare un’improvvisa vedovanza, tuttavia non può permettersi di generare il sospetto di averne provocata una per i suoi fini. Quanto ai suoi nipoti, sono ancora bambini, quindi dy Jironal sarà costretto ad aspettare.»

«Cosa sapete dei figli di sua sorella?» interloquì ancora Betriz.

Cazaril si concesse un momento di riflessione, poi scosse ancora il capo. «Sarebbe un vincolo troppo remoto e non abbastanza controllabile. Dy Jironal vuole un subordinato, non un rivale.»

«Non sono disposta ad aspettare dieci anni per sposare un ragazzo di quindici anni più giovane di me», sibilò Iselle.

Suo malgrado, Cazaril scoccò un’occhiata a Lady Betriz, pensando che lui aveva quindici anni più di lei… Poi si affrettò ad allontanare dalla mente quello scoraggiante pensiero, ricordando che tra loro ormai esisteva una barriera ancora più insormontabile del semplice divario di età. La vita non sposa la morte, si disse.

«Abbiamo piazzato sulla mappa uno spillone per ogni sovrano celibe cui siamo riuscite a pensare, tra qui e la Darthaca», spiegò Betriz.

«Cosa? Perfino i principati roknari?» esclamò Cazaril, avanzando per guardare la mappa.

«Ho voluto fare un lavoro completo», replicò Iselle. «E comunque senza di essi… Ecco, non c’erano molte alternative, anche se ammetto che l’idea di sposare un principe roknari non mi sorride. A parte la loro orribile religione a quattro poli, bisogna considerare l’usanza di scegliere come Erede uno qualsiasi dei figli, non importa se generato dalla legittima moglie o da una concubina, il che rende impossibile determinare se si stia sposando un futuro sovrano.»

«O un futuro cadavere», aggiunse Cazaril. «La metà delle vittorie che Chalion ha conseguito a spese dei roknari sono dovute al fatto che qualche fratellastro amareggiato ha pugnalato alle spalle il sovrano di turno.»

«Così però rimangono soltanto quattro regnanti quintanani di rango», obiettò Betriz. «Il Roya di Brajar, Bergon di Ibra e i dodicenni figli gemelli del sommo March di Yiss, appena oltre il confine darthacano.»

«Non sarebbe una scelta impossibile… Tuttavia il March di Yiss non ha nessun motivo per allearsi con Teidez contro i roknari», affermò Iselle. «Non ha un confine in comune coi principati e non è oggetto delle loro scorrerie, senza contare che è vincolato da un giuramento di fedeltà alla Darthaca. Inoltre non ha nessun interesse che una forte alleanza di Stati ibrani ponga fine all’interminabile guerra nel settentrione.»

Cazaril le rivolse un sorriso incoraggiante. Ancora una volta, la giovane era giunta a conclusioni identiche alle sue, segno che Iselle aveva prestato più attenzione di quanto lui aveva creduto alle sue lezioni di geografia.

«E, per concludere l’esame, Yiss non si affaccia sul mare», riprese Iselle. Poi indicò la zona est della mappa. «Quanto a mio cugino, il Roya di Brajar è decisamente anziano e dicono che ami troppo il vino per avere forza sufficiente per andare in guerra. E suo nipote è troppo giovane.»

«Brajar ha buoni porti», osservò Betriz, in tono più dubbioso. «Inoltre suppongo che il Roya non vivrà a lungo…»

«Sì, ma di quale aiuto potrei mai essere per Teidez, come semplice Royina Vedova? Non sarei certo nella posizione di spiegare a un nipote acquisito come schierare le sue truppe», le fece notare Iselle, riportando la mano verso la costa opposta. «Arriviamo alla Volpe di Ibra. Il suo figlio maggiore è sposato, il più giovane non è l’Erede e la loro nazione è devastata dalla guerra civile.»

«Non è più così», intervenne Cazaril. «Nessuno vi ha riferito le notizie giunte ieri da Ibra? L’Erede è morto nell’Ibra meridionale, a causa di una febbre polmonare, e nessuno dubita che il giovane Royse Bergon prenderà il suo posto, dato che è rimasto fedele al padre durante tutta la guerra.»

Iselle si girò lentamente a fissarlo con occhi sgranati. «Davvero? Quanti anni ha Bergon? Quindici, non è vero?»

«Dev’essere prossimo ai sedici, Royesse.»

«Sempre meglio di un cinquantasettenne!» esclamò Iselle, facendo scorrere le dita lungo la costa di Ibra seguendo la successione delle sue città marittime fino al grande porto di Zagosur, dove si arrestò su uno spillone dalla testa di madreperla intagliata. «Cosa sapete del Royse Bergon, Cazaril? È avvenente? Avete avuto modo di vederlo, quando vi trovavate a Ibra?»

«Non di persona, ma dicono che sia un ragazzo attraente.»

«Tutti i Royse vengono sempre descritti così, a meno che non siano decisamente grotteschi», dichiarò Iselle, con un’impaziente scrollata di spalle. «Se lo sono, poi, vengono definiti persone di carattere.»

«Mi risulta che Bergon abbia un fisico piuttosto atletico, il che fa presupporre un aspetto sano e abbastanza gradevole. Dicono inoltre che sia stato addestrato nell’arte della navigazione», rispose Cazaril. Poi, notando un bagliore di entusiasmo negli occhi di Iselle, si sentì obbligato ad aggiungere: «Peraltro, negli ultimi sette anni, vostro fratello Orico si è schierato contro il Roya di Ibra in questa sua guerra contro l’Erede, quindi è probabile che la Volpe non nutra molta simpatia per Chalion».

«Quale modo migliore per porre fine a una guerra di un trattato di matrimonio?» insistette Iselle, congiungendo le mani.

«È inevitabile che il Cancelliere dy Jironal si opponga. A parte il desiderio di darvi in moglie a qualcuno collegato con la sua famiglia, non è nel suo interesse che Teidez abbia, ora o in futuro, un alleato più potente di lui.»

«In base a questo ragionamento, finirà per opporsi a qualsiasi partito valido che io possa proporre», ribatté Iselle, chinandosi ancora sulla mappa e passando la mano in un lungo arco sui territori di Chalion e di Ibra, che occupavano due terzi delle terre comprese tra i due mari. «Se però potessi far congiungere le forze a Teidez e a Bergon…» sussurrò, appiattendo il palmo sulla carta e spingendolo lentamente verso nord, lungo la costa, abbattendo gli spilloni piantati sui cinque principati roknari. «Sottoporrò immediatamente la cosa a mio fratello Orico, prima che dy Jironal sia di ritorno», decise. Poi sollevò su Cazaril uno sguardo fiammeggiante. «Se riuscirò a ottenere il suo consenso, dichiarato pubblicamente, di certo neppure il Cancelliere potrà farglielo rimangiare.»

«Riflettete, Royesse, pensate a tutti i problemi», la ammonì Cazaril. «Anzitutto avreste un suocero insopportabile, benché, prima o poi, anche lui dovrà morire. Inoltre, se c’è una persona capace di soffocare le proprie emozioni a favore della politica, si tratta proprio della vecchia Volpe.»

Allontanatasi dal tavolo, Iselle prese a passeggiare nervosamente avanti e indietro per la stanza con un sonoro frusciare di gonne, sempre accompagnata dalla sua aura scura.

Cazaril pensò che la Royina Sara aveva presumibilmente finito per condividere la maledizione di Orico nel momento in cui lo aveva sposato… Non era quindi possibile che Iselle, sposando qualcuno al di fuori di Chalion, potesse liberarsene? Che fosse proprio quello il modo per sottrarsi a quella sciagura? No, bisognava essere cauti: c’era la possibilità che l’antico, cupo destino del Generale Dorato seguisse Iselle anche oltre i confini della sua nuova terra. Doveva consultarsi al riguardo con Umegat, e doveva farlo al più presto.

Iselle smise di passeggiare, soffermandosi a guardare fuori della finestra, socchiudendo gli occhi con fare pensoso. «Devo tentare», ribadì. «Non posso e non voglio far andare alla deriva il mio destino, spingendolo a incontrare un’altra disastrosa cascata e questo senza fare il minimo tentativo per correggerne la rotta. Rivolgerò una petizione al mio regale fratello, e lo farò subito.» Giratasi di scatto, si diresse alla porta con un cenno imperioso al suo seguito, simile a un generale che chiamasse a raccolta le truppe. «Betriz, Cazaril, venite con me!» ordinò.

15

Dopo un’ansiosa ricerca in giro per il castello di Zangre, il gruppetto rintracciò Orico nell’unico posto in cui Cazaril non si sarebbe mai aspettato di trovarlo e cioè nelle camere della Royina Sara, all’ultimo piano della Torre di Ias. Il Roya e la Royina erano seduti a un tavolino vicino a una finestra, intenti a giocare a dama, un gioco tanto semplice, con la sua scacchiera e i suoi pezzi di marmo colorato, da sembrare un passatempo per bambini o per convalescenti, e non per i sovrani di una nazione. Ma Orico non stava affatto bene. Quel giorno, l’ombra spettrale che ammantava entrambi pareva sottolineare ancora di più la loro stanca tristezza e, nell’osservarli, Cazaril si rese conto che non stavano giocando per passare il tempo, ma per cercare un diversivo dalla paura e dal dolore che li assediavano.

Cazaril rimase sconcertato dall’abbigliamento di Sara che, invece di optare per il nero e il lavanda, i colori ufficiali del lutto, si era vestita interamente di bianco, scegliendo la tonalità propria del Giorno del Bastardo, festa che veniva tenuta a intervalli di due anni dopo la Mezz’estate della Madre, per impedire la precessione del calendario dal giusto ordine delle stagioni. Gli indumenti di lino bianco erano troppo leggeri per il clima autunnale, quindi lei si era avviluppata in un ampio scialle di lana dello stesso colore per tenere a bada il freddo e, sullo sfondo di tutto quel candore, appariva smagrita e cupa. Nel complesso, quel particolare abbigliamento costituiva un insulto ancora più feroce delle vesti colorate scelte da Sara per il funerale di Dondo. Cazaril si chiese se la Royina avesse intenzione di vestirsi di bianco per tutto il periodo del lutto e se dy Jironal avrebbe osato protestare.

Con una riverenza al fratello e alla cognata, Iselle si fermò davanti a Orico con gli occhi scintillanti e le mani congiunte davanti a sé, in un atteggiamento sottomesso, peraltro smentito dalla rigidità della sua schiena. Mentre Cazaril e Betriz andavano ad affiancarsi alla Royesse e salutavano a loro volta col dovuto rispetto la coppia reale, Orico distolse lo sguardo dalla scacchiera e prese atto della presenza della sorella con un lieve cenno del capo, poi si assestò il grasso ventre e sollevò su Iselle uno sguardo pieno di disagio. Cazaril scorse i pannelli di broccato color lavanda, aggiunti sotto le ascelle dal sarto per allargare la circonferenza della tunica, e notò pure la lieve scoloritura della stoffa nei punti in cui le cuciture erano state spostate. Nel frattempo, la Royina Sara, avvolgendosi nello scialle, si ritraeva sul suo seggio, incassato sotto la finestra.

Quasi senza preamboli, Iselle iniziò la sua supplica al Roya. Gli chiese di avviare formali negoziati con Ibra e di chiedere per lei la mano del Royse Bergon, sottolineando che ciò offriva l’opportunità di riportare la pace tra le due nazioni, sanando la frattura creata dallo sfortunato sostegno fornito da Orico al defunto Erede, giacché, a quel punto, né Chalion né Ibra avevano interesse a continuare la guerra. La Royesse sottolineò inoltre come quel matrimonio fosse assolutamente perfetto dal punto di vista dell’età e del rango delle parti interessate, considerato che Bergon aveva la sua stessa età e il suo stesso titolo. Evocò anche i vantaggi che Orico avrebbe avuto grazie alla presenza di un suo parente e alleato presso la corte di Ibra, benché, diplomaticamente, si astenne dall’aggiungere che tali vantaggi sarebbero passati in seguito a Teidez. Tracciò poi un quadro vivido dei problemi che i nobili di Chalion interessati alla sua mano avrebbero potuto causare, e spiegò come Orico potesse elegantemente evitare tali seccature con quella mossa preventiva.

Il suo sfoggio di eloquenza indusse il Roya a sospirare con aria malinconica. «Iselle, il tuo lutto ti proteggerà per qualche tempo. Neppure Martou dy Jironal… insulterà la memoria di suo fratello dando in sposa ad altri l’orbata fidanzata di Dondo, le cui ceneri sono ancora calde.»

«Le sue ceneri si raffredderanno anche troppo presto. E dopo cosa accadrà?» ribatté Iselle, sbuffando sonoramente nel sentire il termine «orbata». «Orico, non mi costringerai mai più ad accettare un marito senza avere prima il mio assenso, in privato. Non te lo permetterò.»

«No, no», si affrettò a replicare Orico, agitando le mani. «Quello… è stato un errore, adesso me ne rendo conto e mi dispiace.»

Se questo non è minimizzare… pensò Cazaril.

«Non intendevo insultarti, cara sorella e neppure volevo offendere gli Dei», continuò Orico, guardandosi intorno come se gli Dei potessero aggredirlo da un momento all’altro, in una sorta d’imboscata astrale. «Volevo soltanto fare il tuo bene e quello di Chalion.»

Cazaril si rese conto che, a corte, nessuno, tranne lui stesso e Umegat, sapeva chi aveva pregato perché Dondo venisse allontanato… be’, se non proprio dal mondo, almeno dalla sua stessa vita. D’altro canto, tutti sapevano che la Royesse aveva implorato gli Dei di potersi sottrarre a quel matrimonio. Per quanto ne sapeva lui, Iselle non era certamente sospettata o accusata di aver operato una magia di morte, però rimaneva il fatto che lei era viva e vegeta, mentre Dondo non c’era più. Di conseguenza, ogni cortigiano con un po’ di cervello doveva essersi spaventato alla morte di Dondo. E alcuni indubbiamente erano più spaventati di altri.

«In futuro, non ti sarà offerto nessun matrimonio senza avere, prima, il tuo assenso», dichiarò Orico, con insolita fermezza. «Te lo prometto sulla mia stessa testa, e sulla mia corona.»

Cazaril inarcò le sopracciglia per la sorpresa. Giacché sembrava proprio che Orico stesse parlando sul serio. Dal canto suo, Iselle accettò quell’impegno con un cenno di assenso piuttosto guardingo.

Nel sentire un vago sbuffo, Cazaril spostò poi lo sguardo sulla Royina Sara. Il suo volto era in ombra per via della rientranza della finestra, ma, alle parole del marito, la sua bocca si era incurvata in un fugace sorriso ironico. Chiedendosi quali promesse solenni Orico le avesse fatto, solo per poi infrangerle, Cazaril distolse lo sguardo con aria abbattuta.

Come se stesse attraversando un ruscello saltando di sasso in sasso, Orico passò a un’altra manovra evasiva. «Per lo stesso motivo, a causa del nostro lutto è un po’ troppo presto per offrire la tua mano a Ibra. La Volpe potrebbe interpretare la nostra fretta come un insulto.»

«Ma, se aspettiamo, l’Erede di Bergon potrebbe non essere più disponibile!» protestò Iselle, con un gesto impaziente. «Adesso è l’Erede, è in età di sposarsi e suo padre vuole rafforzare i confini, quindi è inevitabile che lo baratti per procurarsi un alleato, magari dandogli in sposa una figlia del sommo March di Yiss o una ricca nobildonna darthacana. E così Chalion perderebbe la sua occasione.»

«È troppo presto. Non posso negare che le tue argomentazioni siano valide e che, al momento giusto, vengano prese in considerazione. In effetti, la Volpe aveva avviato indagini diplomatiche per chiedere la tua mano, alcuni anni fa, anche se non ricordo più per quale figlio… Tutto è stato interrotto all’insorgere di quei problemi nell’Ibra meridionale. In ogni caso, nessun impegno è definitivo. Per esempio, la mia povera madre brajariana è stata fidanzata cinque volte prima di sposare infine il Roya Ias. Abbi pazienza e aspetta un momento più conveniente.»

«Credo che questo sia un momento eccellente. Voglio una tua decisione, e il tuo impegno di attenerti a essa, prima che il Cancelliere dy Jironal sia di ritorno.»

«Ah, già, sì… Questo è un altro ostacolo. Non posso prendere una decisione così importante senza prima consultarmi col mio principale consigliere e con gli altri nobili del consiglio», replicò Orico, annuendo.

«L’ultima volta non hai consultato i nobili. Io credo che tu abbia paura di fare una cosa che non incontri l’approvazione del Cancelliere dy Jironal. Si può sapere chi è il vero Roya a Cardegoss… Orico dy Chalion oppure Martou dy Jironal?»

«Io… ecco… rifletterò sulle tue parole, cara sorella», mormorò Orico, agitando le mani grassocce come se volesse cercare di allontanare da sé la giovane.

Per un lungo momento, lei indugiò a fissarlo con un’intensità che lo fece contorcere sul suo seggio, poi accettò la sua risposta con un cenno di assenso. «Sì, pensa alla mia petizione, mio signore», ribatté. «Domani te la rivolgerò di nuovo.»

Con quella promessa — oppure era una minaccia? — fece un’altra riverenza a Orico e a Sara e lasciò la stanza, seguita da Betriz e da Cazaril.

«Domani e… ogni altro giorno successivo?» domandò sottovoce quest’ultimo, mentre Iselle procedeva lungo il corridoio.

«Ogni giorno. Finché Orico non cederà», confermò lei a denti stretti. «Potete contarci, Castillar.»

Più tardi, quel pomeriggio, sotto la gialla luce invernale che filtrava tra le nubi, Cazaril lasciò il castello di Zangre e raggiunse le stalle, stringendosi intorno al corpo l’elegante cappotto ricamato e ritraendo il collo al suo interno, come una tartaruga, per difendersi dal vento freddo e umido. La temperatura si era ormai abbassata a tal punto che la brina rivestiva l’acciottolato e ogni suo respiro creava nuvolette di vapore bianco. Lui provò a sbuffarne qualcuna contro gli spettri che, pallidi fino a essere quasi invisibili sotto la luce del sole, persistevano nell’aleggiargli intorno. Spinta la pesante porta del serraglio quanto bastava per sgusciare all’interno, Cazaril entrò e richiuse immediatamente il battente, indugiando poi per abituare gli occhi alla penombra che regnava all’interno, e starnutendo ripetutamente a causa della polvere profumata prodotta dal fieno.

Posato a terra un secchio, lo stalliere privo di pollici si affrettò a venirgli incontro con un inchino, emettendo inarticolati versi di benvenuto.

«Sono qui per vedere Umegat», gli disse Cazaril.

Inchinandosi ancora, l’ometto gli fece cenno di seguirlo e lo precedette lungo il corridoio. Al loro passaggio, gli splendidi animali si spostarono tutti verso la parte anteriore dei loro stalli, sbuffando, e le volpi del deserto presero addirittura a saltare e a uggiolare.

La camera di pietra in fondo al corridoio risultò essere una stanza per i finimenti convertita in camera di lavoro e di riposo per i servitori che si occupavano del serraglio. Al suo interno, un piccolo fuoco ardeva allegramente in un focolare di pietra per tenere a bada il freddo, e il vago, piacevole odore della legna si mescolava con quello del cuoio, del lucido per i metalli e dei saponi. I cuscini di lana che coprivano le sedie indicategli dallo stalliere erano logori e sbiaditi, il vecchio tavolo da lavoro aveva il piano chiazzato e sfregiato, ma la stanza era pulita e i pannelli di vetro rotondo incastonati nel piombo delle due finestre ai lati del focolare erano lucidati alla perfezione. Emesso qualche verso indistinto, lo stalliere lo lasciò lì e si allontanò.

Pochi minuti più tardi, Umegat entrò nella stanza, asciugandosi le mani su una pezza di stoffa e assestandosi il tabarro. «Benvenuto, mio signore.»

D’un tratto, Cazaril non seppe a quale criterio d’etichetta attenersi: doveva alzarsi in segno di rispetto nei confronti di un superiore oppure poteva rimanere seduto, come si conveniva davanti a un inferiore? Inoltre rifletté che il roknari di corte non contemplava una modalità grammaticale per un segretario che si rivolgeva a un santo. Alla fine, rimase seduto, però, a titolo di compromesso, s’inchinò all’altezza della cintura. «Umegat», rispose.

Il roknari chiuse la porta della stanza, per essere certo che la conversazione si svolgesse in privato, e Cazaril si protese subito in avanti, appoggiando le mani congiunte sulla superficie del tavolo e parlando con la stessa urgenza che un paziente avrebbe avuto nel rivolgersi al suo medico. «Tu vedi gli spettri del castello… Ma li hai mai sentiti parlare?»

«Di norma no. A te è successo?» replicò Umegat, prendendo una sedia e sedendosi accanto a lui.

«Non questi», spiegò Cazaril, percuotendo la presenza spettrale più persistente, che lo aveva seguito all’interno. Ma la presenza sparì solo quando Umegat accennò a colpirla con lo straccio che aveva in mano. «Si tratta dello spettro di Dondo», continuò, riferendo all’altro il fragore interiore che lo aveva tenuto sveglio la notte precedente. «Ho pensato che stesse per uscire. Può farcela, in caso che la presa esercitata dalla Dea venga meno?»

«Sono certo che nessuno spettro può avere la meglio su un Dio», dichiarò Umegat.

«Questa… non è una vera e propria risposta», ribatté Cazaril, pensando che forse Dondo e il demone intendevano sfinirlo sino a ucciderlo. «Puoi almeno suggerirmi un modo per farlo tacere? Ficcare la testa sotto il cuscino non è stato di nessun aiuto.»

«In tutto questo esiste una sorta di simmetria», mormorò Umegat. «Puoi vedere gli spettri esterni, ma non li puoi sentire; tuttavia senti, e non vedi, quello interno… Se in tutto ciò c’è la mano del Bastardo, è possibile che la cosa abbia lo scopo di mantenere l’equilibrio. In ogni caso, sono certo che la tua… preservazione dalla morte non sia stata accidentale e che non verrà annullata per puro caso.»

Cazaril si concesse un momento per assorbire quelle parole, rammentando il commento di Umegat sui doveri quotidiani nonché le strane idee che gli eventi di quel giorno avevano fatto nascere in lui. «Umegat, ho avuto un’idea», disse infine, in tono complice. «Sappiamo che la maledizione ha seguito la linea di discendenza maschile della Casa di Chalion, da Fonsa a Ias e a Orico… Eppure la Royina Sara è avvolta da un’ombra la cui intensità è analoga a quella del marito, sebbene lei non sia progenie dei lombi di Fonsa. Dev’essere stata contagiata dalla maledizione col matrimonio, giusto?»

«Sara era già velata d’ombra quando sono giunto qui per la prima volta, anni fa», replicò Umegat, accigliandosi. «Però suppongo… Sì, dev’essere stato così.»

«E possiamo ipotizzare che la stessa cosa sia successa a Ista?»

«Be’, sì.»

«In tal caso mi chiedo se Iselle sfuggirebbe davvero alla maledizione col matrimonio, pronunciando i voti matrimoniali e lasciandosi alle spalle la famiglia d’origine per entrare a far parte di quella del marito. Oppure la maledizione la seguirebbe, contaminando entrambi?»

«Non lo so», ammise Umegat, sorpreso.

«Ma non ti risulta che sia impossibile, vero? Stavo pensando che questo potrebbe essere un modo per salvare… qualcosa.»

«Può funzionare, ma non lo so per certo: nel caso di Orico non è mai stata una soluzione applicabile.»

«Ho bisogno di saperlo, Umegat, perché la Royesse Iselle sta insistendo con Orico perché apra i negoziati per il suo matrimonio fuori da Chalion.»

«Senza dubbio il Cancelliere dy Jironal non lo permetterà mai.»

«Non sottovalutare il potere di persuasione di Iselle. Lei non è Sara.»

«Neppure Sara era così, un tempo, però hai ragione… Oh, il mio povero Orico, schiacciato tra due incudini del genere.»

Mordendosi un labbro, Cazaril esitò molto a lungo prima di riprendere a parlare. «Umegat, tu hai osservato questa corte per anni… Dy Jironal è sempre stato un serpente velenoso oppure la maledizione ha lentamente corrotto anche lui? Sì, insomma, vorrei capire se la maledizione ha attirato un uomo corrotto in una posizione d’immenso potere oppure se qualsiasi uomo che cercasse di servire la Casa di Chalion finirebbe, col tempo, per essere corrotto.»

«Poni domande molto interessanti, Lord Cazaril», replicò Umegat, aggrottando la fronte. «E io vorrei avere risposte adeguate. Martou dy Jironal è sempre stato forte, intelligente e capace, a differenza del fratello minore, noto da sempre a corte più per il suo talento di combattente che per la sua intelligenza. Quando ha assunto la carica di Cancelliere, il maggiore dei dy Jironal non mi è parso più suscettibile alle tentazioni dell’orgoglio e dell’avidità di qualsiasi altro nobile di rango elevato di Chalion che avesse un clan cui provvedere.»

Sono parole abbastanza lusinghiere, tuttavia…

«Tuttavia…» riprese Umegat, come se completasse il pensiero formulato da Cazaril. «Sì, la maledizione ha avuto effetto anche su di lui.»

«Quindi… liberarsi di dy Jironal non è la soluzione ai problemi di Orico? Un altro uomo come lui, e forse anche peggiore, prenderebbe il suo posto?»

«La maledizione assume cento forme diverse, distorcendo ogni cosa buona in Orico facendo leva sui punti deboli della sua natura. Una moglie sterile invece che fertile, un consigliere corrotto invece che leale, amici incostanti e non sinceri, cibo che fa ammalare e non nutre, e così via.»

Un segretario-tutore diventato stolto e vigliacco invece che coraggioso e saggio? O forse sono soltanto strambo e folle? si chiese Cazaril. Se ogni persona che entrava nell’ambito della maledizione risultava vulnerabile, lui era forse destinato a essere la rovina di Iselle, come dy Jironal lo era per Orico? «Per quanto riguarda Teidez e Iselle… anche nel loro caso ogni cosa buona è destinata a corrompersi, oppure Orico è gravato da uno speciale fardello, essendo il Roya?» domandò.

«Credo che, negli anni, il peso della maledizione sia diventato più gravoso per Orico», rispose il roknari, socchiudendo gli occhi. «Mi hai posto una dozzina di domande, Lord Cazaril, quindi permettimi ora di rivolgertene una io. Come sei entrato al servizio della Royesse Iselle?»

Cazaril si appoggiò allo schienale della sedia e riandò con la mente al giorno in cui la Provincara gli aveva fatto quella proposta d’impiego. Prima però c’era stato dell’altro, e prima ancora… Sulla scia dei ricordi, Cazaril si trovò a raccontare a Umegat di quando un soldato-fratello dell’Ordine della Figlia, in sella a un cavallo nervoso, aveva lasciato cadere nel fango una moneta d’oro. E spiegò anche com’era giunto a Valenda.

Mentre lo ascoltava, Umegat preparò un tè sul piccolo fuoco e depose un boccale fumante davanti a Cazaril, che si concesse una breve pausa per umettarsi la gola, procedendo poi a descrivere il modo in cui Iselle aveva umiliato quel giudice corrotto, nel Giorno della Figlia. Concluse il racconto con l’arrivo a Cardegoss.

«Credi che i tuoi passi siano stati predestinati fino da allora?» chiese infine Umegat, tormentandosi i capelli. «È un’idea sconcertante, ma gli Dei sono parsimoniosi, e colgono le loro occasioni ovunque esse si presentino.»

«Ma se sono gli Dei che stanno tracciando questa strada per me, allora dove va a finire il mio libero arbitrio? No, non è possibile!» protestò Cazaril.

«Ah!» esclamò Umegat, illuminandosi di fronte a quello spinoso cavillo teologico. «Al riguardo posso avanzare un’altra ipotesi, che non nega né la volontà degli Dei né quella degli uomini. Forse, invece di controllare ogni passo, gli Dei hanno avviato lungo questa strada centinaia, o migliaia, di Cazaril e di Umegat, e quelli che sono arrivati a destinazione sono stati solo coloro che hanno scelto di farlo.»

«Ma io sono arrivato per primo, oppure per ultimo?» obiettò Cazaril.

«Ecco, io ti posso solo garantire che non sei il primo», ribatté Umegat.

Cazaril annuì con un grugnito, indicando di aver capito il sottinteso di quelle parole. «Ma se gli Dei hanno affidato Orico a te e Iselle a me, per quanto ritenga che qualcuno abbia commesso al riguardo un sacro errore… chi è incaricato della protezione di Teidez? Non dovremmo essere in tre? Dovrebbe essere un uomo votato al Fratello, anche se non saprei dire se sia uno strumento, un santo o uno stolto… Oppure tutti e cento i protettori destinati al ragazzo sono caduti lungo la strada, l’uno dopo l’altro? E se si trattasse di dy Sanda?» Si appoggiò in avanti e affondò il volto tra le mani, gemendo. «Se rimango qui ancora un po’ a discutere di teologia, giuro che finirò per ubriacarmi di nuovo, se non altro per impedire al cervello di vorticarmi nel cranio.»

«La dedizione al bere è in effetti un problema alquanto comune, tra i Divini», annuì Umegat.

«Comincio a capirne il perché», replicò Cazaril, inclinando all’indietro il capo per finire le ultime gocce del tè e tornando a posare la tazza. «Umegat… Se, per ogni azione che compio, mi devo chiedere non soltanto se sia saggia o buona, ma anche se sia proprio quella che ci si aspetta da me, finirò per impazzire. Mi raggomitolerò in un angolo, smettendo di fare qualsiasi cosa, tranne forse piangere e borbottare.»

Umegat ridacchiò — cosa che a Cazaril parve crudele -, ma poi scosse il capo. «Non puoi intuire in anticipo la volontà degli Dei. Attieniti alla via della virtù, se puoi identificarla, e confida che il dovere che ti si presenta sia quello che si desidera che tu compia. Proprio come i talenti che ti sono stati elargiti sono quelli che devi porre al servizio degli Dei. Puoi credermi se ti dico che gli Dei non pretendono di riavere nulla che prima non ti abbiano dato, neppure la tua vita.»

Cazaril trasse un profondo respiro. «Il tal caso, dedicherò tutti i miei sforzi a ottenere che questo matrimonio vada in porto, per spezzare la presa che la maledizione ha su di Iselle. Devo fidarmi del mio raziocinio… Per quale motivo altrimenti gli

Dei avrebbero scelto un uomo razionale come protettore di Iselle? O almeno, un uomo che era razionale…» aggiunse, quasi tra sé. «Prega per me, Umegat», concluse, con maggiore decisione di quanta ne provasse in effetti, spingendo indietro la sedia.

«Lo farò ogni ora, mio signore.»

Stava ormai calando il buio quando Lady Betriz entrò nello studio di Cazaril e accese le candele nei loro vasi di vetro, una premura per cui lui la ringraziò con un sorriso e un cenno del capo. Sorridendo a sua volta, Betriz spense l’accenditoio di cui si era servita e rimase immobile nello stesso punto in cui lei e Cazaril si erano accomiatati, la notte della morte di Dondo. «Grazie agli Dei, pare che adesso la situazione si stia un po’ calmando», commentò.

«Sì, un poco», convenne Cazaril, posando la penna.

«Comincio a credere che tutto andrà per il meglio», aggiunse Betriz.

«Sì», disse lui, ma un nuovo crampo allo stomaco confutò la sua affermazione. Seguì una lunga pausa, durante la quale lui raccolse di nuovo la penna e la intinse nell’inchiostro, anche se non aveva altro da scrivere.

«Cazaril, dovete proprio essere in punto di morte per baciare una dama?» chiese improvvisamente la ragazza.

Lui abbassò la testa, arrossendo, e si schiarì la gola. «Vi porgo le mie scuse più sentite, Lady Betriz. Non succederà più.» Non osò sollevare lo sguardo, per timore che lei tentasse d’infrangere le sue fragili barriere, magari riuscendoci. Oh, Betriz, non sacrificare la tua dignità per me, pensò.

«Mi dispiace molto sentirlo, Cazaril», ribatté lei, in tono severo.

Cazaril mantenne lo sguardo sul libro, ma ascoltò i passi di lei che si allontanavano.

Trascorsero parecchi giorni. Indomita, Iselle proseguiva la sua campagna contro Orico, mentre Cazaril era tormentato ogni notte dagli ululati interiori della tormentata anima di Dondo. A mezzanotte, e per un quarto d’ora, lo spettro riviveva il terrore della propria morte e Cazaril non riusciva mai a dormire prima di quell’interludio, a causa del nauseante senso di apprensione, né per parecchie ore a seguire, per via dell’orribile risonanza di quell’esperienza. Il suo volto divenne grigiastro per la stanchezza e i vecchi, indistinti fantasmi cominciarono ad apparirgli come piacevoli animali domestici, rispetto a quell’orrore. Disperato, tentò ancora di ubriacarsi, ma per quanto bevesse, non riuscì più a superare quell’esperienza senza svegliarsi, e ben presto si rassegnò a sopportarla.

La forza d’animo di Orico non era così forte. Il Roya si sforzava di evitare la sorella e lo faceva in modi sempre più bizzarri, ma soltanto per vedersela piombare addosso quasi ovunque: nelle sue camere, nelle cucine o, come accadde una volta, mentre faceva un bagno di vapore, cosa che scandalizzò profondamente la povera Nan dy Vrit.

Un giorno in cui Orico partì all’alba alla volta del suo capanno di caccia, Iselle lo seguì prontamente, subito dopo colazione; nel lasciare lo Zangre, Cazaril notò con sollievo che la sua scorta di spettri non lo accompagnò all’esterno, in quanto vincolata al luogo della propria morte.

Com’era prevedibile, il colloquio con Orico non diede esiti di sorta, ma la galoppata procurò a Iselle una gioia inesprimibile, permettendole di liberarsi della tensione accumulata al castello. Quella giornata trascorsa in sella, sotto la sferza della pungente aria invernale, servì a ridarle uno sguardo più sereno e a far affiorare un colorito più sano sul suo volto. Anche Lady Betriz ne trasse giovamento, ma così non si poté dire delle quattro guardie baociane di scorta, che mantennero a stento l’andatura e parvero faticare quanto i loro cavalli; e neppure di Cazaril, che quasi non riuscì a nascondere la sofferenza e che, quella sera, perse nuovamente sangue nell’usare il pitale, cosa che non gli era più successa da giorni.

Durante la notte, inoltre, le grida di Dondo risultarono particolarmente devastanti: per la prima volta, infatti, l’orecchio interiore di Cazaril riuscì a cogliere in esse parole articolate, prive di senso ma chiaramente distinguibili. Con sgomento, si chiese che cosa sarebbe successo d’ora in poi.

Il mattino successivo, Cazaril salì con passo stanco le scale che conducevano alle camere di Iselle, temendo di sentirsi annunciare un’altra cavalcata. Si accomodò faticosamente sulla sua sedia, davanti alla scrivania, e prese il libro mastro, ma proprio allora la Royina Sara apparve nell’anticamera, scortata da due delle sue dame di compagnia, e gli passò davanti in silenzio, simile a una nuvola di lana bianca. Colto di sorpresa, Cazaril si affrettò ad alzarsi e a inchinarsi profondamente, ma la Royina non si fermò neppure e si limitò a prendere atto della sua presenza con un lieve cenno del capo.

Poco dopo, un echeggiare di voci femminili nelle camere interne, interdette agli uomini, annunciò la visita della Royina alla cognata, poi le due dame di compagnia e Nan dy Vrit vennero esiliate nel salotto, dove si sedettero tranquillamente a cucire e a scambiarsi pettegolezzi. Circa mezz’ora più tardi, la Royina Sara emerse dall’appartamento di Iselle e riattraversò l’anticamera occupata da Cazaril con lo stesso atteggiamento distaccato che aveva avuto all’andata.

Betriz si affacciò alla porta interna. «La Royesse vi prega di raggiungerla immediatamente in salotto», disse a Cazaril e, notando l’espressione preoccupata della giovane, lui si affrettò ad alzarsi e a seguirla.

Iselle era seduta su un seggio intagliato, con le mani serrate intorno ai braccioli, pallida in volto e col respiro affannoso. «Un infame! Mio fratello è un infame, Cazaril!» esclamò, non appena lui si fu inchinato.

«Come, mia signora?» chiese lui, sedendosi mentre prendeva uno sgabello e si sedeva con la massima cautela. I crampi al ventre della notte precedente lo tormentavano ogni volta che si muoveva troppo in fretta.

«Nessun matrimonio senza il mio consenso… Certo, in questo è stato sincero, ma non ha aggiunto che non ci sarà nessun matrimonio senza il consenso di dy Jironal! Sara me lo ha confidato, insieme con altre cose interessanti. Dopo la morte di suo fratello, ma prima di partire da Cardegoss per cercare il suo assassino, dy Jironal ha chiesto un colloquio privato con Orico, e lo ha persuaso ad aggiungere un codicillo al suo testamento, in virtù del quale, in, caso di morte del Roya, il Cancelliere diventerà reggente per conto di mio fratello Teidez…»

«Ma si sapeva già da tempo, Royesse, come si sa che è stato istituito un consiglio di reggenza per consigliare il giovane Royse… I Provincar di Chalion non sono infatti disposti a permettere che uno di essi acquisisca un potere tanto vasto senza disporre di uno strumento di controllo.»

«Sì, sì, lo sapevo anch’io, però…»

«Il codicillo in questione non tenta di abolire il consiglio, vero?» chiese Cazaril, allarmato. «Questa è una cosa che scatenerebbe le ire di tutti i nobili.»

«No, quella parte è stata lasciata intatta… Tuttavia in precedenza io dovevo essere affidata alla tutela di mia nonna e di mio zio, il Provincar della Baocia, e adesso invece la mia tutela è stata trasferita a dy Jironal… e nel mio caso non c’è nessun consiglio che funga da organo di controllo! E c’è dell’altro, Cazaril! La sua tutela cesserà soltanto se e quando io mi sposerò, e spetterà soltanto a lui concedermi o negarmi il permesso di sposarmi! Potrà lasciarmi nubile sino a farmi morire di vecchiaia!»

«Non credo che possa succedere», replicò Cazaril, sollevando una mano in un gesto inteso a calmarla, anche se si sentiva a disagio. «Dy Jironal morirà inevitabilmente di vecchiaia molto prima di voi, e ancora prima, quando raggiungerà la maggiore età e potrà esercitare in pieno i suoi poteri, Teidez vi libererà da questa tutela con un decreto reale.»

«La maggiore età di Teidez è stata fissata a venticinque anni, Cazaril.»

Un decennio prima, Cazaril avrebbe condiviso in pieno l’indignazione di Iselle di fronte alla prospettiva di un’attesa del genere. Ora invece gli pareva una misura sensata… anche se era pronto ad ammettere che cessava di essere tale nel momento in cui il potere passava integralmente nelle mani di dy Jironal.

«Per allora io avrò quasi ventotto anni!» gemette ancora Iselle.

Altri dodici anni nell’arco dei quali la maledizione sarebbe stata libera di operare su di lei… No, quell’attesa non era affatto una cosa buona.

«E lui potrebbe licenziarvi immediatamente dal mio servizio!» rincarò Iselle.

Hai un’altra patrona che, per ora, non ha nessuna intenzione di licenziarmi, pensò Cazaril. «Sono pronto ad ammettere che avete una serie di motivi per cui essere preoccupata, Royesse», replicò. «Ma non fasciatevi la testa prima di romperla. Ricordate che nessuna di queste disposizioni ha valore finché Orico è in vita.»

«Secondo Sara, lui non sta bene.»

«Non gode di una salute eccellente, è vero», ammise con cautela Cazaril. «Ma non è assolutamente vecchio. Dopotutto, ha poco più di quarant’anni.»

A giudicare dall’espressione che le apparve sul volto, per Iselle quella era un’età fin troppo avanzata. «Sara afferma che le sue condizioni sono molto più gravi di quanto possano sembrare.»

«Gode della sua confidenza al punto di essere al corrente di cose del genere?» obiettò Cazaril. «Credevo che non avessero più molto in comune.»

«Non li capisco», ammise Iselle, sfregandosi gli occhi. «Sapete, Cazaril, quello che mi ha detto Dondo, era vero! Mi ero quasi convinta che si fosse trattato di un’orribile menzogna intesa a spaventarmi, però Sara me l’ha confermata. Il suo bisogno di avere un figlio era così disperato che ha acconsentito a dy Jironal di fare un tentativo, quando Orico… non è più stato in grado di provvedere. Stando alle sue parole, Martou non è stato poi così sgradevole… se non altro è stato sempre cortese con lei. Quando però anche lui non è riuscito a farla concepire, è intervenuto suo fratello e, a quanto pare, Dondo si è comportato in maniera orribile, traendo piacere dall’umiliazione di Sara. Orico però lo sapeva, Cazaril, e ha contribuito a persuadere Sara a sottoporsi a quell’indegnità. È una cosa che non capisco, perché sono certa che Orico non detesti Teidez così tanto da desiderare di mettere sul trono al suo posto un bastardo generato da uno dei due dy Jironal.»

«Non ha senso», mentì Cazaril. Un figlio di dy Jironal e di Sara non sarebbe stato un discendente di Fonsa l’Abbastanza Saggio. Orico doveva aver pensato che quel bambino, crescendo, avrebbe liberato la royacy di Chalion dalla maledizione del Generale Dorato… Una misura disperata, certo, ma forse efficace.

«Se dy Jironal scopre chi ha assassinato Dondo, la Royina Sara ha intenzione di pagargli il funerale, di assegnare una pensione alla sua famiglia e di far cantare per lui preghiere perenni nel Tempio di Cardegoss», aggiunse Iselle, con un sorriso sarcastico.

«Mi fa piacere saperlo», replicò Cazaril, con voce fievole, anche se non aveva una famiglia bisognosa di una pensione, poi s’incurvò leggermente in avanti, con un accenno di sorriso che camuffava una smorfia di dolore, riflettendo. Sara aveva riversato nell’orecchio virginale di Iselle dettagli di un’intimità sconvolgente, eppure non aveva fatto cenno alla maledizione, sebbene ne fosse al corrente, Cazaril ne era certo. Orico, Sara, dy Jironal, Umegat, Ista, forse addirittura la Provincara stessa… Tutti sapevano, eppure nessuno aveva informato quei ragazzi della nube nera che gravava su di loro. Chi era lui, dunque, per tradire quell’omertà? Nessuno lo ha detto neppure a me. Dovrei forse essere grato per tanta considerazione? pensò, chiedendosi quando i tutori di Teidez e di Iselle avrebbero parlato. Orico aveva forse intenzione di rivelarlo al suo Erede in punto di morte, come aveva fatto suo padre Ias? E lui, Cazaril, aveva il diritto di nascondere a Iselle cose che i suoi naturali guardiani avevano scelto di non spiegarle? Ed era disposto a dirle esattamente in che modo era venuto a conoscenza di quelle informazioni così riservate? Il suo sguardo si spostò su Lady Berriz, che, seduta su uno sgabello, stava fissando con espressione ansiosa la sua preoccupata signora… Ecco, persino Betriz sapeva benissimo che lui aveva tentato la magia di morte, però non era al corrente che quel tentativo era perfettamente riuscito!

«Non so che altro fare», gemette Iselle. «Orico è inutile

Cazaril sospirò, chiedendosi se Iselle poteva sottrarsi alla maledizione senza neanche sapere della sua esistenza. Poi, ben consapevole che stava per suggerire qualcosa di assolutamente poco razionale, disse: «Potreste organizzare da sola il vostro matrimonio…»

Riscuotendosi, Betriz sollevò la testa di scatto, fissandolo con occhi sgranati.

«Dovrei farlo in segreto?» esclamò Iselle. «Nascondendo ogni cosa al mio regale fratello?»

«Senza dubbio tenendo all’oscuro il suo Cancelliere.»

«Sarebbe legale?»

«Un matrimonio, celebrato e consumato, non può essere annullato facilmente neppure da un Roya», dichiarò Cazaril. «Inoltre, si potrebbe persuadere una buona parte dei nobili di Chalion a sostenere la vostra iniziativa, soprattutto tenendo presente che già esiste una solida fazione avversa a dy Jironal. Così annullare il matrimonio sarebbe ancora più difficile.» Se poi Iselle fosse riuscita ad andarsene da Ibra, affidandosi alla protezione di un suocero astuto — quale la Volpe di Ibra, per esempio — si sarebbe lasciata alle spalle sia le fazioni sia la maledizione. Bisognava però evitare a ogni costo che Iselle, ostaggio impotente presso la corte del Roya Orico, finisse per rivestire quello stesso ruolo presso una corte differente. Se non altro, comunque, sarebbe stata un ostaggio libero dalla maledizione.

«Capisco», annuì Iselle, con una luce di approvazione nello sguardo. «Cazaril, è una cosa fattibile?»

«Esistono alcune difficoltà pratiche, e per tutte esiste una soluzione altrettanto pratica», replicò lui. «La cosa più importante è trovare un uomo di cui vi possiate fidare e che funga da vostro ambasciatore. Dovrà essere intelligente e astuto, in modo da garantirvi la posizione più forte possibile nell’ambito dei negoziati con Ibra, ma anche abbastanza diplomatico da evitare di offendere Chalion. Dovendo attraversare, sotto mentite spoglie, i nostri inquieti confini, bisognerà anche che sia coraggioso, forte nel fisico, devoto alla vostra causa e deciso a non venirvi meno. Scegliere la persona sbagliata potrebbe risultare fatale… forse anche nel senso più letterale del termine.»

«Potete trovarmi un uomo del genere?» domandò Iselle, congiungendo le mani.

«Ci rifletterò sopra e mi guarderò intorno», promise Cazaril.

«Fatelo, Lord Cazaril, fatelo», sussurrò Iselle.

«Non avete bisogno di cercare molto lontano», commentò Lady Betriz, in tono stranamente distaccato.

«Non si può trattare di me», si schermì Cazaril, deglutendo a fatica. Stava per dire: «Potrei cadere morto ai vostri piedi da un momento all’altro…» ma riuscì a correggersi, mormorando: «Non oso lasciarvi qui sole, senza protezione».

«In tal caso, rifletteremo tutti sul problema», concluse Iselle, decisa.

Le feste per il Giorno del Padre si svolsero in modo tranquillo, anche perché furono caratterizzate da una pioggia gelida, che scoraggiò molti nobili del castello dal partecipare alla processione. In qualità di Roya, però, Orico non poté esimersi da quel dovere e contrasse così un raffreddore, adducendo poi quel malanno come scusa per mettersi a letto ed evitare di vedere chiunque. Per gli altri abitanti del castello, ancora in lutto per Lord Dondo, la Festa del Padre venne celebrata soltanto con musica sacra e niente danze.

La pioggia gelida durò per tutta la settimana. In un pomeriggio particolarmente uggioso, Cazaril si trovava con Iselle e Betriz, intento a spiegare loro — prima in teoria e poi in pratica — come tenere una contabilità, quando la lezione fu interrotta da un colpo deciso battuto contro lo stipite e dalla voce di un paggio.

«Il March dy Palliar chiede di vedere Lord dy Cazaril», annunciò il ragazzo, in tono un po’ diffidente.

«Palli!» esclamò Cazaril, girandosi sulla sedia e alzandosi. Entrambe le dame s’illuminarono in volto, perdendo l’espressione annoiata di poco prima. «Non mi aspettavo di rivederti a Cardegoss tanto presto!»

«Non me lo aspettavo neppure io», replicò Palli, inchinandosi alle due giovani donne e scoccando all’amico un sorriso in tralice, mentre lasciava cadere una moneta nella mano del paggio e lo congedava con un cenno del capo.

Il ragazzo fece un profondo inchino, indicando che gradiva la ricca mancia, e si affrettò ad allontanarsi.

«Ho preso con me soltanto due ufficiali e ho viaggiato in fretta», proseguì Palli. «Il resto del mio contingente mi sta seguendo a un’andatura tale da non danneggiare i cavalli. La Dea mi è testimone che non intendevo pronunciare una profezia, l’ultima volta che sono stato qui. Pensarci mi fa rabbrividire più di questa dannata pioggia…» Si guardò intorno, scrollando le spalle, mentre si liberava del mantello fradicio e rivelava la divisa azzurra e bianca propria di un ufficiale dell’Ordine della Figlia. Passatosi le dita tra i capelli scuri, umidi di pioggia, strinse poi le mani a Cazaril. «Per i demoni del Bastardo, Caz, hai un aspetto orribile!»

Non potendo rispondere che il suo aspetto era appunto dovuto a quei demoni, Cazaril diede la colpa al clima, che non aveva un buon effetto su nessuno.

«Colpa del clima?» ribatté Palli, ritraendosi e squadrandolo da capo a piedi. «L’ultima volta che ti ho visto, la tua pelle non aveva il colore della pasta per il pane ammuffita, i tuoi occhi non erano cerchiati di nero e apparivi in forma, non… pallido, teso e panciuto!»

Cazaril si raddrizzò con fare indignato, ritraendo il ventre.

«Royesse… Dovreste far visitare il vostro segretario da un medico», insistette Palli, indicandolo col pollice. Iselle fissò Cazaril con aria d’un tratto dubbiosa e si portò una mano alla bocca, come se lo stesse vedendo per la prima volta da settimane… Il che probabilmente era vero, ipotizzò Cazaril, considerato che, negli ultimi tempi, lei era stata interamente assorbita dalle proprie sciagure. Anche Betriz lasciò scorrere lo sguardo da Cazaril a Iselle, mordendosi un labbro, ma senza dire nulla.

«Non mi serve un medico», si affrettò a dichiarare Cazaril, deciso. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era qualcuno che lo sottoponesse a un interrogatorio riguardo al suo stato di salute.

«Lo dicono tutti, per paura dei salassi e dei purganti», ribatté Palli, accantonando la sua protesta con un gesto. «L’ultima volta che uno dei miei sergenti ha sviluppato delle vesciche da sella, ho dovuto scortarlo dal medico con la spada puntata alla schiena. Non gli date ascolto, Royesse…» Poi si fece serio in volto e rivolse un inchino di scusa a Iselle. «Cazaril… posso parlarti in privato? Royesse, prometto che non lo tratterrò per molto dai suoi doveri, anche perché ho poco tempo a disposizione.»

Con fare grave, Iselle concesse il suo regale permesso e Cazaril, cui non era sfuggito il particolare tono di voce dell’amico, si affrettò ad accompagnare Palli non nel suo studio, in anticamera, bensì nella propria camera, al piano di sotto. Percorso il corridoio, fortunatamente vuoto, chiuse con decisione la porta alle spalle di entrambi, per tenere alla larga eventuali curiosi umani. Quanto agli antichi spettri che aleggiavano nella stanza, senza dubbio sapevano mantenere i segreti.

Sistematosi sulla sedia, per meglio nascondere la goffaggine che gli derivava dal suo problema, attese che Palli si fosse seduto a sua volta sul bordo del letto, col mantello piegato accanto a sé e le mani congiunte abbandonate tra le ginocchia.

«Il corriere della Figlia inviato a Palliar deve aver viaggiato molto velocemente, nonostante il fango invernale», osservò, contando mentalmente i giorni trascorsi dal funerale.

«Ne sei già al corrente?» commentò Palli, inarcando le sopracciglia. «Credevo che si trattasse di un conclave alquanto… privato, benché, a mano a mano che gli altri Lord Devoti affluiranno a Cardegoss, il fatto che esso sia stato indetto risulterà fin troppo evidente.»

«Ho le mie fonti d’informazione», si limitò a dire Cazaril, scrollando le spalle.

«Non ne dubito, come io ho le mie», ribatté Palli, agitando un dito verso di lui. «Attualmente, sei l’unica persona all’interno dello Zangre, e dotata di una rete d’informatori, di cui sia disposto a fidarmi. Nel nome degli Dei, cos’è successo qui a corte? Circolano le storie più fosche e intricate riguardo alla morte improvvisa del nostro defunto Santo Generale… Per quanto l’idea sia piacevole, stento a credere che sia stato davvero condotto via da una schiera di demoni dalle ah fiammeggianti, invocati dalle preghiere della Royesse Iselle.»

«Ah… ecco… Non è successo esattamente così. È morto soffocato nel bel mezzo di un banchetto, la notte precedente le nozze.»

«C’è da sperare che a soffocarlo sia stata la sua lingua velenosa e menzognera.»

«Praticamente sì.»

«I Lord Devoti che Lord Dondo aveva fatto infuriare — quelli che non era riuscito a corrompere e quelli che in seguito si erano vergognati di aver ceduto alle sue lusinghe — hanno visto nella sua morte un segno di cambiamento imminente. Non appena saremo a Cardegoss in numero sufficiente per votare, abbiamo intenzione di battere sul tempo il Cancelliere e di presentare a Orico un nostro candidato alla carica di Santo Generale… o magari una rosa di tre nomi accettabili, tra i quali il Roya possa scegliere quello che preferisce.»

«Il secondo metodo avrebbe maggiori possibilità di riuscita. Si tratta di un delicato gioco di equilibri tra…» Cazaril s’interruppe per non dire che si trattava di un equilibrio tra fedeltà e tradimento. Poi riprese: «Dy Jironal gode di potere in seno al Tempio, come pure qui nello Zangre. Non vorrai certo che questa lotta intestina assuma risvolti spiacevoli».

«Perfino dy Jironal non oserà gettare lo scompiglio nel Tempio, scatenando i soldati del Figlio contro quelli dell’Ordine della Figlia», dichiarò Palli.

Cazaril rispose con un borbottio dubbioso.

«Inoltre, alcuni Lord Devoti — inutile fare nomi, per il momento — si vogliono spingere oltre, raccogliendo le prove della corruzione, delle minacce, del peculato e della malafede di cui entrambi i dy Jironal si sono macchiati e mostrandole poi a Orico, così da costringerlo ad allontanare Martou dy Jironal dalla carica di Cancelliere e ad assumere una posizione netta nei suoi confronti…»

«… il che equivale a costruire una torre con la senape, quindi te lo sconsiglio», replicò Cazaril. «Orico non accetterà facilmente di liberarsi di dy Jironal perché… fa affidamento su di lui in misura molto maggiore di quanto io ti possa spiegare. Dovreste trovare prove assolutamente schiaccianti e inconfutabili.»

«Sì, e questo è uno dei motivi per cui sono venuto da te», disse Palli, protendendosi in avanti. «Saresti disposto a ripetere sotto giuramento, davanti al conclave della Figlia, la storia che mi hai raccontato a Valenda, in merito a come i dy Jironal ti hanno venduto come schiavo sulle galee?»

«Palli, come prova posso offrire soltanto la mia parola», obiettò Cazaril. «E ti garantisco che non sarebbe sufficiente a rovesciare un uomo come dy Jironal.»

«Da sola, no di certo, ma potrebbe essere la moneta che fa inclinare il piatto della bilancia, la goccia che fa traboccare il vaso.»

La moneta che si distingueva fra tutte le altre? Chiedendosi se voleva davvero avere un ruolo determinante in quel complotto, Cazaril contrasse le labbra in una smorfia di sgomento.

«Inoltre, sei un uomo che gode di una certa reputazione…» insistette Palli.

«Non buona, questo è certo!» esclamò Cazaril, con un sussulto.

«Però tutti sanno che l’astuto segretario della Royesse Iselle è un uomo assolutamente affidabile, un bastione inespugnabile, del tutto indifferente alla ricchezza…»

«No, non lo sono», gli garantì Cazaril, in assoluta serietà. «Non ho gusto nel vestire, ma la ricchezza mi piace.»

«Un uomo che gode della più assoluta fiducia e confidenza da parte della Royesse», riprese Palli. «E non fingere di essere un avido e interessato cortigiano… almeno, non farlo con me. Ti ho visto rifiutare per tre volte le ricche somme offerte dai roknari per la consegna di Gotorget, l’ultima quando già stavi praticamente morendo di fame, cosa che posso far confermare da testimoni.»

«Ecco… È ovvio che non abbia accettato…»

«In consiglio, la tua voce sarebbe ascoltata, Caz!»

«Io… ci rifletterò, perché devo pensare ai miei doveri più importanti», sospirò Cazaril. «Diciamo che sono disposto a parlare in una sessione a porte chiuse, soltanto se pensi che la mia testimonianza sia necessaria. Dopotutto, la politica interna del Tempio non è cosa che mi riguardi.» Un’improvvisa fitta al ventre gli fece rimpiangere le parole che aveva scelto. In questo momento, pensò allora, temo di essere tormentato dalla politica interna personale della Dea.

Annuendo con entusiasmo, segno che aveva dato a quel suo assenso più importanza di quanto Cazaril desiderasse, Palli si alzò, lo ringraziò e se ne andò.

16

Due pomeriggi più tardi, Cazaril era seduto alla propria scrivania, intento ad appuntire le sue penne, quando un paggio dello Zangre entrò nell’anticamera-studio. «Il Devoto Rojeras è qui, mio signore, in obbedienza agli ordini della Royesse Iselle», annunciò.

Rojeras era sulla quarantina, coi capelli color sabbia che cominciavano ad assottigliarsi sulla fronte, con le guance punteggiate di lentiggini e acuti occhi azzurri; quanto al suo mestiere, era facilmente deducibile dalle vesti verdi, proprie di un Devoto laico dell’Ospedale della Misericordia della Madre del Tempio di Cardegoss, che frusciavano a ogni passo deciso. Il suo rango di maestro era poi indicato dalla treccia cucita sulla spalla. Rendendosi immediatamente conto che quella visita non poteva essere per una delle due dame — in tal caso avrebbero inviato una donna -, Cazaril s’irrigidì, ma rivolse al Devoto un cortese cenno di saluto, prima di alzarsi per riferire della sua presenza nelle stanze interne. Con sua sorpresa, tuttavia, vide Betriz e Iselle già in attesa vicino alla porta con aria tutt’altro che stupita e un sorriso di saluto sulle labbra.

«Questo è l’uomo di cui ti ho parlato, Royesse», affermò Betriz, rispondendo con una riverenza al profondo inchino del Devoto. «Il Divino anziano della Madre afferma che si è specializzato nello studio delle malattie da consunzione. Apprendisti giungono da ogni parte di Chalion per essere istruiti da lui!»

La visita che Lady Betriz aveva fatto al Tempio il giorno precedente non aveva dunque comportato soltanto preghiere e offerte. Sembrava che Iselle avesse più talento per le cospirazioni di corte di quanto Cazaril avrebbe mai supposto, considerato che era riuscita a tendergli quella trappola senza che lui si accorgesse di nulla. Di fronte a quell’imboscata a fin di bene, Cazaril si costrinse a sfoggiare un sorriso carico di tensione, lottando per nascondere i propri timori; dopotutto, quell’uomo era privo di qualsiasi traccia di quella luminescenza visibile soltanto mediante la seconda vista, quindi era improbabile che riuscisse a dedurre la verità da una semplice visita medica.

«Devoto Rojeras, provvedete per favore a visitare il mio segretario, poi venite a riferirmi tutto», disse Iselle, con aria soddisfatta, dopo aver squadrato il medico da capo a piedi.

«Royesse, non ho bisogno di vedere un medico!» protestò Cazaril. In effetti, e soprattutto, non voleva che un medico vedesse lui.

«In tal caso, avremo sprecato tutti un po’ del tempo che gli Dei ci concedono quotidianamente», ribatté Iselle. «Cazaril, vi ordino di andare col Devoto, se non volete perdere il mio favore.» La nota di determinazione che le vibrava nella voce era inconfondibile.

Lui imprecò contro Palli, sia perché aveva messo quell’idea in testa a Iselle, sia perché le aveva insegnato come bloccargli ogni via di fuga. Come sempre, la Royesse si era dimostrata molto rapida nell’apprendimento. Adesso però lui era in trappola, e tuttavia… il medico avrebbe diagnosticato la presenza di un miracolo, oppure non avrebbe notato nulla. Se avesse scoperto la verità, Cazaril poteva appellarsi a Umegat, lasciando che provvedesse lui, grazie ai contatti che aveva all’interno del Tempio, a risolvere il problema. Se poi il medico non avesse scoperto nulla, la visita si sarebbe conclusa con un nulla di fatto.

Cazaril s’inchinò in segno di obbedienza, lasciando però intuire che si sentiva offeso, e precedette il suo sgradito visitatore lungo le scale e verso la propria camera. Su incarico di Iselle, Betriz li segui fino alla soglia e, quando Cazaril entrò nella stanza e si girò per chiudere la porta, lei gli scoccò un rapido sorriso di scuse. Ma i suoi occhi tradivano l’ansia.

Il medico lo fece sedere vicino alla finestra e procedette a controllargli le pulsazioni e a esaminargli occhi, orecchie e gola, poi gli chiese di urinare e annusò il contenuto del pitale, versandone un po’ in un tubo di vetro e scrutandolo. Quindi domandò a Cazaril come funzionasse il suo intestino e lui, sia pure con riluttanza, dovette ammettere di aver avuto qualche perdita di sangue. A quel punto, il medico lo fece spogliare e sdraiare e, per alcuni minuti, lui sopportò in silenzio Rojeras che gli controllava il cuore e i polmoni, premendogli un orecchio contro il petto, procedendo poi a sondargli svariati punti del corpo con una rapida pressione delle dita fredde. Cazaril dovette altresì spiegare come si fosse procurato le cicatrici causate dalla fustigazione. Rojeras gli offrì alcuni raccapriccianti suggerimenti su come liberarsi delle aderenze rimaste, posto che lui volesse sottoporsi a quelle procedure e le affrontasse con coraggio. Pensando che avrebbe preferito di gran lunga un’altra caduta da cavallo, Cazaril oppose un rifiuto, cui il medico reagì con una risatina divertita. Il suo sorriso però si spense quando riprese a sondare il ventre di Cazaril in maniera più completa e profonda, tastando e premendo in svariati punti. «Qui vi fa male?» chiese.

«No», rispose Cazaril, deciso a porre fine a quella visita.

«E se faccio così?» insistette Rojeras. La sua pressione strappò un grido di dolore a Cazaril. «Ah, allora c’è del dolore…» mormorò il medico. Seguirono altre pressioni e altri sussulti, poi Rojeras s’immobilizzò per qualche tempo, la punta delle dita appoggiata sul ventre di Cazaril e lo sguardo perso nel vuoto, riscuotendosi infine con un sobbalzo… Un modo di fare che a Cazaril ricordò stranamente quello di Umegat.

Mentre Cazaril si rivestiva, Rojeras continuava a sorridere, ma nei suoi occhi si scorgeva l’ombra di un dubbio.

«Avanti, Devoto, parlate pure», lo incitò Cazaril. «Sono un uomo razionale, e non andrò in pezzi, qualsiasi cosa mi diciate.»

«Davvero? Bene», replicò Rojeras, con un profondo sospiro. «Mio signore, avete un tumore che risulta chiaramente individuabile al tatto.»

«Allora… si tratta di questo», commentò Cazaril, rimettendosi a sedere con mosse caute.

«La cosa non vi sorprende?» domandò Rojeras, sollevando lo sguardo di scatto.

Non quanto mi ha sorpreso l’ultima diagnosi che mi hanno fatto, si disse Cazaril, pensando con malinconia a quale sollievo sarebbe stato per lui apprendere che i ricorrenti crampi al ventre avevano una causa così naturale e normale, anche se letale. Purtroppo era del tutto certo che la maggior parte dei tumori non urlava oscenità nel cuore della notte contro le persone che ne erano afflitte. «Già da qualche tempo avevo ragione di pensare che qualcosa non andava», rispose, badando a mantenere un tono di voce neutrale. «Cosa comporta però questo tumore? Cosa credete che accadrà?»

«Ecco…» cominciò Rojeras, sedendosi sul bordo del letto e intrecciando le dita. «Ci sono molti tipi di tumore. Alcuni sono diffusi, altri sono compatti, o incapsulati, alcuni uccidono in fretta e altri rimangono presenti per anni senza quasi dare problemi. Il vostro sembra essere incapsulato, il che ci lascia qualche speranza. Ne esiste un genere abbastanza comune, una specie di cisti che si riempie di liquido… Una donna da me curata è sopravvissuta per oltre dodici anni.»

«Oh», mormorò Cazaril, con un sorriso rincuorato.

«Quando infine è morta, la cisti aveva raggiunto un peso di oltre cinquanta chili», aggiunse però il medico e, senza badare al sussulto disgustato di Cazaril, proseguì: «C’è poi un’altra, più interessante, forma di rumore, che ho visto solo due volte in tutti i miei anni di studio… Una massa rotonda che, una volta aperta, conteneva forme di carne, complete di denti, capelli e ossa. Una di esse era nel ventre di una donna, il che poteva quasi avere senso, ma l’altra era nella gamba di un uomo. La mia teoria è che quelle masse siano generate da demoni sfuggiti al controllo, i quali hanno cercato di assumere una forma umana. Se fosse riuscito nel suo intento, quel demone si sarebbe aperto un varco a morsi e sarebbe entrato nel nostro mondo con una forma fisica, senza dubbio abominevole. Desideravo da tempo trovare un altro tumore del genere in un paziente ancora vivo, in modo da poterlo studiare e da verificare la validità della mia teoria». E scrutò Cazaril, che si trattenne a stento, e col massimo sforzo, dal balzare in piedi urlando.

Abbassò poi lo sguardo sul proprio ventre gonfio e si affrettò subito a distoglierlo; fino a quel momento, aveva pensato che la sua afflizione fosse spirituale, non fisica, e non gli era mai venuto in mente che essa avesse entrambe le forme: quella era un’intrusione del sovrannaturale nel mondo fisico… Un’intrusione fin troppo plausibile, considerati i fatti. «Anche questi tumori arrivano a pesare cinquanta chili?» riuscì a chiedere, con voce soffocata.

«I due che ho estirpato erano molto più piccoli», gli garantì Rojeras.

«Allora lo potete rimuovere?» domandò Cazaril, sollevando uno sguardo pieno di speranza.

«Sì… ma solo da un cadavere», spiegò il medico, con aria contrita.

«Ma… si può fare?» insistette Cazaril. Supponendo che un uomo fosse abbastanza coraggioso da offrirsi al bisturi e che quell’abominio potesse essere estratto con la brutale rapidità di un’amputazione… era dunque possibile rimuovere fisicamente un miracolo, quando esso era fatto di carne?

«Su un braccio o una gamba… forse», ribatté Rojeras, scuotendo il capo. «In quel punto… Siete un soldato e di certo avete visto cosa succede alle ferite al ventre che s’infettano. Anche se riusciste a sopravvivere alla sofferenza dell’operazione, la febbre vi ucciderebbe senza dubbio nell’arco di pochi giorni. Ci ho provato tre volte e solo perché i pazienti avevano minacciato di uccidersi, se non lo avessi fatto. Sono morti tutti, e non intendo uccidere in quel modo altre brave persone, quindi non vi tormentate con simili idee, disperate quanto impraticabili. Vivete ciò che vi rimane come meglio potete, e pregate.»

È stata la preghiera che mi ha messo in questa situazione… o, per meglio dire, che ha messo questa situazione dentro di me, pensò Cazaril. «Non lo dite alla Royesse!» esclamò.

«Mio signore, devo farlo», replicò il medico.

«Ma io non posso… non ora… lei non deve congedarmi e confinarmi a letto! Non posso lasciarla sola!» protestò Cazaril, con una nota di panico nella voce.

«La vostra fedeltà vi fa onore, Lord Cazaril», dichiarò Rojeras, inarcando le sopracciglia. «Ora però calmatevi. Non c’è motivo che vi mettiate a letto se non quando ne sentirete l’effettiva necessità. Anzi un lavoro leggero, come il vostro servizio, appunto, potrebbe tenervi la mente occupata e dare serenità alla vostra anima.»

«Informatela pure», replicò Cazaril con un profondo respiro. Poi decise di non infrangere le piacevoli illusioni che il medico nutriva in merito al suo servizio presso la Casa di Chalion e disse: «A patto che mettiate bene in chiaro che non devo essere allontanato dal mio posto».

«D’accordo… Ma rendetevi conto che ciò non vi autorizza a stancarvi eccessivamente», ribatté il medico, severo. «È evidente che avete bisogno di più riposo di quanto ne abbiate avuto negli ultimi tempi.»

Cazaril si affrettò ad annuire, cercando di mostrarsi obbediente e pieno di energie.

«C’è un’altra cosa importante», riprese Rojeras, muovendosi come se fosse sul punto di congedarsi. «Ve lo chiedo soltanto perché, come voi stesso avete affermato, siete un uomo razionale.»

«Sì?» mormorò Cazaril, guardingo.

«Quando morirete — cosa che preghiamo avvenga il più tardi possibile — posso chiedervi di lasciare un messaggio che mi autorizzi a estrarre il vostro tumore, per la mia collezione?»

«Collezionate simili orrori?» commentò Cazaril, con una smorfia, ma combattuto tra l’indignazione e la curiosità. «La maggior parte degli uomini si accontenta di collezionare dipinti, vecchie spade o statuette d’avorio. Ditemi… Come li conservate?»

«In vasi pieni di distillato di vino», spiegò Rojeras, con un sorriso accompagnato da un imbarazzato rossore. «So che può sembrare macabro, ma continuo a sperare che, se arriverò a saperne abbastanza, un giorno capirò questa malattia e troverò un modo per impedire a queste escrescenze di uccidere le persone.»

«Non pensate che siano un dono oscuro degli Dei e che, come atto di fede, non possiamo opporci a essi?»

«Ci opponiamo alla cancrena, a volte con l’amputazione; ci opponiamo alle infezioni alla mandibola, estraendo il dente marcio; ci opponiamo alla febbre, mediante compresse calde e fredde, e cure assidue… Per ogni terapia dev’esserci stata una prima volta», ribatté Rojeras. «È evidente che la Royesse Iselle nutre per voi molto affetto e una grande stima.»

«Sono al suo servizio fin dalla primavera scorsa, a Valenda», replicò Cazaril, non sapendo che altro dire. «E in precedenza ho servito la famiglia di sua nonna.»

«Non è incline a crisi isteriche, vero? A volte, le nobildonne sono…» Rojeras esitò, imbarazzato.

«No, nessuno lo è, nella sua famiglia», rispose Cazaril. «Di certo, però, non è necessario che informiate lei e Lady Betriz, angustiandole quand’è ancora… presto.»

«È ovvio che devo farlo», obiettò il medico, peraltro in tono gentile, alzandosi. «Come può la Royesse valutare quale sia la linea d’azione da seguire, se non dispone delle informazioni necessarie?»

Il medico aveva ragione. Cazaril lo seguì di nuovo al piano di sopra, con aria pensosa e turbata; nel sentire il rumore dei loro passi, Betriz si affacciò prontamente sulla soglia. «Si rimetterà?» domandò subito a Rojeras.

«Aspettate un momento, mia signora», replicò il medico, sollevando una mano.

Tutti e tre passarono nel salotto della Royesse, dove Iselle attendeva sul suo seggio intagliato, le mani serrate in grembo. Cazaril non desiderava assistere alla scena, ma nel contempo voleva sentire cosa si sarebbe detto, quindi si lasciò cadere sulla sedia che Betriz gli aveva avvicinato con fare ansioso e che Iselle gli stava indicando, dopo aver risposto all’inchino del medico con un cenno del capo. Quanto a Rojeras, essendo in presenza della Royesse, rimase in piedi come segno di rispetto.

«Mia signora… Il vostro segretario è affetto da un tumore al ventre», disse, inchinandosi ancora a Iselle, per scusarsi della propria brutalità.

La giovane lo fissò, sconvolta, e il viso di Betriz si tinse di un pallore mortale.

«Non è prossimo a morire, vero?» domandò poi Iselle, deglutendo a fatica e scoccando un’occhiata piena di timore a Cazaril.

Di fronte al suo sgomento, Rojeras non se la sentì di proseguire sulla linea della franchezza e fece ricorso a un atteggiamento più diplomatico. «La morte giunge per tutti, in maniera diversa, ed esula dalle mie capacità prevedere per quanto tempo ancora Lord Cazaril continuerà a vivere…» Poi scorse con la coda dell’occhio lo sguardo intenso e supplichevole del Castillar e aggiunse, in tutta sincerità: «Non c’è motivo per cui lui non debba continuare a svolgere il suo dovere di segretario finché si sentirà abbastanza bene… A patto che voi non lo stanchiate eccessivamente, ovvio. Col vostro permesso, gradirei tornare a visitarlo ogni settimana».

«Certo», assentì Iselle, con voce fievole.

Dopo qualche altro consiglio in merito all’alimentazione cui Cazaril doveva attenersi e al riposo che doveva concedersi, Rojeras si congedò.

«Non credevo che fosse… Lo avevi intuito quando… Cazaril, non voglio che voi moriate!» farfugliò Betriz, con voce soffocata, gli occhi scuri velati di lacrime.

«Neppure io voglio morire, quindi siamo in due a pensarla nello stesso modo», ribatté lui.

«Siamo in tre», intervenne Iselle. «Cazaril… cosa possiamo fare per voi?»

Nulla, pensò lui. Poi però colse quell’occasione per assicurarsi che il suo problema rimanesse segreto. «Una cosa ci sarebbe», rispose con fermezza. «Vi pregherei di non discutere della mia malattia con ogni fomentatore di pettegolezzi del castello. Il mio più grande desiderio è infatti che questa cosa rimanga privata per… tutto il tempo che sarà possibile mantenerla tale.» Di lì a poco, dy Jironal sarebbe tornato a Cardegoss e, non avendo scoperto nulla, poteva anche decidere di riesaminare la questione del cadavere mancante… Se avesse appreso che Cazaril aveva sviluppato una malattia letale, avrebbe potuto fare nuove ipotesi riguardo alla morte del fratello.

Iselle accettò la sua richiesta con un lento cenno di assenso e gli permise di tornare nell’anticamera. Ma Cazaril non riuscì a concentrarsi di nuovo sui libri mastri. Per ben tre volte — la prima su richiesta della Royesse e le altre due di propria iniziativa -, Lady Betriz entrò in punta di piedi per chiedergli se aveva bisogno di qualcosa. Infine Cazaril reagì, annunciando che avrebbe tenuto una lezione di grammatica, materia troppo a lungo trascurata. Se le due dame non intendevano lasciarlo in pace, allora avrebbe sfruttato nel modo migliore la loro volontà di tenergli compagnia. Per tutto il pomeriggio, le sue allieve furono quanto mai composte, obbedienti e disciplinate… Tutte cose che Cazaril aveva sempre incoraggiato e che tuttavia, in quel giorno, non apprezzò affatto. Anzi sperò che si trattasse di un fenomeno passeggero.

Le due ragazze se la cavarono comunque piuttosto bene, anche quando lui le sottopose a una lunga esercitazione sui modi grammaticali del roknari di corte. L’atteggiamento deciso del Castillar rese evidente il suo desiderio di non diventare oggetto di compassione da parte delle due dame, un desiderio che le giovani avevano comunque già intuito. Entro la fine del pomeriggio, ripresero a trattarlo in maniera quasi normale, proprio come lui voleva, anche se Betriz continuò a mantenere un’espressione cupa.

Alla fine, Iselle si alzò e si mise a passeggiare per la stanza, soffermandosi a contemplare dalla finestra la gelida nebbia invernale che riempiva il burrone sottostante le mura dello Zangre. «Il lavanda non è colore che mi si addica», commentò in tono lamentoso, sfregandosi distrattamente una manica. «Sembra la tinta di un livido. C’è troppa morte a Cardegoss… vorrei non essere mai venuta qui.»

Ritenendo poco diplomatico assentire, Cazaril si limitò a inchinarsi e si congedò, andando a prepararsi per la cena.

Quella settimana, i primi fiocchi di neve caddero sulle strade e sulle mura di Cardegoss, ma si sciolsero subito nel tepore pomeridiano. Palli continuò a tenere informato Cazaril sull’arrivo degli altri Lord Devoti, che si stavano infiltrando in città l’uno dopo l’altro, e si fece ragguagliare da lui in merito ai pettegolezzi che circolavano nel castello. Quel loro comportamento era di reciproco aiuto e di fiducia reciproca, ma, secondo Cazaril, creava anche una doppia breccia nelle mura che entrambi, in teoria, contribuivano a difendere. D’altro canto, se avesse dovuto scegliere con chi schierarsi, se col Tempio o col castello, lui sapeva che ne sarebbe uscito comunque sconfitto.

Dy Jironal, accompagnato da Teidez, tornò nella capitale

sulle ali di un freddo vento di sud-est, che rovesciò sulla città una sgradita tempesta di nevischio. Tornò a mani vuote, con notevole sollievo di Cazaril, apparentemente frustrato nel suo tentativo di portare a termine quell’impresa di giustizia e di vendetta. A giudicare dall’espressione indecifrabile del suo volto, però, era impossibile stabilire se dy Jironal fosse rientrato perché disperava di coronare la sua caccia con un successo oppure perché le sue spie si erano affrettate a raggiungerlo per riferirgli che in città si stavano radunando forze che non erano state da lui convocate.

