PROLOGO

Sullo sfondo di una città messa a ferro e fuoco da vent'anni di guerre Yasmina Khadra ambienta questa storia che mette i brividi, una vicenda che sembra uscire da una tragedia classica, con quattro protagonisti colti in un momento cruciale della loro esistenza: Atiq, il guardiano del carcere che non riesce più a sostenere il ritmo delle esecuzioni, sua moglie Mussarat, condannata da un male incurabile, Mohsen, un borghese decaduto, e sua moglie Zunaira, un tempo avvocato e sostenitrice della causa femminista. Ognuno di loro incarna un modo diverso di rispondere all'integralismo: la resistenza, la pazzia, la sottomissione, la fuga nell'illusione. Ma per tutti e quattro viene il momento di dare un senso alla propria vita, attraverso l'amore e il sacrificio...

Affidandosi a una scrittura ricca e intensamente poetica, Yasmina Khadra scaraventa il lettore nel cuore di una follia in cui si perdono i confini tra vita, amore, morte e sopravvivenza. Un bagno al vetriolo da cui si esce sconvolti, un romanzo straordinario, che è anche un grandioso inno alla donna, da una delle più importanti voci del mondo arabo.

PROGETTO GRAFICO: WANDA LAVIZZARI

Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, (Algeria, 1956), reclutato alla scuola dei cadetti a nove anni, è stato ufficiale superiore dell'esercito algerino. Dopo aver suscitato la disapprovazione dei suoi superiori con i primi libri pubblicati, l'autore ha deciso di usare come pseudonimo il nome della moglie, con il quale ha pubblicato in Francia alcuni romanzi di successo. Nel 1999 ha lasciato l'esercito svelando così la sua vera identità.

Attualmente vive in Francia. In Italia sono usciti Morituri (1988), Doppio bianco (1989), Cosa sognano i lupi (2001 ), La parte del morto (2005), Cugina K (2006) e L'attentatrice (2006).

Dello stesso autore
nella collezione Oscar
L'attentatrice Cosa sognano i lupi?
nella collezione Strade blu
La parte del morto Le sirene di Baghdad

YASMINAKHADRA - LE RONDINI DI KABUL
Traduzione di Marco Bellini
OSCARMONDADORI
scansione di Pier Giorgio Mela

Copyright © Editions Julliard, Paris 2002

Titolo originale dell'opera: Les hirondelles de Kaboul

© 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

I edizione Scrittori italiani e stranieri settembre 2003 I edizione Piccola Biblioteca Oscar aprile 2007

ISBN 978-88-04-56797-4

Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy

A casa del diavolo, una tromba d'aria dispiega la sua veste svolazzante nella macabra danza di una strega in trance; il suo isterismo non riesce neppure a spolverare le due palme calcificate che si alzano al cielo come le braccia di un suppliziato. Un caldo canicolare ha riassorbito i presunti refoli d'aria che la notte, nella sua disastrosa ritirata, aveva dimenticato di portare con sé. Dalla fine della mattinata, nessun rapace ha trovato ragioni sufficienti per sorvolare le sue prede. Scomparsi i pastori, che solitamente spingevano le scheletriche greggi fino ai piedi delle colline. Non un'anima nel raggio di chilometri, tranne qualche sentinella acquattata in una rudimentale torre di guardia. Un silenzio di morte accompagna quella desolazione sconfinata.

Le terre afghane sono solo campi di battaglia, deserti di sabbia e cimiteri. Le preghiere si frangono nella furia dei mitra, ogni sera i lupi ululano alla morte e il vento, quando si alza, affida il lamento dei mendicanti al gracchiare dei corvi.

Tutto sembra arroventato, fossilizzato, folgorato da un sortilegio innominabile. Il raschiatoio dell'erosione gratta, scrosta, sgrossa, livella il suolo necrotizzato, innalzando impunemente le steli della sua forza tranquilla. Poi, senza alcun preavviso, ai piedi di montagne  rabbiosamente tosate dal soffio delle fornaci, sorge Kabul... o meglio quel che ne resta: una città in avanzato stato di decomposizione.

