Che cosa darebbero gli architetti, gli urbanisti, i pianificatori, gli uomini politici per avere una delle case che si seminano, che nascono e crescono come una pianta qualsiasi? E chi avesse in esclusione i semi di una simile pianta, quale gigantesca speculazione edilizia potrebbe organizzare? Su questo tema così attuale per noi, Jack Vance ha costruito un piacevole e movimentato romanzo, in cui le straordinarie case di Iszm sono oggetto di una guerra segreta fra i desperados di mezza galassia.

Jack Vance

Le case di Iszm

1

Era ormai un fatto scontato che gli stranieri giungevano a Iszm con un unico scopo: rubare una casa femmina. Cosmografi, studenti, poppanti, noti malviventi, tutti venivano costretti dagli Iszici, con imparziale cinismo, allo stesso microscopico esame fisico-mentale e sottoposti alla medesima stretta sorveglianza.

Il procedimento era giustificato dall’eccezionale affluenza di ladri di case.

Da lontano, pareva facile riuscire a rubare una casa. Si poteva cucire un seme — non più grande d’un granello d’orzo — in una cintura, o intrecciare una pianticella alla trama di una sciarpa, oppure legare un germoglio a un missile da lanciare nello spazio… c’erano migliaia di modi di rubare una casa di Iszm, ma tutti si erano rivelati fallaci alla prova dei fatti. I ladri, invariabilmente scoperti, erano stati portati in manicomio, sotto la scorta di Iszici estremamente gentili. Gli Iszici, appunto perché erano realisti, sapevano che sarebbe arrivato il giorno — l’indomani o nel giro di un mese, un anno, un secolo o un millennio — in cui avrebbero perso il monopolio delle case e, pur non illudendosi, da fanatici custodi di quel monopolio, facevano di tutto per rimandare quel giorno il più possibile.

Aile Farr era un uomo alto e magro, sulla trentina, con una strana faccia legnosa, grosse mani e grossi piedi. Carnagione, occhi e capelli erano tutti dell’identico color polvere. Ma quel che importava agli Iszici era la sua professione di botanico, la qual cosa lo rendeva, di conseguenza, oggetto del più profondo sospetto.

Giunto all’atollo di Jhespiano, a bordo della Eubert Honoré della Red Ball Packet, si vide fatto segno a precauzioni eccezionali anche per Iszm. Al suo arrivo due Szecr, agenti della polizia speciale, lo presero in consegna al portello di sbarco, lo scortarono giù per lo scalandrone come un prigioniero, e lo spinsero in un andito a direzione unica; dalle sue pareti uscivano infatti barre flessibili piegate in direzione del passaggio obbligato, di modo che si poteva andare avanti, ma era impossibile cambiare idea e tornare indietro. Al termine dell’andito vi era una parete di vetro trasparente e, quando vi giunse davanti, Farr constatò che non poteva più procedere né tornare sui suoi passi. Gli pareva di essere un insetto sotto il microscopio, mentre un Iszico, con mostrine rosse e grigie, si dava da fare per esaminarlo dall’altra parte del vetro. Al termine dell’esame, l’Iszico fece scorrere, con fare svogliato, il pannello e Farr, entrato nella stanzetta, mostrò all’Iszico il suo permesso di sbarco, i certificati di buona salute, l’attestato di buona condotta, e quindi si accinse a sottoporsi all’interrogatorio. L’occhio degli Iszici, diviso in due settori di differente grandezza, è capace di guardare contemporaneamente in due diverse direzioni. Il funzionario leggeva i documenti con la parte inferiore, e continuava a esaminare Farr con quella superiore.

— Occupazione… — a questo punto tutto l’occhio fissò Farr. Poi, riabbassando la parte inferiore sul documento, lesse con voce fredda e monotona: — … si occupa di ricerche. Dipende dall’università di Los Angeles, facoltà di Botanica. — Mise da parte il documento e chiese: — Posso sapere il motivo della vostra venuta su Iszm?

Farr stava per perdere la pazienza. — È scritto lì — si limitò a rispondere, accennando al foglio.

L’incaricato riprese a leggere, continuando a fissare Farr, che lo guardava come affascinato.

— “Sono in licenza di studio e sto visitando i pianeti in cui le piante contribuiscono in modo effettivo al benessere dell’uomo”. — L’incaricato posò su Farr ambedue le parti dell’occhio. — Perché vi siete preso la briga di venire fin qui? Potevate disporre di tutte le informazioni necessarie anche sulla Terra.

— Preferisco rendermi conto di persona.

— A che scopo?

— Curiosità professionale — rispose Farr alzando le spalle.

— Immagino che conosciate le nostre leggi.

— E come no? — replicò Farr irritato. — Me ne hanno parlato fin da quando la nave è partita da Starholme.

— Tenete presente che non vi si possono concedere privilegi di alcun genere… non potrete condurre studi approfonditi o analitici. Capito?

— Ma certo!

— Le nostre norme sono rigide… non dimenticatelo. Molti visitatori se lo dimenticano e poi si trovano a dover subire gravi punizioni.

— Ormai conosco le vostre leggi meglio delle nostre — dichiarò Farr.

— È considerato illegale asportare, staccare, tagliare, accettare, separare o rimuovere qualsiasi vegetale, frammento di vegetale, semi, germogli, arbusti o alberi, in qualunque luogo si trovino.

— Non ho intenzione di commettere illegalità.

— Molti visitatori dicono la stessa cosa — borbottò l’incaricato. — Per favore, accomodatevi nella stanza qui vicino, e spogliatevi, liberandovi degli effetti personali. Vi saranno restituiti, non temete, quando ripartirete.

Farr lo fissava attonito: — Il denaro… la macchina fotografica, il…

— Vi verranno forniti gli equivalenti iszici.

Ammutolito, Farr entrò in una stanzetta dalle pareti smaltate, e si svestì. Un inserviente raccolse gli indumenti e li ripose in una cassetta di vetro, poi indicò a Farr che s’era dimenticato di togliere un anello.

— Immagino che, se avessi la dentiera, dovrei togliermi anche quella — ringhiò Farr.

L’Iszico non se lo fece dire due volte, e gli esaminò attentamente la bocca. — Nei vostri documenti — disse poi — è scritto che avete denti sani e tutti vostri, senza modifiche di alcun genere. — La parte superiore del suo occhio fissava Farr con sguardo indagatore: — È dunque falso?

— Ma no! — protestò Farr. — I miei denti sono tutti veri. Ho detto così, tanto per fare un’ipotesi… per scherzo.

L’Iszico borbottò qualcosa e condusse Farr in un altro locale dove lo sottoposero a un approfondito esame odontoiatrico. “Imparerò a non scherzare più” disse tra sé Farr. “Questa gente non ha il minimo senso dell’umorismo.”

Finalmente i medici, dopo aver scosso con aria delusa la testa, lo riconsegnarono all’incaricato che lo riportò in un locale vicino; qui v’era un Iszico in divisa bianca e grigia che si fece avanti brandendo una siringa ipodermica.

— Ehi, che roba è questa? — protestò Farr tirandosi indietro.

— Un irradiante innocuo.

— Non ne ho bisogno.

— È necessario — dichiarò il medico. — Servirà a proteggervi. Molti visitatori affittano battelli per far vela verso Pheadh. Vi sono frequenti tempeste e a volte i battelli perdono la rotta. Grazie a questo irradiante sarà possibile stabilire la vostra posizione sul pannello centrale.

— Non ho bisogno di essere protetto — obiettò Farr.

— Non voglio diventare un punto luminoso su un pannello.

— E allora dovete lasciare Iszm.

Farr cedette, imprecando contro il medico mentre quello gli faceva l’iniezione.

— Adesso passate nell’altra stanza per la foto a tre dimensioni, per piacere.

Farr alzò le spalle avviandosi nel locale vicino.

Rimase fermo e rigido mentre piani sensibili lo sfioravano per tutto il corpo, e in una specie di cupola di vetro andava prendendo forma un’immagine tridimensionale di lui stesso, a grandezza naturale.

— Grazie — disse alla fine l’incaricato. — Nella stanza vicina vi verranno forniti gli indumenti e tutto ciò di cui potete aver bisogno.

Farr indossò l’uniforme dei visitatori: morbidi pantaloni bianchi, camiciotto a righe verdi e grigie e un berretto floscio di velluto verde scuro che gli ricadeva su un orecchio. — E adesso me ne posso andare?

L’incaricato guardò attraverso una fessura vicino a lui, e Farr riuscì a scorgere un bagliore di lettere scintillanti. — Voi siete Farr Sainh, botanico e ricercatore — e fu come se avesse detto: “Voi siete Farr, il noto criminale”.

— Sono Farr.

— Dovrete espletare alcune formalità.

Le formalità gli presero tre ore. Farr fu affidato di nuovo agli Szecr, che lo esaminarono a fondo; infine lo lasciarono libero. Un giovane che portava le mostrine gialle e verdi degli Szecr lo scortò sino a una gondola che si dondolava sulla laguna, un’imbarcazione lunga e snella manovrata con un solo remo. Farr vi prese posto e vogando arrivò fino alla città di Jhespiano.

Era la prima volta che vedeva coi propri occhi una città iszica, e l’impressione fu notevolmente diversa dell’immagine che se ne era fatta. Le case crescevano a intervalli irregolari fra i viali e i canali ed erano massicci tronchi contorti, dai quali prima emergeva una specie di enormi baccelli inferiori, e poi spuntavano ammassi di grandi foglie che ricoprivano quasi totalmente i baccelli superiori. Qualcosa si mosse nella mente di Farr, un’associazione d’idee… lieviti o mixomiceti al microscopio. Lamproderma violaceum? Dictydium cancellatum? La proliferazione dei rami era la stessa. I baccelli avrebbero potuto anche essere enormi sporangi. La perfetta, geometrica simmetria degli archi era uguale, identici gli strani e complessi colori: blu cupo con la parte inferiore di un vivido grigio; arancione scuro con sfumature rossastre, rosso con una patina di splendente porpora, verde tenero, bianco ravvivato di rosa, marrone chiaro e via via più cupo, quasi nero. Nei viali si affollavano gli Iszici, gente pallida e tranquilla, sicura al riparo delle sue corporazioni e delle sue caste.

La gondola scivolò verso l’approdo, dove stava ad aspettare un Iszico in berretto giallo gallonato di verde, certo un uomo qualunque, perché gli Szecr tenevano segreti i dubbi e le informazioni relativi a Farr.

Non avendo alcun motivo d’indugiare, il botanico si avviò lungo un viale, verso uno dei nuovi alberghi cosmopoliti. Nessuno Szecr cercò di fermarlo. Ormai era libero, anche se sotto continua sorveglianza.

Farr si riposò bighellonando, durante una settimana, nei viali della città. Incontrò pochi visitatori provenienti da altri mondi, in quanto le autorità di Iszm scoraggiavano il più possibile il turismo, pur senza violare il Trattato di ammissione. Farr cercò di ottenere un colloquio col Presidente del Consiglio d’esportazione, ma un funzionario lo dissuase con modi tanto cortesi quanto decisi, facendogli capire benissimo che era al corrente del fatto che Farr voleva prendere accordi per l’eventuale esportazione di case di qualità scadente. Farr non se la prese, perché se l’era aspettato. Esplorò in gondola canali e lagune, passeggiò per i viali, seguito a turno da almeno tre Szecr che lo tenevano d’occhio nei viali, o dai baccelli più vicini alle terrazze pubbliche.

Una volta, Farr si spinse lungo il bordo della laguna fino all’estremo lembo dell’isola, una zona tutta sabbia e rocce esposta ai venti e al sole. Qui vivevano le caste più basse, in modeste case a tre baccelli che crescevano in lunghe file su viali di sabbia infuocata. Queste abitazioni erano di un colore neutro, grigioverde sfumato di marrone con un ciuffo centrale di grosse foglie che ombreggiavano i baccelli stessi. Non era permesso esportare case di quel tipo, e Farr, uomo dotato di profonda coscienza sociale, si sentì avvampare d’indignazione. Era una vergogna che simili case non potessero essere offerte ai miliardi di terrestri bisognosi! Un intero quartiere di abitazioni come quelle sarebbe costato pochissimo: il solo costo della semente! Farr si avvicinò a una casa e sbirciò dentro un baccello che pendeva basso. In quel momento cadde un ramo e se Farr non fosse stato pronto a scostarsi, sarebbe rimasto schiacciato, invece fu sfiorato solo dalle foglie. Uno Szecr, che sostava a una ventina di metri, si avvicinò dicendo: — Vi consiglio di non molestare le piante.

— Non stavo molestando nessuno!

— L’albero la pensava diversamente — replicò lo Szecr con sicurezza. — Hanno imparato a sospettare degli stranieri. Fra le caste inferiori — e lo Szecr sputò con disprezzo — ci sono faide e liti in continuazione, e gli alberi si trovano a disagio in presenza di stranieri.

Farr si volse a esaminare la pianta con rinnovato interesse: — Intendete dire che l’albero possiede una mente cosciente?

Lo Szecr rispose con un’indifferente alzata di spalle.

— Ma perché non esportate queste piante? — continuò Farr. — Sarebbe un commercio fiorentissimo. Ci sono fin troppe persone che si accontenterebbero di abitazioni come queste, non potendosene permettere di migliori.

— Vi siete risposto da solo — replicò lo Szecr. — Chi ha il monopolio sulla Terra?

— K. Penche.

— È ricco?

— Ricchissimo.

— Sarebbe altrettanto ricco se vendesse tuguri come questi?

— Credo.

Lo Szecr fece per allontanarsi. — Comunque — concluse — noi non vogliamo trarne profitto. Non è meno difficile sradicare, imballare e spedire queste case che non quelle di classe AA che abbiamo deciso di esportare… E mi raccomando di non cercar più di esaminare così da vicino una casa. Potreste farvi male sul serio. Le case non sono così indulgenti verso gli intrusi come lo sono i loro abitanti.

Farr continuò a vagabondare per l’isola, giungendo in una zona dove si estendevano frutteti in cui crescevano rozzi arbusti al cui centro spuntavano ciuffi di baccelli color ebano lunghi una decina di centimetri e del diametro di due e mezzo lisci, lustri, rigidi. Farr cercò di esaminarli da vicino, ma lo Szecr intervenne immediatamente.

— Non sono alberi-casa — protestò Farr — e comunque non ho intenzione di fare danni. Sono un botanico e le piante insolite m’interessano.

— Non importa — disse lo Szecr, un tenente. — Né le piante né i ceppi che le producono sono di vostra proprietà e quindi non vi devono interessare.

— A quanto pare gli Iszici non danno alcun credito alla curiosità intellettuale — osservò Farr.

— In compenso ce ne intendiamo moltissimo di rapine, furti, sfruttamento, imbrogli.

Farr non seppe cosa rispondere e, con un sorrisetto acido, continuò la sua passeggiata lungo il litorale per poi tornare verso i baccelli e le foglie multicolori della città.

C’era un aspetto della sorveglianza a cui era sottoposto che gli dava da pensare. Additando un agente poco lontano, domandò al tenente Szecr: — Perché mi imita? Se mi siedo, si mette lui pure a sedere. Se bevo, beve anche lui. Se mi gratto il naso, si gratta il naso.

— Si tratta di una tecnica speciale — spiegò l’altro. — Così impariamo a indovinare i vostri pensieri.

— Non è possibile.

— Forse Farr Sainh ha ragione — ammise il tenente con un inchino.

— Siete davvero convinti di riuscire a prevedere le mie mosse? — domandò con tono ironico Farr.

— Possiamo limitarci a fare del nostro meglio.

— Oggi pomeriggio ho intenzione di affittare un battello da mare. Lo avevate indovinato?

Il tenente gli mostrò un foglio. — Ho già pronto il permesso. La barca si chiama Lhaiz e ho già ingaggiato l’equipaggio.

2

La Lhaiz era un due alberi che aveva la forma di uno zoccolo olandese, con vele color porpora e una cabina spaziosa Si era sviluppato da uno speciale albero-barca, ed era composta di un unico pezzo: l’albero maestro era stato, in origine, il picciolo del baccello. L’albero di trinchetto, il pennoncino, il boma e il sartiame erano stati aggiunti in un secondo tempo, operazioni fastidiose per un abitante di Iszm quanto il moto meccanico per un ingegnere elettronico della Terra. L’equipaggio fece vela verso ovest. All’orizzonte si vedevano atolli, che scomparvero poi a poppa. Alcuni erano minuscoli giardini deserti, altri erano adibiti alle seminagioni, alle colture, alle riproduzioni per innesto, ai trapianti, alle selezioni, all’imballaggio e alla spedizione delle case.

Nella sua qualità di botanico, Farr s’interessava soprattutto alle piantagioni, ma proprio lì la sorveglianza era talmente ossessionante che non poteva praticamente muoversi.

Giunto all’atollo di Tjiere, Farr era così furibondo ed esasperato che decise di sfuggire ai guardiani. La Lhaiz s’era avvicinata al molo, e due uomini dell’equipaggio avevano gettato le cime a terra, mentre altri ammainavano le vele. Aile Farr balzò agevolmente a terra dal ponte di poppa, incamminandosi verso la spiaggia. Sentendo alle sue spalle un mormorio di disapprovazione, provò in cuor suo una gioia maligna.

La spiaggia si stendeva ampia, battuta dai marosi, e gli scogli di basalto erano chiazzati di vegetazione verde, azzurra e nera. Uno spettacolo veramente pieno di pace e di bellezza. Farr dovette dominarsi per non saltare dal molo sulla spiaggia e sparire sotto il denso fogliame. Gli Szecr erano molto compiti, ma avevano il grilletto facile.

In quella si fece avanti sulla banchina un uomo alto e robusto, che aveva il corpo completamente avvolto in grosse strisce azzurre fra le quali si vedeva la scialba pelle degli Iszici. Farr rallentò il passo: la libertà era finita.

L’Iszico sollevò un occhialetto a lente unica inserito sulla sommità di una canna d’ebano, distintivo degli Iszici di casta superiore. Essi non mancavano mai di portarlo quasi facesse parte di loro stessi, e la sua vista irritava regolarmente Farr. Come gli altri stranieri, come gli altri Iszici stessi, non aveva scelta né possibilità di difesa o di riparo. La sostanza irradiante che gli avevano iniettato nella spalla era come un’etichetta, e ormai era catalogato.

— Con vostro piacere, Farr Sainh? — L’Iszico si esprimeva nel dialetto parlato dai bambini prima che imparassero la lingua di casta.

Rassegnato, Farr diede la risposta del caso: — Attendo il vostro volere.

— Il sovrintendente al porto è stato inviato per esprimervi il dovuto omaggio. Siete forse impaziente?

— Il mio arrivo è un avvenimento trascurabile, vi prego di non disturbarvi.

L’Iszico sollevò l’occhialetto. — È un privilegio salutare un collega scienziato.

Con un tetro sorriso, Farr replicò: — Quel coso vi dice anche che mestiere faccio?

L’Iszico esaminò la spalla destra di Farr. — Vedo che avete la fedina penale pulita; quoziente d’intelligenza 23, livello di perseveranza, classe 4…

— A chi ho l’onore di parlare?

— Mi chiamo Zhde Patasz, e sono tanto fortunato di fare il coltivatore nell’atollo di Tjiere.

— Siete un piantatore? — domandò Farr osservando con maggior interesse l’uomo a strisce.

Zhde fece roteare l’occhialetto. — Avremo molto da discutere… Spero che sarete mio ospite.

Il sovrintendente al porto arrivò ansante. Zhde Patasz sollevò l’occhialetto e si allontanò in fretta.

— Farr Sainh — disse il sovrintendente. — La vostra modestia vi ha indotto ad allontanarvi dalla vostra scorta ufficiale. Questo ci rattrista profondamente.

— State esagerando.

— Non è possibile. Da questa parte, Sainh.

Scese lungo la banchina di cemento verso un ampio canalone, e Farr lo seguì con tal voluta lentezza che l’altro fu costretto, a più riprese, a fermarsi per aspettarlo. Il canalone portava ai piedi della scogliera, e qui si trasformava in passaggio sotterraneo. Il sovrintendente aprì quattro porte di vetro che si richiusero poi alle loro spalle, e Farr ebbe la percezione che scandagli, detector, sonde e analizzatori lo stessero vagliando per provare le sue radiazioni, la sua massa e il suo contenuto metallico.

Non se ne preoccupò, perché sapeva che non avrebbero scoperto niente. Indossava l’uniforme che gli avevano dato dopo essersi presi i suoi effetti personali, e non aveva altro con sé.

Il sovrintendente bussò a una porta di ruvido metallo, che si schiuse al centro come una saracinesca medievale. Da lì, passarono in una stanza luminosa dove, dietro un bancone, sedeva uno Szecr che portava le solite mostrine gialle e verdi.

— Con la compiacenza del Sainh… l’immagine tridimensionale per i nostri archivi.

Farr salì pazientemente sul disco di metallo grigio.

— Palmi in fuori, occhi aperti.

Farr stava immobile mentre pannelli sensibili lo sfioravano lungo tutto il corpo.

— Grazie, Sainh. — Farr si avvicinò al banco. — Questa è diversa da quella di Jhespiano. Vediamo un po’

L’incaricato mostrò a Farr un foglio trasparente al cui centro era l’immagine di un uomo che pareva una macchia marrone. — Non mi assomiglia molto — commentò Farr.

Lo Szecr fece scivolare il foglio in una fessura, e sul banco comparve subito una riproduzione tridimensionale di Farr che si sarebbe potuta ingrandire centinaia di volte, in modo da rilevarne le impronte digitali, da individuare i pori della pelle e la configurazione della retina.

— Mi piacerebbe averne una copia per ricordo — disse Farr. — Qui almeno sono vestito, mentre in quella di Jhespiano mostravo le mie bellezze al naturale.

— Prendetela pure — fece l’Iszico alzando le spalle.

Farr si mise la copia in tasca.

— E ora, Farr Sainh, posso rivolgervi una domanda che forse giudicherete impertinente?

— Una più una meno, non ci farò caso.

Farr sapeva che c’era un cefaloscopio puntato sul suo cranio, e che ogni impulso di eccitazione, ogni brivido di paura sarebbero stati immediatamente registrati. Per mantenersi assolutamente calmo, decise di pensare a una stanza da bagno.

— Avete intenzione di rubare qualche casa, Farr Sainh?

“Liscia porcellana fredda, sensazione di aria e acqua tiepida, profumo di sapone.”

— No.

— Sapete se esistano progetti tendenti a tale scopo?

“Sdraiati nell’acqua calda, rilassati.”

— No.

Lo Szecr si mordicchiò un labbro, facendo una smorfia di cortese scetticismo. — Sapete quali punizioni toccano ai ladri?

— Oh, certo! Vengono internati in manicomio.

— Grazie, Farr Sainh, potete andare.

3

Il sovrintendente al porto affidò Farr a due Szecr di basso rango con mostrine gialle e oro.

— Da questa parte, per favore.

Salirono una rampa e si fermarono sotto un’arcata che aveva la parete di vetro.

Farr si fermò per osservare la piantagione, mentre le guide si mostravano impazienti di andare avanti.

— Se Farr Sainh vuole…

— Un momento — rimbeccò Farr irritato. — Non c’è fretta.

Alla sua destra si estendeva la città, un’intricata foresta di svariate forme e colori. Nello sfondo crescevano le modeste case operaie a tre baccelli appena visibili dietro il magnifico sfoggio delle case dei piantatori, degli Szecr, dei coltivatori e degli sradicatori che si stendevano lungo la laguna. Tutte queste case erano diverse una dall’altra, allevate e foggiate secondo tecniche segrete che gli Iszici non rivelavano nemmeno ai loro compatrioti.

Farr le trovava bellissime, ma di una bellezza strana che lo infastidiva, come talvolta dà fastidio al palato un sapore nuovo. Pensò che fosse l’ambiente a influenzare il suo giudizio. Le case isziche risultavano abitabili, sulla Terra, ma qui erano nel loro ambiente naturale e tutte le stranezze di quel bizzarro pianeta derivavano dalla sua stranezza fondamentale.

Farr guardò con attenzione i campi che si estendevano a perdita d’occhio alla sua sinistra, alternando distese grigie, marroni, grigioverdi, verdi, secondo l’età e la varietà delle piante. Ogni pianta era dotata di una lunga e bassa rimessa in cui si faceva la cernita e si spedivano le sementi mature in tutto l’Universo.

I due Szecr cominciarono a borbottare nella lingua della loro casta e Farr si staccò dalla finestra.

— Da questa parte, Farr Sainh.

— Dove andiamo?