Teidez fece ritorno al suo alloggio con aria stanca, cupa e infelice, cosa che non sorprese affatto Cazaril. Individuare ogni decesso verificatosi nelle circostanti tre province durante la notte in cui era morto Dondo era stato di certo un compito sinistro, reso ancor più sgradevole dal clima invernale.

Nel periodo in cui era stato abbagliato dalle attenzioni di cui Dondo lo aveva fatto oggetto, Teidez aveva trascurato la compagnia della sorella maggiore, ma quel pomeriggio, quando si recò in visita nelle sue stanze, accettò e ricambiò il suo abbraccio, mostrandosi più desideroso di parlare con lei di quanto lo fosse stato da parecchio tempo. Ritiratosi nell’anticamera per discrezione, Cazaril sedette alla scrivania coi libri mastri aperti davanti a sé, giocherellando con la penna su cui l’inchiostro si stava asciugando. Da quando Orico aveva assegnato a Iselle la rendita di sei città come dono di nozze — dono che non era stato revocato allorché il matrimonio era stato sostituito da un funerale -, la contabilità e la corrispondenza di cui Cazaril si occupava erano diventate molto più complesse.

Mentre rifletteva, Cazaril ascoltò distrattamente, attraverso la porta aperta, le giovani voci dei due fratelli. Teidez descriveva il proprio viaggio a beneficio della sorella, interessata a ogni dettaglio; parlava delle strade fangose, dei cavalli affaticati, degli uomini tesi e irritabili, del cibo scadente e degli alloggi gelidi. Iselle gli fece notare come quell’esperienza costituisse un’eccellente esercitazione per future campagne militari invernali e, nella sua voce, c’era una nota più d’invidia che di compassione. Nessuno dei due, tuttavia, fece cenno al motivo di quel viaggio. Teidez era ancora sconcertato e offeso per la veemenza con cui Iselle aveva respinto il suo defunto eroe; Iselle sembrava riluttante a esporre al fratello i particolari più grotteschi su cui si fondava la sua avversione.

Oltre a essere rimasto sconvolto dall’improvviso e orribile assassinio di Lord Dondo, Teidez probabilmente era stato uno dei pochi che aveva pianto sinceramente la sua morte… E perché mai non avrebbe dovuto, considerato che Dondo lo aveva adulato e lusingato, facendolo sentire più importante di quanto non fosse? Dondo lo aveva ricoperto di doni e gli aveva offerto ogni genere d’intrattenimento… Certo, alcuni di quegli svaghi erano tragicamente inadatti alla sua età, ma Teidez, giovane com’era, come poteva rendersi conto che i vizi degli adulti non avevano nulla a che vedere con gli onori a essi tributati?

In confronto a Dondo, il maggiore dei due fratelli dy Jironal era probabilmente sembrato a Teidez un compagno freddo e indifferente. La spedizione si era lasciata alle spalle una scia rovinosa, generata dalla progressiva frustrazione di dy Jironal. Le indagini si erano fatte via via sempre più affrettate e brutali. La cosa peggiore, però, era un’altra: dy Jironal, pur avendo un bisogno disperato di Teidez, non era riuscito a nascondere la scarsa simpatia nei suoi confronti e lo aveva affidato ai suoi guardiani — il segretario-tutore, le guardie e i servitori -, trattandolo come un’appendice piuttosto che come un luogotenente. Da ciò che Teidez diceva, era chiaro che quell’avversione era ormai reciproca, ma fondata su una serie di motivi sbagliati. Nel suo racconto, poi, si capiva che il nuovo segretario-tutore non aveva ripreso a curare la sua istruzione dal punto in cui dy Sanda si era interrotto.

Fu Nan dy Vrit a porre fine alla visita, avvertendo i due giovani che era ora di prepararsi per la cena. A passo lento, Teidez attraversò l’anticamera, contemplandosi gli stivali con aria accigliata; ultimamente, il giovane Royse si era fatto alto quasi come il fratellastro Orico e, sebbene il suo corpo fosse ancora muscoloso, il volto rotondo lasciava supporre che potesse diventare altrettanto grasso. Voltate a casaccio le pagine del libro mastro che aveva davanti, Cazaril tornò a intingere la penna nell’inchiostro e sollevò lo sguardo con un sorriso esitante. «Come state, mio signore?» domandò.

Teidez rispose con una scrollata di spalle, ma, arrivato a metà della stanza, si girò di scatto e tornò verso la scrivania di Cazaril, con un’espressione stanca e turbata. Tamburellando sul piano di legno, il giovane abbassò lo sguardo sui mucchi di registri e di documenti. Cazaril incrociò le mani e gli scoccò un’occhiata interrogativa, per incoraggiarlo a parlare.

«A Cardegoss c’è qualcosa che non va, vero?» chiese infine Teidez.

Le cose che non andavano, a Cardegoss, erano così tante che Cazaril non seppe come interpretare quelle parole. «Cosa v’induce a pensarlo?» replicò quindi, con cautela.

«Orico è malato, e non governa come dovrebbe», precisò Teidez, abbozzando uno strano, piccolo gesto troncato sul nascere. «Dorme troppo, quanto un vecchio, ma non è così anziano. Inoltre tutti dicono che ha perso la sua…» Arrossendo, Teidez fece un gesto ancora più vago del precedente. «Be’, sapete cosa intendo… Non si può comportare con una donna come un uomo dovrebbe fare. Non vi è mai venuto da pensare che ci sia qualcosa d’inquietante, in questa sua strana malattia?»

«Siete un acuto osservatore, Royse», temporeggiò Cazaril.

«Anche la morte di Lord Dondo è stata inquietante. Io credo che queste cose siano collegate.»

E ragazzo sta cominciando a riflettere. Bene! «Dovreste esporre le vostre osservazioni a vostro fratello Orico», suggerì Cazaril. «Lui è l’autorità più adeguata a fornirvi spiegazioni.» Provò a immaginare Teidez nell’atto di ricevere una risposta diretta e coerente da Orico, e sospirò. Se Iselle, con tutta la sua appassionata forza di persuasione, non era riuscita a ottenere da lui un comportamento sensato, quali speranze poteva avere Teidez, la cui dialettica era molto più limitata? Orico avrebbe trovato il modo per non rispondere, posto che non riuscisse a mettersi in anticipo nell’impossibilità di farlo.

Tocca forse a me l’onere d’informare il Royse della situazione? No. Non gli era stata concessa l’autorità di rivelare quello che era in effetti un segreto di Stato, e per di più si supponeva che lui stesso ne fosse all’oscuro. Inoltre la notizia dell’esistenza della maledizione del Generale Dorato doveva giungere a Teidez direttamente dal Roya, non suo malgrado o a sua insaputa, onde evitare che la cosa assumesse l’aria di una cospirazione. D’un tratto, Teidez si protese in avanti sul tavolo e lo fissò con occhi socchiusi. Cazaril si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio.

«Lord Cazaril, che cosa sapete?» sibilò il giovane.

So che non possiamo lasciarti nell’ignoranza ancora per molto, pensò lui. E ciò valeva anche per Iselle. «Ve lo spiegherò in seguito, Royse», replicò. «Questa è una cosa di cui non posso parlare stanotte.»

Teidez serrò le labbra e si passò una mano tra i riccioli dorati in un gesto pieno d’impazienza, lo sguardo pervaso d’incertezza, di diffidenza e, così parve a Cazaril, di una strana solitudine. «Capisco», disse soltanto, poi girò sui tacchi e uscì a passo spedito. Quando già si trovava nel corridoio, borbottò: «A quanto pare dovrò provvedere da solo…»

Aveva forse intenzione di parlare con Orico? Be’, in tal caso, Cazaril lo avrebbe preceduto. E, se necessario, avrebbe chiesto il sostegno di Umegat. Deposte le penne nel loro contenitore, chiuse i registri e si alzò, traendo un profondo respiro per resistere alla fitta di dolore causata da quel movimento improvviso.

Un colloquio con Orico era più facile da decidere che da ottenere. Credendo che lui fosse un ambasciatore inviato da Iselle per insistere con la sua proposta di matrimonio ibrana, il Roya prese a evitare Cazaril e incaricò il suo maggiordomo personale di allontanarlo adducendo una dozzina di scuse diverse. La cosa venne poi resa ancora più difficile dalla necessità che quella conversazione si svolgesse in privato, soltanto tra loro due, e senza interruzioni. Di conseguenza, dopo cena, Cazaril stava percorrendo il corridoio, proveniente dalla sala dei banchetti e intento a riflettere sul modo migliore per intrappolare la sua regale preda quando un colpo battutogli sulla spalla lo fece girare parzialmente su se stesso.

Nel sollevare lo sguardo, Cazaril sentì morirgli sulle labbra le parole di scusa con cui era stato sul punto di giustificare la propria goffa distrazione, quando vide che la persona contro cui era andato a sbattere era Ser dy Joal, uno dei bravacci al servizio di Dondo, ora rimasto privo d’impiego… il che lo indusse a chiedersi cosa stessero facendo ultimamente quei loschi figuri per guadagnarsi da vivere, e se fossero passati al servizio del fratello di Dondo. Notando che dy Joal era accompagnato da uno dei suoi compari, sogghignante in volto, e da Ser dy Maroc, che appariva invece accigliato e a disagio, Cazaril corresse poi la propria impressione iniziale, rendendosi conto che era stato dy Joal, i cui occhi scintillavano ora di un bagliore guardingo alla luce delle candele appese alle pareti, a urtare lui e non viceversa.

«Goffo bue!» ringhiò dy Joal, in tono un po’ troppo fasullo. «Come osi spintonarmi per passare per primo dalla porta?»

«Chiedo scusa, Ser dy Joal», rispose Cazaril. «Ero assorto nei miei pensieri.»

Poi accennò un inchino e fece per aggirare il giovane bravaccio, ma dy Joal fu pronto a spostarsi di lato per bloccargli il passo, spingendo indietro al contempo la sopravveste in modo da esporre l’impugnatura della spada. «Io dico che mi avete spintonato. Adesso intendete anche darmi del bugiardo?»

Ah, si tratta di un’imboscata, pensò Cazaril, immobilizzandosi. «Cosa volete, dy Joal?» domandò, in tono stanco.

«Siete testimoni!» esclamò dy Joal, indicando verso il suo compare e dy Maroc. «Mi ha spintonato.»

«Sì, l’ho visto», fu pronto a rispondere il suo amico, mentre dy Maroc si mostrò assai più incerto riguardo al comportamento da tenere.

«Intendo sfidarvi a duello per il vostro affronto, Lord Cazaril!» continuò dy Joal.

«Questo lo vedo da me», ribatté seccamente Cazaril, chiedendosi se si trattasse soltanto di stupidità indotta dal troppo vino bevuto, o invece della forma di assassinio più semplice che esistesse al mondo. Un duello al primo sangue, pratica approvata e sfogo per i bollori ardenti delle giovani teste calde che frequentavano la corte, seguito da un: «La spada mi è sfuggita al controllo, lo giuro sul mio onore! Si è infilzato da sé», il tutto appoggiato da quanti più testimoni la persona in questione poteva permettersi di pagare.

«Intendo avere tre gocce del vostro sangue per cancellare quest’offesa», insistette dy Joal, pronunciando l’abituale formula di sfida.

«Io invece vi consiglio di andare a immergere la testa in un secchio d’acqua e di tornare sobrio. Non faccio duelli», dichiarò Cazaril, sollevando per un momento le braccia in modo da far allargare la sopravveste e mostrare che non aveva con sé la spada. «Lasciatemi passare.»

«Urrac, presta la tua spada a questo vigliacco! Dal momento che abbiamo i due testimoni richiesti, sbrigheremo questa faccenda fuori, immediatamente», ingiunse dy Joal, indicando col capo le porte in fondo al corridoio, che si aprivano sul cortile principale.

Il suo compare si slacciò la cintura con la spada e, sempre sogghignando, la gettò a Cazaril. Questi inarcò un sopracciglio ma non accennò a muovere le mani, lasciando cadere l’arma ai propri piedi e spingendola con un calcio verso il suo proprietario.

«Non faccio duelli», ribadì.

«Devo allora darvi apertamente del vigliacco?» domandò dy Joal, con le labbra socchiuse e il respiro reso un po’ affannoso dall’esaltazione per l’anticipazione dello scontro imminente. Con la coda dell’occhio, Cazaril vide un paio di altri uomini, attratti dai toni di voce sempre più alti, avvicinarsi con curiosità lungo il corridoio.

«Definitemi come preferite, a seconda di quanto desiderate fare la figura dell’idiota. Le vostre parole non sono nulla per me», sospirò Cazaril, facendo del proprio meglio per sfoggiare un atteggiamento annoiato, anche se in realtà il sangue gli stava pulsando sempre più in fretta nelle orecchie, non per il timore, ma per la furia…

«Avete il titolo di Lord, ma non ne possedete l’onore.»

Un angolo della bocca di Cazaril si sollevò in un sorriso privo di umorismo. «Quella forma di confusione mentale che definite onore è una malattia, per la quale i capi vogatori dei roknari possiedono una cura infallibile.»

«Constatato che non avete onore, non potete comunque rifiutarmi tre gocce di sangue per lavare l’onta dal mio onore!»

«Avete ragione», annuì Cazaril, la cui voce si era fatta stranamente calma, con uno strano sorriso sulle labbra. I battiti del suo cuore rallentarono, mentre ripeteva: «Avete proprio ragione…»

Protese la mano sinistra col palmo verso l’alto e, con la destra, estrasse di scatto il coltello da cintura, che aveva usato a cena per tagliare il pane; colto di sorpresa, dy Joal contrasse spasmodicamente la mano sull’impugnatura della spada, e arrivò quasi a snudarla.

«Non nel palazzo del Roya!» gridò dy Maroc. «Sai che queste cose si devono fare all’esterno, dy Joal! Per il Fratello, lui non ha neppure la spada… non puoi attaccarlo!»

Dy Joal esitò e Cazaril, invece di avanzare verso di lui, spinse indietro la manica sinistra, passandosi lentamente la lama del coltello sul polso, senza sentire il minimo dolore. Mentre il sangue, di un cupo color carminio, prendeva a colare lentamente alla luce delle candele, senza fiottare come avrebbe fatto se fosse stata lesa un’arteria, Cazaril ebbe l’impressione che una sorta di caligine salisse a offuscargli la vista, escludendo dal suo campo visivo tutti i presenti tranne se stesso e quel giovane stolto che aveva insistito per duellare con lui, e che ora lo stava fissando con un sorriso sempre più incerto.

Ti darò quello che volevi, ma non come lo volevi, pensò, riponendo il coltello. Davanti a lui dy Joal, che non si era ancora insospettito abbastanza, lasciò ricadere la spada nel fodero e allontanò la mano da essa.

Sorridendo, Cazaril sollevò entrambe le braccia, poi scattò in avanti senza preavviso, afferrando lo sconvolto dy Joal e spingendolo all’indietro contro la parete con tanta forza che il tonfo echeggiò lungo il corridoio. Gli intrappolò un braccio dietro la schiena e, dopo aver incastrato la mano destra sotto il mento del giovane bravaccio, lo sollevò da terra e lo bloccò contro il muro tenendolo per il collo, premendogli nel contempo il ginocchio destro contro l’inguine, in modo da impedirgli di liberare il braccio intrappolato. Disperato, dy Joal cercò di artigliarlo con la mano libera, ma Cazaril gli bloccò anche quella. Per quanto si contorcesse nella sua presa, resa scivolosa dal sangue, dy Joal non riuscì a liberarsi. Purpureo in volto, il giovane non era ovviamente in condizione di gridare, pur roteando gli occhi ed emettendo un gorgoglio indistinto, i talloni che martellavano contro la parete. Quei bravacci sapevano che le mani deformate di Cazaril di solito stringevano una penna, e avevano dimenticato che, per molto tempo, avevano anche impugnato un remo, acquisendo la forza che stava impedendo a dy Joal di liberarsi da quella stretta.

«Io non duello, ragazzo», gli ringhiò all’orecchio Cazaril, con voce abbastanza alta per essere udita da tutti. «Io uccido come fa un soldato, e cioè nello stesso modo di un macellaio, in fretta, con efficienza e col minore rischio possibile per me stesso. Se deciderò che devi morire, morirai quando e dove vorrò io, nel modo di mia scelta, e non vedrai mai arrivare il colpo che ti abbatterà.» Abbandonata la presa sul braccio libero di dy Joal, che non aveva più la forza di lottare, sollevò il polso sinistro e premette il taglio sanguinante sulla bocca tremante e socchiusa della sua vittima terrorizzata.

«Volevi tre gocce del mio sangue, per il tuo onore? Adesso le berrai.» Sangue e saliva colarono intorno ai denti tremanti di dy Joal, che tuttavia non osò neppure tentare di mordere. «Bevi, dannazione a te!» ringhiò Cazaril, accentuando la pressione e spargendo sangue su tutta la faccia di dy Joal. Per un momento, rimase come affascinato dal contrasto delle rosse scie di sangue con la pelle livida, dalla ruvidezza di un accenno di barba contro il suo polso, dalla luce intensa delle candele riflessa nelle lacrime che colavano dagli occhi fissi della sua vittima, che cominciavano ad annebbiarsi.

«Cazaril, per amore degli Dei, lasciatelo respirare!» gridò dy Maroc, angosciato, strappando Cazaril alla rossa nebbia dell’ira.

Il Castillar allentò la propria stretta, permettendo a dy Joal di respirare. Mantenendo la pressione all’inguine, serrò la mano sinistra coperta di sangue e sferrò un pugno violento contro lo stomaco del bravaccio, che si piegò su se stesso, di nuovo senza fiato, e contrasse con violenza le ginocchia. Soltanto allora, Cazaril si decise a indietreggiare e a lasciarlo andare. Accasciatosi al suolo, dy Joal si raggomitolò su se stesso, annaspando e tossendo, piangendo e non tentando neppure di rialzarsi. Dopo un momento, poi, prese a vomitare.

Scavalcato quel disgustoso ammasso di cibo, vino e bile, Cazaril avanzò verso Urrac, che arretrò, giungendo a ridosso della parete opposta.

«Io non duello», ribadì Cazaril, con voce pacata, protendendosi verso di lui. «Ma se desideri morire come un manzo, macellato con una martellata, attraversa di nuovo la mia strada.»

Nel girare sui tacchi, vide apparire dy Maroc, pallidissimo, che gli sibilò: «Cazaril, siete impazzito?»

«Mettetemi alla prova», ribatté lui, con un sorriso feroce che indusse dy Maroc a indietreggiare prontamente. A grandi passi, Cazaril si avviò lungo il corridoio, allontanandosi dal capannello di uomini, col sangue che gli colava ancora dalle dita a ogni movimento delle braccia, e uscì nel gelo notturno, chiudendosi alle spalle la porta per escludere il crescente coro di voci agitate.

Quasi di corsa, attraversò il gelido acciottolato del cortile, diretto verso il corpo principale del castello e un rifugio sicuro, il passo e il respiro che acceleravano contemporaneamente e si facevano sempre più irregolari a mano a mano che qualcosa — la sanità mentale, un terrore ritardato? — gli filtrava di nuovo nella mente. Mentre saliva le scale fu assalito poi da un violento crampo al ventre. Con dita scosse da un tremito quasi incontrollabile, afferrò la chiave per entrare nella sua camera, lasciandola cadere due volte e usando infine entrambe le mani per inserirla nella toppa. Richiusa a chiave la porta, si accasciò sul letto, gemendo e ansimando. Soltanto allora si rese conto che il corteo di spettri si era dissipato nel corso dello scontro, senza che lui se ne accorgesse. Si mise su un fianco, si raggomitolò intorno allo stomaco dolorante, e sentì la ferita al polso che iniziava a dolergli, insieme con la testa.

Alcune volte, nel pieno della battaglia, gli era capitato di vedere uomini cedere alla furia, ma, prima di quella sera, non aveva mai immaginato come ci si sentisse e nessuno gli aveva detto che si trattava di una sensazione esaltante, come quella indotta dal vino o dal sesso. Senza dubbio si era trattato di una reazione insolita, ma naturale, alla tensione nervosa e alla paura, tutte cose radunate in poco tempo e poco spazio. No, non poteva essere stata una forza innaturale a spingerlo ad agire in quel modo… Il suo comportamento non poteva dipendere dalla «cosa» che aveva nel ventre, che lo aveva provocato e ingannato, cercando di spingerlo incontro alla morte, e alla propria liberazione…

Oh.

Sapevi già che cosa avevi fatto a Dondo. Adesso sai quello che lui sta facendo a te.

17

Fu per puro caso, a tarda ora della mattina successiva, che Cazaril vide Orico oltrepassare il portone dello Zangre, diretto al serraglio, con la sola scorta di un paggio. Allora ripose in una tasca interna della sopravveste la lettera che stava portando all’ufficio della Cancelleria e si allontanò dalla Torre di Ias per seguire il Roya.

Il ciambellano di Orico aveva rifiutato di disturbarlo durante il sonnellino successivo alla colazione, ma, a quanto pareva, il Roya si era destato e stava andando a cercare conforto presso i suoi animali. Chiedendosi se il Roya si fosse svegliato in preda a un’emicrania pari a quella che stava affliggendo lui, Cazaril attraversò il cortile con passo deciso e ripassò mentalmente le sue argomentazioni. Se il Roya si fosse dimostrato timoroso di agire, allora gli avrebbe fatto notare che ciò equivaleva a cedere all’influenza malvagia della maledizione; se invece avesse affermato che i fratellastri erano troppo giovani, lui avrebbe ribattuto che lo erano troppo anche per essere convocati a Cardegoss. Fatto stava che erano lì, quindi, se non era in grado di proteggerli, almeno aveva un obbligo, sia verso di loro sia nei confronti di Chalion: doveva metterli al corrente del pericolo che correvano. Cazaril aveva poi intenzione di chiamare Umegat, perché confermasse che il Roya non poteva tenere per sé la maledizione. Non li mandate in battaglia alla cieca. Così Cazaril avrebbe implorato Orico, nella speranza che la supplica di Palli avesse sul cuore del Roya lo stesso effetto che aveva avuto sul suo. E in caso contrario… Se si addossava il compito di rivelare quel segreto, doveva parlarne prima con Teidez, in qualità di Erede di Chalion, e poi chiederne l’aiuto per proteggere sua sorella? Oppure doveva rivolgersi a Iselle, domandandone l’appoggio per gestire il più difficile Teidez? Quest’ultima strada gli avrebbe permesso di nascondere la propria complicità dietro le gonne della Royesse, ma soltanto se il segreto della sua colpa fosse sfuggito all’esame della sua mente acuta.

Un rumore di zoccoli lo strappò alle sue riflessioni, e lo indusse a sollevare lo sguardo appena in tempo per spostarsi dalla traiettoria di un gruppo di cavalieri che stava uscendo dalle stalle. Il Royse Teidez, in sella al suo splendido cavallo nero, era in testa a un gruppo di guardie baociane, composto dal capitano e da due uomini. Il volto rotondo del Royse, colpito dai raggi del sole invernale, appariva pallido sullo sfondo dell’abbigliamento lavanda e nero. Ma il sole fece anche scintillare lo smeraldo sulla mano del capitano, sollevata in un gesto di risposta al cortese saluto di Cazaril.

«Dove state andando, Royse? Uscite a caccia?» chiese, notando che tutti erano armati con lance, balestre, spade e randelli.

«No, facciamo una galoppata fino al fiume», rispose Teidez, frenando il cavallo nervoso e scoccando a Cazaril una fugace occhiata. «Stamattina lo Zangre è… soffocante.»

In effetti, la caccia non era vista di buon occhio in un periodo di lutto… Ma se si fossero imbattuti in un paio di daini, Teidez e i suoi compagni non avrebbero esitato ad accettare quel dono degli Dei.

«Capisco», annuì Cazaril, reprimendo un sorriso. «Un po’ di moto farà bene ai cavalli.» Si ritrasse un poco, perché Teidez fece per spronare la cavalcatura e aggiunse: «Royse… Più tardi vi vorrei parlare riguardo alla questione che tanto vi preoccupava ieri».

Teidez rispose con un vago cenno della mano e con uno sguardo accigliato che forse non era un assenso. Cazaril si accontentò e gli rivolse un inchino di saluto. Poi il gruppetto lasciò il cortile delle stalle.

Fu in quell’istante che Cazaril dovette piegarsi di scatto in avanti, gemendo. Era stato colto da un crampo al ventre di violenza inusitata, doloroso quanto il calcio degli zoccoli posteriori di un cavallo e tanto intenso da togliergli il respiro. Da quel punto, si propagò una serie di onde di dolore che gli causarono spasmi brucianti in tutto il corpo, fino al palmo delle mani e alla pianta dei piedi. Nella sua mente affiorò l’orribile visione del demone ipotizzato da Rojeras, un demone che si preparava ad aprirsi un varco a colpi di artigli attraverso il suo corpo. Era un’unica creatura oppure erano due? Non essendoci corpi a separare i due spiriti, ed essendo essi bloccati dalla pressione del miracolo operato dalla Signora, era forse possibile che Dondo e il demone avessero cominciato a fondersi, creando un singolo, orribile essere? Dopotutto, lui continuava ad avvertire soltanto una voce, e non due, che gli inveiva contro di notte. Sotto l’aggressione di quelle fitte lancinanti, le ginocchia gli cedettero e lui crollò sull’acciottolato gelido, traendo a fatica un affannoso respiro, mentre il mondo sembrava roteargli intorno.

Dopo qualche minuto, un’ombra che esalava un intenso odore di cavallo apparve vicino alla sua spalla e una voce brusca gli risuonò all’orecchio. «Mio signore, state bene?»

Sbattendo le palpebre per schiarirsi la vista, Cazaril scopri che uno degli stallieri, un individuo di mezz’età dai denti marci, si stava chinando su di lui.

«Non… proprio», riuscì a rispondere.

«Non volete rientrare?»

«Sì… Suppongo di sì…»

Puntellandolo con una mano sotto il gomito, lo stalliere lo aiutò ad alzarsi e lo sostenne per tutto il tragitto fino al corpo principale del palazzo.

«Aspetta», ansimò Cazaril, una volta giunti alla base delle scale. «Non ancora…» E si sedette pesantemente sui gradini.

«Devo chiamare qualcuno perché vi assista, mio signore?» chiese lo stalliere, dopo un imbarazzante silenzio. «Io dovrei tornare al mio lavoro…»

«È… solo uno spasmo, passerà tra qualche minuto. A dire il vero, mi sento già meglio, quindi puoi andartene.» In effetti, il dolore si stava attenuando. Adesso si sentiva accaldato e… strano.

Lo stalliere lo fissò con espressione incerta e accigliata, poi però annuì e se ne andò.

A poco a poco, seduto sui gradini, Cazaril cominciò a ritrovare il fiato e l’equilibrio, arrivando infine a raddrizzare di nuovo la schiena, mentre intorno a lui il mondo smetteva di vorticare. Un paio dei suoi consueti spettri sbucarono dalle pareti e si fermarono ai suoi piedi, in un atteggiamento insolitamente passivo. Adocchiandoli, fermi nell’ombra della scala, Cazaril si trovò a riflettere sulla gelida, solitaria dannazione cui erano destinati: la lenta erosione, la perdita progressiva di tutto ciò che li aveva resi uomini e donne… Cosa si provava, sentendo il proprio spirito che marciva a poco a poco, come marcisce la carne di un cadavere? Quegli spettri erano consapevoli del loro deterioramento, oppure anche la percezione di sé svaniva, misericordiosamente, col passare del tempo? Il leggendario inferno del Bastardo, con tutti i suoi supposti tormenti, sembrava quasi un paradiso rispetto a una sorte del genere.

«Cazaril!» esclamò una voce sorpresa, inducendolo a sollevare lo sguardo.

Fermo sul primo gradino, su cui appoggiava lo stivale, c’era Palli. Era affiancato da due giovani che, sotto il grigio mantello da viaggio, indossavano la divisa azzurra e bianca dell’Ordine della Figlia. «Stavo appunto venendo a cercarti», disse Palli, aggrottando le sopracciglia scure. «Che ci fai, seduto sulla scala?»

«Mi stavo riposando un momento», rispose Cazaril, con un rapido sorriso per nascondere il suo malessere, poi si alzò, badando a tenere una mano appoggiata con noncuranza alla parete, per mantenere l’equilibrio, mentre domandava: «Cosa sta succedendo?»

«Sono venuto a cercarti nella speranza che avessi il tempo di fare una passeggiata con me fino al Tempio, per parlare con alcune persone riguardo a quella faccenda relativa a Gotorget», spiegò Palli.

«Così presto?»

«Dy Yarrin è arrivato la scorsa notte, e adesso il nostro numero è sufficiente a prendere decisioni valide e vincolanti. Considerato che anche dy Jironal è appena rientrato in città, è opportuno che decidiamo la linea d’azione da seguire senza ulteriori indugi.»

Annuendo, Cazaril decise che sarebbe andato in cerca di Orico non appena tornato a palazzo, poi lanciò un’occhiata ai due compagni di Palli e riportò lo sguardo su quest’ultimo, all’apparenza in attesa di una presentazione, ma in effetti per chiedere indirettamente se si trattasse di persone di cui ci si poteva fidare.

«Ah, già!» esclamò allegramente Palli. «Permettimi di presentarti i miei cugini, Ferda e Foix dy Gura, venuti qui con me da Palliar. Ferda è il luogotenente del mio comandante di cavalleria, mentre suo fratello Foix… Ecco, ci serviamo di lui per spostare carichi pesanti. Avanti, ragazzi, inchinatevi al Castillar.»

Il più basso e tozzo dei due ufficiali sfoggiò un sorriso imbarazzato, ma entrambi riuscirono a inchinarsi con grazia accettabile. Entrambi i fratelli somigliavano in modo vago a Palli, soprattutto nei tratti decisi della mascella e nei luminosi occhi marroni; Ferda era di media statura, col fisico snello e muscoloso di un cavaliere nato, come dimostravano le gambe già leggermente arcuate, mentre suo fratello era più massiccio e muscoloso. Davano l’impressione di sani, allegri e ingenui nobilotti di campagna, ed erano spaventosamente giovani… ma la vaga enfasi che Palli aveva dato al termine cugini aveva risposto in maniera indiretta alla domanda altrettanto indiretta di Cazaril.

Quando Cazaril e Palli oltrepassarono il portone dello Zangre e si addentrarono nelle vie di Cardegoss, i due fratelli s’incamminarono dietro di loro e, per quanto giovani, dimostrarono di essere attenti e sul chi vive, guardandosi costantemente intorno e badando a mantenere l’impugnatura della spada libera dall’impiccio del mantello e della sopravveste. Notando la loro accortezza, Cazaril fu lieto di constatare che Palli non circolava senza scorta per le vie di Cardegoss, neppure nella grigia luce invernale. Poco dopo passarono sotto le mura di pietra di Palazzo Jironal, ma, nonostante i timori di Cazaril, nessun bravaccio uscì dalle porte rinforzate in ferro. Ben presto arrivarono alla Piazza del Tempio senza fare incontri, a parte tre cameriere che rivolsero un sorriso agli uomini che portavano i colori dell’Ordine della Figlia e ridacchiarono tra loro nell’oltrepassarli… cosa che sembrò allarmare i fratelli dy Gura, i quali s’irrigidirono un poco.

L’insieme di edifici che costituiva la Casa della Figlia era cinto da un muro che correva lungo un intero lato della Piazza del Tempio, che aveva la forma di un pentagono. La porta principale era riservata alle donne e alle ragazze che costituivano la maggior parte dei Devoti, degli Accoliti e dei Divini dell’Ordine, mentre gli uomini dell’Ordine militare della Figlia avevano un ingresso separato, un edificio tutto per loro e stalle per i cavalli dei corrieri. I corridoi del quartier generale militare erano gelidi, nonostante una notevole quantità di candele accese e l’abbondanza di tappeti e di arazzi, intessuti e ricamati dalle pie dame di Chalion, che ne rivestivano i muri. Nell’entrare, Cazaril accennò ad avviarsi verso la sala principale, ma Palli lo trattenne e lo indirizzò prima verso un altro corridoio e poi lungo una scala.

«Non vi riunite nella Sala dei Lord Devoti?» domandò Cazaril, scoccandogli un’occhiata da sopra la spalla.

«Troppo fredda, troppo grande e troppo vuota», rispose Palli, scuotendo il capo. «Là dentro ci sentiamo esposti. Per questi dibattiti e per le deposizioni abbiamo scelto una camera dove non siamo troppo dispersi e non ci geliamo i piedi.»

Lasciati i fratelli dy Gura nel corridoio, a contemplare un arazzo a colori vivaci che raffigurava la leggenda della vergine e dell’otre d’acqua — con la vergine e la dea entrambe dotate di una figura estremamente voluttuosa -, Palli guidò Cazaril oltre un paio di guardie della Figlia, che li scrutarono e restituirono il saluto di Palli, quindi lo precedette oltre una porta i cui battenti doppi erano decorati con intagli raffiguranti un intreccio di viticci. La camera che si apriva al di là di essa ospitava un lungo tavolo e almeno due dozzine di uomini, che in quell’ambiente ristretto erano accalcati ma al caldo. E soprattutto, notò Cazaril, erano al riparo da orecchie indiscrete. L’ambiente era rischiarato da una notevole quantità di candele di cera che tenevano a bada la foschia invernale, insieme con la finestra di vetro colorato su cui spiccavano i fiori primaverili preferiti dalla Signora.

Gli altri Lord Devoti sedevano al tavolo con fare rigido: c’erano uomini giovani e altri più maturi, divise eleganti e costose o logore e sbiadite dal tempo… Il volto di tutti, però, era improntato alla stessa espressione grave e severa. In qualità di nobile di rango più elevato, il Provincar dy Yarrin sedeva a capo del lungo tavolo, sotto la finestra. Cazaril non poté non chiedersi quanti fossero spie, o quantomeno individui poco inclini alla riservatezza… Sì, le precauzioni per tenere segreto quel conclave erano adeguate, però quel gruppo era così vasto e diversificato… Signora, guidali sulla via della saggezza, pregò.

«Signori, vi presento il Castillar dy Cazaril», annunciò Palli, con un inchino. «È stato il mio comandante all’assedio di Gotorget, ed è qui giunto per testimoniare in vostra presenza.» Poi andò a occupare un seggio dall’altra parte del tavolo, lasciando Cazaril in piedi. Un altro Lord Devoto gli fece pronunciare il giuramento di dire la verità, nel nome della Dea, e Cazaril non ebbe difficoltà a recitarne le parole con sincerità e slancio, soprattutto nel dire: «Possano le sue mani sorreggermi e mai lasciarmi cadere».

Dy Yarrin si assunse l’onere d’interrogarlo. Era un uomo astuto e Palli lo aveva informato di tutto: impiegò dunque pochi minuti a ottenere da Cazaril il racconto di ciò che era successo dopo la caduta di Gotorget. Cazaril si attenne strettamente ai fatti, senza scendere nei dettagli, ma si accorse che alcuni ascoltatori non avevano davvero bisogno di delucidazioni. Dalla loro espressione corrucciata si capiva benissimo che avevano intuito molto di ciò che lui aveva preferito sottintendere. Ci fu comunque qualcuno che volle sapere perché esistesse una simile inimicizia tra lui e Lord Dondo e, per quanto riluttante, Cazaril fu costretto a raccontare come per poco non fosse stato decapitato nella tenda del Principe Olus. Era considerato sconveniente denigrare i morti — giacché essi non erano in grado di difendersi -, e, pur non essendo certo che questo valesse anche per Dondo, Cazaril badò a mantenere la narrazione il più succinta e scarna possibile. Nonostante questa precauzione, quando arrivò alla fine si ritrovò oppresso da un pericoloso senso di vertigine e dovette appoggiarsi al tavolo.

Seguì una breve discussione relativa al modo di ottenere prove che corroborassero le sue informazioni… Cazaril aveva ritenuto insormontabile quell’ostacolo, ma dy Yarrin non parve considerarlo tale. Del resto, Cazaril non aveva mai pensato di ottenere la testimonianza di roknari superstiti, o di agire tramite i capitoli dell’Ordine della Figlia che si trovavano oltre confine, nei principati.

«Miei signori», intervenne infine, nel corso di una breve pausa del flusso di suggerimenti e di obiezioni, «anche se la verità delle mie affermazioni dovesse essere provata, non una, ma una dozzina di volte, non si tratta comunque di una questione tanto grave da provocare la caduta di un grande uomo… Certo non è cosa paragonabile al tradimento di Lord dy Lutez.»

«Che non è mai stato provato, neppure a quell’epoca», mormorò dy Yarrin.

«Come si classifica la gravità o l’importanza di qualcosa?» intervenne Palli. «Non credo che gli Dei interpretino la grandezza o la gravità come facciamo noi uomini e, per quanto mi riguarda, trovo che distruggere con noncuranza la vita di un uomo sia più ripugnante che farlo di proposito.»

Cazaril si appoggiò con maggior forza al tavolo, cercando di non crollare proprio in quel momento; Palli aveva insistito perché la sua voce venisse ascoltata in consiglio… Ebbene, sarebbe stata una voce che invitava alla cautela. «Signori, scegliere il Santo Generale rientra senza dubbio nelle vostre prerogative, ed è possibile che Orico accetti il vostro candidato, se gli faciliterete le cose. Sfidare il Cancelliere di Chalion, nonché il Santo Generale di un Ordine confratello, significa spingervi al di là dei vostri limiti, ed è mia convinta opinione che Orico non si lascerà mai persuadere ad appoggiarvi in questo. Di conseguenza, vi sconsiglio dal tentare.»

«O tutto o nulla», protestò uno dei presenti.

«Non sopporteremo mai un altro Dondo», rincarò qualcun altro.

Dy Yarrin sollevò una mano, troncando sul nascere quella marea di commenti. «Lord Cazaril, vi ringrazio per la vostra testimonianza e per la vostra opinione», disse, invitando così i confratelli a distinguere nettamente le due cose. «Ora però dobbiamo portare avanti questo conclave in privato.»

Palli spinse indietro lo sgabello e si alzò per accompagnare fuori Cazaril, recuperando i due fratelli dy Gura nel corridoio. Poi, però, una volta giunti alle porte della Casa, Cazaril rimase sorpreso, perché Palli e la sua piccola scorta continuavano a seguirlo. «Non dovresti tornare al consiglio?» domandò, mentre uscivano in strada.

«Provvederà dy Yarrin a ragguagliarmi, al mio ritorno. Ho intenzione di scortarti sano e salvo fino allo Zangre, perché non ho dimenticato la fine del povero Ser dy Sanda.»

Nell’attraversare la Piazza del Tempio, Cazaril si lanciò un’occhiata alle spalle, in direzione dei due giovani ufficiali che li seguivano a un passo di distanza e, rendendosi conto che quella scorta armata era per lui, decise di non lamentarsi. «Chi sarà il candidato alla carica di Santo Generale che presenterete a Orico? Dy Yarrin?»

«La mia scelta ricadrebbe su di lui», ammise Palli.

«In effetti, sembra avere una posizione d’autorità in seno al vostro consiglio. Ha qualche interesse personale a ottenere la carica?»

«Può darsi, però ha intenzione, qualora venga eletto, di trasmettere il titolo di Provincar della Yarrin al figlio maggiore e di dedicarsi interamente al nostro Ordine.»

«Ah! Se gli Dei volessero che Martou dy Jironal facesse lo stesso con l’Ordine del Figlio.»

«Già. Riveste una tale quantità di cariche che c’è da chiedersi come faccia ad assolvere bene a tanti doveri.»

I quattro si avviarono lungo la collina, percorrendo le strade cittadine e scavalcando con cautela i canali di scolo centrali, puliti a causa delle piogge recenti. Ben presto, le strette vie occupate dalle botteghe cedettero il posto a piazze più ampie, circondate da case eleganti. Nello scorgere la massa incombente di Palazzo Jironal, Cazaril si trovò di nuovo a riflettere sul Cancelliere, chiedendosi quale tratto positivo del carattere di Martou dy Jironal fosse stato corrotto dalla maledizione, posto che essa avesse davvero l’effetto di distorcere le virtù personali. Forse era l’amore per la famiglia, tramutato in diffidenza nei confronti di chiunque non apparteneva a essa… O magari era la fiducia eccessiva concessa a Dondo, cosa che senza dubbio si stava trasformando in una debolezza e in uno strumento di rovina.

«Sai… spero che prevalgano i pareri più cauti e moderati», commentò d’un tratto.

«La vita di corte ti sta trasformando in un diplomatico», ribatté Palli, con una smorfia.

«Non so proprio da che parte cominciare a spiegarti in cosa mi sta trasformando la vita di corte…» accennò a replicare Cazaril, con un cupo sorriso. In quel mentre, uno dei corvi di Fonsa scese in picchiata verso di lui dal tetto di una casa vicina, lanciandosi verso la sua testa con roche strida. Cazaril lanciò un grido e si abbassò di scatto. L’uccello quasi precipitò ai suoi piedi e prese a saltellare sulla pavimentazione, gracchiando e agitando le ali, subito seguito da altri due, uno dei quali andò ad atterrare sul suo braccio proteso, stridendo e affondando gli artigli per mantenersi in equilibrio. «Dannazione a questi uccelli!» imprecò Cazaril. Ultimamente aveva creduto che essi avessero perso ogni interesse nei suoi confronti… Invece stavano ricominciando le loro imbarazzanti dimostrazioni di entusiasmo.

«Per i cinque Dei», esclamò Palli, che si era ritratto d’un balzo con una risata, indicando al di sopra dei tetti. «Qualcosa li ha messi in agitazione! Guardate, sono tutti in volo sopra lo Zangre, e girano in cerchio!»

Sollevando una mano a ripararsi gli occhi, Ferda dy Gura guardò nella direzione indicata da Palli, scorgendo un lontano vorticare di sagome nere, simili a foglie sollevate da un ciclone, che salivano e scendevano; accanto a lui, suo fratello Foix si premette le mani sulle orecchie, assordato dalle strida dei corvi che continuavano a saltellare intorno ai loro piedi.

«E sono anche rumorosi!» gridò, al di sopra di quel fragore.

Allora Cazaril si rese conto che i corvi non erano affascinati da lui, ma isterici per qualche ignoto motivo, e sentì il cuore che gli si gelava nel petto. «C’è qualcosa che non va», disse. «Venite con me!»

Non essendo nelle condizioni migliori per una corsa in salita, aveva ormai la mano premuta contro il fianco dolorante quando finalmente si avvicinarono alle stalle esterne dello Zangre, coi corvi che gli volavano intorno alla testa, come se gli facessero da scorta. Sotto il persistente stridere dei corvi si scorgevano adesso grida umane, e ciò indusse Palli e i suoi cugini a correre più in fretta.

Uno stalliere che indossava il tabarro reale proprio degli addetti al serraglio stava camminando con passo barcollante davanti alle porte aperte del serraglio stesso, col sangue che gli colava lungo il volto, e due delle guardie baociane di Teidez, riconoscibili per la livrea verde e nera, erano piazzate davanti all’ingresso con la spada sguainata, tenendo a bada tre guardie del castello, paratesi davanti a loro, la spada in pugno, ma esitando ad attaccare. I corvi però non avevano simili remore e continuavano a scendere in picchiata, tentando di colpire con gli artigli e col becco i due baociani che, imprecando, li tenevano lontani con la spada; due fagotti di penne nere giacevano già sull’acciottolato, uno ormai immobile, l’altro che sussultava ancora.

«Nel nome del Bastardo, cosa sta succedendo qui?» ruggì Cazaril, avanzando a grandi passi verso il serraglio. «Come osate uccidere i corvi sacri?»

«State indietro, Lord Cazaril!» ingiunse uno dei due baociani, puntandogli contro la spada. «Non potete passare! Abbiamo ordini precisi del Royse.»

Le labbra ritratte sui denti in una maschera di furia, Cazaril spinse da parte la spada col braccio avvolto nel mantello e scattò in avanti, strappando l’arma dalla mano della guardia. «Dammela, razza di stolto!» ringhiò, scagliando l’arma sull’acciottolato, nella direzione in cui si trovavano le guardie dello Zangre e Palli, il quale aveva estratto la spada, in preda al panico nel vedere l’amico lanciarsi disarmato nella mischia. Tintinnando rumorosamente, la spada continuò a scivolare sull’acciottolato, ruotando su se stessa, sinché Foix non la bloccò, piazzandovi sopra un piede calzato di stivale e guardandosi intorno, come a sfidare chiunque intendesse recuperarla.

Cazaril si girò verso il secondo baociano, che lasciò cadere immediatamente la propria arma e si ritrasse davanti a lui con timore. «Castillar! Stiamo facendo questo per preservare la vita del Roya Orico!» si affrettò a gridare l’uomo.

«Cosa state facendo? Orico è là dentro? Che succede?»

Dall’interno dell’edificio giunse allora un ringhio felino che si trasformò in una sorta di miagolio lamentoso, un suono che indusse Cazaril a girarsi di scatto e a lasciare gli intimiditi baociani alla custodia delle guardie dello Zangre, ora incoraggiate ad avanzare, per addentrarsi nell’ombroso corridoio del serraglio.

Il vecchio stalliere privo di lingua era in ginocchio sulle piastrelle, piegato su se stesso, e singhiozzava, premendosi le mani prive dei pollici sul volto, col sangue che gli filtrava tra le dita. Nel sentire il rumore dei passi di Cazaril, l’ometto sollevò la testa con espressione disperata, la bocca contorta in una smorfia di sgomento. Oltrepassando di corsa le gabbie degli orsi, Cazaril intravide due masse nere inerti, crivellate di quadrelle e con la pelliccia imbrattata di sangue; sull’altro lato, i recinti dei velia erano aperti e le povere bestie giacevano tutte riverse su un fianco sulla paglia, con gli occhi aperti e fissi, e la gola tagliata.

Arrivando in fondo al corridoio, Cazaril vide infine il Royse Teidez che si stava sollevando dal corpo ormai inerte del leopardo. Puntellandosi sulla spada, il giovane si appoggiò su di essa col respiro affannoso, un’espressione di selvaggia esultanza dipinta sul volto, inconsapevole del manto d’ombra che gli vorticava intorno come un nembo temporalesco nel cielo notturno. «Ah!» esclamò il Royse, con un selvaggio sorriso, vedendo sopraggiungere Cazaril.

Il capitano delle guardie baociane, che aveva ancora in mano un piccolo uccello col collo spezzato; sbucò a precipizio dalla voliera per bloccare il passo a Cazaril; alle sue spalle, ammassi di penne colorate di tutte le dimensioni, uccelli morti o morenti, costellavano il pavimento della voliera, alcuni con le ali che ancora si agitavano in un ultimo rantolo.

«Fermo, Castillar…» tentò d’intimare il capitano, ma la voce gli si spense in gola quando Cazaril lo afferrò per la tunica e lo fece ruotare su se stesso, scagliandolo a terra davanti a Palli, che lo stava seguendo da presso con espressione attonita e sgomenta. Le sue labbra si muovevano, continuando a formulare le parole: «Lacrime del Bastardo, lacrime del Bastardo…» le stesse che lui mormorava a Gotorget nel corso delle battaglie, quando la sua spada si abbatteva sugli uomini che si arrampicavano lungo le scale d’assedio, e la stanchezza era tale da non lasciare fiato per le grida di guerra.

«Trattienilo», gli ringhiò Cazaril, da sopra la spalla, avanzando a grandi passi verso Teidez.

Gettando indietro il capo, il giovane Royse incontrò e sostenne il suo sguardo. «Adesso non potete più fermarmi… ce l’ho fatta!» esclamò. «Ho salvato il Roya!»

«Cosa… cosa… cosa…» balbettò Cazaril, così atterrito e furioso da non riuscire a formulare parole coerenti. «Stolto ragazzo! Quale sorta di follia distruttiva è mai questa…?» gridò infine, allargando le mani tremanti e indicando il massacro che aveva intorno.

«Ho infranto la maledizione, la magia nera che stava causando la malattia di Orico», ribatté Teidez, protendendosi in avanti con un sorriso soddisfatto. «Essa proveniva da questi animali malvagi… Erano un dono segreto dei roknari, inteso ad avvelenare lentamente il Roya. Adesso però li abbiamo sterminati e abbiamo ucciso la spia dei roknari… o almeno credo…» aggiunse, lanciandosi alle spalle un’occhiata dubbiosa.

Soltanto allora Cazaril notò l’ultimo corpo steso in fondo al corridoio. Umegat giaceva su un fianco, in un mucchio inerte, immobile al pari degli uccelli e dei velia, con accanto le carcasse delle volpi del deserto; in un primo tempo, non si era accorto di lui perché la limpida luce bianca che scaturiva dalla sua persona era spenta. Possibile che fosse davvero morto? Con un gemito, avanzò barcollando verso di lui e gli s’inginocchiò accanto: il lato sinistro della testa di Umegat era lacerato e la treccia di capelli brizzolati appariva arruffata e intrisa di sangue. La sua pelle era grigiastra quanto un vecchio straccio, ma il sangue filtrava ancora lentamente dalla ferita, quindi…

«Respira ancora?» domandò Teidez, avvicinandosi per sbirciare da sopra la spalla di Cazaril. «Quando si è rifiutato di lasciarci passare, il capitano lo ha colpito col pomo della spada…»

«Stolto, stolto, stolto ragazzo!»

«Non sono stolto! Era lui l’artefice di tutto questo», dichiarò Teidez, indicando Umegat. «Uno stregone roknari, inviato a prosciugare e a uccidere Orico.»

«Umegat è un Divino del Tempio», sibilò Cazaril. «È stato inviato qui dall’Ordine del Bastardo, perché si occupasse degli animali sacri, donati dal Dio per preservare Orico. Se non lo avete ucciso, è l’unica cosa positiva in questa carneficina.»

Per fortuna, sebbene le sue mani fossero gelide, Umegat respirava ancora, anche se in maniera affaticata e irregolare.

«No…» insistette Teidez, scuotendo il capo. «No, vi state sbagliando, non può essere…» Ma l’aria eroica ed esaltata cominciò a svanirgli dal volto.

Cazaril scattò in piedi, inducendo Teidez a indietreggiare leggermente e, nel girarsi, scoprì con sollievo che Palli lo aveva seguito, accompagnato da Ferda, il quale si stava guardando intorno con espressione stupefatta e inorridita.

Sapendo che l’amico avrebbe potuto prestare i primi soccorsi, Cazaril gli si rivolse: «Palli… Assumi il controllo qui e occupati degli stallieri feriti, soprattutto di questo, che potrebbe avere una frattura al cranio». E indicò Umegat. «Ferda», chiamò poi.

«Mio signore?»

«Corri al Tempio e trova l’Arcidivino Mendenal», gli ordinò Cazaril, certo che la divisa del giovane gli avrebbe consentito di entrare nei recinti sacri. «Devi vederlo immediatamente… Riferiscigli ciò che è successo qui, chiedendogli poi di mandare i medici del Tempio… In particolare, digli che Umegat ha bisogno di quella levatrice dell’Ordine della Madre, quella speciale. Lui capirà cosa intendo. Fa’ in fretta!»

«Dammi il tuo mantello e muoviti, ragazzo», aggiunse Palli, che si era già inginocchiato accanto a Umegat.

Gettato il proprio mantello al suo comandante, Ferda si girò di scatto e si allontanò prima che Palli avesse avuto il tempo di avvolgere l’indumento di lana grigia intorno al corpo del roknari.

Cazaril si concentrò su Teidez, il cui sguardo saettava all’intorno con crescente incertezza. Il giovane era indietreggiato verso la carcassa del leopardo: lo splendido pelo maculato nascondeva le ferite, contrassegnate soltanto dalle chiazze di sangue sui fianchi. Nel contemplare quell’animale, Cazaril si sorprese a ripensare al cadavere trafitto di dy Sanda.

«L’ho ucciso con la spada, perché era il simbolo regale della mia Casa, anche se era stregato», dichiarò Teidez. «L’ho fatto anche per mettere alla prova il mio coraggio… Quella bestia mi ha artigliato una gamba», aggiunse, chinandosi a massaggiarsi lo stinco destro, dove in effetti i calzoni neri apparivano laceri e insanguinati.

Teidez era l’Erede di Chalion, e il fratello di Iselle, quindi Cazaril non poteva — o almeno non doveva — desiderare che il felino gli avesse squarciato la gola. «Per i cinque Dei, come vi è venuta in mente un’assurdità del genere?» domandò.

«Non è un’assurdità! Sapevate anche voi che la malattia di Orico non aveva cause naturali! Ve l’ho letto in viso… Per i demoni del Bastardo, chiunque poteva accorgersene! Lord Dondo mi ha confidato il segreto, prima di morire. Io credo che sia stato assassinato proprio per impedire che questo segreto venisse alla luce, ma ormai era troppo tardi.»

«Avete elaborato da solo questo… piano di attacco?»

«No», rispose Teidez, sollevando il capo con fare orgoglioso. «Però, quando sono rimasto solo, l’ho portato a termine con le mie forze. Avremmo dovuto farlo insieme, dopo il matrimonio di Dondo con Iselle… Avremmo distrutto la maledizione e liberato la Casa di Chalion dalla sua malvagia influenza. Ma questo compito è ricaduto per intero sulle mie spalle, quindi io mi sono eletto a portabandiera di Dondo, ho deciso di essere il suo braccio, che dalla tomba si protendeva ancora una volta in difesa di Chalion!»

«Ah! Ah!» gemette Cazaril, talmente sopraffatto dallo sgomento da non riuscire ad articolare parola. Possibile che Dondo avesse creduto davvero a quelle assurdità? Oppure si trattava soltanto di un astuto piano per servirsi di Teidez, in una maniera indiretta e indimostrabile, e mettere così fuori combattimento o addirittura assassinare Orico? Malizia o stupidità? Con Dondo, chi poteva saperlo?

«Lord Cazaril, che ne dobbiamo fare di questi baociani?» domandò Foix, con una nota diffidente nella voce.

Sollevando lo sguardo, Cazaril vide che il capitano delle guardie baociane era stato disarmato ed era tenuto in custodia da Foix e da una delle guardie dello Zangre. «E voi!» gli ringhiò contro. «Voi, vi siete prestato a questo… stupido sacrilegio, senza dirlo a nessuno? Oppure siete ancora al servizio di Dondo? Ah! Prendete in custodia lui e i suoi uomini e chiudeteli in una cella finché…» Cazaril s’interruppe, riflettendo. Senza dubbio, dietro tutto quello c’era la mano di Dondo, che si stava protendendo dalla tomba per provocare caos e disastri, ma per una volta, lui aveva il sospetto che dietro Dondo non ci fosse l’appoggio di Martou… Anzi, se la sua supposizione era esatta, era esattamente l’opposto. «Teneteli in cella finché il Cancelliere non sarà stato informato», riprese. E, protendendo un braccio verso un’altra guardia, aggiunse: «Ehi, tu… Corri alla Cancelleria, o a Palazzo Jironal, od ovunque si trovi attualmente il Cancelliere, e informalo di quello che è successo, pregandolo di venire da me prima di recarsi da Orico.»

«Lord Cazaril, non potete ordinare l’arresto delle mie guardie!» protestò Teidez.

Unico tra i presenti ad avere la forza, se non l’autorità, per dare quella disposizione, Cazaril gridò: «Quanto a voi, andrete immediatamente nelle vostre camere, e ci resterete fino a nuovo ordine da parte di vostro fratello. Provvederò di persona ad accompagnarvi».

«Toglietemi le mani di dosso!» strillò Teidez, quando le dita di Cazaril gli strinsero un braccio in una presa ferrea. Ma, scorgendo l’espressione del Castillar non osò muoversi.

«No. Siete ferito, signore, e io ho il dovere di accompagnarvi da un medico», ribatté Cazaril, in tono falsamente cortese. Poi abbassando la voce, aggiunse: «Se ci sarò costretto, vi darò un colpo in testa e vi trascinerò di peso…»

«In tal caso, va’ con loro senza opporre resistenza», ordinò Teidez al suo capitano, cercando di suonare dignitoso. «Ti manderò a liberare più tardi, una volta che avrò dimostrato che Lord Cazaril è in errore.» Ma i due uomini stavano già scortando fuori il capitano e le parole di Teidez risultarono del tutto inutili.

Gli altri stallieri feriti si erano raccolti intorno a Palli e lo stavano aiutando a curare Umegat. Lanciando un’occhiata a Cazaril da sopra la spalla, Palli gli rivolse un rapido cenno di rassicurazione. Annuendo a sua volta, Cazaril rinsaldò la presa sul braccio di Teidez e, fingendo di sorreggerlo, lo sospinse fuori del serraglio trasformato in un mattatoio.

Troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi… Quell’angoscioso ritornello continuò a martellare nella mente di Cazaril a ogni passo. Fuori, i corvi avevano smesso di volteggiare e di stridere e stavano saltellando sull’acciottolato in preda all’agitazione, sbigottiti e disorientati quanto i pensieri del Castillar.

Cazaril spinse Teidez oltre il portone dello Zangre, da cui soltanto ora stavano uscendo altre guardie. Il giovane aveva smesso di protestare, ma la sua espressione cupa, rabbiosa e offesa non lasciava presagire nulla di buono per il futuro di Cazaril. Inoltre camminava facendo leva anche sulla gamba ferita, lasciando a ogni passo impronte insanguinate sull’acciottolato del cortile.

Una delle dame di compagnia di Sara e un paggio apparvero sulla porta della Torre di Ias.

«Presto, corri!» ingiunse la donna al ragazzo, che si mise a correre, pallidissimo in volto, andando quasi a sbattere contro Cazaril.

«Dove vai così di fretta, ragazzo?» gli gridò dietro lui.

Girandosi, il paggio si concesse appena un istante per rispondere. «Al Tempio, mio signore. Non oso indugiare… la Royina Sara… il Roya ha avuto un collasso!» Il paggio si allontanò alla massima velocità, saettando davanti alle guardie che lo fissarono per un momento e spostarono poi lo sguardo, pieno d’improvviso disagio, verso la Torre di Ias.

Sotto la stretta di Cazaril, il braccio di Teidez perse d’un tratto ogni tensione e, negli occhi corrucciati del ragazzo, cominciò ad affiorare un’espressione spaventata, mentre lui scoccava una guardinga occhiata in tralice al suo «custode». Dopo un momento d’indecisione, e senza lasciar andare il Royse, Cazaril si volse di scatto, dirigendosi alla Torre di Ias. Accelerò il passo per raggiungere la dama di compagnia, che nel frattempo era rientrata, e lanciò alcuni richiami che lei, dalle scale, non parve sentire. Quando infine arrivò al terzo piano, dove si trovavano le camere di Orico, Cazaril ansimava. Scrutò con apprensione il corridoio centrale, lungo il quale vide sopraggiungere con passo affrettato la Royina Sara, avvolta nel suo scialle bianco e seguita da una dama di compagnia.

«Mia signora, cos’è successo? Posso esservi d’aiuto?» le chiese Cazaril, inchinandosi, quando lei arrivò all’altezza della scala.

«Non lo so ancora, Castillar», rispose la Royina, spaventata, portandosi una mano al volto. «Orico… Stava leggendo ad alta voce per me, nelle mie camere, mentre io cucivo, cosa che fa talvolta per tenermi compagnia… Ma all’improvviso ha smesso e si è sfregato gli occhi, lamentandosi che non riusciva più a vedere le parole perché la stanza si era fatta buia… il che non era vero! Poi è caduto dalla sedia. Ho chiamato le mie dame, lo abbiamo messo a letto, e ho fatto convocare un medico del Tempio.»

«Ho visto il paggio reale», le confermò Cazaril. «Stava correndo più in fretta che poteva.»

«Oh, bene…»

«Credete che si sia trattato di un colpo apoplettico?»

«Non penso… non lo so. Riesce a parlare un poco, e il suo respiro non è troppo affaticato… Cos’erano quelle grida che arrivavano dalle stalle?» chiese Sara e, senza attendere risposta, oltrepassò Cazaril, avviandosi sulle scale.

Cinereo in volto, Teidez si umettò le labbra, ma non proferì parola quando Cazaril lo fece girare e lo condusse di nuovo nel cortile, un silenzio che si protrasse finché i due non cominciarono a salire le scale del corpo principale del castello.

«Non è possibile», ripeté infine il Royse, con un filo di voce. «Dondo mi ha detto che il serraglio era un’opera di magia nera, una maledizione roknari per tenere Orico malato e debole, e ho visto io stesso che era davvero così…»

«In effetti esiste una maledizione roknari, ma il serraglio è un miracolo bianco che la contrasta e mantiene ugualmente in vita Orico… o almeno lo era, fino a ora», ribatté Cazaril.

«No… no, è tutto sbagliato. Dondo mi ha detto…»

«Dondo era in errore… Oppure desiderava accelerare la sostituzione di un Roya che favoriva suo fratello con un Roya che avrebbe favorito lui stesso.»

Teidez socchiuse le labbra come per protestare, ma non emise suono. Notando la sua espressione sconvolta, Cazaril si convinse che il giovane non stava mentendo. L’unica cosa positiva di quella giornata era che Dondo, pur avendo ingannato Teidez, non sembrava averlo corrotto, almeno non al punto d’indurlo a prestarsi spontaneamente a un fratricidio. No, Teidez era soltanto uno strumento, non un complice consapevole, ma purtroppo si trattava di uno strumento che aveva continuato a funzionare anche dopo la scomparsa della mano che lo impugnava. E di chi è la colpa, se quel ragazzo ha creduto a una quantità di menzogne, se non di chi si è rifiutato di dirgli la verità? rifletté.

Quando infine spinse il ragazzo nelle sue stanze, il suo pallido segretario-tutore sollevò con sorpresa lo sguardo dalla scrivania. «Prendetevi cura del vostro padrone, che è ferito», ingiunse Cazaril. «Badate che non lasci questo edificio finché il Cancelliere dy Jironal non sia stato informato dell’accaduto e non gli abbia dato il permesso di uscire dai suoi alloggi. Se sapevate di questo abominio e non avete fatto nulla per impedirlo, credo che il Cancelliere s’infurierà con voi», concluse, con una nota di acida soddisfazione.

Mentre il segretario impallidiva, confuso, Cazaril si volse per tornare al serraglio e verificare le condizioni di Umegat.

«Lord Cazaril!» lo richiamò Teidez, con un tremito nella voce. «Cosa devo fare?»

«Pregate», ringhiò Cazaril, da sopra la spalla, oltrepassando la soglia.

18

Nel raggiungere la base delle scale, Cazaril sentì un rumore di piedi femminili che scendevano in fretta i gradini. Era Lady Betriz che cercava di raggiungerlo, tra un frusciare di gonne color lavanda. «Lord Cazaril! Cosa sta succedendo? Abbiamo sentito gridare… Una delle cameriere afferma che il Royse Teidez è impazzito e ha cercato di uccidere gli animali del Roya!»

«Non è pazzo… Credo sia stato ingannato. E non ci ha provato… ci è riuscito», precisò Cazaril, riassumendo con quelle amare parole tutto l’orrore che si era scatenato nel serraglio.

«Ma perché?» sussurrò Betriz, con voce arrochita dallo sgomento.

«Da ciò che sono riuscito a stabilire, tutto è nato da una menzogna di Lord Dondo», replicò Cazaril, scuotendo il capo. «Ha convinto il Royse che Umegat era un mago roknari e che stava usando in qualche modo gli animali per avvelenare il Roya, mentre era esattamente il contrario: gli animali mantenevano in vita Orico, il quale ha avuto un collasso. Per i cinque Dei, non vi posso spiegare tutto qui sulle scale. Riferite alla Royesse Iselle che andrò da lei al più presto, ma che prima mi devo occupare degli stallieri feriti. E state lontane… Tenete Iselle lontana dal serraglio.» Poi pensò che sarebbe stato meglio assegnare qualche compito a Iselle e aggiunse: «Andate a tenere compagnia a Sara, tutte e due. Quella poveretta è sconvolta». Riprese a scendere le scale, oltrepassando il punto in cui in precedenza era stato — deliberatamente? — tenuto lontano dal serraglio dagli spasmi al ventre. A quanto pareva, lo spettro di Dondo non stava facendo nulla per bloccarlo, adesso.

Giunto al serraglio, vide che Palli e i suoi uomini avevano già provveduto a trasportare Umegat e gli altri stallieri feriti più gravemente all’ospedale della Madre. All’interno, l’unico inserviente rimasto stava cercando invano di catturare un isterico uccellino giallo e azzurro, che era in qualche modo sfuggito al capitano delle guardie baociane e si era rifugiato sulle travi del tetto; nel frattempo, alcuni servitori che lavoravano nelle stalle erano giunti lì per dare una mano, e uno di essi si era tolto il tabarro, con cui stava cercando di colpire e di far cadere il volatile.

«Smettila!» ingiunse Cazaril, reprimendo un’ondata di panico, dato che, per quanto ne sapeva, quella piccola creatura piumata poteva essere l’ultimo filo che teneva in vita Orico. Incaricò quegli aiutanti improvvisati di rimuovere le carcasse degli animali uccisi, adagiandole nel cortile delle stalle, e di ripulire il sangue che macchiava le piastrelle. Raccolta una manciata di chicchi di grano avanzati dall’ultimo, interrotto pasto dei velia, cercò di convincere l’uccellino a scendergli sulla mano, chiamandolo con gli stessi versi ciangottanti che aveva sentito usare a Umegat. Con sua sorpresa, il volatile scese subito da lui e si lasciò rimettere nella gabbia. «Proteggilo a prezzo della vita», ingiunse allora Cazaril allo stalliere e, accigliandosi per dare maggior enfasi alle proprie parole, aggiunse: «Se dovesse morire, morirai anche tu».

Si trattava di una minaccia alla quale il Castillar non avrebbe mai dato corso, però l’uomo sembrò piuttosto impressionato. Cazaril tuttavia non poté fare a meno di chiedersi se la morte dell’uccello avrebbe causato davvero anche quella di Orico. D’un tratto quella concatenazione gli sembrava spaventosamente plausibile.

Lasciata la voliera, Cazaril si diresse verso i garzoni che stavano trascinando fuori le pesanti carcasse dei due orsi.

«Dobbiamo scuoiarli, mio signore?» domandò uno dei giovani, fissando le vittime dell’infernale caccia organizzata da Teidez.

«No!» esclamò Cazaril, notando che i pochi corvi di Fonsa rimasti non accennavano ad avvicinarsi alle carcasse insanguinate, pur adocchiandole con evidente interesse. «Trattateli come fareste con soldati del Roya caduti in battaglia. Bruciateli o seppelliteli, ma ricordate che non devono essere scuoiati… e neppure mangiati, per amore degli Dei!» Deglutendo a fatica, si chinò per aggiungere alla fila dei corpi anche i due corvi morti, e aggiunse: «Per oggi sono già stati commessi fin troppi sacrilegi». Sempre sperando che Teidez non avesse ucciso anche un santo, oltre agli animali sacri.

Un martellare di zoccoli annunciò l’arrivo di Martou dy Jironal, che era stato probabilmente rintracciato a Palazzo Jironal. Era seguito da quattro servitori, affannati per via della corsa su per la collina. Sceso di sella, il Cancelliere affidò il cavallo, innervosito dall’odore del sangue, alle cure di uno stalliere e avanzò sino alla fila di animali morti. Per un momento, le sue labbra si mossero a vuoto, senza articolare parola. «Che follia è mai questa?» chiese infine, sollevando su Cazaril uno sguardo sconcertato e insospettito. «Siete stato voi a indurre Teidez a fare una cosa del genere?»

Osservandolo, Cazaril si convinse che dy Jironal non stava fingendo, e che era davvero sconvolto. «Io? No! Non ho nessun controllo su Teidez», ribatté. «E a quanto pare non ne avete neppure voi, considerato che lui è rimasto sempre in vostra compagnia per le ultime due settimane. Possibile che non abbia tradito in nessun modo le sue intenzioni?»

Dy Jironal scosse il capo.

«A sua difesa, Teidez ha addotto un’idea assai confusa, secondo la quale un simile atto era inteso ad aiutare il Roya. Che lui non abbia avuto maggiore buon senso è da mettere in relazione con la sua giovane età, però… Orico e voi non gli siete certo stati d’aiuto: se fosse stato messo al corrente della verità, non si sarebbe lasciato imbottire di menzogne. Ho fatto rinchiudere in cella le sue guardie baociane e l’ho confinato nel suo alloggio, in attesa… dei vostri ordini.» Cazaril sapeva che, dal Roya, non sarebbero più giunti ordini.

«Un momento», ribatté dy Jironal, abbozzando un gesto secco. «Ieri, il Royse è rimasto a lungo a colloquio con sua sorella, in privato. Non è possibile che sia stata lei a dargli questa idea?»

«Ci sono cinque testimoni che possono negarlo, incluso lo stesso Teidez, che comunque ieri non ha dimostrato in nessun modo di avere in mente una cosa del genere.» O, meglio, non lo ha dimostrato quasi in nessun modo, pensò Cazaril.

«Il controllo che esercitate sulla Royesse Iselle è troppo assoluto», scattò dy Jironal. «Credete che non sappia chi ha incoraggiato il suo atteggiamento di sfida? Non riesco a capire quale sia il motivo del suo pernicioso attaccamento nei vostri confronti, ma è un legame che ho intenzione di troncare.»

«Già», replicò Cazaril, a denti stretti. «La scorsa notte, dy Joal ha cercato di usare il coltello in vostra vece, ma adesso sa che la prossima volta dovrà chiedervi di più per i suoi servigi, perché si tratta di un lavoro rischioso.» Un bagliore di comprensione affiorò nello sguardo di dy Jironal e, nel notarlo, Cazaril si costrinse a trarre un profondo respiro per controllarsi. Quella situazione stava facendo affiorare in maniera troppo netta l’ostilità tra loro… e l’ultima cosa di cui lui aveva bisogno era trovarsi al centro dell’attenzione di dy Jironal. «In ogni caso, chi sia il responsabile non è un mistero: Teidez afferma che il vostro caro fratello Dondo aveva complottato questa follia con lui, prima di morire.»

Dy Jironal indietreggiò di un passo, sgranando gli occhi.

«E adesso, mi piacerebbe veramente sapere una cosa… E la chiedo a voi, dato che vi trovate nella posizione di conoscere la risposta… Dondo era al corrente di ciò che il serraglio faceva per Orico?» chiese Cazaril.

«Voi che ne sapete?» ribatté dy Jironal, fissandolo negli occhi.

«Ormai è una cosa di dominio pubblico, allo Zangre, dato che Orico è stato colpito da improvvisa cecità ed è crollato dalla sedia nel momento stesso in cui le sue creature morivano. Sara e le sue dame lo hanno messo a letto, mandando poi a chiamare i medici del Tempio», rispose Cazaril, eludendo la domanda. Dy Jironal impallidì e si girò di scatto, avviandosi verso i cancelli dello Zangre, senza soffermarsi a chiedere notizie di Umegat.

Cazaril rifletté che il Cancelliere doveva sapere qual era l’effetto del serraglio, ma si chiese altresì se avesse compreso come funzionava la cosa. Scuotendo il capo, perplesso, si avviò nella direzione opposta a quella presa dal Cancelliere, affrontando un altro stancante tragitto fino in città.

A Cardegoss, il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre era stato ricavato in una vasta e antica dimora, lasciata in eredità all’Ordine da una pia vedova, e sorgeva nella strada retrostante la Piazza del Tempio, alle spalle della Casa della Madre. Addentratosi in quella sorta di labirinto, Cazaril rintracciò Palli e Umegat in una galleria del secondo piano, al di sopra di un cortile interno, individuando infine la camera grazie alla presenza dei fratelli dy Gura, di guardia davanti alla porta chiusa. Al suo arrivo, i due lo salutarono e lo lasciarono entrare.

Trovò Umegat ancora privo di sensi, disteso su un letto con accanto una donna dai capelli bianchi, che indossava le vesti verdi di un medico del Tempio, intenta a ricucire la lacerazione al cuoio capelluto. Era assistita dalla familiare Devota di mezz’età dall’aria triste, avvolta in un chiarore iridescente che non aveva nulla a che vedere col verde delle sue vestì, una luce che Cazaril era in grado di scorgere anche con gli occhi chiusi. L’Arcidivino di Cardegoss in persona, abbigliato con le consuete vesti a cinque colori, era fermo accanto al letto, mentre Palli se ne stava appoggiato alla parete con le braccia conserte. Quando vide Cazaril, il volto gli si rasserenò e lui si mosse per andargli incontro.

«Come sta?» mormorò Cazaril.

«Quel poveretto è ancora svenuto», rispose Palli. «Deve aver ricevuto un colpo davvero violento. Come vanno le cose, al castello?»

Mentre Cazaril gli riferiva la notizia dell’improvviso collasso di Orico, l’Arcidivino Mendenal si avvicinò per ascoltare, e il medico lanciò loro un’occhiata da sopra la spalla. «Siete stato informato di quanto è successo, Arcidivino?» chiese infine.

«Oh, sì. Raggiungerò i medici di Orico allo Zangre non appena mi sarà possibile», rispose Mendenal.

Se pure era incuriosito dal fatto che uno stalliere ferito meritasse l’interessamento dell’Arcidivino più del Roya, il medico non lo diede a vedere se non con un lieve inarcarsi delle sopracciglia. Applicato l’ultimo punto, immerse un panno in una bacinella per lavare via le incrostazioni di sangue dalla tempia rasata, poi si asciugò le mani, sollevò le palpebre di Umegat per controllare gli occhi, rovesciati all’indietro nelle orbite, e si raddrizzò, cedendo il posto alla levatrice della Madre, che provvide a raccogliere la treccia sinistra tagliata a Umegat e il resto delle attrezzature, ripulendo la stanza.

«Allora?» domandò l’Arcidivino Mendenal al medico, serrandosi le mani con fare ansioso.

«Il cranio non risulta fratturato al tatto e lascerò la ferita scoperta per meglio controllare eventuali emorragie o segni di gonfiore. Per il momento, non posso dire altro, finché non si sveglierà. Fino ad allora, possiamo solo tenerlo al caldo e sorvegliarlo.»

«Quando pensate che si riprenderà?»

Il medico si girò a fissare il paziente con aria dubbiosa, imitato da Cazaril. Curato e schizzinoso com’era abitualmente, Umegat avrebbe detestato vedersi arruffato, rasato a metà e del tutto inerte. La sua pelle aveva ancora un colore grigiastro che, a causa della sua dorata carnagione roknari, lo faceva somigliare a uno straccio sporco, e il respiro era affaticato, il che non era un buon segno. Sul campo, Cazaril aveva visto uomini nelle sue condizioni riprendersi e guarire, ma ne aveva anche visti molti altri morire.

«Non sono in grado di dirlo», replicò infine il medico, con una diagnosi che corrispondeva a quella di Cazaril.

«Allora lasciateci soli. Per ora, provvederà l’Accolita a vegliarlo.»

«Sì, Vostra Reverenza», annuì il medico, inchinandosi, poi prese i suoi strumenti e, rivolta alla levatrice, ordinò: «Mandami a chiamare immediatamente se dovesse svegliarsi, o se insorgesse la febbre, o nel caso sia assalito dalle convulsioni».

«Lord dy Palliar, vi ringrazio per il vostro aiuto», disse l’Arcidivino. «Lord Cazaril, per favore, trattenetevi ancora un momento.»

«Non c’è di che, Vostra Reverenza», replicò Palli. Dopo un momento, rendendosi conto che gli era stato chiesto di andarsene, aggiunse: «Ah… Caz, se non hai bisogno di altro…?»

«Per ora no.»

«In tal caso, forse è bene che faccia ritorno alla Casa della Figlia. Se avessi bisogno di qualcosa, mandami a chiamare là, o a Palazzo Yarrin, e ti raggiungerò subito. Inoltre, non dovresti andare in giro da solo», aggiunse, scoccandogli un’occhiata severa, per accertarsi che le sue parole venissero interpretate come un ordine e non come un mero suggerimento. Inchinatosi a sua volta, aprì la porta e lasciò uscire per primo il medico, avviandosi per seguirlo.

Non appena il battente si fu richiuso, Mendenal si girò verso Cazaril, le mani protese in un atteggiamento di supplica. «Lord Cazaril, cosa dobbiamo fare?»

«Per i cinque Dei, voi lo chiedete a me?» esclamò Cazaril.

«Lord Cazaril… Io sono Arcidivino di Cardegoss da appena due anni, e credo di essere stato scelto perché sono un buon amministratore, ma anche per compiacere la mia famiglia, considerato che mio padre e mio fratello sono stati potenti Provincar», replicò l’Arcidivino, con un sorriso contrito. «Sono stato votato all’Ordine del Bastardo quando avevo quattordici anni, con una sostanziosa dote elargita da mio padre per garantire il mio sostentamento e la mia carriera. Da allora, ho servito fedelmente gli Dei per tutta la mia vita, però… essi non mi parlano.» Spostò lo sguardo sulla levatrice dell’Ordine della Madre, con una strana espressione di disperata invidia, benché priva di qualsiasi ostilità. «Quando un uomo devoto ma comune si viene a trovare nella stessa stanza con tre santi, chiede istruzioni e non finge d’impartirne, se gli rimane un po’ di buon senso.»