Nulla sarà più come prima, sembrano dire le strade crepate, le colline tignose, l'orizzonte incandescente e il ticchettio delle culatte. La rovina dei bastioni si è insinuata fin dentro le anime. La polvere ha prostrato i frutteti, accecato gli sguardi e sigillato le menti. A tratti, il ronzio delle mosche e il fetore delle carogne aggiungono alla desolazione qualcosa d'irreversibile. Si direbbe che il mondo stia imputridendo, che la sua cancrena abbia scelto di svilupparsi a partire da qui, dalla terra dei Pashtun, mentre la desertificazione prosegue le sue implacabili reptazioni attraverso la coscienza degli uomini, e il loro modo di pensare.

Nessuno crede al miracolo delle piogge, all'incanto della primavera, ancor meno all'alba di un domani più clemente. Gli uomini sono impazziti; hanno voltato le spalle alla luce per rivolgersi alle tenebre. I santi protettori sono stati destituiti. I profeti sono morti e i loro fantasmi crocifissi sulla fronte dei bambini...

E tuttavia qui, tra mute pietraie e tombe silenziose, fra terreni riarsi e cuori inariditi, è nata anche la nostra storia, come sboccia la ninfea sulle putride acque di una palude.


CAPITOLO 1

Atiq Shaukat distribuisce scudisciate tutt'intorno per aprirsi un varco nella folla cenciosa che turbina, come un nugolo di foglie morte, fra le bancarelle del mercato. È in ritardo, ma non è possibile andare più veloce. Sembra di stare in un alveare; le scudisciate che elargisce non destano la minima reazione. È giorno di suq, e la gente è come in trance. Ad Atìq gira la testa. Giungono mendicanti da tutti gli angoli della città, a ondate sempre più imponenti, contendendo a carrettieri e perdigiorno improbabili spazi liberi. L'afrore dei facchini e le esalazioni delle merci avariate impregnano l'aria di un odore pestilenziale, mentre un caldo implacabile opprime tutto il piazzale. Alcune donne spettrali, censurate nei loro sudici burqa, si aggrappano ai passanti, con la mano in un gesto di supplica, raccogliendo al volo chi una moneta, chi un'imprecazione. Spesso, quando si ostinano, una frusta spazientita le ricaccia indietro, il tempo di un veloce ripiegamento, ed ecco che tornano all'assalto salmodiando insopportabili suppliche. Altre, ingombre di marmocchi dalle narici effervescenti di mosche, s'aggrumano disperate intorno ai fruttivendoli, facendo la posta, fra una litania e l'altra, a un pomodoro o a una cipolla marci scovati da un cliente attento in fondo al suo cesto.
«Non restate qui,» grida loro un venditore agitando furiosamente una lunga pertica sopra le teste «attirate la iella e ogni genere d'insetto sul mio banco.»
Atiq Shaukat consulta l'orologio. Le mascelle gli si contraggono per la collera, il boia dev'essere arrivato da più di dieci minuti, e lui si trova ancora per strada. Esasperato, si rimette a scudisciare per disperdere quella marea umana, s'accanisce inutilmente contro un gruppo di vecchi insensibili alle sue frustate quanto ai singhiozzi di una bambina che si è persa nella calca, poi, approfittando di una breccia aperta da un camion, riesce a sgattaiolare fino a un vicolo meno affollato e si affretta, zoppicando leggermente, verso un edificio rimasto stranamente in piedi in mezzo a una distesa di rovine. Si tratta di un vecchio dispensario abbandonato, e da tempo saccheggiato dagli spiriti, che i talebani utilizzano occasionalmente come prigione quando nel quartiere è prevista un'esecuzione pubblica.
«Ma dov'eri finito?» tuona un grasso barbuto palpando il suo kalashnikov. «Ti ho mandato a cercare un'ora fa.»
«Ti chiedo scusa, Qassim Abdul Jabbar» dice Atiq senza fermarsi. «Non ero a casa.»
Poi, con voce irritata, aggiunge:
«Ero all'ospedale. Ho dovuto portare via d'urgenza mia moglie.»