— Siete ospite di Zhde Patasz Sainh.

“Benone!” pensò Farr. Aveva studiato le case esportate sulla Terra, quelle di categoria AA vendute da K. Penche, e si rendeva conto che non avrebbero potuto reggere al confronto con quelle che i piantatori allevavano per loro uso personale.

Notando che i due Szecr, immobili come statue, fissavano il pavimento, domandò: — Che cosa succede?

I due ansimavano. Farr guardò a sua volta il pavimento: una vibrazione, un rombo lontano. “Un terremoto!” pensò Farr. Il rumore andò aumentando e le vetrate tintinnarono. Farr capì che stava per succedere qualcosa di terribile. Guardò oltre la vetrata e vide nel campo più vicino la terra sollevarsi e spaccarsi come per effetto di un’esplosione, proiettando ovunque teneri virgulti e sementi Un muso di metallo sbucò dall’apertura incominciando a salire… tre metri… sei metri. Una porta si spalancò con rumore metallico, e uomini bassi, bruni e muscolosi si riversarono nei campi mettendosi rapidamente a sradicare i virgulti. Sulla soglia, un uomo dai lineamenti tesi impartiva ordini incomprensibili.

Farr fissava la scena affascinato: era una scorreria in grande stile, una rapina mai vista. Da Tjiere si udirono risuonare dei corni e si sentì pure il sinistro sibilo dei raggi mortali. Due predoni, da bruni, divennero rossi. L’uomo che impartiva ordini urlò qualcosa e tutti si affrettarono a rientrare nel muso metallico.

Il portello si richiuse con violenza, ma uno degli scorridori non era stato abbastanza svelto: picchiò coi pugni sulla porta, ma invano. Stringendo nel pugno i germogli che aveva appena strappato, continuò a picchiare preso dal panico.

Il muso incominciò a vibrare, sollevandosi ancor più dalla buca. Dal forte di Tjiere stavano lanciando piastre di metallo. Nella fiancata del mostro si aprì un’apertura rotonda e un’arma sconosciuta vomitò una fiamma azzurra. Un albero enorme, a Tjiere, ondeggiò e si abbatté di schianto. I due Szecr caddero in ginocchio, annichiliti.

Dalle rovine dell’albero, dai suoi grandi baccelli, dalle foglie-terrazza, dalle liane, dai terrazzi eleganti erano precipitati con la casa-albero decine di corpi di Iszici. Intanto, l’uomo bruno che continuava invano a sperare di poter risalire a bordo, scalciava nel vuoto mentre il muso metallico continuava a innalzarsi. Era questione di attimi, fra poco tutto lo scafo sarebbe uscito dal sottosuolo, e l’apparecchio avrebbe decollato come una freccia nello spazio.

Farr alzò gli occhi al cielo. Tre apparecchi da caccia, brutti, goffi e pesanti, simili a scotpioni di metallo, stavano scendendo in picchiata.

Un raggio mortale scavò un cratere vicino allo scafo. L’uomo bruno era appeso al portello, a venti metri dal suolo. Roteò tre volte su se stesso, e ricadde pesantemente di schiena.

Lo scafo cominciò a vibrare dapprima adagio, poi sempre più forte. Un altro raggio lo colpi sulla prua con uno schianto di metallo lacerato. Un altro ancora sollevò nubi di terriccio che lo ricoprirono.

I due Szecr s’erano rialzati, e, fissando il campo devastato, gridavano in una lingua incomprensibile. Uno afferrò Farr per un braccio.

— Venite. Dobbiamo portarvi al sicuro. Pericolo! Pericolo!

Farr si liberò dalla stretta. — Aspetterò qui.

— Farr Sainh, Farr Sainh — lo implorarono. — Abbiamo ordine di mettervi al sicuro!

— Qui sono al sicuro — insisté lui. — Voglio stare a guardare.

I tre caccia erano ormai sopra al cratere.

— Penso che i rapinatori ce la facciano! — osservò Farr.

— No! È impossibile — gridò uno degli Szecr. — Sarebbe la fine di Iszm!

Dal cielo scese un apparecchio più piccolo degli altri tre, che somigliava a una vespa. Si posò sul cratere e incominciò ad affondare, come uno scandaglio. Pochi attimi dopo era scomparso vibrando e ronzando sottoterra.

Lungo l’arcata arrivarono correndo una dozzina d’uomini, e Farr si accodò a essi, d’impulso, ignorando i due Szecr.

Gli Iszici attraversarono il campo, sempre di corsa, diretti al cratere, tallonati da Farr. Quando oltrepassarono il corpo dell’uomo bruno che era precipitato, Farr si fermò. Lo sconosciuto era alto, di fattezze leonine, con capelli folti, simili a una criniera e lineamenti marcati. Stringeva ancora nel pugno gli arbusti che aveva sradicato. Le dita si schiusero, inerti, proprio mentre Farr gli si fermava accanto e, contemporaneamente, l’uomo aprì gli occhi. Farr si chinò, diviso fra la compassione e la curiosità, ma subito fu afferrato da mani robuste. Voltatosi, scorse mostrine gialle e verdi e visi furibondi con labbra pallide tese su denti aguzzi.

— Lasciatemi andare! Lasciatemi andare! — gridò Farr dibattendosi mentre lo trascinavano via dal campo. Ma le mani degli Szecr affondarono ancor più duramente nelle sue braccia e nelle sue spalle. Parevano in preda a una muta pazzia furiosa, e Farr capì che era meglio tacere.

Di sotterra provenne un rombo sordo e continuo, poi il terreno si sollevò.

Gli Szecr trascinavano Farr verso Tjiere, e Farr tentava di opporre resistenza, dibattendosi e facendo forza coi piedi. Ma qualcosa di molto pesante lo colpì alla nuca, e, mezzo intontito, rinunciò infine a resistere. I suoi guardiani lo condussero sino a un albero isolato, vicino alla scogliera di basalto. Era un albero molto vecchio, col tronco nero e contorto, un pesante ombrello di foglie e pochi baccelli logori. Nel tronco si apriva un foro irregolare, nel quale gli Szecr spinsero Farr senza tante cerimonie.

4

Aile Farr cadde urlando nel buio, scalciando e agitando le braccia in cerca di un appiglio a cui afferrarsi. Urtò con la testa contro la parete ruvida del pozzo, poi urtò con le spalle e coi fianchi, e infine con tutta la superficie del corpo: il pozzo era diventato uno stretto scivolo obliquo, e i suoi piedi colpirono una membrana che si lacerò, poi un’altra e un’altra ancora. Qualche attimo dopo, andò a sbattere su una parete solida, e l’impatto lo tramortì. Rimase immobile alcuni minuti prima di riuscire a connettere.

Quando fu in grado di muoversi, si toccò per prima cosa la testa, dove scoprì una lunga abrasione che bruciava al tatto. Si sentiva uno strano rumore, un sibilo che andava avvicinandosi, come se un oggetto pesante stesse correndo giù per lo scivolo. Farr si fece da parte e qualcosa di grosso e massiccio lo colpì al costato per andar poi a urtare, con un tonfo e un gemito, la parete. Seguì un silenzio interrotto solo da un pesante ansimare.

— Chi è là? — domandò Farr circospetto.

Nessuna risposta.

Farr ripeté la domanda in tutte le lingue e i dialetti che conosceva, sempre senza ottenere risposta. Cercò di mettersi a sedere, ma lo fece con fatica, non aveva luce né il mezzo per procurarsene. Il respiro divenne rumoroso, affaticato. Annaspando nel buio, Farr trovò un corpo accasciato e rattrappito. Inginocchiatosi a fatica, lo rivoltò, stendendolo sul dorso e raddrizzandogli braccia e gambe: il respiro si fece più regolare.

Farr si mise da parte e rimase in attesa. Passarono circa cinque minuti. Le pareti della galleria vibrarono al rombo di una lontana esplosione che si ripeté dopo un paio di minuti. Evidentemente la battaglia sotterranea era nel suo pieno svolgimento, pensò Farr. Vespa contro talpa, duello sotterraneo all’ultimo sangue.

A un nuovo colpo le pareti vibrarono talmente forte che Farr rimase intontito. Era stata un’esplosione più violenta delle altre, certo quella che aveva messo la parola fine alla lotta. L’uomo ansimò e tossì.

— Chi siete? — domandò ancor Farr.

Un fascio luminoso lo colpì in piena faccia, e Farr chiuse gli occhi voltando il viso. La luce seguì i suoi movimenti.

— Allontanate quel maledetto affare! — strillò Farr.

La luce si mosse su e giù sul suo corpo, soffermandosi sulla camiciola a rigoni. Al riflesso, Farr poté scorgere un uomo bruno, tutto coperto di escoriazioni e di ecchimosi. La luce proveniva da un fermaglio posto su una spalla della giubba.

L’uomo parlò con voce bassa e roca in una lingua sconosciuta, e Farr scosse la testa per dimostrare che non capiva. L’altro lo fissò a lungo, dubbioso, circospetto, poi, ignorando Farr, si alzò a fatica ed esaminò con cura minuziosa le pareti della cella. Sopra di loro, inaccessibile, c’era l’apertura dalla quale erano caduti e da un lato uno sfiatatoio coperto da un fitto groviglio di nodi. Farr era furibondo e irritato e il taglio alla testa gli faceva male. Non capiva perché lo sconosciuto se la prendesse tanto, dal momento che non c’era possibilità di fuga. Gli Szecr erano veri maestri, quando si trattava di tener prigioniero qualcuno.

Osservando meglio l’uomo bruno, Farr pensò che dovesse essere un Thord, cioè un appartenente alla razza più simile a quella umana delle tre razze arturiane. Sul conto di quella gente circolavano storie poco rassicuranti, e Farr non si sentiva molto a suo agio con quel compagno di prigionia… specialmente al buio.

Dopo aver completato lo studio delle pareti, il Thord riprese a esaminare Farr. Aveva occhi freddi, lucenti, profondi e gialli come topazi cabochon. Quando riprese a parlare, con la sua voce bassa e roca, disse: — Questa non è una vera prigione.

Farr rimase interdetto. Date le circostanze, s’era aspettato qualcosa di diverso. — Come sarebbe a dire?

Il Thord lo studiò attentamente prima di rispondere: — C’è stata una gran confusione. Gli Iszici ci hanno buttato qui per sicurezza, ma presto ci porteranno altrove. In questo luogo non ci sono spie né rivelatori. È un magazzino.

Farr esaminò dubbioso i muri, e quando sentì che il Thord borbottava qualcosa lo fissò stupito finché non si fu reso conto che l’altro stava ridacchiando divertito. — Vi stupite perché lo so — disse il Thord. — Io ho una speciale sensibilità per percepire il peso dell’attenzione.

Farr si limitò ad assentire educatamente. Cominciava ad avvertire il fastidio di essere osservato, e quindi si voltò. Il Thord emise uno strano suono prolungato, triste e monotono. Era un lamento? Una trenodia? La luce si attenuò ma il lugubre mormorio andò avanti ancora, finché Farr si sentì venir meno per la sonnolenza e si addormentò. Fu un sonno inquieto che non gli diede alcun riposo. Gli pareva di avere la testa in fiamme, e sentiva voci e imprecazioni. Forse era tornato sulla Terra, e stava insieme a qualcuno. A chi? A un amico? Farr si agitò farfugliando, cercando di svegliarsi. Le voci roche, i passi, le immagini inquiete a poco a poco svanirono e finalmente poté riposare tranquillo.

La luce entrava da una fessura ovale rivelando la sagoma di due Iszici. Svegliatosi, non si stupì molto nel constatare che il Thord era scomparso, perché il locale in cui si trovava era diverso dall’altro, certo non era più alla radice del vecchio albero contorto.

Si rizzò a sedere, ma aveva la vista annebbiata e gli riusciva difficile connettere le idee: aveva l’impressione che le sue facoltà mentali fossero come parti staccate fluttuanti nell’aria.

— Aile Farr Sainh — disse uno degli Iszici — possiamo darvi il disturbo di accompagnarci? — Avevano mostrine gialle e verdi: erano Szecr.

Farr si alzò barcollando e barcollando varcò la porta ovale, percorrendo un corridoio, preceduto e seguito da uno Szecr. Dopo un po’, il primo di essi fece scorrere un pannello, e Farr si ritrovò vicino all’arcata dove aveva sostato prima. Lo portarono all’aperto, sotto il cielo buio della notte tutto scintillante di stelle, e Farr notò il suo Sole pochi gradi sotto la stella Beta dell’Auriga. Quella vista non gli diede dolore né nostalgia. Non era più capace di provare emozioni, né di interessarsi a qualcosa. Si sentiva leggero, spensierato e felice.

Superate le rovine dell’albero-casa caduto, si avviarono verso la laguna. Davanti a un tronco si stendeva un morbido tappeto di muschio.

— La casa di Zhde Patasz Sainh — disse lo Szecr. — Siete suo ospite. Ha garantito per voi.

La porta scivolò su se stessa e Farr entrò nel tronco, con le gambe che gli si piegavano. La porta si richiuse alle sue spalle, e si ritrovò solo in mezzo a un alto atrio circolare. Dovette appoggiarsi al muro per reggersi, e solo con un notevole sforzo gli riuscì di concentrarsi.

Poco dopo arrivò una giovane Iszica a strisce bianche e nere fra le quali si vedeva la pelle chiara; aveva un turbante nero in testa. Una grossa linea nera sulla fronte accentuava la divisione orizzontale degli occhi.

— Farr Sainh — disse la donna — concedetemi la vostra compagnia.

Lo scortò verso un ascensore circolare che li portò a trenta metri d’altezza. La salita diede il capogiro a Farr.

— Di qui, Farr Sainh — disse la donna sfiorandolo con la mano fresca.

Farr fece un passo avanti, ma dovette fermarsi appoggiandosi al muro finché l’attacco di vertigini non fu passato.

La donna aspettava paziente. Quando a Farr si snebbiò la vista, l’uomo vide che si trovavano all’interno d’uno dei rami più grossi. La donna lo prese per mano.

— Mi hanno drogato — si lamentò Farr guardandola negli occhi chiari.

— Da questa parte, Farr Sainh — rispose lei, impassibile.

Gli fece strada per un corridoio sinuoso, e Farr la seguì lentamente, sentendosi man mano sempre più in forze.

La donna si fermò davanti a un uscio in fondo al ramo, si volse, e disse: — Questo è il vostro alloggio. Non vi mancherà niente. La dendrologia è un libro aperto per Zhde Patasz. I suoi vivai esaudiscono ogni desiderio. Entrate e godete della squisita casa di Zhde Patasz.

Farr entrò nel locale, che costituiva uno dei quattro compartimenti in cui era diviso il baccello. Era la stanza più complicata che avesse mai visto. Si trattava di una sala da pranzo. Dal pavimento spuntava un grosso picciolo che andava allargandosi per formare un tavolo sul quale era disposta una dozzina di vassoi carichi di vivande. La stanza attigua, tappezzata di fibre azzurre, era una camera da riposo, e accanto ce n’era un’altra il cui impiantito era coperto di nettare che arrivava all’altezza delle caviglie ed era color verde pallido. Qui trovò ad attenderlo un piccolo Iszico che lo salutò molto cerimoniosamente. Aveva le strisce rosa e bianche dei servi di casa. Con gesti abili spogliò Farr, che s’immerse nel bagno di nettare. Il servo bussò alla parete e da mille invisibili orifizi si riversò su Farr una pioggerella fresca e profumata. Raccolse poi una coppa di nettare e lo versò sulla testa di Farr, che si coprì subito di fresca e densa schiuma. Quando la schiuma si dissolse, Farr sentì la pelle liscia e rinvigorita. Il servo gli si avvicinò con un bacile pieno di una pasta incolore che spalmò sulle guance di Farr, e la barba scomparve.

Intanto, sul soffitto, era andata formandosi una bolla di liquido racchiusa entro una fragile membrana. Continuava a crescere, oscillando e vibrando, e a un dato momento il ragazzo accostò alla bolla una spina aguzza: la membrana scoppiò e su Farr ricadde una cascata di liquido aromatico, profumato di chiodi di garofano, che evaporò immediatamente. Quindi Farr passò nel quarto locale dove il servitore gli aveva preparato abiti puliti; quando si fu vestito gli appuntò alla gamba una rosetta nera. Conoscendo bene gli usi e i costumi degli Iszici, Farr non fu stupito di quel gesto. La rosetta, emblema personale di Zhde Patasz, racchiudeva in sé molti significati. Farr veniva insignito del titolo di ospite d’onore della casa di Zhde Patasz, il quale, in tal modo, lo prendeva automaticamente sotto la sua protezione e lo avrebbe difeso da qualsiasi nemico. Farr sarebbe stato libero di girare per la casa, e di comportarsi come se ne fosse il padrone; avrebbe potuto manipolarne le nervature, i riflessi, i pulsanti e i condotti, avrebbe potuto disporre a suo piacimento di tutti gli averi di Zhde Patasz, insomma avrebbe potuto considerarsi l’alter ego del padrone di casa. L’onore che gli era stato concesso era più unico che raro, e addirittura senza precedenti nei riguardi di un Terrestre. Farr non sapeva cosa avesse fatto per meritarsi tanto. Forse, Zhde Patasz voleva in tal modo ripagarlo del trattamento rude a cui l’avevano sottoposto finora. Sì, la spiegazione doveva essere questa: gli Iszici l’avevano malmenato durante l’incursione dei Thord, e Zhde Patasz voleva riparare al mal fatto con la sua cortesia. Farr si augurò che il suo ospite non si formalizzasse troppo per la sua ignoranza del galateo iszico.

Poco dopo ricomparve la donna che lo aveva accolto nell’atrio. Lo salutò con un’elaborata genuflessione. Ignorante com’era del cerimoniale, Farr non riuscì a capire se, come gli era parso, il gesto celasse un sottofondo ironico. Si riservò di giudicare in un secondo tempo. Si trattava di una burla? No, gli pareva impossibile, in quanto gli Iszici erano assolutamente privi di senso dell’umorismo.

— Aile Farr Sainh — salmodiò la donna — ora che vi siete rinfrescato, volete raggiungere il vostro ospite Zhde Patasz?

— Quando volete — rispose Farr con un sorriso.

— Allora permettetemi di farvi strada. Vi accompagnerò nei baccelli privati di Zhde Patasz Sainh, che vi attende con impazienza.

Farr la seguì lungo il corridoio, sino a una rampa in discesa, dove il ramo s’inclinava, e di qui, con un ascensore, salirono lungo il tronco principale. Sbucarono in un altro corridoio. Giunti davanti a una porta, la donna si fermò, fece un inchino, e allargando le braccia, disse: — Zhde Patasz Sainh vi attende.

La porta si aprì e Farr entrò nella stanza. Zhde Patasz non era lì, e lui avanzò con circospezione, guardandosi in giro. Il baccello era lungo una decina di metri e si apriva su una balconata intorno a cui correva un’alta balaustra. Le pareti e il soffitto a volta erano ricoperti da una sottile fibra verde intrecciata fittamente, il pavimento era di folto muschio color prugna, e dai muri uscivano bizzarre lampade. Contro una parete erano appoggiate quattro poltrone-baccello color magenta, e al centro del pavimento era posato un alto vaso cilindrico pieno d’acqua, di piante e di brune anguille guizzanti. Ai muri pendevano quadri di antichi maestri terrestri, che spiccavano in modo strano in quell’ambiente inusitato.

— Farr Sainh — salutò Zhde Patasz entrando dalla balconata — spero che vi sentiate bene.

— Abbastanza — rispose cauto Farr.

— Volete accomodarvi?

— Ai vostri ordini — disse, prendendo posto su uno dei fragili pericarpi color magenta, la cui morbida pelle si adattò subito alle curve del suo corpo.

Zhde Patasz sedette anche lui, e seguì un lungo silenzio durante il quale i due si esaminarono a vicenda Zhde Patasz ostentava le strisce azzurre della sua casta e aveva le guance pallide chiazzate da dischi rossi. Non si trattava certo di una decorazione priva di significato, perché Farr sapeva che tutte le esteriorità di cui si fregiavano gli Iszici avevano una loro precisa ragione. Quel giorno, Zhde Patasz non aveva berretto e i nodi e le increspature del suo cranio formavano quasi una cresta, emblema di millenni di discendenza aristocratica.

— Dunque, siete soddisfatto della vostra visita a Iszm? — domandò finalmente l’ospite.

Dopo aver pensato un momento, Farr decise di rispondere in modo formale: — Ho visto molte cose interessanti. Ma sono anche stato fatto oggetto di molestie, che spero non avranno conseguenze permanenti. — Si tastò il cranio, e proseguì: — La vostra ospitalità compensa i maltrattamenti che ho subito.

— È una notizia che mi addolora — commentò Zhde Patasz. — Chi vi ha maltrattato? Datemi i nomi, e farò in modo che siano affogati.

Farr confessò di ignorare i nomi degli Szecr che l’avevano fatto cadere nel vecchio tronco. — E poi — aggiunse — erano preoccupatissimi per l’incursione, e quindi perdonabili. Ma in seguito mi hanno drogato, e questo non lo ammetto.

— Avete ragione — rispose Zhde in tono blando — ma gli Szecr somministrano sempre un gas ipnotico ai Thord, e per uno stupido errore vi hanno rinchiuso nella stessa cella e sottoposto a quell’indegno trattamento. Sono certo che i responsabili sono in preda ai più profondi rimorsi.

— Hanno ignorato i miei diritti legali — protestò Farr indignato. — È stato violato il Trattato di ammissione!

— Spero che vorrete perdonarci — rispose Zhde Patasz. — Capirete anche voi che dobbiamo proteggere le nostre piantagioni.

— Io non avevo niente a che fare con quella scorreria!

— Sì, lo sappiamo.

— Immagino che mentre ero sotto l’effetto della droga mi abbiate estorto tutto ciò che so — fece l’altro con un sorriso amaro.

Zhde Patasz contrasse il filamento che divideva i settori degli occhi, facendo una smorfia che per gli Iszici era l’equivalente di un sorriso divertito.

— Per caso mi hanno informato della vostra disavventura.

— Disavventura? È stato un oltraggio!

Con un gesto conciliante, Zhde Patasz replicò: — Gli Szecr sono soliti sottoporre i Thord a trattamento ipnotico. Si tratta di una razza dotata di enormi capacità sia fisiche che psichiche, nonché di ben note deficienze morali, e proprio per ciò è stata ingaggiata per compiere la scorreria.

— Volete dire che i Thord non agivano per conto proprio? — domandò stupito Farr.

— Non credo. Si trattava di un piano e di un’organizzazione troppo precisi e accurati. I Thord sono una razza impaziente e, di conseguenza, non ci sembra possibile che abbiano organizzato la spedizione. Questo è il nostro parere e siamo ansiosi di scoprire i mandanti.

— Per questo mi avete esaminato sotto ipnosi, violando il Trattato di ammissione!

— Sono certo che le domande si riferivano solo a questioni attinenti la scorreria — rispose Zhde Patasz cercando di calmare Farr. — Forse gli Szecr sono stati troppo zelanti, ma dovete ammettere che si poteva sospettare di voi.

— No, non lo ammetto.

— No? — Zhde Patasz sembrava sorpreso. — Siete arrivato a Tjiere proprio il giorno dell’incursione, avete tentato di sfuggire alla vostra scorta sul molo… perdonatemi se elenco i vostri errori.

— Niente, niente, proseguite pure.

— Sotto l’arcata siete sfuggito di nuovo alla scorta, siete corso nel campo con l’apparente intenzione di partecipare alla scorreria.

— Non è affatto vero!

— Noi abbiamo avuto questa impressione — continuò Zhde Patasz. — L’incursione si è risolta in un completo disastro per i Thord. Abbiamo distrutto la talpa a una profondità di quaranta metri. Non è sopravvissuto nessuno, all’infuori di colui che è stato vostro compagno di cella.

— Che cosa ne sarà di lui?

Zhde Patasz esitò, e parve a Farr di sentire una nota d’incertezza nella sua voce. — In circostanze normali avrebbe potuto considerarsi fortunato. — S’interruppe come per meglio formulare il proprio pensiero prima di esprimerlo. — Abbiamo fiducia nell’effetto persuasivo della punizione. Quell’individuo avrebbe dovuto essere confinato al manicomio.

— E invece?

— Si è suicidato nella cella.

Farr ne rimase turbato, gli pareva che l’uomo bruno fosse legato in qualche modo alla sua sorte e non si aspettava che finisse così…

— Mi sembrate turbato, Farr Sainh — disse Zhde Patasz pieno di premura.

— Non capisco perché dovrei esserlo.

— Siete stanco, o debole?