«Io non sono…» cominciò Cazaril, ma si costrinse a soffocare quella protesta. La definizione teologica della sua condizione non era certo una priorità, in quel momento… Be’, una cosa, però, era certa: se il suo era uno stato di santità, allora gli Dei avevano superato loro stessi nell’inventare forme di dannazione. «Onorevole Accolita… Chiedo scusa, ma ho dimenticato come vi chiamate…»

«Io sono Clara, Lord Cazaril.»

«Accolita Clara», riprese Cazaril, con un accenno d’inchino, «riuscite a scorgere… il bagliore di Umegat? Io non ho mai avuto modo di vederlo quando… Voglio dire, il bagliore scompare se si dorme o si è svenuti?»

«Gli Dei sono con noi quando dormiamo e quando vegliamo, Lord Cazaril», replicò Clara, scuotendo il capo. «Senza dubbio non ho una vista potente quanto la vostra, ma… Sì, il Bastardo ha ritratto la sua presenza dall’Erudito Umegat.»

«Oh, no», sussurrò Mendenal.

«Ne siete certa?» insistette Cazaril. «Non potrebbe trattarsi di un difetto della mia, e della vostra, seconda vista?»

«No», ribatté lei, sussultando leggermente. «Riesco a vedere la vostra luce con la massima chiarezza. L’ho scorta prima ancora che voi varcaste la porta, e adesso mi riesce quasi doloroso restare nella stessa stanza con voi.»

«Questo significa che il miracolo del serraglio è stato infranto?» domandò Mendenal ansiosamente, indicando lo stalliere svenuto. «Che adesso non abbiamo più nessun argine con cui frenare la nera marea della maledizione?»

«Umegat non ospita più il miracolo», replicò Clara, in tono esitante. «Tuttavia non posso sapere se il Bastardo lo ha trasferito presso la volontà di qualcun altro.»

«La sua, magari?» insistette Mendenal, girandosi a fissare Cazaril con aria speranzosa.

L’Accolita fissò Cazaril con espressione accigliata, sollevando una mano verso la fronte come per schermarsi gli occhi.

«Se sono una santa, come mi ha classificata l’Erudito Umegat, sono soltanto una piccola santa domestica. Infatti, se, nel corso degli anni, la tutela di Umegat non avesse acuito le mie percezioni, avrei continuato a credere di essere semplicemente dotata di una fortuna insolita nell’esercizio della mia professione.»

Suo malgrado, Cazaril non poté fare a meno di pensare che, da quando si era venuto a trovare nel labirinto intessuto dagli Dei, la fortuna non era certo stata l’aspetto più saliente delle sue esperienze.

«Peraltro, la Madre si protende per mio tramite solo di tanto in tanto, per poi passare oltre, mentre Lord Cazaril… risplende, fin dalla prima volta che l’ho visto, al funerale di Lord Dondo. Si tratta della luce bianca del Bastardo e del limpido chiarore azzurro della Signora della Primavera, presenti in contemporanea… La costante, vivente presenza di due Dei, è mescolata a un’altra cosa oscura che non riesco a distinguere, ma che Umegat era in grado di vedere con maggiore chiarezza. Se il Bastardo ha aggiunto dell’altro a quanto già c’era, io non sono in grado di stabilirlo.»

L’Arcidivino si toccò la fronte, le labbra, il ventre, l’inguine e il cuore, allargando le dita e fissando Cazaril con espressione quasi avida. «Due Dei… contemporaneamente presenti, in questa stanza!» sussurrò.

Cazaril s’incurvò leggermente in avanti e serrò i pugni, orribilmente consapevole della pressione esercitata contro la sua cintura dal gonfiore che si trovava sotto di essa. «Umegat non vi ha spiegato che cosa ho fatto a Lord Dondo?» domandò. «Avete parlato con Rojeras?»

«Sì, certo, Umegat mi ha informato, e ho parlato anche con Rojeras: è un brav’uomo, ma naturalmente non ha potuto comprendere…»

«Capisce meglio di voi. Io porto nel ventre morte e assassinio, un abominio che, per quanto ne so, sta forse assumendo una forma fisica accanto a quella psichica, generata da un demone e dallo spirito dannato di Dondo dy Jironal. Tutte le notti, lo spettro mi inveisce contro, con la voce di Dondo, usando il suo vocabolario più infimo… e da vivo Dondo aveva un modo di parlare decisamente ignobile. E questo abominio non ha via d’uscita, se non sventrandomi. Non è una cosa santa, è disgustoso!»

Di fronte a quella veemenza, Mendenal indietreggiò di un passo, interdetto.

«Inoltre faccio sogni orribili», proseguì Cazaril, stringendosi la testa fra le mani. «Ho intollerabili fitte di dolore al ventre e sono soggetto a crisi d’ira incontrollabile, tanto che comincio a temere che Dondo mi stia contagiando.»

«Oh, povero me», gemette Mendenal. «Non ne avevo idea, Lord Cazaril. Umegat mi ha detto soltanto che voi eravate un po’ nervoso e spaventato, e che era meglio lasciarvi a lui.»

«Nervoso e spaventato», ripeté Cazaril, con voce opaca. «A proposito, ho accennato agli spettri?» aggiunse. Il fatto che essi gli sembrassero la minore delle sue preoccupazioni doveva certo essere indice di… qualcosa.

«Gli spettri?» gli fece eco Mendenal, perplesso.

«Tutti gli spettri presenti allo Zangre mi seguono in giro per il castello e si raccolgono di notte intorno al mio letto.»

«Oh», sussurrò Mendenal, d’un tratto preoccupato. «Ah.»

«Ah?»

«Umegat non vi ha messo in guardia, riguardo agli spettri?» domandò l’Arcidivino.

«No… ha detto che non potevano recarmi danno.»

«Ecco, sì e no. Non possono recarvi danno finché siete vivo. Tuttavia, da ciò che ha spiegato Umegat, il miracolo operato dalla Signora ha ritardato il realizzarsi del miracolo del Bastardo, non lo ha annullato. Ne consegue che se… Ecco, se la Signora aprisse la sua mano, e il demone volasse via con la vostra anima e con quella di Dondo, questo lascerebbe il vostro corpo in uno stato di… vuoto teologico, una condizione pericolosa che non corrisponde alla morte naturale. A quel punto, gli spettri degli esclusi e dei dannati cercherebbero di… insediarsi in esso.»

«E mai capitato che ci riuscissero?» domandò Cazaril, dopo una pausa carica di tensione.

«Può accadere. Quand’ero ancora un giovane Divino, ho assistito a un caso del genere. Questi spettri degradati sono creature stupide e apatiche, ma, una volta che s’impossessano di un corpo, scacciarle può essere alquanto difficile. Vedete, il corpo in questione dev’essere bruciato… vivo non è certo il termine adatto, però si tratta di una scena davvero spiacevole, soprattutto se i parenti del morto non capiscono cosa sta succedendo, perché, ovviamente, il cadavere urla con la voce del defunto… Se dovesse succedere, per voi non sarebbe un problema, giacché ormai sareste altrove. Tuttavia potreste risparmiare ad altri una serie di dolorosi fastidi se vi accertaste di avere sempre accanto qualcuno consapevole della necessità di bruciare il vostro corpo prima del tramonto…» Mendenal tacque, assumendo un’aria contrita.

«Ringrazio Vostra Reverenza», commentò Cazaril, con esagerata cortesia. «Qualora dovessi incorrere nel remoto pericolo di godere di una notte di sonno tranquillo, aggiungerò questa spiegazione alla teoria di Rojeras, secondo cui il demone si starebbe costruendo un nuovo corpo all’interno del mio tumore, preparandosi a sbranarmi dall’interno. Suppongo comunque che non ci sia motivo per cui non possano accadere entrambe le cose, l’una dopo l’altra.»

«Mi dispiace, mio signore, ma ho pensato che doveste saperlo», replicò Mendenal, schiarendosi la gola.

«Sì… suppongo di sì», sospirò Cazaril, poi sollevò la testa, ricordando d’un tratto la scena verificatasi la notte precedente con dy Joal, e aggiunse: «È possibile… Supponiamo che la presa della Signora si allenti appena un poco… In quel caso, è possibile che l’anima di Dondo filtri nella mia?»

«Io non… Umegat saprebbe dirvelo», replicò Mendenal, inarcando le sopracciglia. «Oh, quanto vorrei che si svegliasse. Suppongo comunque che, per Dondo, quello sarebbe un modo più rapido per procurarsi un corpo, piuttosto che generarne uno all’interno di un tumore, in quanto si tratterebbe di un contenitore troppo piccolo», proseguì, abbozzando un gesto incerto.

«Non secondo Rojeras», commentò seccamente Cazaril.

«Ah, povero Rojeras», mormorò Mendenal, passandosi una mano sulla fronte. «Quando gli ho chiesto di voi, ha creduto che stessi manifestando un improvviso interesse per la sua specializzazione; gli ho lasciato questa convinzione, ma ho temuto che continuasse a parlare per metà della notte. Alla fine, ho dovuto promettergli di sovvenzionare le sue ricerche, pur di sottrarmi a una visita alla sua collezione.»

«Anch’io sarei disposto a pagare per evitare una cosa del genere», convenne Cazaril. «Vostra Reverenza… come mai non sono stato arrestato per l’assassinio di Dondo? Come ha fatto Umegat a evitarmi una condanna?»

«Assassinio? Non c’è stato nessun assassinio.»

«Chiedo scusa, ma quell’uomo è morto per mia mano, mediante magia di morte, atto che costituisce un crimine passibile di pena capitale.»

«Ah, sì, ora capisco. Gli ignoranti hanno una lunga serie d’idee errate in merito alla magia di morte, considerato che perfino il suo nome è sbagliato. Si tratta di una sottile sfumatura teologica. Tentare la magia di morte costituisce un crimine di premeditazione, di cospirazione, mentre una magia di morte coronata da successo non è affatto una magia di morte, bensì un miracolo di giustizia. Di conseguenza, essa non può essere considerata un crimine, perché è la mano del Dio a portar via la vittima. Insomma, il Roya non può certo mandare le sue guardie ad arrestare il Bastardo, giusto?»

«E credete che l’attuale Cancelliere di Chalion capirebbe questa distinzione?»

«Ah… no. È stato per questo che Umegat ha suggerito che il Tempio gestisse con la massima discrezione questa… faccenda molto complicata», spiegò Mendenal, grattandosi una guancia con aria sempre più preoccupata. «Inoltre, prima d’ora non era mai capitato che chi implorava un simile atto di giustizia sopravvivesse al miracolo e la distinzione, rimanendo sul piano teorico, era molto più nitida. Due miracoli… Non ho mai pensato che si potessero verificare due miracoli, è una cosa senza precedenti. La Signora della Primavera deve amarvi molto.»

«Come un mercante ama il mulo che trasporta il suo bagaglio, frustandolo per pungolarlo a superare gli alti passi montani», ribatté Cazaril, con amarezza.

L’Arcidivino assunse un’aria sgomenta, ma Clara abbozzò un sorriso di apprezzamento. Umegat avrebbe riso apertamente. Cazaril stava cominciando a capire per quale motivo Umegat amasse conversare con lui della loro condizione: soltanto i santi parlavano in quel modo degli Dei, giacché, su quell’argomento, ci si poteva scherzare sopra oppure mettersi a gridare di terrore. Tanto gli Dei avrebbero accolto con la stessa indifferenza entrambe le reazioni.

«Tuttavia Umegat era d’accordo con me in merito al fatto che una situazione così straordinaria doveva avere uno scopo altrettanto straordinario», obiettò Mendenal. «Non avete idea di cosa possa essere?»

«Io non so nulla, Arcidivino», replicò Cazaril, con voce tremante. «E ho…»

«Sì?» lo incoraggiò Mendenal.

Se lo dico ad alta voce, mi cederanno definitivamente i nervi,pensò Cazaril. Umettandosi le labbra, deglutì a fatica e infine si costrinse a completare la frase, con voce ridotta a un sussurro roco. «Ho molta paura»,confessò.

«Oh», mormorò l’Arcidivino, dopo un lungo momento di silenzio. «Ah… Sì, capisco che debba essere… Oh, se solo Umegat si svegliasse!»

«Mio signore dy Cazaril?» chiamò in quel momento l’Accolita della Madre, schiarendosi la gola con aria diffidente.

«Sì, Clara?»

«Credo di avere un messaggio per voi.»

«Come?»

«La scorsa notte, la Madre mi ha parlato in sogno. Non ne ero certa, perché, quando dormo, il mio cervello elabora fantasie sulla base di ciò che maggiormente occupa i miei pensieri, e io penso prevalentemente a lei. Per questo motivo, oggi avevo intenzione di parlarne con Umegat, per farmi guidare dai suoi consigli. In ogni caso, lei mi ha detto…» Trasse un profondo respiro, poi il suo viso si rasserenò. «Ha detto: ’Avverti il fedele corriere di mia Figlia di guardarsi soprattutto dalla disperazione’.»

«Sì?» commentò Cazaril, dopo un momento. «E…?» Se proprio gli Dei volevano prendersi il disturbo di mandargli un messaggio tramite i sogni di altre persone, avrebbe preferito qualcosa di meno ermetico!

«Questo è tutto.»

«Ne siete certa?» chiese Mendenal.

«Ecco… Potrebbe aver detto il fedele ’cortigiano’ di mia Figlia, o ’siniscalco’ o ’capitano’ o anche tutte e quattro le cose… Quella parte è offuscata, nella mia memoria.»

«In tal caso, chi sono gli altri tre uomini?» insistette Mendenal, perplesso.

Le parole della donna riecheggiavano quelle che la Provincara gli aveva rivolto a Valenda ed ebbero l’effetto di generare un senso di gelo nel ventre dolente di Cazaril. «Io… Sono io, Arcidivino, si tratta di me», disse. Con un inchino all’Accolita e a fatica, aggiunse: «Vi ringrazio, Clara. Pregate la vostra Signora per me».

L’Accolita rispose con un silenzioso sorriso pieno di comprensione e con un lieve cenno del capo.

Lasciata Clara a vegliare su Umegat, l’Arcidivino annunciò la sua intenzione di recarsi presso il Roya Orico e, con timida diffidenza, invitò Cazaril ad accompagnarlo fino allo Zangre. Grato per l’offerta, Cazaril lo seguì, scoprendo che l’ira e il terrore si erano da tempo esauriti, lasciandolo spossato e debole, al punto che, nello scendere le scale della galleria, le ginocchia gli cedettero e lui riuscì a impedire una rovinosa caduta soltanto aggrappandosi alla ringhiera. Con suo estremo imbarazzo, Mendenal insistette allora per farlo trasportare in cima alla collina sulla propria portantina, retta da quattro robusti Devoti, procedendo a piedi accanto a lui. Per tutto il tragitto, Cazaril si sentì uno stupido, e gli parve di attirare l’attenzione generale, ma dovette ammettere di provare anche un immenso senso di gratitudine.

Il colloquio che Cazaril aveva maggiormente temuto ebbe luogo soltanto dopo cena. Convocato tramite un paggio, salì con riluttanza nel salotto della Royesse, dove Iselle lo attendeva con aria tesa, insieme con Betriz. Neppure tutte le candele che ardevano nei supporti a specchio appesi alle pareti riuscivano a dissipare l’ombra scura che la circondava.

«Come sta Orico?» chiese Cazaril alle due dame, in tono ansioso, nel prendere posto sullo sgabello indicatogli da Iselle. Sapeva che non erano scese a cenare nella sala dei banchetti, rimanendo in compagnia della Royina e del malato Roya.

«Stasera pareva più calmo, soprattutto quando ha scoperto di non essere del tutto cieco… con l’occhio destro riesce a vedere la fiamma di una candela», rispose Betriz. «Peraltro non sta urinando adeguatamente e il suo medico pensa che ci sia il rischio d’idropisia. Senza dubbio, appare terribilmente gonfio.»

«Siete riuscita a vedere Teidez?» domandò ancora Cazaril, accennando col capo in direzione della Royesse.

«Sì, dopo che il Cancelliere dy Jironal lo ha strigliato per bene», sospirò Iselle. «Teidez era troppo sconvolto per essere razionale… Se fosse più giovane lo avrei accusato di essere soltanto capriccioso. Mi dispiace che ormai sia troppo cresciuto per poterlo prendere a schiaffi. Rifiuta di mangiare, scaglia oggetti, contro i servitori e, ora che ha il permesso di lasciare le sue camere, rifiuta di uscire. Quando si comporta così, bisogna lasciarlo stare. Domattina sarà senza dubbio più calmo.» Fissò Cazaril con occhi socchiusi. «Ora ditemi, mio signore… Da quanto tempo sapete di questa nera maledizione che aleggia su Orico?»

«Sara ve ne ha parlato…»

«Sì.»

«Cosa vi ha detto, esattamente?»

Iselle narrò in modo abbastanza preciso la storia di Fonsa e del Generale Dorato e parlò dell’eredità di sfortuna causata da essa, un’eredità passata a Ias e poi a Orico. Tuttavia non accennò a se stessa o a Teidez.

«In tal caso, conoscete una metà dei fatti», commentò Cazaril.

«Questa faccenda della metà non mi piace. Il mondo si aspetta che io prenda decisioni valide senza avere informazioni, salvo poi attribuire gli errori che commetto alla mia verginità, come se essa fosse la causa della mia ignoranza. L’ignoranza non è stupidità, ma può benissimo diventarlo, e a me non piace sentirmi stupida», dichiarò risolutamente Iselle.

Cazaril chinò il capo in un silenzioso gesto di scusa. Al pensiero di ciò che stava per perdere, gli salirono le lacrime agli occhi. Se aveva taciuto tanto a lungo non era stato per proteggere la verginale innocenza di Iselle o di Betriz, e neppure per timore di essere arrestato… No, lo aveva fatto per paura di perdere la beatitudine che gli derivava dalla loro stima, temendo l’orrore di apparire disgustoso ai loro occhi. Avanti, vigliacco, parla e falla finita, s’ingiunse. «Ho saputo per la prima volta dell’esistenza della maledizione la notte successiva alla morte di Dondo. A parlarmene è stato lo stalliere Umegat… che non è affatto uno stalliere, ma un Divino del Bastardo. Era altresì il santo che ospitava il miracolo del serraglio creato per Orico.»

«Oh…» mormorò Betriz, sgranando gli occhi. «Mi era simpatico. Come sta?»

«Male», rispose Cazaril, con un gesto che indicava un equilibrio precario. «È ancora privo di sensi, ma la cosa peggiore…» Esitando, deglutì, consapevole di essere arrivato al punto cruciale del discorso. «La cosa peggiore è che ha smesso di risplendere.»

«Ha smesso di risplendere?» ripeté Iselle, interdetta. «Non mi ero mai accorta che emanasse luce.»

«Sì, lo so, voi non potete vederlo. C’è una cosa che non vi ho detto, riguardo all’assassinio di Dondo… Sono stato io a sacrificare il corvo e il ratto, e a pregare il Bastardo per la morte di Dondo.»

«Ah! Lo avevo sospettato!» esclamò Betriz, sedendosi più eretta sulla sua sedia.

«Sì, ma… ciò che non sapete è che il miracolo mi è stato concesso. Quella notte, nella Torre di Fonsa, io dovevo morire, però sono intervenute le preghiere di qualcun altro… credo quelle di Iselle», precisò, accennando col capo in direzione della Royesse.

«Ho pregato la Figlia perché mi salvasse da Dondo», ammise Iselle, portandosi una mano al seno.

«Voi avete pregato… e la Figlia ha risparmiato me», ribatté Cazaril. «A quanto pare, però, non mi ha risparmiato da Dondo. Avete visto come, durante il funerale, tutti gli Dei abbiano rifiutato di prendere in consegna la sua anima?»

«Sì. In questo modo lui è stato escluso, condannato, intrappolato in questo mondo», annuì Iselle. «Metà della corte ha temuto che il suo spirito circolasse a Cardegoss, e si è munita di ogni sorta di talismani per proteggersi.»

«È a Cardegoss, certo… ma non è libero. La maggior parte degli spettri è vincolata al luogo della morte, mentre lui è vincolato alla persona che lo ha ucciso. Avete presente il mio tumore?» Cazaril chiuse gli occhi perché non sopportava di vedere l’espressione inorridita delle due dame. «Non è un tumore o, per meglio dire, non è soltanto un tumore: l’anima di Dondo è intrappolata dentro di me, pare insieme col demone della morte che, se non altro, è del tutto silenzioso. Dondo invece non vuole stare zitto, e di notte mi inveisce contro.» Riaprì gli occhi, senza però alzare lo sguardo. «Tutta questa… attività divina mi ha fornito una sorta di seconda vista. Umegat ne è dotato, come pure una piccola santa della Madre, che vive in città. E adesso la possiedo anch’io. Umegat risplende di un chiarore bianco, Madre Clara emette una tenue luce verde; quanto a me, entrambi mi hanno detto che la mia luce è prevalentemente bianca e azzurra, di un’intensità abbagliante.» Si costrinse a incontrare lo sguardo di Iselle. «Inoltre adesso posso vedere il manifestarsi della maledizione di Orico, che mi appare come un’ombra scura. Ascoltatemi bene, Iselle, perché ritengo che questa sia una cosa importante, ignorata perfino da Sara: l’ombra non grava soltanto su Orico, ma anche su di voi e su Teidez. A quanto pare, tutti i discendenti di Fonsa sono avvolti da questo miasma nero.»

«In un certo modo, ha senso che sia così», si limitò ad affermare Iselle, dopo una breve pausa di silenzio, rimanendo seduta.

Consapevole che Betriz lo stava guardando, Cazaril si sentì d’un tratto simile a un mostro, pur sapendo benissimo, a causa della tensione costante della sua cintura, che il tumore non era aumentato. Piegandosi leggermente su se stesso, le rivolse un incerto sorriso.

«Ma come potete liberarvi di questo… spettro?» domandò Betriz, scandendo le parole.

«Ecco… Da quello che ho capito, se dovessi essere ucciso, la mia anima perderebbe il suo ancoraggio all’interno del corpo e il demone della morte sarebbe libero di finire il suo compito… almeno credo. Ma ho paura che il demone possa ingannarmi o tradirmi per spingermi incontro alla morte, se gli sarà possibile, perché sembra alquanto determinato e vuole tornare a casa. D’altro canto, se la mano della Signora dovesse aprirsi, il demone sarà libero d’impossessarsi della mia anima e di portarla comunque via insieme con quella di Dondo», concluse, decidendo che non era il caso di affliggere le due dame anche con la teoria di Rojeras.

«No, Lord Caz, non avete capito. Io voglio sapere come potete liberarvi di questa cosa senza morire», precisò Betriz.

«Anche a me piacerebbe saperlo», sospirò Cazaril, costringendosi con uno sforzo a raddrizzare la schiena e a sfoggiare un sorriso più convincente. «Comunque non ha importanza. Ho ceduto spontaneamente la mia vita per ottenere la morte di Dondo, e ho ricevuto quello che avevo chiesto: il pagamento del mio debito è stato soltanto rinviato, non annullato. A quanto pare, la Signora mi sta tenendo in vita a causa di qualche servigio che devo rendere, ed è solo per questo che non mi sono ancora ucciso per il disgusto.»

«Io però non ho nessuna intenzione di licenziarvi dal mio servizio, Cazaril. Avete capito?» disse Iselle, protendendosi in avanti.

«Ah!» commentò soltanto Cazaril e il suo sorriso si fece più spontaneo.

«Già», rincarò Betriz. «E non potete nemmeno aspettarvi che si diventi schizzinose e ci si mostri disgustate soltanto perché siete… abitato. Voglio dire, noi tutti ci aspettiamo di condividere un giorno il nostro corpo, e questo non ci rende orribili, giusto?» S’interruppe, accorgendosi di dove la stava portando quella metafora.

«Sì, ma condividerlo con Dondo?» ribatté in tono mite Cazaril, la cui mente già da tempo si stava ritraendo proprio da un’analogia di quel genere. «Voi due lo avete entrambe escluso dalla vostra capacità di tolleranza.» In realtà, rifletté, ogni uomo che aveva ucciso era rimasto impresso nella sua memoria e, in qualche modo, era ancora dentro di lui.

«Cazaril… lui non può uscire, vero?» esclamò Iselle, allarmata, sollevando una mano alle labbra.

«Prego costantemente la Signora perché non possa farlo», rispose Cazaril. «L’idea che si possa infiltrare nella mia mente è… È l’aspetto peggiore di questa situazione, peggiore perfino di… No, non importa. Un momento, questo mi ricorda che devo mettervi in guardia dagli spettri.» E ripeté ciò che l’Arcidivino gli aveva detto in merito alla necessità che il suo corpo venisse bruciato prima del tramonto, e perché lo si dovesse fare. Fu una confidenza che gli diede uno strano senso di sollievo. Le due donne si mostrarono atterrite ma attente. Cazaril comprese che si poteva fidare di loro a quel riguardo e si sentì assalire dalla vergogna al pensiero di essersi fidato del loro coraggio soltanto in quel frangente. «Ascoltatemi bene, Royesse», continuò. «La maledizione del Generale Dorato ha seguito la progenie di Fonsa, ma anche Sara è oppressa dall’ombra, e io e Umegat siamo entrambi convinti che ne sia stata contagiata col matrimonio.»

«Senza dubbio esso ha reso la sua vita piuttosto infelice», convenne Iselle.

«Di conseguenza, anche voi potreste sottrarvi alla maledizione col matrimonio. Non è una certezza… Tuttavia è una speranza, una grande speranza. Credo perciò che dovremmo concentrarci su questo problema… Dovreste andarvene da Cardegoss, allontanarvi dalla maledizione e anche da Chalion il più in fretta possibile.»

«Con la corte così in fermento, qualsiasi accordo matrimoniale è fuori…» cominciò Iselle, poi si arrestò per chiedere: «Ma che ne sarà di Teidez? E di Orico? E di Chalion? Dovrò dunque abbandonarli, come un generale in fuga di fronte a una battaglia persa?»

«I comandanti di grado più elevato hanno responsabilità che vanno al di là della singola battaglia. Se la vittoria è impossibile, se un generale non può rovesciare le sorti di uno scontro, con una ritirata può almeno riservarsi la possibilità di riprendere il conflitto in futuro.»

Iselle rifletté, dubbiosa. «Cazaril… Credete che mia madre e mia nonna sapessero di questa cosa oscura che grava su di noi?»

«Ignoro se vostra nonna lo sappia. Quanto a vostra madre…» Se aveva visto gli spettri dello Zangre, allora per qualche tempo Ista doveva aver avuto il dono della seconda vista, ma ciò cosa significava? Non potendo rispondere a quella domanda, si limitò a dire: «Vostra madre sapeva qualcosa, ma non ho idea di quanto avesse appreso… Comunque era abbastanza da essere terrorizzata allorché siete stati convocati a Cardegoss».

«E io ho pensato che si preoccupasse troppo», mormorò Iselle. «Ho creduto che fosse davvero pazza, come sussurravano i servi. Ho molte cose su cui riflettere», mormorò, sempre più accigliata.

Nella lunga pausa che seguì, Cazaril si alzò e augurò cortesemente la buonanotte a entrambe le dame, ottenendo in risposta un distratto cenno del capo da parte della Royesse, mentre Betriz, portandosi una mano al seno, lo fissò con intensità, accennando poi una riverenza.

«Aspettate!» esclamò d’un tratto Iselle, quando lui era ormai alla porta. La giovane si alzò, lo raggiunse e gli strinse le mani. «Siete troppo alto. Chinate la testa», mormorò.

Cazaril obbedì e sussultò per la sorpresa quando Iselle si alzò in punta di piedi e gli depose un bacio formale sulla fronte e su entrambe le mani, lasciandosi poi cadere in ginocchio con un frusciare di sete profumate per deporre un bacio su ciascuno stivale, ignorando le proteste dell’uomo.

«Ecco fatto», dichiarò la giovane, alzandosi. «Adesso potete andare.»

Betriz, accanto a lei, aveva il volto solcato di lacrime.

Troppo scosso per parlare, Cazaril fece un profondo inchino, poi fuggì verso la propria camera, preparandosi a un’altra notte tormentata.

19

Il giorno successivo, Cazaril ebbe l’impressione che lo Zangre fosse pervaso di una quiete quasi spettrale. Dopo la morte di Dondo, la corte era stata in allarme, certo, ma si era altresì abbandonata a sussurrati pettegolezzi. Adesso, invece, non circolavano più neppure i sussurri, tutti coloro che non avevano doveri immediati da compiere si tenevano alla larga, e chi aveva un incarico cui non poteva sottrarsi provvedeva a svolgerlo il più in fretta possibile, mantenendo un silenzio carico di apprensione.

Iselle e Betriz trascorsero la giornata nella Torre di Ias, assistendo Sara e Orico. All’alba, Cazaril e il siniscalco, cupo in volto, sovrintesero alla cremazione e alla sepoltura delle carcasse degli animali. Poi, per il resto della giornata, Cazaril cercò di mettere un po’ di ordine nel caos che imperava sulla sua scrivania, ma andò anche alcune volte all’ospedale del Tempio, dove Umegat era sempre nelle stesse condizioni, grigiastro in volto e col respiro affaticato. Dopo la seconda visita, si fermò al Tempio vero e proprio e si prostrò in preghiera davanti a tutti e cinque gli altari. Se davvero era rimasto contagiato da quella strana malattia chiamata santità, si disse, allora che quel suo stato servisse almeno a qualcosa…

Gli Dei non concedono miracoli per i nostri scopi, ma per i loro, aveva detto Umegat. Era proprio vero? Secondo Cazaril, un accordo del genere avrebbe dovuto essere bilaterale: cosa avrebbero potuto fare gli Dei, se le persone avessero smesso di offrire la loro volontà per metterli in condizione di operare miracoli? Per prima cosa, morirei sul colpo, si rispose. Rimase prostrato a lungo davanti all’altare della Signora della Primavera, senza però riuscire a trovare parole di preghiera… Era per un senso di abbattimento, di vergogna, o di disperazione? Comunque fosse, che pregasse o rimanesse zitto, tutti e cinque gli Dei risposero alle sue suppliche soltanto con un assoluto silenzio.

Nel risalire a passo lento la collina, incrociò dy Joal e un altro dei bravacci al soldo di dy Jironal, che stavano entrando a Palazzo Jironal. Soltanto allora rammentò l’insistenza di Palli perché non andasse in giro da solo. Nel vederlo, dy Joal chiuse la mano intorno all’impugnatura della spada, ma si trattenne dall’estrarla, e l’incontro si concluse con un cauto cenno di saluto da ambo le parti.

Tornato nel suo studio, Cazaril si massaggiò la fronte dolorante e prese a riflettere sul problema del matrimonio di Iselle. Il Royse Bergon di Ibra sarebbe stato un pretendente valido al pari di qualsiasi altro — e forse migliore di molti altri -, ma il tumulto scoppiato alla corte di Chalion rendeva impossibile avviare negoziati. Bisognava ricorrere al più presto all’invio di un corriere segreto. Cercò di capire chi, tra i cortigiani, sarebbe stato adatto per una missione diplomatica di quella portata, ma non ne trovò nessuno di cui fidarsi. Poi vagliò l’elenco, ancora più ristretto, degli uomini di cui si fidava, e non individuò nessun diplomatico. Umegat era ferito, l’Arcidivino non poteva certamente partire in segreto… Rimaneva Palli, il March dy Palliar. Se non altro, aveva un rango tale da poter esigere rispetto alla corte di Ibra. Cazaril provò a immaginare l’onesto e diretto Palli nell’atto di trattare con la Volpe di Ibra per stipulare le complesse e intricate clausole del contratto matrimoniale di Iselle, e si lasciò sfuggire un gemito. Forse, se Palli fosse stato inviato a Ibra con un elenco d’istruzioni estremamente dettagliato ed esplicito… Bisogna fare di necessità virtù, si disse infine, decidendo di affrontare l’argomento con Palli l’indomani stesso.

Quella sera, prima di andare a dormire, Cazaril s’inginocchiò accanto al letto e pregò che gli venisse risparmiato l’incubo che lo aveva tormentato per tre notti di fila e cioè Dondo che cresceva nel suo ventre fino a raggiungere dimensioni normali e si apriva un varco a colpi di spada, vestito con gli indumenti indossati durante il rito funebre. Forse la Signora diede ascolto alla sua supplica… Cazaril si svegliò all’alba, con la testa e il cuore che pulsavano per un nuovo incubo, nel quale Dondo aveva risucchiato la sua anima al posto della propria e si era impadronito del suo corpo, scatenando poi la propria bramosia nell’alloggio delle dame, mentre lui era costretto ad assistere, impotente. Con sgomento, mentre giaceva ansimante nella luce grigia dell’alba, lottando per ritrovare la presa sulla realtà, Cazaril si rese conto che il suo corpo era in uno stato d’intensa eccitazione.

Ma Dondo era davvero sigillato in una prigione buia, isolato dal mondo e dalle sensazioni, oppure stava viaggiando dentro di lui, trasformandosi di volta in volta in una spia e un guardone? Da quando si era posto quella domanda, Cazaril si era convinto che non avrebbe più amato una dama. Adesso, immaginando quello spettrale rapporto a quattro, col demone e con Dondo come ospiti nascosti e sgraditi, fu percorso da un brivido. Gli venne in mente che poteva sfuggire a quella situazione gettandosi dalla finestra, insinuando le spalle nella stretta apertura e lanciandosi nel vuoto verso una rapida fine. Oppure poteva tagliarsi i polsi o la gola, squarciarsi il ventre. E perché non tutte e tre le cose?

Si sollevò a sedere di scatto, sbattendo le palpebre, e scoprì che una mezza dozzina di spettri gli si era raccolta intorno. Avevano un’aria smaniosa, con le forme indistinte che si accalcavano come avvoltoi intorno alla carcassa di un cavallo. Con un sibilo, scattò in avanti e agitò il braccio per sparpagliare quelle presenze, chiedendosi però se una di esse potesse rianimare un corpo la cui testa era stata fracassata. Stando all’Arcidivino, una cosa del genere era possibilissima, il che significava che quelle spettrali sentinelle sbarravano la via di fuga offerta dal suicidio. Spaventato all’idea di riprendere sonno, Cazaril si alzò dal letto e, con mosse incespicanti, provvide a lavarsi e a vestirsi.

Di lì a poco, rientrando da una frugale colazione, venne raggiunto sulle scale da un’affannata Nan dy Vrit, che gli disse: «La mia signora vi prega di raggiungerla immediatamente».

Annuendo, Cazaril riprese a salire, ma, quando accennò a oltrepassare il terzo piano, Nan lo richiamò. «Non nelle sue camere… In quelle del Royse Teidez.»

«Oh», commentò lui, inarcando le sopracciglia, poi svoltò nel corridoio e oltrepassò la propria stanza per raggiungere, tallonato da Nan, l’appartamento di Teidez. Al suo ingresso nell’anticamera-studio, identica a quella delle camere di Iselle, al piano superiore, sentì subito alcune voci provenire dalle stanze interne, quella di Iselle sommessa e quella di Teidez alta e irosa.

«Non voglio niente da mangiare, e non voglio vedere nessuno! Vattene!»

Il salotto era ingombro di un assortimento di armi, abiti e doni; avanzando a fatica in mezzo a quella confusione, Cazaril raggiunse la camera di Teidez. Il giovane era a letto, ancora in camicia da notte. L’aria afosa e umida della stanza sapeva di sudore giovanile, misto a un altro sentore aspro meno identificabile; il segretario-tutore di Teidez stava a lato del letto, con aria ansiosa, e Iselle era sull’altro lato, con le mani piantate sui i fianchi.

«Voglio rimettermi a dormire, andatevene», stava protestando Teidez, preso tra due fuochi. Nel sollevare lo sguardo, si accorse di Cazaril e sussultò, puntando un dito verso di lui ed esclamando: «Soprattutto, non voglio vedere lui qui!»

«Adesso smettetela con questi capricci, giovane signore», intervenne Nan dy Vrit, secca e pragmatica. «Sapete benissimo che non dovete parlare in questo modo alla vecchia Nan.»

Un po’ intimidito, Teidez mutò di colpo atteggiamento. «Mi fa male la testa», gemette.

«Nan, porta una luce», ordinò Iselle. «Cazaril, voglio che diate un’occhiata alla gamba di Teidez, che a me pare molto strana.»

Nan sollevò un candelabro con due candele per rafforzare la pallida luce diurna che entrava dalla finestra; Teidez si strinse le coperte contro il petto, ma non osò opporsi alla sorella maggiore che, trapassandolo con lo sguardo, gli strappò di mano le coltri e le ripiegò.

Tre solchi paralleli, coperti da una crosta, descrivevano una spirale lungo la gamba destra del ragazzo; di per sé, le ferite non apparivano profonde o pericolose, ma la carne intorno a esse era talmente gonfia che la pelle risultava lucida e semitrasparente; dai tagli, poi, filtravano pus e un siero rosato. Sgomento, Cazaril si costrinse a rimanere impassibile mentre osservava le striature rosse che salivano oltre il ginocchio del ragazzo, verso l’interno della coscia, notando nel contempo che Teidez aveva gli occhi troppo lucidi e un po’ vitrei.

«Non mi toccate!» strillò il ragazzo, ritraendo di scatto la testa, quando Cazaril protese una mano verso di lui.

«State fermo», gli ingiunse però lui, con voce bassa e decisa, accostando il polso alla fronte di Teidez: era rovente. «Da quanto tempo ha la febbre?» chiese, sollevando lo sguardo sul segretario-tutore, che stava osservando la scena con aria preoccupata.

«Solo da stamattina, credo.»

«Quand’è stata l’ultima volta che un medico gli ha controllato la gamba?»

«Non ha voluto vedere un medico, Lord Cazaril. Io ho cercato di aiutarlo, ma mi ha scagliato contro una sedia e si è bendato da sé.»

«E voi glielo avete permesso?» ringhiò Cazaril, strappando un sussulto a quell’ometto pallido.

«Ho obbedito ai suoi ordini», si schermì il segretario, scrollando le spalle con crescente disagio.

«Alcune persone mi obbediscono», borbottò Teidez. «E saprò ricordarmi di loro.» Poi scoccò un’occhiata di fuoco a Cazaril e indirizzò una smorfia alla sorella.

«È insorta un’infezione», disse il Castillar. «Provvederò perché dal Tempio gli mandino subito un medico.»

Contrariato, Teidez strisciò di nuovo sotto le coperte. «Adesso posso tornare a dormire?» piagnucolò. «Sempre che non vi dispiaccia… e tirate le tende, perché la luce mi fa dolere gli occhi.»

«Sì, rimanete a letto», ribatté Cazaril, lasciando la stanza.

Iselle lo seguì nell’anticamera. «Non è in buone condizioni, vero?» chiese a bassa voce.

«No, non lo è, Royesse», confermò Cazaril. «Siete un’attenta osservatrice, e la vostra valutazione si è rivelata esatta.» Inchinatosi in risposta a un cenno di assenso di Iselle, si diresse verso le scale; nel passare accanto a Nan dy Vrit, notò la sua espressione ombrosa e ne dedusse che almeno lei era consapevole dell’effettiva gravità della situazione. In fretta, scese le scale e attraversò il cortile, diretto alla Torre di Ias. Riusciva a pensare soltanto ai pochissimi casi in cui gli era capitato di vedere un uomo — anche giovane e in forze — sopravvivere a un’amputazione della gamba all’altezza della coscia.

Per pura fortuna, rintracciò immediatamente dy Jironal, che si trovava nella Cancelleria, impegnato a sigillare una borsa di dispacci e a consegnarla a un corriere.

«Come sono le strade?» chiese il Cancelliere al corriere, un individuo snello e muscoloso che indossava il tabarro della Cancelleria sopra un assortimento d’indumenti di lana.

«Fangose, mio signore. Cavalcare col buio potrebbe essere rischioso.»

«Fa’ del tuo meglio», sospirò dy Jironal, assestando una pacca sulla spalla del corriere, che salutò e uscì, passando accanto a Cazaril.

«Cazaril», lo salutò dy Jironal, fissandolo con espressione accigliata.

«Mio signore», rispose l’altro, con un accenno d’inchino, entrando nella stanza.

«Sapete, il vostro tentativo di nascondervi dietro l’Ordine della Figlia, nel suo complotto per spodestarmi, è destinato a fallire. Ed è mia intenzione fare in modo che il suo fallimento sia totale», disse dy Jironal, in tono colloquiale, sedendosi sul bordo della scrivania e incrociando le braccia sul petto.

Cazaril accantonò quelle minacce con un gesto d’impazienza. D’altronde non si era mai illuso che dy Jironal non avesse una spia in seno ai consigli dell’Ordine. «Stamattina, mio signore, avete problemi ben più gravi di quelli che io potrei causarvi», ribatté.

L’altro dilatò appena gli occhi in un’espressione sorpresa, inclinando il capo con aria improvvisamente attenta.

«Che aspetto aveva la ferita di Teidez, l’ultima volta che l’avete vista?» domandò Cazaril.

«Quale ferita? Lui non mi ha mostrato nessuna ferita.»

«È sulla gamba destra… Il leopardo di Orico lo ha graffiato prima che lui lo uccidesse. I graffi non sembravano profondi, ma adesso si sono infettati e lui brucia di febbre. Avete presente il modo in cui una ferita infetta genera striature rosse sulla pelle?»

«Sì», annuì dy Jironal, sempre più a disagio.

«Quelle di Teidez vanno dalla caviglia all’inguine, e sono rosse come il fuoco.»

Dy Jironal si lasciò sfuggire una violenta imprecazione.

«Il mio consiglio è richiamare la schiera di medici che si stanno inutilmente occupando di Orico e inviarla nelle camere di Teidez… Altrimenti potreste perdere due delle vostre regali marionette in un’unica settimana.»

Dy Jironal gli scoccò un’occhiata torva, ma, dopo aver tratto un profondo respiro, si limitò ad annuire, staccandosi dalla scrivania e uscendo subito dalla stanza, seguito da Cazaril. Per quanto corrotto dall’avidità e dall’orgoglio familiare, dy Jironal non era certo un incompetente, e Cazaril non faticava a comprendere perché Orico avesse tollerato tante cose, pur di avere un braccio destro così abile.

Dopo essersi accertato che dy Jironal stesse salendo il più in fretta possibile le scale che portavano alle camere del Roya, Cazaril decise di andare a controllare di nuovo le condizioni di Umegat, dato che non aveva più avuto notizie dal Tempio dalla sera precedente. Con sua sorpresa, però, nell’oltrepassare il portone dello Zangre, passando accanto al nefasto cortile delle stalle, notò il piccolo stalliere privo della lingua che stava risalendo la collina; quando lo vide, l’ometto prese ad agitare le mani prive dei pollici e accelerò il passo, arrivando fino a lui ansimando, ma col sorriso sulle labbra. Il suo volto, soprattutto intorno a un occhio, era segnato da scuri lividi, conseguenza della vana lotta a difesa del serraglio, il naso rotto era ancora gonfio e lacerato, però i suoi occhi scintillavano di gioia.

«Hai l’aria felice», osservò Cazaril. «Umegat si è forse svegliato?»

L’ometto annuì vigorosamente, e lui si concesse un sorriso di sollievo.

Lo stalliere borbottò poi una serie di parole indistinte e gorgoglianti; pur riuscendo a comprenderne una su quattro, Cazaril dedusse che l’ometto aveva un compito urgente da assolvere. Segnalandogli di aspettarlo, lo stalliere entrò nel serraglio silenzioso e buio, uscendone qualche minuto più tardi con un sacchetto legato alla cintura e agitando allegramente un libro. Cazaril comprese allora che Umegat non si era soltanto svegliato, ma si sentiva anche abbastanza bene da desiderare il suo libro preferito… Il quintuplice sentiero dell’anima, notò, perplesso.

Lieto di avere la compagnia dell’ometto, Cazaril si avviò con lui verso la città e, lungo il tragitto, si sorprese a riflettere sui segni di martirio che quell’uomo esibiva con tanta indifferenza, benché fossero le silenziose testimonianze di una tortura orribile, subita nel nome del suo Dio. La sua sofferenza e il suo terrore erano durati un’ora, un giorno oppure mesi? E quel suo aspetto vagamente grassoccio dipendeva dalla castrazione o era soltanto una conseguenza dell’età avanzata? Naturalmente, Cazaril non poteva chiedere allo stalliere di narrargli la sua storia, considerato che già gli riusciva difficile decifrare le poche parole che scambiava con lui. A pensarci bene, non sapeva neppure se fosse originario di Chalion, di Ibra o di Brajar oppure se fosse un roknari, né aveva idea di come fosse giunto a Cardegoss o del tempo da lui trascorso al servizio di Umegat. Osservando lo stalliere, che stava camminando con passo spedito, il libro stretto sotto il braccio e una luce intensa nello sguardo, Cazaril si convinse comunque che quello era l’aspetto che avevano i fedeli, eroici e amati servitori degli Dei.

Trovarono Umegat seduto sul letto, appoggiato ai cuscini, pallido in volto e col cuoio capelluto sollevato lungo la sutura. Aveva i capelli arruffati, le labbra screpolate e le guance non rasate. Frugando nel sacco, lo stalliere tirò fuori il necessario per radersi e lo agitò davanti a Umegat, che fece un pallido sorriso. Poi il roknari guardò Cazaril, si sfregò gli occhi e mise a fuoco lo sguardo con aria incerta.

«Come ti senti?» domandò Cazaril, deglutendo a fatica.

«Mi fa male la testa», rispose Umegat. E, dopo un momento, chiese: «Le mie splendide creature sono tutte morte?» La voce suonò bassa e un po’ impastata, la lingua parve intorpidita, però lui sembrava lucido.

«Quasi tutte. Un uccellino giallo e azzurro è riuscito a salvarsi e adesso è di nuovo al sicuro nella sua gabbia. Non ho permesso a nessuno di tenere trofei e li ho fatti cremare tutti, come soldati caduti. Ieri, l’Arcidivino Mendenal si è incaricato di trovare alle loro ceneri un luogo d’onore ove possano riposare.»

Umegat annuì, poi sussultò e serrò le labbra screpolate.

Cazaril lanciò un’occhiata di sottecchi all’ometto, pensando che di certo sapeva la verità, poi riportò lo sguardo su Umegat. «Sai che hai smesso di risplendere?»

«Lo… sospettavo», ammise Umegat. «Se non altro, adesso faccio meno fatica a guardare te.»

«La seconda vista ti è stata tolta?»

«La seconda vista ormai è superflua, per me… Sono vivo, dunque è evidente che la mano della Signora continua a sorreggermi», ribatté Umegat. «Ho sempre saputo che essa mi era stata concessa soltanto per un certo periodo… Finché è durata, è stata un’esperienza interessante. Davvero interessante», ripeté, con la voce ridotta a un sussurro, poi distolse il volto e aggiunse: «Avrei tollerato che mi venisse tolta come mi era stata data, ma vedermela strappare in questo modo… Dovevo immaginare che sarebbe successa una cosa del genere».

Gli Dei avrebbero dovuto avvertirti… pensò Cazaril.

Il piccolo stalliere, che aveva colto la nota dolorosa nella voce di Umegat, prese il libro e lo offrì al roknari a mo’ di consolazione.

Umegat, quasi intenerito, lo prese e commentò: «Se non altro, ho la mia vecchia professione su cui ripiegare, giusto?» Poi aprì il volume e abbassò lo sguardo su di esso. Un momento più tardi, però, il suo sorriso svanì. «Che razza di scherzo è questo?» chiese con voce tagliente.

«Di quale scherzo parli, Umegat? Quello è il tuo libro. Io stesso ho visto che lo andava a prendere nel serraglio…» garantì Cazaril.

«Che lingua è questa?» insistette Umegat, lottando per sollevarsi a sedere.

«Ibrano, naturalmente», rispose Cazaril, lanciando un’occhiata sulla pagina da sopra la sua spalla.

Umegat prese a sfogliare il libro con dita tremanti, lo sguardo che si spostava a scatti sulle righe e il respiro che accelerava. Sembrava atterrito «Sono… segni senza senso, semplici chiazze d’inchiostro. Cazaril!» gemette.

«È ibrano, Umegat, puro e semplice ibrano.»

«Si tratta dei miei occhi, di qualcosa dentro di me…» mormorò il roknari, serrandosi il volto e sfregandosi gli occhi, poi d’un tratto scoppiò in singhiozzi. «Oh, Dei, sono stato punito!»

«Presto, chiama il medico!» ingiunse Cazaril allo spaventato stalliere, che annuì e si affrettò a uscire.

Rimasto solo, Cazaril cercò con mosse impacciate di aiutare Umegat, battendogli un colpetto sulla spalla, assestando le pagine del libro, che lui stava quasi strappando nella stretta convulsa delle proprie dita, e finendo poi per togliergli di mano il volume. Le difese di Umegat, che avevano resistito fino a quel momento, crollarono e la crisi si manifestò in tutta la sua violenza. Sconfitto, il roknari si abbandonò, tremante, a singhiozzi convulsi.

Dopo lunghi, terribili minuti di attesa, giunse finalmente il medico. La donna dai capelli bianchi fece di tutto per consolare Umegat, il quale si aggrappò alle sue mani con improvvisa speranza, quasi ostacolandolo nello svolgimento del suo lavoro. Con calma, il medico gli spiegò che molti uomini e donne colpiti da paralisi miglioravano nell’arco di pochi giorni; sostenne di aver visto pazienti che, dopo essere stati trasportati a braccia all’ospedale, ne erano usciti con le loro gambe in pochissimi giorni… Grazie a quelle parole, Umegat gradualmente si calmò. Recuperare una certa compostezza richiese peraltro tutta la sua forza di volontà: ulteriori controlli effettuati dal medico, dopo aver inviato un Devoto di passaggio a prelevare alcuni volumi nella biblioteca dell’Ordine, rivelarono infatti che non era più in grado di leggere neppure il roknari o il darthacano, e che le sue mani avevano perso la capacità di usare la penna per tracciare parole in qualsiasi lingua.

Lasciando cadere la penna dalle dita, Umegat si nascose di nuovo il volto tra le mani. «Sono stato punito», gemette. «La mia gioia e il mio rifugio mi sono stati tolti.»

«Le persone possono reimparare cose che hanno dimenticato», suggerì il medico, in tono un po’ esitante. «Inoltre, non hai perso la capacità di capire le parole che ti vengono dette, e neppure quella di riconoscere le persone a te note. Sono cose che ho visto succedere ad alcuni pazienti. Comunque qualcuno potrebbe leggerti i libri ad alta voce…»

Lo sguardo di Umegat incontrò quello dello stalliere, fermo in disparte col libro di Ordol in mano. Premendosi un pugno sulla bocca, il vecchio emise uno strano verso di gola, una sorta di gemito di pura disperazione, e le lacrime presero a colargli lungo le guance segnate. Sbuffando, Umegat scosse il capo. Vedendo il proprio dolore riflesso in quel volto, si protese a stringere la mano dello stalliere nella propria e si fece coraggio. «Avanti, calmati. Non trovi che adesso facciamo proprio una bella coppia?» sospirò, accasciandosi di nuovo contro i cuscini. «Non si può certo dire che il Bastardo non abbia senso dell’umorismo…» Infine chiuse gli occhi, forse per la stanchezza o forse per il desiderio di escludere il mondo intero.

Guardandolo, Cazaril si disse che non poteva certo porgli la domanda che tanto lo opprimeva: Umegat, cosa dobbiamo fare? Il roknari non era in condizione di fare nulla, tantomeno di fornirgli indicazioni o di pregare. Non si azzardò neppure a chiedergli di pregare per Teidez.

A poco a poco, il respiro di Umegat si fece più profondo e regolare, e lui scivolò in un sonno irrequieto. Badando a non fare rumore, l’anziano stalliere depose il necessario per la rasatura sul comodino e si dispose ad attendere che Umegat si svegliasse; quanto al medico, dopo aver preso qualche annotazione lasciò la stanza, e Cazaril lo seguì nella galleria sovrastante il cortile; a causa del gelo, la fontana che lo decorava non buttava acqua e il poco liquido sul fondo appariva scuro e sporco nella grigia luce invernale.

«È stato davvero punito?» domandò infine.

«Come faccio a saperlo?» ribatté la donna, massaggiandosi il collo con un gesto pieno di stanchezza. «Le ferite alla testa sono le più strane di tutte. Una volta, una donna, i cui occhi parevano del tutto sani, è diventata cieca per un colpo alla nuca. Ho visto persone perdere l’uso della parola, il controllo di soltanto una metà del corpo… Si è trattato di una punizione?

Se sì, ciò significa che gli Dei sono malvagi, ma io non posso crederlo. No, secondo me si tratta del caso.»

Io invece credo che gli Dei trucchino i dadi, pensò Cazaril. Avrebbe voluto incitarla a prendersi la massima cura di Umegat, ma era evidente che lo stava già facendo, e lui non voleva dare l’impressione di dubitare del suo talento o della sua dedizione. Si congedò con un saluto cortese e andò in cerca dell’Arcidivino, per renderlo edotto della ferita di Teidez.

Trovò l’Arcidivino Mendenal nel Tempio, vicino all’altare della Madre, intento a celebrare una cerimonia di benedizione per la moglie e la figlia neonata di un ricco mercante, e fu costretto ad attendere che la famiglia avesse consegnato un’offerta di ringraziamento e fosse uscita, prima di potersi avvicinare e riferirgli la notizia. Impallidendo, Mendenal si avviò immediatamente alla volta dello Zangre.

Di recente, Cazaril aveva sviluppato una nuova, sconvolgente concezione riguardo all’efficacia e alla pericolosità della preghiera, ma si prostrò comunque sulla pietra, davanti all’altare della Madre, pensando a Ista… Se esisteva una speranza di misericordia per Teidez, indotto a un violento sacrilegio da Dondo, la Madre di certo poteva dimostrare un po’ di compassione per sua madre Ista. Dopotutto, il messaggio che la Dea gli aveva inviato, il giorno precedente, tramite il sogno della sua Accolita, era parso misericordioso. Certo, poteva anche trattarsi di una semplice e brutale indicazione pratica, tuttavia… Prostrato sul pavimento lucido, Cazaril avvertiva con chiarezza la massa letale presente nel suo ventre, uno sgradevole nodulo che pareva grosso quanto due dei suoi pugni.

Quando infine si decise a rialzarsi, si recò all’antico, angusto Palazzo Yarrin in cerca di Palli. Un servitore lo accompagnò in una stanza sul retro, dove Palli era seduto a un piccolo tavolo, intento a tracciare annotazioni su un registro. All’ingresso di Cazaril, però, lui si affrettò a posare la penna e a segnalargli di accomodarsi sulla sedia di fronte alla sua.

Non appena il servitore chiuse la porta, Cazaril si protese in avanti. «Palli… In caso di necessità, potresti recarti in segreto a Ibra, come corriere per conto della Royesse Iselle?»

«Quando?» domandò l’altro, inarcando le sopracciglia.

«Presto.»

«Se con ’presto’ intendi ’adesso’, temo di non poterlo fare», replicò Palli, scuotendo il capo. «Sono molto preso dai miei doveri di Lord Devoto e ho promesso a dy Yarrin la mia voce e il mio voto, in seno al consiglio.»

«Potresti affidare la delega col tuo voto per dy Yarrin a un compagno fidato», suggerì Cazaril.

Palli si limitò ad accarezzarsi il mento rasato, emettendo un borbottio di perplessità.

Per un momento, Cazaril pensò di proclamare la propria condizione di santo della Figlia e di far valere la propria autorità su Palli, dy Yarrin e l’intero Ordine militare della Figlia. Una cosa del genere avrebbe però richiesto complicate spiegazioni, rendendo altresì necessario divulgare il segreto della maledizione di Fonsa. Inoltre lo avrebbe costretto non solo ad ammettere la sua… particolare malattia, ma anche a spiegarne le cause: era stato toccato dagli Dei, anzi devastato dagli Dei… E quello lo avrebbe fatto sembrare anche più folle di Ista. «Credo che questo possa riguardare la Figlia», mormorò allora.

«Come fai a dirlo?» domandò Palli, incredulo.

«Lo so e basta.»

«Ebbene, io non lo so.»

«Aspetta, ho trovato la soluzione. Stanotte, prima di dormire, prega che ti. venga fornita una guida nel decidere.»

«Io? Perché non lo fai tu?»

«Le mie notti sono già… impegnate.»

«E da quando in qua credi nei sogni profetici? Ho sempre pensato che li considerassi vere assurdità, un modo per ingannare se stessi o per credersi importanti.»

«Si tratta di una conversione recente. Ascoltami, Palli, prova a farlo, a titolo di esperimento… per compiacere me, se non altro.»

«Per te, posso farlo», si arrese Palli, poi assunse un’espressione accigliata, e proseguì: «Quanto al resto… Andare a Ibra? E a chi dovrei tenere segreto il mio viaggio, già che ci siamo?»

«Soprattutto a dy Jironal.»

«Davvero? La cosa potrebbe interessare a dy Yarrin. Ritieni che gliene possa derivare qualche vantaggio?»

«Non in modo diretto… La cosa dovrà essere tenuta segreta anche a Orico.»

Palli si appoggiò allo schienale della sedia e inclinò il capo di lato. «Astuto Caz», disse poi, abbassando la voce. «Quale sorta di cappio ti stai offrendo di porre intorno al mio collo? Si tratta di un tradimento?»

«Peggio», sospirò Cazaril. «Si tratta di teologia.»

«Eh?»

«A proposito…» Cazaril si premette la sella del naso, cercando di capire se la sua emicrania stava peggiorando. «Informa dy Yarrin che le sue riunioni vengono riferite da una spia a dy Jironal… Anche se forse lui se n’è già accorto da solo.»

«Di male in peggio», osservò Palli. «Stai dormendo a sufficienza, Caz?»

«No», rispose lui, con un’aspra, amara risata.

«Ti sei sempre comportato in modo strano quando sei stanco. Comunque, non intendo andare da nessuna parte unicamente sulla scorta di qualche accenno oscuro…»

«Se deciderai di partire, ti verranno fornite tutte le informazioni necessarie.»

«In tal caso, quando sarò adeguatamente informato, deciderò il da farsi.»

«Mi sembra giusto», sospirò Cazaril. «Ne parlerò alla Royesse. Non volevo proporle un uomo che potesse venirle meno.»

«Ehi!» protestò dy Palliar, indignato. «Quando mai ti sono venuto meno?»

«Mai, Palli, ed è stato per questo che ho pensato a te», sorrise Cazaril, poi si alzò con un piccolo grugnito di dolore. «Ora devo tornare allo Zangre.» In breve, descrisse all’amico il pericoloso sviluppo subito dalla ferita di Teidez.

«Quanto è grave?» chiese Palli, facendosi di colpo serio.

«Io non…» cominciò Cazaril, ma la cautela intervenne a temperare la sua franchezza. «Teidez è giovane, forte e ben nutrito… Non vedo perché non dovrebbe sconfiggere questa infezione.»

«Per i cinque Dei, Caz, lui è la speranza della sua Casa. Cosa ne sarà di Chalion, se non dovesse farcela? E proprio adesso che anche Orico è malato!»

«Orico… Non stava bene già da tempo, ma sono certo che dy Jironal non avrebbe mai immaginato che tutti e due potessero trovarsi in un simile stato contemporaneamente… Puoi far notare a dy Yarrin che nei prossimi giorni il nostro Cancelliere sarà assai impegnato: se i Lord Devoti vogliono agire alle sue spalle e avvicinare Orico per fargli firmare qualcosa, questa potrebbe essere la loro migliore occasione.»

Cazaril riuscì a sottrarsi alla pioggia di considerazioni riversatagli addosso da Palli, ma non al suo ordine di prendere con sé i fratelli dy Gura come scorta. Mentre risaliva con passo stanco la collina, le sue riflessioni su come salvare Iselle dalla rovina della sua Casa maledetta si trasformarono nella pura e semplice determinazione a non crollare al suolo davanti a quei due giovani, compunti ufficiali, finendo per essere trascinato al castello con le braccia intorno alle loro spalle.

Il corridoio del terzo piano del corpo principale del castello era affollato di medici dalla veste verde e di Accoliti che fungevano loro da assistenti; al loro via vai, si aggiungeva quello dei servitori che portavano acqua, lenzuola, coperte e strane bevande in brocche d’argento. Mentre Cazaril indugiava, dubitando di potersi rendere utile, l’Arcidivino emerse dall’anticamera e si avviò lungo il corridoio.

«Vostra Reverenza, come sta il ragazzo?» domandò Cazaril, posando una mano sulla manica a cinque colori del prelato.

«Ah, Lord Cazaril», mormorò l’Arcidivino. «Il Cancelliere e la Royesse mi hanno fatto cospicue elargizioni allo scopo di ottenere preghiere per la sua salute, e sto andando a provvedere.»

«Credete che le preghiere serviranno a qualcosa?»

«La preghiera è sempre uno strumento positivo», dichiarò Mendenal.

No, non è vero, avrebbe voluto ribattere Cazaril, ma preferì tacere.

«E le vostre preghiere potrebbero essere di particolare utilità», continuò Mendenal, abbassando la voce.

«Vostra Reverenza, in tutto il mondo non c’è uomo che io odi abbastanza da volergli infliggere le conseguenze delle mie preghiere», replicò Cazaril.

«Ah», commentò Mendenal, a disagio, poi si sforzò di sorridere e si congedò.

In quel momento, la Royesse Iselle uscì nel corridoio. Guardandosi intorno, scorse Cazaril e gli fece cenno di raggiungerla.

«Royesse?» salutò lui, inchinandosi.

«Si parla di amputazione», mormorò la giovane. Sembrava che quel giorno tutti fossero inclini a sussurrare. «Potreste… Sareste disposto… a tenerlo fermo, se si dovesse arrivare a questo? Ho ragione di pensare che questa procedura non vi sia ignota, vero?»

«Senza dubbio, Royesse», annuì Cazaril, sentendo affiorare ricordi terribili. Negli ospedali da campo, aveva spesso cercato invano di stabilire se, per gli assistenti, fosse più difficile tenere fermi gli uomini che affrontavano l’amputazione con coraggio o invece quelli che cedevano al terrore. «Riferite ai medici che sono al loro servizio, e a quello del Royse Teidez.»

Appoggiatosi al muro dell’anticamera, in attesa di un’eventuale convocazione, sentì formulare la proposta a Teidez. Il ragazzo entrò di diritto nella categoria dei pazienti atterriti: si mise a urlare, tuonando che non si sarebbe lasciato trasformare in uno storpio da una massa di traditori e d’idioti e prese a scagliare oggetti da tutte le parti. Il suo crescente isterismo si placò soltanto quando un secondo medico gli comunicò che l’infezione non era segno della cancrena — una diagnosi che Cazaril condivise, sebbene si basasse solo sul suo olfatto -, ma piuttosto di un avvelenamento del sangue, per cui un’amputazione avrebbe causato più danno che beneficio. Si procedette quindi a una semplice incisione della ferita, anche se, a giudicare dagli strilli e dalle contorsioni di Teidez, sembrò proprio che gli stessero tagliando la gamba. Ma la febbre del ragazzo continuò a salire. Allora, sistemata nel salotto una tinozza di rame piena di acqua fredda, toccò ai medici costringere Teidez a immergersi.

Dal momento che tra medici, Accoliti e servitori parevano esserci mani a sufficienza per assolvere quei compiti pratici, Cazaril si ritirò per qualche tempo nel proprio studio, al piano superiore, dove cercò di svagarsi scrivendo lettere taglienti a quei consigli cittadini che erano in ritardo col pagamento delle rendite dovute alla Royesse, e cioè ai consigli di tutte e sei le città a lei assegnate. Invece del denaro, erano infatti giunte lettere di scusa nelle quali, a pretesto di quel ritardo, si adducevano la scarsità dei raccolti, il banditismo, la peste, il clima ostile e la corruzione degli esattori. Cazaril si chiese se Orico non avesse approfittato del dono di nozze per rifilare alla sorella e a Dondo le sei città che più gli davano grattacapi, o se invece tutta Chalion non versasse nello scompiglio.

Dopo un po’, Iselle e Betriz rientrarono nei loro alloggi. «Non ho mai visto mio fratello stare così male», confidò Iselle a Cazaril. «Intendiamo approntare il mio altare privato e pregare prima di cena… anche se forse dovremmo corroborare la preghiera col digiuno.»

«Non c’è bisogno di preghiere di altre persone, ma di quelle dello stesso Teidez… E lui non dovrebbe chiedere la guarigione, bensì il perdono», dichiarò lui.

«Teidez si rifiuta di pregare», replicò Iselle, scuotendo il capo. «Dice che non è stata colpa sua, ma di Dondo, il che è senza dubbio vero, almeno fino a un certo punto. Sostiene di non aver mai voluto fare del male a Orico e aggiunge che, se qualcuno lo sostiene, è un calunniatore.»

«Qualcuno sta sostenendo una cosa del genere?»

«Nessuno osa dirlo davanti alla Royesse, ma, secondo Nan, tra i servitori circolano strane voci», interloquì Betriz.

«Cazaril… È possibile che sia vero?» chiese Iselle, accigliandosi.

«Penso che non lo sia, da parte di Teidez», replicò Cazaril, appoggiando i gomiti sul tavolo e massaggiandosi la fronte dolente. «Quando afferma che è stata un’idea di Dondo, credo sia sincero… Sul conto di Dondo sarei pronto a credere a qualsiasi cosa. Provate a esaminare la cosa dal suo punto di vista: lui sposa la sorella di Teidez, poi organizza le cose in modo che Teidez salga al trono quand’è ancora minorenne. Dopotutto, osservando suo fratello, Dondo doveva essersi reso conto di quanto potere derivasse dal godere del favore del Roya. Non so in che modo avesse intenzione di liberarsi di Martou, ma sono certo che mirava a diventare Cancelliere o reggente di Chalion o addirittura Roya, a seconda del genere d’incidenti che sarebbero capitati a Teidez.»

«E io pensavo che voi aveste salvato soltanto me…» commentò Iselle, stringendo il labbro inferiore tra i denti. Quindi, dopo aver posato una mano sulla spalla di Cazaril, scomparve nelle camere interne.

Quella sera, prima di cena, Cazaril accompagnò Iselle e Betriz da Orico. Trovarono il Roya, apparentemente stabile, seduto nel letto rifatto di fresco, mentre Sara gli leggeva qualcosa. Orico riferì di un certo miglioramento all’occhio destro, sostenendo di vedere ombre che si muovevano. Ma Cazaril rifletté che probabilmente i medici avevano avuto ragione, quando avevano parlato d’idropisia: il corpo già gonfio del Roya pareva essersi dilatato ancora di più e, se gli si premeva un pollice sul volto grasso, l’impronta rimaneva visibile per parecchio tempo. Nel parlare con Orico, Iselle minimizzò le voci sull’infezione di Teidez, ma, una volta in anticamera, ne parlò in tutta franchezza con Sara. Serrando le labbra, la Royina si trattenne dal fare commenti, ma Cazaril pensò che da lei non sarebbero di certo giunte preghiere per quel ragazzo fuorviato e brutale.

Verso mezzanotte, incapace di dormire per timore delle consuete «visite» notturne, Cazaril si avviò di nuovo lungo il corridoio, verso le camere di Teidez. Il medico che lo aveva in cura, e che intendeva svegliarlo per somministrargli una medicina, non era riuscito a riscuotere il ragazzo dal sonno.

Immediatamente, Cazaril sali al piano di sopra, per riferire quello sviluppo all’assonnata Nan dy Vrit.

«Non c’è nulla che Iselle possa fare al riguardo», ribatté Nan. «Quella povera ragazza si è appena assopita… non possiamo lasciarla dormire?»

«No», rispose Cazaril, dopo un istante di esitazione.

Fu così che le due stanche e preoccupate giovani dame si vestirono di nuovo e scesero nel salotto di Teidez, dove sopraggiunse di lì a poco anche il Cancelliere dy Jironal, richiamato a corte dal suo palazzo. Al suo ingresso, dy Jironal scoccò un’occhiata accigliata a Cazaril e rivolse un inchino a Iselle.

«Royesse… Questo non è posto per voi», disse quindi. O per te, sembrò aggiungere, a giudicare dallo sguardo acido con cui trapassò Cazaril.

«Nessuno ha più diritto di me di essere qui», ribatté Iselle, in tono pacato e dignitoso, pur socchiudendo minacciosamente gli occhi. «Né un più grande dovere, se per questo. Devo essere testimone degli eventi per conto di mia madre.»

Dy Jironal sembrò sul punto di ribattere, ma probabilmente decise di rimandare quello scontro di volontà a un momento e un luogo diversi… E senza dubbio in futuro ci sarebbero state molte opportunità.

Le compresse fredde non riuscirono ad abbassare la febbre di Teidez, le punture stimolanti con gli aghi non lo riscossero minimamente dal suo torpore. Gli assistenti furono poi gettati nel panico da una breve crisi respiratoria, in seguito alla quale il suo respiro divenne ancora più roco e affaticato di quanto non lo fosse stato quello di Umegat. Nel corridoio, un quintetto di cantori, uno per ciascuno dei cinque Ordini, intonò un coro di preghiera, con le voci che si fondevano in una melodia echeggiante che era un commovente, splendido sfondo agli orribili suoni che giungevano dalla camera del malato.

Durante una pausa del canto, Cazaril si rese conto che il respiro affaticato proveniente dalla camera interna era cessato. Il silenzio parve allargarsi a macchia d’olio. Di lì a poco, uno degli assistenti dei medici, pallidissimo e col volto rigato di lacrime, uscì nell’anticamera e convocò dy Jironal e Iselle in qualità di testimoni. Per qualche istante, dalla camera di Teidez giunse un mormorio di voci sommesse.

Al loro ritorno in anticamera, i due erano pallidissimi. Dy Jironal sembrava così sconvolto che Cazaril comprese come lui, sino alla fine, si fosse aspettato di vedere Teidez riprendersi e guarire. Iselle, invece, era quasi inespressiva e l’ombra nera che la circondava era diventata più fitta e ribollente.

Al suo apparire, tutti i presenti, si girarono verso di lei, come aghi di bussola attirati dal nord: la royacy di Chalion aveva una nuova Erede.

20

Per quanto arrossati dalla stanchezza, gli occhi di Iselle erano asciutti. Betriz, che cercava di offrirle sostegno, si stava invece asciugando il volto rigato di lacrime. Era difficile stabilire quale delle due giovani donne stesse sostenendo l’altra.

Infine, il Cancelliere dy Jironal si schiarì la gola. «Porterò la notizia di questo lutto a Orico», annunciò, aggiungendo, con un certo ritardo: «Permettetemi di servirvi in questo triste momento, Royesse».

«Sì…» mormorò Iselle, con sguardo vacuo. «Ora lasciamo che tutte queste brave persone tornino ai loro compiti.»

Dy Jironal aggrottò le sopracciglia, dando l’impressione che cento pensieri diversi gli fluttuassero nella mente e che lui non sapesse quale afferrare per primo. Infine, il suo sguardo si posò su Betriz e su Cazaril. «Bisognerà rendere più consistente il vostro seguito in modo che sia adeguato al vostro nuovo rango. Provvederò io stesso», disse.

«Non sono in grado di pensare a queste cose, adesso», mormorò Iselle. «Potremo occuparcene domani, ma per stanotte, Lord Cancelliere, vi prego di lasciarmi al mio dolore.»

«Certamente, Royesse», assentì dy Jironal, inchinandosi. Poi accennò ad allontanarsi.

«Vi prego anche di non inviare nessun corriere a mia madre prima che io abbia avuto modo di scriverle una lettera», aggiunse Iselle.

Ormai sulla soglia, dy Jironal si arrestò, inchinandosi nuovamente in segno di assenso. «Certamente», garantì.

Uscendo, accompagnata da Betriz, la Royesse fece in modo di passare accanto a Cazaril. «Venite da me tra mezz’ora… Devo riflettere», gli mormorò.

Lui chinò il capo.

A poco a poco, la folla di cortigiani che si era raccolta nell’anticamera e nel salotto si disperse. Rimasero soltanto il segretario di Teidez, che aveva un’aria desolata e impotente, nonché gli Accoliti e i servitori incaricati di lavare il corpo del Royse e di prepararlo per il funerale. Sconvolti, i cantori intonarono un ultimo inno di preghiera, stavolta per il trapasso di un’anima, e le voci melodiose suonarono incerte e soffocate. Poi anche loro se ne andarono.

Cazaril non sapeva se gli faceva più male la testa o il ventre. Raggiunta a precipizio la propria camera, in fondo al corridoio, si chiuse la porta alle spalle e si preparò alla consueta aggressione notturna da parte di Dondo. Un’aggressione che, come testimoniava il suo ventre sempre più contratto, era imminente.

I crampi lo fecero piegare su se stesso, però, con sua sorpresa, Dondo rimase in silenzio. Possibile che anche lui fosse sgomento per la morte di Teidez? Se era stata sua intenzione garantire che la morte del ragazzo seguisse da presso quella di Orico, aveva ottenuto il risultato desiderato… anche se troppo tardi perché potesse servire agli scopi che lui si era preposto in vita.

Quel silenzio insolito non costituì però un sollievo per Cazaril. La sua acuita sensibilità a quella presenza malevola gli garantiva che Dondo era ancora intrappolato dentro di lui, famelico, furente… o forse intento a riflettere? Difficile saperlo, dato che l’intelligenza non era mai stata una delle sue caratteristiche primarie. Oppure la sua anima stava infine superando il profondo turbamento generato dalla morte per passare a… cosa? All’attesa? A braccare la preda? Dondo era stato un abile cacciatore, in fondo.

Cazaril si trovò a pensare che, se da un lato al demone interessava soltanto riempire i suoi due secchi con altrettante anime e tornare dal suo padrone, dall’altro Dondo probabilmente non condivideva quel desiderio. Il ventre del suo peggiore nemico era per lui una prigione odiosa, ma né l’inferno del Bastardo né il gelido oblio che attendeva gli spettri ripudiati dagli Dei erano un’alternativa soddisfacente. Cazaril non riusciva a immaginare quali fossero le altre possibilità, tuttavia era intensamente consapevole che, se Dondo stava cercando una forma fisica con cui rientrare nel mondo, in un modo o nell’altro, allora il suo corpo era quello più a portata di mano. Palpando il ventre contratto, Cazaril cercò di determinare, per l’ennesima volta, con quale rapidità stesse in effetti crescendo il tumore.

Dopo il solito, devastante quarto d’ora di terrore, finalmente i crampi passarono. Allora lui si ricordò della richiesta di Iselle. Scrivere una lettera per informare Ista della morte del figlio sarebbe stato tutt’altro che facile e non c’era da meravigliarsi che Iselle desiderasse la sua assistenza. Benché non si sentisse all’altezza del compito, Cazaril era ben determinato a offrire a Iselle tutto l’aiuto possibile, in quel momento di lutto. Si alzò quindi dal letto e salì le scale.

Trovò Iselle già seduta alla scrivania dell’anticamera, rischiarata da una serie di candele sparse all’intorno. Una pergamena di ottima qualità, le penne e la cera per i sigilli già disposti davanti a lei. Poco lontano, Betriz era intenta ad ammucchiare su una pezza di seta un piccolo assortimento di monili. C’erano spille, anelli e anche il pallido mucchio scintillante del filo di perle di Dondo, che Cazaril non aveva ancora avuto modo di consegnare al Tempio.

«Bene. Siete arrivato», mormorò Iselle, sollevando lo sguardo dalla pergamena, che stava fissando con aria accigliata, rigirandosi intorno al pollice l’anello col sigillo. «Chiudete la porta.»

«Al vostro servizio, Royesse», replicò Cazaril.

«Prego con tutto il cuore perché sia così», ribatté Iselle, scrutandolo in volto.

«Stai così male, Iselle», intervenne Betriz, preoccupata. «Sei sicura di quello che vuoi fare?»

«Non sono sicura di nulla, se non del fatto che non mi rimane più tempo… e che non ho alternative», ribatté lei. «Cazaril, voglio che domattina voi partiate alla volta di Ibra come mio inviato, per concordare il mio matrimonio col Royse Bergon»

Lui sbatté le palpebre, sconcertato da quella richiesta. Gli sembrò che la giovane avesse seguito il filo di un ragionamento che a lui invece era sfuggito. «Il Cancelliere dy Jironal non mi permetterà mai di partire», obiettò.

«È ovvio che non potrete farlo apertamente», convenne Iselle, con un gesto impaziente. «Vi recherete prima a Valencia, che si trova più o meno sulla strada, in qualità di mio corriere personale, incaricato di riferire a mia madre la notizia della morte di mio fratello. Dy Jironal acconsentirà con gioia, credendo di liberarsi di voi… Vi concederà perfino un bastone da corriere, che vi permetterà di requisire cavalli di ricambio presso le stazioni di posta della Cancelleria. Sapete anche voi che, entro domani a mezzogiorno, lui avrà riempito il mio seguito di sue spie.»