Qassim Abdul Jabbar brontola, per nulla convinto, e col dito sul quadrante dell'orologio gli fa capire che per colpa sua stanno tutti perdendo la pazienza. Atiq incassa il collo nelle spalle e si dirige verso l'edificio, dove lo aspettano alcuni uomini armati, accovacciati da una parte e dall'altra del portone. Uno di loro si alza spolverandosi il sedere, si dirige verso un camioncino col pianale scoperto parcheggiato a una ventina di metri, salta dentro la cabina, fa ruggire il motore e si dispone, in retromarcia, davanti all'ingresso della prigione.
Atiq Shaukat strappa un mazzo di chiavi da sotto il lungo gilè e s'infila nella prigione, tallonato da due miliziane imbacuccate nei loro burqa. In un angolo della cella, proprio lì dove un lucernario riversa una pozza di luce, una donna velata conclude le sue preghiere. Le due miliziane invitano il carceriere ad allontanarsi. Una volta sole, aspettano che la prigioniera si sia rialzata per avvicinarsi e, senza tanti complimenti, le ordinano di star dritta, poi iniziano a legarle strettamente le braccia e le cosce, e alla fine, dopo aver verificato che le corde siano ben tese, le avvolgono un sacco di tela intorno al corpo spingendola davanti a loro nel corridoio. Atiq, che aspettava nel vano del portone, fa cenno a Qassim Abdul Jabbar che le miliziane stanno arrivando. Quest'ultimo chiede agli uomini nel cortile di farsi da parte. Incuriositi, alcuni passanti si radunano di fronte all'edificio, in silenzio. Le due miliziane escono in strada, afferrano la prigioniera da sotto le ascelle, la buttano sul sedile posteriore del camioncino e si piazzano accanto a lei, una per lato.
Abdul Jabbar rialza la sponda del camioncino e la fissa con i catenacci. Data un'ultima occhiata alle due miliziane e alla prigioniera per accertarsi che tutto sia a posto, s'arrampica a fianco del conducente e ordina di mettersi in marcia battendo sul fondo il calcio del kalashnikov. Subito il camioncino si mette in moto, scortato da un grosso 4x4 sormontato da un lampeggiatore e carico di miliziani stracciati.
Mohsen Ramat esita a lungo prima di decidersi a raggiungere la folla in piazza. È stata annunciata l'esecuzione pubblica di una prostituta. Verrà lapidata. Qualche ora prima, alcuni operai hanno scaricato delle carriole piene di sassi nel luogo dell'esecuzione e hanno scavato una fossa profonda una cinquantina di centimetri.
Mohsen ha assistito a parecchi linciaggi del genere. Solo ieri, due uomini, uno dei quali appena adolescente, sono stati impiccati in cima a un'autogrù per esserne sganciati solo al calare della notte. Mohsen detesta le esecuzioni pubbliche. Lo costringono a prendere coscienza della propria fragilità, rendono più grevi le prospettive della sua finitezza; di punto in bianco, scopre quanto siano futili le cose e le persone, e più nulla lo riconcilia con le certezze di un tempo, quando levava lo sguardo all'orizzonte solo per rivendicarlo. La prima volta che aveva assistito all'esecuzione di qualcuno - un assassino sgozzato da un parente della vittima - era stato male. Per notti e notti, i suoi sogni sfolgorarono di visioni terrificanti. Spesso, si risvegliava urlando peggio di un ossesso. Poi, mentre il passare dei giorni consolida i patiboli e infoltisce il gregge espiatorio al punto che la gente di Kabul è presa d'angoscia solo all'idea che un'esecuzione capitale venga rinviata, Mohsen ha smesso di sognare. La sua coscienza si è spenta. Si addormenta appena chiude gli occhi e resuscita solo al mattino, la testa vuota come una zucca. La morte, per lui come per gli altri, è una banalità. D'altronde, tutto è banalità. A parte le esecuzioni capitali, che rincuorano i superstiti ogni volta che i mullah si trascinano davanti alle loro porte, non c'è niente. Kabul è diventata l'anticamera dell'aldilà. Un'anticamera oscura, dove i punti di riferimento sono adulterati; un calvario pudibondo; un'insopportabile latenza osservata nella più stretta intimità.