— Sto riprendendomi un poco alla volta.

Entrò la donna con un vassoio carico di frutti e di bevande e Farr li gustò con piacere, scoprendo che aveva fame. Zhde lo osservava incuriosito. — È strano — commentò — apparteniamo a mondi diversi, discendiamo da diversi ceppi, pure abbiamo in comune abitazioni, paure e appetiti; e proteggiamo ciò che abbiamo, cioè gli oggetti che ci conferiscono un senso di sicurezza.

Farr si tastò la ferita, che continuava a dolergli. Zhde Patasz si avvicinò al vaso cilindrico e si chinò a osservare le anguille. — A volte le nostre ansie sono esagerate — disse — e fanno sì che siano esagerate anche le nostre reazioni. — Si volse, fissando a lungo Farr. — Comunque — concluse — spero che vorrete perdonare il nostro errore. Ne sono responsabili i Thord e i loro mandanti. Se non fosse stato per loro, tutto ciò non sarebbe accaduto. Vi prego inoltre di non adirarvi se le nostre preoccupazioni vi sembrano eccessive. L’incursione faceva parte di un piano accuratissimo e su vasta scala; per un filo non è riuscita. Chi ha concepito e attuato quella complessa operazione? Dobbiamo scoprirlo. I Thord sono abili esecutori ed esaminando il modo con cui hanno svolto l’operazione, le piante che hanno estirpato, la località che hanno scelto, risulta evidente che si tratta di un progetto preparato con ogni cura da qualcuno che è venuto qui a spiarci travestito da turista, come voi.

— Non si trattava certo di un turista come me — ribatté Farr con una breve risata. — Mi rifiuto di essere coinvolto, sia pure indirettamente, nella faccenda.

— Perdonatemi — lece Zhde Patasz inchinandosi. — Ma sono certo che sarete abbastanza indulgente e comprensivo da capirci. Dobbiamo proteggere i nostri investimenti. Siamo uomini d’affari.

— Non molto abili — corresse Farr.

— Che interessante opinione. E perché no?

— Il vostro prodotto è ottimo — spiegò Farr — ma il mercato è poco economico. Vendite limitate e prezzi esorbitanti.

Zhde Patasz agitò con gesto indulgente il suo occhialetto. — Le teorie sono molteplici…

— Ho studiato parecchie analisi del commercio delle case — disse Farr — e sono tutte concordi in un particolare.

— Quale?

— Che i vostri metodi sono inefficienti. C’è un unico venditore che ha il monopolio per ogni pianeta, e questo sistema non può giovare che al rappresentante. K. Penche è multimiliardario, ma è anche l’uomo più odiato della Terra.

Zhde Patasz tornò ad agitare pensoso l’occhialetto. — K. Penche ora sarà infelice, oltre che odiato.

— Lieto di saperlo. Ma perché dite così?

— L’incursione ha distrutto gran pare della sua quota.

— Non avrà più case?

— Non quelle che aveva ordinato.

— Be’ — commentò Farr — non mi pare che ci sia una gran differenza. Riuscirà comunque a vendere tutto quello che gli manderete.

— È un Terrestre… un mercante… — spiegò Zhde Patasz con impazienza. — Noi siamo Iszici e coltivatori di piante per istinto. Il primo piantatore risale a duecento milioni di anni fa, allorché Dium, l’antrofibio primordiale, strisciò fuori dall’oceano. Con l’acqua salata che gli usciva ancora dalle branchie, cercò e trovò rifugio in un baccello. È il mio diretto antenato. Noi siamo diventati maestri nell’arte di coltivare le case e non possiamo permettere di dissipare questo patrimonio accumulato in tanti millenni, né di esserne derubati.

— Però, che lo vogliate o meno, qualcuno finirà col riuscirci — obiettò Farr. — C’è troppa gente senza casa, nell’universo.

— No — ribatté brusco Zhde Patasz. — Non è un’arte che si possa riprodurre con la sola ragione… sussiste tuttora un elemento magico.

— Magico?

— Non proprio, ma un contorno di magia c’è. Per esempio, noi cantiamo incantesimi ai semi che germogliano. E i semi germogliano e crescono. Senza gli incantesimi non prospererebbero. Perché? Chi lo sa? Lo ignoriamo anche noi. In tutte le fasi della crescita, e dell’allevamento delle nostre case, questo particolare elemento contribuisce a far sì che esse crescano diverse da qualunque arbusto inutile.

— Sulla Terra — disse Farr — incominceremmo dal principio, proveremmo milioni di sementi, milioni di metodi.

— Dopo mille anni riuscireste a far produrre all’albero un numero stabilito di baccelli — obiettò l’Iszico. Si avvicinò a una parete sfiorando le verdi fibre intrecciate. — Guardate questa lanugine… noi iniettiamo un liquido in un organo del baccello rudimentale. Il liquido è composto di sostanze come ammonite di nervature in polvere, cenere dell’arbusto di frunz, acetato isocromilo di sodio, polvere di meteorite Phanodana. Il liquido viene sottoposto a sei trattamenti specifici e deve essere iniettato attraverso una proboscide trasparente. Ditemi — concluse fissando Farr attraverso l’occhialetto — quanto tempo impiegherebbero i Terrestri per riuscire a far crescere questo muschio nell’interno di un baccello?

— Forse non tenterebbero nemmeno. A noi basterebbero modeste case di cinque o sei baccelli, semplici e senza elaborati ornamenti.

— Ma è un cosa rozza e volgare! — esclamò Zhde Patasz. — Lo capite, non è vero? Un’abitazione dev’essere una cosa omogenea, tutta unita, pareti, decorazioni murali, arredo, devono essere una cosa sola! A che cosa servirebbero altrimenti il nostro patrimonio di cognizioni e i nostri duecento milioni d’anni di sforzi? Qualunque ignorante è capace di impastare muschio su un muro, ma solo un Iszico è capace di farcelo crescere!

— Vi credo — ammise Farr.

Agitando l’occhialetto, Zhde Patasz continuò con ardore: — E se voi rubaste una casa femmina, e riusciste ad allevare una casa da cinque baccelli, sareste solo agli inizi. Bisogna educarla, adattarla, bisogna eliminare le parti superflue, bisogna localizzare e paralizzare i nervi dell’eiaculazione. Bisogna che le fessure, quelle che a voi sembrano porte, possano allargarsi e restringersi a volontà. L’arte di adattare una casa è importante quanto quella di coltivarla. Senza un addestramento adeguato, una casa diventerebbe un inimmaginabile fastidio… una minaccia.

— K. Penche non ha cercato di adattare alcuna delle case che gli avete mandato. Non ce n’è stato bisogno.

— Puah! Le case di Penche sono docili, senza carattere, non rivestono alcun interesse, e sono prive di bellezza e di grazia… — S’interruppe. — Non riesco a spiegarmi. La vostra lingua non ha parole per esprimere i sentimenti di un Iszico nei riguardi della propria casa. La cresce, e cresce con lei. Quando muore, le sue ceneri sono unite a quelle di lui. Ne beve il siero, ne respira il respiro. Essa lo protegge, ne plasma il pensiero. Una casa che abbia un carattere respinge gli estranei, una casa offesa è capace di ucciderli. E un manicomio, una Casa dei matti… è la dimora adatta ai criminali.

Farr lo ascoltava con profondo interesse. — Tutto ciò va bene per un Iszico, ma i Terrestri non sono così esigenti e raffinati. Per lo meno i Terrestri meno abbienti… o, come direste voi, i Terrestri di bassa casta. A loro basta una casa in cui vivere.

— E possono averle. Noi siamo ben lieti di fornirgliene. Ma dovranno ricorrere ai nostri rappresentanti accreditati.

— K. Penche?

— Sì, lui è il nostro rappresentante.

— Be’, credo che adesso andrò a dormire — disse Farr. — Sono stanco e ho mal di testa.

— Mi dispiace, ma andate pure a riposare, e domani, se vorrete, vi farò visitare la mia piantagione. Intanto, consideratevi a casa vostra.

La donna col turbante nero accompagnò Farr nel suo appartamento. Gli lavò cerimoniosamente il viso, le mani e i piedi, e spruzzò le stanze di essenze aromatiche.

Farr cadde in un sonno inquieto. Sognò del Thord, ne rivide il rude viso bruno, ne riudì la voce bassa e roca. La ferita gli bruciava e continuava a voltarsi e a rigirarsi. Finalmente il viso bruno scomparve come una luce che si spegne, e Farr poté riposare tranquillo.

5

Il giorno seguente, Farr si svegliò a quel sospirante sussurro che è il suono della musica iszica. Trovò a portata di mano indumenti puliti che si affrettò a indossare; poi uscì sulla balconata. Il paesaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi era di una bellezza fantastica: il sole, la stella XI dell’Auriga, non era ancora sorto, e il cielo era di un intenso blu elettrico mentre il mare pareva uno specchio color prugna, che all’orizzonte s’incupiva fino al nero. A destra e a sinistra si ergevano le complicate case degli aristocratici di Tjiere, il cui fogliame si stagliava contro il cielo; in quella luce crepuscolare si distinguevano appena i colori: blu cupo, marrone, verde scuro, così morbidi che parevano di velluto. Sui canali galleggiavano dozzine di gondole, e più oltre, si stendeva il bazar di Tjiere dove si distribuivano, secondo un metodo di scambi non ancora ben chiaro a Farr, i beni e i manufatti che provenivano dalle fabbriche del continente meridionale e da alcuni mondi esterni.

Dall’interno della casa veniva la musica di uno strumento a corda, e quando Farr rientrò nella stanza, trovò due servitori che stavano portando un alto credenzino a scomparti, carico di vivande. Farr mangiò cialde, frutta, tuberi marini e pasticcini mentre l’XI dell’Auriga sorgeva all’orizzonte.

Quando ebbe terminato, i servitori sparecchiarono e arrivò la donna iszica che Farr aveva conosciuto la sera prima. Quel mattino aveva una complicata acconciatura fatta coi medesimi nastri neri che le cingevano il corpo a strisce, e che, nascondendole i bitorzoli e le protuberanze del cranio, la rendevano quasi attraente. Dopo averlo salutato nel solito modo quanto mai cerimonioso, disse che Zhde Patasz aspettava che Aile Farr Sainh si disturbasse a recarsi da lui.

Farr seguì la donna nell’atrio che si apriva alla base dell’enorme tronco, dove Zhde Patasz lo stava aspettando insieme a un Iszico che presentò come Omon Bozhd, agente generale degli allevatori di case. Omon Bozhd era più alto di Zhde Patasz, col viso più largo e meno intelligente, e aveva un modo di fare più vivace e confidenziale. Coperto di strisce azzurre e nere, aveva le guance dipinte a dischi neri, costume che, a quanto Farr credeva di ricordare, indicava un appartenente alle caste più elevate. Il comportamento di Zhde Patasz nei confronti di Omon Bozhd era una strana mescolanza di condiscendenza e di rispetto; così almeno parve a Farr, che l’attribuì al contrasto fra la casta cui apparteneva Omon Bozhd e la sua pelle chiarissima di nativo di uno degli arcipelaghi meridionali, se non addirittura del continente meridionale, e che mancava di quella particolare sfumatura azzurrina che distingueva i piantatori aristocratici di Pheadh. Farr, assai perplesso per le straordinarie attenzioni di cui era fatto oggetto, non gli badò più.

Zhde Patasz accompagnò i suoi ospiti a un calesse dai sedili imbottiti, che funzionava automaticamente procedendo su un cuscino d’aria, guidato da un impassibile servitore. Poco prima della partenza, si unì al gruppo un altro Iszico, decorato a strisce blu e grigie, che il Zhde Patasz presentò come Uder Che, architetto capo.

— Naturalmente il termine iszico è diverso — spiccò Zhde Patasz — e comprende un’infinità di altri attributi e significati: biochimico, istruttore, poeta, precursore, amante delle coltivazioni, e altro ancora. Il suo compito, però, tende allo stesso scopo, cioè quello di creare case di nuovo tipo.

Seguivano il calesse alcuni Szecr a bordo di una specie di piattaforma mobile. Farr ebbe l’impressione che uno di essi avesse fatto parte della squadra addetta alla sua sorveglianza, il giorno prima, durante l’incursione dei Thord, ma non poteva esserne certo, perché agli occhi di uno straniero tutti gli Iszici sembravano uguali. Prese in considerazione l’idea di denunciare l’uomo a Zhde Patasz, che aveva promesso di farlo affogare, ma vi rinunciò perché temeva che Zhde si sarebbe sentito in dovere di mantenere la parola.

Il calesse procedeva scivolando sotto le grandi case-albero al centro della città, e poi infilò una strada che costeggiava un susseguirsi di piccoli campi. Qui crescevano i germogli grigioverdi nei quali Farr riconobbe cuccioli di case.

— Case di Classe AAA e AABR per i supervisori dei lavori del continente meridionale — spiegò Zhde Patasz con aria di superiorità. — Più oltre ci sono case a tre e a quattro baccelli per gli artigiani. Ogni distretto ha le sue particolarità che lo differenziano completamente dagli altri, e non starò ad annoiarvi descrivendovele. Le case da esportazione non sono tanto accurate, naturalmente, perché appartengono a un unico tipo, e vengono coltivate con relativa facilità.

Farr ebbe l’impressione che l’aria di superiorità ostentata da Zhde Patasz stesse aumentando. — Se foste disposti a esportarne di diversi tipi — disse — le vostre vendite subirebbero un notevole aumento.

Tanto Zhde Patasz quanto Omon Bozhd assunsero un’espressione divertita. — Vendiamo all’estero tutto quello che c’interessa vendere. Perché voler fare di più? Chi sarebbe in grado di apprezzare le qualità uniche, eccezionali delle nostre case? Voi stesso avete detto che i Terrestri considerano le abitazioni solo come un riparo dalle intemperie.

— Mi avete frainteso, o non mi sono spiegato bene. Ma se anche fosse così, il che non è, sussisterebbe sempre la necessità di tipi diversi di abitazione, tanto sulla Terra che sui pianeti ai quali vendete le vostre case.

— Siete davvero irrazionale — intervenne Omon Bozhd — e vi prego, Farr Sainh, di non considerare offensiva questa parola. Lasciate che mi spieghi meglio. Voi dichiarate che sulla Terra c’è bisogno di case. Sulla Terra c’è anche un eccesso di ricchezze, tanto che sono allo studio molti progetti per poterle impiegare. Queste ricchezze potrebbero risolvere il problema delle abitazioni in un batter d’occhio, purché lo volessero i possessori delle ricchezze. Ma essendo la cosa, a quanto voi dite, molto improbabile, avete posto lo sguardo su noi Iszici, che al confronto siamo relativamente poveri, nella speranza che finiamo col dimostrarci più comprensivi dei vostri plutocrati. Ma scoprendo che abbiamo i nostri interessi da difendere, ve la prendete con noi… ecco perché vi giudico irrazionale.

Farr rise. — Questa è una visione distorta della realtà — dichiarò. — È vero che siamo ricchi. Perché lo siamo? Perché cerchiamo sempre di produrre il massimo col minimo sforzo. E le case isziche rappresentano la minimizzazione degli sforzi.

— Interessante — mormorò Zhde Patasz e Omon Bozhd assentì saviamente. Il calesse si sollevò per sorvolare un folto di cespugli grigi da cui spuntavano grosse bacche nere. Più avanti, si stendeva una lingua di spiaggia su cui si frangeva il calmo mondo oceanico di Pheadh. Il veicolo puntò dritto sulla distesa, dirigendosi verso un isolotto poco lontano.

Con voce solenne, quasi sepolcrale, Zhde Patasz dichiarò: — Ora vi sarà mostrato qualcosa che a ben pochi è concesso di vedere; una stazione sperimentale dove progettiamo e creiamo nuove case.

Farr cercò di trovare una risposta adatta per esprimere il proprio interessamento e la propria gratitudine, ma Zhde Patasz non badava più a lui, così stette zitto.

Quella specie di piattaforma procedeva sul pelo dell’acqua, lasciandosi dietro una lieve scia di spuma candida. La luce dell’XI dell’Auriga scintillava sulla distesa azzurra e Farr pensava che uno spettacolo simile era uguale a tanti panorami marittimi terrestri, se non fosse stato per la presenza di quello strano veicolo, di quegli uomini dalla pelle lattiginosa, e per la forma inusitata degli alberi che crescevano sugli isolotti. In verità, si trattava di alberi che non aveva mai visto nemmeno su Iszm: bassi, tozzi e massicci, con un groviglio di rami neri. Le foglie erano costituite da strisce carnose color marrone, e parevano in perpetuo movimento.

La piattaforma rallentò, dirigendosi verso la spiaggia dell’isola; si fermò a cinque o sei metri da terra. Uder Che saltò nell’acqua che gli arrivava al ginocchio, e avanzò cautamente verso il litorale, portando una scatola nera. Gli alberi reagirono alla sua presenza, inchinandosi dapprima verso di lui, poi arretrando, come in preda all’orrore, e sciogliendo l’intrico dei rami. Dopo qualche istante s’era aperto un varco sufficiente perché potesse passarvi il calesse che, arrivato all’altezza della spiaggia, penetrò nel varco stesso. Uder Che risalì a bordo, e i rami tornarono a intrecciarsi in un groviglio impenetrabile.

— Questi alberi ucciderebbero chiunque non mostrasse il proprio salvacondotto, costituito dalle radiazioni emesse da questa scatola — spiegò Zhde Patasz. — Una volta, i piantatori organizzavano delle spedizioni per danneggiarsi a vicenda, e perciò era necessaria la presenza di alberi sentinella. Ora le cose sono cambiate, ma noi siamo conservatori, e ci teniamo a mantenere in vita le antiche usanze.

Farr si guardava intorno, senza nascondere la propria curiosità, mentre Zhde Patasz lo osservava divertito.

— Quando sono venuto a Iszm — disse finalmente Farr — speravo che mi si offrisse un’occasione come questa, ma confesso che non ci contavo troppo. Perché mi fate vedere queste cose?

Zhde Patasz, impassibile come sempre, aspettò un momento prima di rispondere. — La vostra domanda non ha ragion d’essere — dichiarò. — Vi ho condotto qui perché così usa fare un proprietario con un ospite di riguardo.

— Può darsi che sia così — ammise Farr sorridendo — ma forse esistono anche altri motivi, o sbaglio?

— Sbagliate. La scorreria dei Thord continua a turbarci e siamo ansiosi di saperne di più in proposito. Ma non preoccupiamoci di questo, oggi. Essendo un botanico, suppongo che vi interesseranno i ritrovati miei e di Uder Che.

— Sicuramente. — Nelle due ore successive Farr esaminò case con baccelli a contrafforte costruite per i mondi a forte attrazione gravitazionale di Cleo 8 e di Martinon’s Fort, e case leggere coi baccelli che sembravano palloni per Fei dove la gravità era notevolmente inferiore a quella di Iszm. C’erano alberi costituiti da un grosso tronco a colonna con quattro enormi foglie che partivano dalla sommità e s’inarcavano fino a terra in modo da formare degli atri a cupola, attraverso cui filtrava una luce verde. C’erano alberi dal tronco massiccio che sorreggevano un unico baccello a torre, con foglie lanceolate che spuntavano tutt’intorno alla base: si trattava di torri di guardia per le tribù feudali di Eta dello Scorpione. In un area recintata crescevano alberi capaci di muoversi in diverso modo, e di sentire.

— Si tratta di una nuova area di ricerche, molto avventurosa — dichiarò Zhde Patasz. — Ci stiamo gingillando con l’idea di creare alberi capaci di svolgere determinate mansioni, come turni di guardia, esplorazione mineraria, cura di macchine. So che sull’atollo di Duroc, il mastro piantatore ha creato un albero che prima produce fibre colorate, poi le intreccia per fabbricare stuoie dai disegni caratteristici. Anche noi siamo riusciti a far qualcosa di bizzarro: per esempio, sotto quella cupola siamo riusciti a creare una fusione che parrebbe impossibile da ottenere se non si conoscono le basi dell’adattamento.

Farr espresse educatamente la propria meraviglia e curiosità. Aveva notato che Omon Bozhd e Uder Che prestavano un’attenzione rispettosa alle parole del piantatore, come se celassero un significato portentoso. E d’improvviso Farr capì che, qualunque fosse il motivo della cerimoniosa ospitalità di Zhde Patasz, esso stava per essergli rivelato.

Con la cadenza acuta degli aristocratici iszici, Zhde Patasz stava intanto continuando: — Il meccanismo, se così si può dire, di questa congiunzione, non è difficile, in teoria. Il corpo animale per vivere necessita di cibo e ossigeno, oltre a qualche altro elemento ausiliario. Il sistema vegetale, come sapete, produce tali sostanze, e rielabora gli escrementi e i rifiuti del corpo animale. Era una tentazione per noi trovare un sistema che riunisse i due, coll’unico aiuto di una fonte esterna di nutrimento. Quanto abbiamo raggiunto, anche se per voi sarà sbalorditivo, è tuttavia ancora rozzo, sinora non abbiamo ottenuto una vera e propria fusione dei tessuti: tutti gli interscambi avvengono attraverso membrane semipermeabili che isolano i fluidi animali e quelli vegetali. Cionondimeno, è già qualcosa. — Parlando, Zhde Patasz si era diretto alla volta di un emisfero giallo-verdino su cui pendevano e si agitavano fronde gialle. Omon Bozhd e Uder Che si tenevano discretamente in disparte. Farr li guardò incerto.

— Come botanico, sono certo che resterete affascinato dal risultato da noi ottenuto — dichiarò Zhde Patasz.

Farr non sapeva cosa pensare. Che cosa volevano mostrargli gli Iszici?… Era pericoloso? Veramente, non avevano bisogno di ricorrere a un sotterfugio per avere la meglio su di lui, e inoltre Zhde Patasz era legato dalle eterne leggi dell’ospitalità. No, non poteva esserci pericolo. Farr si decise, ed entrò sotto la cupola. Al centro, c’era un’aiuola rialzata di terriccio fertile, su cui posava una bolla, una sacca di gomma gialla. La superficie della sacca era venata di lucidi filamenti bianchi e di tubicini membranosi che ne emergevamo alla sommità per formare un tronco color grigiastro, il quale, a sua volta, sorreggeva una corona simmetrica di rami e di foglie verde scuro a forma di cuore. Ciò fu quanto Farr vide alla prima occhiata, ma osservando poi l’interno della bolla vide che conteneva il corpo denudato di un Thord. I piedi posavano su un sedimento giallo alla base della sacca, la testa era posta direttamente sotto il tronco, le braccia erano spalancate e non terminavano con le mani, ma con globi bernoccoluti di fibra grigia dai quali si dipartivano funi che andavano a infilarsi nel tronco. La calotta cranica, scoperchiata, metteva a nudo l’ammasso di sferule arancione che costituiva il cervello del Thord, su cui pendeva una specie di nuvoletta, che, vista più da vicino, si rivelò per un groviglio di filamenti quasi invisibili, che s’intrecciavano formando una fune unita al tronco. Gli occhi erano coperti dalle membrane spesse, marroni, che costituivano le palpebre dei Thord.

Farr trasse un profondo sospiro, dominando a stento il senso di repulsione e di pietà, misto a uno strano bisogno di portar soccorso che non riusciva a definire. Gli occhi doppi dei tre Iszici erano fissi su di lui.

— Lo riconoscete? — domandò Zhde Patasz con un crudele sorriso.

Farr scosse la testa. — L’ho appena visto. Appartiene a un’altra razza e non riesco a distinguerlo dai suoi simili. — Guardò meglio nell’interno della sacca. — È vivo?

— Fino a un certo punto.

— Perché mi avete portato qui?

La domanda turbò Zhde Patasz, meglio, lo fece addirittura andare in bestia. Farr si domandava quale astuto piano non avesse funzionato. Guardò ancora nella sacca. Si era mosso, il Thord? Omon Bozhd, che stava alla sua sinistra, doveva aver notato anche lui quell’impercettibile contrazione muscolare, perché osservò: — I Thord possiedono enormi risorse fisiche.

— Mi avevate detto che era morto — disse Farr rivolgendosi a Zhde Patasz.

— Infatti lo si può considerare tale. Non è più Chayen, Quattordicesimo di Tente, Barone del Castello di Binicristi. La sua personalità è scomparsa. Ora è un organo, un nodulo, attaccato a un albero.

Farr tornò a osservare il Thord. Gli occhi si erano aperti, e il viso aveva assunto un’espressione strana. Chissà se era in grado di sentire e di capire. Farr si accorse che Omon Bozhd era teso e perplesso.