«Questo è evidente.»

«Dopo esservi fermato a Valenda, però, non tornerete a Cardegoss, ma proseguirete per Zagosur, od ovunque si trovi attualmente il Royse Bergon. Nel frattempo, io insisterò perché Teidez venga sepolto a Valenda, nella sua amata terra.»

«Teidez non vedeva l’ora di andarsene da Valenda», le fece notare Cazaril, confuso.

«Già, però dy Jironal non può saperlo, giusto? Il Cancelliere non mi permetterà di lasciare Cardegoss e di allontanarmi dal suo controllo per nessun altro motivo, ma non potrà negare una richiesta motivata da un lutto di famiglia. Per prima cosa, domattina, chiederò l’aiuto di Sara in questo progetto.»

«Adesso siete doppiamente in lutto, per vostro fratello e per Dondo. Dy Jironal non vi potrà imporre un fidanzato per mesi e mesi a venire», le ricordò Cazaril.

«Un’ora fa, io sono diventata il futuro di Chalion», gli fece notare Iselle, scuotendo il capo. «Dy Jironal dovrà assumere il controllo della mia persona e mantenerlo, se vorrà dominare il futuro della nazione. Il momento critico non è l’inizio del mio lutto per Teidez, bensì l’inizio di quello per Orico, perché sarà soltanto allora, e non un momento prima, che io passerò in maniera assoluta sotto il controllo di dy Jironal, a meno che non mi sia già sposata. Una volta lasciata Cardegoss, non ho intenzione di farvi ritorno. Con questo clima, il corteo funebre di Teidez potrebbe impiegare settimane ad arrivare a destinazione e, se il clima non dovesse collaborare, troverò altri modi per causare qualche ritardo. Allorché voi tornerete col Royse Bergon, io dovrei essere al sicuro a Valenda.»

«Aspettate… Cosa? Tornare col Royse Bergon?» esclamò Cazaril.

«Sì, è evidente che dovrete portarlo da me. Pensateci… Se lascerò Chalion per sposarmi a Ibra, dy Jironal mi denuncerà come ribelle, costringendomi a far ritorno alla testa di truppe straniere. Se difenderò le mie posizioni fin dal primissimo momento, non dovrò mai cercare di riconquistarle. Siete stato voi a insegnarmelo!»

Cazaril la fissò, sconcertato, e Iselle si protese in avanti, con un’espressione sempre più intensa. «Voglio prendere il Royse Bergon come consorte, certo, però non intendo rinunciare a Chalion per avere lui… No, neppure a un campicello, non a vantaggio di dy Jironal e neppure a vantaggio della Volpe. Queste sono le mie condizioni: Bergon e io erediteremo ciascuno la sua corona. Bergon avrà autorità a Chalion in qualità di Roya-consorte e io ne avrò a Ibra come Royina-consorte, agendo l’uno tramite l’altra, in maniera uguale e reciproca. In futuro, nostro figlio — alla Madre e al Padre piacendo — erediterà e unificherà i due. La mia futura autorità su Chalion dovrà essere soltanto mia, non consegnata al mio sposo come dote. Non intendo trasformarmi in un’altra Sara… Una semplice, ignorata moglie, senza avere voce in capitolo in seno al mio stesso consiglio!»

«La Volpe cercherà di ottenere di più», la avvertì Cazaril.

«È per questo che il mio inviato potete essere soltanto voi», affermò Iselle, sollevando il mento. «Se non riuscirete a ottenere la mano del Royse Bergon nel rispetto delle condizioni che non violano la mia futura sovranità, allora abbandonate le trattative e tornate a casa. Dopo la morte di Orico, innalzerò la mia bandiera e muoverò personalmente contro dy Jironal.» L’ombra nera le ribolliva intorno. Con voce ferma, concluse: «Maledizione o no, non intendo essere comandata a bacchetta da Martou dy Jironal, come una giumenta alla cavezza».

Sì, Iselle aveva il coraggio, la volontà e l’astuzia per resistere a dy Jironal, doti che Orico non aveva e che Teidez non sarebbe mai riuscito a sviluppare. Cazaril scorgeva quelle virtù nei suoi occhi, vedeva interi eserciti, con le lance spianate, muoversi nella nera massa di oscurità che la avviluppava, simile a una cappa di fumo che si leva da una città in fiamme. Ecco dunque la forma che la maledizione scagliata contro la sua Casa avrebbe assunto nel corso della generazione seguente: non dolore individuale, ma una guerra civile tra la Royesse e i suoi nobili, una guerra che avrebbe devastato la nazione da un capo all’altro. A meno che Iselle non fosse riuscita a liberarsi dell’appartenenza alla sua Casa e della maledizione, passando sotto la protezione di Bergon… «Cavalcherò per voi, Royesse», promise Cazaril.

«Bene», approvò lei, passando una mano sulla pergamena. «Adesso dobbiamo preparare una serie di lettere. Per prima cosa, ne scriveremo una che vi autorizzi a trattare con la Volpe… E credo che questa missiva debba essere stilata di mio pugno. Dal momento che avete letto e scritto diversi trattati, dovrete suggerirmi le frasi giuste, in modo che io non dia l’impressione di essere una ragazza ignorante.»

«Farò del mio meglio… però non sono un esperto di cose legali.»

«Se avremo successo, disporrò delle spade con cui dare peso alle mie parole», ribatté Iselle, scrollando le spalle. «Altrimenti nessun cavillo legale potrà dare loro la forza necessaria. Cerchiamo di essere semplici e chiari. Cominciamo…»

Tre faticosi quarti d’ora d’intensa concentrazione produssero una versione definitiva, che Iselle firmò con eleganza prima di apporvi il proprio sigillo; nel frattempo, Betriz finì di radunare il mucchietto di monete e di gioielli.

«È tutto il denaro che abbiamo?» domandò Iselle.

«Purtroppo sì», sospirò Betriz.

«In tal caso, Cazaril dovrà impegnare i gioielli al suo arrivo a Valenda, o in qualche altro luogo sicuro», decise Iselle, avvolgendo i preziosi nella seta e spingendo il fagotto verso Cazaril. «I vostri fondi, mio signore. La Figlia voglia che siano sufficienti a farvi arrivare a destinazione e a permettervi di tornare indietro.»

«Saranno più che sufficienti, se non verrò truffato», le assicurò Cazaril.

«Ricordate che dovete spenderli senza inutili risparmi: sarete il mio rappresentante a Ibra, no? Rammentate di curare l’abbigliamento… Il Royse Bergon dovrà viaggiare con lo stile che si addice al suo rango e al mio, per non recare vergogna a Chalion.»

«Questo potrebbe essere difficile, senza disporre di un esercito, intendo… Comunque ci rifletterò. Molto dipenderà da molte cose ancora in sospeso. Dovremo anche elaborare un mezzo di comunicazione sicuro, perché senza dubbio dy Jironal, o le sue spie, faranno di tutto per intercettare qualsiasi lettera da voi ricevuta.»

«Ah.»

«Esiste un codice cifrato, molto semplice ma pressoché impossibile da decifrare, perché si basa sulla possibilità di avere due copie della stessa edizione di un determinato libro: una me la porterei appresso e l’altra rimarrebbe qui con voi. Le parole vengono selezionate con sequenze di tre numeri — numero di pagina, di riga e di parola all’interno della riga -, mediante i quali chi riceve la missiva può individuare ogni termine. Non bisogna scegliere sempre gli stessi numeri per la stessa parola, bensì cercarla su un’altra pagina. Ci sono codici migliori, però non ho il tempo d’insegnarveli. Il vero problema è che non ho due libri uguali…»

«Provvederò io a trovarli, prima che voi partiate, domattina», promise Betriz.

«Grazie», replicò Cazaril. Per lui, malato com’era, era una follia intraprendere un viaggio del genere, valicando le montagne in pieno inverno. Sarebbe caduto da cavallo in mezzo alla neve, morendo assiderato, e sia lui sia le lettere di cui era latore sarebbero state divorate dai lupi… «Vorrei… Il mio spirito è disponibile, ma il mio corpo è un territorio occupato, e in buona parte distrutto», osservò. «Ho paura di crollare durante il viaggio. Il mio amico, il March dy Palliar, è un buon cavaliere e un valido combattente. Posso suggerirvi di scegliere lui come vostro inviato?»

Iselle si accigliò. «Temo che, per avere la mano di Bergon, sarà necessario sostenere con la Volpe un duello di astuzia e non di spada. È dunque meglio inviare la mente a Ibra e tenere la spada qui a Chalion», rispose.

Il pensiero di lasciare accanto a Iselle e Betriz un amico su cui fare affidamento, e che aveva a sua volta altri amici, rasserenò Cazaril. «In ogni caso, domani potrò invitarlo a discutere con noi della cosa?» domandò.

Iselle lanciò un’occhiata a Betriz e, dopo un momento, annuì con decisione. «Sì. Accompagnatelo da me il più presto possibile.» Poi trasse a sé un altro foglio di pergamena e prese una penna pulita. «Adesso scriverò una lettera personale al Royse Bergon, che voi riceverete sigillata e che gli trasmetterete senza aprirla. Quindi sarà la volta della lettera per mia madre. Non credo che voi possiate essermi d’aiuto con nessuna delle due, dunque vi consiglio di andare a dormire un poco, finché potete.»;

Cazaril si alzò e s’inchinò.

«Sono lieta che sarai tu a riferirle la notizia, e non un qualsiasi corriere della Cancelleria», sussurrò Iselle, mentre lui arrivava alla porta. «Anche se non sarà una cosa facile.»

Tratto un profondo respiro, Iselle si chinò sul foglio di pergamena, con la luce delle candele che faceva brillare come un’aureola i capelli dorati intorno al volto assorto. Lasciandola immersa in quella polla di luce, Cazaril si addentrò nell’oscurità del corridoio gelido.

All’alba, Cazaril venne destato da un insistente bussare alla porta della sua camera. Quando si alzò, incespicando, dal letto per andare ad aprire, non si trovò davanti un paggio venuto a convocarlo, come si era aspettato, bensì dy Palliar.

Abitualmente ordinato, quella mattina Palli dava l’impressione di essersi vestito al buio, a casaccio. I capelli arruffati sporgevano in tutte le direzioni e gli occhi erano cerchiati di scuro. Entrò di slancio nella stanza, mentre i fratelli dy Gura, assonnati ma allegri, sorridevano a Cazaril dal corridoio. Consegnata a Ferda, il più alto dei due, la candela che aveva vicino al letto, Cazaril attese che questi la accendesse dalla candela nel corridoio, restituendola poi a Palli, che la prese con mani leggermente tremanti.

«Per i demoni del Bastardo, Caz! Cosa stai combinando?» esclamò Palli, dopo che la porta fu chiusa.

«A cosa ti riferisci?» domandò Cazaril, confuso.

Palli accese un altro paio di candele, vicino alla bacinella e alla brocca di Cazaril, e si girò di scatto. «Mi hai detto di pregare per ricevere una guida, tramite i miei sogni. Ebbene, vorrei farti sapere che la scorsa notte, in sogno, sono stato ucciso cinque volte, mentre cavalcavo per andare chissà dove, e ogni volta si è trattato di una fine più orribile delle precedenti. Nell’ultimo sogno, sono stato divorato dai miei cavalli. Non voglio salire su un cavallo, un mulo o qualsiasi altro animale da trasporto per almeno una settimana!»

«Oh», mormorò Cazaril. Quella notizia per lui era fin troppo chiara. «In tal caso, non voglio che tu vada da nessuna parte.»

«Saperlo è un sollievo.»

«Andrò io stesso.»

«Dove? Con questo clima? Ha cominciato a nevicare, sai?»

«Ah, ci mancava soltanto questo. Non te lo ha ancora detto nessuno? Il Royse Teidez è morto verso mezzanotte, a causa della ferita infetta.»

«Questo cambia le cose, a Chalion», osservò Palli, rannuvolandosi.

«Infatti. Dammi il tempo di vestirmi e vieni di sopra con me», replicò Cazaril, sciacquandosi in fretta la faccia con l’acqua fredda e infilandosi gli abiti del giorno prima.

Trovò Betriz ancora vestita con l’abito da lutto nero e lavanda della notte precedente e, dal suo aspetto, dedusse che non era andata a dormire. Condotti i fratelli dy Gura nell’anticamera, in modo che non potessero essere visti dal corridoio, Cazaril entrò nel salotto insieme con Palli, chiudendosi la porta alle spalle.

«Tutte le lettere sono pronte per andare… a Valenda», affermò Betriz in tono esitante, guardando Palli. Poi indicò un pacchetto sigillato sul tavolo.

«Iselle sta dormendo?» chiese Cazaril.

«Sta riposando, ma so che vuole vedervi, entrambi», replicò Betriz, scomparendo nella camera da letto. Dall’interno giunse un sommesso mormorare di voci, poi Betriz riapparve, con un paio di libri sotto il braccio. «Ieri mi sono intrufolata nella biblioteca del Roya e ho trovato due volumi identici. I duplicati non erano molti, e ho scelto i due libri più grossi, così da avere un maggior numero di parole tra cui scegliere.»

«Bene», approvò Cazaril, prendendo uno dei volumi e soffocando a stento una cupa risata nello scorgere le lettere dorate incise sulla costa: Il quintuplice sentiero. «Una scelta perfetta. Ho proprio bisogno di rinfrescare le mie nozioni di teologia», commentò, deponendo il libro accanto alle lettere.

Iselle apparve in quel momento, avvolta in una pesante vestaglia blu scuro, sotto cui facevano capolino i merletti della sua camicia da notte; i capelli color ambra le ricadevano sulle spalle e il suo volto appariva pallido e gonfio per la mancanza di sonno. «Mio signore dy Palliar», disse, rivolgendo un cenno del capo a Cazaril e a Palli. «Vi ringrazio per essere venuto in mio aiuto.»

«Io… ecco…» balbettò Palli, scoccando a Cazaril un’occhiata disperata, che pareva chiedere: A che cosa sto acconsentendo?

«Vuole dunque partire al vostro posto?» domandò Betriz a Cazaril, in tono ansioso. «Non dovreste tentare questo viaggio… No, non dovreste proprio.»

«Ecco… no. Palli, ti chiedo di pronunciare un giuramento in nome degli Dei e in particolare della Signora della Primavera. Dovrai servire e proteggere la Royesse Iselle a costo della vita. Ciò che ti domando non costituisce un tradimento, giacché lei è la legittima Erede di Chalion. Tu avrai l’onore di essere il primo tra i cortigiani a giurarle fedeltà», disse Cazaril.

«Io… posso pronunciare un giuramento di fedeltà in aggiunta a quello dato a Orico, ma non posso giurare di essere fedele a voi invece che a lui», replicò Palli, rivolto a Iselle.

«Non pretendo che serviate me al posto di Orico, però mi aspetto che voi anteponiate le mie esigenze a quelle del Cancelliere di Orico.»

«Questo lo posso fare, e anche con piacere», dichiarò Palli, illuminandosi in volto, poi baciò la fronte, le mani e le pantofole di Iselle, rimanendo in ginocchio davanti a lei nel pronunciare i giuramenti richiesti a un nobile di Chalion, mentre Betriz e Cazaril facevano da testimoni. «Royesse… Che ne pensate di Lord dy Yarrin come nuovo Santo Generale dell’Ordine della Figlia?» chiese poi.

«Credo che non spetti ancora a me attribuire simili incarichi, benché di certo egli sia un candidato più accettabile di qualsiasi altro proveniente dal gruppo di fedeli a dy Jironal.»

Annuendo lentamente, Palli si rialzò. «Glielo farò sapere», disse.

«Iselle avrà bisogno di tutto il supporto pratico che le potrai fornire, nel corso del funerale di Teidez», affermò Cazaril. «Dal momento che lui verrà sepolto a Valenda, posso suggerire che Iselle selezioni il tuo contingente di truppe provenienti da Palliar come parte del corteo del Royse? Questo vi fornirà una buona scusa per conferire spesso, e ti permetterà di rimanerle accanto quando lascerà Cardegoss.»

«Avete una mente davvero pronta», disse Iselle.

Cazaril non aveva assolutamente quell’impressione. Gli pareva anzi che la sua mente faticasse a seguire quella di Iselle, come se fosse stata calzata di stivali appesantiti da dieci chili di fango. L’autorità che era ricaduta su di lei, la notte precedente, sembrava aver liberato un’energia repressa, racchiusa da tempo nel suo animo, e adesso tale energia ardeva dentro di lei, all’interno del bozzolo di oscurità che l’avviluppava. Cazaril aveva paura di chiudere gli occhi, per timore di vedere quella nube incombere anche dietro le palpebre chiuse.

«Ma dovete proprio partire da solo, Cazaril?» domandò Betriz, contrariata. «La cosa non mi piace.»

«Credo che debba essere solo, almeno fino a Valenda», replicò Iselle. «A Cardegoss non c’è praticamente nessuno di cui mi fidi abbastanza da mandarlo con lui, mentre a Valenda mia nonna gli potrà fornire degli uomini. A dire il vero, non dovreste arrivare alla corte della Volpe solo e senza seguito, perché non voglio fargli pensare che siamo disperati… Anche se è vero», commentò con una nota di amarezza nella voce.

«Ma che farete, se doveste sentirvi male lungo la strada?» insistette Betriz, tormentando il velluto nero della sua veste. «Supponete che il vostro tumore si aggravi… Chi brucerà il corpo, se doveste morire?»

«Tumore?» esclamò Palli, girandosi di scatto. «Cazaril! Cosa significa?»

«Cazaril, non glielo avete detto? Credevo che fosse un vostro amico!» esclamò Betriz. Poi si rivolse a Palli: «Ha intenzione di cavalcare fino a Ibra con un grosso, malefico tumore nel ventre, e senza nessuno che lo aiuti lungo la strada. Non credo che questo sia coraggio… A mio parere si tratta di stupidità! È evidente che deve andare a Ibra, perché non c’è nessun altro all’altezza di questo compito, però non deve farlo da solo!»

Palli si appoggiò allo schienale della sedia, passandosi un pollice sulle labbra, mentre fissava Cazaril con occhi socchiusi. «Mi pareva che avessi un aspetto malato», disse infine.

«Sì… Ecco, non c’è nulla da fare al riguardo.»

«Hmm… Quanto è grave? Voglio dire, stai…»

«Vuoi sapere se sto morendo? Sì. Tra quanto tempo? Nessuno lo sa. E questo, come ti farebbe notare l’Erudito Umegat, rende la mia vita del tutto uguale alla tua. Del resto, chi vuol morire nel proprio letto?»

«Tu hai sempre sostenuto di volerlo fare in età avanzatissima, a letto e con la moglie di qualcuno.»

«Con la mia, preferibilmente», sospirò Cazaril, riuscendo a trattenersi dal guardare Betriz. «Ah, be’, quello della mia morte è un problema che sta nelle mani degli Dei. Quanto a me, partirò non appena sellato un cavallo.» Alzatosi con un grugnito, allungò la mano per prelevare il libro e le lettere.

Palli scoccò un’occhiata a Betriz, che aveva le mani serrate e lo stava fissando con aria implorante, poi borbottò un’imprecazione, si alzò e si diresse bruscamente verso la porta dell’anticamera, spalancandola di scatto. Foix dy Gura, che era appoggiato con l’orecchio contro il lato opposto del battente, si raddrizzò, barcollando, e sorrise al suo comandante, mentre Ferda, appoggiato alla parete opposta, scoppiava in una risata.

«Salve, ragazzi! Ho un lavoretto per voi», annunciò Palli.

Tallonato da Palli, Cazaril oltrepassò il portone dello Zangre vestito in maniera adeguata per affrontare un viaggio invernale, con le sacche da sella appesantite da un cambio di vestiario, una piccola fortuna in gioielli, un testo di teologia e alcune lettere che potevano costituire un atto di tradimento.

Al suo arrivo alle stalle, constatò che i fratelli dy Gura lo avevano preceduto; tornati a Palazzo Yarrin sulla scorta di ordini urgenti impartiti da Palli, i due ne avevano approfittato per cambiare la divisa azzurra e bianca con un abbigliamento più adatto a un viaggio, calzando alti e logori stivali da equitazione.

Betriz era con loro, avvolta in un mantello di lana bianca, e i tre stavano confabulando. La giovane, poi, gesticolava con slancio per dare maggiore enfasi alle proprie parole. Sollevando lo sguardo, Foix si accorse del sopraggiungere di Cazaril e, sul suo ampio volto, si dipinse un’espressione seria e quasi intimorita. Mormorò qualcosa e fece cenno a Betriz di guardarsi alle spalle. La conversazione s’interruppe e i due fratelli si girarono per rivolgere un inchino a Cazaril. Quanto a Betriz, lo scrutò come se intendesse memorizzare il suo volto.

«Ferda», chiamò Palli.

Il giovane scartò sull’attenti davanti a lui e Palli prese due lettere dalla sopravveste, l’una sigillata e l’altra soltanto ripiegata. Porgendo la prima a Ferda, disse: «Questa è un’autorizzazione da parte mia, in qualità di Lord Devoto dell’Ordine della Figlia, che ti dà diritto a ottenere dai capitoli del nostro Ordine qualsiasi tipo di assistenza di cui tu possa aver bisogno nel corso del viaggio. Ogni debito sarà saldato da me, a Palliar». Poi gli diede la lettera ripiegata. «Quest’altra dovrai aprirla a Valenda.» Annuendo, Ferda ripose in tasca entrambe le missive, ignorando che la seconda poneva lui e il fratello agli ordini di Cazaril, nel nome della Figlia, senza fornire altri dettagli. Il viaggio fino a Ibra sarebbe stato pieno di sorprese per i due giovani.

«Avete abiti pesanti a sufficienza?» domandò quindi Palli, girando intorno ai cugini come un comandante che ispezionasse le truppe. «Siete armati a dovere contro i banditi?»

I due mostrarono le spade lucide e le balestre cariche, con la corda protetta dall’umidità, e accompagnate da una scorta adeguata di quadrelle: tutto era in buone condizioni.

Alcuni fiocchi di neve vorticavano nell’aria umida, posandosi su capelli e indumenti per sciogliersi subito. Lì, in città, la nevicata dell’alba si era ridotta a una semplice spolverata, ma sulle colline di certo era stata più consistente.

«Cazaril… Ho pensato che questo potrà servirvi, sui passi montani», disse Betriz, tirando fuori da sotto il mantello un peloso oggetto bianco.

Dopo averlo fissato per un istante con aria interdetta, Cazaril si rese conto che si trattava di un cappello di pelliccia, realizzato nello stile tipico dei montanari che vivevano nella regione meridionale di Chalion, con ali da ripiegare sulle orecchie e una cordicella da legare sotto il mento. Sebbene quel genere di copricapo fosse usato da uomini e donne, quello era stato indubbiamente creato per una dama. Infatti era in bianca pelliccia di coniglio e decorato con ricami floreali in filo dorato.

Inarcando le sopracciglia con aria divertita, Foix sogghignò, mentre Ferda si portò una mano alla bocca per coprire una risata.

«Grazioso», commentò Cazaril.

«Ho avuto poco tempo… non sono riuscita a trovare altro», ribatté Betriz, arrossendo. «È sempre meglio che ritrovarsi con le orecchie congelate!»

«Infatti vi ringrazio», convenne Cazaril. «Non disponevo di un cappello adeguato.» Ignorando i sogghigni dei due giovani, tolse il copricapo dalle mani di Betriz e s’inginocchiò per riporlo con cura nelle sacche da sella, un gesto che non era inteso soltanto a gratificare la dama, anche se lo sbuffo soddisfatto che lei indirizzò a Ferda lo divertì. Quando avessero fatto la conoscenza coi venti che soffiavano sulle montagne di confine, i due fratelli avrebbero smesso di sogghignare.

Sopraggiunse Iselle, avvolta in un mantello di velluto color porpora, ma tanto scuro da sembrare nero, e accompagnata da un tremante funzionario della Cancelleria, che consegnò a Cazaril un bastone da corriere numerato, chiedendogli di apporre una firma su un registro. Richiuso in fretta il registro, il funzionario si affrettò a riattraversare il ponte levatoio per mettersi al sicuro dal freddo.

«Siete riuscita a ottenere l’ordine da dy Jironal?» domandò Cazaril, riponendo il bastone in una tasca interna del mantello. Doveva proteggerlo, dato che esso gli avrebbe garantito cavalli freschi, cibo e un letto pulito, anche se duro e stretto, in ogni stazione di posta lungo le strade principali di tutta Chalion.

«Non da dy Jironal, da Orico. Lui è ancora il Roya di Chalion, anche se ho dovuto ricordare la cosa perfino al funzionario della Cancelleria», rispose Iselle. «Gli Dei vi accompagnino, Cazaril.»

«Purtroppo lo faranno», sospirò Cazaril, chinando il capo per baciare le mani gelide della Royesse.

Consapevole che Betriz lo stava tenendo d’occhio, esitò, poi si schiarì la gola e prese anche le mani di lei nelle proprie. Le dita di Betriz si contrassero al contatto delle sue labbra, e lei si lasciò sfuggire un lieve sussulto, ma i suoi occhi rimasero fissi in lontananza, sopra la sua testa. Nel raddrizzarsi, Cazaril vide i fratelli dy Gura che sembravano avvizzire sotto il suo sguardo di fuoco.

Al sopraggiungere di uno stalliere del castello, che conduceva per le briglie tre cavalli da corriere sellati, Palli strinse la mano ai cugini. Ferda prese le redini del cavallo destinato a Cazaril, uno slanciato roano che si adattava alla sua alta statura, e il muscoloso Foix lo aiutò a montare. «State bene, signore?» gli chiese poi, mentre lui si assestava sulla sella con un leggero grugnito. Non siamo ancora partiti e già si preoccupano per me… Ma cosa ha detto loro Betriz? «Sì, va tutto bene. Ti ringrazio.»

Ferda gli porse le redini, Foix lo aiutò ad assicurare dietro l’arcione le preziose sacche da sella, poi i due fratelli montarono a loro volta, Ferda con agilità e suo fratello con maggiore pesantezza, e i tre si avviarono per uscire dal cortile. Voltandosi sulla sella, Cazaril vide Iselle e Betriz percorrere il ponte levatoio e oltrepassare il portone dello Zangre; prima di scomparire al di là di esso, Betriz si voltò, sollevando una mano. Cazaril ricambiò quel gesto di saluto, poi i cavalli superarono la prima curva e gli edifici di Cardegoss nascosero il portone. Un singolo corvo s’intestardì a seguirli, svolazzando di grondaia in cornicione.

Di lì a poco, i tre s’imbatterono poi nel Cancelliere dy Jironal, che stava rientrando al castello dal suo palazzo, a cavallo e seguito da due guardie armate e a piedi. Era evidentemente andato a casa per lavarsi, cambiarsi e sbrigare la corrispondenza personale più urgente. A giudicare dal volto grigiastro e dagli occhi arrossati, la notte precedente non doveva aver dormito molto più di Iselle.

Fermando il cavallo, dy Jironal rivolse a Cazaril uno strano, piccolo gesto di saluto.

«Dove siete diretto, Lord Cazaril… sui cavalli della mia Cancelleria?» domandò, notando le selle leggere da corriere, contrassegnate dallo stemma di Chalion.

«A Valenda, mio signore», rispose Cazaril, accennando un inchino. «Secondo la Royesse Iselle, non è giusto che sia un estraneo a comunicare una notizia così drammatica alla madre e alla nonna, dunque mi ha scelto come suo corriere personale.»

«Ista la Folle, eh?» commentò dy Jironal, sarcastico. «Non invidio il vostro compito.»

«Infatti», annuì Cazaril. Poi, in tono speranzoso, aggiunse: «Ordinatemi di tornare accanto a Iselle, e vi obbedirò all’istante».

«No, no», disse dy Jironal, con un sorrisetto soddisfatto. «Non riesco a immaginare nessuno più adatto di voi a compiere questo triste dovere. Proseguite pure. A proposito, quando avete intenzione di ritornare?»

«Non lo so ancora con certezza. Iselle desidera che, prima di rientrare a corte, mi accerti che sua madre abbia superato questo colpo doloroso… e non mi aspetto che Ista prenda bene la notizia.»

«Lo immagino. Vorrà dire che vi aspetteremo.»

Non dubito che lo farai, pensò Cazaril. Lui e dy Jironal si scambiarono un cauto cenno di saluto, poi i due gruppi proseguirono nelle direzioni opposte. Ma Cazaril si girò e vide che il Cancelliere, svoltando l’angolo verso il portone dello Zangre, aveva fatto altrettanto. Sì, dy Jironal sapeva che sarebbe stato impossibile tendergli subito un’imboscata, giacché quei cavalli da corriere costituivano un enorme vantaggio. Durante il ritorno, però, sarebbe stato tutto molto diverso… Ma io non tornerò lungo questa strada, si disse.

E se non fosse tornato affatto? Aveva soppesato tutti i disastri conseguenti a un fallimento, ma non si era chiesto quale sarebbe stata la sua sorte, se avesse avuto successo. Che ne facevano gli Dei, dei santi utilizzati sino in fondo? Per quel che ne sapeva, non ne aveva mai incontrato uno, salvo forse Umegat… E quel pensiero non era affatto rassicurante.

Raggiunte le porte cittadine, i tre oltrepassarono il ponte che conduceva alla strada del fiume. Il corvo di Fonsa smise di seguirli e si appollaiò sui merli della porta, lanciando qualche triste richiamo, la cui eco li seguì lungo la discesa nel burrone. Cazaril si chiese se Betriz li avrebbe guardati percorrere la strada, dalle finestre del castello. Ma, se pure lo avesse fatto, lui non sarebbe stato in grado di vederla, così in alto e nell’ombra dell’interno del palazzo.

I suoi cupi pensieri furono dispersi da un martellare di zoccoli. Era un corriere in arrivo — una donna — che li oltrepassò al galoppo, su un cavallo affannato e coperto di schiuma, rivolgendo loro un cenno di saluto. I corrieri donna erano decisamente preferiti da alcuni responsabili alle assegnazioni dei cavalli della Cancelleria, almeno sulle strade più sicure: secondo loro, il peso minore e le mani più leggere affaticavano meno gli animali. Rispondendo al saluto, Foix si girò sulla sella per contemplare la donna e Cazaril non ritenne che stesse semplicemente ammirando il suo talento equestre.

«Adesso possiamo galoppare, mio signore?» domandò Ferda, tutto speranzoso, affiancando il cavallo a quello di Cazaril. «Le giornate sono corte, e i cavalli riposati.»

Ma io non lo sono, per i cinque Dei, pensò Cazaril con un sospiro. «Sì», rispose tuttavia, spronando il roano, che si lanciò subito in uno sciolto galoppo allungato.

Davanti a loro, la strada si aprì, attraverso un panorama striato di neve, snodandosi in mezzo a grigi veli di nebbia, pervasi dal vago sentore di vegetazione marcescente proprio dell’inverno, per poi svanire lungo l’orizzonte incerto.

21

Cazaril e la sua scorta arrivarono a Valencia al tramonto del giorno successivo. La massa della città si stagliava contro il cielo grigio come il peltro, immersa in una penombra sempre più fitta, venata dal bagliore arancione di una torcia o di una candela, tenui scintille di luce e di vita. Sulla strada secondaria che conduceva a Valenda non avevano trovato stazioni per i corrieri, tutte dislocate sulla strada principale diretta alla sede provinciale baociana, Taryoon. L’ultimo tratto del viaggio era stato particolarmente faticoso per i cavalli, e per Cazaril fu un sollievo percorrerlo a passo lento. Avrebbe voluto fermarsi di schianto, accasciandosi sul bordo della strada senza muoversi per giorni… Entro pochi minuti avrebbe dovuto informare una madre della morte di suo figlio, la peggiore fra tutte le prove di quel viaggio.

Fin troppo presto, arrivarono al portone del castello della Provincara, e le guardie lo riconobbero immediatamente, chiamando a gran voce i servitori. Lo stalliere Demi, prendendo le redini del suo cavallo, fu il primo a chiedergli il motivo della sua presenza lì. E non sarebbe stato l’ultimo. «Reco messaggi per la Provincara e Lady Ista», rispose seccamente Cazaril, chinandosi in avanti sul pomo della sella.

Foix gli si avvicinò e rimase a fissarlo con aria piena di aspettativa, in attesa di aiutarlo a smontare. Passata la gamba destra oltre il dorso del cavallo, Cazaril liberò l’altro piede dalla staffa e si lasciò cadere a terra. Le ginocchia gli cedettero e sarebbe caduto se una mano robusta non lo avesse sorretto per un braccio. Chiedendosi quale prezzo avrebbe pagato per l’andatura sostenuta cui avevano viaggiato, rimase immobile, tremando, ancora per qualche istante. Infine ritrovò l’equilibrio e chiese: «Ser dy Ferrej è qui?»

«Ha accompagnato la Provincara a un banchetto di nozze, in città», rispose Demi. «Non so quando abbiano intenzione di ritornare.»

«Oh», mormorò Cazaril, troppo stanco anche solo per pensare.

La notte precedente, si era sentito così esausto che, in pochi minuti, si era addormentato nella cuccetta della stazione di posta cui l’avevano condotto i suoi compagni. Non si era svegliato neppure durante la consueta crisi notturna scatenata da Dondo. Gli conveniva forse aspettare la Provincara, informarla e lasciare che fosse lei a stabilire cosa dire alla figlia? Dopo una breve riflessione, decise che quell’attesa gli era intollerabile. Era meglio affrontare il problema e farla finita. «In tal caso, vedrò prima Lady Ista. Nel frattempo, bada ai cavalli: hanno bisogno di essere strigliati, abbeverati e nutriti. I miei compagni sono Ferda e Foix dy Gura, gentiluomini di Palliar. Per favore, provvedi a loro… in tutto. Non abbiamo ancora mangiato.» Non ci fu bisogno di aggiungere che non si erano neppure lavati: tutti e tre avevano gli abiti intrisi di sudore e schizzati di fango, nonché le mani e la faccia striate di polvere. Inoltre, nella fioca luce delle torce che rischiaravano il cortile, apparivano decisamente stanchi. Con dita rigide per aver stretto le redini al freddo fin dall’alba, Cazaril cercò di sciogliere i lacci delle sacche da sella, ma Foix si precipitò ad aiutarlo, rimuovendo anche le sacche dalla groppa del cavallo. Con aria piuttosto determinata, Cazaril tornò a impossessarsene, se le ripiegò sul braccio e si voltò. «Accompagnatemi da Ista, per favore», disse, con voce fievole. «Ho per lei alcune lettere da parte della Royesse Iselle.»

Un servitore lo condusse in casa e lungo le scale dell’edificio nuovo, fermandosi di tanto in tanto per permettere a Cazaril, che si sentiva le gambe pesanti come piombo, di raggiungerlo. L’uomo scambiò poi qualche parola sommessa con le dame di compagnia di Ista, e ottenne il permesso di far entrare il visitatore. L’aria delle stanze era profumata da ciotole di petali di fiori secchi e, in un angolo, un focolare rischiarava l’ambiente, riscaldandolo. In quel delicato salotto, Cazaril si sentì d’un tratto enorme, goffo e sporco.

Seduta su una panca rivestita di cuscini, Ista era avvolta in caldi scialli e aveva i capelli castani raccolti in una spessa treccia. Come Sara, anche lei era avviluppata dall’ombra nera della maledizione. A quanto pare, la mia supposizione era esatta, pensò Cazaril.

Nel girarsi verso di lui, Ista sgranò gli occhi e s’irrigidì. Era bastata la semplice presenza di Cazaril per farle capire che era successo qualcosa di molto grave. Lui allora dimenticò di colpo i cento modi diversi che aveva elaborato durante il viaggio per darle gentilmente la ferale notizia. Pensando che un ulteriore indugio sarebbe ormai stato una crudeltà indicibile, Cazaril s’inginocchiò davanti a lei, si schiarì la gola e disse: «Per prima cosa, Iselle sta bene… Aggrappatevi a questo». Tratto un profondo respiro, aggiunse: «Come seconda cosa… Teidez è morto due notti fa, a causa di una ferita che si è infettata».

Le due dame di compagnia che assistevano Ista lanciarono un grido di sgomento e si abbracciarono, ma la Royina Vedova quasi non si mosse, tranne per un lieve sussulto, come se fosse stata colpita da una freccia invisibile. Dopo un momento, sospirò.

«Avete compreso le mie parole, Royina?» chiese Cazaril, esitante.

«Oh, sì», sussurrò lei, incurvando verso l’alto un angolo della bocca in un’espressione che non si poteva definire un sorriso, ma esprimeva piuttosto un’amara ironia. «Quando un colpo atteso da troppo tempo sopraggiunge, è quasi un sollievo. Adesso che l’attesa è finita, posso smettere di avere paura… Riuscite a capirlo?»

Cazaril annuì.

«Come si è procurato questa ferita?» domandò con voce pacata la Royina, dopo un momento di silenzio infranto soltanto dai singhiozzi delle sue dame. «Cacciando? Oppure… in qualche altro modo?»

«Non… proprio cacciando, in un certo senso è stato…» Cazaril si umettò le labbra crepate dal freddo, poi chiese: «Signora, vedete in me qualcosa di strano

«Adesso posso vedere soltanto coi miei occhi. Per il resto, sono cieca da anni. Voi potete vedere?» ribatté Ista.

Cazaril colse all’istante il significato di quella domanda. «Sì.»

«L’avevo capito», annuì Ista. «Coloro che vedono con quegli occhi hanno un aspetto particolare.»

Tremando, una delle dame le si avvicinò. «Mia signora, adesso forse dovreste andare a letto», disse in un tono permeato di falsa tranquillità. «Senza dubbio la vostra signora madre sarà presto di ritorno…» E scoccò da sopra la spalla una significativa occhiata a Cazaril, evidentemente convinta che Ista stesse per scivolare in una delle sue crisi di follia… o, per meglio dire, in quelle che tutti credevano fossero crisi di follia. Ma in realtà, Ista era mai stata pazza?

«Per favore, lasciateci soli», intervenne Cazaril, accoccolandosi sui talloni. «Ho bisogno di parlare in privato con la Royina di questioni della massima urgenza.»

«Mio signore, io…» mormorò la donna, poi sfoggiò un falso sorriso e gli sussurrò all’orecchio: «Non osiamo lasciarla sola in quest’ora di dolore… potrebbe farsi del male».

Alzatosi, Cazaril afferrò entrambe le dame per un braccio, guidandole fuori con gentile ma inesorabile fermezza. «Provvederò io a proteggerla», garantì. «Voi potrete aspettare nella camera dall’altra parte del corridoio. Se avrò bisogno di aiuto, vi chiamerò. D’accordo?» E chiuse la porta, nonostante le proteste di entrambe.

Ista era rimasta immobile. Muoveva soltanto le mani, che stringevano un fazzoletto di fine merletto e che continuavano a piegarlo e a ripiegarlo. Con un grugnito di stanchezza, Cazaril sedette a gambe incrociate ai suoi piedi, e sollevò lo sguardo su quel volto pallidissimo, dagli occhi dilatati. «Ho visto gli spettri dello Zangre», disse.

«Sì.»

«Non solo. Ho anche visto la nube nera che aleggia sulla vostra Casa, la maledizione del Generale Dorato, la sventura degli eredi di Fonsa.»

«Sì.»

«Allora ne siete al corrente?»

«Oh, sì.»

«Essa vi aleggia intorno, in questo momento.»

«Sì.»

«Era presente intorno a Orico e a Sara, a Iselle… e a Teidez.»

«Sì», ripeté Ista, chinando la testa di lato e fissando lo sguardo in lontananza.

Osservando la Royina, a Cazaril vennero in mente quei soldati che, durante una battaglia, erano colpiti, ma, prima di cadere al suolo, entravano in una sorta di trance e continuavano per qualche tempo a muoversi barcollando, compiendo talvolta gesta straordinarie. Quella quieta coerenza era forse indice di una simile condizione, che ben presto si sarebbe dissolta? Doveva approfittarne? Oppure Ista era stata davvero sempre incoerente? O forse erano semplicemente loro che non erano in grado di comprenderla? «Orico si è ammalato gravemente», provò a spiegarle. «Il modo in cui sono giunto a godere della seconda vista fa parte integrante di questo guazzabuglio di magia nera, perciò vi supplico, signora, vi scongiuro… Ditemi come siete venuta a conoscenza di tutto ciò. Che cosa avete visto, quando e come? Io devo capire, perché credo, anzi temo, che mi sia stato attribuito l’onere, che sia ricaduto su di me il compito di agire, senza però che mi sia stato detto nulla su quale azione intraprendere… È un velo di oscurità che neppure la seconda vista può trapassare.»

«Io vi posso svelare alcune verità», replicò Ista, inarcando le sopracciglia. «Ma non vi posso dare la comprensione… Come potrei, dato che non la possiedo? Io ho sempre detto la verità.»

«Sì, ora lo capisco», annuì Cazaril. «Ma l’avete mai detta per intero?»

Ista si tormentò il labbro inferiore, mentre le mani tremanti, che sembravano quasi non appartenerle, cominciarono a riaprire le pieghe del fazzoletto, lisciandolo su un ginocchio. Infine annuì lentamente e prese a parlare, con voce tanto bassa da costringere Cazaril a chinare il capo verso di lei, per essere certo di cogliere tutte le parole.

«Tutto ha avuto inizio quando sono rimasta incinta di Iselle», disse. «Sono cominciate le visioni e la seconda vista è affiorata a tratti. Ho creduto che si trattasse di un effetto della gravidanza, che sconvolge la mente di alcune donne, e, per qualche tempo, i medici mi hanno convinta che era veramente cosi. Vedevo gli spettri fluttuare alla cieca, l’ombra nera che aleggiava intorno a Ias, al giovane Orico… Sentivo voci e sognavo gli Dei, il Generale Dorato, Fonsa e i suoi due fedeli compagni che bruciavano nella torre, Chalion che ardeva come quella torre. Dopo la nascita di Iselle, quelle visioni sono cessate. Ho pensato che si trattasse di una follia transitoria.»

Anche con l’occhio della mente, non si poteva vedere se stessi. A Cazaril, però, erano stati concessi il sostegno di Umegat e un sapere comprato col sacrificio di altri, elargitogli come un dono. Se stessi ancora tentando di spiegare l’inesplicabile, ne sarei atterrito, pensò.

«Poi sono rimasta incinta di nuovo, di Teidez. Le visioni si sono ripresentate ed è stato molto peggio di prima. Non riuscivo a credere di essere pazza, ma soltanto quando ho minacciato di uccidermi Ias mi ha confessato che si trattava della maledizione, e che lui ne era al corrente, lo era sempre stato.»

E quanto si sarebbe sentito tradito, scoprendo che coloro che conoscevano la verità non lo avevano informato, lasciandolo a brancolare da solo nel buio, in preda al terrore?

«Ero inorridita all’idea di aver generato due figli, esponendoli a quell’orribile pericolo, e ho cominciato a pregare gli Dei perché la maledizione venisse rimossa, o almeno perché mi dicessero come poteva essere annullata, così da risparmiare vite innocenti. Poi, quand’ero prossima a dare alla luce Teidez, la Madre dell’Estate è venuta da me… Non in sogno, non mentre stavo dormendo, bensì in pieno giorno, mentre ero lucida e sveglia. Mi si è fermata vicinissima, proprio come siete voi adesso, e io sono crollata in ginocchio. Se avessi osato, avrei potuto toccare le sue vesti. Sentivo addirittura il profumo del suo alito, simile a quello dei fiori estivi. Il suo volto era troppo bello perché i miei occhi potessero contemplarlo, e tanto luminoso che pareva di fissare il sole. La sua voce era musica.» La voce di Ista si raddolcì e la pace che quella visione le aveva infuso trasparì dal suo volto, un bagliore di bellezza simile al riflesso di un raggio di sole sulle acque scure. Poi però la sua fronte tornò a corrucciarsi, e lei si protese in avanti. «La Madre ha detto che gli Dei stavano cercando di riprendersi la maledizione, che essa non apparteneva a questo mondo ed era un dono per il Generale Dorato e da lui usato in maniera impropria. Poi ha aggiunto una sorta di… profezia. Gli Dei avrebbero annullato la maledizione soltanto tramite la volontà di un uomo disposto a sacrificare tre volte la vita per la Casa di Chalion.»

«E se invece…» Cazaril esitò. Il rumore del proprio respiro gli echeggiava nelle orecchie, così forte da soffocare quella voce sommessa. «Non potrebbero tre uomini sacrificare ciascuno la propria vita una volta sola?» Si diede dello stolto per aver posto quella domanda, ma non era riuscito a trattenersi.

«No», ribatté Ista, incurvando nuovamente le labbra in quel suo sorriso sarcastico. «Ma avete giustamente notato il problema…»

«Non mi sembra che ci sia una soluzione. Quella… profezia era dunque una specie di trucco?»

Ista allargò le mani in un gesto ambiguo, poi ricominciò a piegare il fazzoletto. «Ne ho parlato a Ias, e naturalmente lui si è confidato con Lord dy Lutez… Ias non gli teneva mai nascosto nulla, tranne quando si trattava di me. Tranne che per me.»

Stupito, Cazaril si trovò a riflettere che quella «santità» da lui condivisa con Ista rendeva più facile parlarle. Era un atteggiamento sconsiderato e precario, una sensazione destinata irrimediabilmente a svanire, eppure… Da santo a santo, da anima ad anima, quel fugace momento pareva aver creato tra loro un’intimità più intensa di quella tra due amanti. Cominciò a capire perché Umegat si fosse tanto attaccato a lui. «Che rapporto esisteva tra loro, in realtà?» chiese.

«Erano amanti fin da prima che io nascessi», rispose Ista, scrollando le spalle. «Chi ero io per giudicarli? Dy Lutez amava Ias, io amavo Ias e lui ci amava entrambi. Si è impegnato così a fondo, ha dato tutto se stesso, portando il peso di tutti i suoi fratelli morti e di suo padre Fonsa! L’angoscia e il coinvolgimento lo hanno consumato fin quasi a portarlo sull’orlo della morte… ma tutto è andato per il verso sbagliato.» Ista esitò, e Cazaril fu assalito dall’improvviso terrore di avere inavvertitamente fatto qualcosa per bloccare quel flusso di confidenze. A quanto pareva, invece, Ista stava soltanto mettendo ordine… non nei suoi pensieri, ma nel suo cuore, perché infine riprese a parlare, sia pure più lentamente. «Non ricordo più di chi sia stata l’idea. Quella notte, successiva alla nascita di Teidez, eravamo riuniti in consiglio, solo noi tre. Io avevo ancora la seconda vista, e sia io sia Ias sapevamo che i nostri figli, e il povero Orico, erano fagocitati da quella cosa oscura. ’Salva i miei figli!’ ha gridato Ias, appoggiando la fronte sul tavolo e scoppiando in pianto. ’Salva i miei figli!’ E Lord dy Lutez ha risposto: ’Ci proverò, per l’amore che ti porto. Tenterò questo sacrificio’.»

«Ma come, per i cinque Dei?» sussurrò Cazaril.

«Abbiamo vagliato insieme un centinaio di piani. Com’era possibile uccidere un uomo e poi riportarlo in vita?» replicò Ista, con un sussulto. «Be’, era quasi impossibile, in effetti. L’annegamento offriva le possibilità maggiori: anzitutto avrebbe causato i minori danni fisici e poi c’erano molti resoconti di persone richiamate in vita da un annegamento. Allora dy Lutez ha indagato su alcuni di quei casi, cercando di capire come avessero fatto gli interessati a salvarsi.»

A Cazaril quasi si mozzò il respiro. L’annegamento… e a sangue freddo, per di più. Adesso anche le sue mani stavano tremando.

Pacata e impassibile, Ista proseguì: «Abbiamo fatto giurare a un medico di mantenere il segreto e siamo andati nelle segrete dello Zangre, dove dy Lutez si è lasciato spogliare, legare con braccia e gambe bloccate contro il corpo e appendere a testa in giù sopra un serbatoio. Lo abbiamo calato a testa in avanti, tirandolo fuori soltanto quando ha smesso di dibattersi…»

«Ed era morto?» chiese Cazaril, con un filo di voce. «Allora l’accusa di tradimento era…»

«Era morto, certo, ma non per l’ultima volta, perché siamo riusciti a riportarlo in vita, sia pure a stento.»

«Oh.»

«La cosa stava funzionando!» continuò Ista, serrando le mani. «Lo avvertivo, vedevo una crepa nella maledizione. Però a dy Lutez è mancato il coraggio e, la notte successiva, si è rifiutato di sottoporsi a una seconda immersione. Ha cominciato a gridare, sostenendo che ero gelosa di lui e stavo cercando di assassinarlo. A quel punto, Ias e io… abbiamo commesso un errore.»

Cazaril cominciò a capire come si sarebbe conclusa quella storia e avrebbe voluto chiudere gli occhi. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. Si costrinse a tenerli aperti e fissi sul volto della Royina.

«Lo abbiamo afferrato, sottoponendolo a viva forza alla seconda prova. Lui urlava, piangeva… e Ias ha esitato. ’Dobbiamo farlo!’ ho gridato allora. ’Pensa ai bambini!’ Stavolta, però, quando lo abbiamo tirato fuori, lui era annegato definitivamente, e tutte le nostre lacrime e le nostre preghiere non sono bastate a richiamarlo in vita. Ias ne è stato distrutto, io ero sgomenta. È stato allora che la seconda vista mi è stata tolta e che gli Dei hanno distolto il loro viso da me.»

«Allora l’accusa di tradimento era falsa», osservò Cazaril.

«Sì, era una menzogna per nascondere il nostro peccato… e giustificare il cadavere», ammise Ista. «Alla sua famiglia è stato comunque permesso di ereditare i suoi possedimenti, e nulla è stato confiscato.»

«Nulla, tranne la sua reputazione e il suo onore», obiettò Cazaril. «Quell’onore che era tutto per l’orgoglioso dy Lutez, che considerava la ricchezza e la gloria soltanto un simbolo di esso.»

«Abbiamo agito in preda al panico. Dopo, non potevamo più tirarci indietro. Fra tutti i motivi di rammarico, credo sia stato questo che ha più logorato Ias, nei mesi successivi. Ias non ha più voluto tentare, si è rifiutato di cercare un altro volontario. Il sacrificio doveva essere spontaneo, capite? Nessun assassinio avrebbe dato il risultato voluto: bisognava trovare un uomo che si facesse avanti di propria volontà e in piena consapevolezza. Ias ha perso la voglia di vivere ed è morto, oppresso dal dolore e dal senso di colpa…» Ista tirò il fazzoletto di pizzo fin quasi a lacerarlo. «E mi ha lasciata sola, con due bambini e senza un modo per proteggerli da… questa cosa nera…» Trasse un respiro affannoso, ma non scivolò nell’isteria, benché Cazaril fosse già pronto a richiamare le dame di compagnia. Dopo un momento, la respirazione tornò regolare, le spalle le si rilassarono, e lei domandò: «Ditemi di voi… Gli Dei vi hanno toccato?»

«Sì.»

«Me ne dispiace.»

«Già», convenne lui, con una risata tremante. Era il suo turno per confessarsi. Con altri, avrebbe anche potuto nascondere la verità, ma con Ista… No, glielo doveva: valore per valore, ferita per ferita. «Quali notizie vi sono giunte da Cardegoss riguardo al fidanzamento di Iselle e alla sorte di Lord Dondo dy Jironal?»

«I messaggeri sono giunti l’uno dopo l’altro… Non abbiamo neanche potuto festeggiare. Però non siamo stati in grado d’interpretare gli eventi.»

«Volevate festeggiare il matrimonio di un quarantenne con una sedicenne?»

«Tra Ias e me c’era un divario d’età anche maggiore», ribatté Ista, sollevando di scatto la testa in un modo così simile a quello di Iselle da togliere il respiro a Cazaril, il quale, comunque, si rese conto che Ista, per il ruolo che ricopriva, vedeva quel fidanzamento sotto una luce diversa.

«Dondo non era Ias, mia signora», spiegò. «Era corrotto, vizioso, empio… Era un intrallazzatore e un mezzano. Sono quasi certo che abbia fatto assassinare Ser dy Sanda e forse ha addirittura provveduto di persona a ucciderlo. Inoltre, era in combutta con suo fratello, Martou, per ottenere un controllo assoluto della Casa di Chalion tramite Orico, Teidez… e Iselle.»

«Ho incontrato Martou a corte, alcuni anni fa», commentò Ista, portandosi una mano alla gola. «Già allora aspirava a diventare il successivo Lord dy Lutez, l’astro più nobile e scintillante dell’intera corte di Chalion… benché non fosse degno di lucidargli gli stivali. Quanto a Dondo, non l’ho mai conosciuto.»

«Dondo era un vero disastro. Io l’ho incontrato per la prima volta anni fa e ho capito subito che non aveva carattere. Con gli anni è peggiorato. Iselle era sgomenta e furente per il modo in cui le era stato imposto di sposarlo, e ha pregato gli Dei perché le risparmiassero quell’abominevole matrimonio. Gli Dei non hanno risposto… perciò l’ho fatto io. Ho dato la caccia a Dondo per un’intera giornata, con l’intenzione di ucciderlo, però non sono riuscito neppure ad avvicinarlo, e alla fine ho pregato il Bastardo perché mi concedesse un miracolo di magia di morte. E lui lo ha fatto.»

«Come mai non siete morto?» domandò Ista, sorpresa, inarcando le sopracciglia.

«Ho creduto di morire… Quando mi sono svegliato, scoprendo che Dondo era morto e che io ero ancora vivo, non sapevo più cosa pensare. Umegat, però, ha scoperto che le preghiere di Iselle hanno causato un secondo miracolo: la Signora della Primavera mi ha risparmiato la vita dal demone del Bastardo, ma solo temporaneamente. Il santo Umegat, che io credevo un semplice stalliere…» La storia si stava facendo spaventosamente intricata… Allora Cazaril fece una digressione per spiegare chi fosse Umegat, come funzionasse il miracolo del serraglio e come esso avesse preservato la vita del povero Orico, nonostante la maledizione. «Purtroppo Dondo, quand’era ancora certo che avrebbe sposato Iselle, ha convinto Teidez dell’esatto contrario, sostenendo che il serraglio era una magia dei roknari escogitata per mantenere Orico malato. E Teidez gli ha creduto. Cinque giorni fa, ha preso con sé le sue guardie baociane e ha massacrato quasi tutti gli animali sacri, mancando per puro caso di uccidere anche il santo. Nell’agonia, il leopardo di Orico lo ha graffiato… Vi giuro che era soltanto un graffio! Se avessi immaginato… La ferita si è infettata, e la fine di Teidez è stata… molto rapida», concluse Cazaril, ricordando d’un tratto che stava parlando con la madre del ragazzo.

«Povero Teidez», gemette Ista, distogliendo lo sguardo. «Mio povero Teidez. Credo che tu sia nato per essere tradito.»

«Comunque sia, a causa di questa strana concatenazione di miracoli, adesso il demone della morte e lo spettro di Dondo sono intrappolati nel mio ventre, rinchiusi, a quanto pare, in una sorta di tumore. Quando verranno liberati, io morirò.»

L’espressione dolente sul volto di Ista scomparve. «Questa sarebbe la seconda morte», disse lei, sollevando gli occhi su Cazaril.

«Ah… Come?»

Le mani della donna abbandonarono di colpo il fazzoletto stropicciato per serrare il colletto di Cazaril, mentre il suo sguardo era così intenso da essere quasi doloroso. «Sei il dy Lutez di Iselle?» domandò la Royina, col respiro affannoso.

«Io… io… io…» balbettò Cazaril, assalito da un improvviso sgomento.

«Due volte. Due volte… Ma come realizzare la terza? Oh…» sussurrò Ista, con le pupille dilatate e pulsanti, le labbra che tremavano. «Che cosa sei?» chiese.

«Io… sono soltanto Cazaril, mia signora! Non sono un altro dy Lutez, questo è certo, perché non sono brillante, ricco o forte. Gli Dei sanno che non sono neppure avvenente o coraggioso, benché, messo alle strette, non esiti a combattere.»

«Se si levano tutti questi ornamenti inutili… Denudato, appeso a testa in giù, quell’uomo risplendeva, ed è rimasto fedele, sino alla morte. Ma non lo è stato fino a due morti o a tre!» esclamò Ista, con un gesto impaziente.

«No, è una follia! Non è il modo con cui ho intenzione d’infrangere la maledizione», ribatté Cazaril. I cinque Dei gli erano testimoni che lui non intendeva annegarsi! «Ho un altro piano per salvare Iselle.»

«Allora gli Dei vi hanno parlato?» domandò Ista, continuando a sondarlo con un’intensità spaventosa negli occhi.

«No, procedo sulla base della ragione.»

Ista si accasciò all’indietro e, con suo sollievo, lo lasciò andare. «La ragione?» ripeté, aggrottando la fronte. «In una cosa del genere?»

«Voi e Sara siete state coinvolte nella maledizione a causa del vostro matrimonio con un membro della Casa di Chalion. Di conseguenza, credo che Iselle possa sottrarsi alla maledizione tramite il matrimonio. Questo genere di fuga non era possibile per Teidez, ma adesso… Sono diretto a Ibra, deciso a far unire in matrimonio Iselle col nuovo Erede, il Royse Bergon. Dy Jironal cercherà d’impedirlo, perché esso segnerà la fine del suo potere a Chalion, ma Iselle ha intenzione di sottrarsi a lui riportando il corpo di Teidez qui a Valenda per la sepoltura», spiegò Cazaril, procedendo a esporre nei dettagli il piano di Iselle: sarebbe giunta a Valenda col corteo funebre e si sarebbe incontrata lì con Bergon.

«Forse», sussurrò Ista. «Forse…»

Cazaril non capì a cosa si stesse riferendo. «Vostra madre sa di tutto questo?» chiese allora, notando che Ista non smetteva di fissarlo. «Sa della maledizione? Conosce la vera storia della morte di dy Lutez?»

«Una volta ho cercato di parlargliene, e lei ha deciso che ero davvero pazza. Non è poi così brutto, essere pazzi, sapete? Ha i suoi vantaggi. Non devo prendere nessuna decisione in merito a cosa mangiare, a cosa indossare, a dove andare, su chi vive o chi muore… Potreste provarci anche voi. Vi basterà dire la verità. Raccontate di avere dentro un demone e uno spettro, di un rumore che v’insulta nottetempo e di come gli Dei proteggano i vostri passi. Vedrete, cosa succede…» replicò Ista, abbandonandosi a una risata priva d’umorismo. Poi contrasse le labbra in un amaro sorriso, e aggiunse: «Non siate così allarmato, Lord Cazaril. Se pure dovessi riferire ad altri la vostra storia, vi basterà negarla, e tutti penseranno che sia io ad aver smarrito la ragione, non voi».

«Credo che le vostre parole siano state negate già troppo, signora.»

Assalita da un tremito, Ista si morse un labbro e distolse lo sguardo.

A disagio, Cazaril improvvisamente si ricordò delle sacche da sella, appoggiate contro il suo fianco. «Iselle ha scritto una lettera per voi, e una per sua nonna, e mi ha incaricato di consegnarle», spiegò, frugando nella sacca. Ne estrasse il pacchetto della corrispondenza e porse a Ista la sua lettera, con mani che tremavano anche, ma non solo, per la stanchezza e la fame. «Adesso dovrei andare a lavarmi e a mangiare qualcosa», aggiunse. «In tal modo, quando la Provincara rientrerà, forse sarò in condizioni adeguate per presentarmi a lei.»

«Allora richiama le mie dame», replicò Ista, stringendosi al petto la lettera. «Credo che adesso mi ritirerò, perché non ho più motivo di vegliare…»

«C’è Iselle», ribatté Cazaril, sollevando lo sguardo di scatto. «Lei è un motivo per vegliare.»

«Ah, sì, c’è ancora un ostaggio da sacrificare, poi potrò dormire per sempre.» Si protese a battere un colpetto sulla spalla di Cazaril in uno strano gesto di rassicurazione. «Adesso, tuttavia, dormirò soltanto per stanotte. Sono così stanca che credo di aver consumato tutte le lacrime e i lamenti, al punto che mi sento del tutto svuotata.»

«Vi capisco, signora.»

«Sì, è vero. Ed è strano.»

Allungando una mano verso la panca, per puntellarsi, Cazaril si alzò e permise alle dame piangenti di rientrare nella stanza. Lasciata Ista alle loro attenzioni, si gettò in spalla le sacche da sella e si congedò con un inchino.

Dopo essersi lavato, aver cambiato l’abito ed essersi concesso un pasto caldo, Cazaril si sentì ristorato, anche se la sua mente era ancora sconvolta dalla conversazione con Ista. Quando poi i servitori lo pregarono di attendere il ritorno della Provincara nel suo tranquillo salottino, all’interno dell’edificio nuovo, lui accolse con gratitudine quell’opportunità di mettere ordine nei propri pensieri. Un fuoco vivace ardeva nel focolare; dolorante in tutto il corpo, Cazaril si sedette su una sedia dotata di cuscini e prese a sorseggiare un po’ di vino annacquato, cercando di non assopirsi e dicendosi che con ogni probabilità l’anziana dama sarebbe tornata abbastanza in fretta.

E così avvenne. La Provincara sopraggiunse in breve tempo, accompagnata dalla cugina e dama di compagnia, Lady dy Hueltar, nonché da Ser dy Ferrej, grave in volto. Indossava ancora l’elegante abito di gala di seta e velluto verde, ed era adorna di gioielli, ma a Cazaril bastò guardarla per capire che qualche servitore le aveva già riferito la tragica notizia. Alzandosi a fatica, si affrettò a inchinarsi.

«Cazaril, è vero?» domandò la Provincara, serrandogli le mani nelle proprie e scrutandolo in volto.

«Teidez è morto all’improvviso, per un’infezione. Quanto a Iselle, sta bene… ed è l’Erede di Chalion.»

«Povero ragazzo! Povero ragazzo! Lo hai già detto a Ista?»

«Sì.»

«Oh, povera me. Come l’ha presa?»

Non si poteva di certo rispondere bene. «Con calma, Vostra Grazia», preferì dire Cazaril. «Se non altro, non ha avuto la crisi violenta che paventavo. I colpi che la vita le ha inflitto l’hanno lasciata come intorpidita… Tuttavia ignoro in quale stato sarà domani. Le sue dame l’hanno messa a letto.»

La Provincara sospirò, e si costrinse a ricacciare indietro le lacrime.

«Iselle mi ha affidato una lettera per voi», proseguì Cazaril, inginocchiandosi accanto alle sacche da sella. «E ce n’è anche una per Ser dy Ferrej, da parte di Betriz, anche se non ha avuto il tempo di scrivere molto», aggiunse, porgendo le due missive sigillate. «Adesso verranno qui entrambe, perché Iselle intende far seppellire Teidez a Valenda.»

«Ah», mormorò la Provincara, infrangendo il sigillo della lettera senza badare a dove cadevano i frammenti di cera. «Quanto desidero rivederla!» aggiunse, divorando con gli occhi il messaggio. «È breve», si lamentò poi, inarcando le sopracciglia grigie. «Afferma che provvederai tu a spiegarmi ogni cosa.»

«Sì, Vostra Grazia. Ho molte cose da dirvi, e alcune sono confidenziali.»

«Andate», ordinò lei ai suoi accompagnatori. «Provvederò io a richiamarvi.»

Nel dirigersi alla porta, dy Ferrej stava già infrangendo il sigillo della sua lettera.

Sedutasi con un frusciare di stoffe, la missiva di Iselle ancora stretta tra le mani, la Provincara indicò a Cazaril un’altra sedia, che lui accostò alla sua. «Devo andare da Ista, prima che si addormenti», lo ammonì lei.

«Cercherò di essere succinto, Vostra Grazia. Vi riferirò ciò che ho appreso nel corso della stagione trascorsa a Cardegoss. Quanto al prezzo che ho pagato per apprenderlo…» Quel prezzo, lo squarcio che si era prodotto nel suo mondo, era una cosa che Ista aveva compreso all’istante. Ma lui non era certo che la Provincara sarebbe riuscita a fare altrettanto. «… adesso non ha importanza», proseguì. «Tuttavia sappiate che l’Arcidivino Mendenal di Cardegoss vi potrà confermare le mie parole, se avrete modo d’incontrarlo. Se andrete da lui a mio nome, non vi negherà nulla.»

«Come puoi controllare un Arcidivino?» esclamò la Provincara, inarcando di scatto le sopracciglia.

«Invocando un rango superiore al suo», replicò lui, con una sommessa risata.

«Cazaril, niente stupidi scherzi», lo ammonì l’anziana dama, raddrizzandosi e serrando le labbra con aria contrariata. «Sembri oscuro al pari di Ista.»

Già, a pensarci, era probabile che fosse piuttosto irritante vivere a stretto contatto con l’ironia che Ista usava a mo’ di protezione… Ma del resto lei non aveva nessuno che prendesse le sue difese, rifletté Cazaril, poi disse: «Provincara… Vostra figlia ha il cuore infranto e la sua forza di volontà è annientata al punto che desidera la liberazione della morte, ma non è pazza. Gli Dei non sono così misericordiosi.»

La dama s’incurvò su se stessa, come se quelle parole avessero toccato un punto dolente. «Il suo dolore è assurdo. Forse che nessun’altra donna è rimasta vedova prima d’ora? Nessuna ha perso dei figli? Io ho sofferto entrambe queste perdite, ma non gemo e piango di continuo, per anni di fila. Certo, ho pianto a suo tempo, ma poi ho continuato a svolgere il mio dovere. Se la sua mente non ha ceduto, allora Ista commisera se stessa in modo davvero eccessivo.»

Sarebbe riuscito a spiegare alla Provincara la situazione di Ista senza tradire le confidenze che lei gli aveva fatto? Forse, ricorrendo a una verità parziale… «Tutto risale all’epoca della grande guerra tra Fonsa l’Abbastanza Saggio e il Generale Dorato…» cominciò. Espose il meccanismo della maledizione nel modo più semplice possibile e illustrò come essa avesse operato sulla storia della Casa di Chalion. Durante il regno di Ias, i disastri erano stati così numerosi che lui non ebbe quasi bisogno di accennare alla caduta di dy Lutez, adducendo l’impotenza di Orico, la lenta corruzione dei suoi consiglieri, il fallimento della sua politica e il crollo della sua salute, a esemplificazione dell’effetto della maledizione.

«Tutta questa immonda sfortuna è dunque opera della magia nera dei roknari?» chiese la Provincara, accigliandosi.

«Da quel che ne capisco io, no. È una sorta di… traboccamento, la perversione di una divinità ineffabile, che ha perso il suo giusto posto.»

«Le due cose sono abbastanza simili», dichiarò la dama, scrollando le spalle. «Se funziona come la magia nera, allora è magia nera. Bisogna chiedersi come contrastarla, dunque.»

Secondo Cazaril, quella somiglianza era alquanto dubbia: di certo, soltanto una comprensione corretta della cosa poteva portare a un’azione altrettanto corretta, Ista e Ias avevano tentato d’imporre una soluzione con la forza, come se la maledizione fosse stata una magia, da contrastare con altra magia, una sorta di rito trito e ritrito.

«Tutto ciò si collega in qualche modo alle storie assurde che abbiamo sentito circolare, secondo le quali Dondo dy Jironal sarebbe stato assassinato mediante magia di morte?» chiese la Provincara.

Quella, se non altro, era una domanda cui nessuno, meglio di lui, avrebbe potuto rispondere. Cazaril aveva già deciso di escludere, da quella versione, la massima quantità possibile di dettagli ultraterreni. Se lui avesse preso a farneticare di demoni, spettri, santi, seconda vista e altre cose ancora più grottesche, dubitava che la fiducia della Provincara nei suoi confronti ne sarebbe emersa rinforzata. Era comunque certo che anche quella versione epurata non avrebbe mancato di suscitare un profondo sconcerto nella dama. Narrò le vicissitudini del disastroso fidanzamento di Iselle, ma evitò di fornire l’identità della persona che aveva causato il miracolo di morte, abbattendo Dondo, e nascose il proprio atto omicida nello stesso modo in cui aveva evitato di parlare di quello di Ista.

La Provincara si rivelò assai meno schizzinosa di lui. «Se Lord Dondo era davvero l’individuo che tu mi descrivi, pregherò per questo ignoto benefattore», dichiarò infatti.

«Ah, Vostra Grazia, io prego per lui tutti i giorni.»

«E poi, affibbiare a Iselle come marito un semplice figlio cadetto! Si può sapere cos’è saltato in mente a quello stolto di Orico?»

Evitando di scendere in considerazioni che rasentavano l’ineffabile, Cazaril presentò alla Provincara il serraglio di Orico come un miracolo terapeutico studiato dal Tempio per preservare la sua salute cagionevole, il che era abbastanza veritiero. D’altronde, la dama intuì immediatamente il segreto scopo politico che aveva indotto Dondo a spingere Teidez — e anche Orico — incontro alla distruzione, e serrò i denti con rabbia, gemendo per il modo in cui il nipote era stato tradito. La notizia che Valenda si doveva preparare per un funerale, un matrimonio e una guerra ebbe poi l’effetto di rivitalizzarla.

«Iselle può contare sul supporto di suo zio, dy Baocia?» domandò Cazaril. «Quanti altri nobili potrete radunare, per contrastare la fazione di dy Jironal?»

Con un rapido calcolo mentale, la Provincara passò in rassegna i nobili che avrebbe potuto chiamare a Valenda, ufficialmente in occasione del funerale di Teidez, ma in realtà per strappare Iselle dalle mani di dy Jironal. Dopo aver osservato per decenni l’andamento della politica di Chalion, quella formidabile dama non aveva bisogno di studiare una mappa per elaborare le proprie tattiche.

«Chiedete loro di presenziare al funerale di Teidez, portandosi appresso tutti gli uomini disponibili», suggerì Cazaril. «Dobbiamo soprattutto controllare le strade tra qui e Ibra, per garantire la sicurezza del Royse Bergon.»

«È difficile», replicò la Provincara, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Alcune delle terre di dy Jironal e dei suoi cognati si estendono tra qui e il confine. Dovresti prendere con te una scorta… Vorrà dire che ridurrò al minimo le difese di Valenda per darti gli uomini necessari.»

«No», ribatté Cazaril. «Quando Iselle arriverà, il che può benissimo succedere prima del mio ritorno, voi avrete bisogno del maggior numero di uomini. Inoltre raggiungere Ibra richiederebbe molto tempo, dato che non troveremmo lungo la strada i cambi di cavalli necessari per così tante persone, e mantenere il segreto diventerebbe impossibile. È meglio viaggiare leggeri, in fretta e senza dare nell’occhio. Tenete qui le vostre truppe, perché ci vengano incontro sulla via del ritorno… Ah, guardatevi dal capitano baociano che avete mandato con Teidez, perché si è venduto a Dondo. Quando rientrerà a Valenda, dovrete sostituirlo.»

«Avrò le sue orecchie, per i demoni del Bastardo!» sibilò la Provincara.

I due elaborarono un piano per trasmettere a Iselle le missive cifrate di Cazaril e far arrivare a lui le risposte della Royesse passando da Valenda, così da far credere alle spie di dy Jironal che lui si trovasse ancora là. La Provincara decise anche che, il mattino seguente, avrebbe impegnato alcuni gioielli di Iselle per suo conto, al prezzo migliore, in modo da procurare a Cazaril il denaro necessario per proseguire il suo viaggio. In pochi minuti, affrontarono e risolsero almeno una dozzina di problemi pratici, e ciò indusse Cazaril a pensare che la determinazione della Provincara era più che sufficiente a renderla immune ai capricci degli Dei. Sebbene partecipasse a tutte le cerimonie religiose, infatti, nessun Dio sarebbe mai riuscito a insinuarsi sotto quella sua volontà ferrea. Ma gli Dei le avevano comunque elargito talenti meno pericolosi, e lui ne era loro grato. «Come avrete compreso, spero proprio che questo progetto di matrimonio salvi Iselle, tuttavia non so se sarà sufficiente a salvare anche Ista», concluse il Castillar. No, rifletté, non c’era speranza per Ista, che si aggirava con aria triste nel castello di Valenda, e neppure per Orico, che giaceva cieco e gonfio nel suo letto, nello Zangre. Nessuna esortazione della Provincara per indurla a riscuotersi sarebbe stata utile alla Royina Vedova, non finché quella nube nera avesse continuato a soffocarla come un veleno.

«Mi basta che Iselle si salvi dalle grinfie del Cancelliere dy Jironal. Non riesco a credere che Orico possa aver inserito simili disposizioni nel suo testamento», ribatté la Provincara. Quella disposizione legale l’aveva turbata quasi più delle questioni soprannaturali. «Come ha osato togliermi la tutela di mia nipote senza neppure consultarmi?»

«Immagino vi renderete conto che, se tutto andrà per il meglio, vostra nipote diventerà la vostra sovrana, giacché sarà di diritto Royina di Chalion e avrà il titolo di Royina-consorte di Ibra», replicò Cazaril, accarezzandosi la barba.

«Questa è la cosa più folle di tutte!» esclamò la Provincara, con una smorfia. «È soltanto una ragazza… benché la sua mente sia sempre stata più acuta di quella del povero Teidez. Cosa mai sarà saltato in mente agli Dei di Chalion, quando hanno deciso di mettere sul trono di Cardegoss una bambina come lei?»

«Forse hanno pensato che ci vorrà una vita intera per risollevare le sorti di Chalion. E dunque che gli anziani, come me o voi, non sarebbero vissuti abbastanza a lungo per assistere a una simile rinascita», replicò Cazaril, in tono mite.

«Tu stesso sei poco più che un bambino!» sbuffò la Provincara. «Ultimamente, sono i bambini ad avere il controllo del mondo… Non mi meraviglia che la follia imperi ovunque. Bene, adesso dobbiamo pensare a ciò che ci attende domani. Per i cinque Dei, Cazaril, va’ a dormire, anche se dubito che io riuscirò a chiudere occhio: sembri un morto che cammina, e non hai neppure la giustificazione di essere vecchio quanto me.»

A fatica, Cazaril si alzò e s’inchinò, consapevole che quelle ondate di energia nervosa della Provincara erano passeggere e fragili, e che ci sarebbe voluto l’aiuto di tutti coloro che la circondavano per impedirle di sfinirsi pericolosamente. Così, dopo aver detto a Lady dy Hueltar, che si trovava in ansiosa attesa nella stanza accanto, di andare ad assistere la cugina, Cazaril si allontanò.

Gli venne assegnata la sua gelida, ma dignitosa cameretta nel corpo principale della fortezza, e lui scivolò tra le lenzuola riscaldate con un sollievo nato anche dalla sensazione di essere tornato a casa, una sensazione che non sperimentava da anni. D’altro canto, la sua nuova seconda vista aveva l’effetto di rendere strani anche i posti più familiari. Il mondo gli sembrava sempre più estraneo e non costituiva mai per lui un luogo di riposo.

Per quanto imperversasse con tutto il suo furore, quella notte Dondo non riuscì a tenerlo sveglio, anche perché il pericolo che egli generava era divenuto ormai abituale per Cazaril, che si ritrovò dunque assalito da nuove paure. Il ricordo della spaventosa, intensa speranza scorta nello sguardo di Ista lo turbava profondamente, e ancora di più lo toccava la consapevolezza che l’indomani, quando fosse montato a cavallo, ogni passo lo avrebbe riportato sempre più vicino all’odiato mare.

22

La necessità di viaggiare in segreto costrinse Cazaril a rinunciare, sia pure con dispiacere, a fermarsi presso le stazioni di cambio dei cavalli della Cancelleria… Ma non era davvero il caso di fornire a dy Jironal una mappa precisa del loro percorso e della loro destinazione. Armati della lettera di raccomandazione stilata da Palli, lui e i suoi compagni ottennero cavalli freschi presso i capitoli cittadini dell’Ordine della Figlia; una volta ai piedi delle montagne, però, furono costretti a trattare con un locale mercante di cavalli per alcuni robusti muli, dal passo sicuro, che permettessero loro di superare senza rischi quelle vette. Senza dubbio, erano anni che quel mercante si stava guadagnando abbondantemente da vivere imponendo prezzi esosi ai viandanti disperati.

«Questa bestia ha l’asma!» protestò Ferda, indignato, dopo aver dato un’occhiata ai muli che venivano loro offerti. «E sono disposto a mangiare il tuo cappello se quest’altro non si metterà ben presto a zoppicare!»

Tra lui e il mercante scoppiò una feroce discussione.

Cazaril, sfinito, era appoggiato alla ringhiera del recinto e pensava soltanto che non aveva voglia di montare in sella a un altro animale, zoppo o no, e che non l’avrebbe avuta per i prossimi mille anni. Infine si decise a raddrizzarsi e a oltrepassare il cancello del recinto, avanzando tra cavalli e muli, ancora agitati dall’arrivo delle cavalcature scartate dai tre viandanti.

«Se questo è il tuo volere, Signora, procuraci tre buoni muli», pregò, chiudendo gli occhi e allargando le mani in un gesto di supplica. Qualcosa che gli urtava un fianco lo indusse a riaprire gli occhi: era un mulo dai limpidi occhi scuri che lo stava fissando con aria incuriosita. Ben presto, altri due spintonarono il primo animale per avvicinarsi, agitando le lunghe orecchie. Il più alto dei due, col pelo marrone scuro e col naso color crema, appoggiò il mento sulla spalla di Cazaril e sbuffò con aria beata.

«Ti ringrazio, Signora», sussurrò lui, poi, alzando la voce, ordinò ai muli: «Seguitemi» e s’incamminò in mezzo al fango. I tre animali gli si accodarono, annusandolo con rumoroso interesse.

«Prenderemo questi tre», disse Cazaril al mercante che, al pari di Ferda, si era ammutolito e lo stava fissando a bocca aperta.

«Ma… quelli sono i miei tre animali migliori!» protestò l’uomo.

«Sì, lo so», ribatté Cazaril, uscendo dal recinto. Il mercante lottò per tenere chiuso il cancello e impedire ai tre muli di avanzare. Ma essi premevano con forza contro le assi, emettendo versi ansiosi. «Ferda, accordati sul prezzo», aggiunse. «Nel frattempo, io mi andrò a sdraiare su quello splendido mucchio di fieno. Svegliami quando i muli saranno sellati e pronti…»

La sua cavalcatura risultò sana, di buon temperamento e alquanto placida… A parere di Cazaril, su quelle pericolose piste di montagna, non c’era niente di meglio di un mulo placido. I focosi destrieri che Ferda preferiva, e che permettevano di viaggiare veloci in pianura, non avrebbero tenuto un’andatura più rapida di quella e sarebbero stati un pericolo per la loro tendenza a innervosirsi se si trovavano in luoghi angusti. Per di più, il passo lento dei muli non gli causava troppo dolore al ventre. D’altro canto, se la Dea aveva scelto di dare al suo santo quei buoni muli, lui non riusciva a capire perché non gli avesse concesso anche un clima migliore.

I fratelli dy Gura smisero di ridere del suo cappello a metà del passo che valicava la catena montuosa dei Denti del Bastardo. Sotto il nevischio, che il vento spingeva loro dritto in faccia, lui abbassò i paraorecchie imbottiti di pelliccia calda e se li legò sotto il mento, scrutando con occhi socchiusi la pista incorniciata dalle orecchie appiattite del suo mulo e valutando quante ore di luce avessero ancora a disposizione.

«Mio signore, non dovremmo cercare rifugio da questa bufera?» chiese Ferda, dopo un po’, affiancandosi a lui.

«Bufera?» ripeté Cazaril, pulendosi la barba dal ghiaccio e fissando interdetto il giovane ufficiale. Soltanto dopo un momento ricordò che gli inverni, a Palliar, erano piuttosto miti, caratterizzati più da pioggia che da neve e che probabilmente, prima di allora, i due fratelli non erano mai usciti dalla loro provincia. «Se questa fosse una bufera, non saresti in grado di vedere neppure le orecchie del tuo mulo. Non è una situazione pericolosa, è soltanto sgradevole», replicò.

Pur sgomento, Ferda strinse ben bene i lacci del cappuccio e si chinò in avanti per resistere al vento. Pochi minuti più tardi, tuttavia, emersero da quel turbine di neve e scorsero un’ampia valle. I raggi di un pallido sole fecero allora capolino tra le nubi argentee e chiazzarono di luce i pendii.

«Ibra!» gridò Cazaril, in tono incoraggiante, indicando davanti a sé.

Non appena iniziarono la discesa verso la costa, il clima si fece più mite, anche se i muli non accelerarono il passo. Ben presto, le aspre montagne di confine cedettero il posto alle colline: scure gobbe marroni tra cui si aprivano ampie vallate. Soltanto allora, e con riluttanza, Cazaril permise a Ferda di barattare quegli eccellenti muli con cavalcature più veloci. Un succedersi di strade in condizioni sempre migliori e di locande sempre più accoglienti permise loro di arrivare in appena due giorni al fiume che scorreva fino a Zagosur, incontrando lungo il percorso numerose fattorie e canali d’irrigazione gonfiati dalle recenti piogge.

Nell’emergere dalla valle del fiume, i tre scorsero la città con la sua cinta di mura grigie: un ammasso di case imbiancate a calce, coi tetti coperti dalle tegole verdi caratteristiche di quella regione, e con la fortezza che coronava il tutto, dominando il porto che si allargava ai piedi dell’abitato. Al di là della città si stendeva il mare, grigio come l’acciaio, un infinito orizzonte piatto striato di riflessi iridescenti. L’odore salmastro, misto a un sentore di acqua marcia dovuto alla bassa marea, permeava la brezza fredda proveniente dalla costa e indusse Cazaril a sollevare di scatto la testa, quasi con repulsione. Accanto a lui, Foix trasse un profondo respiro, gli occhi accesi da un’espressione di entusiasmo, mentre assaporava lo spettacolo, per lui inedito, del mare.

La lettera di Palli e il grado dei fratelli dy Gura permisero loro di ottenere rifugio presso la Casa della Figlia, adiacente la Piazza del Tempio di Zagosur. Cazaril ordinò ai due giovani di procurarsi un’uniforme di gala del loro Ordine, comprandola o prendendola a prestito, e uscì per andare da un sarto.

Non appena seppe che Cazaril era disposto a spendere qualsiasi cifra, a patto che gli venisse fornito subito un cambio di vestiario completo adeguato alle sue esigenze, il sarto si lanciò in un’attività frenetica. Poco più di un’ora dopo, Cazaril usciva dalla sua bottega, portando sotto un braccio una versione abbastanza accettabile della tenuta da lutto in uso presso la corte di Chalion.

Dopo un bagno freddo, indossò la pesante tunica di broccato color lavanda, dal collo molto alto, s’infilò i pesanti calzoni di lana porpora scuro e gli stivali, puliti e lucidati; assestatosi intorno alla vita la cintura e la spada che dy Ferrej gli aveva prestato tanto tempo prima, indossò la sopravveste di seta e velluto nero, contemplando con soddisfazione l’effetto complessivo. Uno degli ultimi anelli di Iselle, decorato con un’ametista a taglio quadrato, gli calzò di stretta misura al mignolo: era il suo unico gioiello e, più che la povertà, suggeriva il desiderio di non voler sfoggiare le proprie ricchezze. Osservandosi ancora una volta, Cazaril pensò che la tenuta da lutto e le striature grigie nella barba gli conferivano proprio l’aria grave e dignitosa che si addiceva a un inviato. Prese le preziose lettere diplomatiche di cui era latore, le ripose sotto il braccio, passò a prelevare la sua scorta, che si era ripulita e sfoggiava linde ed eleganti divise bianche e azzurre, e s’incamminò per le stradine tortuose della città, diretto verso la collina, al covo della Grande Volpe.

L’aspetto e l’atteggiamento di Cazaril fecero sì che lui venisse subito ricevuto dal siniscalco del Roya di Ibra. E l’esibizione delle lettere di cui era latore, munite di sigillo reale, gli aprì la strada fino allo studio del segretario del Roya, un individuo magro, di mezz’età e dall’aria tesa, che li accolse in una spoglia stanza dalle pareti imbiancate a calce, raggelata dalla perenne umidità invernale propria di Zagosur. L’uomo ricambiò da pari a pari l’inchino di Cazaril e rimase in attesa.

«Sono il Castillar dy Cazaril e giungo da Cardegoss per una missione diplomatica di una certa urgenza. Reco con me lettere di presentazione per il Roya e per il Royse Bergon dy Ibra, da parte della Royesse Iselle dy Chalion», spiegò allora lui, esibendo i sigilli, salvo poi ritrarre le lettere contro il proprio petto allorché il segretario si mosse per prenderle in consegna. «Le ho ricevute dalle mani della Royesse, con l’incarico di consegnarle direttamente in quelle del Roya.»

«Vedrò cosa posso fare per voi, mio signore», ribatté il segretario, chinando la testa di lato con aria incerta. «Ma attualmente il Roya è perseguitato da petizioni, soprattutto da parte di parenti di ex ribelli, che cercano la sua misericordia… alquanto scarsa, al momento, direi.» Poi squadrò Cazaril da capo a piedi. «Scusatemi, ma credo che nessuno vi abbia avvertito… Il Roya ha proibito il lutto di corte per il defunto Erede di Ibra, che è morto da ribelle, senza riconciliarsi con lui. Soltanto coloro che desiderano sfidare apertamente il Roya indossano abiti da lutto e di solito hanno la presenza di spirito di farlo… in sua assenza. Se non è vostra intenzione insultarlo, vi consiglio di andare a cambiarvi, prima di chiedere udienza.»

«Nessuno mi ha preceduto qui con la notizia?» esclamò Cazaril, inarcando le sopracciglia con aria sorpresa. «Certo, abbiamo viaggiato in fretta, ma non pensavo che avessimo battuto sul tempo tutti i corrieri. Non sfoggio questi lividi colori per l’Erede di Ibra, bensì per l’Erede di Chalion, il Royse Teidez, morto appena una settimana fa, improvvisamente, a causa di un’infezione.»

«Oh», mormorò il segretario, stupefatto. «Oh.» Dopo un istante, ritrovò il controllo e aggiunse, con maggiore scioltezza: «In tal caso, porgo le mie condoglianze alla Casa di Chalion, per la perdita di una così luminosa speranza. Avete detto che le lettere sono della Royesse Iselle?»

«Sì», confermò Cazaril e, per buona misura, aggiunse: «Quando ho lasciato in tutta fretta Cardegoss, il Roya Orico era gravemente malato e non si stava occupando degli affari di Stato».

Il segretario aprì la bocca e tornò a richiuderla senza aver emesso suono. «Venite con me», riuscì infine a dire, e precedette Cazaril e la sua scorta in una stanza più confortevole, dove un piccolo fuoco ardeva in un focolare d’angolo. «Vedrò cosa posso fare», mormorò, congedandosi.

Cazaril si adagiò su una sedia coperta di cuscini, accanto al focolare, mentre Foix sedette su una panca e Ferda prese ad aggirarsi per la stanza come una tigre in gabbia, guardando distrattamente gli arazzi appesi alle pareti. «Credete che ci riceveranno?» domandò infine. «Aver fatto tanta strada per essere costretti ad aspettare davanti alla porta, come venditori ambulanti…»

«Oh, sì, ci riceveranno», garantì Cazaril, con un accenno di sorriso. Un servitore affannato stava appunto entrando nella stanza per offrire ai tre visitatori del vino e alcuni piccoli dolci speziati su cui era impresso il sigillo ibrano, una specialità di Zagosur.

«Perché questo cane non ha le zampe?» chiese Foix, osservando con aria perplessa la creatura raffigurata su un biscotto, prima di affondarvi i denti.

«È un cane di mare, ha le pinne al posto delle zampe e si nutre di pesci», spiegò Cazaril. «Quelle bestie formano colonie lungo la costa tra qui e la Darthaca.» Permise quindi al servitore di versargli il vino, ma non più di un sorso: voleva rimanere sobrio ed evitare di sprecarlo.

Infatti non ebbe quasi il tempo di bagnarsi le labbra perché, come aveva previsto, il segretario rientrò nella stanza. «Lord dy Castillar, signori, seguitemi per favore», disse, con un inchino molto più profondo del precedente.

Ferda si affrettò a trangugiare il suo bicchiere di vino rosso ibrano e Foix si ripulì dalle briciole la sopravveste di lana bianca. Entrambi si accodarono poi a Cazaril e al segretario, che li guidò lungo alcune scale e attraverso un piccolo, arcuato ponte di pietra che dava accesso alla parte più nuova della fortezza. Dopo qualche svolta, il gruppetto giunse davanti a una porta a due battenti, decorata con intagli di creature marine, secondo lo stile roknari.

In quel preciso istante, la porta si aprì e apparve un nobile abbigliato in modo elegante, sottobraccio a un altro cortigiano e intento a lamentarsi. «Ho aspettato cinque giorni per quest’udienza!» stava brontolando il nobile. «Quale assurda…»

«Vuol dire che dovrete aspettare ancora un poco, mio signore», ribatté il cortigiano, accompagnandolo lungo il corridoio con una mano stretta saldamente intorno al suo gomito.

Con un inchino, il segretario invitò Cazaril e i fratelli dy Gura a entrare, annunciandoli in maniera formale, con nome e rango.

Si ritrovarono così in quella che non era la sala del trono, bensì una camera di ricevimento, adatta a ospitare riunioni di Stato. Un’estremità era occupata da un ampio tavolo, abbastanza spazioso da potervi stendere sopra mappe e documenti, mentre nella lunga parete opposta a esso si apriva una fila di porte, il cui telaio era rivestito integralmente da pannelli di vetro quadrati. Al di là di esse, una balconata si affacciava sul porto e sul cantiere navale che costituivano il cuore della ricchezza e del potere di Zagosur. Grazie alle ampie porte-finestre, la pallida luce marina illuminava intensamente la stanza, facendo apparire fioca la fiamma delle candele accese nei supporti a parete.

Nella stanza c’erano una mezza dozzina di uomini, ma Cazaril non ebbe difficoltà a riconoscere la Volpe e suo figlio. Tra i settanta e gli ottanta, il Roya di Ibra era un uomo magro e quasi calvo. La folta capigliatura rossiccia della sua giovinezza era ridotta a una lanuginosa frangia bianca che gli cingeva la parte posteriore del cranio. Eppure, nonostante l’età avanzata, appariva ancora vigoroso e rilassato, ma anche lucido e attento. Il giovane di alta statura, fermo accanto alla sua sedia coperta di cuscini, aveva invece dritti capelli castani ereditati dalla defunta madre darthacana, peraltro sfumati di rossiccio e tenuti lunghi quanto bastava per permettergli di calzare comodamente un elmo.

Se non altro, ha un aspetto sano, pensò Cazaril. Bene…

La sopravveste del Royse era decorata con centinaia di perle, cucite in modo da imitare le curve delle onde. Quando lui si voltò verso i nuovi arrivati, quella decorazione creò un elegante effetto ondulato.

L’uomo in piedi sull’altro lato del seggio della Volpe era invece il Cancelliere di Ibra, come proclamava la catena che portava al collo… Aveva un aspetto guardingo e intimidito: stando a tutti i rapporti, lui era un mero servitore della Volpe, che non gli faceva di certo mancare il lavoro, e non un suo rivale per il potere. Un altro dei presenti, almeno a giudicare dai gradi che sfoggiava, doveva essere un ammiraglio della flotta di Ibra.

Piegato un ginocchio al suolo davanti alla Volpe, con mosse abbastanza aggraziate nonostante gli indolenzimenti dovuti al lungo viaggio a cavallo, Cazaril chinò con deferenza il capo. «Mio signore, vi porto da Chalion la triste notizia della morte del Royse Teidez e lettere urgenti da parte di sua sorella, la Royesse Iselle», disse, porgendo la lettera in cui Iselle accreditava la sua autorità di ambasciatore.

Infranto il sigillo, la Volpe scorse in fretta le poche righe stilate con semplicità, poi inarcò le sopracciglia e fissò Cazaril con occhi penetranti. «Davvero interessante», commentò. «Alzatevi, Lord Ambasciatore.»

Tratto un profondo respiro, Cazaril obbedì, senza neppure doversi puntellare contro il pavimento con una mano o, cosa ancora peggiore, essere costretto a sorreggersi alla sedia del Roya. Nel sollevare lo sguardo, scoprì poi che il Royse Bergon lo stava scrutando con aria intensa, le labbra socchiuse in un’espressione leggermente corrucciata, cosa che lo lasciò perplesso e lo indusse a rivolgergli un esitante cenno del capo accompagnato da un sorriso. Nel complesso, il Royse era senza dubbio un bel giovane, dai lineamenti regolari e forse anche avvenenti, quando non era così accigliato. Gli occhi non erano storti e non aveva un labbro leporino… Forse era un po’ massiccio, ma per via dei muscoli e non del grasso. Soprattutto, poi, non aveva quarant’anni. No, Bergon era giovane, ma l’ombra scura sulle sue guance rasate indicava con chiarezza che aveva comunque raggiunto l’età virile. Tutto considerato, Cazaril ritenne che Iselle sarebbe stata soddisfatta.

«Parlate ancora!» ingiunse Bergon, fissandolo con crescente intensità.

«Mio signore?» replicò Cazaril, sorpreso, indietreggiando quando il Royse prese ad avanzare verso di lui e gli girò intorno, squadrandolo da capo a piedi, il respiro sempre più affannoso.

«Toglietevi la camicia!» ordinò.

«Come?»

«Toglietevi la camicia!»

«Mio signore… Royse Bergon…» balbettò Cazaril, rammentando la spiacevole scena organizzata da dy Jironal per screditarlo agli occhi di Orico. Ma lì a Zagosur non c’erano corvi sacri che potessero salvarlo. «Vi supplico, mio signore, non mi coprite di vergogna davanti a queste persone…»

«Per favore, ditemi… Oltre un anno fa, in autunno, non siete forse stato salvato dalla prigionia su una galea roknari, al largo della costa di Ibra?»

«Oh. Sì, certo…»

«Toglietevi la camicia!» gridò il Royse, che aveva ripreso a girargli intorno.

Stordito e sconcertato, Cazaril lanciò un’occhiata alla Volpe, che sembrava perplesso al pari dei presenti, ma che avvallò la strana richiesta del figlio con un cenno, spinto da un’evidente curiosità. Confuso e spaventato, Cazaril si decise infine a obbedire, slacciando le maniche della tunica e sfilandola insieme con la sopravveste, per poi ripiegare sul braccio entrambi gli indumenti, la mascella serrata per la tensione, deciso a sopportare con dignità qualsiasi umiliazione.

«Sei Caz! Tu sei Caz!» gridò invece Bergon, il cui cipiglio si era ora mutato in un sorriso quasi folle.

Cazaril si trovò a pensare che il Royse era pazzo, e dunque inadatto a Iselle… Una scoperta davvero sgradevole, dopo quella disperata galoppata per pianure e montagne… «Ecco, sì, i miei amici mi chiamano…» accennò a replicare, ma le parole gli si strozzarono in gola quando il Royse lo circondò con un abbraccio tanto improvviso quanto irruente, sollevandolo quasi da terra. «Padre, si tratta di lui!» esclamò, felice. «È lui quell’uomo!»

«Ma quale…» D’un tratto, grazie a un lieve cambiamento nella voce del Royse, e al diverso profilo che lui gli offriva, Cazaril comprese. Il suo stupore si mutò in un sorriso radioso. Il ragazzo era cresciuto, ma, se lo avesse ringiovanito di un anno, togliendo otto centimetri di statura, cancellando l’ombreggiatura della barba, rasando i capelli e aggiungendo un po’ di grasso giovanile e le scottature causate dal sole… «Per i cinque Dei», sussurrò. «Danni? Danni!»

«Dove sei andato?» chiese il Royse, afferrandogli le mani e baciandogliele. «Dopo che mi hanno riportato a casa, sono stato male per una settimana e, quando ho finalmente potuto mandare qualcuno a cercarti, tu eri scomparso. Sono riuscito a rintracciare altri schiavi liberati da quella nave, ma non te, e nessuno sapeva dove fossi finito.»

«Anch’io ero malato, e sono stato accolto presso l’ospedale della Madre, qui a Zagosur. Quando mi sono rimesso sono… tornato a casa a piedi.»

«Qui! Sei rimasto qui per tutto il tempo! Ah! Mi sembra impossibile. Ho fatto cercare anche negli ospedali… Com’è possibile che non ti abbiano trovato? Ho creduto che fossi morto a causa delle tue orribili ferite.»

«Io ero certo che fosse morto», commentò la Volpe, che stava seguendo quella scena con uno sguardo indecifrabile. «Non mi aspettavo certo di vederlo giungere qui a riscuotere il grande debito che la mia Casa ha nei suoi confronti.»

«Io non sapevo… chi eri, Royse Bergon.»

«Davvero?» esclamò la Volpe, inarcando le sopracciglia grigie.

«Non lo sapeva, padre», fu pronto a confermare Bergon. «Non ho detto a nessuno chi ero, e mi sono servito del soprannome che la mamma mi aveva dato quand’ero piccolo. Mi sembrava meno pericoloso restare anonimo che dichiarare. Quando mi hanno rapito, i sicari del mio defunto fratello non hanno rivelato al capitano roknari chi ero», aggiunse, a beneficio di Cazaril. «Credo si aspettassero che sarei morto sulla galea.»

«Mantenere il segreto è stato un atto stolto, Royse», lo rimproverò Cazaril. «Senza dubbio, i roknari ti avrebbero separato dagli altri per riscattarti.»

«Già, un ingente riscatto e concessioni politiche strappati a mio padre, se avessi svelato la mia identità», ribatté Bergon, serrando la mascella. «No, mi sono rifiutato di prestarmi a un simile gioco.»

«Bene…» interloquì la Volpe, con una strana intonazione nella voce, fissando Cazaril. «Dunque non sei intervenuto per salvare il Royse di Ibra, ma per aiutare un ragazzo qualsiasi.»

«Un giovane schiavo qualsiasi mio signore», precisò Cazaril, contraendo le labbra in un accenno di sorriso ironico, dato che la Volpe stava cercando di capire se ciò lo rendeva un eroe o un idiota.

«Mi chiedo quanto cervello tu abbia», commentò infine il Roya.

«A quel tempo, vi garantisco che me ne era rimasto ben poco», concesse Cazaril, in tono cortese. «Mi sono trovato sulle galee fin da quand’ero stato venduto come prigioniero di guerra, dopo la caduta di Gotorget.»

«Ah!» esclamò la Volpe. «Allora sei quel Cazaril, vero?»

Lui s’inchinò a titolo di conferma, chiedendosi cosa sapesse il Roya di quell’infruttuosa campagna. Poi scosse la tunica per liberarla dalle pieghe, e Bergon lo aiutò a rivestirsi. Guardandosi intorno, Cazaril constatò che tutti i presenti lo stavano fissando con stupore, perfino Ferda e Foix, sorpresi dal suo ampio sorriso, che faticava a non trasformarsi in una gioiosa risata. Sotto quella risata repressa, però, si celava un nuovo terrore, cui lui non riusciva neppure a dare un nome. Da quanto tempo i miei passi sono stati avviati su questa particolare strada? pensò, con sgomento. Quindi tirò fuori l’ultima lettera che aveva con sé e la porse al Royse Bergon con un profondo inchino.

«Come attesta il documento che il tuo rispettabile padre ha in mano, mi trovo qui come portavoce di una splendida e orgogliosa dama, inviato non solo e non tanto a lui, ma soprattutto a te, in quanto l’Erede di Chalion chiede di poterti avere come sposo», spiegò, consegnando la lettera sigillata allo sconcertato Bergon. «Al riguardo, lascerò che sia la Royesse Iselle a parlare per se stessa, giacché è quanto mai indicata a farlo grazie al suo singolare intelletto, al suo diritto naturale e al suo santo scopo. Più tardi, Royse, avrò molte altre cose da dirti.»

«Sono impaziente di ascoltarle, Lord Cazaril», garantì Bergon. Scoccando un’occhiata piena di tensione in giro per la stanza, s’isolò vicino a una porta-finestra, rompendo il sigillo e leggendo immediatamente la lettera, con un’espressione sempre più meravigliata che gli addolcì i lineamenti.

Lo stupore era presente anche sul volto della Volpe, il quale però sembrava tutt’altro che addolcito. Nel guardarlo, Cazaril ebbe la certezza che la sua mente stava lavorando a ritmo serrato, e si augurò che la propria si rivelasse all’altezza di quel duello.

Naturalmente, quella sera Cazaril e i suoi compagni vennero invitati nella sala dei banchetti del Roya. Verso il tramonto, Cazaril e Bergon scesero a passeggiare insieme sulla spiaggia sottostante la fortezza. Ben sapendo che quella sarebbe stata la cosa più simile a una conversazione privata che potesse ottenere, Cazaril segnalò ai fratelli dy Gura di tenersi più indietro lungo il sentiero sabbioso, in modo da non essere a portata di udito. Il rombo sordo della risacca copriva le loro voci, mescolandosi alle strida di alcuni gabbiani — strida penetranti quanto quelle dei corvi -, che calavano in picchiata sul mare o becchettavano in mezzo ai rifiuti sospinti dalle onde sulla sabbia umida. Soltanto allora Cazaril rammentò che, a Ibra, quegli uccelli dai freddi occhi dorati erano sacri al Bastardo.

Anche Bergon aveva ordinato alla sua scorta, pesantemente armata, di tenersi a distanza. Cazaril si rese conto che quella scorta era una precauzione divenuta ormai un’abitudine, nata dal fatto che quella terra era appena uscita da una guerra civile, in cui Bergon era stato nel contempo un giocatore e una pedina… Benché si potesse sostenere che, come pedina, si era manovrata da sola.

«Non dimenticherò mai la prima volta che ti ho visto… quando mi hanno scaricato accanto a te, sulla panca della galea. Per un momento, mi hai fatto più paura degli stessi roknari», rise Bergon.

«Soltanto perché ero uno sporco, ustionato spaventapasseri coperto di croste, peloso e puzzolente», sorrise Cazaril.

«Qualcosa del genere», ammise Bergon. «Poi però hai sorriso e mi hai detto: ’Buonasera, giovane signore’, come se mi stessi invitando a dividere con te la panca di una taverna e non quella di una galea.»

«Ecco… Eri una novità, e non ne vedevamo molte.»

«In seguito, ci ho riflettuto molto, però, a quel tempo, non sono certo di aver pensato con molta chiarezza…»

«È ovvio. Al tuo arrivo, era evidente che eri stato maltrattato.»

«Infatti. Ero stato rapito, ero spaventato… ed ero stato picchiato sul serio per la prima volta nella vita… Però tu mi hai aiutato, spiegandomi come tirare avanti, cosa aspettarmi e come sopravvivere. Per due volte mi hai dato dell’acqua in più, tolta dalla tua razione…»

«Solo se non ne avevo bisogno. Mi ero ormai abituato a quella temperatura torrida, e non potevo comunque prosciugarmi più di quanto non avessi già fatto. Dopo qualche tempo, s’impara a riconoscere la differenza tra il semplice disagio e l’espressione febbricitante di un uomo prossimo al collasso, ed era molto importante che tu non svenissi al remo.»

«Sei stato gentile.»

«Perché non avrei dovuto?» ribatté Cazaril, scrollando le spalle. «Cosa mi costava, dopotutto?»

«Chiunque può essere gentile, quando ha tutte le comodità», obiettò Bergon, scuotendo il capo. «Ecco perché avevo sempre considerato la gentilezza una virtù insignificante. Quando però eravamo affamati, assetati, malati, spaventati, con la morte che ci gridava all’orecchio, nel bel mezzo dell’orrore più assoluto, tu hai continuato a essere cortese, proprio come un gentiluomo seduto in tutta comodità vicino al proprio focolare.»

«Certi eventi sono orribili o inevitabili, ma gli uomini hanno sempre un’alternativa… Se sottrarsi a essi è impossibile, allora possono decidere come sopportarli.»

«Sì, ma… non ne sono stato consapevole finché non l’ho visto. È stato allora che ho cominciato a credere che fosse possibile sopravvivere, e non mi riferisco soltanto al mio corpo.»

«Sai, a quell’epoca, i roknari erano convinti che fossi quasi del tutto domato», gli confidò Cazaril, con un breve sorriso.

Bergon scosse il capo e sollevò con lo stivale una pioggerella di sabbia argentea, mentre il sole al tramonto accentuava i riflessi ramati dei suoi scuri capelli darthacani.

A Chalion, la madre del Royse era stata considerata una donna energica, un’intrusa darthacana che voleva soltanto inasprire la lotta fra il marito e il suo Erede a favore del proprio figlio. Bergon tuttavia pareva ricordarla con affetto. Da bambino, aveva vissuto insieme con lei due assedi, isolato dai soldati del padre nel corso delle guerre scoppiate tra questi e il suo fratellastro, ed era evidentemente abituato alle donne risolute che intervenivano nei consigli indetti dagli uomini. All’epoca in cui lui e Cazaril erano incatenati allo stesso remo, Bergon aveva parlato spesso della madre morta quando cercava di farsi coraggio, però non aveva mai accennato al padre, dimostrando così, in quei giorni funesti, un’intelligenza e un autocontrollo quanto mai precoci che, a parere di Cazaril, erano stati direttamente ereditati dalla Volpe.

«Permettimi di parlarti della Royesse Iselle di Chalion», suggerì Cazaril, con un ampio sorriso.

Bergon bevve con avidità ogni sua parola, mentre lui descriveva i capelli color ambra di Iselle, i suoi luminosi occhi azzurri, la bocca ampia e ridente, la sua perizia di amazzone e la sua erudizione. Parlò quindi del suo coraggio e della sua determinazione, nonché della rapidità con cui sapeva valutare un’emergenza. Nel complesso, vendere Iselle a Bergon risultò difficile quanto vendere del cibo a un affamato, dell’acqua a un assetato o un mantello a chi si trovasse nudo in mezzo a una tormenta, e tutto ciò senza neppure alludere al fatto che Iselle avrebbe ereditato una royacy. A guardarlo, il ragazzo sembrava già quasi innamorato, ma la vera sfida sarebbe stata la Volpe, che avrebbe indubbiamente sospettato un tranello. Ovviamente Cazaril non aveva nessuna intenzione di rivelare la natura di quel tranello alla Volpe di Ibra, ma con Bergon le cose erano diverse: lui aveva diritto di sapere la verità.

«Dietro la supplica della Royesse Iselle si cela un’urgenza motivata da una più cupa minaccia», spiegò, mentre arrivavano in fondo alla spiaggia a forma di mezzaluna e si giravano per tornare indietro. «Sto per dirti una cosa estremamente riservata, e lei spera di poter confidare sul tuo riserbo di marito, giacché si tratta di qualcosa che tu solo hai diritto di sapere.» Cazaril respirò a fondo l’aria marina e fece appello a tutto il suo coraggio, poi proseguì: «Tutto risale alla guerra tra Fonsa l’Abbastanza Saggio e il Generale Dorato…»

Ripercorsero per altre due volte la spiaggia, passando e ripassando sulle loro stesse orme, prima che Cazaril giungesse alla fine della sua storia. Ormai il sole, ridotto a un’incandescente sfera rossa, stava quasi toccando l’orizzonte marino e, col cambiare della marea, i frangenti, risalendo progressivamente la spiaggia scintillavano di scuri e splendidi colori. Il resoconto che Cazaril fornì a Bergon fu completo e sincero al pari di quello che lui aveva fatto a Ista, senza nessuna omissione — a parte la confessione della Royina -, neppure sulla sua spettrale persecuzione a opera di Dondo.

Quando infine tacque, il volto di Bergon, tinto di una sfumatura rossastra dal tramonto, aveva un’aria assorta. «Lord Cazaril, se queste cose mi fossero giunte dalle labbra di qualsiasi altro uomo, penso che non vi avrei dato credito. No, avrei ritenuto che si trattasse di un pazzo.»

«La follia può essere una conseguenza di questi eventi, Royse, però non ne è la causa. È tutto fin troppo reale… Avendo visto ogni cosa coi miei occhi, mi sento quasi annegare in tutta questa faccenda.» Non si poteva certo considerare una metafora riuscita, però il mormorio del mare, tanto vicino al suo orecchio, stava rendendo Cazaril sempre più nervoso. Si chiese se Bergon si fosse accorto di come, ogni volta che cambiavano direzione, lui badasse a interporlo tra sé e la risacca.

«Vorresti dunque trasformarmi nell’eroe di una favola per bambini, incaricato di salvare con un bacio una bella dama da un malvagio incantesimo», commentò Bergon.

«Ecco, credo che ci voglia qualcosa di più di un bacio», precisò Cazaril, schiarendosi la gola. «Per essere legalmente vincolante, un matrimonio dev’essere consumato, e suppongo che lo stesso valga dal punto di vista teologico.»

Il Royse gli scoccò un’occhiata indecifrabile e rimase in silenzio per un po’. «Ho visto all’opera la tua integrità, ed essa… ha ampliato il mio mondo», disse poi. «Io sono stato allevato da mio padre, che è un uomo cauto e prudente, sempre alla ricerca di motivazioni nascoste ed egoistiche. Nessuno lo può ingannare, però l’ho visto ingannarsi da solo, se capisci cosa intendo.»

«Sì.»

«Da parte tua, è stato molto stupido attaccare quell’ignobile roknari, sulla galea.»

«Sì.»

«E tuttavia, trovandoti nelle stesse circostanze, credo che lo rifaresti.»

«Sapendo quello che so adesso… sarebbe più difficile. Eppure spero… no, prego, Royse, che gli Dei mi infondano ancora quel genere di stupidità, qualora ne abbia bisogno.»

«Cos’è questa incredibile stupidità, che risplende più di tutto l’oro di mio padre? Caz, puoi insegnare anche a me come essere così stupido?»

«Oh, certo», sussurrò Cazaril.

Nella frescura della mattina seguente, Cazaril venne scortato nella luminosa camera di ricevimento affacciata sul mare per incontrare di nuovo la Volpe. Si trattò di un incontro privato, cui erano presenti soltanto lui, il Roya e il suo segretario, sistemato in fondo al tavolo con davanti una pila di carta, parecchie penne nuove e un’adeguata scorta d’inchiostro. Seduto al lato lungo del tavolo, la Volpe stava giocherellando con una splendida scacchiera di malachite, marmo bianco e onice, i cui pezzi erano costituiti da piccole, squisite sculture di corallo e di giada. Al suo ingresso, Cazaril s’inchinò e, in risposta a un cenno del Roya, prese posto al tavolo, di fronte a lui.

«Sai giocare?» domandò la Volpe.

«No, mio signore», rispose tristemente Cazaril. «O, per meglio dire, sono un giocatore assai modesto.»

«Ah, un vero peccato», commentò il Roya, spingendo la scacchiera di lato. «Bergon è rimasto molto colpito dalla descrizione che gli hai fatto di questo campione di bellezza che avete a Chalion. Sai fare bene il tuo lavoro, ambasciatore.»

«Lo spero.»

«Un documento straordinario», proseguì il Roya, posando la mano sulla lettera di accredito di Iselle, accanto a sé. «Sai che vincola la Royesse a qualsiasi cosa tu sia disposto a firmare in suo nome?»

«Sì, mio signore.»

«Saprai anche che la sua autorità, nell’attribuirti un simile potere, è discutibile. Tanto per cominciare, c’è la questione della sua età.»

«Ebbene, signore, se non le riconoscete il diritto di contrattare il proprio matrimonio, suppongo che non mi resti altro da fare se non montare a cavallo e tornare a Chalion.»

«No, no, non ho detto che sono io a metterlo in discussione!» esclamò il vecchio Roya, con una sfumatura di panico nella voce.

«In effetti, signore, trattare con me significa riconoscere pubblicamente la sua autorità», replicò Cazaril, reprimendo un sorriso.

«Sì, è vero, è proprio vero. I giovani sono così fiduciosi, ed è per questo che noi persone più mature dobbiamo salvaguardare i loro interessi», annuì il Roya, poi raccolse un elenco che Cazaril gli aveva dato la notte precedente e aggiunse: «Ho studiato le clausole da te suggerite per il contratto di matrimonio. Abbiamo molte cose di cui discutere».

«Vi prego di scusare la precisazione, signore, ma quelle clausole non sono suggerimenti, bensì requisiti. Se ne volete proporre altre, sono disposto ad ascoltarvi.»

«Non dirai sul serio», protestò la Volpe, inarcando le sopracciglia. «Per esempio, il punto relativo all’ereditarietà nel periodo in cui il loro Erede — se gli Dei concederanno loro di generarne uno — non avesse ancora raggiunto la maggiore età… Basterebbe un’accidentale caduta da cavallo perché la Royina di Chalion diventasse la reggente di Ibra! Non è accettabile. Bergon dovrà affrontare i rischi del campo di battaglia, cosa che non si può dire di sua moglie.»

«Ecco, speriamo che non lo si possa dire davvero. D’altro canto, a meno che io non sia male informato sulla storia di Ibra, mio signore, non è forse vero che la madre del Royse è uscita vincitrice da due assedi?»

La Volpe si schiarì la gola, incapace di obiettare.

«In ogni caso, a nostro parere i rischi sono reciproci e tale dev’essere anche la clausola», proseguì Cazaril. «Iselle infatti dovrà affrontare i pericoli connessi al parto, cosa che non si verificherà mai per Bergon. Basterebbe un parto andato male e Bergon diventerebbe reggente di Chalion. Quante delle vostre mogli vi sono sopravvissute, mio signore?»

La Volpe trasse un profondo respiro, poi cambiò argomento. «Veniamo allora alla clausola relativa al titolo di cui si fregeranno.»

Pochi minuti di pacata discussione furono sufficienti a dimostrare che Bergon dy Ibra-Chalion non suonava meglio di Bergon dy Chalion-Ibra, e anche quella clausola venne lasciata intatta.

«A quanto mi è dato di capire, tu sei un uomo privo di possedimenti, Lord Cazaril», osservò allora la Volpe, con un’espressione pensosa. «Come mai la Royesse non ti ha ricompensato come si addice a un uomo del tuo rango?»

«Le ricompense che elargisce sono adeguate al suo rango», replicò Cazaril. «Iselle non è ancora Royina di Chalion.»

«Capisco. Io, d’altro canto, sono l’attuale Roya di Ibra, e ho il potere di dispensare… molte ricompense.»

Cazaril si limitò a sorridere.

Incoraggiato, la Volpe gli descrisse un’elegante villa affacciata sul mare, posando nel contempo sul tavolo, davanti a loro, un castello di corallo. Volendo capire fin dove il suo interlocutore intendesse spingersi, Cazaril si trattenne dal sottolineare che la vista sul mare non era di suo gradimento. La Volpe parlò di cavalli di razza e di una tenuta su cui farli pascolare, e, mentre sottolineava che la terza clausola gli appariva assai poco appropriata, avvicinò al castello di corallo alcuni cavalieri di giada. Pungolato dai mormorii inarticolati di Cazaril, il Roya accennò con delicatezza a somme di denaro grazie alle quali un uomo avrebbe potuto vestirsi come si conveniva a un nobile ibrano dal rango molto più elevato di quello di Castillar, suggerendo una formulazione più adeguata per la sesta clausola e aggiungendo al resto un castello di giada, mentre il segretario prendeva una serie di annotazioni.

A ogni nuovo mormorio indistinto di Cazaril, il rispetto e il disprezzo negli occhi della Volpe aumentavano anche se, al crescere della ricompensa, la sua voce assunse anche una nota dolorosa.

«Sei un giocatore migliore di quanto mi aspettassi, Castillar», commentò infine la Volpe, appoggiandosi all’indietro e indicando il mucchietto di pedine che simboleggiavano quanto lui era disposto a offrire. «Allora, Cazaril, che te ne pare? C’è un’offerta che quella ragazza ti possa fare e alla quale io non ne possa contrapporre una migliore?»

«Ecco, signore… Credo che lei mi darà una tenuta a Chalion, del tutto adeguata alle mie esigenze, larga un passo e lunga due, destinata a essere mia in eterno», replicò Cazaril, con un ampio sorriso. Quindi, con gentilezza, in modo da non offendere e da non dare l’impressione di sentirsi a sua volta offeso, protese la mano e spinse di nuovo le pedine verso la Volpe, aggiungendo: «Vi devo una spiegazione. Ho un tumore al ventre, e la prospettiva di morire entro breve tempo. Doni del genere sono per i viventi, non per quelli che stanno per morire».

Le labbra della Volpe si mossero senza emettere suono, stupore e sgomento si avvicendarono sul suo volto e, insieme con essi, affiorò un’insolita sfumatura di vergogna, subito repressa. «Per i cinque Dei!» esclamò con una risata. «Quella ragazza è abbastanza astuta e spietata da insegnarmi il mestiere! Non mi meraviglio più che ti abbia conferito simili poteri! Per gli attributi del Bastardo, mi ha mandato un ambasciatore incorruttibile!»

Tre pensieri si accavallarono nella mente di Cazaril: anzitutto Iselle non aveva elaborato un piano tanto astuto; in secondo luogo, se le avessero fatto notare la cosa, lei si sarebbe limitata ad archiviarla, in previsione di una necessità futura; in terzo luogo… Be’, non era necessario rivelare quei pensieri alla Volpe.

Il Roya tornò serio e lo fissò. «Mi dispiace per il tuo male, Castillar… Non è certo cosa di cui ridere», si scusò. «La madre di Bergon è morta di un tumore al seno, alla verde età di trentasei anni. Tutti i problemi che ha dovuto affrontare, sposandomi, non l’hanno mai piegata, ma alla fine…»

«Io ho trentasei anni», non poté trattenersi dal sottolineare Cazaril, in tono mesto.

«In tal caso, non hai proprio un bell’aspetto», osservò il Roya.

«Infatti», convenne Cazaril, poi raccolse l’elenco delle clausole e aggiunse: «Dunque, signore, riguardo al contratto di matrimonio…»

Le richieste contenute nell’elenco di Cazaril furono tutte approvate. Un po’ sconcertato, la Volpe propose alcune intelligenti aggiunte alle clausole relative a situazioni di emergenza, e Cazaril fu lieto di accettarle. Per salvaguardare le apparenze, il Roya continuò peraltro a sollevare proteste ancora per qualche tempo, facendo numerosi accenni all’atteggiamento sottomesso che una donna doveva mantenere nei confronti del marito — una cosa tutt’altro che diffusa nella storia recente di Ibra, anche se Cazaril evitò diplomaticamente di sottolinearlo — e al fatto che le donne troppo amanti dell’equitazione tendevano a essere dotate di un’energia innaturale.

«Rincuorati, signore», lo consolò Cazaril. «Il tuo destino non è quello di conquistare oggi una royacy per tuo figlio, bensì un impero per tuo nipote.»

La Volpe si rasserenò, e perfino il segretario si concesse un sorriso. Alla fine delle trattative, poi, il Roya gli offrì la scacchiera e i suoi pezzi come suo ricordo.

«Credo che dovrò rifiutare», replicò Cazaril, contemplando con rammarico la scacchiera, poi però gli venne un’ispirazione improvvisa. «Se però poteste farla imballare, sarò lieto di portarla a Chalion, come vostro personale dono di fidanzamento per la vostra futura nuora.»

La Volpe scoppiò a ridere e scosse il capo. «Vorrei avere anch’io un cortigiano che mi riservasse tanta fedeltà in cambio di ricompense così limitate», affermò. «Non vuoi davvero nulla per te stesso, Cazaril?»

«Voglio del tempo.»

«Non ne vogliamo tutti?» ribatté il Roya, scuotendo il capo con rammarico. «Quella però è una richiesta che devi rivolgere agli Dei, non al Roya di Ibra.»

Cazaril scelse d’ignorare quelle parole, anche se le sue labbra quasi s’incurvarono in un sorriso ironico. «Se non altro, mi piacerebbe vedere Iselle sposata, e questo è un dono che tu mi puoi fare, signore, accelerando le procedure. Inoltre è quanto mai necessario che Bergon diventi Royse-consorte di Chalion prima che Martou dy Jironal ne diventi il reggente.»

Di fronte a quella prospettiva, perfino la Volpe fu costretta ad assentire.

Quella sera, dopo l’abituale banchetto offerto dal Roya, e dopo essersi liberato di Bergon che, non potendolo ricoprire con gli onori che lui si ostinava a rifiutare, pareva deciso a imbottirlo almeno di cibo, Cazaril si fermò al Tempio. A quell’ora, le alte sale rotonde erano buie e silenziose, i fedeli quasi inesistenti, anche se le luci alle pareti e il fuoco centrale ardevano, sorvegliati dai due Accoliti del turno di guardia notturno. Ricambiato il loro cordiale saluto, Cazaril oltrepassò l’arcata decorata a mosaico che dava accesso al cortile della Figlia.

Sul pavimento c’erano splendide stuoie di preghiera, intessute dalle fanciulle e dalle dame di Ibra, che le donavano ai Templi come atto di devozione, così da risparmiare alle ginocchia e ai corpi dei fedeli il contatto col marmo gelido dei pavimenti… un’usanza che, se fosse stata imitata a Chalion, avrebbe incrementato il numero di Devoti che frequentavano i Templi durante l’inverno. Stuoie di ogni dimensione, colore e disegno erano sparpagliate intorno all’altare della Signora. Cazaril ne scelse una di lana, larga e spessa, decorata con la rappresentazione di fiori primaverili, e si prostrò su di essa, rammentando a se stesso che era lì per pregare e non per scivolare nel sonno indotto dal vino.

Durante il viaggio fino a Ibra, ogni volta che si erano fermati in una Casa della Figlia e Ferda cambiava i cavalli, lui aveva pregato… Aveva pregato che Orico fosse preservato in vita, che Iselle e Betriz fossero al sicuro, che Ista trovasse un po’ di sollievo. Soprattutto, intimidito dalla reputazione di cui godeva la Volpe, aveva pregato per il successo della sua missione, anche se quella preghiera sembrava essere stata accolta in anticipo… Ma quanto in anticipo? si chiese, accarezzando la trama della stuoia, intessuta filo per filo dalle mani pazienti di qualche donna. Forse, però, quella tessitrice non era stata affatto paziente… Forse era stata stanca, o irritata, o distratta, o affamata, o rabbiosa. Forse stava morendo, eppure le sue mani avevano continuato a muoversi.

Da quanto tempo sto camminando su questa strada?

Un tempo, avrebbe fatto risalire il vincolo con la Signora a quella moneta lasciata cadere nel fango della Baocia da un soldato goffo. Adesso, tuttavia, non era più certo che fosse così. E si era dato un’altra risposta, che tuttavia non gli piaceva affatto. L’incubo vissuto sulle galee era venuto prima della moneta nel fango. Possibile che la sofferenza e la paura fossero state manipolate dagli Dei per i loro fini? Lui era dunque soltanto una marionetta? Oppure era un mulo legato alla cavezza, cocciuto e recalcitrante, da spingere avanti a colpi di frusta? Non sapeva se sentirsi attonito o furente… Umegat aveva ribadito che agli Dei era impossibile impadronirsi della volontà di un uomo; essi potevano soltanto aspettare che tale volontà venisse loro offerta. Ma quando aveva firmato quell’intangibile contratto?

D’un tratto, ricordò.

A Gotorget, in una notte fredda e disperata, oppresso dalla fame, aveva fatto il suo solito giro di controllo sui bastioni. Arrivato sulla torre più alta, aveva congedato il ragazzo di guardia, mandandolo al coperto per qualche tempo perché si ristorasse come poteva, e si era assunto lui stesso il suo compito, fissando i fuochi da campo nemici che ardevano nel villaggio in rovina, nella valle sottostante e sui costoni circostanti. Erano luci beffarde, che parlavano di calore, di cibo, di sicurezza… Di tutte quelle cose che mancavano ai difensori, asserragliati dentro le loro mura. Aveva pianificato, temporeggiato ed esortato i suoi uomini a resistere con lealtà, tappando brecce, respingendo sortite, mangiando le cose più ignobili, respingendo le scale d’assedio e, soprattutto, pregando. Finché non aveva esaurito le preghiere.

Da ragazzo, a Cazaril, aveva seguito la via propria della maggior parte dei giovani nobili, diventando un Devoto laico dell’Ordine del Fratello, attratto dalla gloria militare che tale ruolo prometteva. Le rare volte in cui si era preso la briga di pregare, si era sempre rivolto in maniera meccanica al Dio che gli era stato assegnato in virtù del suo sesso, della sua età e del suo rango… Quella notte, sulla torre, aveva avuto l’impressione che quella strada, seguita passivamente, senza porsi interrogativi, lo avesse condotto, passo dopo passo, a quella trappola impossibile, abbandonato dalla sua gente e dal suo Dio.

Sin dall’età di tredici anni, quando si era sottoposto alla cerimonia di consacrazione, prima di lasciare Cazaril per diventare un paggio nella casa del vecchio Provincar, aveva sempre portato al collo la medaglia del Fratello. Eppure quella notte, sulla torre, col volto solcato da lacrime di stanchezza, di disperazione e di rabbia, se l’era strappata di dosso e l’aveva scagliata oltre i bastioni, rinnegando il Dio che aveva rinnegato lui. Vorticando nell’aria, il piccolo disco d’oro era scomparso nel buio senza far rumore, mentre lui si prostrava sulle pietre, proprio come in quel momento, giurando di offrirsi a qualsiasi altro Dio disposto ad accettarlo, a patto che i suoi uomini potessero uscire da quella trappola. Per quanto lo riguardava, era un uomo finito. Finito.

Naturalmente non era successo nulla. Dopo un po’ era cominciato a piovere. Alla fine, si era rialzato, vergognandosi della propria crisi e grato che nessuno degli uomini lo avesse visto in quelle condizioni. Poi era arrivata la sentinella del turno seguente, e lui aveva lasciato i bastioni. Per alcune settimane non era successo altro… Poi era sopraggiunto quel corriere ben nutrito, con la notizia che la loro resistenza era stata vana, che tutto il sangue da loro versato, tutti i sacrifici fatti sarebbero stati venduti in cambio di un’ingente somma d’oro destinata ai forzieri di dy Jironal.

E i suoi uomini erano stati condotti al sicuro.

Però lui si era avviato su una strada diversa…

Cosa aveva detto Ista? Le peggiori maledizioni inflitte dagli Dei si manifestano come una risposta alle nostre preghiere. Le preghiere sono una cosa pericolosa. Era dunque sufficiente scegliere una volta soltanto di condividere la propria volontà con quella di un Dio, come giurare per arruolarsi in una compagnia militare? Oppure era una scelta che andava rinnovata di continuo, ogni giorno? O si trattava di entrambe le cose? Poteva abbandonare quella strada in qualsiasi momento, per esempio salendo a cavallo e andandosene nella Darthaca, costruendosi una nuova vita con un nuovo nome? In tal caso, come aveva ipotizzato Umegat, lui avrebbe agito come quel centinaio di altri Cazaril, che non si erano presentati all’appello, abbandonando di conseguenza tutti coloro che si fidavano di lui, Iselle, Ista, la Provincara, Palli, Betriz…

Ma, purtroppo, non Dondo.

Cazaril si contorse leggermente sulla stuoia, sgradevolmente consapevole della pressione al ventre e cercando di convincersi che era soltanto una conseguenza dell’abbondante banchetto offerto dalla Volpe, e non il suo tumore che cresceva, procedendo spedito verso il suo grottesco completamento, in attesa che la mano della Signora si allentasse. Forse gli Dei avevano imparato qualcosa dall’errore di Ista e dal crollo di dy Lutez… Forse si stavano accertando che il loro mulo non li abbandonasse a metà dell’opera, come aveva fatto dy Lutez…

In nessun modo, tranne che morendo. Quella porta rimaneva spalancata, ma cosa lo attendeva dall’altra parte? L’inferno del Bastardo, la dissoluzione di uno spettro rifiutato, oppure la pace?

Non ne aveva idea.

Dall’altra parte della Piazza del Tempio, nella Casa della Figlia, lo attendeva un letto caldo e morbido. Che il suo cervello si fosse spinto a formulare simili assurde elucubrazioni indicava che forse era il caso di raggiungerlo. Del resto, non stava pregando, ma soltanto discutendo con gli Dei. Si rialzò, dirigendosi alla porta. Pregare, rifletté, significava mettere un piede davanti all’altro, senza mai smettere di muoversi.

23

Ormai le clausole erano state accettate, i trattati stilati in più copie, firmati dalle parti interessate, nonché dai loro testimoni, e sigillati… Eppure, per poco, una questione pratica non mandò tutto a monte. La Volpe — non senza motivo, a parere di Cazaril — era infatti riluttante a mandare suo figlio a Chalion con così scarse garanzie per la sua sicurezza personale. A causa della guerra che aveva prosciugato le risorse del suo Stato, però, il Roya non aveva né gli uomini né il denaro necessari a radunare un nutrito contingente di truppe che garantisse la sicurezza di Bergon. Cazaril, inoltre, aveva paura dell’effetto che avrebbe avuto sulla gente di Chalion la vista di un esercito che valicava i confini, benché mosso da una causa valida. Com’era prevedibile, la discussione assunse toni accesi e il pensiero di dovere la vita stessa di Bergon a Cazaril fece crescere nel Roya un senso di umiliazione. La Volpe prese a evitare il Castillar e le sue petizioni con tattiche molto simili a quelle usate da Orico.

Tramite la catena di corrieri dell’Ordine della Figlia organizzata durante il viaggio di andata, Cazaril ricevette il primo messaggio cifrato di Iselle. Stilato pochi giorni dopo la sua partenza da Cardegoss, era molto breve, una semplice conferma che i riti funebri di Teidez si erano svolti senza incidenti e che Iselle avrebbe lasciato la capitale quel pomeriggio, insieme col corteo funebre, per la sepoltura del fratello a Valenda. In conclusione, la giovane scriveva, con evidente sollievo:

Le nostre preghiere sono state ascoltate… Gli animali sacri hanno dimostrato che il Figlio dell’Autunno ha preso con sé Teidez, nonostante tutto. Prego che possa trovare sollievo presso il Dio. Mio fratello Orico è ancora vivo e ha recuperato la vista da un occhio, ma è sempre assai gonfio, per cui rimane confinato a letto.

Seguiva però una nota che raggelò Cazaril.

Il nostro nemico mi ha affidato, come dame di compagnia, due sue nipoti… Non sarò in grado di scrivervi spesso. Che la Signora guardi con benevolenza alla vostra missione.

Nel cercare invano qualche aggiunta da parte di Betriz, per poco Cazaril non si lasciò sfuggire il suo breve messaggio, che individuò soltanto nel girare il foglio: i piccoli numeri, tracciati con la sua calligrafia precisa, erano seminascosti dalla cera crepata del sigillo. Grattato via il resto della cera con un’unghia, lui constatò che i numeri lo rimandavano a una delle ultime pagine del libro di Ordol. Si trattava di una delle sue preghiere più liriche: una supplica appassionata per la protezione di una persona cara che era in viaggio, lontano da casa.

Quanti anni… No, quanti decenni erano passati dall’ultima volta che qualcuno aveva pregato così per lui? Cazaril non era neppure certo che quel messaggio fosse destinato anche ai suoi occhi, e non soltanto a quelli degli Dei, ma si accostò comunque i numeri ai cinque punti sacri, trattenendoli un po’ più a lungo sulle labbra, prima di lasciare la camera per andare alla ricerca di Bergon.

Gli mostrò la lettera di Iselle, e lui rimase affascinato dal sistema di codifica, che studiò con estremo interesse; Cazaril compose una breve risposta, in cui informava la Royesse del successo della sua missione, e Bergon provvide a sua volta a stilare faticosamente di proprio pugno, con la massima concentrazione, un messaggio cifrato per la fidanzata.

Nella situazione di stallo venutasi a creare, Cazaril si sentiva sempre più inquieto. Era infatti impossibile che dy Jironal non avesse spie alla corte di Ibra, spie che, presto o tardi, gli avrebbero riferito della sua presenza a corte. Ma dy Jironal avrebbe intuito che i negoziati condotti da Cazaril nell’interesse di Iselle avevano avuto un esito positivo? E, se sì, come avrebbe reagito? Mettendo Iselle sotto stretto controllo e cercando di dedurre le mosse successive di Cazaril? Bloccando Bergon una volta che fosse stato a Chalion?

La sospensione dei negoziati si protrasse per parecchi giorni, giacché i timori del Roya per la sicurezza del figlio non si placavano. Ma, a un certo punto, Cazaril ebbe un’ispirazione geniale. Mandò lo stesso Bergon a perorare la propria causa: la Volpe, infatti, non poteva sottrarsi a quell’inviato, neppure nell’intimità delle proprie stanze. Bergon era giovane ed energico, con l’immaginazione accesa al pensiero della promessa sposa; il Roya era ormai vecchio e stanco… Senza contare che, proprio allora, una città dell’Ibra meridionale, fedele al defunto Erede, si sollevò contro il Roya, adducendo a pretesto l’inosservanza del trattato. La Volpe, costretto a fronteggiare quella circostanza funesta — benché Cazaril la considerasse invece assai favorevole -, si trovò dunque impegnato a organizzare una spedizione militare. Così, sebbene combattuto tra le grandi speranze accese nel suo animo e il terrore per la sicurezza del suo unico figlio, alla fine lasciò la decisione nelle mani di Bergon e dei suoi amici.

Come Cazaril ebbe modo di constatare, la risolutezza era una dote che non faceva difetto a Bergon. Il Royse accettò immediatamente il piano proposto da Cazaril: viaggiare leggeri e sotto mentite spoglie attraverso il territorio ostile tra il confine di Ibra e Valenda. Alla scorta formata da Cazaril e dai dy Gura aggiunse soltanto tre amici: due giovani nobili ibrani, dy Tagille e dy Cembuer, e il March dy Sould, poco più vecchio di lui.

Pieno di entusiasmo, dy Tagille propose di viaggiare come un gruppo di mercanti ibrani diretti a Cardegoss. Cazaril pose un’unica condizione e cioè che tutti gli uomini avessero una buona esperienza nell’uso delle armi.

Nell’arco di un giorno dalla decisione di Bergon, il gruppo si radunò in segreto — o almeno così si augurò Cazaril — in uno dei manieri che dy Tagille possedeva fuori da Zagosur. In realtà, non si sarebbe poi trattato di una compagnia particolarmente ristretta. Calcolando anche i servitori, infatti, si contavano una dozzina di uomini e un convoglio di bagagli formato da una mezza dozzina di muli e da quattro pony di montagna ibrani dal manto bianco, da considerare sia come cavalcature di scorta sia come dono per Iselle.

La partenza si svolse all’insegna dell’entusiasmo generale: era chiaro che, per i compagni di Bergon, quella era soprattutto una magnifica, nobile avventura. Ma Cazaril notò con piacere che il Royse aveva un atteggiamento più serio dei suoi amici, cosa che attenuò un poco il suo timore di trovarsi alla guida di un gruppo di bambini lanciati in un folle labirinto. Bergon non stava procedendo alla cieca, il che era più di quanto gli Dei avessero richiesto allo stesso Cazaril, il quale, formulando quelle cupe riflessioni, si ritrovò a chiedersi se la maledizione non lo stesse ingannando, inducendo a scatenare una guerra invece di evitarla. Dopotutto, neppure dy Jironal era stato così corrotto, quando era stato nominato Cancelliere.

Dovendo adattarsi a quella dei muli da soma, l’andatura del viaggio di ritorno ebbe lo stesso ritmo estenuante di quella dell’andata; soltanto l’ascesa dalla costa alla base delle montagne dei Denti del Bastardo richiese quattro giorni interi. Là, Cazaril venne raggiunto da un’altra lettera di Iselle, scritta un paio di settimane dopo la sua partenza da Cardegoss. La Royesse riferiva che Teidez era stato sepolto a Valenda con un rito adeguato e che lei, come voluto, era riuscita a prolungare la sua visita in città, sostenendo che desiderava consolare la madre e la nonna. Nel frattempo, dy Jironal era stato richiamato a Cardegoss dalla notìzia che lo stato di salute di Orico si era aggravato, e si era lasciato alle spalle non soltanto le spie da lui introdotte nel seguito di Iselle, ma anche numerosi soldati, con l’incarico di proteggere la nuova Erede di Chalion. Sto pensando a come liberarmi di loro, scriveva Iselle, un’affermazione che strappò un brivido di paura a Cazaril. C’era poi una lettera personale per Bergon, che Cazaril gli consegnò senza aprirla. Il Royse non ne rivelò il contenuto, tuttavia, nella soffocante camera della locanda in cui avevano preso alloggio, Cazaril lo vide sorridere spesso, mentre sfogliava il libro di Ordol per decifrare il codice, tenendo il capo il più vicino possibile alla luce delle candele.

Ancora più incoraggiante fu la lettera della Provincara, in cui l’anziana dama riferiva che Iselle, in privato, aveva ricevuto promesse di appoggio a quel suo matrimonio ibrano, da parte dello zio, il Provincar della Baocia, e di altri Provincar. Sembrava proprio che, al suo arrivo, Bergon avrebbe trovato numerosi difensori.

«Bene», esclamò in tono deciso il giovane Royse, quando Cazaril gli fece vedere il messaggio. «Proseguiamo.»

Quella notte stessa, però, alcuni viandanti esausti e scoraggiati arrivarono alla locanda, riferendo che il passo era ostruito dalla neve caduta in abbondanza. Consultata la mappa e facendo ricorso alla propria memoria, Cazaril decise che sarebbe stato meglio proseguire verso nord per un’intera giornata, in modo da raggiungere un altro valico, più alto e meno frequentato, che sembrava ancora praticabile. Lungo la salita, però, due cavalli si procurarono una distorsione. Ed erano ormai quasi giunti al passo allorché il March dy Sould — il quale aveva sempre dichiarato di sentirsi più a suo agio sul ponte di una nave che in sella a un cavallo -, dopo essere rimasto in silenzio per tutta la mattina, si protese oltre la sella e vomitò.

L’intero gruppo fu costretto a fermarsi. Mentre dy Sould, di solito vivace e arguto, borbottava una serie di scuse e di proteste imbarazzate e addirittura vagamente incoerenti, Cazaril, Bergon e Ferda si consultarono.

«Dobbiamo fermarci, accendere un fuoco e cercare di scaldarlo?» chiese il Royse, preoccupato, lasciando vagare lo sguardo su quei pendii desolati.

«Appare stordito, come un uomo in preda a una febbre molto alta, ma non è caldo al tatto», replicò Cazaril, lui stesso piegato in due per le fitte al ventre. «Essendo nato e cresciuto lungo la costa, non credo che si sia ammalato, ma piuttosto che soffra di quel malore che assale talvolta gli abitanti delle pianure che si trovano in alta montagna. In entrambi i casi, sarà meglio allontanarsi da queste rocce gelide prima di prestargli le cure necessarie.»

«E voi come vi sentite, mio signore?» domandò Ferda, scoccandogli un’occhiata in tralice.

«Non ho nulla che possa essere guarito semplicemente mettendomi a sedere qui», ribatté Cazaril, notando che anche Bergon lo stava scrutando con aria inquieta. «Proseguiamo.»

Il gruppo rimontò in sella e, ogni volta che la pista lo consentiva, Bergon si affiancava a dy Sould, il quale si teneva aggrappato alla sella con cupa determinazione. Dopo mezz’ora, comunque, Foix si abbandonò a un grido di gioia, indicando il tumulo di pietre che segnava il confine tra Ibra e Chalion. Condividendo il suo entusiasmo, i compagni si fermarono per aggiungere le loro pietre al tumulo, poi iniziarono la lunga discesa, ancora più pericolosa della salita. Le condizioni di dy Sould sembravano stabili e da quello Cazaril capì che la sua diagnosi era stata giusta. Quanto a lui, non accennava certo a migliorare, ma d’altronde non se lo aspettava neppure.

Nel pomeriggio, oltrepassato il bordo inferiore di una nuda vallata, si trovarono in mezzo a una fitta foresta di pini: l’aria sembrava più balsamica grazie al delizioso profumo degli alberi e il letto di aghi dava sollievo agli zoccoli dei cavalli doloranti, mentre i tronchi offrivano un riparo dal vento.

Nel superare una curva, Cazaril sentì un rumore soffocato di zoccoli sulla pista, davanti a loro: era il primo viaggiatore in cui si erano imbattuti nell’arco dell’intera giornata, e si trattava di un singolo cavaliere, dunque non poteva costituire un pericolo per il loro gruppo. Poi apparve un uomo brizzolato, dalle sopracciglia folte e dalla barba cespugliosa, vestito con sporchi abiti di cuoio. Li salutò con un cenno e, sconcertando un poco Cazaril, fermò il cavallo in modo da bloccare loro il passo.

«Sono il siniscalco del Castillar dy Zavar», spiegò l’uomo. «Quando la nebbia si è diradata, abbiamo visto che stavate discendendo la valle, così il mio signore mi ha mandato ad avvertirvi che sta per scoppiare una tempesta. V’invita dunque a ripararvi presso di lui finché non sarà passata.»

Dy Tagille accolse con entusiasmo quell’offerta di ospitalità, ma Bergon fece indietreggiare il cavallo per affiancarsi a Cazaril e gli sussurrò: «Ritieni che dobbiamo accettare, Caz?»

«Non ne sono certo…» borbottò lui, sforzandosi di ricordare se avesse mai sentito parlare di un Castillar dy Zavar.

Bergon lanciò un’occhiata a dy Sould, che si era accasciato sul pomo della sella. «Mi piacerebbe sistemarlo al coperto per la notte», osservò. «Dopotutto, siamo in molti, e armati.»

«E comunque non potremmo andare veloci in mezzo a una bufera, senza contare il rischio di smarrire la pista», convenne Cazaril.

«Fate come preferite, signori», commentò il brizzolato siniscalco. «Tuttavia, dal momento che a primavera spetterà a me il compito di recuperare i corpi sparsi nei fossi, vi sarei grato se accettaste la nostra ospitalità. Probabilmente, la tempesta si esaurirà entro domattina.»

«Se non altro, siamo riusciti a valicare il passo prima che il tempo cambiasse…» mormorò Bergon, poi, alzando il tono di voce, aggiunse: «D’accordo. Signore, vi ringraziamo e accettiamo la gentile offerta del Castillar».

L’uomo accennò un saluto e avviò il cavallo nella direzione da cui era giunto. Dopo un miglio, deviò su una pista secondaria, appena visibile, che si snodava tra alti pini scuri. Mentre i cavalli risalivano a fatica l’erto sentiero, Cazaril sentì in lontananza le strida di parecchi corvi, un suono che ridestò in lui ricordi confortanti.

Il gruppo infine sbucò dalla penombra degli alberi e si ritrovò su uno sperone roccioso, sul quale era appollaiata una piccola fortezza piuttosto malridotta, fatta di pietra nativa grezza, e dal cui camino si levava un’incoraggiante voluta di fumo. Oltrepassato un arco di pietra, il gruppo giunse in un cortile pavimentato con lastre di ardesia, sul quale si aprivano le stalle e un ampio porticato di legno, sovrastante la scala di accesso alla sala principale. Il perimetro del cortile era ingombro di attrezzi, di botti e di un’accozzaglia di altri oggetti. Numerose pelli di damo in fase di concia erano inchiodate al muro della stalla.

Alcuni uomini dall’aria dura — stallieri, servitori o guardie, o forse tutte e tre le cose insieme -, uscirono dal portico per occuparsi dei cavalli e dei muli dei viaggiatori. In quel momento, però, la vista di una mezza dozzina di spettri recenti, che vorticavano per il cortile, indusse Cazaril a dilatare gli occhi per lo sgomento, sentendo il respiro che gli si bloccava in gola.

Tre uomini, una donna e un bambino in lacrime… Sì erano spettri recenti, lo si capiva dalla nitidezza del loro contorno grigio, che conservava la forma avuta in vita. Poi la sagoma della donna indicò verso l’uomo brizzolato e la sua bocca si aprì in un urlo silenzioso, emettendo una voluta di fuoco bianco.

Cazaril fece subito indietreggiare il cavallo per affiancarlo a quello di Bergon. «È una trappola», mormorò. «Tieni pronte le armi e avverti gli altri.»

Bergon trasmise il messaggio a dy Tagille, che a sua volta si protese verso un paio di servitori, cui disse qualcosa in tono sommesso. Con un sorriso, Cazaril accostò intanto il proprio cavallo a quello di Foix e, sollevando la mano a coprirsi la bocca, come se stesse ridendo per una battuta scherzosa, gli spiegò quello che stava per succedere. Sorridendo a sua volta, Foix annuì e si girò verso il fratello, scrutando però il cortile per valutare la situazione.

Nel complesso, non era particolarmente preoccupante. C’era tuttavia un uomo appollaiato proprio sulle mura, accanto al portone, con una balestra che gli penzolava dalla mano con finta noncuranza… Un particolare di per sé insignificante, se non fosse stato che la balestra era carica. Tornando ad affiancarsi al Royse, Cazaril spostò il cavallo in modo da interporre se stesso e tra lui e l’uomo vicino al portone.

«Attento all’arciere», sussurrò. «Riparati sotto un mulo.» Gli spettri saettavano per il cortile, indicando uomini nascosti dietro le botti e gli attrezzi, oppure annidati nell’ombra delle stalle o in attesa poco oltre il portone. Erano così tanti che Cazaril fu costretto a ripensare alla tattica più opportuna da utilizzare, giacché non poteva più far conto sul vantaggio numerico.

L’uomo brizzolato rivolse un segnale a uno dei suoi compagni, e il portone venne chiuso alle spalle dei viaggiatori. Girandosi sulla sella, Cazaril affondò una mano nelle sacche e tastò prima un panno di seta, e poi una serie di fredde forme rotonde… Erano le perle di Dondo, che lui non aveva impegnato a Zagosur perché esse giungevano proprio da quell’area e quindi valevano poco agli occhi dei commercianti. Sollevando di scatto la mano, estrasse lo scintillante filo di perle con un ampio gesto del braccio, lo fece roteare intorno alla testa e contemporaneamente spezzò il filo col pollice. Com’era prevedibile, le perle si sfilarono dall’estremità della collana e volarono per tutto il cortile. I bravacci, colti di sorpresa, scoppiarono a ridere e si lanciarono verso quell’improvvisa ricchezza.

«Adesso!» urlò Cazaril, abbassando il braccio con una mossa repentina.

Il brizzolato comandante del gruppo di aggressori, che probabilmente era sul punto d’impartire quello stesso ordine, rimase sconcertato nel vedere i compagni di Cazaril estrarre la spada e scagliarsi sui nemici, distratti dalle perle. Cazaril fu quasi costretto a saltar giù di sella per evitare una quadrella di balestra, che in effetti si conficcò nel cuoio accanto a lui. Poi lottò per estrarre la spada, mentre il cavallo spaventato prendeva a impennarsi e a sgroppare.

Foix era peraltro riuscito a impugnare la propria balestra prima che si scatenasse quel caos di uomini che urlavano e di cavalli che si agitavano. Così, quando uno degli spettri saettò davanti all’occhio interiore di Cazaril, indicando una forma in ombra che si stava spostando lungo la sommità del portico, il Castillar batté un colpetto sul braccio di Foix e gridò: «Lassù!» Tendendo la balestra, il giovane si girò di scatto nel preciso istante in cui il secondo arciere si sollevava per tirare. E Cazaril avrebbe potuto giurare che lo spettro intendesse guidare il volo della quadrella, la quale penetrò nell’occhio destro dell’arciere, abbattendolo all’istante. Abbassandosi per non esporsi, Foix provvide quindi a ricaricare immediatamente, con un sonoro ronzio del piccolo meccanismo di trazione.

Cazaril si guardò intorno, alla ricerca di un avversario, e ne scoprì uno che stava puntando proprio lui. Dal portone stava infatti entrando un uomo, armato di spada, che lui riconobbe subito come Ser dy Joal, il principale bravaccio di dy Jironal. L’ultima volta, l’aveva visto a Cardegoss.

Cazaril sollevò la spada appena in tempo per deviare il primo, furioso attacco di dy Joal, poi fu costretto a mettersi sulla difensiva da violenti e dolorosissimi crampi al ventre, mentre lui e l’avversario giravano in cerchio, entrambi alla ricerca di un vantaggio da sfruttare. D’un tratto, però, dy Joal scattò in avanti. Il dolore al ventre era così intenso che per poco non prosciugò di ogni energia il braccio di Cazaril, che riuscì a malapena a respingere quell’attacco e non poté neppure pensare a un contrattacco. Con la coda dell’occhio, vide lo spettro della donna raggomitolarsi completamente su se stesso, poi scivolare, insieme con una perla, sotto lo stivale di dy Joal. L’uomo barcollò, in maniera tanto violenta quanto inaspettata, agitando le braccia per mantenere l’equilibrio.

Allora la punta della spada di Cazaril gli trapassò la gola, andando a incastrarsi per un momento contro le ossa del collo, con un impatto veemente che riverberò lungo il braccio del Castillar. Ormai gli sembrava di avere crampi in tutto il corpo, e la vista gli si stava annebbiando sempre di più, mentre, dentro di lui, Dondo urlava, trionfante, e il demone della morte saliva dietro i suoi occhi come fuoco vorticoso, impaziente e implacabile. In preda alle convulsioni, Cazaril cominciò a vomitare e, in un incontrollato spasmo all’indietro, strappò di lato la spada dalla ferita, squarciando le arterie di dy Joal, il quale cadde ai suoi piedi, immerso in una pozza di sangue.

Cazaril si ritrovò inginocchiato sulle pietre gelide, con la spada che tintinnava ancora debolmente dopo essere sfuggita alle sue dita, d’un tratto inerti. Il tremito che lo scuoteva era così violento da rendergli impossibile rialzarsi, la bile gli colava dalla bocca contratta, e ondate di nausea gli devastavano l’addome gonfio e pulsante. Sulla punta della sua spada, abbandonata a terra, il sangue di dy Joal, diventato nero, sembrava emettere una scia di vapore.

Dentro di lui, Dondo gemeva e ululava in preda all’ira e alla frustrazione. Lentamente, tuttavia, quei richiami andarono scemando, fino a cessare del tutto; quanto al demone, si era riadagiato nel suo ventre come un gatto in caccia, teso e guardingo. Dolorante, Cazaril provò a chiudere e ad aprire più volte la mano, per verificare se aveva ancora il controllo del proprio corpo.

Sembrava proprio che il demone della morte non fosse particolarmente schizzinoso riguardo alle anime con cui riempire i suoi secchi, a patto che fossero due: quella di Cazaril e quella di Dondo, oppure quella di Cazaril e quella di un altro assassino… o di un’altra vittima? Lui non avrebbe saputo dirlo, e non riteneva neppure che avesse importanza, date le circostanze. Dondo aveva sperato di rimanere aggrappato al suo corpo e di far strappare via l’anima di Cazaril, cosa che lo avrebbe lasciato in possesso del territorio conteso, se così si poteva dire. Ciò significava che gli intenti di Dondo e quelli del demone non coincidevano. Il demone pareva disposto ad accontentarsi della morte di Cazaril, comunque si fosse verificata, mentre Dondo voleva un assassinio.

Accasciato a terra, senza più forze, con le lacrime che gli filtravano da sotto le palpebre, Cazaril si rese conto che intorno a lui il chiasso era cessato. Una mano gli toccò una spalla, strappandogli un sussulto, e la voce spaventata di Foix gli risuonò all’orecchio. «Mio signore? Mio signore, siete ferito?»

«Non… sono ferito», ansimò Cazaril, sbattendo le palpebre e protendendo una mano verso la sua spada, ma solo per ritraila di scatto perché era rovente. Ferda sopraggiunse in quell’istante e, benché tremasse visibilmente, i fratelli dy Gura riuscirono a sollevarlo.

«Siete certo di star bene?» domandò Ferda. «A Cardegoss, quella dama dai capelli neri ci ha promesso che la Royesse ci avrebbe fatto staccare le orecchie, se non vi avessimo riportato da lei vivo.»

«Sì», confermò Foix. «E ha aggiunto che dopo lei avrebbe usato la nostra pelle per farci un tamburo.»

«La vostra pelle è salva, almeno per ora», garantì Cazaril, raddrizzandosi un poco e guardandosi intorno con sguardo ancora un po’ vacuo. Un servitore che sembrava più un sergente maggiore, stava minacciando con la spada una mezza dozzina di bravacci, distesi al suolo in segno di resa; altri tre banditi sedevano a ridosso del muro della stalla, gementi e sanguinanti, e un altro servitore stava trascinando nel centro del cortile il cadavere del balestriere.

Accigliandosi, Cazaril abbassò lo sguardo sul corpo di dy Joal. Nel corso del loro breve duello, non si erano scambiati una sola parola, e ciò creava nel Castillar un profondo disagio. La mera presenza di quel bravaccio, pur sottintendendo molte cose, non confermava nulla. Dy Joal era stato inviato da dy Jironal, oppure aveva agito di sua iniziativa? «Il capo… Dov’è il loro capo? Voglio interrogarlo», disse.

«È laggiù, mio signore, ma temo che non vi potrà rispondere», replicò Foix.

Poco lontano, Cazaril scorse Bergon che si stava rialzando dopo aver esaminato un cadavere. Purtroppo era il cadavere dell’uomo brizzolato.

«Ha combattuto con vigore e ha rifiutato di arrendersi», spiegò Ferda, in tono di scusa. «Aveva già ferito due dei nostri servitori, quando infine Foix lo ha abbattuto con una quadrella.»

«Credete che fosse davvero il siniscalco di questo posto, mio signore?» aggiunse Foix.

«No.»

Bergon si diresse verso di lui, la spada ancora in pugno, e lo squadrò da capo a piedi con aria preoccupata. «Adesso cosa facciamo, Caz?» domandò.