Con una rapida occhiata, vide anche che gli altri due Iszici erano tesi e, rigidi, fissavano il Thord. D’un tratto, Uder Che si mise a imprecare in iszico, accennando al fogliame. Farr sollevò lo sguardo, e vide che le foglie tremavano; eppure non c’erano correnti d’aria sotto la volta della cupola. Tornando a guardare il Thord, scoprì che teneva gli occhi fissi su di lui, aveva il viso tirato e i muscoli vicino alla bocca portati in fuori. Farr non riusciva a distogliere lo sguardo. Poi la bocca si aprì e le labbra tremarono, mentre i rami sovrastanti vibravano con sinistri scricchiolii.

— È impossibile — disse con voce strozzata Omon Bozhd. — Non è la reazione giusta!

I rami continuavano a ondeggiare piegandosi finché, con uno schianto terribile, un ammasso di rami e foglie si staccò precipitando addosso a Zhde Patasz e a Uder Che. Si udì un altro schianto, e il tronco si spaccò e ricadde. La sacca esplose, e il Thord ne emerse, camminando carponi sugli ammassi fibrosi che aveva al posto delle mani. Con la testa eretta e uno spaventevole sorriso, gridò con voce roca e gorgogliante: — Non sono un albero! Sono Chayen di Tente! — Dalla bocca gli uscivano rivoli di liquido giallastro. Tossì e, fissando Farr, riuscì a balbettare: — Vattene via! Vattene via! Lascia questi maledetti coltivatori. Vattene, fa’ quel che devi…

Omon Bozhd stava dandosi da fare per soccorrere Zhde Patasz prigioniero sotto l’ammasso di rami e foglie. Ricadendo prono, il Thord sussurrò: — Ora muoio… ma non come un albero di Iszm. Muoio come un Thord… Chayen di Tente…

Farr si volse, per aiutare Omon Bozhd e Zhde Patasz, che era riuscito a districarsi, a estrarre Uder Che di sotto alle foglie. Ma era ormai inutile. Un ramo aveva spezzato il collo dell’architetto. Zhde Patasz si lasciò sfuggire un gemito di disperazione. — Quell’essere mi ha ferito in morte quanto mi aveva turbato in vita. Ha ucciso il migliore dei miei architetti. — Poi si voltò, e uscì dalla cupola, seguito dagli altri due.

Tornarono a Tjiere immersi in un cupo silenzio. Quando il calesse entrò nel viale principale, Farr disse: — Zhde Patasz, gli avvenimenti di questo pomeriggio vi hanno profondamente turbato; credo sia meglio che non approfitti ancora della vostra ospitalità.

Zhde Patasz rispose brusco: — Farr Sainh può fare ciò che preferisce.

— Porterò sempre con me il ricordo della mia permanenza sull’atollo di Tjiere — disse con ipocrita cortesia Farr. — Voi mi avete permesso di vedere con i miei occhi quali siano i problemi dei piantatori di Iszm, e ve ne sono profondamente grato.

Con un inchino, Zhde Patasz replicò: — Farr Sainh può star certo che, da parte nostra, lo ricorderemo sempre.

La piattaforma si fermò nella piazza su cui crescevano gli alberi-albergo, e Farr scese a terra, seguito, dopo una breve esitazione, da Omon Bozhd. Vi fu uno scambio di cortesie formali, e infine il calesse si allontanò.

— Che cosa farete adesso? — domandò Omon Bozhd a Farr.

— Prenderò una camera all’albergo.

Omon Bozhd assentì, come se Farr avesse espresso una profonda verità. — E poi?

— Ho ancora la barca che ho noleggiato — rispose Farr, pensando che ormai aveva ben poca voglia di visitare le piantagioni degli altri atolli. — Credo che tornerò a Jhespiano, e poi…

— E poi?

— Non lo so.

— Comunque, vi auguro buon viaggio.

— Grazie.

Farr attraversò la piazza, entrò nell’albergo più grande e gli venne assegnato un appartamento di baccelli simile a quello che aveva occupato nella casa di Zhde Patasz.

Quando scese nel ristorante per la cena, notò che erano riapparsi gli Szecr, e ne fu molto contrariato. Dopo il pasto, una tipica cena iszica a base di vegetali e frutti di mare, Farr si diresse verso il porto per ordinare che la Lhaiz si tenesse pronta. Il capitano non era a bordo, e il nostromo protestò alle sue richieste, dicendo che non avrebbero potuto salpare prima dell’alba, e Farr dovette arrendersi. Per passare la serata, passeggiò lungo la spiaggia. La risacca, il venticello tiepido, la sabbia, erano uguali a quelli terrestri, ma di diverso c’erano le sagome degli alberi che costeggiavano il litorale e i due Szecr che lo seguivano passo passo. Farr si sentì prendere dalla nostalgia. Era stato via anche troppo; adesso doveva tornare sulla Terra.

6

Farr salì a bordo della Lhaiz prima che l’XI dell’Auriga fosse completamente spuntato all’orizzonte e la vista della distesa del Pheadh gli diede un senso di sollievo. L’equipaggio era al lavoro e tutta la Lhaiz era pervasa da quella particolare atmosfera carica di elettricità che si nota sulle navi in procinto di salpare. Farr gettò il suo scarso bagaglio in cabina, andò alla ricerca del capitano e gli disse che poteva partire. Il capitano rispose con un inchino, poi impartì diversi ordini all’equipaggio. Passò mezz’ora, ma la Lhaiz era sempre all’ancora. Farr chiese al capitano il motivo del ritardo.

Indicando un uomo che stava lavorando intorno alla chiglia, il capitano rispose: — Stanno riparando una falla, Farr Sainh. Fra poco potremo salpare.

Farr tornò a sedersi a poppa. Passò un altro quarto d’ora, e già cominciava a interessarsi dell’attività del porto, del passaggio di Iszici a strisce di diversi colori, quando arrivarono gli Szecr, che salirono a bordo. Parlarono con il capitano, che impartì subito ordini all’equipaggio.

Le vele si gonfiarono di vento, vennero ritirati gli ormeggi, il sartiame scricchiolò… Farr si alzò furibondo. Voleva ordinare agli Szecr di tornarsene a terra, ma non lo fece, perché sapeva che sarebbe stato inutile. Schiumando d’ira trattenuta, tornò a sedersi, mentre la Lhaiz prendeva il mare. Si lasciarono alle spalle l’atollo di Tjiere, che ben presto divenne una linea nebbiosa sull’orizzonte, e poi scomparve. Il battello faceva rotta verso occidente, prendendo il vento di prua. Farr non capiva, non aveva impartito ordini particolari. Perché andavano da quella parte? Chiamò il capitano, e gli disse: — Non vi ho dato ordini: perché andate a ovest?

Il capitano sollevò un settore degli occhi. — La nostra destinazione è Jhespiano. Non e lì che volevate andare, Farr Sainh?

— No — ribatté Farr per puro spirito di contrarietà. — Dobbiamo far rotta a sud, verso Vhejanh.

— Ma Farr Sainh, se non andiamo subito a Jhespiano non arriverete in tempo per la partenza dell’astronave.

Farr era talmente sbalordito che quasi non riusciva a parlare. — Che cosa ne sapete voi? Ho forse espresso il desiderio di partire con l’astronave?

— No, Farr Sainh, no che io sappia.

— E allora vi prego di non cercar più di indovinare le mie intenzioni. Faremo vela per Vhejanh.

— Lo so che bisogna prendere in seria considerazione i vostri ordini — rispose il capitano meditabondo — ma non posso nemmeno trascurare gli ordini degli Szecr. Essi vogliono che la Lhaiz si diriga verso Jhespiano.

— In tal caso, gli Szecr dovranno pagare il nolo di questa imbarcazione. Io non vi darò un soldo.

Il capitano si allontanò a passo lento, per andare a consultarsi con gli Szecr. Ne seguì una breve discussione, durante la quale sia il capitano che gli Szecr si voltarono più d’una volta a guardare Farr, che continuava a starsene seduto a poppa. Infine la Lhaiz virò bruscamente verso sud, e i due Szecr si allontanarono furiosi.

Man mano che procedeva il viaggio, Farr si sentiva sempre più inquieto. L’equipaggio faceva il suo dovere, ma gli Szecr si comportavano addirittura con insolenza, arrivando a perquisire la sua cabina senza nemmeno chiedergliene il permesso. Farr si sentiva più un carcerato che un turista, e aveva l’impressione che lo provocassero deliberatamente, al solo scopo di rendergli insopportabile la permanenza sul pianeta. “In tal caso non faranno molta fatica” osservò tra sé Farr. “Il giorno in cui lascerò Iszm sarà il più felice della mia vita.”

L’atollo di Vhejanh spuntò all’orizzonte: quel gruppo di isole avrebbe potuto essere il gemello di Tjiere. Farr scese, anche se non ne aveva voglia, e non trovò niente di più interessante da fare che sedersi sul terrazzo dell’albergo con un bicchierino di narciz una bevanda aspra, leggermente salata, che si ricavava dalle alghe e che gli Iszici di Pheadh consumavano in gran quantità. Mentre stava per andarsene notò una bacheca in cui era esposta la fotografia di un’astronave, e un orario degli arrivi e delle partenze. Vide così che dopo tre giorni sarebbe partita da Jhespiano la motonave Andrei Simic. Poi, per altri quattro mesi, non ci sarebbero state altre partenze. Farr studiò l’orario con grande interesse, tornò poi sulla Lhaiz, pagò il noleggio, e ripartì in aereo per Jhespiano.

Arrivò la sera dello stesso giorno e prenotò subito un biglietto sull’Andrei Simic, destinazione Terra, dopodiché provò un gran senso di pace e di sollievo. “Che situazione ridicola” disse tra sé, un po’ sprezzante e un po’ divertito. “Sei mesi fa non pensavo ad altro che a visitare pianeti sconosciuti, e adesso voglio solo tornarmene al più presto a casa”.

L’albergo dello spazioporto di Jhespiano era costituito da un fitto groviglio di parecchi alberi. A Farr fu assegnato un grazioso baccello che guardava il canale dal quale si entrava nella laguna e che portava al centro della città. Ora che sapeva quando sarebbe partito, Farr tornò di buon umore. L’unica seccatura era la costante sorveglianza da parte degli Szecr, che era talmente ossessionante da indurre Farr a lamentarsene, prima con la direzione dell’albergo, poi con il tenente Szecr, senza tuttavia ricavarne soddisfazione alcuna. Alla fine si decise a rivolgersi all’amministratore di distretto del Trattato, che abitava in un bungalow, una delle pochissime case non vegetali di Iszm. L’amministratore era un Terrestre basso e grasso, col naso aquilino, capelli neri crespi e modi esagitati, che ispirò subito antipatia a Farr. Nonostante ciò, gli espose le proprie lagnanze, e l’amministratore gli promise che si sarebbe informato in merito.

Il giorno dopo Farr tornò da lui, e questa volta l’amministratore fu appena appena cordiale, anche se invitò Farr a colazione. Mangiarono su una terrazza prospiciente il canale, su cui transitavano baccelli-barche cariche di frutti e di fiori.

— Mi sono informato sul vostro caso presso la Centrale Szecr — disse l’amministratore. — Si sono comportati ambiguamente, al contrario del solito. Infatti abitualmente dicono pane al pane, e mi aspettavo che vi avrebbero accusato di spionaggio.

— Non riesco ancora a capire perché mi perseguitino così.

— A quanto pare eravate presente quando una banda di Arturiani…

— Thord.

— … quando una banda di Thord tentò un’incursione in massa su una delle piantagioni di Tjiere.

— È vero.

— Senza dubbio ciò è bastato per destare i loro sospetti. Ritengono che una o più spie, travestite da turisti, abbiano progettato e diretto l’incursione, ed evidentemente sono convinti che uno dei responsabili siate voi.

— È incredibile! Gli Szecr mi hanno somministrato degli ipnotici, sottoponendomi poi a interrogatorio. Sanno tutto quello che so. E, dopo, il principale piantatore di Tjiere mi ha accolto in casa sua come ospite d’onore. Non possono credere che io sia coinvolto nel complotto! È impossibile! Irragionevole!

L’amministratore si limitò ad alzare le spalle, senza far commenti.

— Può darsi. Gli Szecr ammettono di non avere nessuna prova concreta contro di voi. Tuttavia continuano a sospettarvi.

— E così, anche se sono innocente, devo continuare a subire le loro molestie? Mi pare che un simile trattamento non sia previsto né dalla lettera, né dallo spirito del Trattato.

— Forse avete ragione — ammise l’amministratore, un po’ seccato. — Credo di poter asserire che conosco il Trattato almeno quanto voi — s’interruppe per versare a Farr una tazza di caffè, e così facendo gli scoccò una rapida occhiata. — Io parto dal principio che non siate colpevole… ma forse sapete qualcosa. Avete comunicato con qualcuno che loro sospettano?

— Mi hanno gettato in una cella insieme a un Thord — dichiarò con un gesto d’impazienza Farr — ma ho scambiato con lui solo poche parole.

Ma l’amministratore non sembrava convinto. — Eppure dovete aver fatto qualcosa che ha destato i loro sospetti. Nonostante quel che ne pensate, gli Iszici non hanno l’abitudine di dar fastidio alla gente.

— Ma si può sapere chi rappresentate voi? — esplose Farr, perdendo la pazienza. — Me o gli Szecr?

— Cercate di vedere la situazione dal mio punto di vista — ribatté l’amministratore con freddezza. — In fin dei conti non è poi impossibile che voi siate quello che loro credono.

— In primo luogo dovrebbero provarlo. E se anche fosse, voi dovreste essere il mio legale. Per che altro siete qui, se no?

L’amministratore eluse la domanda. — Io so solamente quello che mi avete detto. Ho parlato col comandante iszico, che non si è sbottonato. Forse voi siete una testa di legno, un uccello da richiamo, o un incaricato, ecco cosa credo che pensino. E credo pure che stiano aspettando di vedervi fare una mossa falsa, o che li conduciate da qualcuno che potrebbe tradirsi.

— Allora aspetteranno un bel pezzo. Sono io la parte lesa, non loro.

— In che senso?

— Dopo l’incursione mi hanno imprigionato. Vi ho detto che mi avevano preso di forza e gettato nel cavo di un tronco, in una cella sotterranea. In quell’occasione, cadendo, mi sono ferito alla testa, e ne porto ancora il segno. — Si tastò sospirando la testa, dove i capelli stavano ricrescendo. Era chiaro che l’amministratore non aveva intenzione di agire. Guardandosi intorno, disse: — Questo posto dovrebbe essere a prova di suono.

— Non ho niente da nascondere — rispose brusco l’amministratore. — Possono ascoltarmi in ogni momento della giornata… come probabilmente fanno. — Si alzò e chiese: — Quando parte la vostra nave?

— Fra due o tre giorni, dipende dal carico.

— Vi consiglio di sopportare la sorveglianza a cui siete sottoposto, senza prendervela troppo.

Farr lo ringraziò e si congedò. Gli Szecr lo aspettavano fuori, e s’inchinarono educatamente quando comparve in strada. Farr sospirò rassegnato, deciso a fare buon viso a cattivo gioco, non essendoci altra alternativa.

Tornato in albergo fece una doccia nel nodulo trasparente attaccato al baccello. Il liquido era fresco e lattiginoso e usciva da una protuberanza come latte dalla mammella di una mucca. Dopo aver indossato abiti puliti fornitigli dall’albergo, scese sulla terrazza e, stanco di essere solo, si guardò intorno. Aveva già scambiato qualche parola con alcuni ospiti dell’albergo: i signori Anderview, missionari pellegrini, Jonas Ralf e Wilfred Willeran, ingegneri terrestri che tornavano in patria dalla grande Strada Equatoriale di Capella XII e ora sedevano in compagnia di un gruppo di insegnanti in gita turistica, appena arrivati su Iszm; tre viaggiatori di commercio che vendevano merci terrestri nella zona di Monago, il cui ceppo dopo centocinquant’anni dall’inizio del commercio aveva già preso le caratteristiche somatiche di Monago, o Taurus 61 III. A destra c’erano tre Nenes, antropoidi alti e snelli, volubili e chiaroveggenti, poi un paio di studenti terrestri, e quindi un gruppo di Grandi Arturiani che, dopo aver vissuto un milione di anni su un pianeta diverso dall’originario Thord, manifestavano tratti somatici differenti da quelli nativi; dall’altra parte dei Monagi sedevano quattro Iszici a strisce rosse e viola di cui Farr ignorava il significato e, poco oltre, un altro Iszico in blu, nero e bianco, intento a bere con grande concentrazione un bicchierino di narciz. Farr lo fissò stupito: non poteva esserne certo perché tutti gli Iszici gli sembravano uguali, ma quell’individuo gli pareva proprio Omon Bozhd.

Come se avesse sentito su di sé lo sguardo di Farr, l’uomo si voltò, fece un cenno, poi si alzò e si avvicinò a Farr. — Posso sedermi accanto a voi?

Farr gl’indicò una sedia: — Non mi sarei mai aspettato di avere il piacere di rinnovare così presto la vostra conoscenza.

Omon Bozhd rispose: — Non sapevate che avevo in progetto di visitare la Terra?

— No di certo.

— Strano.

Farr non fece commenti.

— Il nostro amico Zhde Patasz Sainh mi ha incaricato di riferirvi un messaggio. In primo luogo vi trasmette tramite mio un distinto saluto di tipo 8 e il senso del suo rammarico per le noie che avete subito nell’ultimo giorno trascorso a Tjiere. Ci pare ancora incredibile che quel Thord possedesse forza sufficiente per fare quello che ha fatto. In secondo luogo, vi consiglia di scegliere i vostri amici con molta cautela, nei prossimi mesi e, in terzo luogo, mi affida alle vostre cure e alla vostra ospitalità sulla Terra, dove sarò uno straniero.

— Come faceva Zhde Patasz a essere al corrente della mia intenzione di tornare sulla Terra? Lasciando Tjiere avevo altri progetti.

— Gli ho parlato ieri sera per telecom.

— Capisco — borbottò Farr. — Be’, naturalmente farò tutto il possibile per voi. Che parte della Terra visiterete?

— Non ho ancora fatto progetti completi. Devo ispezionare le case di Zhde Patasz nelle diverse piantagioni, e quindi dovrò viaggiare parecchio.

— Cosa significa che dovrò scegliere con cautela i miei amici?

— Nient’altro che questo. A quanto pare, sono arrivate fino a Jhespiano voci riguardanti l’incursione dei Thord, con qualche esagerazione, come sempre accade in questi casi. Certi elementi criminali, dando credito a quelle voci, potrebbero interessarsi alla vostra attività… ma corro troppo. — Omon Bozhd si alzò improvvisamente, fece un inchino e se ne andò, lasciando Farr a bocca aperta.

La sera dopo, visto il rilevante numero di ospiti terrestri, la direzione dell’albergo organizzò un trattenimento musicale con musica e rinfreschi terrestri, a cui parteciparono quasi tutti gli ospiti dell’albergo, terrestri e no.

Farr si sbronzò un po’ di whisky e soda, al punto da ritrovarsi a corteggiare insistentemente la più giovane e carina delle insegnanti in gita turistica. La ragazza ricambiava le sue attenzioni, e decisero quindi di andare a fare una passeggiata, tenendosi sottobraccio, sulla spiaggia.

Parlarono poco, ma d’un tratto la ragazza si volse e, guardandolo con stupore, dichiarò: — Se mi è lecito dirlo, non mi sembrate il tipo.

— Il tipo? Che tipo?

— Oh, sapete bene… un uomo capace di prendere in giro gli Iszici e di rubar loro gli alberi sotto il naso.

— Il vostro fiuto non sbaglia — rispose ridendo Farr. — È vero, non sono un tipo simile.

Lei gli lanciò un’occhiata in tralice. — Ho sentito dire diversamente, e da fonti attendibili.

Cercando di parlare in tono leggero, Farr domandò: — Ah sì? E cosa avete sentito?

— Be’, credo che si tratti di una cosa da tenere segreta, perché se gli Iszici ne fossero al corrente vi manderebbero nella Casa dei matti, quindi non mi aspetto che facciate ammissioni compromettenti… Però la persona che me ne ha parlato è degna della massima fede, e naturalmente io non ne farò parola ad anima viva. Ma vi dico fin da ora che sono dalla vostra parte.

— Non ho la minima idea di che cosa stiate parlando.

— Già, immaginavo che avreste risposto così… in fin dei conti io potrei essere una spia degli Iszici. Ne hanno, sapete?

— Una volta per tutte: non so di che cosa stiate parlando!

— Dell’incursione a Tjiere — spiegò la giovane. — Corre voce che voi l’abbiate organizzata, con lo scopo di portare alberi di contrabbando sulla Terra. Ne parlano tutti.

— Che cumulo di stupidaggini! — rise amaro Farr. — Se fosse vero non credete che me la sarei già squagliata? Ma no! Gli Iszici sono molto, ma molto più intelligenti di quanto credete… Com’è nata questa ridicola idea?

La ragazza era visibilmente delusa. Era certo che avrebbe preferito un astuto ladro di alberi all’innocente ma comunissimo Aile Farr. — Non lo so.

— Dove l’avete sentita?

— All’albergo. Ne parlavano.

— Si tratta di discorsi privi di fondamento, tanto per far colpo.

La ragazza non rispose, ma sulla via del ritorno si mostrò molto più fredda e riservata.

Si erano appena rimessi a sedere, quando quattro Szecr, con l’acconciatura che ne rivelava l’alto grado, attraversarono la sala e, avvicinatisi al tavolo di Farr, si fermarono, inchinandosi rigidamente. — Se a Farr Sainh non dispiace, la sua presenza è richiesta altrove.

Farr fu lì lì per rispondere per le rime. Gli occhi dei presenti erano tutti fissi su di loro, e la giovane insegnante era eccitatissima.

Dominandosi a stento, Farr domandò: — Dov’è richiesta la mia presenza, e perché?

— Vi debbono essere poste alcune domande sullo scopo della vostra visita a Iszm.

— E non si potrebbe aspettare fino a domani?

— No, Farr Sainh. Per favore, seguiteci subito.

Fu accompagnato in un piccolo albero da tre baccelli, vicino alla spiaggia, dove Farr trovò ad aspettarlo, seduto su un divano, un vecchio Iszico, che lo invitò ad accomodarsi a sua volta, poi si presentò come Usimir Adislj, della casta di cui facevano parte i sapienti, i teoretici, i filosofi e altri formulatoli di princìpi astratti.

— Sapendo della vostra presenza a Jhespiano e della vostra prossima partenza, ho creduto mio dovere conoscervi senza perdere tempo. So che la vostra professione sulla Terra riguarda il medesimo campo dello scibile che costituisce una delle nostre maggiori preoccupazioni. È vero?

— Sì — ammise brusco Farr. — Sono molto lusingato per la vostra attenzione, ma avrei preferito che si manifestasse in termini meno enfatici. All’albergo tutti sono convinti che io sia stato arrestato dagli Szecr per aver rubato case.

— La tendenza alla morbosità è caratteristica degli ominidi che discendono dalle scimmie — sentenziò Usimir Adislj. — Si tratta di un sentimento che, a parer mio, andrebbe considerato con il massimo disprezzo.

— Sono perfettamente d’accordo con voi — convenne Farr. — Ma era proprio necessario mandare quattro Szecr per portarmi il vostro invito? Tutto ciò mi è parsa una vera mancanza di tatto.

— Non importa. Uomini della nostra levatura non debbono preoccuparsi di simili quisquilie. E adesso parlatemi della vostra professione e dei vostri interessi personali, vi prego.

Farr e Usimir Adislj discussero per quattro ore di Iszm, della Terra, dell’Universo, dei mutamenti dell’uomo e delle previsioni per il futuro. Quando gli Szecr — ridotti ora a due subordinati — vennero finalmente per riaccompagnare Farr all’albergo, questi dovette riconoscere di aver trascorso una piacevolissima serata.

Quando, il mattino seguente, comparve sul terrazzo per la prima colazione, fu accolto con un senso di timore reverenziale. La signora Anderview, la graziosa mogliettina del missionario, dichiarò: — Eravamo sicuri che vi avessero messo in prigione… o forse perfino nella Casa dei matti. Stavamo per decidere se non sarebbe stato meglio avvertire l’amministratore.

— S’è trattato di cosa da nulla — rispose Farr. — Un equivoco. Grazie, comunque, per il vostro interessamento.

Anche i Monagi vollero dire la loro. — È vero che voi e i Thord siete riusciti a farla agli Szecr? Se è vero quel che si dice, noi potremmo farvi delle ottime offerte per un albero femmina… casomai ne aveste una disponibile.

— Non sono capace di farla a nessuno — tagliò corto Farr — e non ho alcun albero femmina disponibile.

I Monagi annuirono strizzando l’occhio furbescamente: — Certo, certo, non se ne può discutere su Iszm dove anche l’erba ha orecchie.

Il giorno dopo arrivò l’Andrei Simic e l’ora della partenza venne fissata per le nove antimeridiane di due giorni dopo. In quei due giorni, Farr trovò gli Szecr asfissianti come non mai. La sera precedente alla partenza, uno gli si avvicinò per dirgli molto cerimoniosamente: — Se Farr Sainh ha tempo disponibile sarebbe desiderato all’ufficio imbarco.

— D’accordo — sospirò Farr, rassegnato al peggio. Lasciò il bagaglio allo spazioporto e si presentò all’ufficio d’imbarco aspettandosi di esser sottoposto a uno snervante interrogatorio.

Ma sbagliava. Fu accompagnato al baccello del vicecomandante Szecr che, senza i soliti preamboli e cerimonie, disse: — Farr Sainh, sicuramente vi sarete accorto che durante questi giorni ci siamo interessati a voi.

Farr non poté negarlo.

— Ora vi rivelerò il motivo di questa sorveglianza. Vi abbiamo tenuto d’occhio perché eravamo preoccupati per la vostra sicurezza.

— Come?

— Temevamo che foste in pericolo.

— In pericolo? Ma è ridicolo!

— Niente affatto. La sera del trattenimento musicale abbiamo trovato una spina avvelenata sulla vostra sedia. Un’altra volta, scoprimmo che la bibita che vi avevano servito era avvelenata.

Farr rimase a bocca aperta per lo stupore. Doveva esserci qualche sbaglio, qualche terribile sbaglio… Ma come? E dove?

— Ne siete proprio certi? — domandò. — Mi sembra incredibile.

L’Iszico, in un’espressione divertita, contrasse i filamenti che dividevano i due settori dell’occhio. — Ricorderete le formalità connesse al vostro arrivo qui. Le leggi ci permettono di sorvegliare l’importazione delle armi, ma il veleno è una cosa diversa. Si può avvelenare un granello di polvere con dieci milioni di batteri virulenti e nasconderlo senza la minima difficoltà. Perciò, uno straniero che abbia intenzione di ricorrere all’assassinio, deve limitarsi allo strangolamento o all’avvelenamento. La vigilanza degli Szecr evita che vengano commesse violenze, perciò dobbiamo star attenti soprattutto al veleno. Quali ne sono i veicoli? Cibo, bevande, punture. Dopo aver classificato i mezzi per raggiungere tali fini, giungiamo a una sottodivisione che dice testualmente: “Spine avvelenate, schegge o aculei fatti per penetrare o pungere cosce, anche e glutei mediante pressione verticale con l’ausilio della forza di gravità”; di qui la nostra sorveglianza su tutti i sedili, poltrone, banchi su cui vi siete seduto.

— Capisco — mormorò attonito Farr.

— Il veleno che era stato messo nella bibita è stato scoperto grazie a un reagente che diventa scuro quando l’altra soluzione è stata manipolata; vedendo che uno dei vostri whisky e soda era diventato più scuro del normale, l’abbiamo eliminato e sostituito.

— Davvero stupefacente — disse Farr. — Ma chi può desiderare di avvelenarmi? E per quale motivo?

— Sono stato autorizzato a impartirvi solo questi avvertimenti.

— Ma… contro che cosa?

— I particolari non vi servono.

— Ma se non ho fatto niente!

Il vicecomandante Szecr fece roteare il suo occhialetto. — L’universo conta otto miliardi d’anni a dir poco, e solo negli ultimi due miliardi si è sviluppata la vita intellettiva, razionale. In tutto questo tempo, però, non c’è stata una sola ora in cui abbia trionfato la giustizia assoluta. Sarebbe quindi stupefacente se questa eventualità si verificasse esclusivamente a vostro beneficio.

— In altre parole…

— In altre parole state attento, guardatevi intorno, non seguite donnine seducenti in camere buie. — Tirò un lungo cordone e poco dopo comparve un giovane Szecr. — Accompagna Aile Farr Sainh a bordo della Andrei Simic. Aboliamo le altre formalità.

Farr lo fissò incredulo.

— Sì, Farr Sainh — dichiarò lo Szecr. — Siamo convinti che abbiate dimostrato la vostra onestà.

Farr uscì dal baccello in preda a una grande perplessità. C’era qualcosa che non andava… gli Iszici non rinunciavano mai, per nessuna ragione, a interrogare ed esaminare tutti.

Quando fu solo nella sua minuscola cabina dell’Andrei Simic, si lasciò cadere sul pannello elastico che fungeva da letto. Lo Szecr gli aveva detto di star attento, perché la sua vita era in pericolo. Era un pensiero inquietante. Sebbene Farr fosse decisamente coraggioso e pronto ad affrontare nemici tangibili, era impotente di fronte a questa larvata minaccia, e il pensiero di non poter sapere né come né quando né perché volessero ucciderlo, gli dava un senso di nausea… Naturalmente il vicecomandante Szecr poteva essersi sbagliato, o aver espresso vaghe minacce per indurre Farr ad allontanarsi da Iszm.

Farr si alzò per ispezionare a fondo la cabina, ma non trovò niente di inaspettato, né cellule fotoelettriche, né strani congegni. Radunò le sue poche cose in modo da potersi accorgere se ci fosse stato qualche cambiamento nell’ambiente, poi, aperto il pannello scorrevole, sbirciò nel corridoio di vetro opaco era completamente vuoto. A passo veloce, Farr si recò nella sala comune per consultare l’elenco dei passeggeri. Erano ventisette in tutto, lui compreso. Riconobbe alcuni nomi: i coniugi Anderview, Jonas Ralf, Wilfred Willeran e Omon Bozhd; altri, traduzioni approssimate di nomi stranieri, non gli dissero nulla.

Farr tornò nella sua cabina, vi si chiuse a chiave e si coricò.

7

Farr vide gli altri passeggeri solo quando Andrei Simic era già nello spazio e il capitano fece adunare tutti nella sala comune per leggere, secondo il solito, il regolamento di bordo. C’erano sette Iszici, nove Terrestri, i tre saggi Monagi, tre monaci Codaini che facevano un pellegrinaggio rituale in diversi mondi, cinque appartenenti a pianeti diversi, quasi tutti arrivati su Iszm con la stessa astronave. Fatta eccezione per Omon Bozhd, gli Iszici ostentavano le strisce nere e oro dei rappresentanti dei piantatori, uomini austeri di casta superiore, di cui almeno due o tre — così parve a Farr — dovevano essere Szecr. I Terrestri comprendevano un paio di studenti ciarlieri, gli Anderview, Ralf e Willeran, e Carto e Maudel Wlewska, una giovane coppia in viaggio di piacere.

Farr studiò il gruppo, cercando di immaginarsi ciascuno dei componenti nelle vesti di un assassino potenziale, e giunse alla conclusione che nessuno ne era il tipo. Credette opportuno dover eliminare automaticamente dalla lista dei sospetti i due che erano già a bordo dell’astronave prima dell’atterraggio su Iszm, e così pure i tre monaci Codaini e gli angelici Monagi. Era assurdo sospettare gli Iszici, quindi restavano più o meno i Terrestri… ma perché una di quelle persone avrebbe dovuto desiderare di fargli del male? E perché doveva temere di essere ucciso da qualcuno di loro? Si grattò la testa perplesso, irritando così la ferita ancora fresca, ricordo della sua caduta nel troncocella.

Le giornate di viaggio erano tutte uguali, monotone, interrotte solo dai pasti e dai periodi di riposo scelti, a volontà, da ciascun passeggero. Per scacciare la noia, o forse perché la noia non gli offriva altro da pensare, Farr incominciò un innocente flirt con la signora Anderview. Il marito, occupatissimo a stendere un voluminoso rapporto sui risultati ottenuti dalla sua missione a Dapa Coory, sul pianeta Mazen, si faceva vedere solo all’ora dei pasti, lasciando la signora Anderview in balia di se stessa… e di Farr. Era una donnina graziosa, con una bella bocca e un sorrisetto provocante. Farr limitò i suoi approcci a qualche occhiata e a qualche frase gentile, e rimase assai stupito quando una sera si vide capitare in cabina la signora Anderview, di cui ancora ignorava il nome di battesimo, che sorrideva con timida impudenza.

Farr si alzò stupefatto.

— Posso entrare?

— Siete già entrata.

La signora fece un grazioso cenno con la testa, e richiuse alle sue spalle il pannello scorrevole. Farr notò subito che era molto più carina di quanto non avesse osservato in precedenza, e che intorno a lei aleggiava un profumo di una dolcezza indefinibile: aloe, cardamomo, limonano.

— Mi annoio talmente! — si lamentò lei sedendoglisi accanto. — Merritt non fa che scrivere giorno e notte. Non pensa che al suo libro. E io… a me piace divertirmi.

L’invito non avrebbe potuto essere più esplicito. Farr esaminò gli aspetti della situazione, poi si schiarì la gola, mentre la signora Anderview, che teneva gli occhi fissi su di lui, arrossiva un poco.

Qualcuno bussò alla porta e Farr balzò in piedi, sentendosi assurdamente colpevole. Fece scorrere il pannello. Fuori c’era Omon Bozhd.

— Farr Sainh, posso parlarvi un momento? Mi fareste. Un grande favore.

— Be’, adesso avrei da fare.

— Si tratta, credetemi, di una cosa molto importante.

— Scusate un momento — disse allora Farr alla signora Anderview. — Torno subito.

— Fate presto! — rispose lei, che pareva molto impaziente, e Farr la fissò stupito, aprendo la bocca per rispondere.

— Sss — lo ammonì la signora e Farr, con un’alzata di spalle, uscì nel corridoio.

— Che cosa succede? — domandò a Omon Bozhd.

— Farr Sainh, avreste piacere di salvarvi la vita?

— Ma sicuro! Che cosa…

— Lasciatemi entrare nella vostra cabina — lo pregò Omon Bozhd, facendo un passo avanti.

— C’è poco posto, e inoltre…

— Capite la manovra, vero? — fece l’Iszico.

— No, temo proprio di no.

— Dovete mettere da parte la galanteria — dichiarò Omon Bozhd. — Entriamo in cabina. C’è poco tempo.

Fece scorrere il pannello ed entrò seguito da Farr, che lo giudicava pazzo… ma non sapeva ancora perché.

La signora Anderview balzò in piedi arrossendo più che mai. — Oh! Signor Farr!

Farr spalancò le braccia in un gesto d’impotenza. La signora Anderview fece per uscire dalla cabina, ma Omon Bozhd le sbarrò il passo.

— Vi prego, signora, non andatevene, la vostra reputazione non corre rischi.

— Non ho tempo da perdere — fece lei brusca, e Farr si accorse allora che non era affatto graziosa, che aveva la faccia a chiazze e gli occhi adirati e duri.

— Vi prego — insisté Omon Bozhd — non ancora. Sedetevi, per favore.

Si udì bussare violentemente, e una voce roca e furibonda gridò: — Aprite! Aprite subito!

— Certo — rispose Omon Bozhd, e spalancò il pannello. Sulla soglia c’era Anderview, con gli occhi fuori della testa. Impugnava una pistola e gli tremavano le mani. Vedendo Omon Bozhd, parve afflosciarsi.

— Scusatemi se non vi invito a entrare — disse Farr — ma stiamo già un po’ stretti.

— Che cosa succede qui dentro? — tuonò Anderview, tornato furibondo.

La signora sgattaiolò nel corridoio. — Niente, niente — sussurrò, allontanandosi in fretta. — Non avete niente da fare, qui — disse Omon Bozhd ad Anderview con aria noncurante. — È meglio che raggiungiate vostra moglie.

L’altro si voltò allontanandosi.

Farr si sentiva tremare le ginocchia. C’erano profondità che non riusciva a sondare, abissi e vortici di motivi e scopi… Si lasciò cadere sul lettino, avvampando al pensiero della figura da sciocco che aveva fatto.

— Pretesto eccellente per eliminare qualcuno — osservò l’Iszico. — Se non altro si accorda con le abitudini terrestri.

Farr gli lanciò un’occhiata, intuendo un sottofondo ironico nelle sue parole. — Pare che mi abbiate salvato la pelle… almeno qualche pezzetto — disse ingrugnito.

Omon Bozhd agitò una mano con noncuranza. — Roba da niente.

— Non per me — ribatté Farr. — Ci tengo, alla mia pelle.

L’Iszico fece per andarsene.

— Ancora un minuto. Desidero sapere che cosa sta succedendo.

— Mi pare che i fatti si spieghino da soli.

— Può darsi che io sia un po’ tardo.

L’Iszico lo guardò pensoso. — Forse siete troppo addentro alla situazione per vederla nel suo insieme.

— Siete uno Szecr?

— Tutti gli agenti all’estero sono Szecr.

— Be’, dunque, che succede? Perché gli Anderview ce l’hanno con me?

— Vi hanno soppesato, e hanno valutato la vostra utilità contro il pericolo che rappresentate.

— Ma è pazzesco!

Omon Bozhd lo guardò fisso, e disse come un oracolo: — Ogni minuto della nostra esistenza è un miracolo. Provatevi a prendere in considerazione le innumerevoli variazioni e possibilità che ci aspettano ogni secondo che passa… pensate a esse come strade aperte sul futuro. Noi ne seguiamo una, ma dove portano le altre? Questa è l’eterna meraviglia, la magnifica incertezza del secondo che verrà, mentre il passato è come un tappeto già disteso di cui si conosce il disegno.

— Già, già…

— La nostra mente resta obnubilata di fronte alle meraviglie della vita, per la sua grandezza e importanza. — Omon Bozhd distolse lo sguardo. — Sotto tale prospettiva, l’affare in cui siete coinvolto ha un interesse puramente intrinseco, come il respirare.

— Posso respirare come e quanto voglio — rimbeccò Farr seccato — però posso morire una volta sola e mi pare che ci sia una bella differenza. Mi sembra del resto che la pensiate così anche voi, e ammetto di esservi debitore. Ma… perché?

— Il modo di ragionare degli Iszici è naturalmente diverso da quello terrestre. Nondimeno abbiamo in comune alcuni istinti, come il rispetto per la vita e l’impulso ad aiutare le persone che conosciamo.

— Capisco — disse Farr. — Il vostro modo di agire è dunque determinato unicamente da un impulso amichevole?

— Consideratelo pure a questo modo — convenne Omon Bozhd con un inchino. — E adesso vi auguro una buona notte — e uscì dalla cabina.

Farr rimase seduto sul letto, completamente disorientato. In pochi istanti, gli Anderview si erano trasformati da una coppia di missionari gentili e riservati in due crudeli assassini. Ma perché? Perché?

Farr scosse la testa perplesso. Il vicecomandante Szecr aveva parlato di una spina e di una bibita avvelenate: evidentemente i missionari erano responsabili anche di quei tentativi di omicidio. Farr balzò irosamente in piedi, si avviò alla porta, l’aprì, e guardò nel corridoio. Il nastro di vetro grigio si stendeva lucido a destra e a sinistra; un nastro uguale, sul ponte di sopra, conduceva alle cabine superiori. Farr uscì senza far rumore e arrivò in fondo al corridoio, per sbirciare nella sala, dall’arcata. I due giovani studenti, l’ingegnere e un paio di Iszici stavano giocando a poker.

Farr tornò indietro, per salire la scala che portava al ponte superiore. Tutto era immerso nel silenzio, rotto solo dai rumori dei motori di bordo, delle pompe, dei condotti dell’aria condizionata.

Farr trovò la porta su cui era scritto MERRITT E ANTHEA ANDERVIEW e si mise in ascolto, esitante. Non si udivano né voci né rumori. Posò la mano sulla maniglia, poi si fermò. Ricordava la dissertazione di Omon Bozhd sulla vita, le infinite strade del futuro. Lui, adesso, poteva bussare, o tornarsene nella sua cabina. Bussò.

Nessuno rispose. Farr guardò a destra e a sinistra lungo il corridoio. Poteva ancora tornarsene in cabina. Invece spinse la porta, che si aprì. Il locale era al buio. Accese la luce. Merritt Anderview sedeva rigido su una seggiola e lo guardava con occhi aperti e vuoti.

Farr capì subito che era morto. Anthea Anderview giaceva invece nella cuccetta inferiore, composta e rilassata. Farr non si avvicinò per guardarla più da vicino, ma capì che pure lei era morta. Una pistola a scossa, capace di vibrare a bassissima intensità, aveva omogeneizzato il loro cervello; anche i pensieri e i ricordi si erano fusi in un tutto unico: le loro strade aperte sul futuro, si erano improvvisamente interrotte. Farr rimase immobile. Cercò di trattenere il respiro, ma sapeva che ormai il guaio era fatto. Arretrò e richiuse la porta. I camerieri avrebbero trovato i cadaveri… Intanto… Farr aveva la mente sconvolta. Potevano averlo visto. Il suo sciocco flirt con Anthea Anderview era certo già diventato di dominio pubblico, e forse si parlava anche del litigio con Merritt Anderview. Avrebbero potuto stabilire con facilità che lui era stato nella loro cabina. Avrebbero trovato una traccia delle sue esalazioni sopra tutti gli oggetti della stanza. Ciò costituiva una prova decisiva, in tribunale, se fosse stato provato che nessun’altra persona a bordo avesse il suo tipo di esalazione.

Farr si recò nella sala comune, dove nessuno fece caso alla sua presenza. Salì poi la scaletta e bussò alla porta del comandante.

Il capitano Dorristy, un uomo tozzo con penetranti occhi neri, aprì la porta scorrevole. Dietro a lui, c’era Omon Bozhd. Farr vide che gli si irrigidivano i muscoli delle guance, e la sua mano si mosse come se stesse agitando un invisibile occhialetto.

Farr si sentì improvvisamente a suo agio. Qualunque tiro stesse macchinando Omon Bozhd, l’aveva prevenuto. — Sono morti due passeggeri — comunicò. — Gli Anderview.

Omon Bozhd gli lanciò un’occhiata fredda e malevola.

— Interessante — rispose Dorristy. — Entrate.

Farr varcò la soglia, e Omon Bozhd distolse lo sguardo.

— Bozhd mi stava proprio dicendo che voi avete ucciso gli Anderview — disse ironico il comandante con voce melata.

Farr si voltò verso l’Iszico. — È il più gran bugiardo che ci sia a bordo. È stato lui a ucciderli.

Dorristy sorrise, guardando dall’uno all’altro. — Dice che voi facevate la corte alla signora.

— Mi sono limitato a essere gentile con lei. Il viaggio, almeno fino a questo momento, era piuttosto noioso.

— Che cosa avete da dire, Omon Bozhd? — domandò il capitano.

— Qualcosa di più di una semplice amicizia ha indotto la signora Anderview a recarsi nella cabina di Farr — rispose l’Iszico.

— E qualcosa di diverso dall’altruismo ha spinto Omon Bozhd nella mia cabina per evitare che Anderview mi sparasse contro — ribatté Farr.

— Tutte menzogne. Io non ne so nulla — asserì Omon Bozhd fingendosi stupito.

Dominando a stento l’ira, Farr si volse al capitano. — Gli credete?

— Non credo a nessuno.

— Ecco che cos’è successo. È difficile crederlo, ma è la verità. — Farr narrò l’accaduto. — … dopo che Bozhd se ne fu andato, rimasi solo a pensare. Bisognava che andassi a fondo della cosa, in un modo o nell’altro, perciò decisi di andare a parlare con gli Anderview. Bussai, e poiché nessuno rispondeva, aprii la porta della loro cabina. Erano morti tutti e due. Poi, sono venuto direttamente qui.

Dorristy non fece commenti, ma fissava Omon Bozhd, che, agitando con fare noncurante il suo inesistente occhialetto, si decise infine a dire: — La versione di Farr mi ha colpito per la sua franchezza. Credo quindi di essermi sbagliato. Non dev’esser stato lui a commettere il delitto. Ritiro le mie accuse — e uscì dalla cabina. Farr lo seguì con lo sguardo, furibondo ma trionfante.

— Dunque, non li avete uccisi voi? — domandò Dorristy.

— No di certo!

— Chi è stato?

— Secondo me, uno degli Iszici. Ma perché, non lo so.

Dorristy assentì, poi disse: — Be’, vedremo quando faremo scalo a Barstow. Vi prego di non far parola con nessuno su quanto è successo.

— Non ne avevo la minima intenzione — lo rassicurò Fair.

8

I cadaveri vennero fotografati e messi nel frigorifero dell’astronave, poi la cabina venne chiusa coi sigilli. Si faceva un gran chiacchierare a bordo, e Farr dovette faticare non poco per evitare che il discorso cadesse su gli Anderview.

La Terra andava avvicinandosi. Farr non aveva paura, ma provava un profondo senso di incertezza; il mistero restava insoluto: perché gli Anderview avevano tentato di giocarlo? Una volta arrivato sulla Terra avrebbe corso altri pericoli? Farr era più che mai fuori di sé. Lui non c’entrava per niente in tutti quei pasticci, e non voleva entrarci. Ma una sgradevole sensazione aveva messo radice nel suo subcosciente: nonostante tutto, era coinvolto, e non poteva far nulla per tirarsene fuori. Aveva altre cose da fare; il suo lavoro, la sua tesi, la compilazione di uno stereo che sperava di vendere a una rete radiotelevisiva.

E poi c’era qualcos’altro, una strana ansia, una pressione, come se dovesse fare qualcosa. Di tanto in tanto, veniva preso da un senso di insoddisfazione, come se fosse rimasto sepolto nelle profondità del suo cervello qualche problema che non aveva saputo risolvere. Non c’entravano né gli Anderview né il loro assassinio, non c’entrava niente. Ma era qualcosa che doveva fare… qualcosa di cui si era dimenticato, o che forse non aveva neppure mai saputo…

Omon Bozhd gli parlò una volta, nella sala comune. — Ora sapete che un pericolo vi minaccia — gli disse. — Sulla Terra non potrò aiutarvi.

Il risentimento di Farr nei suoi confronti era sempre vivissimo, e gli disse: — Probabilmente, sulla Terra sarete giustiziato per assassinio!

— No, Aile Farr, non ci sono prove contro di me.

Farr osservò con attenzione il suo scialbo viso. Iszici e Terrestri, evolutisi da ceppi diversi, avevano assunto la stessa approssimazione umanoide: uno discendeva dalle scimmie, l’altro dagli anfibi. Ma ci sarebbe mai stata comprensione fra le due razze?

— Dunque, non siete stato voi a ucciderli.

— Mi pare inutile ripetere una cosa tanto ovvia a un uomo dell’intelligenza di Aile Farr.

— Avanti, ripetetela, invece. Sono uno stupido. Li avete uccisi?

— Non è cortese da parte vostra esigere una risposta a una domanda simile.

— Benissimo, e allora fate a meno di rispondere. Ma perché avete cercato di addossare la colpa a me? Sapete benissimo che non sono stato io. Che cos’avete contro di me?

— Niente di niente — rispose Omon Bozhd con l’ombra di un sorriso. — Il delitto, se di delitto si tratta, non potrà mai esservi imputato. Gli investigatori vi rilascerebbero dopo un paio di giorni, per riprendere le indagini verso un’altra direzione.

— Perché avete ritirato la vostra accusa?

— Ho capito di essermi sbagliato. Sono un ominide, e quindi ben lungi dall’essere infallibile.

Per poco Farr non soffocò di rabbia. — Perché non la smettete di parlare per allusioni? Se avete qualcosa da dire, sputatelo fuori!

— Farr Sainh è troppo insistente. Non ho niente da dire. Ho riferito il messaggio che mi avevano incaricato di portargli; spero non si aspetti che metta a nudo la mia anima.

Farr sogghignò. — Potete star sicuro di una cosa… se mai vedrò l’occasione di mettervi i bastoni fra le ruote, non la lascerò certo perdere.

La stella che era il Sole diventava di giorno in giorno più luminosa. Man mano che la Terra si avvicinava, Farr si sentiva sempre più inquieto, al punto da non riuscire a dormire. Aveva lo stomaco sconvolto da un malore provocato dall’ansia, dalla perplessità, dal risentimento, dall’impazienza che lo divoravano. Come se tutto ciò non bastasse, la ferita alla testa continuava a dargli fastidio. Invece di guarire, continuava a prudere e a bruciare. Farr temeva di aver preso qualche infezione e la prospettiva lo allarmò: già gli pareva di veder l’infezione dilagare, i capelli che cadevano tutti, la cute del cranio raggrinzirsi assumendo il pallido colore di quella degli Iszici. E intanto, anche lo strano senso di urgenza continuava a tormentarlo. Continuava a pensare e a ripensare, ma senza costrutto, e l’unica cosa che ne ricavava era una rabbia maggiore.