Lo spettro della donna, che sembrava meno agitato, stava additando il portone, mentre uno degli spettri maschili indicava le porte interne della rocca.

«Io… vi seguirò, tra un momento», sussurrò Cazaril.

«Come?» esclamò Bergon.

Cazaril si costrinse a distogliere lo sguardo da ciò che soltanto la sua seconda vista poteva scorgere. «Rinchiudeteli in una stalla sorvegliata», ordinò, facendo un cenno verso i nemici che si erano arresi. «Per ora metteteli tutti insieme, sani e feriti… Ci occuperemo di loro dopo aver curato le ferite dei nostri uomini. Poi bisognerà mandare qualcuno a perquisire la rocca, per accertarsi che non ci siano altri nemici o… altre persone, nascoste o prigioniere. Foix, prendi spada e balestra e vieni con me», concluse, rivolgendo lo sguardo al portone, dove il fantasma della donna continuava a chiamarlo.

«Non dovremmo prendere una scorta più numerosa, mio signore?» obiettò Foix.

«No, non credo sia necessaria…»

Lasciati Bergon e Ferda a occuparsi dei sicari superstiti, Cazaril si diresse verso il portone, seguito da Foix, che lo fissò con aria perplessa quando lui imboccò senza esitazione un sentiero tra i pini. Mentre camminavano, le strida dei corvi si fecero sempre più acute, inducendo Cazaril a farsi forza, in previsione di quello che avrebbero trovato. Il sentiero finiva sul bordo di un burrone.

«Per l’inferno del Bastardo», sussurrò Foix, abbassando la balestra e toccandosi i cinque punti sacri del corpo in un gesto di protezione.

Avevano trovato i cadaveri.

Giacevano in fondo al burrone, dov’erano stati gettati sopra un accumulo di anni di rifiuti di cucina e delle stalle. C’erano anzitutto un uomo giovane e due più anziani. Impossibile distinguere padrone da servitore perché, vivendo e lavorando in campagna, tutti si abbigliavano in modo pratico, con indumenti in cuoio e lana. Poi c’era la donna. Sembrava insignificante, grassoccia e di mezz’età. Era stata nuda, proprio come il bambino, un frugoletto di circa cinque anni. Entrambi erano stati mutilati… probabilmente dopo essere stati violati. La loro morte, almeno a giudicare dal lavoro dei corvi, risaliva al massimo al giorno prima. Lo spettro della donna si mise a piangere silenziosamente e quello del bambino si aggrappò a lei, gemendo… Non erano anime respinte dagli Dei, ma recise con troppa violenza dal corpo, ancora stordite dalla morte e incapaci di trovare la strada senza i necessari riti funebri.

«Signora, se io sono ancora vivo in questo luogo, allora significa che tu sei presente», sussurrò Cazaril, crollando in ginocchio. «Per favore, allevia la sofferenza di queste povere anime.»

L’espressione di quei volti spettrali passò immediatamente dall’angoscia alla meraviglia, poi i loro corpi evanescenti divennero sfocati, come raggi di sole riflessi in una nube lontana, e svanirono.

«Foix, aiutami a rialzarmi», disse Cazaril, dopo qualche istante. Sconcertato, Foix gli passò una mano sotto il gomito per sollevarlo, e lui si girò, barcollando, avviandosi lungo il sentiero.

«Mio signore, non dovremmo cercare se ce ne sono altri?» domandò Foix.

«No, sono tutti qui», garantì Cazaril, e il giovane ufficiale lo seguì senza aggiungere altro.

Al loro ritorno nel cortile, videro Ferda e un servitore armato uscire dal portone della rocca. «Avete trovato qualcuno?» chiese Cazaril.

«No, mio signore.»

Accanto al portone, lo spettro dell’uomo giovane stava ancora indugiando, sebbene il suo corpo luminescente sembrasse prossimo a dissolversi come fumo nel vento, e si contorceva, incitando Cazaril a entrare.

«Sì, sì, arrivo», gli disse lui, chiedendosi quale spaventosa urgenza potesse aver indotto quello spettro ad aggrapparsi al mondo reale, esitando a gettarsi nelle braccia aperte della Dea.

Quando lo spettro sgusciò nella fortezza, Cazaril, senza badare alle occhiate stupefatte di Foix e a Ferda, fece cenno ai due di seguirlo. Attraversarono la sala principale e passarono sotto una galleria, sbucando in cucina e scendendo una scala di legno verso un buio magazzino dalle pareti di pietra. «Avete cercato anche qui?» gridò, da sopra la spalla.

«Sì, mio signore», garantì Ferda.

«Fate più luce!» ordinò Cazaril, fissando con attenzione lo spettro, che adesso girava in cerchio nella stanza con crescente agitazione, descrivendo una spirale sempre più stretta. «Spostate quelle botti», disse infine.

Mentre Foix faceva rotolare di lato le botti, Ferda sopraggiunse dalla cucina con un paio di candele di sego, la cui fiamma, anche se gialla e fumosa, fu sufficiente a rischiarare la stanza. Nascosta sotto le botti, c’era una lastra di pietra incassata nel pavimento e dotata di un anello di ferro. A un altro cenno di Cazaril, Foix afferrò l’anello e prese a tirare finché la lastra non si sollevò, rivelando una stretta rampa di gradini che scendeva nell’oscurità.

Dal basso, una voce fievole lanciò un grido.

Chinandosi su Cazaril, lo spettro del giovane parve baciargli la fronte, le mani e i piedi, poi si dissolse nell’eternità. Ma una debole scintilla azzurra, simile a un accordo musicale reso visibile, brillò per un momento ancora davanti alla sua seconda vista.

Con le candele in una mano e la spada snudata nell’altra, Ferda cominciò a scendere con cautela i gradini di pietra. Dal sotterraneo buio giunse allora un clamore di voci e, quando Ferda riapparve, di lì a poco, sorreggeva un uomo anziano ma robusto, dall’aria sconvolta, col volto segnato a causa delle percosse e le gambe tremanti. Alle loro spalle, una dozzina di persone, sconvolte e piangenti di gioia, risali la scala alla spicciolata.

I prigionieri liberati si accalcarono tutti intorno a Ferda e a Foix, raccontando la loro storia e subissandoli di domande; in disparte, Cazaril si appoggiò a una botte e rimase ad ascoltare, formando a poco a poco un quadro preciso dell’accaduto. L’uomo anziano e robusto era il vero Castillar dy Zavar, una sconvolta donna di mezz’età era la sua Castillara, un ragazzo e una ragazza in giovane età — risparmiata per puro miracolo, pensò Cazaril — erano i loro figli, e gli altri erano i servi e i dipendenti di quella dimora rurale.

Dy Joal e i suoi uomini erano arrivati al castello il giorno precedente. In apparenza erano soltanto un gruppo di rozzi viaggiatori, ma, quando un paio di quei bravacci avevano cominciato a molestare la cuoca, il marito della donna e il siniscalco erano accorsi in sua difesa. Non appena avevano tentato di allontanare gli sgraditi visitatori, però, erano spuntate le armi. Per quella famiglia, accogliere i viandanti in difficoltà che giungevano dal passo o che erano minacciati da una tempesta imminente era una sorta di tradizione. Inoltre nessuno degli abitanti del castello aveva riconosciuto dy Joal o i suoi uomini.

«Il mio figlio maggiore è vivo?» domandò poi il vecchio Castillar, aggrappandosi al braccio di Ferda. «Lo avete visto? E accorso in aiuto del mio siniscalco…»

«Era un giovane più o meno della stessa età di questi altri, vestito di lana e di cuoio, come te?» replicò Cazaril, indicando i fratelli dy Gura.

«Sì…» confermò il vecchio, impallidendo.

«Allora ha trovato consolazione nell’abbraccio degli Dei», riferì Cazaril, mentre il padre si abbandonava ad alte grida strazianti.

Accodatosi ai prigionieri liberati, Cazaril risalì stancamente le scale verso la cucina. Ben presto uomini e donne si sparsero per la casa, per recuperare i morti, prendersi cura dei feriti e dedicarsi di nuovo alle loro faccende.

«Mio signore… Eravate mai stato in questa casa, prima d’ora?» chiese Ferda a Cazaril, allorché questi si soffermò accanto al fuoco della cucina, per riscaldarsi.

«No.»

«Allora come avete fatto… Quando ho guardato in cantina, io non ho sentito nulla. Avrei lasciato quella povera gente a morire di fame, di sete e di follia, al buio.»

«Credo che, prima della fine della notte, gli uomini di dy Joal ci avrebbero rivelato il loro misfatto. E adesso ho intenzione di apprendere da loro molte altre cose», ribatté Cazaril, accigliandosi.

Sotto le pressioni che Cazaril fu lieto di autorizzare, e che gli abitanti della fortezza misero subito in atto, i bravacci prigionieri si mostrarono fin troppo ben disposti a raccontare la loro versione della storia. Il loro gruppo comprendeva alcuni fuorilegge, vari soldati — allontanatisi dall’esercito e quindi bisognosi di denaro -, e alcuni uomini del posto, che, attirati dalla prospettiva di una ricompensa, avevano guidato gli altri fino alla dimora di dy Zavar, giacché la torre più alta di quella fortezza dominava la strada. A quanto pareva, dy Joal aveva raggiunto la frontiera ibrana da solo, assoldando quegli uomini in una città ai piedi delle montagne, dove essi si guadagnavano da vivere scortando a pagamento i viandanti oppure derubandoli. Loro sapevano soltanto che dy Joal era giunto lì per tendere un agguato a un uomo che, provenendo da Ibra, avrebbe attraversato uno dei passi, però ignoravano la sua vera identità, anche se il suo abbigliamento da cortigiano e i suoi modi arroganti non avevano suscitato molta simpatia.

Era chiaro che dy Joal non era riuscito a controllare quegli uomini da lui affrettatamente assoldati. Così, quando la disputa sulla cuoca aveva innestato una spirale di violenza, lui non aveva avuto il coraggio — o la forza — di porre termine alla faccenda, d’imporre un po’ di disciplina o di ripristinare l’ordine. E la situazione era degenerata.

Turbato da quei racconti, Bergon trasse in disparte Cazaril, sotto la luce incerta delle torce che rischiaravano il cortile. «Caz, sono stato io a scatenare questa sventura sulla brava gente del povero dy Zavar?» domandò.

«No, Royse. Dy Joal stava aspettando soltanto me, di ritorno da Ibra in qualità di corriere di Iselle. Il Cancelliere dy Jironal sta cercando di allontanarmi dal servizio della Royesse ormai da qualche tempo e, in mancanza di modi più ortodossi, non teme di ricorrere addirittura all’assassinio. Quanto vorrei non aver ucciso quell’idiota! Darei il braccio destro, pur di scoprire di quali informazioni dispone dy Jironal.»

«Sei certo che sia stato il Cancelliere a organizzare questa trappola?»

«Be’, dy Joal nutre un aspro rancore nei miei confronti…» ammise Cazaril, esitando. «Però tutti sapevano che ero andato a Valenda, quindi dy Joal può aver appreso la mia vera destinazione soltanto da dy Jironal. Il Cancelliere ha di certo ricevuto qualche rapporto sul mio conto dalle sue spie a Ibra. Probabilmente ha scoperto qualcosa sul reale obiettivo del nostro viaggio, ma non tutto, e ha mandato dy Joal per bloccarci. Tuttavia non m’illudo che sia l’unico ’inviato’ del Cancelliere. Dobbiamo aspettarcene altri.»

«Entro quanto tempo?»

«Non lo so. Dy Jironal ha il comando dell’Ordine del Figlio, dunque potrà attingere alle sue risorse di uomini, non appena sarà riuscito a escogitare una menzogna abbastanza plausibile.»

Tamburellando col fodero della spada contro il calzone di cuoio, Bergon fissò il cielo. Col sopraggiungere della sera, le nubi si erano diradate e le catene montuose, verso occidente, erano sagome scure sullo sfondo di un perdurante bagliore verde. Le prime stelle splendevano sopra di loro, a riprova che l’uomo brizzolato, parlando di una tempesta imminente, aveva mentito. Forse la leggera lieve nevicata del pomeriggio gli aveva dato lo spunto per quell’idea…

«La luna è quasi piena e, per mezzanotte, sarà alta nel cielo», osservò infine Bergon. «Se cavalcheremo giorno e notte, forse riusciremo ad attraversare il territorio pericoloso prima che dy Jironal possa inviare altri uomini.»

«Che dunque pattuglierebbero un confine che noi avremmo già attraversato?» commentò Cazaril. «L’idea mi piace.»

«Ma… riuscirai a sostenere una simile cavalcata, Caz?» domandò Bergon, osservandolo con aria dubbiosa.

«Preferisco cavalcare piuttosto che combattere», ribatté Cazaril.

«Ti capisco», sospirò Bergon.

Nonostante il suo lutto, il Castillar dy Zavar dimostrò la sua gratitudine offrendo loro tutti i viveri che la sua casa potesse offrire. Per alleggerire il convoglio, Bergon decise di lasciare i muli, i servitori feriti e i cavalli azzoppati alle cure del Castillar. Ferda selezionò poi i cavalli più robusti e veloci, e si accertò che fossero ben strigliati, nutriti a sufficienza e lasciati a riposare fino al momento della partenza.

Il March dy Sould, ormai ripresosi del tutto, insistette per accompagnare il Royse. Dy Cembuer, che, nel corso del combattimento, aveva riportato una frattura a un braccio e alcuni tagli, si offrì di rimanere coi servitori e col bagaglio, fornendo la propria assistenza a dy Zavar sinché non fossero stati tutti in condizione di viaggiare.

Con sollievo, Cazaril lasciò alle vittime dell’aggressione il compito di giudicare i briganti. La partenza notturna, decisa da Bergon, gli risparmiò anche di assistere alla loro impiccagione, che avrebbe avuto luogo all’alba. A titolo di risarcimento parziale, lasciò poi alla gente della fortezza le perle di Dondo che si erano sparse nel cortile, riponendo le altre nelle sacche da sella.

Il Royse e la sua scorta si rimisero in viaggio non appena la luna sorse sopra le colline, bagnando le valli innevate di una luce limpida. Non ci sarebbero più state altre soste fino a Valenda.

24

Il gruppo seguì la strada percorsa da Cazaril nel viaggio di andata, attraversando la parte occidentale di Chalion e cambiando i cavalli presso piccole sedi rurali dell’Ordine della Figlia. A ogni fermata, Cazaril sperava che ci fosse qualche messaggio per lui e chiedeva con ansia notizie da Valenda. Avrebbe voluto conoscere qualche dettaglio della situazione verso cui si stavano dirigendo, ma gli risultò impossibile. Era soprattutto l’assenza di lettere a inquietarlo. Secondo il loro piano, Iselle doveva rimanere ad attenderli presso la madre e la nonna, protetta dalle truppe baociane dello zio; ma Cazaril cominciava a temere che le cose fossero cambiate.

Una sera, a ora ormai tarda, il gruppo si concesse una sosta nel villaggio di Palma, a una ventina di miglia da Valenda. La regione circostante era famosa per la qualità dei suoi pascoli, e infatti quella sede dell’Ordine della Figlia allevava e addestrava cavalcature destinate al Tempio. Cazaril era certo che là avrebbero trovato cavalli freschi oltre che notizie recenti. Così almeno sperava.

Più che smontare di sella, Cazaril si accasciò lentamente su se stesso, come se il suo corpo fosse stato intagliato in un singolo blocco di legno. Ferda e Foix dovettero trasportarlo attraverso l’ampio insieme di edifici dell’Ordine, fino a una camera spoglia ma confortevole, dove un fuoco vivace ardeva nel focolare di pietra e un semplice tavolo di legno di pino era stato appena sgombrato da un mazzo di carte da gioco. Il locale Devoto-comandante chiese subito cosa poteva fare per loro e, cercando di capire chi, tra dy Tagille e dy Sould, avesse il comando del gruppo, ignorò completamente Bergon che infatti, per maggiore sicurezza, aveva viaggiato travestito da servitore. Non appena informato dell’identità del Royse, il comandante, sempre più confuso, si scusò e inviò il suo luogotenente a prendere cibo e bevande per quegli importanti ospiti.

Con la testa che ancora gli girava, Cazaril si sedette al tavolo, adagiandosi su una sedia coperta di cuscini e trasse un sospiro di sollievo, pensando a come quella sedia fosse meravigliosamente diversa da una sella, così salda e ferma sul pavimento… Nel corso di quel viaggio, aveva sviluppato, nei confronti dei cavalli, un’avversione quasi pari a quella che nutriva per le imbarcazioni. Si sentiva esausto, con la testa ovattata e i muscoli che dolevano. Dopo un po’, a fatica, trovò la forza per intervenire nella conversazione. «Che notizie ci sono da Valenda?» domandò, con voce roca. «Avete in consegna qualche messaggio da parte della Royesse Iselle?»

Ferda gli mise in mano un bicchiere di vino annacquato, e lui ne trangugiò metà in un solo sorso.

«Il Cancelliere dy Jironal è arrivato in città la scorsa settimana con un altro migliaio dei suoi uomini», replicò il Devoto-comandante, scuotendo il capo. «E ne ha altri mille accampati lungo il fiume, incaricati di pattugliare le campagne alla vostra ricerca… I suoi uomini si sono fermati qui già due volte. Dy Jironal stringe Valenda in una morsa di ferro.»

«Il Provincar della Baocia ha uomini in città?»

«Sì, ne ha, ma pochi: soltanto due compagnie. Nessuno era disposto a scatenare un conflitto durante i funerali del Royse Teidez, e dopo non è più stato possibile farlo.»

«Avete notizie del March dy Palliar?»

«Di solito era lui che ci portava le lettere da inoltrare, ma da cinque giorni non abbiamo più notizie dirette della Royesse. Corre voce che sia molto malata, e che non riceva nessuno.»

Bergon sgranò gli occhi con espressione allarmata e Cazaril assunse un’aria perplessa. «Malata? Iselle? Ecco… è possibile, ma è più probabile che dy Jironal la tenga sotto chiave e che abbia fatto circolare la storia della malattia per coprire la cosa», rifletté. Possibile che una delle mie lettere sia finita nelle mani sbagliate? si chiese. Aveva sempre paventato l’eventualità di dover «rapire» la Royesse da Valenda o di doverla liberare con la forza delle armi, ma non aveva mai pensato a cosa fare se Iselle si fosse ammalata in quel momento critico, magari al punto di non essere in condizione di cavalcare. Mentre formulava quelle riflessioni, nel suo cervello ottenebrato apparve la folle immagine di Bergon che riusciva ad arrivare fino a Iselle, passando per tetti e balconi, come un amante di qualche poema… Ma se una notte d’amore avrebbe potuto spezzare la maledizione e reincanalarla in qualche modo verso gli Dei che l’avevano generata, non sarebbe però riuscita a far miracolosamente scomparire un paio di migliaia di soldati estremamente reali e concreti. «Orico è ancora vivo?» domandò.

«Per quel che ne sappiamo, sì.»

Si sentiva troppo stanco per elaborare un piano adeguato. «Per stanotte non possiamo fare altro», decise Cazaril. «Domani, Ferda, Foix e io entreremo a Valenda, a piedi e travestiti, per valutare la situazione… Vi garantisco che non mi è difficile passare per un vagabondo. Se poi non riusciremo a trovare il modo di tirare fuori Iselle da quella trappola, ripiegheremo su Taryoon e studieremo un nuovo piano col Provincar della Baocia.»

«Ma voi siete in grado di camminare, mio signore?» domandò Foix, incerto.

Cazaril, in effètti, non era neppure certo di riuscire ad alzarsi, e si limitò a scoccare un’occhiata afflitta a Foix, che era stanco ma forte, roseo di carnagione e non grigiastro per lo sfinimento di una giornata trascorsa in sella. Beata gioventù… «Domattina ci riuscirò», garantì, accarezzandosi il volto. «Gli uomini di dy Jironal sono consapevoli di non essere protettori ma carcerieri? Che le loro azioni potrebbero costituire un atto di tradimento nei confronti della futura Erede?»

«Attualmente, entrambe le fazioni si stanno scambiando accuse del genere. Corre voce che la Royesse Iselle abbia mandato qualcuno a Fora per negoziare il matrimonio col nuovo Erede di quella nazione», rispose il Devoto-comandante, rivolgendo un cenno di scusa al Royse Bergon.

La segretezza della loro missione si era quindi dissolta. Cazaril si trovò, quasi suo malgrado, a immaginare i possibili schieramenti a Chalion: sarebbe stato un bene se Iselle e Orico si fossero uniti contro dy Jironal… ma se Iselle si fosse opposta a Orico e a dy Jironal, allora lei avrebbe corso un grave pericolo.

«Queste notizie hanno generato le reazioni più diverse», proseguì il comandante. «Le dame guardano a Bergon con approvazione e tingono la cosa di un alone romantico, perché si dice che lui sia molto coraggioso e avvenente. Le menti più posate invece temono che Iselle venda Chalion alla Volpe, perché è… giovane e inesperta.»

Cioè stupida e irresponsabile, tradusse mentalmente Cazaril, con un sorriso amaro. Le nienti più posate hanno davvero ancora molto da imparare… «No», borbottò. «Non abbiamo fatto nulla di tutto ciò.» D’un tratto, si rese conto che stava parlando alle proprie ginocchia, perché, chissà come, teneva la fronte appoggiata al tavolo.

«Caz?» gli mormorò all’orecchio la voce di Bergon. «Sei sveglio?»

«Hmm.»

«Non sarebbe meglio che andaste a letto, mio signore?» suggerì il Devoto-comandante, dopo un’altra pausa.

«Hmm.»

Cazaril si lasciò sfuggire un lieve gemito quando mani forti gli s’insinuarono sotto le braccia e lo sollevarono. Ferda e Foix lo trascinarono da qualche parte… comportandosi in modo piuttosto crudele con lui perché il tavolo gli era sembrato un sostegno abbastanza comodo. Non si accorse neppure di quando lo distesero sul letto.

Qualcuno lo stava scuotendo per una spalla e una voce orribilmente allegra e stentorea gli risuonava all’orecchio.

«Alzati e cavalca, Capitan Sole!» tuonò l’intruso.

Con uno spasmo incontrollato, Cazaril si aggrappò alle coltri per sollevarsi a sedere, poi ci ripensò, limitandosi ad aprire gli occhi impastati e sbattendo le palpebre nella luce della candela. Infine riconobbe la voce che lo aveva svegliato. «Palli! Sei vivo!» riuscì a sussurrare, anche se quella frase era intesa come un grido di gioia. «Che ore sono?» domandò poi, lottando di nuovo per raddrizzarsi e riuscendo a puntellarsi su un gomito. A quanto pareva, si trovava nella camera di qualche Devoto-ufficiale, che era stato costretto a sloggiare per fargli posto.

«Manca circa un’ora all’alba. Abbiamo cavalcato tutta la notte, perché Iselle mi ha incaricato di rintracciarti», spiegò Palli, sollevando la coppia di candele, la cui luce rivelò così anche Bergon e Foix, fermi alle sue spalle con un’espressione ansiosa sul viso. «Per i demoni del Bastardo, Caz!» esclamò. «Sembri un cadavere resuscitato!»

«Sì, me lo hanno fatto notare…» annaspò Cazaril, riadagiandosi all’indietro. Palli era lì, era arrivato, e tutto andava bene. Avrebbe potuto affidare a lui Bergon e ogni altro suo fardello e restarsene lì, sdraiato, per morire in pace, portando Dondo con sé. «Accompagna il Royse Bergon e la sua scorta da Iselle», sussurrò. «Lasciami…»

«Come? Dovrei lasciarti dove le pattuglie di dy Jironal ti possono trovare? Mai. Ciò metterebbe a rischio la mia vita futura da cortigiano! Iselle ti vuole sano e salvo al suo fianco, a Taryoon.»

«A Taryoon? Non a Valenda?» domandò Cazaril, interdetto. «Al sicuro?» E riuscì a sollevarsi, prima di svenire.

Quando la nebbia nera che lo aveva avvolto infine si dissipò, la prima cosa che vide fu Bergon che, con occhi sgranati per la preoccupazione, sosteneva la sua forma accasciata sul bordo del letto.

«Resta seduto per un momento, tenendo bassa la testa», gli consigliò Palli.

Obbediente, Cazaril si ripiegò in avanti sul ventre dolorante. Se era venuto a trovarlo, la notte precedente, Dondo non lo aveva trovato in casa, ma, a giudicare dai dolori, doveva comunque avergli assestato qualche calcio nel sonno.

«La notte scorsa, quando siamo arrivati, non ha mangiato nulla, perché è crollato subito e abbiamo dovuto metterlo a letto», spiegò Bergon, a bassa voce.

«Ho capito», annuì Palli, facendo un cenno a Foix, che assentì e sgusciò fuori della stanza.

«A Taryoon?» borbottò Cazaril, con la testa vicina alle ginocchia.

«Sì. È riuscita a prendersi gioco di tutti i duemila soldati di dy Jironal. Per prima cosa, suo zio dy Baocia è tornato a casa coi suoi uomini, e quegli stolti lo hanno lasciato andare, convinti che si sarebbe trattato di un pericolo in meno. Poi Iselle è uscita a cavallo per cinque giorni di fila, sempre scortata da un contingente delle truppe di dy Jironal, e li ha fatti correre a perdifiato, convincendo tutti che sarebbe fuggita durante una di quelle cavalcate. Di conseguenza, un giorno, quando lei e Lady Betriz sono uscite a passeggio a piedi, insieme con l’anziana Lady dy Hueltar, le guardie le hanno lasciate passare. Io ero in attesa con due cavalli sellati e due donne. Queste ultime hanno indossato i mantelli delle dame e sono tornate indietro con Lady dy Hueltar; effettuato lo scambio, abbiamo disceso quel burrone alla velocità del lampo… Nel frattempo, la vecchia Provincara si è assunta il compito di nascondere il più a lungo possibile la fuga di Iselle, facendo credere che fosse ammalata e che si trovasse nelle camere della madre. Ormai l’inganno sarà stato scoperto, ma sono pronto a scommettere che Iselle è arrivata sana e salva a Taryoon, da suo zio, prima che a Valenda si accorgessero della sua scomparsa. Per i cinque Dei, quelle ragazze sanno davvero cavalcare! Abbiamo percorso più di cinquanta miglia tra il crepuscolo e l’alba sotto una luna piena a metà, passando per le campagne, e con un solo cambio di cavalli.»

«Ragazze, hai detto?» chiese Cazaril. «Allora anche Lady Betriz è al sicuro?»

«Oh, sì. Tutte e due erano più allegre di due canarini, quando le lo lasciate. Mi hanno fatto sentire un vecchio.»

Scoccando un’occhiata in tralice all’amico, che era di cinque anni più giovane di lui, Cazaril scelse d’ignorare quel commento. «E Ser dy Ferrej? La Provincara? Lady Ista?» volle sapere.

«Si trovano ancora a Valenda, prigionieri», rispose Palli, tornando serio in volto. «Sono stati tutti concordi nell’insistere perché le ragazze tentassero la fuga da sole.»

«Ah.»

Foix rientrò nella stanza, reggendo un vassoio su cui era posata una ciotola di porridge di fagioli, caldo e aromatico. Bergon provvide ad assestare i cuscini e ad aiutare Cazaril a sedersi per mangiare, ma, pur avendo l’impressione di essere affamato, dopo qualche boccone fu costretto a spingere via la ciotola. Dal momento che Palli era impaziente di mettersi in viaggio col favore del buio, si sforzò di assecondarlo e permise a Foix di dargli una mano per vestirsi, anche se paventava l’idea di salire di nuovo a cavallo.

Una volta in cortile, scoprì poi che la loro scorta, costituita da una dozzina di uomini dell’Ordine della Figlia, che avevano seguito Palli da Taryoon, aveva al suo seguito una lettiga appesa tra due cavalli. In un primo tempo, rifiutò con indignazione di servirsene, ma alla fine si lasciò persuadere da Bergon e si adagiò su di essa, mentre la processione s’incamminava nel grigiore dell’alba. Le sconnesse strade secondarie e le piste di campagna scelte dalla colonna risultarono però così sconnesse che la lettiga non faceva altro che sussultare e oscillare. Dopo circa mezz’ora di quella tortura, Cazaril fu costretto a scendere e a salire a cavallo. Per fortuna, in previsione di una simile eventualità, qualcuno aveva avuto la lungimiranza di portare una cavalcatura di scorta dal passo fluido e tranquillo, così lui poté aggrapparsi al pomo della sella e lasciarsi trasportare, sopportando un po’ meglio gli scossoni, mentre il gruppo descriveva un ampio giro intorno a Valenda e alle pattuglie che la occupavano.

Nel pomeriggio, disceso un lungo pendio alberato, la colonna sbucò su una strada più ampia, e Palli si affiancò a Cazaril, adocchiandolo con aria incuriosita e un po’ perplessa. «Ho sentito dire che adesso fai miracoli coi muli», osservò.

«Non io, la Dea», precisò lui, con un sorriso tirato. «A quanto pare, ci sa fare coi muli.»

«Ho saputo anche che hai dimostrato una durezza insolita coi briganti.»

«Eravamo un gruppo forte e bene armato. Se non fossero stati assoldati da dy Joal per attaccarci, quei briganti ci avrebbero di certo girato al largo.»

«Dy Joal era una delle spade migliori al servizio di dy Jironal, eppure Foix sostiene che lo hai abbattuto in pochi secondi.»

«Ucciderlo è stato un errore… e comunque lui è scivolato.»

«Sai, non è necessario che la cosa si sappia», commentò Palli, con un accenno di sorriso, poi rimase in silenzio per qualche istante, fissando le orecchie sussultanti del cavallo, prima di aggiungere: «Il ragazzo che hai difeso su quella galea roknari era Bergon in persona, eh?»

«Già, rapito dai bravacci di suo fratello. Adesso so perché la flotta ibrana ha remato con tanto vigore per raggiungerci.»

«Non hai mai immaginato la sua identità? Allora o in seguito, intendo?»

«No. A quel tempo, lui… ha dimostrato di avere un notevole sangue freddo, ben più di quanto immaginassi. Come Roya, quel ragazzo non farà fatica a conquistarsi molti seguaci.»

Palli lanciò un’occhiata a Bergon, che cavalcava più avanti, accanto a dy Sould, e si toccò i cinque punti sacri con fare pieno di meraviglia. «Gli Dei sono dalla nostra parte, dunque», commentò. «Come possiamo fallire?»

«Invece il pericolo c’è», sospirò Cazaril, pensando a Ista, a Umegat, allo stalliere muto, alla situazione letale in cui lui stesso si trovava. «E con noi, falliranno anche gli Dei», aggiunse, una cosa di cui non si era mai reso conto prima, almeno non in quei termini. Se non altro, Iselle era al sicuro sotto la protezione di suo zio. In qualità di Erede, avrebbe raccolto intorno a sé molti uomini ambiziosi e avrebbe avuto accanto molte persone, non ultimo lo stesso Bergon, in grado di proteggerla dai nemici. D’altro canto non le sarebbe stato facile trovare consiglieri abbastanza saggi da proteggerla dai supposti amici… Che misure avrebbe potuto prendere lui per proteggere anche Betriz dai rischi che minacciavano il suo futuro? «Hai avuto modo di conoscere meglio Lady Betriz, quando hai accompagnato il corteo funebre a Valenda, e nei giorni successivi?» domandò a Palli.

«Oh, sì.»

«È una splendida ragazza, non credi? Hai conversato con suo padre, Ser dy Ferrej?»

«Sì, un uomo davvero eccellente.»

«Lo penso anch’io.»

«Lady Betriz è molto preoccupata per lui», aggiunse Palli.

«Posso immaginarlo. E dy Ferrej sarà preoccupato per lei, adesso e in futuro. Se tutto andrà per il meglio, Betriz diventerà una favorita della futura Royina e, per un uomo astuto, quel genere d’influenza politica varrà molto di più di una semplice dote in denaro… posto che lui sia abbastanza sveglio da capirlo.»

«Non ci sono dubbi, al riguardo.»

«Betriz è intelligente, piena di energie…»

«E cavalca bene», aggiunse Palli, con aria stranamente distaccata.

«In tal caso, non potresti prenderla in considerazione come futura Marchess dy Palliar?» proseguì Cazaril, cercando di mantenere un tono disinvolto.

«Temo che la mia corte sarebbe vana», replicò Palli, con un accenno di sorriso. «Credo infatti che lei s’interessi a un altro uomo, almeno a giudicare dalle domande che mi ha fatto sul suo conto.»

«Ah? Chi è?» chiese Cazaril, nel vano sforzo di convincersi che l’attenzione di Betriz si fosse appuntata, per esempio, su dy Rinal o su uno degli altri cortigiani di Cardegoss. Sapeva benissimo che si trattava di uomini insignificanti. Tra quei giovani cortigiani, ben pochi disponevano di un patrimonio o di una minima influenza, e nessuno era abbastanza intelligente da costituire un buon partito. Anzi, adesso che ci rifletteva, nessuno era neppure lontanamente alla sua altezza.

«Non posso dirtelo, perché si è trattato di una confidenza, però ritengo che dovresti parlarne con lei, quando arriveremo a Taryoon», sorrise Palli, poi spronò il cavallo per portarsi in testa alla colonna.

Cazaril rifletté sui sottintesi che aveva colto nel sorriso dell’amico e rammentò il cappello di pelo bianco ancora riposto nelle sue sacche da sella. Ormai non nutriva più molti dubbi sul fatto che la donna da lui amata lo ricambiasse… ma purtroppo rimaneva tra loro un impedimento tale da trasformare quella gioiosa sensazione in dolore. Era troppo tardi… lui avrebbe potuto ricambiare la fedeltà di Betriz soltanto col lutto. La sua bara sarebbe stata un giaciglio troppo duro e stretto per poter essere scambiato per un letto nuziale.

Eppure quella consapevolezza gli parve un’inattesa scintilla di speranza: era come trovare un superstite su una nave naufragata o scoprire che, in un campo bruciato, era comunque rimasto vivo un piccolo fiore. D’altro canto, Betriz doveva superare quell’infatuazione nei suoi confronti, e lui avrebbe agito in modo da scoraggiarla. Sulla scia di quelle riflessioni, Cazaril si chiese poi se sarebbe riuscito a farle accettare Palli come marito, presentandola come l’ultima richiesta di un morente.

Si trovavano a circa venti miglia da Taryoon quando incontrarono un grosso contingente di guardie baociane, che disponevano di una lettiga a mano. Ormai troppo sfinito per provare qualcosa di diverso dalla gratitudine, Cazaril si lasciò caricare su di essa senza protestare e riuscì perfino a dormire per un paio d’ore, viaggiando avvolto in un piumino d’oca, con la testa dolorante sorretta da alcuni cuscini. Quando infine si svegliò, rimase comunque sdraiato, osservando il cupo paesaggio invernale scorrergli intorno come in un sogno. Dunque, quello era ciò che si provava nel morire. Adesso che era disteso, la cosa non gli appariva poi tanto sgradevole.

Oh, Dei, lasciatemi vivere abbastanza a lungo da vedere Iselle liberata dalla maledizione, pregò. Sarebbe stata una delle poche cose utili a convincerlo di aver fatto abbastanza, nella propria vita. No, non chiedeva più nulla per sé, se non che gli venisse concesso di finire ciò che aveva avviato, di vedere Iselle sposata e Betriz al sicuro. Se solo gli Dei gli avessero concesso quei due doni, allora avrebbe potuto spegnersi con serenità, appagato.

La colonna oltrepassò le porte della capitale provinciale baociana, Taryoon, un’ora dopo il tramonto. I cittadini incuriositi si raccolsero ai lati delle strade, procedettero accanto ai cavalieri, recando torce per rischiarare la via, oppure si accalcarono sui balconi per assistere al loro passaggio. In tre occasioni, alcune donne gettarono loro dei fiori, che i compagni ibrani di Bergon furono pronti a prendere al volo, dopo un iniziale sussulto d’incertezza, rispondendo poi a quegli omaggi con entusiastici e speranzosi baci, e lasciandosi così alle spalle una scia di mormorii interessati. Giunti in prossimità del centro cittadino, Bergon e i suoi amici, scortati da Palli, vennero indirizzati al palazzo del ricco March dy Huesta, uno dei principali sostenitori del Provincar nonché suo cognato. Le guardie baociane trasportarono invece a passo svelto la lettiga di Cazaril al nuovo palazzo del Provincar, dall’altra parte della strada rispetto alla vecchia, angusta e incombente fortezza.

Tenendo strette le preziose sacche da sella, nelle quali era racchiuso il futuro di due nazioni, Cazaril venne accompagnato dal siniscalco di dy Baocia in una camera da letto ben riscaldata da un fuoco vivace. Il chiarore intenso di numerose candele rivelò due servitori in attesa vicino a una tinozza da bagno, una grande quantità di acqua calda, sapone, forbici, profumi e asciugamani; un terzo servitore sopraggiunse di lì a poco con un vassoio di formaggio bianco dolce, pasticcini alla frutta e un’abbondante teiera di tisana alle erbe. Sul letto era stesa una tenuta da lutto, adatta alla corte e completa di tutto, dalla biancheria pulita alle vesti di broccato e velluto e a una cintura di argento e ametiste. A quanto pareva, qualcuno non voleva correre rischi su come lui si sarebbe abbigliato. La trasformazione da relitto umano, sfinito dal viaggio, ad azzimato cortigiano non richiese più di una ventina di minuti.

Una volta pronto, Cazaril estrasse dalle sporche sacche da sella il pacchetto contenente i documenti, protetti da una tela cerata; dopo aver controllato che non ci fossero macchie di terra o di sangue, eliminò la tela, davvero sudicia, e si sistemò i documenti sotto un braccio. Il siniscalco lo guidò prima attraverso un cortile dove, alla luce delle torce, alcuni operai erano al lavoro per deporre le ultime lastre della pavimentazione in pietra, e poi all’interno di un edificio. Attraversarono una serie di stanze fino ad arrivare a una camera spaziosa, pavimentata in piastrelle e decorata con tappeti e arazzi; candelabri alti quanto un uomo e di elegante fattura reggevano ciascuno cinque candele, il cui intenso chiarore si riversava su Iselle, seduta su un ampio seggio intagliato addossato alla parete opposta, con accanto Betriz e il Provincar, a loro volta abbigliati a lutto.

Al suo ingresso, tutti e tre sollevarono lo sguardo, le due donne con aria impaziente e speranzosa, l’attempato dy Baocia con un’espressione più cauta. Pur avendo in comune con Ista i capelli castani, ormai brizzolati, lo zio di Iselle somigliava assai poco alla sorella minore, giacché aveva una corporatura massiccia, pur non essendo particolarmente alto. Accanto a dy Baocia c’erano poi un uomo robusto — con ogni probabilità il suo segretario, pensò Cazaril — e un individuo attempato. Dalle vesti a cinque colori, Cazaril comprese subito che si trattava dell’Arcidivino del Tempio di Taryoon e lo scrutò con aria speranzosa, alla ricerca di un bagliore di luce divina, ma comprese all’istante che si trattava di un semplice Devoto. La sua seconda vista, tuttavia, gli rivelò che la nube nera incombeva ancora intorno a Iselle, ribollente di un moto lento e cupo. Per grazia della Signora, non avrebbe continuato ancora per molto, pensò.

«Benvenuto a casa, Castillar», disse Iselle, con un tono di voce pervaso di calore che fu per lui come una carezza sulla fronte. Ma il fatto che avesse usato il suo titolo gli suonò subito come un velato avvertimento.

«I cinque Dei mi sono testimoni, Royesse: è andato tutto per il meglio», replicò Cazaril, segnandosi.

«Avete i trattati?» domandò dy Baocia, appuntando lo sguardo sul pacchetto che Cazaril teneva sotto il braccio e protendendo una mano con fare ansioso. «Al riguardo, c’è stata molta preoccupazione all’interno dei nostri consigli.»

Accennando un sorriso, Cazaril aggirò il Provincar e s’inginocchiò ai piedi di Iselle, riuscendo a eseguire quella faticosa manovra con aggraziata disinvoltura e senza grugnire di dolore o accasciandosi. Accostò alle labbra le mani che lei gli porgeva, poi, quando Iselle le girò col palmo verso l’alto, vi depose i documenti. «È tutto come voi avete ordinato», confermò.

«Vi ringrazio, Cazaril», replicò Iselle, con un bagliore di apprezzamento nello sguardo. Quindi lanciò un’occhiata al segretario dello zio, e aggiunse: «Per favore, portate una sedia per il mio ambasciatore. Ha cavalcato a lungo e duramente, senza riposare». Poi cominciò ad aprire l’involucro di seta.

Quando il segretario gli portò la sedia, completa di un cuscino imbottito di lana, Cazaril gli rivolse un distratto sorriso di ringraziamento, preoccupato all’idea di non riuscire a rialzarsi con grazia. Con suo estremo imbarazzo, Betriz si andò a inginocchiare accanto a lui, imitata dall’Arcidivino e i due lo misero in piedi, adagiandolo infine sulla sedia. Gli occhi scuri di Betriz lo scrutarono con estrema attenzione, indugiando fugacemente sul suo ventre ingrossato dal tumore. Ma non era il caso di parlare e lei si limitò a rivolgergli un sorriso d’incoraggiamento.

Dopo essersi assicurata che Cazaril si fosse seduto, Iselle prese a leggere il contratto di matrimonio. Il Castillar si limitò a osservare Iselle che, dopo aver finito di leggere una pagina, passava il foglio di pergamena allo zio, il quale aveva a stento il tempo di scorrerlo prima che gli venisse praticamente strappato di mano dall’Arcidivino. Ultimo della fila di lettori, il segretario non si dimostrò meno attento nell’esaminare il contratto, raccogliendo con scrupolo le pagine e mettendole nel giusto ordine a mano a mano che esse giungevano a lui.

Serrando le mani, dy Baocia attese che l’Arcidivino scorresse in fretta l’ultimo foglio, porgendolo poi in silenzio al segretario.

«Allora?» domandò infine il Provincar.

«Non ha venduto Chalion!» esclamò l’Arcidivino, segnandosi e allargando entrambe le mani in un gesto di rendimento di grazie agli Dei. «Ha comprato Ibra! Le mie congratulazioni, Royesse, al vostro ambasciatore… e a voi.»

«A tutti noi», commentò dy Baocia che, come l’Arcidivino e il segretario, appariva ora molto più sereno.

«Confido che non vi esprimerete in questi termini col Royse Bergon», interloquì Cazaril, schiarendosi la gola. «Dopotutto, quei trattati sono potenzialmente vantaggiosi per entrambe le parti», puntualizzò, poi, guardando dy Baocia e il suo segretario, aggiunse: «D’altro canto, forse i timori della gente si placherebbero se il testo del contratto venisse copiato, con calligrafia ampia e chiara, ed esposto accanto al portone del vostro palazzo, così che tutti lo possano leggere».

Dy Baocia accolse quella proposta con aria incerta, ma l’Arcidivino fu pronto ad annuire. «Un suggerimento molto saggio, Castillar», approvò.

«La cosa mi farebbe molto piacere», mormorò Iselle. «Zio, ti prego di provvedere.»

In quel momento, un paggio affannato fece irruzione nella sala, fermandosi davanti a dy Baocia. «La vostra signora avverte che il gruppo del Royse Bergon si sta avvicinando e che dovete raggiungerla immediatamente per accoglierlo», riferì.

«Arrivo subito», replicò il Provincar, poi trasse un profondo respiro e sorrise alla nipote. «Adesso ti porteremo il tuo promesso sposo. Ricorda che dovrai esigere tutti i baci di sottomissione — sulla fronte, sulle mani e sui piedi -, perché si deve capire che è Chalion a dominare Ibra. Proteggi l’orgoglio e l’onore della tua Casa. Non dobbiamo permettergli di porsi al di sopra di te, altrimenti ben presto finirà per dominarti. Devi cominciare come hai intenzione di proseguire.»

Iselle socchiuse gli occhi, pensosa, e intorno a lei l’ombra si fece più scura, dando l’impressione di accentuare la propria morsa.

Raddrizzandosi di scatto, Cazaril le scoccò un’occhiata piena di allarme, accompagnata da un cenno di diniego appena percettibile. «Anche il Royse Bergon ha il suo orgoglio, non meno onorevole del vostro, Royesse», le ricordò. «Inoltre si troverà in presenza di alcuni dei suoi nobili…»

Iselle esitò ancora per un istante, poi le sue labbra assunsero un’espressione decisa. «Comincerò come ho intenzione di continuare», dichiarò, con voce che sembrava d’acciaio. «La sostanza della nostra parità è contenuta in questo documento, zio, e il mio orgoglio non esige altre manifestazioni. Ci scambieremo i baci di benvenuto, reciprocamente, solo sulle mani.»

La nube oscura attenuò leggermente la sua morsa, e Cazaril avvertì uno strano brivido, come se l’ombra di un predatore fosse volata sopra di lui e poi si fosse allontanata, insoddisfatta. «Una discrezione ammirevole», fu pronto a sottolineare, con estremo sollievo.

Quasi saltellando per l’impazienza, il paggio aprì la porta per il Provincar, che uscì in tutta fretta.

«Lord Cazaril, com’è andato il vostro viaggio?» domandò subito Betriz, approfittando di quella pausa. «Avete un’aria così… stanca.»

«È stata una lunga, spossante galoppata, però tutto è andato abbastanza bene», replicò Cazaril, con un sorriso.

«Credo che dovremo convocare Ferda e Foix, perché ci dicano qualcosa di più», commentò Betriz, aggrottando le sopracciglia scure. «Senza dubbio, il viaggio non può essere stato monotono come voi lo descrivete.»

«Ecco… Abbiamo avuto qualche problema con alcuni briganti, sulle montagne… Opera di dy Jironal, ne sono certo, e Bergon se l’è cavata molto bene. Quanto alla Volpe, le cose sono andate meglio di come mi aspettassi, per un motivo che non avrei mai potuto prevedere.» Si protese in avanti sulla sedia e, abbassando la voce, proseguì: «Ricordate quel mio compagno di remo, sulle galee? Ve ne ho parlato… Danni, quel ragazzo di buona famiglia…»

«È una cosa difficile da dimenticare», commentò Iselle, mentre Betriz annuiva.

«Ebbene, non avevo capito quanto fosse nobile la sua nascita. Danni è il nome che Bergon ha assunto per occultare la propria identità ai suoi catturatori. Il suo rapimento è stato un complotto ordito dal defunto Erede di Ibra. Quando sono arrivato alla corte ibrana, Bergon mi ha riconosciuto… Mentre lui era così maturato e cresciuto da essere quasi irriconoscibile.»

Per un momento, Iselle non riuscì a parlare per lo stupore e socchiuse le labbra. «Di certo è stata la Dea a inviarvi da me», sussurrò poi.

«Sì», convenne Cazaril, sia pure con riluttanza. «È la conclusione cui sono giunto io stesso.»

«Come farò a riconoscerlo?» domandò Iselle, lanciando un’occhiata alle porte e torcendosi le mani in grembo. «È… avvenente?»

«Non so in base a quali criteri le dame giudicano queste cose…» cominciò Cazaril.

In quell’istante, le porte si spalancarono e una piccola folla si riversò nella sala: paggi, cortigiani, dy Baocia e sua moglie, Bergon, dy Sould e dy Tagille, con Palli dietro tutti. Anche gli ibrani avevano fatto un bagno e sfoggiavano gli abiti migliori che erano riusciti a portarsi appresso… completati, Cazaril ne era certo, da alcuni elementi presi a prestito. Sorridente, ma con una certa ansia, Bergon spostò lo sguardo da Betriz a Iselle, appuntandolo infine su quest’ultima. La Royesse, invece, scrutò i volti dei nuovi arrivati, indugiando sui tre ibrani con un po’ d’inquietudine.

Sfruttando la propria alta statura, Palli si fermò alle spalle di Bergon e lo indicò, sillabando in silenzio: «È questo». Immediatamente, gli occhi azzurri di Iselle si rasserenarono e il suo volto pallido si soffuse di un colore rosato. «Mio signore Bergon dy Ibra… benvenuto a Chalion», disse, con un lieve tremito nella voce, protendendo le mani.

«Mia signora Iselle dy Chalion, dy Ibra vi ringrazia», rispose Bergon, con voce altrettanto ansiosa, avanzando verso di lei. Poi piegò a terra un ginocchio, baciandole le mani, e Iselle chinò il capo per baciare le sue.

Rialzatosi, Bergon presentò a Iselle i suoi compagni, che s’inchinarono adeguatamente. Con un leggero stridere di legno sulle piastrelle, il Provincar e l’Arcidivino provvidero a portare una sedia per Bergon, sistemandola accanto a quella di Iselle, dalla parte opposta rispetto a Cazaril. Prendendo il sacchetto di cuoio che dy Tagille gli porgeva, Bergon ne estrasse il proprio regale dono di fidanzamento. Si trattava di una splendida collana di smeraldi, uno dei pochi gioielli appartenuti alla madre che la Volpe non avesse impegnato per finanziare le proprie truppe; quanto ai cavalli bianchi, purtroppo erano ancora in viaggio, da qualche parte. Bergon voleva portarle in dono una collana di perle bianche ibrane, ma, dietro consiglio di Cazaril, aveva invece scelto gli smeraldi.

Dy Baocia pronunciò un discorso di benvenuto, che sarebbe stato molto più lungo se la zia di Iselle, cogliendo lo sguardo della nipote, non avesse approfittato di una delle pause del marito per invitare tutti i presenti nella stanza accanto, dov’era stato preparato un rinfresco. I due giovani vennero così lasciati liberi di parlare in privato, la testa dell’uno accanto a quella dell’altra, le voci troppo basse per poter essere sentite dai curiosi che indugiavano vicino alle porte aperte e facevano spesso capolino nella stanza, per vedere come procedevano le cose. Cazaril era uno di essi: dalla sua sedia, continuava ad allungare ansiosamente il collo, sbocconcellando nel frattempo qualche pasticcino e mordicchiandosi le nocche per la tensione. Talvolta le voci dei due giovani salivano di tono, per ritornare però subito ad abbassarsi; in risposta a un gesto di Bergon, Iselle scoppiò poi a ridere e per tre volte trattenne il respiro, portandosi le mani alle labbra e sgranando gli occhi. Quando Iselle si protese in avanti e abbassò ulteriormente la voce, parlando con fare estremamente serio, Bergon l’ascoltò con la massima attenzione, senza mai distogliere lo sguardo dal suo volto, tranne in due occasioni in cui scoccò un’occhiata a Cazaril, cosa che indusse sia il giovane sia Iselle a parlare in tono ancora più sommesso.

Lady Betriz raggiunse Cazaril e gli porse un bicchiere di vino annacquato, rispondendo con un cenno del capo alle sue parole di ringraziamento. Lui non aveva infatti avuto dubbi su chi avesse pensato a fargli trovare pronti al suo arrivo il bagno caldo, i servitori a disposizione, il cibo e gli abiti di ricambio. Nella luce delle candele, la carnagione della dama aveva un fresco colore dorato, e appariva liscia e giovane, ma l’abbigliamento da lutto e i capelli raccolti sulla nuca le conferivano un’aria di matura eleganza, indicando come la sua ardente energia fosse ormai prossima a trasformarsi in potere e saggezza…

«Quale situazione vi siete lasciate alle spalle a Valenda?» domandò Cazaril.

«Tesa», rispose Betriz, mentre il suo sorriso si appannava. «Speriamo però che l’ansia diminuisca, adesso che Iselle non è più là. Di certo, dy Jironal non oserà far ricorso alla violenza con la vedova e la suocera del Roya Ias.»

«Hmm… non subito, certo. Tuttavia, non appena la disperazione prenderà il sopravvento, tutto sarà possibile.»

«Sono d’accordo… Perlomeno, se si arriva a quel punto, la gente smette di discutere su cosa sia o non sia possibile…»

«Come avete fatto a fuggire?» chiese Cazaril, ripensando alla folle cavalcata notturna delle due donne, che aveva così bruscamente modificato i suoi piani.

«Ecco, sembra che dy Jironal fosse convinto che il suo spiegamento di forze ci avrebbe spaventati al punto d’indurci a rimanere trincerati nel castello… Vi lascio immaginare come abbia preso la cosa la Provincara. Le spie da lui intrufolate nel seguito di Iselle sorvegliavano di continuo lei, ma non me, quindi, con Nan, siamo scese spesso in città con la scusa di piccole commissioni legate all’andamento domestico del castello. In realtà, ci guardavamo intorno, notando così che le difese degli uomini del Cancelliere erano tutte rivolte all’esterno, pronte a respingere eventuali soccorritori. Inoltre, nessuno poteva impedirci di recarci al Tempio, dove Lord dy Palliar si era stabilito, a pregare per la salute di Orico. Per qualche tempo, siamo diventati tutti molto devoti», sorrise, ma ritornò subito seria. «Poi la Provincara è venuta a sapere, non so da quale fonte, che il Cancelliere aveva inviato il suo figlio minore e un contingente di cavalleria a prelevare Iselle per riportarla in tutta fretta a Cardegoss, in quanto Orico era in agonia. Poteva anche essere vero… tuttavia era una ragione in più perché Iselle evitasse di finire nelle mani di dy Jironal. A quel punto, la fuga è diventata una necessità, e abbiamo messo in atto il nostro piano.»

Palli si era avvicinato per ascoltare, seguito di lì a poco anche da dy Baocia.

«La vostra signora madre mi ha scritto, promettendomi il supporto degli altri Provincar», gli disse Cazaril. «Avete ricevuto altre rassicurazioni al riguardo?»

Dy Baocia gli fornì un elenco di nomi di uomini cui aveva scritto, o da cui aveva avuto notizie. Era meno lungo di quanto Cazaril avrebbe gradito. «Queste sono parole», commentò infine. «Su quante truppe possiamo contare?»

«Due dei miei vicini hanno promesso a Iselle un sostegno più concreto, in caso di bisogno, perché di sicuro non apprezzano il fatto che le truppe personali del Cancelliere stiano occupando una delle mie città. Quanto al terzo… Ecco, ha sposato una delle figlie di dy Jironal, e per il momento si tiene in disparte.»

«È comprensibile. Qualcuno sa dove si trovi dy Jironal?»

«Pensiamo che sia a Cardegoss», rispose Palli. «L’Ordine militare della Figlia è tuttora privo del suo Santo Generale, e dy Jironal ha avuto paura di star lontano troppo a lungo dal capezzale di Orico, perché, in sua assenza, dy Yarrin avrebbe potuto convincere il Roya a passare dalla sua parte. La vita di Orico, stando ai rapporti che dy Yarrin mi ha fatto pervenire in segreto, è appesa a un filo, ma, per quanto malato, dubito che abbia perso anche l’uso delle facoltà mentali. Credo invece che si stia servendo del proprio male per rimandare la decisione, cercando di non offendere nessuno.»

«È nel suo carattere», borbottò Cazaril, tormentandosi la barba, poi scrutò dy Baocia e chiese: «A proposito di soldati del Tempio, a quanto ammonta il contingente dell’Ordine del Fratello di stanza a Taryoon?»

«A un’unica compagnia: duecento uomini», rispose il Provincar. «Noi non abbiamo guarnigioni numerose come quelle della Guarida e delle altre province che confinano coi principati roknari.»

Ci sono quindi duecento uomini potenzialmente ostili all’interno delle mura cittadine, rifletté Cazaril.

«Stanotte stessa, l’Arcidivino parlerà col loro comandante», lo rassicurò dy Baocia, interpretando la sua espressione. «Credo che il trattato di matrimonio contribuirà a persuaderli del fatto che la nuova Erede è devota al futuro di Chalion.»

«Hanno comunque pronunciato un giuramento di obbedienza», osservò Palli. «Sarebbe meglio non spingerli al punto di rottura.»

«La notizia della fuga di Iselle da Valenda ormai dev’essere arrivata a Cardegoss», mormorò Cazaril. «E la notizia dell’arrivo di Bergon vi giungerà quanto prima. A quel punto, dy Jironal si vedrà scivolare tra le dita quella reggenza cui teneva tanto.»

«E allora sarà tutto finito», sorrise dy Baocia, con entusiasmo. «Gli eventi si stanno muovendo molto più in fretta di quanto si sarebbe potuto prevedere», aggiunse, scoccando a Cazaril un’occhiata quasi reverenziale.

«Meglio così», sospirò il Castillar. «Non bisogna pungolare dy Jironal al punto d’indurlo a compiere mosse che non gli permettano di tornare sui suoi passi.» Se due fazioni, entrambe soggette alla maledizione, si fossero scontrate in una guerra civile, era infatti probabile che ne sarebbero uscite entrambe sconfitte. Se Chalion fosse crollata su se stessa in maniera così devastante, quello sarebbe stato certo il culmine del dono di morte del Generale Dorato. No, vincere, in quel caso, significava proseguire la lotta con la massima astuzia, in modo da evitare spargimenti di sangue. Una volta che Bergon avesse liberato Iselle dalla maledizione, con ogni probabilità essa si sarebbe accentrata sul povero Orico, lasciando dy Jironal a condividere il fato dell’uomo che era, quantomeno di nome, il suo signore… Ma che ne sarà di Ista? «La verità, per brutale che sia, è che molto dipende da quando morirà il Roya. L’agonia di Orico potrebbe durare a lungo», riprese. Senza dubbio, la maledizione avrebbe spinto Orico verso la sorte più orribile… Ma quali e quante erano le forme in cui quel fato poteva concretizzarsi? A quanto pareva, il serraglio di Umegat aveva tenuto a bada mali molto più gravi del semplice deterioramento della salute di Orico. «Per essere previdenti, dobbiamo riflettere su quali panacee offrire a dy Jironal per placare il suo orgoglio ferito… sia prima dell’ascesa al trono di Iselle sia dopo.»

«Non credo che si accontenterà di semplici panacee, Caz», obiettò Palli. «È stato Roya di Chalion di fatto, se non di nome, per oltre un decennio.»

«In tal caso, è possibile che cominci a sentirsi stanco», sospirò Cazaril. «Alcune cariche assegnate ai figli potrebbero essere sufficienti ad ammorbidire le sue posizioni; dopotutto, l’amore per la famiglia costituisce la sua debolezza…» Già, la maledizione deforma le virtù, trasformandole nel vizio corrispondente… «Bisognerà esautorarlo dal potere, però, nel contempo, favorire la sua famiglia, in modo da frenarlo lentamente, con delicatezza», concluse, lanciando un’occhiata a Betriz, che stava ascoltando con la massima attenzione e che, senza dubbio, avrebbe poi riferito ogni cosa a Iselle.

Nell’altra camera, Iselle e Bergon si alzarono. Lei appoggiò la mano sul braccio che lui le offriva ed entrambi si scambiarono timide occhiate furtive, inducendo Cazaril a pensare che non aveva mai visto due persone più soddisfatte l’una dell’altra. Entrando nella sala al fianco del fidanzato, Iselle lasciò vagare lo sguardo sui presenti con un’espressione di trionfo, mostrandosi quanto mai compiaciuta di se stessa; quanto a Bergon, appariva a sua volta orgoglioso, ma anche un po’ più stordito, cosa che comunque non gli impedì di rivolgere a Cazaril un deciso, rassicurante cenno del capo, mentre questi si affrettava ad alzarsi.

«L’Erede di Chalion…» esordì Iselle, poi s’interruppe.

«… e l’Erede di Ibra…» disse Bergon.

«… sono lieti di annunciare che pronunceranno il loro giuramento nuziale davanti agli Dei, ai nostri nobili ospiti ibrani e alla popolazione cittadina…» continuò Iselle.

«… nel Tempio di Taryoon, dopodomani a mezzogiorno», concluse Bergon.

La piccola folla esplose in applausi e congratulazioni, calcolando nel frattempo, proprio come stava facendo Cazaril, la velocità con cui una colonna di truppe nemiche avrebbe potuto viaggiare, e giungendo alla conclusione che mai avrebbe potuto farlo così in fretta. Uniti, rafforzatisi a vicenda, i due giovani sovrani avrebbero potuto, in caso di necessità, muoversi in perfetta armonia. Inoltre, una volta che Iselle fosse stata liberata dalla maledizione, il tempo avrebbe giocato a loro vantaggio, perché ogni giorno trascorso avrebbe portato nuovo sostegno alla loro causa. Sopraffatto da un estremo senso di sollievo, Cazaril si accasciò di nuovo sulla sedia, sorridendo nonostante il dolore lancinante dei crampi che gli contraevano il ventre.

25

Il giorno successivo, mentre l’intero palazzo era in fermento per le nozze imminenti, Cazaril si ritrovò a essere l’unico che non aveva nulla da fare. Iselle era arrivata a Taryoon con poco più degli abiti che indossava; tutta la corrispondenza e i registri affidati a Cazaril si trovavano ancora nelle sue camere, a Cardegoss. Quando tentò d’incontrare la Royesse, per chiederle quali incarichi volesse assegnargli, trovò le sue stanze intasate di cameriere e di cucitrici, tutte vagamente isteriche, che, sotto le direttive della zia di Iselle, andavano e venivano con le braccia cariche d’indumenti.

«Cazaril, avete appena percorso quasi mille miglia nel mio interesse», disse Iselle, lottando per estrarre cdn un sussulto la testa da un ammasso di sete e protendendo un braccio per permettere a una donna di provarle una manica. «Andate a riposare. No, anzi, preparate due lettere che il segretario di mio zio possa poi copiare, una diretta a tutti i Provincar di Chalion e l’altra a tutti gli Arcidivini dei Templi, per annunciare il mio matrimonio… qualcosa che possano leggere alla gente. Dovrebbe essere un incarico leggero e tranquillo. Quando avrete pronte le diciassette… no, sedici…»

«Diciassette», interloquì sua zia, china sull’orlo del vestito. «Tuo zio vorrà una copia per gli archivi della sua Cancelleria. Ora sta’ diritta.»

«Quando le copie saranno pronte, mettetele da parte, in modo che io e Bergon le possiamo firmare domani, dopo il matrimonio, poi provvedete perché vengano spedite», concluse Iselle, con un cenno deciso del capo che destò l’irritazione della sarta impegnata a sistemarle la scollatura.

Inchinatosi, Cazaril si affrettò a lasciare la stanza prima di finire per essere aggredito con uno spillo, e si appoggiò per un momento alla ringhiera della galleria.

La giornata era serena e tiepida, con una promessa di primavera nell’aria, il cielo era di un colore azzurro pallido e la luce del sole si riversava sul cortile pavimentato di fresco, dove i giardinieri stavano trapiantando varie piante di arancio in piena fioritura in alcuni vasi, facendoli poi rotolare in modo da disporli intorno alla fontana gorgogliante. Fermando un servitore di passaggio, Cazaril si fece portare fuori un tavolino per scrivere e una sedia dotata di un morbido e spesso cuscino: benché la sua mente rammentasse quelle mille miglia in modo vago, il suo posteriore le ricordava tutte benissimo. Appoggiatosi allo schienale, con la luce calda del sole che gli pioveva sul volto, chiuse gli occhi, componendo mentalmente la lettera per poi chinarsi in avanti a scriverla; quando ebbe finito, il segretario di dy Baocia prese in consegna il risultato dei suoi sforzi per copiarlo con una calligrafia molto migliore della sua, e lui si appoggiò di nuovo all’indietro, chiudendo gli occhi e rilassandosi.

Un rumore di passi che si avvicinavano non fu sufficiente a riscuoterlo dal suo stato di beatitudine. Ma il tintinnio di qualcosa che veniva posato sul tavolo lo indusse a sollevare lo sguardo. A un cenno di Lady Betriz, un servitore dispose sul tavolo, prelevandoli da un vassoio, una teiera, una caraffa di latte, un piatto di frutta secca e pane con noci e miele. Congedato il ragazzo, Betriz provvide poi a versare il tè, spingendo il pane verso Cazaril e sedendosi sul bordo della fontana per guardarlo mentre mangiava.

«Il vostro volto sembra di nuovo scavato. Non avete mangiato a sufficienza?» domandò la giovane, in tono severo.

«Non ne ho idea. Questo sole è splendido! Spero che resista fino a domani.»

«Lady dy Baocia ritiene di sì, anche se è convinta che potrebbe piovere ancora, entro il Giorno della Figlia.»

Il profumo dei fiori di arancio colmava lo spazio riparato del cortile e sembrava mischiarsi col sapore del miele che lui aveva in bocca. «Fra tre giorni, sarà trascorso esattamente un anno da quando sono entrato nel castello di Valenda. A quel tempo, ero disposto a fare anche lo sguattero», osservò Cazaril, bevendo il tè per accompagnare il pane.

«Lo rammento», annuì Betriz, con un sorriso. «È stato alla scorsa vigilia del Giorno della Figlia che ci siamo conosciuti, alla tavola della Provincara.»

«Oh, io vi avevo già vista prima, quando siete entrata a cavallo nel cortile con Iselle e… con Teidez.» E col povero dy Sanda, aggiunse mentalmente.

«Davvero?» esclamò Betriz, sorpresa. «Non vi ho visto. Dov’eravate?»

«Seduto su una panca, vicino al muro. Eravate troppo impegnata a farvi rimproverare da vostro padre per aver galoppato, per accorgervi di me.»

«Oh», mormorò Betriz, poi sospirò e fece scorrere la mano nell’acqua della fontana, scrollando via le gocce fredde con aria accigliata; anche se nell’aria si avvertiva il respiro della Signora della Primavera, l’acqua era ancora sotto il dominio del Vecchio Inverno. «Mi pare che siano passati cento anni, non uno soltanto», aggiunse.

«A me sembra invece che sia trascorso appena un secondo. Adesso… il tempo corre più veloce di me, il che probabilmente spiega perché il mio respiro sia così affannoso», replicò Cazaril a mezza voce e, dopo un momento, chiese: «Iselle ha confidato a suo zio l’esistenza della maledizione che intendiamo infrangere domani?»

«No, naturalmente non lo ha fatto», rispose Betriz e, nel notare la sua espressione sorpresa, aggiunse: «Iselle è la figlia di Ista… Non può dire cose del genere, altrimenti la gente direbbe che è pazza anche lei, e qualcuno ne approfitterebbe per toglierle… tutto. Dy Jironal ha fatto un lavoro eccellente, a questo riguardo. Durante il funerale di Teidez, non ha perso occasione per fare ogni sorta di commento su Iselle con qualsiasi nobile o Provincar che fosse a portata di udito. Se piangeva, il suo comportamento era troppo stravagante; se sorrideva, era strano che facesse una cosa del genere al funerale del fratello; se parlava, dy Jironal era pronto a far notare quanto apparisse frenetico il suo atteggiamento; se invece stava in silenzio, lui sottolineava come lei fosse stranamente cupa. E, mentre parlava, gli uomini cui si era rivolto cominciavano a interpretare il comportamento di Iselle esattamente in quella chiave, per quanto fasulla fosse. Verso la fine della sua visita qui, poi, lui ha detto cose terribili, facendo in modo che Iselle potesse sentirlo, per cercare di spaventarla o di farla infuriare, e accusarla così di essere una squilibrata. A quel punto, però, io, Nan e la Provincara avevamo ormai capito il suo gioco e abbiamo avvertito Iselle, che ha badato a rimanere sempre composta e controllata in sua presenza.»

«Ah. Una ragazza eccellente», approvò Cazaril.

«Non appena abbiamo saputo che gli uomini del Cancelliere intendevano riportarla a Cardegoss, Iselle è stata colta da una vera frenesia… Doveva fuggire da Valenda a ogni costo», annuì Betriz. «Se fosse riuscito a isolarla, dy Jironal avrebbe potuto far circolare qualsiasi fandonia sul suo comportamento, senza che nessuno potesse confutarlo. Forse sarebbe perfino riuscito a convincere i Provincar di Chalion a prolungare a tempo indefinito la sua reggenza per conto di quella povera, folle ragazza e tutto ciò senza colpo ferire. Ecco perché Iselle non osa neppure menzionare la maledizione.»

«Capisco. È un bene che sia cauta. In ogni caso, agli Dei piacendo, questa storia ben presto sarà finita.»

«Agli Dei e al Castillar dy Cazaril», precisò Betriz.

Respingendo quelle parole con un gesto appena abbozzato, Cazaril bevve un altro sorso di tè. «Che cos’è successo quando dy Jironal ha scoperto che ero andato a Ibra?» domandò.

«Credo che non lo abbia neppure sospettato finché il corteo funebre non è arrivato a Valenda, e non vi abbiamo trovato là. Stando a ciò che ha detto alla Provincara, pare che abbia ricevuto alcuni rapporti dalle sue spie ibrane… Credo che sia stato anche per questo che, pur essendo ansioso di tornare nella capitale per impedire a dy Yarrin di portare Orico dalla sua parte, ha comunque rifiutato di lasciare Valenda finché non vi ha installato le sue truppe.»

«Ha anche mandato alcuni sicari, che ci hanno trovato sulla frontiera… Mi chiedo se si aspettasse che sarei tornato da solo, per la seconda fase dei negoziati… Non credo immaginasse che il Royse Bergon si sarebbe mosso così in fretta.»

«Non lo supponeva nessuno, tranne Iselle», osservò Betriz, tormentando con le dita la sopravveste di fine lana nera che le copriva le ginocchia. Poi risollevò lo sguardo e fissò Cazaril con occhi d’un tratto penetranti, domandando: «Mentre eravate impegnato a consumarvi per salvare Iselle… avete scoperto come salvare voi stesso?»

«No», rispose Cazaril, in tutta semplicità, dopo un momento di silenzio.

«Non è giusto.»

Cazaril fissò il cortile soleggiato, evitando d’incontrare lo sguardo di lei. «Mi piace questo bell’edificio nuovo. Sapete, qui non ci sono spettri…»

«State cambiando argomento», osservò Betriz, accigliandosi. «E fate sempre così, se non volete parlare di qualcosa…»

«Betriz… La notte in cui ho invocato la morte su Dondo, noi abbiamo imboccato sentieri differenti e adesso non posso più tornare indietro. Voi continuerete a vivere, io no. Non possiamo proseguire insieme, neppure se… Ecco, no, non possiamo.»

«Non possiamo sapere quanto tempo vi rimane. Potrebbero essere settimane, o mesi, ma se il dono elargitoci dagli Dei fosse anche un’ora soltanto, disprezzarlo e respingerlo sarebbe ancora più offensivo nei loro confronti.»

«Non si tratta soltanto del tempo», insistette Cazaril, agitandosi sulla sedia, a disagio. «Ma anche di un… Come posso chiamarlo? Di un eccesso di compagnia, ecco. Noi due, soli, ma con Dondo e col demone della morte… Non vi faccio orrore?» domandò, in tono quasi supplichevole. «Vi garantisco che ne faccio a me stesso!»

Betriz scoccò un’occhiata al suo ventre, poi spostò lo sguardo verso la parte opposta del cortile e assunse un’espressione cocciuta. «Non ritengo che essere… infestato da un fantasma sia contagioso. O credete forse che io manchi di coraggio?»

«Questo mai», sussurrò Cazaril.

«Assalirei il cielo per te, se sapessi dove si trova», sibilò Betriz.

«Non avete letto il libro di Ordol, mentre aiutavate Iselle a comporre le lettere cifrate? Secondo lui, noi e gli Dei esistiamo nello stesso tempo e nello stesso luogo e siamo separati soltanto da una cortina spessa quanto un’ombra. Non c’è nessuna distanza da superare», spiegò Cazaril, pensando che in effetti Ordol aveva ragione. Da dove sedeva, lui poteva davvero scorgere il mondo degli Dei. «D’altro canto, non si può imporre qualcosa agli Dei con la forza. E mi sembra giusto, dato che loro non possono costringere noi.»

«Lo state facendo di nuovo! State cambiando argomento!»

«Cosa intendete indossare domani? Avete scelto un bell’abito? Ricordate che non dovete mettere in ombra la sposa.»

Betriz gli scoccò un’occhiata di fuoco.

In quel momento, Lady dy Baocia uscì dalle stanze di Iselle e si affacciò dalla galleria per rivolgere a Betriz una complicata domanda che riguardava un gran numero di tessuti differenti, o almeno così parve a Cazaril. Rispondendo con un cenno, lei si alzò con una certa riluttanza e si avviò alla scala, ribattendo da sopra la spalla, in tono tagliente: «Forse è davvero così. Forse voi siete condannato. Ma se domani dovessi cadere da cavallo e rompermi l’osso del collo, spero che, dopo, voi vi sentiate un idiota».

«Più che un idiota», mormorò lui, rivolto alla sua figura che si allontanava tra un frusciare di gonne. Poi, notando che il luminoso cortile gli appariva sfocato, passò con decisione una manica sugli occhi, per asciugarli.

Il giorno del matrimonio si annunciò sereno, proprio come tutti avevano sperato. Il cortile invaso dal profumo, dei boccioli di arancio era affollato al massimo della sua capienza quando Iselle, accompagnata da sua zia e da Betriz, apparve in cima alle scale della galleria, offrendo uno spettacolo che era una gioia per gli occhi, come pensò Cazaril con un sorriso. Le sarte e le cucitrici avevano compiuto un’impresa davvero eroica, abbigliando Iselle in tutte le tonalità di azzurro che si convenivano a una sposa, e la sua sopravveste blu era decorata con tutte le perle ibrane che era stato possibile trovare a Taryoon, cucite in modo da raffigurare tanti leopardi stilizzati. Accompagnata da applausi, Iselle cominciò a scendere le scale, muovendosi con una certa rigidità a causa degli abiti che la impacciavano un poco, ma con un sorriso sul volto e i capelli che splendevano sotto il sole come un fiume d’oro; dietro di lei, venivano due giovani cugine incaricate di sorreggere lo strascico, cosa che stavano facendo sotto l’attento controllo della madre. Quel giorno, perfino la maledizione sembrava avvolgersi intorno a lei come una sorta di lunga veste nera.

Obbedendo alle istruzioni ricevute, Cazaril si affiancò al Provincar della Baocia, e si trovò così a guidare il corteo che si snodò per le tortuose strade di Taryoon, fino al vicino Tempio. Con un tempismo quasi incredibile, la processione di Bergon, partita dalla dimora del March dy Huesta, raggiunse il portico nello stesso momento di quella di Iselle. Per l’occasione, il Royse era abbigliato nelle tinte rosse e arancione che si addicevano alla sua età e al suo sesso, e il suo volto aveva un’espressione determinata e coraggiosa, quasi che lui stesse per assaltare un bastione. Per evitare che gli ibrani si sentissero, e apparissero, inferiori numericamente, Palli e una decina di soldati-fratelli del suo Ordine, in uniforme di gala, si erano uniti al corteo del Royse, insieme con Foix e Ferda.

Nonostante lo scarso preavviso con cui erano state annunciate quelle nozze, Cazaril calcolò che, nel rotondo cortile centrale del Tempio, si accalcassero non meno di mille nobili, mentre quella che pareva l’intera popolazione di Taryoon era schierata lungo i percorsi seguiti dai due cortei reali, a indicare che l’atmosfera aveva pervaso l’intera città.

In un vortice di colori, le due processioni si unirono ed entrarono nel recinto sacro, accompagnate dal coro di cantori locali, le cui voci piene di entusiasmo fecero praticamente risuonare le mura stesse d’inni gioiosi. Guidata dall’Arcidivino, la giovane coppia entrò a turno in ciascun lobo in cui era suddiviso il Tempio, inginocchiandosi su nuovi tappeti per pregare e implorare la benedizione di ciascuna divinità: la Figlia e il Figlio, a titolo di ringraziamento per la protezione che avevano finora elargito loro nel viaggio della vita; la Madre e il Padre, nella speranza di essere a tempo debito accolti presso di loro.

Sulla base della teologia e della tradizione, il Bastardo non rivestiva un ruolo ufficiale in una cerimonia nuziale, ma tutte le coppie prudenti inviavano comunque al suo altare un dono propiziatorio. Per l’occasione, Cazaril e dy Tagille erano stati incaricati di fungere da corrieri e, dopo aver ricevuto le offerte di Bergon e di Iselle, aggirarono l’edificio principale del Tempio per raggiungere la Torre del Bastardo, scortati da un piccolo coro di giovanissimi cantori che prendevano con la massima serietà il loro incarico. Una volta nella torre, trovarono ad attenderli vicino all’altare un sorridente Divino dalla veste bianca, pronto ad accogliere le loro offerte.

Sebbene la coppia reale fosse stata costretta a prendere a prestito abiti, denaro, cibo e dimora per quel giorno particolare, Bergon non aveva certo lesinato nell’offerta al Dio, come dimostrò la grossa sacca di oro ibrano che dy Tagille depose sull’altare per suo conto; quanto a Iselle, aveva inviato una promessa, scritta di proprio pugno, di finanziare la riparazione del tetto della Torre del Bastardo, a Cardegoss, non appena fosse diventata Royina. A quei doni, Cazaril ne aggiunse uno personale: la parte del filo di perle regalato da Dondo a Iselle, e contaminato dal sangue dei briganti, che non era andata persa durante lo scontro coi banditi. Considerata la sua natura problematica e maledetta, quel monile ricadeva senza dubbio sotto la giurisdizione del Bastardo, e Cazaril si concesse un sospiro di sollievo quando riuscì infine a liberarsene.