Finalmente, dopo il viaggio più lungo e sgradevole che Farr avesse mai fatto, l’Andrei Simic entrò nel sistema solare.

9

Il Sole, la Terra, la Luna: un arcipelago di brillanti isole tonde dopo una lunga navigazione nel nero oceano dello spazio. Il Sole si levava da un lato, la Luna tramontava da quello opposto, la Terra si stendeva dinanzi grigia e verde, color bruciato, bianca, azzurra, piena di nubi e di vento, scaldata dal sole, battuta dalle tempeste di neve, d’acqua, di sabbia, coperta di ghiacci, ombelico dell’universo, stazione d’arrivo, stanza di compensazione, magazzino, che tutte le altre razze visitavano come turisti provinciali.

Lo scafo dell’Andrei Simic toccò terra a mezzanotte. I generatori acuirono il loro sibilo fino a che non fu più possibile udirlo, attraverso una gamma di note acutissime tenorili, baritonali, basse.

I passeggeri erano riuniti nel salone, e la presenza degli Anderview era più sensibile di quando erano ancora in vita. Tutti erano in preda a una tensione che li irrigidiva.

Le pompe sibilarono, per adattarsi a una diversa atmosfera, le luci brillarono attraverso gli oblò, il portello si aprì accompagnato da un mormorio di voci. Il capitano Dorristy entrò facendo strada a un uomo alto, dal viso duro e intelligente, i capelli cortissimi e la carnagione abbronzata.

— L’ispettore investigativo Kirdy della Squadra Speciale — presentò il capitano. — Indagherà sulla morte dei signori Anderview. Vi prego di collaborare con lui; sarete messi prestissimo in libertà.

Nessuno parlò. Gli Iszici parevano statue di ghiaccio. Per deferenza verso le usanze terrestri, avevano indossato giacca e pantaloni, ma il loro atteggiamento era improntato al disprezzo e al sospetto, come se, anche sulla Terra, fossero costretti a salvaguardare i loro segreti.

Tre agenti si unirono all’ispettore, e la tensione che regnava nella sala si acuì.

Con voce gentile e gradevole, Kirdy disse: — Non vi farò perdere troppo tempo. Vorrei parlare col signor Omon Bozhd.

L’Iszico scrutò l’ispettore attraverso l’occhialetto, ma l’ispettore, che non era mai stato nemmeno sulla Luna, e tantomeno su Iszm, non si lasciò impressionare.

— Omon Bozhd sono io.

Kirdy lo condusse nella cabina del capitano, e dopo dieci minuti un agente venne a chiamare Farr.

Questi lo seguì, e fu condotto a sua volta nella cabina di Dorristy.

Kirdy e Omon Bozhd erano seduti di fronte, e formavano un curioso contrasto: l’Iszico era pallido, austero, aquilino; l’altro, bruno, pieno di calore, spontaneo.

Rivolto a Farr, Kirdy disse: — Vorrei che ascoltaste la versione del signor Bozhd e poi mi diceste il vostro parere. — Si volse poi all’Iszico. — Vorreste esser tanto gentile di ripetere la vostra dichiarazione?

— In breve, la situazione è questa — rispose Omon Bozhd. — Prima ancora di lasciare Jhespiano, io avevo ragione di sospettare che gli Anderview progettassero di far del male a Farr Sainh. Comunicai i miei sospetti ai miei amici.

— Gli altri signori Iszici? — domandò Kirdy.

— Esattamente. Con il loro aiuto, installai una cellula d’ispezione nella cabina degli Anderview, e scoprii che i miei sospetti erano fondati. Quando tornarono nella loro cabina, vennero assassinati, e io, dalla mia, assistetti al fatto. Naturalmente, Farr Sainh non c’entra per nulla. Era, ed è, del tutto innocente. Cionondimeno, mi parve più prudente toglierlo di mezzo per il resto del viaggio, allo scopo di evitargli altri pericoli, e perciò lo accusai falsamente. Farr Sainh, com’è logico, rifiutò di accettare il mio punto di vista, anzi mi prevenne. La mia accusa non aveva persuaso il capitano Dorristy, e io la ritirai.

— Cosa avete da dire in proposito, signor Farr? — domandò l’ispettore. — Siete ancora convinto che il signor Bozhd sia l’assassino?

Farr dominava a stento l’ira. — No — disse fra i denti. — La sua storia è talmente fantastica che forse è vera. Ma perché non parlate? — domandò a Omon Bozhd. — Avete detto di aver visto tutto. Chi è l’assassino?

— Ho esaminato le vostre leggi di procedura criminale — replicò l’Iszico agitando l’occhialetto. — Le mie accuse non potrebbero avere molto valore. Le autorità vorrebbero prove più concrete. E queste prove esistono. Quando le avrete trovate, la mia testimonianza non sarà più necessaria o, tutt’al più, sarà solo marginale.

— Prendete impronte del respiro, del sudore e della pelle a tutti i passeggeri — ordinò Kirdy a un agente.

Dopo che gli furono portate le impronte richieste, Kirdy tornò nel salone e disse ai passeggeri: — Vi interrogherò tutti uno a uno. Coloro che lo desiderano potranno rispondere con un cefaloscopio, e in tal modo le loro risposte avranno maggior valore. Vi ricordo che la prova del cefaloscopio non può essere addotta in tribunale per provare la colpevolezza di un individuo, ma solo per attestarne l’innocenza. Alla peggio, il cefaloscopio non riuscirà a eliminarvi dall’elenco dei sospetti. Vi ricordo inoltre che il rifiuto di usare il cefaloscopio è non solo un privilegio, ma un diritto, anche se è considerato da molti un dovere morale. Perciò chi lo rifiuta non incorre in alcuna sanzione: sta a voi accettarlo o rifiutarlo.

Gli interrogatori durarono tre ore. I primi a essere chiamati furono gli Iszici, che, dopo l’interrogatorio, tornarono nella sala con l’identica seccata espressione di prima. Poi fu la volta dei Codaini, quindi dei Monagi, poi degli altri extraterrestri, e infine toccò a Farr.

Indicandogli il cefaloscopio, Kirdy disse: — Servitevene, se volete.

Farr era di cattivo umore. — No. Disprezzo questi sistemi. O accettate la mia testimonianza così com’è, o fatene pure a meno.

— Come volete, signor Farr. — Dopo aver consultato i suoi appunti, l’ispettore domandò: — Avevate conosciuto gli Anderview a Jhespiano, su Iszm?

— Sì — e Farr spiegò le circostanze.

— Prima non li avevate mai visti?

— Mai.

— Ho saputo che durante la vostra permanenza su Iszm avete assistito a un tentativo di furto d’alberi.

Farr descrisse gli avvenimenti, e le successive avventure. Kirdy gli pose ancora qualche domanda lasciandolo poi libero.

Anche gli altri Terrestri furono interrogati, finché non rimase che Paul Bengston, il tecnico sanitario. Riaccompagnando nel salone gli studenti che aveva appena finito d’interrogare, Kirdy disse: — Finora né il cefaloscopio né gli interrogatori diretti hanno indicato la colpevolezza delle persone da me interrogate, situazione resa ancor più valida dal fatto che non ho trovato le componenti del respiro di nessuno di loro sul braccialetto della signora Anderview.

Tutti gli occhi si posarono su Paul Bengston, che si agitò sulla sedia, diventando prima pallido, poi rosso.

— Volete seguirmi, per favore?

L’altro si alzò incerto e seguì l’ispettore nella cabina del comandante.

Dopo cinque minuti, comparve sulla porta della sala un agente, dicendo: — Ci dispiace di avervi fatto aspettare. Siete liberi di sbarcare.

Si levò un mormorio generale, solo Farr rimase silenzioso al suo posto. Si sentiva in preda all’ira, all’umiliazione, alla delusione. Era talmente sconvolto, che alla fine non ne poté più; balzò in piedi e si precipitò nella cabina del capitano.

Un agente lo fermò: — Scusatemi, signore, ma non potete entrare.

— Non me ne importa, entro lo stesso! — ringhiò Farr, e scansato l’agente, si buttò sulla porta. Ma era chiusa a chiave; allora bussò. Quasi subito il capitano Dorristy la socchiuse, mettendo il viso nella fessura: — Be’, che succede?

Kirdy, che aveva di fronte Paul Bengston, si volse: — Desiderate, signor Farr?

Dorristy, confuso e rosso in volto, arretrò d’un passo.

— Dunque, è veramente colpevole quest’uomo? — domandò Farr.

L’ispettore annuì. — Le prove sono positive.

Farr guardò Bengston, il cui viso sembrò alterarsi e raggrinzirsi, come avviene nei trucchi fotografici: da aperto e bonario che era, divenne spietato, astuto e crudele. Farr si stupì di non averlo sospettato prima. Si chinò a guardarlo meglio, e Paul Bengston gli lanciò di rimando una sprezzante occhiata di sfida.

— Perché? — domandò Farr. — Perché è successo tutto ciò?

Bengston non rispose.

— Ho il diritto di saperlo — insisté Farr. — Perché?

Silenzio.

— Perché? — tornò a ripetere Farr, con voce improvvisamente umile. — Ditemelo, per favore!

Paul Bengston alzò le spalle, scoppiando in una stridula risata.

— Si tratta di qualcosa che dovrei sapere? — tornò alla carica Farr. — Qualcosa che ho visto o di cui sono in possesso?

Pareva che Bengston fosse vicino a un attacco isterico.

— Non mi piace come siete pettinato — fu tutto quel che disse, e tornò a ridere come un matto.

— Non sono riuscito a cavargli altro — dichiarò cupo l’ispettore.

— Ma perché si comporta così? — cercò di sapere Farr. — Che motivi lo spingono? E perché gli Anderview volevano uccidermi?

— Se lo scopriremo, ve lo farò sapere — promise l’ispettore. — Intanto… come posso tenermi in contatto con voi?

Farr ci pensò. Doveva fare qualche cosa… Be’, se ne sarebbe ricordato, ma intanto… — Scendo all’Hotel Imperador di Los Angeles.

— Pazzo! — mormorò tra sé Bengston.

Farr fece per avventarglisi contro, ma Kirdy lo trattenne. — Calmatevi, signor Farr.

Mentre Farr si allontanava, scorse il capitano, che si affrettò a dire: — Niente, niente, signor Farr, non state a scusarvi!

10

Ritornato nel salone, Farr vide che gli altri passeggeri erano sbarcati, recandosi nell’ufficio immigrazione. Si affrettò a seguirli, agitato, come in preda a un accesso di claustrofobia, perché gli sembrava che l’Andrei Simic, il magnifico uccello spaziale, fosse diventato una tomba: non ne poteva più di sbarcare, di toccare il suolo terrestre.

Era quasi mattina. Il vento del Mojave gli soffiava in viso, portando con sé aromi e sabbia del deserto, le stelle brillavano pallide a oriente. Prima di scendere lo scalandrone, Farr si fermò alzando istintivamente gli occhi per cercare la costellazione dell’Auriga. Eccola: Capella, e poi, appena percettibile nel suo tremolio, l’XI dell’Auriga, intorno a cui ruotava Iszm. Farr scese i gradini e posò finalmente il piede sulla Terra. Era tornato. Il contatto gli fece uno strano effetto: gli parve che nel suo cervello si fosse aperto uno spiraglio… Con una sensazione di sollievo, aveva scoperto quale era la prima e più logica cosa da farsi: andare da K. Penche.

Rimandò la visita all’indomani, riservando la prima giornata al riposo. Un bel bagno, un buon bicchiere di whisky, e poi a letto.

Stava per avviarsi quando gli si avvicinò Omon Bozhd. — È stato un piacere avervi conosciuto, Farr Sainh. Permettetemi un consiglio: state molto attento. Sono convinto che siate ancora in grave pericolo — e facendo un inchino se ne andò, lasciando Farr a seguirlo, stupito, con lo sguardo. Aveva tutte le intenzioni di far tesoro di quell’avvertimento.

Sbrigate in poco tempo le pratiche all’ufficio immigrazione, fece portare il bagaglio all’Imperador. Trascurando gli elitassì, si lasciò calare nel condotto della sotterranea. Il disco si fermò sotto i suoi piedi (non mancava mai di provare un brivido, lasciandosi calare nel pozzo: e se il disco non fosse arrivato?). Il disco si arrestò, Farr pagò il biglietto, chiamò alla banchina una vetturetta monoposto, vi salì, manovrò i comandi in modo da indicare la destinazione, poi si rilassò con un sospiro sul sedile. Non riusciva a dominare il turbine dei propri pensieri. Una visione dopo l’altra gli si accavallavano nella testa: lo spazio sterminato, Jhespiano, Iszm, le case a molti baccelli. Gli parve di essere ancora a bordo della Lhaiz diretto all’atollo di Tjiere, riprovò il terrore dell’incursione nei campi di Zhde Patasz, della caduta nel tronco cavo, della prigionia insieme al Thord e, più tardi, rivisse la terribile esperienza passata sull’isolotto dove Zhde Patasz faceva i suoi esperimenti… Le visioni correvano veloci; erano solo ricordi, e si allontanarono, si allontanarono ancor più degli anni-luce che lo separavano da Iszm.

Il ronzio della vettura gli conciliava il sonno appesantendogli le palpebre, ma si sforzò di rimanere sveglio. Tutta la faccenda sembrava un incubo fantastico. E invece era reale.

Farr si costrinse a dare un corso meno confuso ai propri pensieri, ma la sua mente si rifiutava di ragionare, di far progetti. Qui, nella sotterranea sul suo pianeta natale, l’idea del pericolo, dell’assassinio, gli pareva assurda e impossibile…

Un solo uomo sulla Terra poteva aiutarlo: K. Penche, rappresentante terrestre delle case di Iszm, l’uomo al quale Omon Bozhd era venuto a portare cattive notizie.

La vettura vibrò a una curva, ne superò un’altra e finalmente giunse al termine della corsa. La porta si aprì e un fattorino in divisa gli venne incontro sulla banchina. Premette i pulsanti sullo stereoschermo della cabina e un ascensore portò Farr al livello del suolo, poi, centottanta metri più in alto, fino al livello della sua stanza. Gliene avevano assegnata una ampia, arredata in gradevoli toni di verde oliva, giallo paglierino, rossiccio e bianco. Una parete, tutta di vetro, guardava su Santa Monica, Beverly Hills e l’oceano. Farr sospirò di sollievo. Le case isziche erano bellissime sotto molti aspetti, ma non potevano certo reggere al confronto con l’Hotel Imperador.

Farr fece il bagno, sguazzando nella vasca colma d’acqua calda profumata di limoncella, mentre dalle pareti della vasca uscivano sottili getti alterni d’acqua fresca che servivano a massaggiargli le gambe, la schiena, il petto… Mancò poco che si addormentasse. Poi il fondo della vasca si sollevò pian piano raddrizzandosi, deponendolo in piedi sul pavimento. Subito, soffi di aria calda lo asciugarono, mentre una lampada solare gli conferiva una rapida abbronzatura.

Uscito dal bagno, trovò pronto in camera un bicchiere di whisky e soda, che sorseggiò stando davanti alla finestra, stanco per tutte le fatiche e le emozioni, ma profondamente soddisfatto.

Sorse il sole, e la sua luce ambrata si riversò come una marea sui recessi della metropoli. Là, in uno dei quartieri di lusso che un tempo si chiamava Signal Hill, abitava K. Penche. Farr si sentì dubbioso al pensiero di essere convinto che Penche rappresentasse la soluzione a ogni suo problema. Be’, quando fosse andato da lui avrebbe scoperto se era vero o no.

Polarizzò la finestra e la camera diventò buia. Mise la sveglia su mezzogiorno, si sdraiò sul letto, e cadde subito in un sonno profondo.

La finestra si depolarizzò e la luce del giorno entrò a inondare la stanza, svegliando Farr che, postosi a sedere sul letto, prese dal tavolino il menù. Ordinò caffè, pompelmo, prosciutto e uova, poi scese dal letto e andò alla finestra. La più grande città del mondo si stendeva sotto di lui a perdita d’occhio, coi grattacieli che s’intravedevano nella nebbiolina calda, tutta fremente di commerci e di vita.

Dalla parete uscì un tavolino con la sua colazione e Farr si mise a mangiare, guardando le ultime notizie sullo stereoschermo. Per un momento dimenticò i suoi guai, ma poi la voce disse: “… e ora qualche breve notizia dallo spazio. Abbiamo appena appreso che a bordo della Andrei Simic, due passeggeri, in apparenza missionari di ritorno da un viaggio nel gruppo Mottram…”. Farr fissava lo schermo, dimentico del cibo, e la sua allegria stava ormai svanendo.

La voce fece un resoconto dell’accaduto, e sullo schermo comparve un’immagine dell’Andrei Simic: prima l’esterno, poi una sezione dell’interno con una freccia che indicava la cabina della morte. Com’era gradevole e noncurante la voce dell’annunciatore! Come faceva sembrare remota e trascurabile la faccenda!

“… le due vittime e l’assassino sono stati tutti identificati quali membri del sindacato criminale Bruttotempo. Pare che si fossero recati su Iszm, terzo pianeta dell’XI dell’Auriga, con l’intento di contrabbandare una casa femmina.”

La voce continuò a parlare, mentre apparivano sullo schermo immagini degli Anderview e di Paul Bengston.

Farr spense l’apparecchio e fece rientrare il tavolino nella parete. Tornò poi alla finestra, con gli occhi fissi sulla città. Doveva vedere Penche al più presto. Era urgente.

Dall’armadio Taglia 2 prese della biancheria, un abito azzurro leggero e un paio di sandali. Vestendosi, faceva progetti per la giornata. Per prima cosa, Penche… Farr si accigliò, tralasciando di affibbiare un sandalo. Che cosa doveva dire a Penche? A pensarci bene, perché il magnate avrebbe dovuto interessarsi ai suoi guai? Che cosa poteva fare per lui? Il suo monopolio dipendeva dagli Iszici, ed era poco probabile che volesse correre il rischio di inimicarseli.

Farr trasse un lungo sospiro, cercando di bandire quei pensieri molesti. Per quanto la cosa sembrasse illogica, doveva andare da quell’uomo. Ne era sicuro, lo sentiva anche senza sapere perché.

Terminò di vestirsi, e chiamò l’ufficio di K. Penche. Sullo schermo comparve il simbolo di Penche, lo schema di una casa iszica sormontato dalla scritta: K. PENCHE-CASE. Farr non aveva ancora premuto il tasto che permetteva alla propria immagine di apparire sullo schermo. Glielo aveva vietato un timore istintivo.

Una voce femminile disse: — Impresa K. Penche.

— Parla… — Farr s’interruppe e non disse il suo nome. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche.

— Chi parla?

— Si tratta di affari personali.

— Di quali affari, prego?

— Personali.

— Vi metto in comunicazione con la segretaria del signor Penche.

Sullo schermo comparve l’immagine della segretaria: una giovane dal fascino languido, a cui Farr ripeté la richiesta. — Inviate la vostra immagine, prego — rispose la segretaria.

— No — fece Farr. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche. Parlerò direttamente a lui.

— Temo che sia impossibile — asserì la ragazza. — È contrario alla nostra procedura d’ufficio.

— Dite al signor Penche che sono appena arrivato da Iszm con l’Andrei Simic.

La segretaria si volse a parlare in un altro microfono, e poco dopo il suo viso scomparve dallo schermo, per lasciare il posto alle fattezze dure e pesanti di K. Penche. Gli occhi brillavano incavati nelle orbite profonde, dure linee di muscoli serravano le labbra, le sopracciglia si curvavano sardoniche. Non si capiva se fosse seccato o no.

— Chi parla? — domandò.

Le parole si affollavano alla mente di Farr come bolle risalenti alla superficie dell’acqua. Erano parole che non avrebbe mai pensato di pronunciare. Riuscì a dire: — Vengo da Iszm; ce l’ho! — Farr ascoltò sbalordito la propria voce. Le parole tornarono a ripetersi: — Vengo da Iszm… — poi chiuse le labbra, e non riuscì a finire la frase.

— Ma chi è? Chi parla?

Farr allungò a fatica una mano e spense lo schermo. Si lasciò andare sulla poltrona. Che cosa gli stava succedendo? Non aveva niente per Penche, lui. Niente alludeva a una casa femmina, naturalmente. Farr poteva anche essere ingenuo, ma non fino a quel punto. Non aveva casa, né semente, né germogli, né arboscelli.

Perché desiderava tanto vedere K. Penche? Il buonsenso e la logica riuscirono ad avere il sopravvento: Penche non poteva far nulla per lui. Ma un’altra parte del suo cervello asseriva: “Penche sa di cosa si tratta, può darti dei buoni consigli…”. Be’, sì, dovette convenire Farr: quella voce forse aveva ragione.

Farr si rilassò. Il motivo era plausibile, ma d’altra parte Penche era un uomo d’affari che dipendeva dagli Iszici. Se lui doveva rivolgersi a qualcuno, doveva andare alla Squadra Speciale, non da Penche.

Rimase seduto a lungo, passandosi la mano sul mento. Be’, dopotutto che male c’era ad andare da Penche? Non era meglio togliersi quel peso dallo stomaco? Se avesse avuto un motivo valido… ma non riusciva a trovarne. Finalmente decise: non sarebbe andato da Penche.

Uscì dalla stanza, scese nell’atrio principale dell’Imperador e andò al banco per farsi cambiare un assegno. Mentre l’assegno veniva mandato in visione alla banca, era questione di pochi secondi, Farr tamburellava impaziente con le dita sul banco. Un uomo dalla faccia di rana, vicino a lui, stava discutendo con l’impiegato. Voleva affidargli un messaggio per un ospite, ma l’impiegato non voleva accettarlo. L’uomo incominciò a dar segni d’insofferenza, ma l’impiegato, chiuso nel suo gabbiotto di vetro, continuava a scrollare il capo imperturbabile, sereno per la forza che gli veniva dalle norme e dai regolamenti; pareva quasi che si divertisse.

— Se non sapete come si chiama, come potete esser sicuro che sia all’Imperador?

— So che è qui — insisté l’uomo con la faccia di rana. — Ed è molto importante che riceva il mio messaggio.

— Mi pare piuttosto strano — obiettò l’impiegato. — Non sapete che aspetto abbia, ignorate il suo nome… può anche darsi che il messaggio venga consegnato a qualcun altro.

— Questo è affar mio.

L’impiegato tornò a scrollare la testa sorridendo. — A quanto pare, sapete soltanto che è arrivato qui stamattina alle cinque. Ci sono parecchi ospiti arrivati a quell’ora.

Farr, intento a contare il denaro, ascoltava distrattamente il dialogo. Indugiò, riponendo i biglietti di banca nel portafogli, mentre lo sconosciuto asseriva: — So anche che quest’uomo è arrivato dallo spazio. Era appena sbarcato dall’Andrei Simic. Adesso sapete di chi parlo?

Farr si allontanò senza dare nell’occhio. Aveva capito di che si trattava. Penche aveva aspettato la sua telefonata, importantissima per lui. Poi aveva rintracciato da dove era stata fatta e aveva spedito un uomo all’Imperador. Appartatosi in un angolo dell’atrio, osservò l’uomo che si allontanava scornato e rabbioso dal banco. Farr era sicuro che non avrebbe desistito; si sarebbe rivolto a qualche cameriere o fattorino e, grazie a una buona mancia, sarebbe finalmente riuscito a ottenere l’informazione.

Farr si avviò verso la porta, voltandosi a guardare indietro. Una donnetta di mezza età, scialba e di aspetto comune, gli stava venendo incontro, e quando lui la guardò in faccia, distolse lo sguardo, restando per un momento incerta. Se Farr non avesse avuto motivo di sospettare, non avrebbe notato nulla. La donna lo sorpassò rapida, salì su una passatoia mobile, e, attraverso il giardino delle orchidee dell’Imperador, uscì nel Sunset Boulevard.

Farr la seguì fra la folla finché non la perse di vista. Giunto a un posteggio di elitassì saltò sul primo e diede una destinazione a caso al conducente: Laguna Beach.

L’apparecchio si sollevò puntando verso sud.

Guardando dal finestrino posteriore, Farr vide che un altro elitassì li seguiva a un centinaio di metri.

— Voltate verso Riverside — disse al conducente.

L’elitassì inseguitore eseguì la stessa manovra.

— Scendo qui — disse allora Farr.