Nel tornare verso il Tempio dalla Torre del Bastardo, sempre seguito dal coro di ragazzini, Cazaril posò distrattamente lo sguardo sulla folla raccolta nel cortile. Con un sussulto, scorse un uomo di mezz’età, avvolto da una fioca luce grigia, simile a quella di una giornata invernale. Provò subito a chiudere gli occhi, constatando che il tenue bagliore persisteva anche dietro le palpebre, poi tornò a osservare l’uomo con occhi normali, notando che indossava le vesti nere e grigie, decorate sulla spalla da una treccia rossa, proprie di un funzionario della Corte Municipale di Taryoon. Probabilmente, si trattava di un giudice di grado minore, ma era anche un santo di rango minore al servizio del Padre, nello stesso modo in cui Clara, a Cardegoss, era al servizio della Madre.

L’uomo stava fissando a sua volta Cazaril a bocca aperta, con lo stupore dipinto sul volto; i due non poterono scambiarsi neppure una parola, perché Cazaril venne nuovamente coinvolto nelle cerimonie in corso all’interno dell’echeggiante cortile del Tempio. Decise comunque di chiedere al più presto all’Arcidivino notizie riguardo a quell’uomo.

Vicino al fuoco centrale, il Royse e la Royesse, ora sposati, pronunciarono ciascuno un breve discorso, poi insieme con l’Arcidivino, con Cazaril e con tutti gli altri, ripercorsero in corteo le strade decorate da bandiere, fino al nuovo palazzo di dy Baocia, dov’era stato preparato un grande banchetto destinato a riempire le ore del pomeriggio e lo stomaco degli invitati. Le pietanze offerte erano ancor più incredibili per il fatto di essere state preparate in due giorni soltanto, ed erano così svariate da far supporre a Cazaril che, per l’occasione, fossero state intaccate le scorte accantonate in previsione della festa del Giorno della Figlia, cosa che a suo parere non avrebbe di certo infastidito la Dea. Essendo ospiti di rango, sia Cazaril sia l’Arcidivino avevano un posto già stabilito e non ebbero occasione di parlare in privato se non durante le danze che seguirono il banchetto, spingendo la gente più giovane verso i cortili. A quel punto, i due uomini con cui Cazaril voleva conferire vennero a cercare proprio lui.

Il giudice, che accompagnava l’Arcidivino, appariva piuttosto sconvolto, e scambiò con Cazaril un’occhiata in tralice mentre l’altro lo presentava.

«Mio signore dy Cazaril… Questo è l’Onorevole Paginine, che presta servizio presso il municipio di Taryoon», esordì l’Arcidivino, poi abbassò la voce, e aggiunse: «Lui afferma che sei toccato dagli Dei. È vero?»

«Purtroppo sì», sospirò Cazaril.

Poi, mentre Paginine annuiva, con l’aria soddisfatta di chi ha visto confermata un’intuizione, Cazaril lo trasse in disparte insieme con l’Arcidivino. In quella situazione era difficile scovare un angolo appartato, ma alla fine trovarono riparo in un minuscolo cortile secondario cui si accedeva da uno degli ingressi laterali del palazzo; musica e risa arrivavano fino a loro nell’aria sempre più buia, ma almeno lì erano soli, a parte un servitore che tuttavia, dopo aver acceso le torce fissate alle pareti, si affrettò a tornare dentro. Nel cielo, alte nubi stavano cominciando a coprire le prime stelle.

«L’Arcidivino di Cardegoss sa tutto sul mio conto», spiegò subito Cazaril all’Arcidivino di Taryoon.

«Oh», mormorò questi, sollevato, e aggiunse: «Mendenal è una persona eccellente».

Pur ritenendo che la sua fiducia fosse malriposta, Cazaril preferì non obiettare. «A quanto vedo, il Padre dell’Inverno vi ha elargito qualche dono», osservò, rivolto al giudice. «Di cosa si tratta?»

«Be’, talvolta… mi permette di sapere chi sta mentendo e chi sta dicendo il vero, nella mia camera di giustizia», rispose Paginine. «Questo non è sempre un bene, contrariamente a quanto si potrebbe pensare.»

La risposta di Cazaril fu una breve, amara risata, in reazione alla quale Paginine s’illuminò visibilmente.

«Ah, vedo che capite», commentò poi, con un sorrisetto teso.

«Oh, sì.»

«Però voi, signore…» continuò Paginine, turbato. «Vi ho definito come toccato dagli Dei, ma ciò non descrive neppure lontanamente quello che vedo. Guardarvi… mi fa quasi dolere gli occhi. Da quando mi è stata concessa la seconda vista, ho incontrato tre persone afflitte dagli Dei come voi, ma non ho mai visto nulla di simile.»

«A Cardegoss, il santo Umegat ha detto che sembravo una città in fiamme», ammise Cazaril.

«È… una descrizione adeguata», convenne Paginine, scoccandogli un’occhiata in tralice.

«Le parole di Umegat lo erano sempre», replicò Cazaril, pensando: Già, un tempo lo erano davvero.

«Qual è la natura del vostro dono?»

«Io… ecco, credo di essere io il dono per la Royesse Iselle.»

«Questo spiega le storie che circolano sul vostro conto», mormorò l’Arcidivino, portandosi una mano alle labbra e affrettandosi a segnarsi.

«Quali storie?» esclamò Cazaril, sconcertato.

«Ditemi, Lord Cazaril, cos’è quella terribile ombra che avvolge la Royesse Iselle?» interloquì il giudice. «Non è di certo una manifestazione degli Dei e non ha nulla di buono. La vedete anche voi?»

«Io… me ne sto occupando. Pare che eliminare quell’orrore sia il compito che gli Dei mi hanno assegnato, ma credo di aver quasi finito.»

«Oh, saperlo è un vero sollievo», dichiarò Paginine, mostrandosi molto più sereno.

D’un tratto, Cazaril si rese conto che quello che avrebbe voluto era trarre in disparte Paginine per parlare del loro comune incarico, per chiedergli come affrontava le manifestazioni legate al suo stato. Forse l’Arcidivino era una persona devota, un buon amministratore e magari anche un erudito teologo, però era difficile che comprendesse i disagi che si accompagnavano al mestiere di santo. Il sorriso amaro di Paginine, invece, era stato quanto mai rivelatore… Quello che Cazaril voleva era ubriacarsi in sua compagnia e confrontarsi con lui.

«Benedetto Signore», sussurrò d’un tratto l’Arcidivino, con un profondo inchino che imbarazzò profondamente Cazaril. «C’è qualcosa che posso fare per voi?»

La domanda di Betriz — Avete scoperto come salvare voi stesso? — riecheggiò nella mente di Cazaril, inducendolo a pensare che forse non ci si poteva salvare da soli, che magari era necessario salvarsi a vicenda. «Stanotte no», rispose. «Però domani… o più avanti nel corso della settimana, c’è una questione personale che mi piacerebbe sottoporvi, se è possibile.»

«Certamente, Benedetto Signore. Sono al vostro servizio.»

Tornarono quindi alla festa. Esausto, Cazaril desiderava soltanto poter andare a letto, ma il cortile sottostante la sua camera era invaso da invitati intenti a far baldoria. Eccitata e affannata, Betriz venne a chiedergli di danzare con lei, invito che lui declinò con un sorriso, ben sapendo che comunque i cavalieri non le mancavano. La giovane continuò tuttavia a tenerlo d’occhio, mentre lui, seduto vicino al muro, sorseggiava una coppa di vino annacquato e parlava con varie persone, chiaramente interessate a un impiego presso la corte della futura Royina. Alle loro velate richieste, Cazaril rispose invariabilmente in tono cortese, ma senza promettere nulla.

Nel frattempo, le dame di Chalion si accalcavano intorno ai nobili ibrani come formiche intorno a un vasetto di miele rovesciato. A un certo punto, poi, sopraggiunse anche Lord dy Cembuer e l’atmosfera divenne, se possibile, ancora più allegra. I giovani ibrani presero a descrivere il loro viaggio, suscitando un estremo interesse negli affascinati ascoltatori di Chalion. Cazaril fu oltremodo soddisfatto di quei racconti avventurosi, che facevano apparire Bergon come un eroe. Ma anche Iselle, in seguito alla sua fuga notturna da Valenda, venne ben presto considerata un’eroina. Quella doppia aura di leggenda avrebbe senza dubbio stroncato sul nascere la diceria, creata da dy Jironal, di «Iselle la Folle», anche perché aveva solide radici nella realtà dei fatti.

Finalmente giunsero l’ora e la cerimonia che Cazaril aveva atteso con velata impazienza. Bergon e Iselle vennero scortati fino alla loro camera nuziale e, con soddisfazione, Cazaril notò che nessuno dei due aveva bevuto tanto da perdere il controllo. Dal canto suo, dato che la quantità di acqua aggiunta al vino si era ridotta nel corso della serata, si ritrovò ad avere la lingua un po’ impastata quando il Royse e la Royesse lo convocarono ai piedi della scalinata per dare e ricevere i cerimoniali baci di ringraziamento sulle mani. Commosso, Cazaril si segnò e invocò una speranzosa benedizione sulla testa di entrambi, ottenendo in cambio uno sguardo in cui si leggeva una così intensa e solenne gratitudine da lasciarlo sconvolto.

Grazie alla previdenza di Lady dy Baocia, un piccolo coro di cantori di preghiere accompagnò la coppia lungo le scale, soffocando in buona parte, con le sue voci cristalline, la cacofonia di licenziosi suggerimenti che giungeva dal basso. Soffusa in volto di un delicato rossore, con gli occhi che brillavano come stelle, Iselle si affacciò infine dall’alto della galleria insieme con Bergon, rivolgendo a tutti un sorriso di ringraziamento accompagnato da una piccola pioggia di fiori. Poi gli sposi scomparvero nell’appartamento nuziale, le porte si chiusero alle loro spalle e due ufficiali baociani presero posto sulla galleria per proteggere il riposo della coppia. Di lì a poco, tutti i servi e gli assistenti uscirono dall’appartamento, inclusa Betriz, che venne immediatamente requisita da Palli e da dy Tagille per altri giri di danza.

I festeggiamenti si protrassero fino all’alba, ma, con sollievo di Cazaril, una pioggerella sottile cominciò ben presto a cadere, costringendo musici e ballerini ad abbandonare il cortile su cui si affacciava la sua stanza per rifugiarsi nell’edificio vicino. Aggrappandosi alla ringhiera, Cazaril salì le scale verso la sua camera, sul lato della galleria opposto rispetto all’appartamento del Royse e della Royesse. Il mio dovere si è concluso, pensava. Che farò, adesso? Non ne aveva la minima idea. Sapeva soltanto che un immenso terrore sembrava svanito dal suo animo. Lui sarebbe vissuto e morto a causa delle scelte fatte… e degli errori commessi. Rifiuto di avere rimpianti, e non intendo guardarmi alle spalle, si disse.

Quello era un momento di equilibrio, la cuspide tra passato e futuro.

L’indomani, sarebbe andato a cercare quel piccolo giudice, la cui compagnia avrebbe forse dato sollievo alla sua solitudine.

A dire il vero, non sono solo, non abbastanza, pensò di lì a poco, quando gli incoerenti, osceni ululati di Dondo, liberati come sempre nell’ora della sua morte, presero a ruggire nella sua mente. Quella notte, lo spettro sembrava in preda a una furia più selvaggia che mai, tanto che le ultime vestigia di sanità mentale che esso conservava parevano essersi del tutto dissolte. Immaginando il motivo di quella rabbia, e nonostante il dolore che gli straziava il ventre, Cazaril non poté fare a meno di sorridere.

La violenza di quell’aggressione era tale che quasi perse i sensi. Poi però si costrinse a riscuotersi, terrorizzato dalla possibilità che Dondo, scatenato com’era, potesse impadronirsi del suo corpo mentre lui era ancora vivo e usarlo per qualche vile attacco ai danni di Iselle e di Bergon. Per parecchio tempo si contorse sul freddo pavimento di legno, reprimendo le urla e le oscenità che cercavano di uscirgli dalla bocca, senza più sapere con certezza a chi appartenessero quelle parole.

Quando tutto infine cessò, si ritrovò a terra, con la camicia da notte arrotolata intorno alla persona, le unghie spezzate e insanguinate; nel corso della crisi aveva vomitato, e adesso giaceva in mezzo alla sua stessa sporcizia, con la barba umida della schiuma che gli si era formata intorno alle labbra; quanto allo stomaco — Il suo gonfiore grottesco è stato solo un sogno? -sembrava tornato allo stato abituale, anche se tutta l’area addominale doleva e vibrava ancora, come un muscolo sforzato e sottoposto a una fatica eccessiva.

Non posso continuare così ancora per molto, si disse, consapevole che presto o tardi qualcosa avrebbe dovuto cedere… Il suo corpo, la sua sanità mentale, il suo respiro, la sua fede… Qualcosa.

Rialzatosi, ripulì il pavimento, si lavò nella bacinella e indossò una camicia asciutta e pulita. Poi sistemò le coltri, accese tutte le candele presenti nella stanza e strisciò di nuovo nel letto, dove giacque con gli occhi sgranati, fissi sulla luce.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo era trascorso quando le voci sommesse e i passi dei servitori nella galleria lo avvertirono che il palazzo cominciava a svegliarsi. Probabilmente si era assopito, perché le candele si erano spente senza che lui ricordasse di averle viste estinguersi. Una luce grigia filtrava da sotto la porta e intorno alle imposte.

Ben presto sarebbe giunta l’ora delle preghiere del mattino, e quella prospettiva lo consolò, benché l’idea di doversi muovere lo turbasse. Lentamente, si alzò dal letto, dicendosi che quel giorno non sarebbe stato l’unico, a Taryoon, a essere affetto dai postumi di una sbornia, sebbene lui non avesse bevuto così tanto. Dal momento che, in occasione del matrimonio, il lutto era stato accantonato, tra gli indumenti che gli erano stati donati scelse un insieme sobrio, ma nel contempo abbastanza vivace.

Una volta pronto, scese nel cortile, disponendosi ad attendere l’alba e l’arrivo dei giovani sposi. Aveva smesso di piovere, però il cielo era ancora velato di nubi. Dopo aver asciugato col fazzoletto il bordo di pietra della fontana, si sedette su di esso e scambiò un sorriso e qualche parola con un’anziana serva, che portava sulle braccia alcune lenzuola ripiegate; in fondo al cortile, un corvo stava zampettando alla ricerca di frammenti di cibo, ma, pur lanciando un’occhiata a Cazaril, non rivelò un particolare interesse nei suoi confronti. E lui si sentì più che altro sollevato da quella dimostrazione d’indifferenza.

Finalmente, sulla galleria, le porte che lui stava tenendo d’occhio si aprirono, le assonnate guardie baociane si misero sull’attenti e dall’interno giunsero alcune voci femminili, miste a una voce maschile bassa e allegra. Poi Bergon e Iselle fecero la loro apparizione, vestiti per le preghiere del mattino, la mano di lei posata con leggerezza sul braccio del marito. Nel girarsi per scendere le scale a fianco a fianco, uscirono dalla zona d’ombra della galleria.

No… L’ombra li stava seguendo.

Cazaril serrò gli occhi, poi tornò ad aprirli… e il respiro gli si bloccò in gola: la nube soffocante che aveva avvolto Iselle era ora avviluppata anche intorno a Bergon.

Nello scendere le scale, i due giovani si stavano scambiando un sorriso. La notte precedente erano apparsi eccitati, stanchi e un po’ atterriti, ma quella mattina avevano l’aspetto di due innamorati… e la coltre di oscurità ribolliva intorno a entrambi come fumo da una nave in fiamme.

«Buongiorno, Lord Caz!» salutò allegramente Iselle, quando entrambi si avvicinarono.

«Non vorresti unirti a noi?» sorrise Bergon. «Stamattina abbiamo molte cose di cui rendere grazie insieme, giusto?»

«Io… io… vi raggiungerò tra poco», balbettò Cazaril, abbozzando una parvenza di sorriso. «Ho lasciato una cosa nella mia stanza.»

Poi si alzò, precipitandosi verso le scale. Arrivato sulla galleria, si girò di nuovo a guardarli mentre attraversavano il cortile, sempre seguiti da una scia d’ombra.

L’istante successivo si sbatté alle spalle la porta della propria stanza e rimase immobile, col respiro affannoso, quasi in lacrime. «Oh, per gli Dei… Che cosa ho fatto?» gemette. «Non ho liberato Iselle, ho esteso la maledizione a Bergon!»

26

Sgomento e avvilito, Cazaril rimase nella propria camera per tutta la mattina, ma nel pomeriggio un paggio venne a bussare alla sua porta, comunicandogli che il Royse e la Royesse desideravano che lui li raggiungesse nelle loro stanze. Per un momento, lui prese in considerazione l’eventualità di fingersi malato e, sebbene non avesse bisogno di sforzarsi per apparire tale, poi si rese conto che di certo Iselle avrebbe fatto accorrere uno stuolo di medici perché si prendessero cura di lui… e il ricordo dell’ultima esperienza in quel senso, con Rojeras, lo faceva ancora rabbrividire. Con estrema riluttanza, si assestò gli abiti e percorse la galleria fino all’appartamento reale.

Le alte finestre incassate nelle pareti erano aperte per lasciar entrare la fresca aria primaverile, e Iselle e Bergon, ancora abbigliati con eleganza per aver partecipato al banchetto dato in loro onore presso il palazzo del March dy Huesta, lo stavano attendendo, l’uno seduto accanto all’altra, vicino a un tavolo su cui spiccavano carta, pergamena e alcune penne nuove. Sul lato opposto del tavolo, poi, c’era una sedia pronta. Le due teste, l’una castana e l’altra ambrata, erano accostate in una sommessa conversazione, e l’ombra fluiva ancora intorno a entrambi, vischiosa come pece bollente. Nel sentire il rumore dei suoi passi, i due giovani sollevarono lo sguardo con un sorriso, cui lui rispose con un inchino, umettandosi nervosamente le labbra.

«Adesso bisogna subito scrivere una lettera a mio fratello Orico, per informarlo di ciò che è successo e garantirgli la nostra più fedele sottomissione», esordì Iselle, indicando i fogli bianchi. «Credo che dovremmo includere alcuni stralci del contratto di matrimonio, quelli più favorevoli a Chalion, per aiutarlo a riconciliarsi col fatto compiuto. Cosa ne pensate?»

Cazaril si schiarì la gola e deglutì.

«Caz, sei pallido come un… Sei molto pallido. Sei certo di stare bene?» domandò Bergon, aggrottando le sopracciglia. «Per favore, siediti.»

Cazaril riuscì a scuotere il capo in maniera appena percettibile, tentato dal cercare rifugio dietro una menzogna… o piuttosto una mezza verità, dato che in effetti si sentiva tutt’altro che bene. «No, non sto bene, e non c’è nulla che vada bene», sussurrò, piegando a terra un ginocchio davanti al Royse, mentre continuava: «Ho commesso un terribile errore. Mi dispiace, mi dispiace davvero».

«Lord Caz…» cominciò Iselle, il cui volto stupito, e d’un tratto guardingo, appariva ora sfocato agli occhi di Cazaril.

«Il matrimonio…» disse lui, costringendosi a parlare. «Il matrimonio non ha annullato la maledizione da Iselle, come speravo. L’ha estesa a tutti e due.»

«Come?» sussurrò Bergon.

«E adesso io non so più che cosa fare…» completò Cazaril, con voce incrinata dal pianto.

«Come fate a saperlo?» domandò Iselle.

«Vedo il manifestarsi della maledizione, e lo vedo intorno a tutti e due, addirittura più scura e spessa, più avvolgente.»

«Io… Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, in qualche modo?» chiese Bergon, che appariva sgomento.

«No, no. Dal momento che Sara e Ista, unendosi in matrimonio con un membro della Casa di Chalion, erano rimaste contagiate dalla maledizione, pensavo che ciò dipendesse dalla differenza tra uomini e donne… Insomma, credevo che la maledizione seguisse in qualche modo la linea di discendenza maschile degli eredi di Fonsa, accompagnandosi al titolo.»

«Ma anch’io sono un’Erede di Fonsa, e carne e sangue non sono semplici nomi», osservò Iselle, scandendo le parole. «Quando due persone si sposano, ciò non significa che una scompaia e che l’altra rimanga… Si tratta di un’unione, non della consumazione dell’una da parte dell’altra. Oh, non c’è nulla che possiamo fare? Ci dev’essere una soluzione!»

«Ista mi ha detto…» cominciò Cazaril, poi s’interruppe, perché non era certo di voler riferire la storia di Ista a quei due giovani tanto determinati. A Iselle poteva venire qualche idea… L’ignoranza non è stupidità, ma può benissimo diventarlo, così aveva protestato Iselle, e adesso era troppo tardi per tenerla al riparo dalla realtà. Sulla scorta dell’ira degli Dei, sarebbe diventata la prossima Royina di Chalion e, al diritto di governare, si accompagnava il dovere di proteggere, per cui il privilegio di ricevere protezione doveva essere abbandonato, come i giocattoli dell’infanzia. E ciò valeva soprattutto per la protezione da amare verità. «Ista mi ha detto che esiste un altro modo», confessò infine. Poi, rialzatosi, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia e, con voce rotta, in termini tanto scarni da apparire quasi brutali, riferì la storia narrata da Ista riguardo a Lord dy Lutez, al Roya Ias e alla visione che lei stessa aveva ricevuto dalla Dea. Parlò di quelle due notti infernali nelle segrete dello Zangre, dell’uomo prima legato e poi calato nella vasca di acqua gelida. Entrambi i giovani lo fissavano con sgomento, pallidi in volto. «Dalla notte in cui ho cercato di barattare la mia vita con la morte di Dondo, ho pensato… ho temuto… di essere io la persona giusta», continuò Cazaril. «E l’idea di essere il prescelto mi ha terrorizzato. Ista mi ha definito ’il dy Lutez di Iselle’… Se fossi convinto dell’utilità di un simile gesto, vi giuro, al cospetto degli Dei, che vi chiederei di portarmi fuori adesso e di annegarmi nella fontana del cortile, due volte. Ormai però non posso più essere la vittima sacrificale: la mia seconda morte sarà anche l’ultima, perché il demone della morte volerà via con la mia anima e con quella di Dondo. Non vedo proprio come potrei rientrare nel mio corpo…» E si sfregò col dorso della mano il volto bagnato di lacrime.

Bergon fissò la moglie con tanta intensità da dare l’impressione di volerla consumare con lo sguardo. «E se ci provassi io?» chiese infine, con voce roca.

«Come?» esclamò Iselle.

«Sono venuto qui per salvarti da questa cosa… L’unica differenza sta nel modo, che, lo ammetto, sarà un po’ più sgradevole del previsto… Comunque non ho paura dell’acqua. Che ne dite di provare ad annegare me?»

Le proteste di Cazaril e di Iselle si sovrapposero per qualche istante, poi Cazaril, con un cenno della mano, invitò la Royesse a parlare.

«È già stato tentato una volta», ribadì lei. «E non ha funzionato. Non intendo annegare nessuno di voi due! E neppure impiccarvi o fare qualsiasi altra orribile cosa che vi possa venire in mente. No!»

«Inoltre la Dea ha detto che un uomo avrebbe dovuto dare tre volte la vita per la Casa di Chalion, e non che si dovesse trattare di un uomo della Casa di Chalion», rammentò loro Cazaril. Almeno così aveva detto Ista… Però lei aveva ripetuto il messaggio della sua visione usando le stesse parole della Dea, oppure nella sua versione si annidava qualche fatale errore? Quale che fosse la verità, comunque non aveva importanza, se il contenuto di quelle parole poteva trattenere Bergon dal mettere in atto il suo orribile piano. «Non credo che si possa infrangere la maledizione dall’interno, altrimenti sarebbe stato Ias, e non dy Lutez, a calarsi in quella botte…» proseguì Cazaril. «E adesso tu sei dentro la maledizione, Bergon. Possano i cinque Dei perdonarmi per questo.»

«E in ogni caso quella soluzione ha qualcosa di sbagliato», aggiunse Iselle, socchiudendo gli occhi. «Sembra una specie d’imbroglio. Qual era il consiglio che avete ricevuto dal santo Umegat, quando gli avete chiesto cosa fare? Mi riferisco a quella faccenda dei doveri quotidiani…»

«Ha detto che avrei dovuto svolgere i miei doveri quotidiani, come si fossero presentati.»

«Benissimo. In tal caso, gli Dei non hanno ancora finito di occuparsi di noi», rifletté Iselle, tamburellando con le dita sulla superficie del tavolo. «Stavo pensando… Mia madre ha generato due figli per la Casa di Chalion, però non ha mai avuto la possibilità di tentare una terza gravidanza, e quello è senza dubbio un dovere imposto dagli Dei.»

Cazaril si soffermò a considerare lo scempio che la maledizione avrebbe potuto causare, unendosi ai rischi connessi a una gravidanza e a un parto, proprio come si era unita alle fortune militari di Ias e di Orico, e fu percorso da un brivido. Alla luce di quella situazione, la sterilità di Sara era il minore fra tutti i possibili disastri. «Per i cinque Dei, Iselle, credo che fareste meglio a ficcare me in quella botte!» esclamò.

«Inoltre la Dea ha detto che si doveva trattare di un uomo. Vero, Caz?» disse Bergon.

«Uh… Così mi ha riferito Lady Ista.»

«Secondo i Divini, quando gli Dei impartiscono le loro istruzioni agli uomini, relativamente ai loro doveri religiosi, intendono riferirsi anche alle donne», sibilò Iselle. «Non potete escludere le donne solo quando vi fa comodo, senza contare che ho vissuto sotto l’ombra della maledizione per sedici anni, senza conoscerne l’esistenza, e sono comunque sopravvissuta.»

Ma adesso il suo effetto sta peggiorando, si sta intensificando, pensò Cazaril, ai cui occhi la morte di Teidez era un segno evidente di quella evoluzione… I punti di forza e le virtù del ragazzo, per pochi che fossero, erano stati distorti in modo da causare una sventura. Iselle e Bergon avevano molti punti di forza e numerose virtù: per loro, il potenziale distruttivo della maledizione era immenso. Scrutò la giovane coppia che si stava tenendo per mano. Iselle, però, si sfregava gli occhi con le nocche della mano libera.

«Maledizione a parte, rimane il fatto che bisogna preparare subito un documento di obbedienza a Orico, in modo che dy Jironal non possa sostenere che mi sto ribellando a lui», disse poi, stringendosi con le dita la sella del naso e traendo un profondo respiro. «Se solo potessi raggiungere Orico e parlargli, so che potrei persuaderlo del fatto che questo matrimonio torna a beneficio di Chalion.»

«Orico è molto facile da persuadere», convenne Cazaril. «Il difficile è rendere… solida tale persuasione.»

«Già, e non dimentichiamo che dy Jironal si trova a Cardegoss con lui. Il mio più grande timore è che, nell’apprendere la notizia del matrimonio, lui possa in qualche modo convincere Orico a modificare ancora i termini del suo testamento.»

«Conquistate la fiducia di un numero sufficiente di Provincar di Chalion, Royesse. Soltanto così potrete contare sul loro appoggio per opporvi a eventuali clausole del genere.»

«Vorrei andare a Cardegoss», ribatté Iselle, accigliandosi. «Se davvero Orico è in punto di morte, dovrei essere accanto a lui, e io e Bergon dovremmo trovarci nella capitale per controllare l’evolversi degli eventi.»

«È una cosa difficile quanto pericolosa», obiettò Cazaril, dopo un momento di riflessione. «Non dovete mettervi nelle mani di dy Jironal.»

«Non sarebbe mia intenzione andarci da sola», ribatté Iselle, con un sorriso cupo come il riflesso della luna su una lama di coltello. «Ritengo però che dovremmo sfruttare ogni appiglio legale e ogni vantaggio tattico. Inoltre, sarebbe opportuno ricordare ai nobili di Chalion che il potere legale del Cancelliere deriva solo ed esclusivamente dal Roya.»

«Tu conosci quell’uomo meglio di me», interloquì Bergon. «Credi che dy Jironal accoglierà la notizia senza far nulla?»

«Quanto più a lungo riusciremo a farlo rimanere inattivo e meglio sarà, perché il sostegno su cui potremo contare aumenterà di giorno in giorno.»

«Avete saputo come dy Jironal ha reagito alla cosa?» chiese Cazaril.

«Non ancora», rispose Bergon.

«Tienimi informato», lo ammonì Cazaril, poi trasse un lungo respiro, appiattì davanti a sé un foglio di carta e prese una penna. «Ora veniamo alla lettera. Con quale titolo desiderate essere indicati?»

Più tardi, nell’attraversare il cortile sottostante le camere reali, recando con sé il documento firmato e sigillato, Cazaril si trovò a riflettere che la consegna di quella missiva d’importanza capitale era un problema assai delicato. Era infatti impossibile pensare di gettarla nella sacca di un corriere, perché venisse portata alla Cancelleria dello Zangre. No, era necessaria una delegazione di uomini di rango, non soltanto per dare alla lettera, a Iselle e a Bergon la giusta importanza, ma anche per garantire che essa venisse consegnata direttamente a Orico, e non a dy Jironal. Uomini degni di fiducia dovevano leggerne il testo al Roya cieco e morente, e fornire risposte meditate alle sue eventuali domande sul precipitoso matrimonio della sorella. Cazaril decise inoltre che la delegazione doveva essere composta di nobili e di Divini, e che senza dubbio lo zio di Iselle avrebbe saputo indicargli gli uomini più adatti a quel compito. Dovevano partire quella notte stessa, viaggiando il più in fretta possibile. Accelerando il passo, si mise alla ricerca di un paggio o di un servitore che potesse dirgli dove trovare dy Baocia.

Poi, sotto le arcate di accesso al cortile, incontrò Palli e lo stesso dy Baocia, che stavano sopraggiungendo in tutta fretta, entrambi abbigliati con le vesti indossate per il banchetto.

«Caz!» esclamò Palli. «Non ti ho visto a pranzo.»

«Stavo riposando. Ho… avuto una brutta nottata.»

«Eppure avrei giurato che tu eri l’unico a essere andato a letto ancora sobrio.»

«Cos’hai lì?» domandò Cazaril, ignorando quel commento.

«Notizie da Cardegoss, inviate da dy Yarrin tramite un corriere del Tempio», rispose Palli, sollevando un fascio di lettere. «Ho pensato che il Royse e la Royesse dovessero essere informati immediatamente. Pare infatti che dy Jironal abbia lasciato lo Zangre ieri mattina, ma nessuno sa dove sia diretto.»

«Aveva con sé delle truppe? No, aspetta, non voglio farti ripetere tutto. Venite con me», decise Cazaril, girando sui tacchi per dirigersi di nuovo alle camere reali.

Uno dei servitori di Iselle li fece entrare e si mise in cerca di Iselle e Bergon. Cazaril approfittò dell’attesa per mostrare a Palli e a dy Baocia la lettera per Orico, spiegandone il contenuto. Annuendo, il Provincar elencò subito alcuni nobili che, a suo parere, potevano assumere il compito di farla giungere a Cardegoss.

Di lì a poco arrivarono Bergon e Iselle, la quale si stava ancora assestando i capelli intrecciati. Alzandosi, i tre visitatori rivolsero loro un inchino, poi Bergon, insospettito dalle carte che Palli aveva in mano, li invitò a sedersi al tavolo.

Palli riferì la notizia della partenza di dy Jironal. «Ha preso con sé soltanto un piccolo contingente di cavalleria delle sue forze personali. Secondo dy Yarrin, intende percorrere solo una breve distanza, oppure viaggiare molto in fretta.»

«Che notizie ci sono di mio fratello Orico?» domandò Iselle.

«Ecco, leggete…» rispose Palli, porgendole la lettera del suo superiore perché potesse esaminarla. «Una volta che dy Jironal si è tolto di mezzo, dy Yarrin ha cercato immediatamente di vedere il Roya, ma la Royina Sara ha detto che stava dormendo e si è rifiutata di disturbare il suo riposo per qualsiasi motivo. Giacché lei, in passato, lo aveva lasciato entrare di nascosto perché potesse parlare con Orico, dy Yarrin teme che le condizioni del Roya siano ulteriormente peggiorate.»

«Cosa c’è nell’altra lettera?» chiese Bergon.

«Notizie vecchie, ma interessanti», rispose Palli. «Cazaril, si può sapere cosa sta dicendo il vecchio Arcidivino sul tuo conto? Il comandante locale dell’Ordine del Figlio è venuto da me con aria terrorizzata… Ritiene che tu sia stato toccato dagli Dei, e non osa avvicinarti. Si è dunque rivolto a qualcuno che, come lui, avesse giurato fedeltà al Tempio. A quanto pare, ha ricevuto copia di un ordine emesso dalla Cancelleria a tutte le postazioni militari dell’Ordine del Figlio della zona occidentale di Chalion… un mandato d’arresto per te, con accusa di tradimento. Sembra proprio che tu sia stato calunniato…»

«Di nuovo?» mormorò Cazaril, prendendo la lettera.

«E c’è un’altra accusa, relativa al fatto di essere andato a Ibra per vendere Chalion alla Volpe… Un’accusa che adesso ha perso ogni valore, considerato che tutti ormai conoscono la verità.»

«Capisco», commentò Cazaril, scorrendo il testo del mandato. «Quest’ordine era la rete da lui tesa per bloccarmi, in caso i suoi assassini avessero fallito. Temo però che l’abbia emanato un po’ troppo tardi. Come hai detto anche tu, sono notizie ormai vecchie.»

«Sì, però hanno un seguito. Da quell’idiota obbediente che è, il comandante locale ha risposto a dy Jironal con una lettera, in cui sosteneva che il mandato si basava su premesse chiaramente errate, dato che tu avevi agito per ordine esplicito della Royesse Iselle. Così, pur ammettendo di averti visto, non ti aveva arrestato. Sottolineava inoltre che la tua missione non era stata un tradimento, bensì un atto che aveva portato grandi benefici a Chalion. E infatti il matrimonio aveva suscitato un enorme entusiasmo nella popolazione di Taryoon, rivelando anche che la nuova Erede, oltre a essere bellissima, era anche saggia e buona. E ciò era un sollievo e un motivo di speranza, dopo i disastri causati dal regno di Orico.»

«Considerato che quei disastri sono stati causati anche da dy Jironal, quell’ultima frase suona davvero come un insulto…»

«Sì, ma credo che fosse del tutto involontario, perché quel comandante è… un sempliciotto, nel modo di pensare e di parlare. Lui, in realtà, intendeva persuadere dy Jironal a fornire alla Royesse tutto il proprio appoggio.»

«È più probabile che la sua lettera abbia l’effetto opposto», affermò Cazaril. «Dy Jironal si convincerà che il sostegno di cui lui stesso gode si sta rapidamente deteriorando, e ciò lo indurrà ad agire subito per rinforzare le proprie posizioni. Quando pensi che il Cancelliere abbia ricevuto questi saggi consigli da parte del suo subordinato?»

«Ieri mattina di buon’ora», rispose Palli, con una smorfia.

«Ecco, immagino che in quella lettera non ci sia nulla che lui non possa aver appreso da altre fonti», concluse Cazaril, passando la missiva a Bergon, che la lesse con attenzione.

«Dy Jironal ha lasciato Cardegoss», commentò Iselle, assorta.

«Sì, ma per andare dove?» domandò Palli.

«Se è partito con una scorta ridotta, allora punta a raggiungere un luogo in cui sono concentrate le sue forze e abbastanza vicino a Taryoon da permettere un attacco. Il che significa che sta andando da suo genero, il Provincar della Thistan, che si trova a est rispetto a noi, oppure a Valenda, che si trova a nord-ovest», rifletté dy Baocia, tormentandosi un labbro.

«Thistan è più vicina», osservò Cazaril.

«Ma a Valenda lui ha mia madre e mia sorella in ostaggio», gli ricordò cupamente dy Baocia.

«È una situazione che esisteva anche prima», gli fece notare Iselle, con voce tesa per la preoccupazione. «Zio, sono state loro a dirmi di andare…»

Bergon stava ascoltando con la massima attenzione, con l’aria forse un po’ turbata ma senza mostrare segni di panico. Cazaril si disse che, in fondo, quel giovane era cresciuto in mezzo a una guerra civile…

«Credo che dovremmo puntare dritti verso Cardegoss e prenderne possesso, approfittando dell’assenza di dy Jironal», affermò infine Iselle.

«In tal caso, prima dovremmo espugnare Valenda per liberare i nostri familiari e avere le spalle protette», le spiegò suo zio. «Se però dy Jironal sta radunando uomini per attaccare Taryoon, non posso privare la città delle sue difese.»

«Ma se Bergon e io lasceremo Taryoon, dy Jironal non avrà più motivo di attaccare», obiettò Iselle, in tono ansioso. «Né qui né a Valenda. È su di me che deve mettere le mani.»

«L’idea che dy Jironal vi tenda un’imboscata lungo la strada non mi piace affatto», osservò Cazaril.

«Quanti uomini ci potresti dare per scortarci a Cardegoss, zio, ed entro quanto tempo?» domandò Iselle. «Deve trattarsi di cavalieri. La fanteria dovrebbe seguirci alla massima velocità possibile.»

«Potrei radunare cinquecento cavalieri per domani notte, e mille fanti entro il giorno successivo», rispose dy Baocia, sia pure con una certa riluttanza. «I miei due buoni vicini ne potrebbero inviare altrettanti, ma non così presto.»

Cazaril pensò che, in realtà, dy Baocia avrebbe potuto fornire un numero di uomini doppio di quello proposto, se non fosse stato tanto riluttante ad agire. In un momento come quello, in cui bisognava rischiare il tutto per tutto, una cautela eccessiva poteva essere fatale quanto la troppa imprudenza.

«Allora falli preparare», ordinò Iselle, incrociando le mani in grembo. «Presenzieremo alla veglia di preghiera dell’alba per il Giorno della Figlia e alla processione che seguirà, proprio come avevamo stabilito. Zio, Lord dy Palliar, vi prego d’inviare tutti gli uomini possibili in ogni direzione per raccogliere informazioni sui movimenti di dy Jironal. Domani sera, una volta vagliate le notizie raccolte, prenderemo una decisione definitiva.»

Inchinandosi, i due uomini si affrettarono a lasciare la stanza, ma Iselle chiese a Cazaril di fermarsi ancora per un momento. «Non volevo discutere con mio zio, però credo che la minaccia a Valenda sia soltanto una manovra diversiva», affermò, in tono peraltro un po’ dubbioso. «Voi che ne pensate?»

«Dal punto di vista del Roya e della Royina di Chalion-Ibra… quella città non ha una posizione geografica importante, chiunque ne sia in possesso.»

«Allora lasciamo che si riveli una perdita di tempo per gli uomini di dy Jironal e non per i nostri, anche se temo che mio zio possa sollevare qualche difficoltà al riguardo.»

«La strada per Valenda e quella per Cardegoss hanno il primo tratto in comune», disse Bergon, schiarendosi la gola. «Potremmo fingere di puntare su Valenda e prendere invece la deviazione per Cardegoss.»

«Fingere con chi?»

«Con tutti o quasi. In tal modo, le spie che dy Jironal ha sicuramente anche qui, tra noi, lo manderanno nella direzione sbagliata.»

Sì, Bergon è davvero il figlio della Volpe di Ibra, pensò Cazaril.

Iselle rifletté un momento, poi assunse un’espressione accigliata. «Funzionerà solo se gli uomini di mio zio ci seguiranno», obiettò.

«Se saranno ai nostri ordini, non avranno altra alternativa che obbedirci.»

«Spero di evitare una guerra, non di scatenarne una», gli ricordò Iselle.

«In tal caso, non marciare verso una città affollata di uomini del Cancelliere è la cosa più sensata, non credi?» replicò Bergon.

Con un sorriso un po’ triste, Iselle si protese a baciarlo su una guancia, e lui sollevò una mano a sfiorarsi il punto in cui si erano posate le sue labbra, con un gesto quasi meravigliato. «Ci concederemo entrambi una pausa di riflessione fino a domani», annunciò infine lei. «Cazaril, provvedete lo stesso a far partire la lettera per mio fratello Orico, come se avessimo intenzione di rimanere qui a Taryoon, anche se è possibile che noi si raggiunga il corriere lungo la strada e si provveda a consegnarla di persona.»

Con l’assistenza di dy Baocia e dell’Arcidivino, Cazaril non faticò a trovare in città e al Tempio i volontari disposti ad andare a Cardegoss per consegnare la lettera della Royesse. Il sostegno di cui godeva la coppia reale stava infatti aumentando di giorno in giorno e probabilmente sarebbe aumentato l’indomani, con l’arrivo in città di tutti coloro che avrebbero partecipato alla celebrazione del Giorno della Figlia. La giovinezza e la bellezza dei due sposi agiva come un potente talismano sul cuore degli uomini. Dopotutto, la stagione della Signora della Primavera era un periodo di rinnovamento, e veniva identificata con l’imminente ascesa al trono di Iselle. Il problema era portare un certo equilibrio nel governo di Chalion finché permaneva quell’atteggiamento benevolente, in modo che il sostegno popolare continuasse anche in momenti meno felici. In ogni caso, quel periodo di speranza sarebbe rimasto nella memoria e negli occhi di molti anche quando Iselle e Bergon fossero stati più maturi.

Fu così che quella stessa notte, all’ora in cui la maggior parte della gente stava ormai andando a letto, Cazaril sovrintese alla partenza di una dozzina di uomini, accompagnati dal March dy Sould, in qualità di testimone e di portavoce di Bergon, e consegnò i documenti ufficiali a un Divino anziano, un nobile che aveva raggiunto un rango elevato in seno all’Ordine del Padre. Dopo che gli ambasciatori ebbero lasciato la Piazza del Tempio, Palli riaccompagnò Cazaril al Palazzo dy Baocia e gli augurò la buonanotte.

Non più impegnato a organizzare la delegazione, Cazaril, salendo i gradini verso la galleria, sentì il proprio passo farsi pesante. La sua maledizione era un fardello segreto che faceva affondare anche le speranze più luminose. Senza dubbio, una dozzina di anni prima, Orico aveva dato inizio al proprio regno con lo stesso entusiasmo e lo stesso impegno di Iselle, convinto che, con la dedizione e la buona volontà, avrebbe sopraffatto il nero miasma della maledizione. Però tutto era andato per il verso sbagliato…

Cazaril rifletté che poteva succedergli di peggio che diventare «il dy Lutez di Iselle»; poteva diventare «il suo dy Jironal». Prima d’impazzire, quanto avvilimento e quanta corruzione poteva tollerare l’animo di un uomo fedele, contemplando il lento dissolversi della speranza e della giovinezza che cedevano il posto alla vecchiaia e alla disperazione? Eppure,

quali che fossero stati i suoi cedimenti e i suoi vizi, Orico aveva resistito abbastanza a lungo da dare una possibilità alla generazione successiva. Aveva puntellato una diga di sventura, annegando allorché essa era crollata, ma dando agli altri il tempo di salvarsi dall’onda di piena.

Rientrato nella sua camera, Cazaril si preparò per andare a letto e si dispose a far fronte al consueto attacco notturno. Quella sera, però, Dondo sembrava stranamente passivo. Era forse esausto? O stava raccogliendo le forze, in attesa di chissà cosa? Nonostante quella presenza malevola e le nefaste promesse che racchiudeva, Cazaril non tardò ad addormentarsi.

Un servitore venne a svegliarlo un’ora prima dell’alba e, a lume di candela, lo precedette nel cortile, dove il seguito personale della coppia reale avrebbe tenuto la sua santa veglia. L’aria era gelida e nebbiosa, ma alcune stelle che brillavano debolmente nel cielo promettevano un’alba serena. Alcune stuoie di preghiera in stile ibrano erano state disposte intorno alla fontana centrale, e ciascuno dei presenti si sistemò su una di esse, in ginocchio o prono, a seconda del suo stato d’animo. Iselle e Bergon presero posto l’una accanto all’altro e Lady Betriz si sistemò tra la Royesse e Cazaril. Dy Tagille e dy Cembuer sopraggiunsero sbadigliando e si sistemarono nella cerchia esterna di stuoie, insieme con una mezza dozzina di persone di rango inferiore. Quando furono tutti presenti, un Divino del Tempio li guidò in una breve preghiera comune, poi li invitò a meditare sulle benedizioni racchiuse in quel cambio di stagione, mentre in tutta Taryoon si provvedeva a estinguere i fuochi invernali. A quel punto, vennero spente le candele e sul gruppo scesero il silenzio e una profonda oscurità.

Prostratosi sulla sua stuoia, con le braccia davanti a sé, Cazaril recitò mentalmente le due preghiere primaverili che conosceva, ripetendole tre volte ciascuna, poi lasciò i propri pensieri liberi di fluire, pensando che così, nella sua mente, sarebbe sceso il silenzio e allora forse avrebbe potuto sentire… che cosa?

Betriz lo aveva accusato di cambiare argomento quando gli risultava troppo difficile dare una risposta, e quella era una cosa che aveva cercato di fare anche con gli Dei. Ma non li aveva ingannati, proprio come non era riuscito a ingannare Betriz. A Ista era stata data la possibilità di annullare la maledizione, però aveva fallito, e sembrava che quel fallimento si fosse esteso a tutta la sua generazione. Ciò significava che se lui avesse fallito, non gli sarebbe stata data la possibilità di fare un secondo tentativo, che Iselle o Bergon, o forse entrambi, sarebbero diventati il nuovo Orico e avrebbero dovuto tenere a bada la marea sino ad affondare, creando in tal modo un’opportunità per la generazione seguente?

La loro immensa sfortuna sarà costituita dai figli.

Improvvisa, nitida e inconfutabile, quella consapevolezza affiorò nella mente di Cazaril. Tutto il piano di pace e di ordine che Iselle e Bergon stavano elaborando si basava sulla speranza di avere un Erede intelligente e forte che succedesse a entrambi, ma loro avrebbero finito per consumarsi nella disperazione di fronte ad aborti, figli morti, impazziti, esiliati, traditi…

Assalirei il cielo per te, se sapessi dove si trova.

Lui sapeva dove trovarli, sapeva che erano l’altra faccia di ogni persona, di ogni creatura vivente, vicini quanto potevano esserlo le due facce di una moneta o i due lati di una porta. Ogni anima vivente poteva essere un canale d’accesso per gli Dei. Mi chiedo cosa succederebbe se tutti aprissimo il nostro animo contemporaneamente, pensò. Il mondo verrebbe forse inondato dai miracoli, prosciugando i cieli? Cazaril immaginò che i santi fossero una specie di sistema d’irrigazione degli Dei, simile a quello che circondava Zagosur. Una razionale, attenta regolazione delle chiuse permetteva a ciascuna fattoria dell’anima di ricevere la sua giusta porzione di benefici. A lui, però, quell’immagine ricordava soprattutto un’onda di piena, tenuta a bada da una diga che si stava crepando.

Gli spettri erano esuli relegati sul lato sbagliato del confine, anime rivoltate come guanti… Ma perché la cosa non poteva funzionare anche nel senso opposto, perché non ci poteva essere un anti-spettro, in carne e ossa, libero nel mondo dello spirito? Una persona del genere sarebbe risultata invisibile alla maggior parte degli spiriti nonché impotente ad agire nello stesso modo in cui gli spettri erano invisibili agli occhi della maggior parte degli uomini? Se posso vedere gli spettri che sono stati disgiunti dal corpo, perché non riesco a vedere gli spiriti che risiedono ancora nel loro involucro fisico? si chiese. Poi si rese conto che non ci aveva mai provato.

Chiuse gli occhi e cercò di osservare con la vista interiore le persone che in quel momento stavano intorno a lui, ma i suoi sensi erano confusi dalla materia. Su una delle stuoie esterne, qualcuno cominciò a russare e venne svegliato da una gomitata inflitta da un compagno sogghignante. Rinunciando al tentativo, Cazaril si disse che, se avesse funzionato, sarebbe stato come affacciarsi a una finestra e contemplare il paradiso.

Se gli Dei vedevano l’anima delle persone, ma non il loro corpo, proprio come gli esseri umani potevano vedere l’involucro fisico e non lo spirito in esso racchiuso, si capiva perché fossero tanto indifferenti alle apparenze o alle funzioni fisiologiche e magari anche al dolore. Possibile che il dolore fosse soltanto un’illusione, dal loro punto di vista? Forse, il paradiso non era un luogo, ma soltanto un modo di vedere dotato di una prospettiva e di un’angolazione diverse. E, nel momento della morte, noi scivoliamo dall’altra parte, perdiamo l’ancoraggio alla materia per ottenere… che cosa? La morte creava una lacerazione tra i mondi. Una singola morte creava un piccolo squarcio, subito risanato… Di cosa c’era bisogno per aprirne uno più grande? Non un pertugio, ma un passaggio attraverso cui si potessero riversare i sacri eserciti? Se morisse un Dio, che sorta di squarcio si aprirebbe fra terra e cielo? E, a tal proposito, qual era la vera natura della benedizione-maledizione del Generale Dorato? Che sorta di portale aveva aperto per se stesso quel genio roknari, che sorta di canale era stato…

Il ventre rigonfio di Cazaril fu assalito da un crampo, e lui si girò leggermente di lato per alleviare il dolore, pensando che lui, da qualche tempo, era davvero un locus particolare, giacché due esuli del mondo dello spirito erano intrappolati nella sua carne: il demone, che non apparteneva al mondo terreno, e Dondo, che avrebbe dovuto abbandonarlo, ma vi era ancorato dai suoi peccati, per i quali non cercava remissione. No, Dondo non desiderava raggiungere gli Dei, era un agglomerato di volontà egocentrica, una sorta di piombo che lo appesantiva e che stava scavando nel suo corpo con artigli simili a ramponi. Se non fosse stato per Dondo, sarebbe fuggito da quella situazione. Potrei farlo? si chiese, e provò a supporre che quella letale àncora venisse rimossa all’improvviso… miracolosamente. Allora lui sarebbe stato libero di fuggire, ma, in tal caso, non avrebbe mai saputo come si era conclusa quella vicenda.

Quel Cazaril! Se solo avesse tenuto duro per un altro giorno, per un altro miglio, avrebbe potuto salvare il mondo… Invece si è arreso troppo presto… Ecco, quella sarebbe stata una forma di dannazione tale da far apparire un semplice, anche se bizzarro, divertimento la sorte di uno spettro rifiutato dagli Dei: una vita intera — un’eternità? — trascorsa nel dubbio. D’altro canto, l’unico modo per sapere come sarebbero andate le cose era percorrere la strada sino in fondo, e fino alla sua stessa distruzione. Per i cinque Dei… Devo proprio essere pazzo, perché, sull’onda di questa spaventosa curiosità, potrei percorrere zoppicando tutta la strada fino all’inferno del Bastardo, rifletté.

Sentiva il respiro dei suoi compagni di preghiera e un occasionale frusciare di abiti, sullo sfondo del gorgoglio della fontana, e quei suoni lo confortarono. Si sentiva molto solo, ma, se non altro, era in buona compagnia.

Benvenuto alla santità, Cazaril, pensò, ironico. In virtù della benedizione degli Dei, ora puoi ospitare miracoli! Il problema è che non puoi scegliere quali miracoli accogliere in te… Betriz aveva interpretato le cose esattamente al contrario: non si trattava di assalire i cieli, ma di lasciare che i cieli assalissero te. Un vecchio esperto di assedi poteva imparare ad arrendersi, ad aprire le proprie porte?

Alle vostre mani, o Signori della luce, affido la mia anima. Fate ciò che dovete per risanare il mondo. Io sono al vostro servizio, pregò.

Il cielo si andava rischiarando: il grigiore proprio del Padre dell’Inverno lasciava il posto all’azzurro intenso che era prerogativa della Figlia. Nel cortile ancora in ombra, Cazaril vide le sagome dei suoi compagni che cominciavano a tingersi di colori, dono della luce, e a proiettare tenui ombre, in quell’umida alba pervasa dell’intenso profumo dei fiori d’arancio e di quello più tenue dei capelli di Betriz. Sentendosi freddo e irrigidito, si sollevò infine sulle ginocchia.

In quel momento, in un punto imprecisato del palazzo, il grido rabbioso di un uomo fendette l’aria. Poi una donna urlò.

27

Appoggiandosi su una mano, Cazaril si alzò e spinse indietro la sopravveste per liberare l’elsa della spada, imitato dagli altri. Tutti si guardavano intorno con aria allarmata.

«Dy Tagille, va’ a vedere», ordinò Bergon, rivolgendo un cenno al compagno ibrano che annuì e si allontanò di corsa.

«Sarà meglio sbarrare le porte», suggerì dy Cembuer, che aveva ancora il braccio destro appeso al collo con una fascia. Poi liberò l’elsa della spada e si avviò per seguire l’altro nobile.

Cazaril lasciò correre lo sguardo per il cortile, osservando l’arcata di accesso, il cui cancello in ferro battuto era rimasto spalancato dopo il passaggio di dy Tagille, e chiedendosi se ci fossero altri ingressi.

«Royesse, Royse, Betriz… Non dovete rimanere intrappolati qui», disse, correndo per seguire dy Cembuer, col cuore che già gli martellava nel petto. Se solo fosse riuscito a portarli fuori di lì prima che…

Un paggio arrivò a precipizio proprio nel momento in cui dy Cembuer raggiungeva il cancello. «Signori, aiuto! Uomini armati hanno fatto irruzione nel palazzo!» gridò, guardandosi con terrore alle spalle.

In effetti, due uomini con la spada in pugno stavano sopraggiungendo di corsa sulla scia del paggio e dy Cembuer, che stava cercando di chiudere il cancello con la mano sinistra, impacciata dalla spada, riuscì a stento a schivare il primo colpo. Poi Cazaril si lanciò all’attacco con un fendente troppo affrettato e mal diretto, che il suo avversario parò. L’urto del metallo contro il metallo riecheggiò per tutto il cortile.

«Andate via!» urlò, da sopra la spalla. «Passate per i tetti, se necessario!» Fugacemente si chiese se Iselle sarebbe riuscita ad arrampicarsi, con indosso gli abiti di gala, ma non poté neppure girarsi per vedere se il suo ordine era stato seguito, perché il suo avversario si era ripreso e lo stava incalzando. Quei bravacci — o soldati o qualsiasi cosa fossero — indossavano abiti da comuni cittadini, senza colori o stemmi che li identificassero, probabilmente per infiltrarsi in città in piccoli gruppi, mescolandosi alla folla di quel giorno di festa.

Dy Cembuer attaccò un avversario, ma un violento colpo di risposta lo raggiunse al braccio rotto, con un impatto che lo fece impallidire e ricadere all’indietro con un grido soffocato. In quel momento, un soldato svoltò l’angolo e prese a correre verso l’arcata. Nel notare che portava i colori baociani, verde e nero, per un momento Cazaril provò un impeto di speranza… Ma poi riconobbe in lui il corrotto capitano delle guardie di Teidez. A quanto pareva, stava diventando sempre più esperto nell’arte del tradimento.

Nel vedere Cazaril, il capitano baociano ritrasse le labbra in un ringhio e serrò la spada con maggior determinazione, andando ad affiancarsi al compagno contro cui il Castillar già stava combattendo. Cazaril avrebbe voluto chiudere il cancello, ma non aveva né il tempo né le mani libere per farlo. Per di più, l’avversario di dy Cembuer era caduto attraverso la soglia, bloccandola. Cazaril, però, non osava neppure indietreggiare, perché quella strettoia costringeva gli avversari ad affrontarlo uno per volta, ed era il punto migliore per una difesa a oltranza. La mano gli si stava già intorpidendo per le vibrazioni che ogni impatto sulla lama trasmetteva all’impugnatura, e il ventre era contratto dai crampi, ma ogni suo respiro affannoso garantiva un altro passo alla fuga di Bergon, Iselle e Betriz. Un passo, due passi, cinque… Dov’era dy Tagille? Nove passi, undici… Quanti altri aggressori sarebbero giunti oltre a quelli? La sua lama staccò un pezzo di mascella al primo avversario, che barcollò all’indietro con un grido di dolore. Ma ciò permise al capitano di attaccare da un’angolazione migliore. Cazaril notò che aveva ancora al dito l’anello con lo smeraldo donatogli da Dondo, che scintillava a ogni movimento della spada. Quaranta passi, cinquanta…

Cazaril stava lottando in preda a un’esaltazione che nasceva dal terrore, così pressato dalla necessità di difendersi da non avere il tempo di riflettere sui pericoli sovrannaturali connessi, per esempio, a un affondo, in seguito al quale il demone della morte avrebbe potuto strappargli l’anima dal corpo e portarla via insieme con quella della sua vittima morente. Il suo mondo si era ristretto in modo sorprendente e lui non desiderava uscire vittorioso da quella giornata o da quello scontro, e neppure salvarsi la vita. Per lui contavano soltanto i passi dei suoi protetti in fuga, e ognuno di essi era una piccola vittoria. Sessanta passi… Accorgendosi che stava perdendo il conto, ricominciò da capo. Uno. Due. Tre…

Adesso probabilmente morirò, si disse. Morire due volte però non sarebbe servito ad annullare la maledizione, e ciò fece divampare nel suo animo una rabbia folle. Non posso morire abbastanza! Il suo braccio, ormai stanco, tremava: per difendere quel cancello ci sarebbe voluto uno spadaccino, non un segretario, ma la veglia privata della Royesse aveva coinvolto soltanto una manciata di nobili. Possibile che nessuno stesse arrivando alle sue spalle per dargli aiuto? Anche i servitori più anziani avrebbero potuto afferrare qualche oggetto e scagliarlo contro i nemici… Ventidue…

Prossimo allo sfinimento, Cazaril si chiese se non era il caso d’indietreggiare attraverso il cortile, e se i fuggiaschi avevano già salito le scale. La frenetica occhiata che si gettò alle spalle fu un errore, perché gli fece perdere il ritmo: con uno stridio metallico, la lama del baociano gli strappò la spada dalla mano ormai formicolante e la fece schizzare sulle pietre, dove prese a ruotare su se stessa. Poi il baociano gli assestò un violento spintone all’indietro, allontanandolo dall’arcata e facendolo cadere supino. Subito dopo, una mezza dozzina di uomini oltrepassò il portone, al seguito del capitano, sparpagliandosi per il cortile e, nel passare accanto a Cazaril, un paio di loro, più prudenti ed esperti, gli assestarono un calcio per accertarsi che non si rialzasse. La loro identità rimaneva ancora ignota, ma non c’erano dubbi su chi li avesse mandati.

Tossendo, Cazaril si girò su un fianco in tempo per vedere dy Jironal varcare a grandi passi il cancello, nella scia di un’altra mezza dozzina di uomini, e superare dy Cembuer che era ancora a terra, piegato su se stesso coi denti serrati per il dolore. Ma Iselle e Bergon si erano messi in salvo, risalendo magari una scala riservata alla servitù o passando per i tetti? Per gli Dei, bisognava soltanto sperare che non avessero ceduto al panico, barricandosi nelle loro stanze…

«Martou!» tuonò Cazaril, sollevandosi sulle ginocchia, scorgendo dy Jironal che si dirigeva verso le scale della galleria, dove un gruppetto dei suoi uomini lo stava aspettando.

«Tu!» esclamò dy Jironal, girandosi di scatto, come se fosse stato attaccato all’estremità di una fune. In risposta a quel movimento, il capitano baociano e un altro soldato afferrarono subito Cazaril per le braccia, piegandogliele dietro la schiena e alzandolo.

«Sei arrivato troppo tardi!» gridò Cazaril. «Il matrimonio è stato celebrato e consumato, e adesso non c’è modo di annullarlo. Chalion possiede Ibra, al prezzo più basso mai pagato, e tutta la nazione celebra questa fortuna. Iselle è la Figlia della Primavera, la delizia degli Dei, non puoi vincere contro di lei. Arrenditi! Salva la tua vita e quella dei tuoi uomini!»

«È sposata?» ringhiò dy Jironal. «Se necessario, la renderò vedova. È una pazza traditrice, la prostituta di Ibra, è maledetta e non intendo permetterle di continuare ciò che sta facendo!» Giratosi di scatto, tornò ad avanzare verso le scale.

«Sei tu la prostituta, Martou! Tu hai venduto Gotorget in cambio del denaro roknari che io avevo rifiutato, e hai venduto me come schiavo sulle galee per impedirmi di parlare!» urlò Cazaril, scoccando occhiate frenetiche ai soldati, che adesso esitavano. Dentro di sé, continuava a contare i passi. Cinquantacinque, cinquantasei, cinquantasette… «Questo bugiardo vende i suoi uomini. Seguitelo, e rischiate di essere traditi la prima volta che lui sentirà odore di profitto!»

Dy Jironal tornò a girarsi ed estrasse la spada. «Adesso ti chiuderò la bocca, miserabile stolto!» sibilò. «Tenetelo fermo.»

Un momento, no…

I due uomini che trattenevano Cazaril si spostarono leggermente di lato, sgranando gli occhi, nel vedere dy Jironal che avanzava roteando la spada per vibrare un possente fendente a due mani.

«Mio signore… è un assassinio», balbettò l’uomo che teneva Cazaril per il braccio sinistro. Poi lui e il compagno bloccarono il fendente inteso a decapitarlo.

Senza darsi per vinto, dy Jironal cambiò l’attacco a metà del movimento della spada, trasformandola in un basso e violento affondo cui impresse tutto il peso e la forza che gli venivano dalla sua ira.

L’acciaio trapassò il broccato di seta, la pelle e i muscoli, affondando nel ventre di Cazaril, che venne quasi sollevato da terra dalla violenza dell’impatto.

Tutt’intorno scese il silenzio. La spada stava scivolando nel suo corpo con la lentezza di una perla che affondasse nel miele, e in maniera altrettanto indolore. Davanti a lui, il volto arrossato di dy Jironal era immobilizzato in una maschera di furia, e gli uomini che lo trattenevano si tenevano discosti da lui, la bocca aperta in un muto grido di sorpresa.

Con un ululato di trionfo che soltanto Cazaril poté sentire, il demone della morte fluì lungo la lama della spada, lasciandola incandescente al suo passaggio, e raggiunse la mano di dy Jironal, seguito da una specie di melassa nera, ululante di angoscia, che era l’essenza di Dondo. Crepitanti scintille biancazzurre si diffusero intorno al braccio destro di dy Jironal, avviluppandolo come edera e risalendo poi ad avvolgere tutto il suo corpo. Lentamente, la testa di dy Jironal s’inclinò all’indietro. Quando l’anima venne strappata dal corpo, una voluta di fuoco bianco gli scaturì dalla bocca, mentre i capelli si rizzavano e gli occhi dilatati ribollivano di una luce bianca. La spada che lui ancora stringeva in pugno si mosse sotto il suo peso, facendo sfrigolare intorno alla propria lama la carne di Cazaril. Poi bianco, rosso e nero vorticarono sino a fondersi, sgorgando all’esterno senza una direzione particolare. Le percezioni di Cazaril vennero aspirate sulla scia di quel ciclone, verso l’alto e fuori del suo corpo, come una colonna di fumo. Tre anime e un demone, vincolati tra loro, giunsero così al cospetto di un’azzurra Presenza…

La mente di Cazaril sembrò esplodere.

Si ritrovò ad aprirsi sempre più verso l’esterno, fino ad avere l’impressione che il mondo giacesse sotto di lui, come visto dall’alto di una montagna. Quello non era però il regno della materia, bensì un panorama di sostanza spirituale, fatto di colori cui non riusciva a dare un nome e di una luminosità devastante, che lo stava sollevando in una gloriosa turbolenza. Sentiva le menti del mondo sussurrare in un sospiro, simile all’alito del vento che soffiasse in una foresta… ammesso di poter distinguere, simultaneamente e separatamente, il canto di ciascuna foglia. E poteva anche udire tutte le grida di dolore e di cordoglio, di vergogna e di gioia, percepire ogni speranza e aspirazione… Mille migliaia di momenti di mille migliaia di vite che si stavano riversando attraverso il suo spirito sempre più dilatato.

Dalla superficie che si stendeva sotto di lui, piccole bolle di colore stavano emergendo a una a una, fluttuando in una danza a spirale, a centinaia e poi a migliaia, simili a grandi gocce di pioggia dirette verso l’alto… Morire significa dunque riversarsi attraverso le lacerazioni del mondo in questo luogo. Le anime generate dalla sostanza terrena andavano incontro, morendo, a questa strana, nuova nascita. È troppo, troppo, troppo… La sua mente non riuscì a contenere tutto e le visioni esplosero, allontanandosi da lui come acqua che gli colasse tra le dita.

Un tempo, nelle sue incerte elucubrazioni giovanili, aveva pensato che la Signora della Primavera fosse una giovane donna attraente, e gli insegnamenti dei Divini e di Ordol non avevano sostanzialmente modificato quell’idea. Quella Mente, invece, ascoltava in contemporanea ogni grido e canto del mondo. Osservava le anime salire in una spirale in tutta la loro terribile, complessa bellezza, con la gioia di un giardiniere che respirasse il profumo dei suoi fiori. E adesso quella Mente stava rivolgendo la sua attenzione su di lui.

Cazaril si sciolse e si trovò racchiuso tra le sue mani, poi gli parve che lei bevesse il fluido che lui era diventato, staccandolo dalla catena formata dai fratelli dy Jironal e dal demone, che vennero proiettati altrove, mentre lui veniva soffiato fuori dalle labbra di lei e proiettato di nuovo, in una spirale sempre più stretta, attraverso la grande lacerazione nel tessuto del mondo che si era creata nel momento della sua morte, tornando nel proprio corpo nel momento in cui la lama di dy Jironal gli usciva infine dalla schiena, col sangue che fioriva intorno alla sua punta come i petali di una rosa.

E adesso mettiamoci all’opera, sussurrò la Signora. Apriti a me, dolce Cazaril.

Posso guardare? domandò lui, con voce tremula.

È permesso, almeno finché riuscirai a tollerarlo.

Cazaril si abbandonò, pervaso da una sorta di languore, mentre la Dea fluiva attraverso lui e nel mondo, poi le labbra gli s’incurvarono in un sorriso, o almeno cercarono di farlo, perché il suo corpo fisico era ancora rallentato nei movimenti al pari di quello degli altri uomini nel cortile. A tutti sembrò che soltanto in quell’istante lui si stesse accasciando sulle ginocchia. Davanti a lui, il cadavere di dy Jironal non era ancora crollato a terra, anche se, negli spasimi della morte, la sua mano aveva abbandonato la presa sulla spada. Poco lontano, dy Cembuer si stava sollevando sul braccio sano, la bocca aperta in un urlo che prima o poi sarebbe scaturito dalle sue labbra, suonando come «Cazaril!» e tutt’intorno gli uomini si stavano prostrando al suolo o si davano alla fuga.

Sotto i suoi occhi, la Dea trasse a sé la maledizione di Chalion, come se si fosse trattato di uno spesso filo di lana nera che Lei raggomitolò nelle mani, rimuovendola da Iselle e da Bergon, che si trovavano da qualche parte nelle strade di Taryoon, da Ista a Valenda e da Sara a Cardegoss, estraendola dalla terra di Chalion, da montagna a montagna, da fiume a pianura, senza però che Cazaril riuscisse a scorgere anche Orico in mezzo a quella nebbia scura. La Signora fece poi scorrere attraverso Cazaril quella sorta di lana nera, lo usò come un portale per fluire nell’altro regno, dove la sua oscurità scomparve ed essa diventò qualcosa di diverso… Cazaril non avrebbe saputo dire se un filo o un flusso di scintillante acqua limpida, di vino o di qualcosa di ancor più meraviglioso.

Un’altra Presenza, solenne e grigia, era in attesa e raccolse quel flusso, assorbendolo con un sospiro che esprimeva sollievo, completamento, equilibrio. Quello era il sangue di un Dio, versato, contaminato, assorbito, ripulito e finalmente restituito…

Non capisco. Ista si è sbagliata? Oppure ho sbagliato io a calcolare le mie morti? chiese Cazaril.

Pensaci bene… rise la Dea.

Poi quella vasta Presenza si riversò fuori del mondo, attraversandolo come un fiume che finisse in una cascata, accompagnata da una musica trionfante la cui bellezza, lui comprese con un senso di rammarico, non avrebbe potuto ricordare appieno finché non fosse giunto di nuovo nel suo regno. Infine, la grande lacerazione si chiuse, risanata e sigillata.

Bruscamente, tutto svanì.

Il tonfo delle pietre contro le sue ginocchia accompagnò il ritorno delle sensazioni fisiche, e lui lottò disperatamente per rimanere diritto, appoggiandosi all’indietro sui talloni, in modo da non spingere ulteriormente la spada attraverso il proprio corpo. Davanti a sé, vedeva l’elsa e una spanna di lama; il resto gli attraversava il torace con un’angolazione verso l’alto a partire dallo stomaco, appena sotto e a sinistra rispetto all’ombelico. Quanto alla punta, sembrava trovarsi da qualche parte, più in alto e sulla destra rispetto alla spina dorsale. E adesso stava sopraggiungendo il dolore.

Quando tentò di trarre un primo, tremante respiro, l’arma oscillò leggermente, e un odore di carne cauterizzata gli assalì le narici, insieme con un profumo celestiale, come di fiori primaverili. Sebbene cercasse di rimanere immobile, Cazaril prese a tremare, sconvolto, attraversato da un senso di gelo.

D’un tratto, si trovò a lottare contro l’assurdo bisogno di ridere, cosa che gli avrebbe fatto ancora più male. L’odore di carne bruciata non giungeva esclusivamente dal suo corpo. Il cadavere di dy Jironal era disteso davanti a lui, coi capelli e gli abiti che fumavano. Pur avendo già visto cadaveri carbonizzati, quella era la prima volta che Cazaril ne vedeva uno bruciato dall’interno.

Poi la sua attenzione fu attratta da un ciottolo accanto al suo ginocchio. Un oggetto così denso e costante… Gli Dei non potevano sollevare neppure una piuma ma lui, un semplice umano, poteva raccogliere quel ciottolo antico e immutabile e metterlo ovunque avesse voluto, perfino nella propria tasca. Si chiese come mai non avesse mai apprezzato prima la cocciuta tenacia della materia e, in quell’istante, scorse una foglia secca, la cui complessità era ancora più sconvolgente. La materia inventava forme, e continuava a generare bellezza al di là di se stessa. Era una fonte di stupore per gli Dei, ricordava se stessa con chiarezza assoluta. Com’era possibile che non se ne fosse mai accorto? Perfino la sua mano tremante era un miracolo, come lo erano la spada conficcata nel suo ventre, gli alberi di arancio nei vasi — uno dei quali si era rovesciato ed era meravigliosamente rotto, un misto di terra e cocci — e i vasi stessi, il canto degli uccelli al mattino e l’acqua… L’acqua! Per i cinque Dei, l’acqua della fontana, e la luce del mattino che filtrava dal cielo…

«Lord Cazaril?» chiamò una voce debole, che proveniva da un punto accanto al suo gomito.

Lanciando un’occhiata in quella direzione, Cazaril vide che dy Cembuer era riuscito a strisciare fino a lui.

«Cos’è successo?» domandò il nobile ibrano, prossimo alle lacrime.

«Abbiamo assistito ad alcuni miracoli», rispose Cazaril. Troppi miracoli in un posto solo e in un solo momento, tanti che ne era sopraffatto. Riempivano il suo sguardo ovunque lo volgesse.

Parlare fu un errore, perché le vibrazioni così prodotte ridestarono il dolore al ventre. Il fatto stesso che potesse parlare, tuttavia, indicava che la spada non gli aveva trapassato un polmone… Comunque non gli andava d’immaginarsi quanto gli avrebbe fatto male tossire e sputare sangue, in quello stato.

Allora è una ferita al ventre, pensò. Morirò entro tre giorni.

Già poteva avvertire un vago sentore di feci che si mescolava all’odore della carne bruciata e al profumo che la Dea si era lasciata alle spalle, e sentiva singhiozzi…

Eppure… quel lezzo di feci non proveniva dal suo corpo. Il capitano baociano, raggomitolato su un fianco a poca distanza da lui, le braccia strette intorno alla testa, stava piangendo, benché non sembrasse ferito. D’altro canto, era stato il testimone vivente più vicino, e la Dea, al suo passaggio, doveva averlo sfiorato.

Dopo un istante, Cazaril si azzardò a trarre un altro respiro. «Che cosa avete visto?» chiese a dy Cembuer.

«Quell’uomo… era dy Jironal?»

Con un movimento del capo appena percettìbile, Cazaril annuì.

«Quando vi ha trafitto, c’è stato un crepitio infernale, poi lui è esploso in lingue di fuoco azzurro. È… sono stati gli Dei ad abbatterlo?»

«Non proprio. È… una cosa più complicata…»

Notando che sul cortile era sceso uno strano silenzio, Cazaril si azzardò a girare la testa, scoprendo che una mezza dozzina dei bravacci di dy Jironal e alcuni servitori di Iselle erano distesi al suolo, alcuni intenti a borbottare, altri in pianto, come il capitano baociano. Gli altri erano scomparsi.

Cazaril cominciava a capire perché un uomo dovesse rinunciare per tre volte alla propria vita per compiere quel miracolo… e pensare che aveva giudicato arbitrario e cavilloso il comportamento degli Dei, ritenendo che stessero infliggendo agli uomini qualche arcana punizione! No, le prime due morti gli erano servite per esercitarsi! Nella prima, la fustigazione subita sulla galea, aveva imparato ad accettare la morte del corpo… No, non aveva sbagliato i calcoli: quando si era verificata quella morte, essa non si poteva considerare a beneficio della Casa di Chalion, però era diventata utile proprio a Chalion nel momento in cui il matrimonio tra Iselle e Bergon era stato consumato. La loro unione, che aveva ripartito in modo così orribile la presenza della maledizione, aveva ripartito anche i sacrifici. Era stata quella la dote segreta portata da Bergon, e Cazaril sperava soltanto di vivere abbastanza a lungo da riuscire a riferirglielo, perché era certo che gli avrebbe fatto piacere. La seconda accettazione, quella della morte dell’anima, era avvenuta in solitudine, con l’unica compagnia dei corvi della Torre di Fonsa. Così, quand’era giunta la morte definitiva, lui aveva potuto offrire alla Dea un collaboratore saldo e affidabile…

Un umile parallelismo che riguardava l’addestramento dei muli gli stava affiorando nella mente allorché un rumore di passi lo riscosse dai suoi pensieri. Nel sollevare lo sguardo, vide dy Tagille, affannato, in disordine, ma con la spada nel fodero, entrare di corsa nel cortile e precipitarsi verso di loro, per arrestarsi poi di colpo. «Per l’inferno del Bastardo», imprecò, quindi spostò lo sguardo sul suo compagno ibrano e domandò: «Tu stai bene, dy Cembuer?»

«Quei figli di cani mi hanno rotto di nuovo il braccio. È lui, quello nelle condizioni peggiori. Cosa succede là fuori?»

«Dy Baocia ha raccolto i suoi uomini e ha scacciato gli invasori dal palazzo. Per adesso è ancora tutto molto confuso, ma pare che i sopravvissuti stiano attraversando di corsa la città per arrivare al Tempio.»

«Decisi ad attaccarlo?» domandò dy Cembuer, in tono allarmato, lottando per rialzarsi.

«No, per arrendersi a uomini armati che non cerchino di farli a pezzi», spiegò dy Tagille. «Sembra che tutti i cittadini di Taryoon siano scesi in strada per dare loro la caccia, e le donne sono le peggiori. Per l’inferno del Bastardo», ripeté poi, fissando i resti fumanti di dy Jironal. «Alcuni soldati chalionesi stavano urlando e farfugliando di aver visto dy Jironal abbattuto da un lampo scaturito da un cielo limpido, per il sacrilegio di aver scatenato una battaglia nel Giorno della Figlia… e io non ci avevo creduto.»

«L’ho visto anch’io», affermò dy Cembuer. «C’è stato un fragore spaventoso, e lui non ha avuto neppure il tempo di gridare.»

Trascinato il cadavere un po’ più lontano, dy Tagille s’inginocchiò davanti a Cazaril, fissando con timore il suo stomaco trafitto e spostando poi lo sguardo sul suo volto. «Lord Cazaril, dobbiamo estrarre questa spada ed è meglio farlo subito», disse.

«No… aspettate…» ansimò Cazaril, che aveva visto un uomo trafitto da una quadrella di balestra sopravvivere per mezz’ora, finché la quadrella non era stata estratta, provocando un’emorragia che l’aveva ucciso quasi all’istante. «Prima voglio vedere Lady Betriz.»

«Mio signore, non potete restare li seduto con una spada in corpo!»

«Ecco, di certo non mi posso muovere…» obiettò Cazaril.