— A South Gate? — domandò il conducente stupito.

— Sì, South Gate. — Non era troppo lontano dall’ufficio e dalla residenza di Penche a Signal Hill, il che parve a Farr una singolare coincidenza.

Dopo esser saltato a terra, osservò l’altro elitassì che si accingeva ad atterrare. Non era molto preoccupato: sfuggire a un inseguitore era semplicissimo, addirittura puerile.

Farr seguì la freccia che indicava il più vicino condotto della sotterranea e vi si lasciò cadere. Il disco fu pronto ad accoglierlo e lo depositò vicino alla banchina. Farr chiamò una vettura e salì svelto a bordo. La sotterranea pareva creata apposta per seminare i pedinatori. Segnò sul quadrante la destinazione, poi cercò di rilassarsi sul sedile.

La vetturetta accelerò ronzando, rallentò e si fermò. Farr balzò a terra e risalì alla superficie. Rimase paralizzato dallo stupore. Che cosa ci faceva a Signal Hill? Una volta, Signal Hill era punteggiato di torri di trivellazione, adesso era un immenso giardino esotico: alberi, cespugli, siepi, fra cui emergevano superbe ville e palazzi. C’erano laghetti, cascate, e accuratissime aiuole fiorite di ibisco, di narcisi, di gardenie azzurre. I giardini pensili di Babilonia erano niente al confronto. Bel Air sfigurava, al paragone, e Topanga poteva andar bene solo per gli arricchiti.

K. Penche possedeva venti acri di terreno proprio sulla sommità di Signal Hill. Aveva disboscato il terreno, infischiandosene delle leggi e delle proteste. Ora Signal Hill era incoronata di alberi-case di Iszm: sedici varietà dei quattro tipi fondamentali che gli Iszici permettevano di esportare.

Farr si avviò lentamente verso il viale coperto che una volta si chiamava Atlantic Avenue. Davvero interessante che le coincidenze del caso l’avessero condotto proprio lì. Be’, già che c’era, poteva anche andare a far quattro chiacchiere con K. Penche…

No! protestò subito, con fermezza. Ormai aveva deciso, e non voleva permettere che un impulso irrazionale gli facesse cambiare idea. Era tuttavia strano che, in una città immensa come la Grande Los Angeles, fosse capitato proprio a due passi dall’abitazione di K. Penche! Doveva esser stato il suo subcosciente a decidere per lui.

Si guardò alle spalle e, sebbene fosse certo che nessuno poteva averlo seguito, fissò a lungo la folla dei passanti di ogni età, tipo e colore. Per esclusione, finì per prendere in considerazione un ometto vestito di grigio che gli sembrava stonato, in mezzo all’altra gente. Farr girò sui tacchi, s’infilò in un caffè ombreggiato da un ciuffo di palmizi, e uscì dalla parte opposta, nascondendosi dietro un cespuglio.

Dopo un minuto, vide l’uomo in grigio uscire dal caffè e dirigersi dalla sua parte. Farr lo affrontò senza indugio:

— Stavate cercandomi?

— Ma nemmeno per idea! — protestò l’uomo in grigio.

— Non vi ho mai visto in vita mia.

— E spero che non ci rivedremo più — rispose Farr.

Dopo pochi minuti, si trovava ancora su una vetturetta della sotterranea, e indicò sul quadrante Altadena. La vettura si mosse ronzando. Farr era perplesso e turbato: come avevano fatto a trovarlo? Attraverso il condotto della sotterranea? Gli pareva impossibile. Per maggior sicurezza, cancellò Altadena sul quadrante e indicò Pomona.

Cinque minuti dopo, passeggiava con apparente noncuranza per Valley Boulevard. Dopo altri cinque minuti aveva individuato la sua ombra: un giovane operaio con il volto inespressivo. “Sono pazzo?” si domandò Farr. “Mi sta venendo la mania di persecuzione?” Per accertarsene, fece un lungo e tortuoso giro: l’operaio continuò a seguirlo.

Farr entrò in un ristorante e chiamò sullo stereoschermo la Squadra Speciale, chiedendo dell’ispettore Kirdy.

Dopo averlo salutato, Kirdy gli assicurò che non aveva ordinato ad alcuno dei suoi uomini di seguirlo. Sembrava molto interessato al racconto di Farr, e gli disse: — Aspettate in linea. Controllo gli altri dipartimenti.

In capo a qualche minuto, Farr vide entrare nel ristorante l’operaio che, con l’aria più naturale di questo mondo, sedette in disparte e ordinò un caffè.

— Noi della polizia non c’entriamo — disse Kirdy quando fu tornato. — Forse si tratta di qualche agenzia privata.

— Non ci si può far niente? — domandò Farr seccato.

— Vi hanno dato fastidio?

— No.

— In questo caso, non possiamo intervenire. Scendete in un condotto così li seminerete.

— Ho già provato due volte, ma è stato inutile.

Kirdy rimase sorpreso. — Vorrei che mi dicessero come hanno fatto… Noi non pediniamo più gli individui sospetti perché grazie alla sotterranea riescono sempre a sfuggirci.

— Proverò ancora una volta — disse Farr. — Poi ci sarà da divertirsi.

Uscì dal ristorante, e l’operaio, ingollato in fretta il caffè, gli tenne dietro.

Farr scivolò in un condotto, aspettò, ma l’operaio non lo seguì. Allora chiamò una vettura e, dopo essersi accertato che non c’era nessuno in vista, indicò sul quadrante Ventura. La vetturetta si avviò; era davvero inconcepibile che riuscissero a seguirlo attraverso la sotterranea.

A Ventura, la sua ombra era una massaia, molto carina, che pareva occupata a far spese.

Farr balzò in un altro condotto, e si diresse a Long Beach. Qui ritrovò l’uomo in grigio che aveva già attirato la sua attenzione a Signal Hill. Quando Farr gli si avvicinò, quello lo fissò imperturbabile, con una espressione che sembrava dire: “Cosa vuoi?”.

Signal Hill. In fondo distava solo un paio di miglia. Non era meglio, forse, andare da K. Penche?

No!

Farr sedette a un caffè all’aperto e ordinò un panino. L’uomo in grigio andò a sedersi poco lontano, e chiese del tè ghiacciato. Farr avrebbe voluto affrontarlo e fargli dire la verità, anche con la forza… ma si trattenne, perché la faccenda poteva prendere una brutta piega. Che cosa ne avrebbe ricavato, finendo in prigione? Era Penche il responsabile di quella persecuzione? Farr scartò l’idea, per quanto con riluttanza. L’uomo di Penche stava allontanandosi dal banco dell’albergo quando lui era uscito. Non poteva aver fatto in tempo a seguirlo o a diramare l’allarme.

E allora, chi? Omon Bozhd?

Farr sedeva rigido, poi scoppiò in una stridula risata, facendo voltare la gente. L’uomo in grigio gli lanciò un’occhiata di cauta disapprovazione. Farr continuò a ridacchiare, per sfogare la tensione. Si trattava di una cosa talmente semplice che avrebbe dovuto pensarci prima!

In cielo, a cinque o sei miglia d’altezza, doveva librarsi un battello aereo iszico, con un visore sensibile e una radio. Dovunque Farr andasse, il marchio irradiante che gli avevano impresso sulla spalla rivelava la sua posizione. Sul visore, Farr era chiaramente distinguibile, come un faro.

Andò a chiamare Kirdy, e quando gli ebbe spiegato di che si trattava, l’ispettore rispose: — Avevo già sentito parlare di questa cosa. A quanto pare funziona.

— Altroché, se funziona! — convenne Farr. — C’è modo di schermare le radiazioni?

— Aspettate. — Dopo cinque minuti, Kirdy riapparve sullo schermo. — Restate lì. Manderò un uomo con uno schermo.

Quando l’agente arrivò, Farr si recò nella toletta e avvolse uno strato di lana di metallo intorno alla spalla e al petto.

— E adesso — commentò torvo fra sé — staremo a vedere!

L’uomo in grigio lo seguì con aria noncurante fino al più vicino condotto della sotterranea. Farr si fece portare a Santa Monica. Risalì alla superficie alla stazione di Ocean Avenue, e si diresse verso nordest lungo Whilshire Boulevard, e poi tornò indietro verso Beverly Hills. Era solo. Nessuno lo seguiva. Farr ridacchiò soddisfatto, immaginando la delusione dell’Iszico addetto al visore.

Entrò al Club del Capricorno, un locale di dubbia fama, in cui aleggiava un gradevole odore vecchiotto di segatura, cera e birra. Si diresse allo stereoschermo e chiamò l’Imperador. Sì, c’era un messaggio per lui. L’impiegato inserì il nastro registrato nell’apparecchio, e Farr poté vedere per la seconda volta il viso massiccio e sardonico di Penche. La sua voce roca e profonda aveva un tono conciliante, e pareva che parlasse dopo aver scelto e soppesato con cura le parole. — Vorrei vedervi al più presto, se non vi spiace, signor Farr. Ci rendiamo conto ambedue che occorre discrezione. Sono certo che la vostra visita sarà utile tanto a voi quanto a me. Vi aspetto.

Lo schermo si offuscò, poi ricomparve, il viso dell’impiegato. — Devo cancellare o registrare, signor Farr?

— Cancellate. — Farr uscì dalla cabina e andò a mettersi in fondo al bar. — Che cosa volete? — domandò il barista.

— Vienna Stadtbrau — ordinò Farr.

Il barista girò una grande ruota di quercia ornata di tralci e festonata di vivaci etichette. Centoventi posizioni della ruota corrispondevano ad altrettanti depositi di vini, liquori e bevande varie. Spinse una leva e una bottiglia scura scivolò fuori dal dispensatore. Il barista versò il contenuto della bottiglia in un bicchiere, spingendolo davanti a Farr.

Questi bevve un sorso e si rilassò, passandosi una mano sulla fronte. Era profondamente turbato. Tutto faceva credere che l’invito di Penche fosse plausibilmente logico. In fin dei conti, pensò stancamente, non sarebbe meglio… Ma subito scacciò l’idea. Era davvero stupefacente come quell’impulso tornasse sotto i più diversi aspetti. Era difficile prevederli e prevenirli tutti, a meno di proibirsi categoricamente di pensare a Penche; ma così facendo doveva ammettere di limitare la propria libertà d’azione. D’altra parte, com’era possibile pensare quando non si era in grado di distinguere fra un insensato impulso del subcosciente e il buonsenso?

Farr ordinò dell’altra bina. Il barista, un tipo basso, con gli occhi sporgenti e un paio di baffetti sottili, si affrettò a servirlo. Farr bevve e tornò ai propri pensieri. Si trattava di un problema psicologico molto interessante, che, se le circostanze fossero state diverse, sarebbe stato divertente risolvere; ma lo toccava troppo da vicino. Cercò allora di ragionare con quell’impulso irrazionale: “Che cosa ci guadagno ad andare da Penche?” Penche aveva alluso a un guadagno. Evidentemente pensava che Farr avesse qualcosa di cui desiderava venire in possesso. Che cosa? Trattandosi di Penche, la risposta non poteva essere che una sola: una casa femmina.

Ma lui non possedeva case femmine, quindi non avrebbe avuto niente da guadagnare andando da Penche.

Tuttavia questo ragionamento non gli diede alcuna soddisfazione. Il sillogismo era troppo ovvio, tanto che dubitava di aver semplificato eccessivamente la questione. Non si poteva dimenticare che gli Iszici recitavano una parte di primo piano in tutta la faccenda. Probabilmente, anche loro erano convinti che lui avesse con sé una casa femmina, e dal momento che avevano fatto di tutto per seguirlo, ignoravano dove e quando l’avrebbe congegnata.

Era altrettanto logico supporre che Penche non voleva che essi venissero a saperlo. Lui era in grado di coltivare case che gli costavano venti o trenta dollari l’una e le rivendeva, se così voleva, anche a duemila dollari. Poteva diventare l’uomo più ricco della Terra, addirittura dell’Universo. I mogol dell’antica India, gli arricchiti dell’epoca vittoriana, i baroni del petrolio, i sindaci paneurasiani potevano andarsi a nascondere, al confronto.

Questo era un aspetto della faccenda. Ma se qualcuno possedeva una casa femmina, Penche avrebbe perso il monopolio. Ricordando il viso di quell’uomo, la bocca dura, il naso a becco, gli occhi che parevano sportelli di una fornace, Farr intuì istintivamente come si sarebbe comportato in tale caso.

La lotta sarebbe stata molto interessante. Penche, probabilmente, sottovalutava le sottigliezze di cui era capace la mente degli Iszici, lo zelo fanatico con cui avrebbero difeso le loro proprietà. Gli Iszici, dal canto loro, forse sottovalutavano la potenza che derivava a Penche dalla sua ricchezza, e il genio tecnico della Terra. Era l’identica situazione dell’antico paradosso: da una parte la forza irresistibile, dall’altra l’oggetto inamovibile. “E io” pensò Farr “ci sono in mezzo. A meno che non riesca a districarmi, rimarrò schiacciato…” Tracannò pensosamente un altro sorso di birra. “Se sapessi meglio che cosa sta accadendo, perché mi trovo coinvolto, perché hanno scelto proprio me, saprei almeno da che parte saltare. Tuttavia ho un asso in mano… almeno così pare.”

Ordinò un altro boccale di birra, poi gli venne in mente che forse lo seguivano ancora, e si guardò rapidamente intorno, ma gli parve che nessuno lo guardasse. Preso il boccale, andò a sedersi a un tavolino appartato.

La faccenda, almeno per quanto riguardava la sua personale partecipazione, aveva avuto inizio con la scorreria dei Thord a Tjiere. Farr aveva destato i sospetti degli Iszici che lo avevano incarcerato lasciandolo solo con l’unico Thord sopravvissuto. Gli Iszici avevano nebulizzato di gas ipnotico la cella nel tronco cavo, facendo addormentare sia Farr che il Thord. Che cos’era successo in quell’intervallo di tempo?

Poi lo avevano rilasciato, facilitandogli — anzi sollecitando — il suo ritorno sulla Terra. Era un’esca, uno specchietto?

E quello che era successo a bordo dell’Andrei Simic? Supponendo che gli Anderview fossero stati agenti di Penche, e avessero saputo che Farr rappresentava un pericolo — ma quale? — che andava eliminato… che cosa c’entrava Paul Bengston? Forse aveva l’incarico di spiare gli altri due, e li aveva uccisi sia per proteggere gli interessi di Penche che per procurarsi una fetta del bottino. Ma non era riuscito nell’intento. E adesso era nelle mani della Squadra Speciale.

Tutto l’insieme della faccenda portava a una conclusione logica, anche se priva di basi sicure: K. Penche aveva organizzato la spedizione dei Thord, spedizione che, per un filo, non era riuscita. Gli Iszici dovevano aver tremato di paura, e tanto avevano fatto che avevano scoperto tutto. Per loro, un po’ di denaro e qualche vita umana sprecata, non contavano nulla. Anche Aile Farr non contava nulla.

Farr rabbrividì.

Una graziosa biondina in verde si fermò al suo tavolo: — Ciao, tu, mi sembri solo soletto — e gli sedette accanto.

Farr sussultò, tanto era nervoso. Fissò a lungo la ragazza, senza aprir bocca, finché lei si agitò nervosamente sulla seggiola. — Sembra che tutte le preoccupazioni del mondo siano cascate sulla tua testa — disse.

— Sto cercando di trovare un cavallo vincente.

— Dove, per aria? — Si infilò in bocca una sigaretta, e sporse le labbra perché lui gliela accendesse. — Dammi un po’ di fuoco.

Farr accese la sigaretta, studiando la ragazza guardandola tra le palpebre socchiuse, scrutandola, cercando di scoprire in lei la nota stonata, la reazione sbagliata. Non l’aveva vista entrare nel bar, ma l’aveva già notata mentre si aggirava fra i tavoli alla ricerca di qualcuno che le offrisse da bere.

— Accetterei volentieri qualcosa — disse la ragazza.

— E dopo che vi ho pagato da bere…?

Lei distolse lo sguardo. — Credo… credo che dipenda da voi.

Farr le chiese il prezzo, senza perifrasi. Lei arrossì, continuando a guardare altrove, e infine balbettò: — Vi sbagliate… No, mi sono sbagliata io… Credevo che mi poteste offrire da bere.

— Lavorate a cottimo per il bar? — le domandò Farr.

— Sì — rispose lei in tono di sfida. — Che cosa c’è di male? È un modo come un altro per passare la sera. Capita di incontrare delle persone simpatiche, a volte. Ma che cosa avete in testa? — domandò poi chinandosi per guardar meglio. — Vi siete fatto male?

— Se vi raccontassi come mi sono ferito, mi dareste del bugiardo.

— Avanti, provate.

— C’era qualcuno che ce l’aveva con me, e mi gettò dentro a un tronco cavo. Caddi fino in fondo alle radici, e una volta arrivato laggiù picchiai forte la testa.

La ragazza lo guardò di traverso, con la bocca piegata in una smorfia. — E poi vedeste dei nanetti rosa che portavano lanterne verdi e un coniglione bianco col pelo folto.

— Ve l’avevo detto! — commentò Farr.

Lei gli sfiorò una tempia con un dito. — Avete i capelli molto lunghi — osservò.

— Voglio tenerli così — rispose Farr scostandosi.

— Fate quel che vi pare — ribatté gelida la donna. — Volete continuare o devo raccontarvi la storia della mia vita?

— Un momento. — Farr si alzò per andare a domandare al barista: — Vedete quella bionda al mio tavolo?

— Che cosa c’è?

— Viene qui spesso?

— Mai vista in vita mia.

— Non lavora per voi?

— Fratello, ve l’ho appena detto: non l’avevo mai vista prima d’ora.

— Grazie.

Farr tornò al tavolo e fissò ancora a lungo la ragazza.

— Be’? — fece lei alla fine.

— Per chi lavorate?

— Ve l’ho detto.

— Chi vi ha incaricato di seguirmi?

— Non dite sciocchezze — e fece per alzarsi, ma Farr la prese per un polso.

— Lasciatemi, se no mi metto a strillare.

— È quel che spero. Vorrei che venisse la polizia. Tornate a sedervi, altrimenti la chiamo io.

Lei si rimise lentamente a sedere, poi, tutt’a un tratto, gli buttò le braccia al collo mormorando: — Sono così sola! È vero, sai? Sono arrivata ieri da Seattle. Non conosco un’anima… Non fare tanto il difficile! Potremmo divertirci un po’ insieme, non credi?

— Prima parliamo, poi vedremo — rispose Farr.

Provò un acuto dolore alla nuca, dove lo toccava la mano di lei e, con uno scatto, si ritrasse afferrandole un braccio. Lei balzò in piedi liberandosi, con gli occhi scintillanti: — E adesso cosa farai?

Farr tentò di afferrarla, ma lei si scansò. Non riusciva a vederla con chiarezza, e aveva le giunture deboli. Quando cercò di alzarsi, rovesciò il tavolo. Il barista si mise a gridare, scavalcando rapido il banco. Farr riuscì a fare qualche passo barcollando, nel tentativo di raggiungere la sconosciuta che stava allontanandosi come se niente fosse. Il barista la fermò: — Un momento!

Farr si sentiva ronzare le orecchie, ma poté udire la ragazza che diceva: — Scostatevi. Quell’uomo è ubriaco. Mi ha insultato…

Il barista non pareva persuaso. — Qui c’è sotto qualcosa di losco.

— Be’, non voglio esserci immischiata.

Farr sentì che le ginocchia non lo reggevano più, e cadde pesantemente, mentre un groppo duro gli chiudeva gola e stomaco. Si sentì afferrare rudemente, e la voce del barista disse: — Cosa succede? Non sopporti la birra?

Mentre le tenebre lo stavano inghiottendo, Farr riuscì a mormorare con voce spessa: — Chiamate Penche… Chiamate il signor K. Penche.

— K. Penche — commentò qualcuno. — Ma quello lì e matto!

— K. Penche — ripeté con voce sempre più debole Farr. — Vi pagherà… Ditegli che… Farr…

11

Aile Farr stava morendo. Era sommerso da un caos di forme rosse e gialle che roteavano schiacciandolo col loro peso. Quando si sarebbero fermate, quando le forme si sarebbero raddrizzate e ritirate, quando il rosso e il giallo si fossero fusi in un tutto nero… Aile Farr sarebbe morto.

Vide la morte avvicinarsi, scivolando come il crepuscolo attraverso il tramonto della sua vita… Poi percepì un moto brusco, discordante: qualcosa di verde esplose fra il rosso e il giallo… e Farr si ritrovò ancora vivo.

Un dottore era chino su di lui, con una siringa in mano. — Ce l’ha fatta per un miracolo — disse, mentre le pietose tenebre dell’incoscienza inghiottivano Farr.

— Chi è? — domandò il poliziotto.

Il barista lanciò un’occhiata scettica a Farr: — Ha detto di chiamare Penche.

— Penche! K. Penche?

— Ha detto così.

— Be’, chiamiamolo. Alla peggio, ci farà una sfuriata.

Il barista andò allo schermo, mentre il poliziotto restava col dottore ancora chino su Farr.

— Che cosa gli è successo? — domandò.

— Non è facile stabilirlo — rispose il dottore scrollando le spalle. — Cose di donne… Ci sono tanti sistemi per liberarsi di un uomo, al giorno d’oggi.

— Quella ferita alla testa…

Il dottore esaminò il cuoio capelluto di Farr. — No, è una vecchia ferita. È stato colpito alla nuca. Ecco il segno.

— Penche dice che viene subito — riferì in quella il barista.

Tutti fissarono Farr con rispetto.

Entrarono nel bar due barellieri, e il medico si alzò: — È arrivata l’ambulanza.

Gli infermieri deposero la barella e vi fecero scivolare Farr, legandovelo. Poi si avviarono, seguiti dal barista. — Dove lo portate? Devo dirlo a Penche.

— Lo troverà all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

Penche arrivò tre minuti dopo che l’ambulanza era partita. — Dov’è? — furono le sue prime parole.

— Siete il signor Penche? — domandò rispettosamente il barista.

— Certo che è lui — asserì il poliziotto.

— Be’, troverete il vostro amico all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

— Informatevi di quello che è successo qui — ordinò Penche a uno degli uomini del suo seguito, prima di lasciare il bar.

Gli infermieri spogliarono Farr e si stupirono al vedere la lana di metallo che gli avvolgeva il braccio e la spalla.

— Che cos’è?

— Qualunque cosa sia, bisogna toglierla.

La tolsero, lavarono Farr con gas antisettici, gli propinarono alcune iniezioni, e infine lo trasferirono in una stanza tranquilla.

— Quando lo si potrà portare via di qui? — s’informò Penche.

— Un momento, signor Penche — disse l’impiegato.

Penche aspettò che l’altro prendesse informazioni. — Be’, è fuori pericolo.

— Lo si può trasportare?

— È privo di sensi, ma il dottore dice che si può.

— Fatelo accompagnare a casa mia con un’ambulanza, per favore.

— Benissimo, signor Penche. E… vi assumete voi la responsabilità?

— Naturalmente. Mandatemi il conto.

La casa di Penche, a Signal Hill, era un tipo di lusso Classe AA Modello 4, cioè l’equivalente di una casa terrestre da trentamila dollari. Penche vendeva quattro differenti tipi di case di Classe AA a diecimila dollari, oltre a quelle di Classe A, B e BB. Naturalmente gli Iszici coltivavano case molto più lussuose e complesse, per loro uso, case dotate di baccelli intercomunicanti, pareti che emanavano luci fluorescenti, tubazioni da cui uscivano nettare, olio e acqua, con atmosfera sovraccarica di ossigeno, con baccelli fototropici e fotofobici, baccelli che contenevano piscine, che producevano noci e cristalli di zucchero e succulente cialde. Però non esportavano case di questo genere, come non esportavano quelle da tre o quattro baccelli per gente che poteva spender poco. Infatti, sia le une che le altre avevano un costo di imballaggio e spedizione uguale, e non avrebbero reso l’utile adeguato.

Un miliardo almeno di Terrestri non aveva casa; nel Nord della Cina, gli abitanti si ammucchiavano nelle grotte, i Dravidiani vivevano in capanne di fango, gli Americani e gli Europei occupavano cadenti fabbricati suddivisi in appartamenti. Penche trovava che la situazione era deplorevole, e voleva porvi rimedio, ma alla realizzazione del suo progetto si frapponeva un ostacolo insormontabile: quella gente non era in grado di sborsare migliaia di dollari per case di Classe AA, A, BB e B, per quanto Penche fosse più che disposto a vendergliele. Aveva quindi bisogno di case a tre, quattro, cinque baccelli, che gli Iszici si rifiutavano di esportare.