Lo sforzo di parlare gli provocò un ansito, il che non era un buon segno, e il gelo che lo pervadeva aumentò, strappandogli un brivido. D’altro canto, il dolore che avvertiva non era devastante come lui si era aspettato, forse perché era riuscito a rimanere del tutto immobile. E finché continuava a non muoversi, le fitte non erano peggiori dei crampi causatigli da Dondo.

Nel cortile giunsero altri uomini, accompagnati da un accavallarsi di voci, dalle grida dei feriti e da un ripetersi di storie che venivano riferite in toni sempre più acuti. Ignorando ogni cosa, Cazaril tornò a concentrarsi sul ciottolo, chiedendosi come fosse arrivato fin lì e cosa fosse stato prima di diventare un ciottolo… Una roccia? Una montagna? E dove? Quanti anni aveva impiegato a mutarsi in un ciottolo? Quella contemplazione gli riempiva la mente… E se un semplice ciottolo poteva assorbirlo a tal punto, che effetto avrebbe avuto su di lui una montagna? Gli Dei ospitavano nella loro mente le montagne, e tutto il resto, contemporaneamente, dedicando a ogni cosa la stessa attenzione che lui aveva per una cosa sola. Aveva avuto modo di vederlo, attraverso gli occhi della Signora, e se avesse sopportato quello spettacolo per più di una frazione infinitesimale di secondo, la sua anima sarebbe esplosa. Anche così, la sentiva stranamente estesa, e cominciava a chiedersi se quella fugace occhiata fosse stata un dono o soltanto un caso.

«Cazaril?»

Una voce tremula, quella che stava aspettando di sentire. Cazaril sollevò lo sguardo e scoprì che, se il ciottolo era affascinante, il volto di Betriz era stupefacente. Sarebbe rimasto ore intere ad ammirare la struttura del suo naso… Si disinteressò all’istante del ciottolo, concentrandosi su quella cosa splendida. Poi però notò le gocce trasparenti che colmavano gli occhi castani della dama e il pallore del volto. La cosa peggiore, tuttavia, era che le sue fossette sembravano scomparse. «Eccoti qui», mormorò, con voce roca ma felice. «Baciami subito.»

Deglutendo a fatica, Betriz s’inginocchiò, avanzò verso di lui sulle ginocchia e protese il collo. Il profumo delle sue labbra non aveva nulla a che vedere con quello della Dea, ma era molto gradevole. Quelle labbra erano poi così calde che lui vi premette contro le proprie, gelate, per attingere al calore e alla giovinezza che emanavano. Aveva nuotato nei miracoli ogni giorno della sua vita e non se n’era neppure reso conto. «D’accordo», disse, ritraendo la testa. Non aggiunse: «Così è sufficiente», perché non lo era affatto. «Ora potete estrarre la spada», ordinò.

Alcuni uomini gli si accalcarono intorno, per lo più sconosciuti dall’aria preoccupata. Asciugandosi gli occhi, Betriz cercò di assestargli la tunica, poi si alzò e gli rimase accanto, mentre qualcuno afferrava le spalle di Cazaril, un paggio teneva pronto un tampone di stoffa da premere sulla ferita, e qualcun altro si preparava a porgere delle bende per fasciargli il torso.

D’un tratto, lui si guardò intorno con aria incerta. Se Betriz era lì, voleva dire che c’era anche Iselle, però… «Iselle? Bergon?» domandò.

«Sono qui, Lord Caz», rispose la voce di Iselle, che proveniva da un punto al suo fianco. Lei si spostò in modo da mettersi di fronte a lui e rimase a guardarlo con sgomento. Nel corso della fuga si era liberata della pesante sopravveste e sembrava ancora un po’ affannata, però, oltre alla sopravveste, aveva perso anche il nero mantello della maledizione… oppure no? La sua seconda vista cominciava a oscurarsi, però, alla fine, Cazaril fu certo che esso non c’era più.

«Bergon è con mio zio», continuò Iselle, con voce salda, nonostante le lacrime che le rigavano il volto. «Lo sta aiutando a spazzare via gli uomini di dy Jironal.»

«L’ombra nera è stata rimossa… da voi, da Bergon, da tutti», disse Cazaril.

«Come?»

«Se sopravvivrò, ne parleremo.»

«Cazaril!»

La familiare, esasperata cadenza con cui era stato pronunciato il suo nome gli strappò un sorriso.

«In tal caso, dovrete vivere!» esclamò Iselle, con un tremito nella voce. «Io… ve lo ordino.»

Dy Tagille s’inginocchiò davanti a Cazaril, che gli rivolse un secco cenno del capo. «Estraila», sussurrò.

«Tiratela senza inclinarla e senza dare strattoni, Lord dy Tagille, in modo da non aggravare la ferita», lo ammonì Iselle.

«Sì, mia signora», rispose dy Tagille, umettandosi le labbra per la tensione, e afferrò l’impugnatura dell’arma.

«Con cautela, certo, ma fate in fretta, per favore…» mormorò Cazaril.

La lama gli uscì dal corpo, accompagnata da un fiotto di liquido caldo. Cazaril si era augurato di svenire, ma barcollò soltanto, mentre i tamponi venivano applicati con decisione sulle due ferite, al ventre e alla schiena. Quando abbassò lo sguardo, aspettandosi di vedere il proprio grembo rosso di sangue, scorse invece un liquido limpido appena sfumato di rosa. Evidentemente la spada aveva trapassato il tumore… il quale non conteneva affatto una sorta di grottesco feto demoniaco. Che il Bastardo si portasse via Rojeras per avergli messo in mente un’idea tanto spaventosa!

Dalle persone intorno a lui si levò un mormorio di stupore: quel liquido aveva un profumo di fiori.

Cazaril si abbandonò tra le braccia dei suoi soccorritori, ma, prima che numerose mani lo sollevassero e lo trasportassero nella sua stanza, riuscì a raccogliere il ciottolo. Intorno a sé avvertiva soltanto agitazione e paura… Lui invece si sentiva deliziosamente rilassato e trovava meraviglioso essere accudito in quel modo. Nel momento in cui lo sistemarono nel letto, Betriz gli prese la mano. Lui la serrò nella propria e non la lasciò più.

28

Un lieve bussare alla porta della stanza e alcune voci basse riscossero Cazaril, rivelandogli che la stanza era buia, con un’unica candela che cercava di respingere l’oscurità, segno che era ormai scesa la notte.

«Sta dormendo, Roy… Royina», sentì mormorare al medico, rimasto seduto al suo capezzale.

«No, sono sveglio. Entrate», disse Cazaril. Tentò di puntellare le braccia per sollevarsi a sedere, ma poi ci ripensò, limitandosi ad aggiungere: «E fate più luce, molta più luce. Voglio vedervi bene».

Una piccola folla entrò nella sua stanza, cercando di procedere in silenzio e con delicatezza, come partecipanti a un corteo colti da un’improvvisa timidezza collettiva. C’erano Iselle e Bergon, seguiti da Betriz e da Palli, e l’Arcidivino di Taryoon, insieme col piccolo giudice votato al servizio del Padre. Dal suo paradiso orizzontale di lenzuola pulite e d’immobilità, Cazaril sorrise amabilmente a tutti, mentre altre candele venivano accostate a quella già accesa e disposte all’intorno.

«Come sta?» sussurrò Bergon con voce roca, rivolto al medico, guardando con apprensione Cazaril.

«In precedenza, ha perso molto sangue urinando, ma stanotte l’emorragia è stata più lieve e non è ancora insorta la febbre. Per ora, non oso permettergli d’inghiottire più di qualche sorso di tè, e così sarà almeno fino a quando non avremo visto come si evolve la ferita al ventre. Non ho idea di quanto stia soffrendo.»

«Mi fa male, non ne dubitate», intervenne Cazaril. Poi fece un altro tentativo di sollevarsi, sussultò e protestò: «Mi vorrei sedere. Non vi posso guardare così dal basso in alto. Devo parlarvi».

Palli e Bergon si affrettarono a sollevarlo con delicatezza, ammucchiandogli i cuscini dietro la schiena.

«Vi ringrazio», disse Iselle al medico che s’inchinò e si trasse in disparte.

«Cos’è successo?» domandò Cazaril, appoggiandosi ai cuscini con un sospiro soddisfatto. «Taryoon è sotto attacco? E non mi parlate sussurrando, come se questo fosse un funerale.»

«Sono successe molte cose», replicò Iselle con un sorriso, riportando la voce a un timbro normale. «Dy Jironal aveva ordinato ai suoi uomini di avanzare il più in fretta possibile sia da Thistan, sede di suo genero, sia da Valenda, per seguire e sostenere le spie e i rapitori che avrebbe infiltrato in città durante la festa. La scorsa notte, la colonna proveniente da Valenda ha incontrato la delegazione incaricata di portare la nostra lettera a Cardegoss, a Orico, e l’ha catturata.»

«Sono tutti vivi, vero?» volle sapere Cazaril, allarmato.

«C’è stato uno scontro, ma nessuno è rimasto ucciso, grazie agli Dei. Una volta al campo, sembra proprio che ci siano state lunghe discussioni…»

Cazaril non ne dubitò neppure per un istante, dato che aveva incaricato di quell’ambasciata gli uomini più ragionevoli e persuasivi di Taryoon.

«Più tardi, nel pomeriggio, abbiamo mandato incontro alle truppe alcune squadre, incaricate di contrattare, nelle quali abbiamo incluso alcuni degli uomini di dy Jironal che, avendo assistito allo scontro nel cortile, erano stati testimoni del… miracoloso fuoco azzurro, o qualsiasi cosa fosse, che lo aveva ucciso, perché spiegassero l’accaduto. Quegli uomini hanno pianto e farfugliato parecchio, ma sono stati molto convincenti. Cazaril, cos’è davvero… Oh, inoltre dicono che Orico è morto.»

Lo sapevo, pensò Cazaril con un sospiro. «Quando?» chiese.

«C’è una certa confusione al riguardo», rispose l’Arcidivino di Taryoon. «Questo pomeriggio, un corriere del Tempio mi ha portato una lettera dell’Arcidivino Mendenal di Cardegoss, in cui si sostiene che Orico è morto la notte successiva alle nozze della Royesse… della Royina. Secondo gli uomini di dy Jironal, invece, Orico è morto la notte precedente a quella. È un’informazione che hanno avuto dallo stesso dy Jironal e che renderebbe quest’ultimo il legittimo reggente di Chalion. Suppongo che il Cancelliere stesse mentendo, ma credo che non abbia più importanza.»

Però ne avrebbe avuta, se gli eventi avessero preso una piega diversa… Incuriosito, Cazaril assunse un’aria pensosa, mentre valutava le diverse ipotesi.

«In ogni caso, la notizia della sorprendente morte di dy Jironal, nonché del fallimento e della cattura dei loro compagni, unita alla consapevolezza di marciare contro la legittima Royina, ha fatto sì che le truppe si disperdessero», intervenne Bergon. «Adesso gli uomini stanno tornando a casa. Ho sovrinteso io stesso alla cosa.» In effetti, era coperto di fango, ma con gli occhi che scintillavano per la gioia del successo… e per il sollievo.

«Credi che la tregua reggerà?» domandò Cazaril. «Dy Jironal teneva le fila di una considerevole rete di potere e di relazioni, e gli interessi delle persone che la componevano sono tuttora esposti a un notevole rischio.»

Palli fu pronto a scuotere il capo. «Adesso non hanno più il sostegno delle truppe dell’Ordine del Figlio, che è privo del suo generale», replicò con un grugnito. «Ma la cosa peggiore è la certezza — pressoché assoluta — che il comando di quell’Ordine passerà a qualcuno che non appartiene alla loro fazione. Credo che i fedeli a dy Jironal dovranno agire con cautela.»

«Il Provincar della Thistan ci ha già mandato una lettera di sottomissione», intervenne Iselle. «È appena arrivata e sembra stilata in gran fretta. Aspetteremo ancora un giorno, per essere certi che la strada sia sgombra e per rendere grazie agli Dei nel Tempio di Taryoon, poi Bergon e io andremo a Cardegoss con un contingente della cavalleria di mio zio, per il funerale di Orico e la mia incoronazione. Temo però che vi dovremo lasciare qui, Lord Caz…» E smise di sorridere.

Cazaril lanciò un’occhiata a Betriz, che lo stava scrutando con occhi incupiti dalla preoccupazione, consapevole che lei, essendo la prima cortigiana di Iselle, avrebbe dovuto seguirla ovunque.

«Non parlate, se vi causa troppo dolore, però… Cazaril, che cos’è successo nel cortile?» continuò Iselle. «La Figlia ha davvero colpito e ucciso dy Jironal con un fulmine a ciel sereno?»

«Devo ammettere che il suo corpo dava questa impressione», commentò Bergon. «Era completamente… cotto. Non avevo mai visto una cosa del genere.»

«Questa è una versione convincente, e potrà andare bene per gli altri», replicò lentamente Cazaril. «Però voi avete il diritto di conoscere la verità… Ecco, credo soltanto che non debba essere divulgata…»

Con poche parole pacate, Iselle ordinò al medico di lasciare la stanza, poi scoccò un’occhiata incuriosita all’ometto nelle vesti di giudice. «E questo gentiluomo, Cazaril?» domandò.

«L’Onorevole Paginine è… Diciamo che è un mio compagno e dovrebbe rimanere, come pure l’Arcidivino.»

Nel contemplare quel suo piccolo pubblico, raccolto intorno al letto e intento a fissarlo con una certa ansia, Cazaril si rese conto che Paginine, l’Arcidivino e Palli ignoravano il preambolo relativo a Dondo e al demone della morte, per cui si trovò costretto a partire da quegli antefatti, cercando di essere il più succinto possibile senza sacrificare la chiarezza, e augurandosi di mantenere almeno una certa coerenza e di non dare l’impressione di vaneggiare.

«L’Arcidivino Mendenal di Cardegoss conosce tutta questa storia», garantì all’Arcidivino e al giudice, che lo stavano fissando con aria sconvolta; quanto a Palli, la sua espressione esprimeva nel contempo stupore e indignazione, e Cazaril, con aria alquanto colpevole, evitò d’incontrare il suo sguardo. «Quando però dy Jironal ha ordinato ai suoi uomini di tenermi fermo, disarmato com’ero, e mi ha trapassato con la spada… quando mi ha assassinato, il demone della morte ci ha portati via tutti, in una squilibrata confusione di assassini e di vittime. Per meglio dire, il demone ha portato via i due dy Jironal, però la mia anima era collegata alla loro e li ha seguiti. Quello che ho visto allora… la Dea…» Per un momento, la voce gli si spense, poi riprese: «Non so come fare per esprimere quell’universo a parole, perché non ne esistono di adeguate. Se pure conoscessi tutti i vocaboli di tutte le lingue del mondo, presenti, passati e futuri, e se pure parlassi sino alla fine dei tempi, comunque non potrei…»

Interrompendosi ancora, rabbrividì, e scoprì di avere gli occhi offuscati di lacrime.

«Però non eri realmente morto, vero?» domandò Palli, a disagio.

«Oh, sì, per un poco lo sono stato… sebbene, da una certa angolazione, quel ’poco’ sia invece ’molto’», rispose Cazaril. «Se non fossi morto davvero, non avrei potuto lacerare la barriera tra i mondi e la Dea non sarebbe passata per recuperare la maledizione che, per come posso descriverla, era in effetti una goccia del sangue del Padre dell’Inverno, anche se non ho idea di come abbia fatto il Generale Dorato a ricevere un simile dono. In ogni caso, la mia è soltanto una metafora. Mi dispiace, ma non so come spiegare quello che ho visto: parlarne è come cercare d’intrecciare un canestro d’ombra con cui trasportare dell’acqua», aggiunse, pensando che, dopotutto, le loro erano anime assetate. «La Signora della Primavera mi ha permesso di guardare attraverso i suoi occhi e, per quanto creda che la seconda vista mi sia stata tolta, adesso la vista fisica non funziona esattamente come prima…»

L’Arcidivino si segnò con reverenza, mentre Paginine si schiariva la gola per dire: «In effetti, mio signore, non emanate più quella grande luce accecante».

«Non la emano più? Oh, bene!» esclamò Cazaril. Poi, in tono ansioso, domandò: «Ma anche il mantello nero che avvolgeva Iselle e Bergon è scomparso, vero?»

«Sì, mio signore. Royse, Royina, vi informo con piacere che l’ombra sembra completamente svanita.»

«Allora va tutto bene. Dei, demoni, spettri, tutto quanto è scomparso, e in me ora non c’è più nulla di strano», commentò allegramente Cazaril.

«Io non mi spingerei ad affermare una cosa del genere, mio signore», mormorò Paginine, con una strana espressione.

«Però lui sta dicendo la verità, non è così?» sussurrò l’Arcidivino, assestando una gomitata a Paginine. «Per quanto possa sembrare assurda…»

«Oh, sì, Vostra Reverenza, non ho dubbi in proposito», garantì il piccolo giudice, ma lo sguardo che scoccò a Cazaril espresse molta più comprensione di quello dell’Arcidivino, che appariva sconcertato e sopraffatto, colmo di timore reverenziale.

«Domani, Bergon e io ci recheremo al Tempio in processione di ringraziamento, camminando scalzi in segno di gratitudine verso gli Dei», annunciò Iselle.

«Oh. Allora state attenti a non camminare su un pezzo di vetro o un vecchio chiodo», li ammonì Cazaril, con voce un po’ impastata. La sua mano si spostò sul copriletto fino a trovare quella di Betriz, e lui aggiunse, rivolto a lei soltanto: «Sai, adesso non sono più infestato, e questo mi toglie un peso dalla mente. Queste cose sono decisamente liberatorie, per un uomo…» La sua voce stava diventando sempre più fievole. Accorgendosene, Betriz girò la propria mano in quella di lui e la strinse.

«Adesso è meglio che ce ne andiamo e vi lasciamo riposare», decise Iselle, accigliandosi. «C’è qualcosa che desiderate, Cazaril? Qualsiasi cosa.»

Lui stava per replicare che non gli serviva nulla, ma poi cambiò idea. «Oh, sì… Vorrei della musica.»

«Della musica?»

«Magari molto pacata, che gli concili il sonno», suggerì Betriz.

«Se non ti dispiace, Lady Betriz, provvedi a convocare un musico», sorrise Bergon.

Poi la piccola folla se ne andò, in punta di piedi, ma tutt’altro che silenziosamente. Il medico rientrò e fece bere a Cazaril un po’ di tè. Poco dopo, Cazaril usò il pitale e il medico esaminò la sua urina — che era mista a sangue — alla luce delle candele, con fare sospettoso e con una sorta di ringhio basso e sconcertante.

Dopo qualche tempo, Betriz tornò con un giovane suonatore di liuto dall’aria nervosa. Sembrava che l’avessero destato da un sonno profondo per soddisfare quella richiesta di un’esibizione notturna.

Accordato lo strumento, il giovane eseguì sette brevi brani, nessuno dei quali ebbe il potere di evocare la Signora e i suoi fiori dell’anima; l’ottavo brano, però, un contrappunto di una dolcezza incredibile, parve racchiudere nelle proprie note una vaga eco del paradiso. Cazaril lo fece eseguire altre due volte e infine versò qualche lacrima, al che Betriz decise che lui aveva davvero bisogno di dormire. Per cui congedò il musico, uscendo insieme con lui.

Cazaril si rese conto che non aveva ancora avuto modo di parlarle del miracolo rappresentato dal suo naso. Quando cercò di spiegare la cosa al medico, questi reagì somministrandogli un grosso cucchiaio di sciroppo di succo di papavero. Da quel momento, cessarono entrambi di allarmarsi a vicenda per il resto della notte.

Nell’arco di tre giorni, quello strano fluido profumato smise di colare dalle ferite, che si chiusero senza infezioni, e il medico permise a Cazaril di mangiare a colazione un po’ di farinata d’avena molto liquida. Quel nutrimento, per quanto leggero, lo rimise abbastanza in forze e lui chiese il permesso di uscire a sedersi in cortile, sotto il sole primaverile. Accompagnato da una quantità eccessiva di servitori e aiutanti, Cazaril venne scortato lungo le scale e sistemato su una sedia coperta di cuscini rivestiti di lana e imbottiti di piume, coi piedi appoggiati a un’altra sedia dotata di cuscini. Allontanati i suoi assistenti, Cazaril si abbandonò allora con piacere all’ozio più assoluto, ascoltando il rilassante gorgogliare della fontana e contemplando i fiori fragranti di cui erano ammantati gli alberi nei vasi. Poco lontano, un paio di uccellini arancioni e neri solcavano l’aria, trasportando erba secca e ramoscelli con cui costruire un nido, sistemato in uno degli intagli delle colonne di sostegno della galleria. Cazaril si perse a osservare le loro manovre, del tutto dimentico del mucchietto di fogli di carta e delle penne sistemati su un tavolinetto, accanto a lui.

Da quando gli ospiti reali e il loro seguito di nobili si erano trasferiti a Cardegoss, il palazzo di dy Baocia si era fatto molto tranquillo e silenzioso. Cazaril sorrise con piacere nel vedere il cancello di ferro battuto dell’arcata d’ingresso che si apriva per far passare Palli, cui la nuova Royina aveva assegnato il noioso compito di sovrintendere alla convalescenza del suo segretario, mentre lei era impegnata coi grandi eventi della capitale. Quell’incarico sembrava a Cazaril un’iniqua ricompensa per i fedeli e coraggiosi servigi resi da Palli, ma, d’altro canto, l’amico lo aveva assistito con tanta cura che, a volte, Cazaril si sentiva perfino in colpa per aver desiderato, senza rivelarlo, che Iselle lasciasse presso di lui Lady Betriz.

Sorridendo, Palli gli rivolse un cenno di saluto e si sedette sul bordo della fontana. «Castillar, hai un aspetto davvero migliore, decisamente molto… verticale!» commentò, poi, indicando il tavolo, aggiunse: «Ma cos’è questo lavoro? Ieri, quando sono partite, le tue dame mi hanno ordinato di accertarmi che tu rispettassi una lunga lista di cose da non fare. Anche se ne ho già dimenticata la maggior parte — cosa che senza dubbio ti farà piacere -, sono certo che il lavoro occupasse uno dei primi posti di quell’elenco.»

«Non si tratta di lavoro», spiegò Cazaril. «Volevo comporre una poesia nello stile di Behar, poi ho notato quegli uccellini… Guarda, eccone uno!» esclamò, soffermandosi per indicare una piccola saetta nera e arancione. «La gente sostiene che gli uccelli sono abilissimi costruttori, ma, a dire il vero, questi due mi sembrano piuttosto goffi, anche se testardi… Forse sono giovani, e questo è il loro primo tentativo. D’altro canto, suppongo che, se cercassi di costruire una capanna servendomi soltanto della bocca, non me la caverei meglio di loro. Forse dovrei scrivere un poema sugli uccelli. Se è miracoloso che la materia si possa alzare e camminare, come fai tu, è decisamente ancor più miracoloso che riesca a volare!»

«Si tratta di poesia, Caz, oppure hai la febbre?» domandò Palli, con un sorriso sconcertato.

«Oh, la poesia è una specie di grande infezione. Gli Dei traggono diletto dalla poesia, sai, perché canti e poesia sono fatti della stessa sostanza dell’anima, possono passare nel loro mondo quasi senza incontrare ostacoli. Gli scultori, invece… Ecco, perfino gli Dei nutrono un’ammirazione reverenziale per gli scultori», dichiarò Cazaril, ricambiando il sorriso, gli occhi socchiusi per difendersi dal sole.

«In ogni caso, non posso fare a meno di pensare che la quartina che hai composto ieri, ispirata al naso di Lady Betriz, sia stato un errore… tattico», mormorò Palli.

«Non mi stavo facendo beffe di lei!» protestò Cazaril, indignato. «Quand’è partita era ancora infuriata con me?»

«No, non era infuriata. Si era convinta che tu avessi la febbre ed era molto preoccupata. Se fossi in te, mi atterrei a questa versione.»

«Non riesco ancora a scrivere un poema su tutta la sua persona. Ci ho provato, ma è un’impresa troppo vasta.»

«Ecco, se proprio devi scrivere un inno a una parte del suo corpo, scegli le labbra. Sono più romantiche del naso.»

«Perché?» domandò Cazaril. «Ogni parte del suo corpo non è forse stupefacente?»

«Certo, ma si baciano le labbra, non i nasi… almeno di norma. Gli uomini scrivono poemi sull’oggetto dei loro desideri in modo da attirarlo a sé.»

«Davvero pratico, ma in tal caso ci sarebbe da aspettarsi che si componessero poemi sulle parti intime delle dame.»

«Le dame ci prenderebbero a schiaffi. Le labbra sono un compromesso sicuro, una soglia a misteri più grandi.»

«Ah! In ogni caso, io la desidero tutta… naso, labbra, piedi e tutto quello che c’è nel mezzo, come pure la sua anima, senza la quale il suo corpo sarebbe immoto e freddo come l’argilla e comincerebbe a marcire, cessando di essere oggetto di desiderio.»

«Ah!» gemette Palli, passandosi una mano tra i capelli. «Amico mio, tu non capisci il romanticismo.»

«Ti garantisco che non capisco più nulla. Sono gloriosamente sconcertato da tutto», dichiarò Cazaril, abbandonandosi contro i cuscini con una sommessa risata.

Sbuffando, Palli si protese in avanti per prendere il primo foglio del mucchio, l’unico su cui era stato scritto qualcosa e, nell’abbassare lo sguardo su di esso, inarcò di scatto le sopracciglia. «Cos’è questo? Non parla di nasi femminili», osservò, facendosi d’un tratto serio. «A dire il vero, non capisco neppure di cosa parli, anche se mi fa venire la pelle d’oca…»

«Oh, quello. Temo che non sia nulla di valido. Stavo cercando… Ma non è… quello che ho visto», spiegò Cazaril, agitando le mani. «Ho creduto che, in poesia, le parole potessero avere un peso diverso, esistere su entrambi i lati della barriera che separa i mondi, come accade alle persone, ma finora ho soltanto sporcato un po’ di carta, diventata buona solo per accendere il fuoco.»

«Hmm…» Palli ripiegò il foglio e lo ripose nella propria sopravveste.

«Proverò ancora e forse un giorno riuscirò a trovare la formula giusta», sospirò Cazaril. «Devo scrivere anche alcuni inni alla materia, agli uccelli e alle pietre. Credo che farebbe piacere alla Signora.»

«Per attirarla a te?» domandò Palli, interdetto.

«È possibile.»

«Questo genere di poesia è pericolosa. Quanto a me, credo che mi limiterò all’azione.»

«Sta’ attento, mio caro Lord Devoto», ammonì Cazaril, con un sorriso. «Anche l’azione può essere una forma di preghiera.» Alcuni sussurri e risatine soffocate che provenivano dall’estremità della galleria lo indussero a sollevare lo sguardo: un gruppetto di serve e qualche ragazzo stavano accoccolati dietro la ringhiera intagliata e sbirciavano nella sua direzione. Quando anche Palli si girò a guardare, una delle ragazze si alzò baldanzosamente, facendo un cenno di saluto. Dopo il cordiale cenno di risposta di Cazaril, però, quel gruppetto si allontanò di corsa, ridacchiando. «È tutta la mattina che arriva gente a vedere il punto in cui il povero dy Jironal è stato abbattuto dal fulmine», spiegò lui. «Se non starà attento, Lord dy Baocia dovrà trasformare questo accogliente cortile in un santuario.»

«A dire il vero, Caz, quella gente viene per vedere te», precisò Palli, schiarendosi la voce. «Un paio di servitori di dy Baocia si fanno pagare per lasciar entrare e uscire i curiosi dal palazzo. Non sapevo se porre fine alla cosa, ma se t’infastidisce…» aggiunse, cambiando posizione, come se intendesse alzarsi.

«Oh, no, non li disturbare. A causa mia, i servitori di questo palazzo hanno dovuto lavorare molto di più… È giusto che ne ricavino un po’ di profitto.»

Palli scrollò le spalle in segno di assenso, poi chiese: «Sei proprio certo di non avere la febbre?»

«All’inizio non ne ero sicuro, ma alla fine anche il medico si è convinto che stavo bene e mi ha permesso di mangiare, per quanto non ancora abbastanza. Penso di essere in via di guarigione.»

«Il che costituisce già di per sé un miracolo.»

«Infatti. Devo però ammettere di non sapere con certezza se rimettermi in questo mondo sia stato un dono di commiato da parte della Signora oppure se si sia trattato di soddisfare una sua esigenza, cioè avere qualcuno da questa parte che le tenesse aperta la porta. Gli Dei sono parsimoniosi, come dice Ordol… Ebbene, comunque sia, non ha importanza, perché in ogni caso un giorno senza dubbio ci rivedremo», disse Cazaril, appoggiandosi all’indietro per fissare il cielo, tinto dell’intenso colore azzurro sacro alla Signora, con un sorriso sulle labbra.

«Sai, Caz, tu eri la persona più sobria e compassata che avessi mai conosciuto, invece adesso sorridi di continuo. Sei certo che la Dea abbia rimesso a posto la tua anima nel modo giusto?»

«Forse no!» replicò Cazaril, scoppiando in una risata. «Hai presente quello che succede quando si parte per un viaggio? Si ripongono tutte le proprie cose nelle sacche della sella e, alla fine del viaggio, sembra che siano raddoppiate di volume e pendono fuori da ogni parte, anche se si è certi di non aver aggiunto nulla…» Si batté un colpetto sulla coscia. «Be’, forse non sono stato riposto in questa vecchia custodia in modo… ordinato.»

«E così adesso trasudi poesia, eh?» commentò Palli, perplesso, scuotendo il capo.

Altri dieci giorni di convalescenza non furono sufficienti a rendere Cazaril inquieto per quel riposo forzato. L’unica cosa sgradevole era l’assenza delle persone che lui desiderava avere accanto. Alla fine, però, la nostalgia ebbe la meglio sul terribile pensiero di montare di nuovo a cavallo. Incaricò dunque Palli di organizzare il viaggio, rintuzzando con facilità le sue deboli proteste relative al fatto che, nelle sue condizioni, sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’, prima di muoversi. In realtà, Palli, come lui, era ansioso di vedere come stessero procedendo le cose a Cardegoss.

Cazaril e la sua scorta, che comprendeva i fedelissimi Ferda e Foix, si misero in viaggio. Il clima mite e il passo rilassato rendevano quel viaggio l’esatto opposto della strenua, frenetica cavalcata che avevano dovuto compiere nel corso dell’inverno appena trascorso. Ogni sera, mentre lo aiutavano a scendere di sella, Cazaril giurava a se stesso che il giorno successivo avrebbero mantenuto un’andatura più pacata, ma ogni mattina si scopriva sempre più impaziente di stringere i tempi. Finalmente, lo Zangre apparve di nuovo davanti ai suoi occhi, sullo sfondo di lanuginose nuvole bianche, del cielo azzurro e dei campi verdeggianti.

Si trovavano a parecchie miglia da Cardegoss, quando incontrarono un altro gruppo di viandanti, che indossavano la livrea del Provincar della Labran e scortavano tre carretti nonché una lunga colonna di muli da soma e di servitori. I primi due carretti erano carichi di bagagli mentre il terzo, col telo di copertura sollevato per poter ammirare il panorama primaverile, trasportava numerose dame.

Quando i due gruppi s’incrociarono, il carretto che trasportava le dame si arrestò sul lato della strada e una serva si protese per chiamare uno dei cavalieri dell’avanguardia, un sergente, il quale, dopo aver parlato con lei, si diresse verso Palli e Cazaril con un gesto di saluto.

«Scusate, signori… Se uno di voi è il Castillar dy Cazaril, allora la mia signora, la Royina Vedova Sara, gli ordina… lo prega di andare a parlare con lei.»

Ricordando che il Provincar della Labran era nipote della Royina Sara, Cazaril dedusse che lei, per scelta o per imposizione esterna, stesse tornando presso la sua famiglia. «Sono al servizio della Royina», rispose, ricambiando il saluto.

Foix lo aiutò a smontare di sella, i gradini vennero abbassati sul retro del carretto e le dame di compagnia e le serve scesero per passeggiare nei campi a maggese e ammirare i fiori primaverili, lasciando Sara sola sotto l’ombra del telone.

«Accomodatevi, Castillar», mormorò, a titolo di saluto. «Sono lieta di questo incontro casuale. Potete dedicarmi un po’ del vostro tempo?»

«Ne sarei onorato, signora», rispose Cazaril, abbassando la testa per salire sul carro senza urtare il telone e sedendosi su una panca imbottita, di fronte alla Royina.

Intorno a loro, la colonna dei muli stava proseguendo la marcia con passo lento e, a quella scena pacifica, faceva da sfondo un piacevole mormorio, in cui si fondevano il canto degli uccelli e il sussurrare delle voci, il tintinnio dei finimenti dei cavalli, lasciati liberi di pascolare lungo il bordo della strada, e l’occasionale risata di qualche serva.

Per il viaggio, Sara si era vestita con un semplice abito e una sopravveste lavanda e nero, presumibilmente in segno di lutto per il povero Orico.

«Mi dispiace di non aver presenziato ai funerali del Roya», disse Cazaril, accennando all’abbigliamento della dama. «Però non mi ero ancora ripreso abbastanza da poter viaggiare.»

«Stando a quanto mi hanno detto Iselle, Bergon e Lady Betriz, è un miracolo che voi siate sopravvissuto alle ferite riportate», replicò Sara, accantonando con un cenno quelle scuse.

«Sì, ecco… Si tratta proprio di un miracolo.»

Sara si limitò a scoccargli un’occhiata singolarmente comprensiva.

«Devo dedurre che Orico è stato accolto dagli Dei?» domandò Cazaril.

«Sì, dal Bastardo… È stato rifiutato dagli Dei nella morte come in vita. La cosa ha purtroppo suscitato una serie di sgradevoli supposizioni sulla sua nascita.»

«Supposizioni errate, signora. Lui era indubbiamente figlio di Ias. Credo che il Bastardo sia stato una sorta di speciale protettore della sua Casa fin dai tempi del regno di Fonsa, e che stavolta abbia scelto per primo, non per ultimo.»

«Se è così, si è trattato di una ben misera protezione», ribatté Sara, scrollando le spalle. «Il giorno prima di morire, Orico mi ha detto che avrebbe desiderato essere il figlio di un taglialegna, e non del Roya di Chalion. Fra tutti gli epitaffi, questo mi sembra il più appropriato.» Poi, in tono più acido, aggiunse: «A quanto dicono, Martou dy Jironal è stato raccolto dal Padre…»

«Sì, così ho sentito dire anch’io. Hanno mandato il suo corpo alla figlia, che vive a Thistan, perché si occupasse dei funerali. In ogni caso, anche lui ha recitato la sua parte sino in fondo ed essa gli ha procurato ben poca gioia… Quanto a suo fratello Dondo, vi posso garantire che è stato trasportato nell’inferno del Bastardo.»

«Forse là imparerà a usare modi migliori», osservò Sara, con un cupo sorriso.

Dopo quel secondo epitaffio non sembrava ci fosse altro da aggiungere, ma d’un tratto Cazaril rammentò una cosa che lo aveva incuriosito. «Il giorno prima che Orico morisse, avete detto…» mormorò, schiarendosi la gola. «E di quale giorno si è trattato, mia signora?»

Lo sguardo di lei cercò il suo e le scure sopracciglia s’inarcarono di scatto. «Del giorno successivo alle nozze di Iselle, è ovvio.»

«Non del giorno precedente? In tal caso, Martou dy Jironal era stranamente male informato, per non parlare di quanto è stato avventato in certe sue azioni. Inoltre mi sembra una vera sfortuna, morire il giorno prima di essere salvato.»

«Io, il medico di Orico e l’Arcidivino Mendenal, che lo abbiamo assistito, giureremo che Orico era ancora vivo e che ci ha parlato quel pomeriggio, quella sera, e che ha esalato l’ultimo respiro soltanto la mattina successiva», ribadì Sara, serrando le labbra. «Di conseguenza, il matrimonio di Iselle col Royse Bergon è valido e inattaccabile.»

Quel pretesto legale era dunque privo di fondamento: i nobili contrariati da quel matrimonio non avrebbero avuto modo di contrastarlo. Cazaril provò a raffigurarsi quella veglia, durata un intero giorno, accanto al cadavere gelido e gonfio del marito, e si chiese cosa avesse pensato Sara, su cosa avesse riflettuto, mentre le ore scorrevano lente in quella camera sigillata. D’altro canto, lei aveva reso quell’orrore un dono per Iselle, per Bergon e per la Casa di Chalion che adesso stava abbandonando. Cazaril si trovò a immaginarla nei panni di un’ordinata massaia, che spazzava le vecchie, familiari stanze per l’ultima volta, lasciando sul focolare un vaso di fiori per i nuovi occupanti. «Io… credo di capire», disse infine.

«Lo credo anch’io, Castillar. Voi avete sempre visto le cose molto in profondità… e sapete essere discreto», replicò Sara.

«È una condizione insita nel mio ruolo, Royina.»

«Avete servito bene la Casa di Chalion, forse meglio di quanto meritasse.»

«Ma non bene quanto sarebbe stato necessario», ribatté Cazaril, e la Royina assentì con un sospiro.

Alle domande che Cazaril le pose sul suo futuro, Sara rispose che stava tornando nella provincia in cui era nata per insediarsi in una tenuta di campagna, dove sarebbe stata felicemente padrona di se stessa. Non aveva un’aria rassegnata; pareva anzi lieta di lasciare Cardegoss ai suoi successori. Alzatosi, lui le augurò con tutto il cuore ogni bene e un viaggio tranquillo, poi le baciò le mani, omaggio che Sara ricambiò, sfiorandogli anche fugacemente la fronte con le dita quando lui le rivolse un inchino di commiato.

Nell’osservare i carretti che si rimettevano in marcia, Cazaril sussultò, immaginando gli scossoni prodotti dai solchi della strada. Senza dubbio, le strade di Chalion avevano bisogno di essere migliorate: ben pochi potevano esserne sicuri quanto lui, che le aveva percorse a lungo. Nell’Arcipelago, aveva visto strade lisce e ampie, tali da poter essere usate con qualsiasi condizione climatica… Si sorprese a pensare che forse Iselle e Bergon avrebbero dovuto convocare alcuni costruttori roknari, perché strade migliori, e meno infestate dai banditi, avrebbero giovato immensamente a Chalion. Anzi, a Chalion-Ibra, sì corresse mentalmente con un sorriso, mentre Foix lo aiutava a rimontare in sella.

29

Con una mossa previdente, mentre Cazaril si attardava a parlare con la Royina Sara, Palli aveva mandato avanti Ferda, al galoppo. Così, quando finalmente entrò nel cortile dello Zangre, il gruppo proveniente da Taryoon trovò ad attenderlo il siniscalco e un vero spiegamento di servitori. Dopo che uno stalliere lo ebbe aiutato a scendere di sella e il siniscalco lo ebbe salutato con un inchino, Cazaril si stiracchiò con cautela e pose subito la domanda che gli stava più a cuore. «La Royina Iselle e il Royse Bergon sono qui?»

«No, mio signore. Si sono appena recati al Tempio, per la cerimonia d’investitura di Lord dy Yarrin e del Royse Bergon.»

Com’era prevedibile, la Royina aveva scelto dy Yarrin come nuovo Santo Generale dell’Ordine della Figlia, mentre la nomina di Bergon alla carica di Santo Generale dell’Ordine del Figlio era, secondo Cazaril, una mossa davvero felice per recuperare il controllo diretto di quella forza militare tanto importante per la royacy nonché per evitare contese tra i più importanti nobili di Chalion. Lui sapeva che era stata Iselle ad avere quell’idea, anche perché ne avevano discusso prima che lei e Bergon lasciassero Taryoon. Cazaril le aveva fatto notare che l’onore la obbligava a ricompensare la fedeltà dimostrata da dy Yarrin, concedendogli quella nomina che tanto desiderava, ma le aveva ricordato anche che dy Yarrin non era più giovanissimo e che, col tempo, anche la carica di generale dell’Ordine della Figlia sarebbe tornata in possesso della royacy.

«Ah!» esclamò Palli. «Allora era fissato per oggi? E la cerimonia è ancora in corso?»

«Credo di sì, signore», rispose il siniscalco.

«Se mi affretto, forse riuscirò a vederne una parte. Cazaril, posso lasciarti alle buone cure di questo gentiluomo? Lord siniscalco, provvedete perché si riposi… Cercherà di farvi credere che è guarito dalle sue ferite recenti, ma non credetegli», lo ammonì Palli, poi fece girare il cavallo e rivolse a Cazaril un allegro saluto. «A cose finite, tornerò per raccontarti tutto», promise, oltrepassando al trotto il portone con la sua piccola scorta.

Stallieri e servitori presero subito in consegna cavalli e bagaglio, poi, sperando di apparire dignitoso, Cazaril rifiutò il braccio offertogli dal siniscalco, almeno sinché non fossero arrivati alle scale; quando però si diresse verso il corpo principale del castello, il siniscalco lo richiamò.

«Per ordine della Royina, il vostro alloggio è stato trasferito nella Torre di Ias», spiegò. «In tal modo, sarete più vicino a lei e al Royse.»

Compiaciuto di quella sistemazione, Cazaril seguì il siniscalco fino al terzo piano della torre, dove si erano insediati il Royse Bergon e il suo seguito di nobili ibrani. Bergon aveva scelto per sé una camera da letto diversa da quella in cui era recentemente morto Orico, ma era evidente che non aveva l’abitudine di dormirci. Quanto a Iselle, si era sistemata nell’appartamento della Royina, al piano superiore. La stanza di Cazaril era adiacente a quella di Bergon, e qualcuno vi aveva già trasferito il suo baule e le poche cose che lui possedeva, insieme con un intero, nuovo cambio di vestiario per il banchetto di quella sera. Dopo aver atteso che i servitori gli portassero l’acqua per lavarsi, Cazaril li congedò e si sdraiò sul letto, intenzionato a riposare, come gli era stato suggerito da Palli.

Dopo soltanto dieci minuti, tuttavia, Cazaril si alzò, dirigendosi al piano superiore per vedere com’era organizzato il suo nuovo studio. Riconoscendolo, una serva gli permise di entrare, salutandolo con una riverenza, e lui andò subito a curiosare nella camera che Sara aveva riservato al suo segretario. Come si era aspettato, essa era occupata dai registri e dai libri contabili originali della Royina, cui ne erano stati aggiunti molti altri. Ma, seduto all’ampia scrivania c’era un uomo dai capelli scuri, sui trent’anni, abbigliato con una veste grigia che aveva su una spalla la treccia color carminio propria di un Divino del Padre. L’uomo era intento a segnare cifre su uno dei libri contabili che erano responsabilità di Cazaril; un mucchio di corrispondenza aperta era allargato a ventaglio vicino alla sua mano sinistra e, sulla destra, c’era una pila ancora più grossa di lettere ultimate e da firmare.

«Posso esservi utile, signore?» domandò l’uomo, in tono cortese ma freddo, sollevando infine lo sguardo su Cazaril.

«Io… chiedo scusa, ma non credo che ci conosciamo. Chi siete?»

«Sono l’Erudito Bonneret, il segretario personale della Royina Iselle.»

Cazaril aprì la bocca e la richiuse senza aver emesso suono, anche se avrebbe voluto gridare: Ma sono io il segretario personale della Royina Iselle! «Si tratta di una nomina temporanea, vero?» chiese, infine.

«Confido che sia permanente», ribatté Bonneret, inarcando di scatto le sopracciglia.

«Come siete stato scelto per questo incarico?»

«L’Arcidivino Mendenal è stato tanto generoso da raccomandarmi presso la Royina.»

«Di recente?»

«Come?»

«Siete stato nominato di recente?»

«Da due settimane, signore», precisò Bonneret, poi si accigliò, con aria lievemente irritata, e aggiunse: «Signore, posso sapere chi siete?»

«La Royina… non mi ha detto…» balbettò Cazaril, chiedendosi se davvero era stato allontanato da quella posizione di fiducia. Era chiaro che la valanga di lavoro seguita all’ascesa al trono di Iselle non poteva essere tenuta in sospeso in attesa della sua lenta guarigione e che dunque qualcuno doveva occuparsene. E poi, a giudicare dalle lettere pronte per essere inviate, Bonneret aveva una calligrafia davvero splendida… «Mi chiamo Cazaril», rispose, infine, accorgendosi che il Divino lo stava fissando con. aria sempre più accigliata.

Il cipiglio di Bonneret venne immediatamente sostituto da un sorriso così radioso da essere quasi più allarmante. Lui lasciò cadere la penna, schizzando inchiostro ovunque, e scattò in piedi. «Mio signore dy Cazaril! Sono onorato di conoscervi!» esclamò, con un profondo inchino, e ripeté, in tono molto più ossequioso: «Come posso esservi utile, mio signore?»

Quell’impazienza di compiacerlo sgomentò Cazaril anche più dell’arroganza dimostrata in precedenza da Bonneret. Borbottando qualche scusa incoerente per giustificare la propria intrusione, e sostenendo di essere stanco per il viaggio, lui si affrettò a cercare rifugio al piano di sotto.

Una volta nella propria camera, tentò di occupare il tempo facendo un inventario degli abiti e dei libri che possedeva, disponendo ogni cosa con ordine e constatando con stupore che non sembrava mancare nulla. Quando ebbe finito, si avvicinò alla finestrella, che dava sulla città, l’aprì e si affacciò. Ma nessun corvo sacro venne a fargli visita, cosa che lo indusse a chiedersi se quegli uccelli si annidassero ancora nella Torre di Fonsa, ora che la maledizione era infranta e che il serraglio non c’era più. Indugiò poi a contemplare le cupole del Tempio, e decise di andare a cercare Umegat alla prima opportunità. Infine si sedette e, non avendo altro da fare, si abbandonò allo sconcerto.

Sapeva bene che disponeva di poche energie e, se si sentiva scosso, ciò dipendeva almeno in parte dalla stanchezza. La ferita al ventre, in via di guarigione, gli doleva per la cavalcata, benché assai meno di quando Dondo lo artigliava dall’interno. Sì, era finalmente, gloriosamente libero da inquilini interiori, e quel pensiero aveva suscitato in lui una felicità estatica durata parecchi giorni. Eppure quel pomeriggio non era sufficiente a rasserenarlo. Il periodo di riposo che, a detta di tutti, lui doveva concedersi, stava facendo crescere in lui la sensazione di essere stato abbandonato. Incupendosi, gli venne in mente che, forse, a Chalion-Ibra, non c’era più posto per lui e che per la gestione dei suoi affari, ora infinitamente più vasti e complessi, Iselle avrebbe avuto bisogno di uomini più eruditi e raffinati di un malconcio e strambo ex soldato con aspirazioni da poeta. La cosa peggiore, però, era un’altra: essere rimosso dal servizio presso Iselle significava essere messo al bando dalla presenza quotidiana di Betriz. Ormai nessuno, al tramonto, gli avrebbe acceso le candele; nessuno gli avrebbe procurato un cappello di pelliccia; nessuno avrebbe chiamato un medico se lui fosse stato male; nessuno avrebbe pregato per lui quando si fosse allontanato da casa…

Dal cortile giunse un rumore di zoccoli e di voci. Cazaril pensò che Iselle e Bergon fossero tornati col loro seguito dalle cerimonie del Tempio, ma non poté verificarlo perché, dalla sua finestra, era impossibile vedere il cortile. Pur sapendo che si sarebbe dovuto precipitare a salutarli, decise che non si sarebbe mosso, perché stava riposando… una scusa che suonò ottusa e scortese perfino alle sue stesse orecchie. D’altro canto, una spaventosa spossatezza lo tenne suo malgrado incollato alla sedia.

Prima che riuscisse ad avere la meglio su quell’ondata di malinconia, Bergon fece irruzione nella sua camera. Il Royse era ancora abbigliato con le vesti marrone, arancione e gialle proprie del Santo Generale dell’Ordine del Figlio, complete di una larga cintura per la spada decorata con tutti i simboli dell’autunno. Quella tenuta faceva su di lui un effetto assai migliore di quello che aveva fatto sul vecchio e grigio dy Jironal: se Bergon non costituiva una gioia per gli occhi del Dio, allora voleva dire che compiacerlo era davvero impossibile. Quando Cazaril si alzò per salutarlo, Bergon lo abbracciò e gli chiese come fosse andato il viaggio da Taryoon e come procedesse la sua convalescenza, poi, senza attendere risposta, si lanciò a dirgli contemporaneamente otto cose diverse, finendo per ridere di se stesso. «Fra breve ci sarà tempo per tutte queste cose», esclamò infine. «Sono stato incaricato di una missione dalla mia regale consorte, la Royina di Chalion. Prima però, Lord Caz, dimmi una cosa, in privato… Ami Lady Betriz?»

«Io… lei… molto, Royse», balbettò Cazaril, sconcertato.

«Bene. Io ne ero sicuro, ma Iselle ha insistito perché, prima, te lo chiedessi. Adesso c’è un’altra cosa molto importante… Sei disposto a lasciarti radere la barba?»

«Io… come?» esclamò Cazaril, portandosi una mano alla barba, che non era più irsuta come un tempo, si era infoltita gradevolmente ed era sempre ben regolata. «C’è un motivo per cui me lo chiedi? Non che abbia molta importanza… Dopotutto, la barba ricresce.»

«Ma non sei affezionato a essa, o qualcosa del genere, vero?»

«No. Dopo le galee, per qualche tempo, le mani mi tremavano al punto che non volevo rischiare di affettarmi la faccia, ma non potevo permettermi di andare da un barbiere. Col tempo, ho finito per abituarmici.»

«Bene», approvò Bergon, poi tornò alla porta, si affacciò nel corridoio e chiamò: «D’accordo, venite pure».

Nella stanza entrarono un barbiere e un servitore che reggeva una bacinella di acqua calda. Fatto sedere Cazaril, il barbiere gli passò un asciugamano intorno al collo e gli coprì la faccia di sapone prima che lui avesse il tempo di pronunciare una parola; mentre il servitore gli teneva la bacinella sotto il mento, poi, il barbiere si mise all’opera col rasoio, canticchiando sottovoce. Incrociando quasi gli occhi per guardare al di sopra del proprio naso, Cazaril osservò i ciuffi insaponati di peli neri e grigi cadere nella bacinella e cercò d’ignorare gli strani suoni quasi ciangottanti emessi dal barbiere.

«Ecco fatto, mio signore!» esclamò infine questi, con un sorriso soddisfatto, indicando al servitore di rimuovere la bacinella. Un impacco con un asciugamano caldo e l’applicazione di una soluzione aromatizzata alla lavanda completarono l’opera. Quindi il Royse gli mise in mano una moneta e il barbiere s’inchinò profondamente, mormorando un saluto e indietreggiando fino a lasciare la stanza.

Dal corridoio, giunsero allora alcune risate femminili.

«Hai visto, Iselle?» commentò una voce, in un sussurro peraltro non abbastanza sommesso. «Anche lui ha un mento. Te lo avevo detto!»

«Sì, avevi ragione, ed è anche un bel mento.»

Iselle fece il suo ingresso nella stanza, sforzandosi di apparire quanto mai regale nelle elaborate vesti indossate per la cerimonia d’investitura, ma non riuscì a mantenere a lungo quell’atteggiamento serio, perché le bastò guardare Cazaril per scoppiare a ridere. Alle sue spalle, Betriz, vestita quasi con la stessa eleganza, era tutta fossette e scintillanti occhi marroni sotto una complessa acconciatura, composta di una miriade di riccioli neri che le incorniciavano il volto, sussultando in maniera affascinante a ogni movimento.

«Per i cinque Dei, Cazaril!» esclamò Iselle, sollevando una mano alle labbra. «Non siete poi così vecchio, adesso che siete emerso da dietro quella siepe grigia!»

«Non è affatto vecchio», precisò con determinazione Betriz.

Cazaril, che all’ingresso delle dame si era alzato, fece un profondo inchino, ma, nel rialzarsi, portò suo malgrado la mano al mento, freddo e nudo, e pensò che nessuno gli aveva offerto uno specchio per verificare la causa di tutta quella ilarità.

«È tutto pronto», affermò Bergon, con fare misterioso.

Sorridendo, Iselle prese la mano di Betriz e prontamente Bergon afferrò quella di Cazaril, poi Iselle assunse una posa solenne e, con un tono da annuncio ufficiale, scandì: «La mia amatissima e fedelissima dama Betriz dy Ferrej mi ha fatto una richiesta, cui acconsento con tutta la gioia del mio cuore. Dal momento che voi non avete più un padre, Lord Cazaril, io e Bergon ne faremo le veci, in qualità di vostri signori. Betriz ha chiesto la vostra mano, e ci rallegra immensamente che i nostri due più amati servitori si amino a vicenda, per cui consideratevi fidanzati, con tutta la nostra approvazione».

Bergon girò verso l’alto il palmo di Cazaril e quello di Betriz si appoggiò su di esso, sovrastato dalle dita di Iselle. Congiunte le mani dei due promessi, il Royse e la Royina si trassero infine indietro con un ampio sorriso sulle labbra.

«Ma… ma… ma…» balbettò Cazaril, senza peraltro lasciar andare la mano di Betriz. «Tutto questo è terribilmente sbagliato… Iselle, Bergon… Non potete sacrificare questa fanciulla per ricompensare i miei capelli grigi. È una cosa ripugnante!»

«Ci siamo appena liberati di quanto avevate di grigio, cioè la barba», commentò Iselle, poi lo squadrò e aggiunse: «E devo ammettere che si è trattato di un enorme miglioramento».

«Inoltre non mi pare che lei ti trovi ripugnante», aggiunse Bergon.

Le fossette di Betriz erano profonde come Cazaril non le aveva mai viste e gli occhi scuri lo fissavano, scintillanti, da sotto le ciglia abbassate.

«Ma… ma…»

«In ogni caso, non la sto sacrificando per ricompensare la vostra… la tua fedeltà», continuò Iselle, in tono deciso. «Ti sto fidanzando a lei come ricompensa per la sua fedeltà.»

«Oh. Ah. Ecco, così va meglio…» farfugliò Cazaril, lottando per riportare un po’ di ordine nella propria mente sconvolta. «Però… Di certo ci sono per lei nobili più importanti, più ricchi, più giovani e avvenenti, più degni…»

«Sì, certo, ma Betriz non ha chiesto uno di loro, ha chiesto te. I gusti sono proprio una cosa personale, vero?» ribatté Bergon.

«Inoltre, devo obiettare ad almeno una parte della tua valutazione, Cazaril», aggiunse Betriz, con un filo di voce, accentuando la stretta della mano. «In tutto Chalion, non c’è nobile più degno di te.»

«Un momento!» protestò Cazaril, che aveva l’impressione di scivolare lungo un pendio innevato. «Non ho terre né denaro… Come farò a mantenere una moglie?»

«Ho intenzione di trasformare la carica di Cancelliere in una posizione che preveda un salario», replicò Iselle.

«Come la Volpe ha fatto a Ibra? Una mossa molto saggia, Royina… In tal modo, la fedeltà dei tuoi più importanti servitori andrà anzitutto alla royacy e non sarà divisa tra la corona e il proprio gruppo di sostenitori, come nel caso di dy Jironal. Chi intendete nominare per sostituirlo? Io avrei qualche idea…»

«Cazaril!» esclamò Iselle, con la familiare nota di esasperazione nella voce. «È ovvio che si tratta di te! Chi credi che avrei potuto nominare? Era implicito che la carica spettasse a te!»

Continuando a tenere stretta la mano di Betriz, Cazaril si accasciò pesantemente sulla sedia. «Da subito?» chiese, con un filo di voce.

«No, naturalmente no», rispose Iselle, sollevando il mento con fare deciso. «Per stanotte festeggeremo. Potrai cominciare domani.»

«Se per allora ti sentirai abbastanza in forze», si affrettò a interloquire Bergon.

«È un compito immenso…» cominciò Cazaril. Aveva chiesto solo un po’ di pane e gli avevano dato un intero banchetto. Tra quelli che cercavano di proteggerlo a ogni costo e quelli che sacrificavano spietatamente le sue esigenze per i loro fini, cominciava a preferire la seconda categoria… Cancelliere dy Cazaril… Lord Cancelliere… si sorprese poi a sillabare in silenzio, quasi suo malgrado, e a poco a poco si rinfrancò.

«Stanotte, dopo cena, lo annunceremo», lo avvertì Iselle. «Vestiti in maniera adeguata, Cazaril, perché Bergon e io ti offriremo la catena, simbolo della tua carica, al cospetto di tutta la corte. Betriz, ti aspetto nelle mie stanze… tra un po’», aggiunse, con un sorriso. Infilò la mano sotto il braccio di Bergon e lo trascinò con sé nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.

Il braccio di Cazaril scivolò intorno alla vita di Betriz e lui, senza la minima timidezza, la fece sedere sulle sue ginocchia, con un movimento così repentino da strapparle uno strillo di sorpresa. «Le labbra, eh?» mormorò, baciandola.

Dopo qualche tempo, quasi senza fiato, Betriz si tirò indietro e passò una mano sul proprio mento e su quello di lui. «Adesso la tua barba non mi punge più», commentò.

La mattina successiva, a tarda ora, Cazaril riuscì finalmente a rintracciare Umegat presso la Casa del Bastardo, dove un rispettoso Accolita lo guidò fino al terzo piano. Lo stalliere muto, Daris, venne ad aprire la porta e, con un inchino, invitò Cazaril a entrare. L’ometto, che indossava le vesti bianche e ordinate di un Devoto laico dell’Ordine, si passò una mano sul mento e indicò il volto nudo di Cazaril, con un sorridente commento che, per una volta, lui fu lieto di non comprendere, poi lo precedette attraverso una stanza, arredata come un salotto, e su una piccola balconata di legno che si affacciava sulla Piazza del Tempio ed era decorata da rampicanti e da vasi di gerani.

Umegat, anche lui vestito di bianco, sedeva a un tavolino, in una zona d’ombra, e Cazaril notò con gioia che aveva davanti a sé carta, penna e inchiostro; per evitare di farlo alzare, si affrettò a sedersi sulla sedia che Daris gli porgeva e accettò la sua offerta di una tazza di tè, interpretata per lui da Umegat.

«Cosa sono questi fogli?» domandò subito, con entusiasmo, mentre Daris andava a preparare la bevanda. «Hai recuperato la capacità di scrivere?»

«Per ora, sembro un bambino di cinque anni», rispose Umegat, con una smorfia, girando un foglio per mostrare una serie di lettere rozzamente tracciate. «Vorrei che anche il resto di me fosse ringiovanito altrettanto. Continuo a memorizzare le lettere, ma esse persistono a scivolarmi via dalla mente, e la mia mano ha perso ogni agilità nell’uso della penna… anche se sono ancora in grado di suonare il liuto nella mia solita maniera scadente! Il medico insiste nel sostenere che sto migliorando e suppongo che sia così, perché, appena un mese fa, non ero in grado di fare neppure questo. Le parole strisciano sulla pagina come granchi, però ogni tanto riesco ad afferrarne una. Ora però dimmi di te!» esclamò, sollevando lo sguardo. «Ho sentito che hai fatto grandi cose, a Taryoon! Mendenal sostiene che sei stato trafitto da una spada.»

«Da parte a parte», ammise Cazaril. «Però è servito a liberarmi di Dondo e del demone, il che mi ha ampiamente ripagato della sofferenza. Dopo, la Signora mi ha risparmiato dalla febbre e dalla morte.»

«Allora te la sei cavata bene», commentò Umegat, lanciando un’occhiata a Daris.

«Sì, in modo miracoloso.»

«Hmm», mormorò Umegat, protendendosi in avanti sul tavolo e scrutandolo viso. «Vedo che hai frequentato compagnie elevate.»

«Hai recuperato la seconda vista?» domandò Cazaril, stupito.

«No, si tratta solo di una particolare espressione che nasce da alcune esperienze, e che ho imparato a riconoscere.»

In effetti, anche Umegat aveva quell’aria particolare. A quanto pareva, se un uomo veniva toccato da un Dio e, in seguito a ciò, non perdeva del tutto il suo equilibrio interiore, allora riemergeva da quell’esperienza dotato di un nuovo, misterioso equilibrio interiore. «Anche tu hai visto il tuo Dio», osservò Cazaril.

«Un paio di volte», ammise Umegat.

«Quanto tempo ci vuole per riprendersi?»

«Non lo so ancora con certezza», mormorò Umegat, sfregandosi le labbra con aria pensosa. «Sei in grado di dirmi che cos’hai visto?»

Notando il bagliore apparso negli occhi grigi dell’altro, Cazaril ebbe un sussulto. Ho anch’io questo aspetto quando parlo della Signora? si chiese. Allora non mi meraviglia che la gente mi guardi in modo strano…

Con ordine, procedette a raccontare la sua storia, a cominciare dalla precipitosa partenza da Cardegoss per conto della Royesse. Nel frattempo venne servito il tè, ed entrambi ne bevvero due tazze prima che lui arrivasse in fondo alla narrazione; quando però cercò di descrivere l’esperienza con la Signora, si mise a balbettare, esitando, benché Umegat sembrasse voler assorbire ogni sua parola, per stentata che fosse. D’un tratto, Cazaril si rese conto che Daris si era soffermato sulla soglia ad ascoltare, ma ritenne superfluo chiedere rassicurazioni sulla sua discrezione. «La poesia… potrebbe essere lo strumento giusto», affermò, infine. «Mi servono parole che significhino più di quello che intendono dire, che non abbiano soltanto altezza e larghezza ma anche profondità e peso, oltre ad altre dimensioni cui non so neppure dare un nome.»

«Per qualche tempo, dopo la mia prima… esperienza, io ho cercato di ritrovare il Dio con la musica», replicò Umegat. «Purtroppo, non avevo il talento necessario.»

Cazaril si limitò ad annuire. «C’è qualcosa di cui hai bisogno e che io ti posso procurare?» chiese. «Ieri Iselle mi ha nominato Cancelliere di Chalion… Suppongo che ciò mi conferisca un certo potere.»

Umegat inarcò di scatto le sopracciglia grigie e gli rivolse un accenno d’inchino a titolo di congratulazione. «La giovane Royina ha agito bene», commentò.

«Io però continuo a pensare di avere indosso gli stivali di un morto», obiettò Cazaril, con una smorfia.

«Lo capisco», sorrise Umegat. «Quanto a noi, il Tempio si occupa piuttosto bene dei suoi ex santi e ci fornisce tutto ciò di cui possiamo aver bisogno. Mi piacciono queste stanze, questa città, quest’aria primaverile e… la compagnia di me stesso. Spero che il Dio mi conceda ancora un paio d’incarichi interessanti prima che la mia vita giunga al termine, anche se preferirei non avere più a che fare con animali o con sovrani.»

«Suppongo che tu conoscessi il povero Orico meglio di chiunque altro, tranne forse la Royina Sara», convenne Cazaril, annuendo.

«L’ho visto quasi tutti i giorni per sei anni e, verso la fine, aveva l’abitudine di parlarmi con estrema franchezza. Spero di essere stato per lui una consolazione.»

«Per quel che può valere, io lo ritengo una specie di eroe», osservò Cazaril, in tono esitante.

«Sono d’accordo», annuì Umegat. «Anche se la sua è stata una forma particolarmente frustrante di eroismo. Senza dubbio, Orico è stato una vittima sacrificale.» Sospirò. «In ogni caso, è un peccato consentire al dolore del passato di avvelenare la gioia per le benedizioni che ci rimangono.»

Daris si alzò dal suo angolo per portar via le tazze del tè.

«Grazie», gli disse Umegat, battendo un colpetto sulla mano che lui gli aveva posato sulla spalla.

Raccolte tazze e piatti, Daris si allontanò, seguito dallo sguardo incuriosito di Cazaril. «Lo conosci da molto tempo?» chiese poi.

«Da circa vent’anni.»

«Allora non era soltanto il tuo assistente nel serraglio… Quando lo hai conosciuto, era già stato…»

«No, non ancora.»

«Oh.»

«Non avere l’aria così cupa, Lord Cazaril», sorrise Umegat. «Si migliora sempre. Quello era ieri e questo è oggi. Prima o poi, gli chiederò il permesso di raccontarti la sua storia.»

«Sarei onorato di ricevere una simile confidenza.»

«Va tutto bene. E, anche quando così non è, ogni alba ci conduce un po’ più vicini al nostro Dio.»

«Lo avevo notato. Nei primi giorni dopo aver visto la Signora, ho avuto qualche problema a calcolare lo scorrere del tempo, perché tempo e proporzioni si sono alterati in maniera incalcolabile.»

In quel momento qualcuno bussò con mano leggera alla porta della camera, e Daris andò ad aprire, facendo entrare una giovane Devota vestita di bianco che reggeva un libro.

«Ah, ecco la mia lettrice!» esclamò Umegat, rasserenandosi in volto. «Devota, inchinati al Lord Cancelliere. Ogni giorno», proseguì, a titolo di spiegazione, «mandano un Devoto a leggermi qualcosa per un’ora, come punizione per qualche lieve infrazione alle regole della casa. Allora, ragazza, hai già deciso quale regola infrangerai domani?»

«Ci sto pensando, Erudito Umegat», rispose la Devota, con un timido sorriso.

«Se dovessi restare a corto d’idee, attingerò ai miei ricordi giovanili e vedrò di offrirti qualche suggerimento.»

«Credevo che sarei stata mandata a leggere al Divino qualche noioso testo di teologia», commentò la Devota, porgendo il libro a Cazaril, «ma lui ha preferito questo volume di racconti.»

Cazaril esaminò con interesse il volume che, a giudicare dal marchio dello stampatore, era di origine ibrana.

«È un’idea interessante», affermò Umegat. «L’autore segue un gruppo di viandanti in pellegrinaggio verso un santuario, e a turno ciascuno di essi narra la sua storia. È tutto molto… sacro.»

«A dire il vero, mio signore, alcune storie sono alquanto lascive», sussurrò la Devota.

«Dovrò rispolverare il sermone di Ordol relativo alle lezioni della carne. Ho promesso alla Devota di ridurre il tempo delle sue penitenze al Bastardo ogni volta che arrossirà, e temo che mi abbia creduto», sorrise Umegat.

«Io… ah… mi piacerebbe avere in prestito quel libro, quando avrai finito di leggerlo.»

«Te lo farò consegnare, mio signore.»

Congedatosi dal roknari, Cazaril riattraversò la Piazza del Tempio e si avviò per risalire la collina, ma deviò prima di giungere in vista dello Zangre e si diresse invece al palazzo cittadino del Provincar della Baocia. Quel massiccio, antico edificio di pietra somigliava a Palazzo Jironal, ma era molto più piccolo e privo di finestre al piano inferiore, mentre quelle al piano superiore erano protette da griglie di ferro battuto. L’edificio era stato riaperto non solo per il suo signore e la sua signora, ma anche per la vecchia Provincara e per Lady Ista, arrivate da Valenda. Pieno al massimo della sua capienza, quel palazzo, un tempo abitato soltanto da un cupo silenzio, si era trasformato in una specie di ronzante alveare. Giunto ai cancelli, Cazaril si presentò a un ossequioso portinaio e, dopo avergli comunicato il motivo della sua visita, venne accompagnato all’interno senza indugi.

In un’alta camera soleggiata, posta sul retro della casa, trovò la Royina Vedova Ista. Era seduta su una piccola balconata dalla ringhiera di ferro, affacciata su un giardinetto e sul recinto annesso alle stalle. Congedata la dama di compagnia, Ista indicò a Cazaril di occupare la sedia che la donna aveva lasciato libera, adiacente alla sua. Quel giorno, i capelli castani di Ista erano intrecciati intorno alla testa, e il suo volto e il suo abbigliamento apparivano così nitidi e definiti che Cazaril quasi se ne stupì.

«È un ambiente gradevole», osservò lui, sedendosi.

«Sì, mi piace questa stanza. È quella che occupavo da ragazza, quando mio padre ci portava con sé alla capitale, il che non accadeva spesso. Il vantaggio maggiore, però, è che da qui non posso vedere lo Zangre», aggiunse, abbassando lo sguardo sul sottostante giardino, delimitato e protetto.

«La scorsa notte, però, ci siete stata, al banchetto», obiettò Cazaril, rammentando che aveva potuto scambiare con lei soltanto poche parole formali. Lei si era limitata a congratularsi per la sua nomina a Cancelliere e per il suo fidanzamento, e se n’era andata abbastanza presto. «Devo dire che avevate un aspetto splendido e che Iselle è stata gratificata dalla vostra presenza.»

«Mangio a palazzo per farle piacere, ma non intendo dormirci», replicò Ista.

«Suppongo che gli spettri siano ancora in circolazione, solo che io non li posso più vedere… Con mio estremo sollievo, vorrei aggiungere.»

«Anch’io non riesco a vederli né con la vista fisica né con la seconda vista, ma li percepisco, quasi fossero un gelo che riveste le pareti. Ma forse è soltanto il loro ricordo a raggelarmi. Detesto lo Zangre», ammise Ista, sfregandosi le braccia come per scaldarle.

«Quei poveri spettri… Li comprendo molto meglio adesso che non quando mi terrorizzavano», osservò Cazaril. «In un primo tempo, ho creduto che l’esilio e il disfacimento fossero una sorta di rifiuto da parte degli Dei, una dannazione, ma adesso so che è un atto di misericordia. Quando vengono accolte presso gli Dei, le anime rammentano loro stesse… La mente può contemplare tutta la propria vita contemporaneamente, come fanno gli Dei, quasi con la stessa spaventosa chiarezza con cui la materia ricorda se stessa. Per alcuni, questa forma di paradiso può riuscire intollerabile, un vero inferno, ed è per questo che gli Dei concedono loro la liberazione dell’oblio.»

«L’oblio… Esso mi appare come un paradiso. Credo che pregherò di diventare anch’io uno spettro del genere.»

Temo si tratti di una misericordia che ti verrà negata, pensò Cazaril. «Sapete che la maledizione è stata rimossa da Iselle, da Bergon, da tutti quanti e da tutta Chalion?»

«Sì. Iselle me ne ha parlato, entro i limiti in cui è in grado di capire l’accaduto, ma io ho percepito la cosa mentre succedeva. Le mie dame mi stavano vestendo per andare alle preghiere del mattino del Giorno della Figlia e, sebbene non ci sia stato nulla da vedere, da sentire o da percepire, d’un tratto mi è sembrato che una nebbia si fosse dissolta dalla mia mente. Non mi ero resa conto di quanto la maledizione mi si fosse avviluppata intorno, come una nebbia umida che avvolgesse la pelle della mia anima, finché non è svanita. A quel punto, ho temuto che voi foste morto e ne ero dispiaciuta.»

«In effetti sono morto, ma la Signora mi ha rimandato nel mondo, nel mio corpo, cioè, anche se il mio amico Palli sostiene che non mi ha rimesso a posto nel modo giusto.»

«È strano… Il dissolversi della maledizione ha reso il mio dolore più nitido, e tuttavia più distante», mormorò Ista, distogliendo lo sguardo.

«Lady Ista, avevate ragione riguardo alla profezia», affermò Cazaril, schiarendosi la gola. «Ci volevano tre morti. E io, concentrandomi sul matrimonio, ho sbagliato volutamente, perché avevo paura e la vostra strada mi pareva troppo difficile. Tuttavia, alla fine, ogni cosa è andata per il meglio nonostante i miei errori e per grazia della Signora.»

«L’avrei fatto io stessa, se avessi potuto», disse Ista, con una nota di amarezza nella voce. «Evidentemente, il mio sacrificio non è stato giudicato accettabile.»

«Non si tratta di… Non è questo il motivo», protestò Cazaril. «Sì, insomma, lo è e tuttavia non lo è. È una cosa che riguarda la forma della vostra anima e non il fatto che essa sia degna oppure no. Bisogna trasformarsi in una coppa, per ricevere ciò che vi si riversa, mentre voi siete — e siete sempre stata — una spada, come vostra madre e vostra figlia… Le donne della vostra famiglia hanno tutte un carattere d’acciaio. Adesso capisco perché, prima d’ora, non avevo mai visto dei santi. Il mondo non si abbatte sulla loro volontà come l’onda su una roccia né si apre davanti a loro come acqua tagliata dalla prua di una nave. Essi sono agili e flessibili, e nuotano attraverso il mondo, silenziosi come pesci.»

Ista si limitò a inarcare le sopracciglia, ma Cazaril non riuscì a capire se quello era un gesto di assenso, di disaccordo o di semplice, garbata ironia.

«Ora che state meglio, dove andrete?» chiese, cambiando argomento.

«La salute di mia madre sta diventando sempre più precaria… Immagino che invertiremo i ruoli e che io la assisterò, nel castello di Valenda, come lei ha assistito me», rispose Ista, scrollando le spalle. «Preferirei tuttavia andare in qualche posto dove non sono mai stata, un posto che non sia né Valenda né Cardegoss, e che non ospiti ricordi.»

Cazaril non trovò nulla da obiettare, ma il suo pensiero corse a Umegat che, pur non essendo un superiore spirituale di Ista, s’intendeva di perdite e di dolori come pochi altri, tanto da aver reso quasi un’arte la capacità di riprendersi. Dal canto suo, Ista aveva almeno altri vent’anni per ritrovare un equilibrio. Quando Umegat, che all’epoca aveva più o meno l’età attuale di Ista, aveva recuperato il corpo devastato di Daris, forse si era infuriato e aveva pianto, proprio come lei, oppure aveva imprecato contro gli Dei con la stessa freddezza dei suoi gelidi silenzi.

«Mi piacerebbe che voi conosceste il mio amico Umegat», disse a Ista. «Era il santo incaricato di preservare Orico, ma adesso è un ex santo, proprio come voi e me. Credo che potreste avere qualche conversazione interessante.»

Ista allargò le mani in un gesto cauto, senza accettare né rifiutare l’idea, e Cazaril decise di rimandare quell’incontro a un futuro non troppo lontano. Tentò allora di volgere i pensieri di Ista ad argomenti più lieti e le chiese dell’incoronazione di Iselle, alla quale lei è la Provincara avevano partecipato. Aveva già chiesto a quattro o cinque persone di descrivergli la cerimonia, ma non si era ancora stancato di sentirla raccontare. Parlando, Ista si animò un poco, col volto che s’illuminava e si addolciva per la gioia della vittoria conseguita dalla figlia. Quanto a Teidez, la sua sorte fu un argomento che entrambi evitarono, di tacito accordo. Non era quello il momento più adatto per sondare ferite così fresche, col pericolo che riprendessero a sanguinare. In futuro, quando si fossero sentiti più forti, ci sarebbe stato tutto il tempo per parlare del ragazzo perduto.

Quando infine Cazaril s’inchinò e fece per accomiatarsi, Ista si protese in avanti e posò la mano su quella di lui. «Cazaril… Prima di andare, datemi la vostra benedizione», chiese.

«Signora, ormai non sono più santo di quanto lo siate voi, e di certo non sono un Dio. Non posso invocare benedizioni a mio piacimento», obiettò lui, sconcertato. D’altro canto, lui non era neppure una Royesse, eppure si era recato a Ibra per conto di Iselle e aveva stipulato un contratto di matrimonio in suo nome. Signora della Primavera, pregò allora, se ti ho servito bene, rendimi ora il debito che hai con me. «Ci proverò», disse, umettandosi le labbra, e si protese in avanti per toccare la fronte bianca di Ista.

Le parole gli salirono alle labbra, anche se non avrebbe saputo dire da dove provenissero. «Questa è una profezia vera quanto lo era quella da te ricevuta. Allorché le anime s’innalzeranno nella gloria, la tua non verrà ignorata o recisa, ma diventerà la perla dei giardini degli Dei. Allora perfino la tua oscurità sarà considerata un tesoro, e la tua sofferenza resa sacra.» Poi si ritrasse, assalito da un impeto di terrore e d’incertezza.

Gli occhi di Ista si velarono di lacrime, la mano che teneva posata sul ginocchio s’immobilizzò e lei chinò il capo in segno di accettazione, con l’imbarazzo di un bambino che muove i primi passi. «Per essere un principiante, ve la cavate molto bene, Cazaril», osservò.

Cazaril annuì, sorrise e si congedò in fretta, tornando in strada. Nell’avviarsi verso lo Zangre, e nonostante la salita, il suo passo si allungò, rinvigorito dalla consapevolezza che le sue dame lo stavano aspettando.

RINGRAZIAMENTI

L’autrice desidera ringraziare il professor William D. Phillips, Jr. per History 3714, per i quattrocento dollari più utili in assoluto e per le migliori dieci settimane di tutto il periodo scolastico; Pat «Dai che ci divertiamo» Wrede, per il suo gioco legato alle lettere dell’alfabeto, grazie al quale una sorta di proto-Cazaril è emerso, battendo le palpebre e incespicando, dalle tenebre della mia mente alla luce del giorno; le compagnie di servizio pubblico di Minneapolis per una certa doccia calda in una fredda giornata di febbraio, nel corso della quale i primi due elementi si sono fusi nel mio cervello in maniera inaspettata, creando un nuovo mondo e tutti i suoi abitanti.

FINE