Il problema aveva tuttavia una soluzione ovvia: organizzare un’incursione su Iszm per rubare un albero femmina. Accuratamente coltivato, un albero di quella specie poteva dare migliaia di semi all’anno, e da metà di questi semi sarebbero cresciuti altrettanti alberi femmina. Nel giro di pochi anni Penche avrebbe guadagnato migliaia di milioni.

A molta gente, la differenza fra dieci milioni all’anno e mille milioni all’anno pareva irrilevante. Ma Penche contava il guadagno in unità di milioni, e il denaro non rappresentava per lui un mezzo con cui poter acquistare, ma energia, spinta dinamica, capacità di persuasione e potenza. Per sé, spendeva pochissimo, e conduceva una vita quasi austera: abitava, per reclamizzare i suoi prodotti, in una casa di Classe AA su Signal Hill, quando avrebbe potuto benissimo vivere in una delle isole celesti che giravano in orbita attorno alla Terra; avrebbe potuto adornare la sua tavola di cibi rari ed esotici, di preziosi vini e rari liquori provenienti dal più lontani pianeti; avrebbe potuto farsi un harem quale mai nessun sultano aveva neppure sognato. Invece, Penche mangiava bistecche e beveva caffè. Era scapolo, e indulgeva ai piaceri solo nei rari casi in cui gli affari gli concedevano un po’ di respiro. Come certi uomini di talento che sono privi di orecchio musicale, così Penche era sordo agli allettamenti della civiltà.

Riconosceva le sue manchevolezze, e talvolta ne provava rammarico, e questa sua incapacità di godere la vita lo faceva infuriare. Ma per lo più, K. Penche si limitava a essere serio e sardonico. Altri uomini avrebbero potuto cedere alle lusinghe, alle belle parole, ma Penche no, e si serviva di questa sua incapacità come un carpentiere si serve di un martello, senza curarsi della natura intrinseca dell’utensile. Osservava e agiva senza illusioni né pregiudizi, e questa era forse la sua forza più grande, lo spietato occhio interiore che giudicava tanto lui che il mondo esteriore con la stessa inflessibile obiettività.

Quando l’ambulanza atterrò sul prato, Penche era nel suo studio. Uscì sul terrazzo e stette a guardare i barellieri che reggevano la barella. Con quella voce roca e profonda che colpiva tutti come un urlo, domandò: — È in sé?

— Comincia a riprendere conoscenza, signore.

— Portatelo su.

12

Aile Farr si svegliò in un baccello con le pareti color giallo polvere, e il soffitto a volta scuro su cui sporgevano sottili venature. Sollevò la testa per guardarsi intorno e vide che i mobili erano scuri e semplici: qualche sedia, una poltrona, un tavolo ingombro di carte, un paio di modellini di case e un’antica credenza spagnola.

Un uomo coi capelli crespi, la testa grossa e gli occhi penetranti, si chinò su di lui. Indossava un camice bianco e odorava di antisettici: era un dottore.

Dietro a lui, c’era K. Penche. Era alto e grosso, ma non quanto Farr si era immaginato vedendone l’immagine sullo schermo. Attraversò la stanza lentamente, e si chinò su di lui.

Qualcosa si destò nella mente di Farr, l’aria gli riempì la gola, le sue corde vocali vibrarono; la bocca, la lingua, i denti e il palato modellarono le parole. Farr le ascoltò, stupefatto.

— Ho l’albero.

Penche assentì. — Dove?

Farr lo guardò senza capire.

— Come avete fatto a portarlo via da Iszm? — domandò ancora Penche.

— Non lo so — Farr si drizzò appoggiandosi sul gomito, e si passò una mano sul mento. — Non so quel che ho detto. Non ho nessun albero, io.

— Insomma, l’avete o non l’avete? — sbottò irritato Penche.

— Non l’ho — rispose Farr tentando di mettersi a sedere. Il dottore lo aiutò passandogli un braccio dietro le spalle. Farr si sentiva debolissimo. — Che cosa faccio qui? Qualcuno mi ha avvelenato. Una bionda, nella taverna. — Fissò Penche con ira. — Lavorava per voi.

Penche annuì. — Lo ammetto.

— Come avete fatto a trovarmi?

— Avete chiamato l’Imperador al teleschermo. Un mio incaricato ha scoperto da dove veniva la chiamata.

— Be’ — commentò Farr. — È tutto uno sbaglio… come, perché o che cosa, non lo so. So solo che sto male, e non mi va!

— Come sta? — domandò Penche al dottore.

— Bene. Fra poco avrà ripreso completamente le forze.

— Ottimo. Potete andare.

Il dottore lasciò il baccello. Penche si mise a sedere. — Anna ha esagerato — dichiarò. — Non doveva ricorrere all’ago. Be’, parlatemi di voi.

— In primo luogo voglio sapere dove sono — ribatté Farr.

— In casa mia. Mi prenderò io cura di voi.

— Perché?

— Siete stato incaricato di portarmi un albero, un seme o un germoglio. Qualunque cosa mi abbiate portato, la voglio.

— Non l’ho — rispose Farr, dominandosi a stento. — Non ne so niente. Ero a Tjiere nel corso della scorreria… di più non ho fatto.

Con voce calma ma venata di sospetto, Penche domandò: — Perché mi avete chiamato, appena siete arrivato in città?

Farr scosse la testa. — Non lo so. Sentivo di doverlo fare e l’ho fatto. Sentivo anche di dovervi dire che avevo un albero, ma non so perché. Non è vero…

— Vi credo. Dobbiamo scoprire dov’è l’albero. Forse ci vorrà del tempo, ma…

— Vi ho detto e ripetuto che non ho nessun albero, e non m’interessa. — Riuscì ad alzarsi e si mosse verso la porta. — Vado a casa.

Penche lo guardò divertito. — Le porte sono chiuse, Farr.

Farr gli credette sulla parola, ma sapeva che la nervatura che avrebbe permesso alla porta di aprirsi era inserita nella parete. Tastò la superficie gialla rugosa…

— Non da quella parte, Farr. Tornate qui.

La porta si aprì. Nella fessura stava Omon Bozhd. Indossava un abito strettissimo a strisce bianche e azzurre e un ampio mantello bianco dal collo rialzato. Aveva un’espressione placida e austera, piena di forza, che era forza umana ma non terrestre.

L’Iszico entrò nella stanza seguito da due compatrioti vestiti a strìsce gialle e verdi: due Szecr. Farr si scostò per lasciarli entrare.

— Salve — li salutò Penche. — Credevo di aver chiuso ermeticamente la porta, ma voialtri conoscete tutti i trucchi.

Omon Bozhd annuì educatamente e rivolgendosi a Farr disse: — Oggi vi abbiamo perduto, per qualche ora. Sono lieto di rivedervi. — Guardò Penche, poi tornò a Farr. — A quanto vedo, la vostra destinazione era la casa del signor Penche.

— Così pare — ammise Farr.

— Quando vi trovavate nella cella, a Tjiere — spiegò l’Iszico — noi vi anestetizzammo con un gas ipnotico. Il Thord se ne accorse, quando immettemmo il gas, e trattenne il respiro per sei minuti. Quando voi perdeste i sensi effettuò un trasferimento di pensiero, inserendo nel vostro subconscio alcune istruzioni, quindi vi diede l’albero… Non si può dire che non abbia servito a dovere il suo padrone — aggiunse lanciando un’occhiata a Penche, che non fece commenti. — Trascorsi i sei minuti, fu costretto a respirare e perdette anche lui i sensi. Più tardi, vi conducemmo da lui, nella speranza che rivelaste quanto vi aveva detto, ma l’esperimento fallì, perché il Thord dimostrò di possedere una forza fisica eccezionale, quale noi non avevamo previsto.

Farr guardò Penche, che se ne stava indolentemente appoggiato al tavolo. L’atmosfera era carica di tensione, e pareva che bastasse un niente per farla esplodere.

Senza più curarsi di Farr, Omon Bozhd riprese a dire: — Sono venuto sulla Terra con due incarichi, signor Penche. Devo innanzitutto informarvi che la fornitura di case AA non verrà consegnata a causa dell’incursione sull’atollo di Tjiere…

— Be’, mi spiace molto.

— E in secondo luogo devo scoprire l’uomo a cui Aile Farr deve portare il suo messaggio.

— Non avete scandagliato la mente di Farr? — domandò Penche. — Come mai non l’avete scoperto?

— Il Thord — spiegò l’Iszico con l’imperturbabile cortesia della sua razza — aveva ordinato a Farr di dimenticare tutto, e di ricordare solo quando fosse stato di ritorno sulla Terra. Quel Thord era dotato di enorme forza mentale, e Farr Sainh possiede un cervello eccezionalmente tenace. Non ci restava che seguirlo. La sua destinazione era questa: la vostra casa, signor Penche. Perciò posso compiere la mia seconda missione.

— E allora? Di che si tratta? Sputate fuori — disse Penche.

Omon Bozhd s’inchinò, e con la solita compostezza riprese: — Non vi avevo riferito tutto il primo messaggio, Penche Sainh. Voi non riceverete la più case AA, non solo, ma non ne riceverete mai più di alcun genere. E se mai metterete piede su Iszin sarete condannato per il delitto che avete compiuto contro di noi.

Penche sorrise divertito. — Dunque, non sono più il vostro rappresentante.

— Esatto.

Penche si rivolse a Farr e, con voce tagliente, gli domandò: — Dove sono gli alberi?

Involontariamente, Farr si portò la mano alla testa: la ferita gli bruciava.

— Venite qui, Farr — ordinò Penche. — Fatemi dare un’occhiata.

— Giù le mani. Non voglio togliere le castagne dal fuoco per nessuno.

— Il Thord inserì sei semi sotto la pelle del cranio del signor Farr — spiegò Omon Bozhd. — È un nascondiglio davvero ingegnoso. I semi sono piccolissimi, e anche noi impiegammo mezz’ora a trovarli.

Farr si toccò il cranio disgustato.

— State fermo — gl’intimò duramente Penche. — Lasciatemi vedere.

— No!

— Non vorrete mettervi dalla parte degli Iszici, vero?

— Non voglio mettermi dalla parte di nessuno. Se mi hanno inserito i semi sotto la pelle, è affar mio. Voi non c’entrate.

Penche si fece avanti, con espressione cattiva.

— I semi sono stati tolti, Penche Sainh — l’informò Omon Bozhd. — I bernoccoli che sente in testa sono pallottole di tantalio.

Farr si tastò la cute: c’erano effettivamente sei minuscoli bozzi… Senza volerlo, guardò prima Penche poi l’Iszico, ma loro non gli badavano. Tornò a tastarsi la testa: da uno dei bozzi usciva un filamento… Anna, la bionda della taverna, aveva detto che aveva i capelli lunghi. O un capello lungo…

— Ne ho abbastanza — disse con voce rotta. — Voglio andarmene.

— Non ancora — replicò duro Penche. — Restate qui.

— Credo che sia illegale trattenere qualcuno contro la sua volontà — intervenne Omon Bozhd — e se noi non protestassimo saremmo vostri complici, non è vero?

— In un certo senso — ammise Penche.

— Per proteggerci, insistiamo dunque a chiedervi di non commettere atti illegali.

— Voi avete trasmesso il messaggio. Adesso andatevene! — gridò furibondo Penche.

— Me ne vado anch’io — trovò la forza di dire Farr. — Sono stufo di fare lo zimbello.

— Meglio fare lo zimbello vivo che il furbo morto.

— Correrò il rischio.

Omon Bozhd fece un cenno ai due Szecr che si posero ai lati della porta.

— Potete andarvene — disse Omon Bozhd a Farr. — Il signor Penche non si opporrà.

— Non ho nessuna intenzione di stare dalla vostra parte — dichiarò Farr e, dopo essersi guardato intorno, si avviò verso lo schermo.

Penche espresse la sua approvazione con un cenno, mentre l’Iszico esclamava: — Farr Sainh!

— È perfettamente legale — intervenne Penche. — Lasciatelo fare.

Farr manovrò i pulsanti. Lo schermo si illuminò. — Passatemi Kirdy — ordinò Farr.

Omon Bozhd fece un cenno, e uno degli Szecr tagliò il cavo. Lo schermo si spense.

— Guarda chi parlava di illegalità! — tuonò Penche. — Avete isolato la mia casa!

Omon Bozhd stirò le labbra mettendo in mostra i denti aguzzi e le gengive pallide: — Non ho ancora finito…

Penche alzò la mano sinistra. Dall’indice scaturì una fiammata arancione. Omon Bozhd roteò su se stesso: la lingua di fuoco gli aveva mozzato un orecchio. Gli altri due incominciarono a tastare con gesti abili ed esperti le pareti, squarciandole. Penche allungò una seconda volta il dito. Farr si slanciò prendendolo per le spalle e facendolo roteare su se stesso. Penche torse la bocca e allungò il pugno in un corto uppercut che colpì Farr allo stomaco. Farr arretrò barcollando, e tirò un diretto a vuoto. Penche si precipitò verso gli Iszici che avevano già varcato la soglia. La porta si richiuse alle loro spalle. Farr e Penche erano rimasti soli nel baccello.

Farr avanzò e Penche si ritrasse.

— Pazzo che non siete altro… — ansimò Penche. Il baccello fu scosso da un tremito e si inclinò. Il pavimento scricchiolava.

— Ma insomma, da che parte state? Siete un Terrestre e lavorate per gli Iszici? — riprese Penche.

— Voi non siete un Terrestre — replicò Farr. — Voi siete solo K. Penche. E io non sto dalla parte di nessuno. Sono stufo di fare la marionetta!

Si sentiva debole e faticava a reggersi.

— Lasciatemi vedere che cos’avete in testa.

— State lontano da me, altrimenti vi spacco la faccia!

Il pavimento del baccello s’inclinò come quello di un trampolino, mandando Farr e Penche a rotolare in fondo alla stanza. — Che cosa hanno fatto? — si domandò Penche preoccupato.

— Sono Iszici, e questa è una delle loro case — rispose Farr. — Se vogliono, possono servirsene come un musicista si serve del suo strumento.

Il baccello vibrò ancora, poi si fermò con una brusca scossa. — Ecco, è finito — disse Penche. — E adesso, avanti, fatemi vedere che cosa avete nella testa.

— State lontano, vi ho detto… Qualunque cosa abbia, è mia.

— No, è mia — corresse Penche. — Sono stato io a pagare perché ve la piantassero nella pelle.

— Non sapete neanche di che cosa si tratti.

— Sì che lo so. Lo vedo benissimo. È un germoglio.

— Siete pazzo. Un seme non può aver attecchito nella mia testa.

Il baccello si irrigidì inarcandosi come la schiena di un gatto, mentre il tetto scricchiolava. — Dobbiamo uscire di qui — mormorò Penche. Il pavimento era scosso da violenti sussulti. Penche si precipitò a premere la nervatura che avrebbe dovuto aprire la porta, ma questa rimase chiusa.

— Hanno reciso il nervo! — esclamò Farr.

Il baccello s’inclinò, e il tetto a centina scricchiolò più forte. Trac! Una centina si spezzò in una pioggia di frammenti. Un frammento, pesante e acuminato, mancò di poco Farr.

Penche puntò l’indice contro la porta che reagì alla fiammata con una densa nuvola di vapore ardente.

Penche arretrò tossendo.

Altre due centine si schiantarono.

— Se riescono a colpirci ci ammazzano — gridò Penche fissando il soffitto. — State attento!

— Aile Farr: la serra ambulante… Non riuscirete a cogliermi…

— Non perdete la testa, Farr. Venite qui.

Il baccello sussultò, e il mobilio prese a slittare. Schegge di legno schizzavano ovunque. Pareva il finimondo. Sussulti, scosse, crepitii, e il mobilio che scivolava da una parte all’altra del locale mentre Farr e Penche tentavano disperatamente di non farsi schiacciare.

— La manovrano dall’esterno — ansimò Farr. — Ne tirano i nervi…

— Se potessimo uscire sulla terrazza.

— Precipiteremmo…

Le scosse andavano aumentando d’intensità, e frammenti di legno e mobili saltavano su e giù come piselli in una scatola. Penche si teneva aggrappato alla scrivania, cercando di impedire che si muovesse e facendosene scudo. Farr, afferrato un pezzo di costola, andava tastando le pareti.

— Cosa fate?

— Quegli Iszici hanno colpito qui. Devono aver reciso dei nervi. Sto cercando di colpirne altri.

— Ma così, forse, ci ucciderete… Non dimenticate il germoglio.

— Avete più paura per il germoglio che per voi — rispose Farr continuando a tempestare di colpi la parete.

Quando colpì un nervo, il baccello s’immobilizzò irrigidendosi, e dalla parete cominciò a uscire una gran quantità di siero denso. Il baccello fu scosso da un violento sussulto, che si ripercosse sul suo contenuto, emanando un gemito vibrante, che sembrava il lamento di un’anima in pena. Il pavimento s’inarcò ancora una volta, e il soffitto incominciò a cedere.

— Siamo perduti — esclamò Penche. Farr scorse uno scintillio metallico: la siringa del dottore. L’afferrò e conficcò l’ago in una venatura prominente, verdiccia, premendo a fondo lo stantuffo.

Il baccello continuava a vibrare, a sussultare, le pareti cominciarono a schiantarsi, mostrando lunghe crepe, mentre il siero usciva a fiotti. Dopo un lungo tremito convulso, il baccello sussultò per l’ultima volta, poi tornò immobile.

I frammenti di costole, i mobili, Penche e Farr rotolarono fin sul terrazzo, e di qui, nel vuoto. Farr riuscì ad aggrapparsi a un ramo, frenando così la caduta, e quando questo non lo resse più, precipitò sul prato sottostante con un volo di tre metri, atterrando sul mucchio delle rovine. Appena si fu ripreso, si accorse che c’era qualcosa di morbido, sotto di lui. Cercò tastoni nel buio: erano le gambe di Penche. Le afferrò, tirando con forza, e tutti e due rotolarono sul prato. Farr era allo stremo delle forze. Penche non perse tempo: premendo coi ginocchi sul torace di Farr, lo afferrò per la gola. Farr vide il lampo dei suoi occhi sardonici a un palmo dai suoi. Con uno sforzo sovrumano, si liberò dalla stretta e colpì Penche con una ginocchiata. Penche si ripiegò su se stesso, e arretrò barcollando, ma si riprese immediatamente e tornò all’attacco. Farr gli afferrò il naso e lo torse. Nel tentativo di liberarsi, Penche allentò la stretta.

— Strapperò il germoglio… lo spezzerò… — riuscì a balbettare Farr.

— No! No! — urlò Penche. — Farabutto! Mascalzone… Frope, Carlyle!

Due figure accorsero dalle tenebre, e Penche si alzò in piedi. — Ci sono tre Iszici in casa — disse Penche, alzandosi. — Non lasciateli uscire. State vicino al tronco, e sparate a vista.

— Stanotte non ci saranno sparatorie — rispose una voce fredda.

Due raggi di luce conversero su Penche, che tremava di rabbia. — Chi siete?

— Squadra Speciale. Sono l’ispettore investigativo Kirdy.

— Prendete gli Iszici! Sono nella mia casa!

Comparvero gli Iszici, illuminati dai raggi delle torce elettriche.

— Siamo qui per reclamare ciò che ci appartiene — dichiarò Omon Bozhd.

— Che cosa vi appartiene? — domandò Kirdy con diffidenza.

— Ce l’ha in testa Farr. Si tratta di un germoglio di casa.

— Volete accusare Farr?

— Sarà meglio per loro non farlo — ringhiò Farr. — Non mi hanno perso di vista un attimo, mi hanno pedinato, perquisito, ipnotizzato…

— Il colpevole è Penche — dichiarò con voce amara Omon Bozhd. — Penche, il nostro agente, ci ha ingannati e traditi. Ormai è tutto chiarito. Ha messo sei semi dove sapeva che li avremmo trovati. Ma disponeva anche di un germoglio e lo ha innestato nel cuoio capelluto di Farr, dove non l’avremmo mai trovato.

— Che disdetta! — esclamò Penche.

Kirdy guardò Farr dubbioso. — Quel… coso, è ancora vivo?

Farr frenò a stento una risata. — Vivo? Ma se ha messo foglie e radici. È già spuntato il primo baccello. Ho una casa piantata in testa.

— È proprietà iszica — dichiarò brusco Omon Bozhd. — Esigo che ci sia restituita.

— È mia — intervenne K. Penche. — L’ho pagata.

— È mia — aggiunse Farr.

— Di chi è la testa su cui cresce?

Kirdy scrollò il capo. — Sarà meglio che veniate con me.

— Non seguirò nessuno, a meno che mi arrestiate — rispose Penche, con solenne dignità. E, indicando gli Iszici: — Vi ho intimato di arrestarli Mi hanno distrutto la casa.

— Venite tutti — concluse Kirdy.

Omon Bozhd si erse in tutta la sua statura, guardò Farr, allungò una mano all’interno del manto, e la ritrasse impugnando una pistola a raggi.

Farr si gettò prontamente a terra. Il raggio gli passò alto sopra la testa, mentre dalla pistola a dito di Penche scaturiva una fiammata azzurra. Omon Bozhd, avvolto in un’aureola di fiamme azzurre, continuò a sparare anche quando ormai stava per cadere privo di vita. Farr rotolò ancora sul prato. Gli altri due Iszici, ignorando le pistole dei poliziotti, avevano incominciato anche loro a sparare, e continuarono finché le fiamme azzurre non li ebbero distrutti. Una vampata colpì Farr a una gamba, immobilizzandolo.

— E adesso — commentò soddisfatto Penche — mi prenderò cura di Farr.

— State lontano da me!

— Andateci piano, Penche — lo avvertì l’ispettore.

— Vi pago dieci milioni per il germoglio — disse Penche.

— No. Lo coltiverò io — rispose duro Farr — e regalerò i semi a chi…

— È un bel rischio, perché se è maschio non vale nulla — gli ricordò Penche.

— È femmina — affermò con certezza Farr. — Vale… — si interruppe perché era arrivato il medico che stava esaminandogli la gamba.

— … moltissimo — concluse per lui Penche. — Ma avrete delle difficoltà.

— Da parte di chi?

Arrivarono due infermieri con una barella.

— Da parte degli Iszici. Vi offro dieci milioni. Io posso correre il rischio.

La stanchezza, il dolore, lo choc nervoso, ebbero la meglio su Farr. — D’accordo… Sono nauseato di tutta la faccenda.

— È come se avessimo firmato un contratto! — esclamò Penche trionfante. — Questi signori sono testimoni.

Farr venne adagiato sulla barella. Il dottore, esaminandolo, notò il germoglio e, allungata la mano, lo strappò.

— Ahi! — si lamentò Farr.

— Che cosa avete fatto? — urlò Penche.

— Abbiate cura del vostro tesoro, Penche — mormorò Farr con un fil di voce.

— Dov’è? — gridò Penche con voce strozzata, affrontando il dottore.

— Che cosa? — fece questi stupito.

— Delle luci! Subito! — ordinò Penche.

Farr vide Penche e i suoi uomini frugare fra l’erba e i rottami alla ricerca del germoglio che il dottore aveva strappato, poi perse i sensi.

Penche andò a trovare Farr all’ospedale. — Ecco il vostro denaro — disse brusco, deponendo un assegno sul comodino. Farr lo guardò. — Dieci milioni di dollari!

— È un bel mucchio di denaro.

— Già.

— Dovete aver ritrovato il germoglio.

Penche annuì. — Era ancora vivo. Cresce… ma è maschio — riprese l’assegno, lo guardò e tornò a metterlo sul comodino. — Ho perso la scommessa.

— Le probabilità erano alla pari — gli ricordò Farr.

— Comunque, non m’importa del denaro — affermò Penche guardando dalla finestra il panorama di Los Angeles. Farr avrebbe voluto sapere a che cosa pensava.

— Fa presto a venire, fa presto ad andarsene — disse Penche, e si volse per uscire.

— E adesso? — domandò Farr. — Non siete riuscito ad avere una casa femmina e non siete più rappresentante degli Iszici.

— Su Iszm ci sono ancora molte case femmina — rispose Penche. — Ce ne sono moltissime, e io me ne procurerò qualcuna.

— Con un’altra incursione?

— Chiamatela come vi pare.

— E voi come la chiamate?

— Spedizione.

— Sono ben lieto di non averci più niente a che fare.

— Non si può mai sapere — lo ammonì Penche. — E poi, potreste anche cambiare idea.

— Quanto a questo, non contateci! — rispose Farr.

FINE