Mohsen non sa dove andare né che farsene del proprio ozio. Fin dal mattino non smette di vagare nei sobborghi devastati, con la mente che vacilla, il volto inespressivo. Prima, ossia molti anni luce fa, gli piaceva passeggiare, la sera, lungo i viali di Kabul. All'epoca, le vetrine dei negozi non avevano granché da offrire, ma nessuno veniva a sferzarti il viso a frustate. La gente badava alle proprie occupazioni con l'entusiasmo sufficiente a concepire, nel loro delirio, progetti mirabolanti. I chioschi erano pieni da scoppiare e il loro baccano si riversava sui marciapiedi come una colata d'allegria. Buttati su sedie di vimini, i vecchi fumavano il narghilè, gli occhi strizzati per un raggio di sole, il ventaglio negligentemente posato sul ventre. E le donne, nonostante il velo graticciato, piroettavano nel loro profumo come vampate di calore. I carovanieri di un tempo giuravano di non aver visto in nessun altro posto, nel corso delle loro peregrinazioni, uri così affascinanti. Vestali impenetrabili, le loro risate erano un canto, la loro grazia un'apparizione. Per questa ragione indossare il burqa è diventata una necessità; serve più a proteggerle da sguardi malevoli che a risparmiare agli uomini immani sortilegi... Com'è lontano, quel tempo. È forse frutto di pura fabulazione? Ormai, i viali di Kabul non divertono più. Le facciate scarnificate, rimaste ancora in piedi per non si sa quale miracolo, attestano che le bettole, le osterie, le case e gli edifici sono stati ridotti in fumo. La carreggiata, prima asfaltata, è ora un sentiero battuto che i sandali e gli zoccoli raspano ogni giorno senza posa. I negozianti hanno appeso il sorriso al chiodo. I fumatori di chilum si sono volatilizzati. Gli uomini si sono trincerati dietro le ombre cinesi e le donne, mummificate in sudari del colore della paura o della febbre, sono assolutamente anonime.
Mohsen aveva dieci anni, prima dell'invasione sovietica; un'età in cui non si capisce perché, di punto in bianco, i giardini vengano disertati e i giorni siano pericolosi quanto le notti; un'età in cui s'ignora, soprattutto, che una sventura fa presto ad arrivare. Suo padre era un facoltoso commerciante. Abitavano una grande casa in pieno centro e ricevevano regolarmente parenti o amici. Mohsen non ricorda esattamente quel tempo, ma è sicuro che era davvero felice, che nessuno contestava i suoi scoppi di risa o condannava i suoi capricci di bambino viziato. Poi, è arrivata quell'ondata russa,  con la sua armada da fine del mondo e il suo gigantismo conquistatore. Il cielo afghano, in cui si tessevano i più begli idilli della terra, fu coperto da rapaci blindati: la sua azzurra limpidezza fu zebrata da strie di polvere e le rondini, sgomente, si dispersero nel balletto dei missili. La guerra era lì. Aveva trovato una patria...
Un colpo di clacson lo scaraventa di lato. Istintivamente porta la sciarpa al volto per ripararsi dalla polvere. Il camioncino di Abdul Jabbar lo sfiora, per poco non travolge un mulattiere e piomba sulla piazza, seguito dal potente 4x4. Alla vista del corteo, un truce schiamazzo scuote la folla, in cui adulti irsuti contendono i primi posti a fauneschi ragazzini. I miliziani devono distribuire scudisciate a più non posso per sedare gli animi.
Il veicolo si ferma davanti alla fossa appena scavata. Fanno scendere la peccatrice mentre piovono invettive da ogni parte. Il turbinare della folla scompiglia nuovamente i ranghi, catapultando verso il fondo i più distratti.
Insensibile alle brutalità che cercano di ricacciarlo indietro, Mohsen approfitta dei varchi che l'agitazione apre nella calca per guadagnare i primi posti. Alzandosi sulla punta dei piedi, scorge un energumeno colossale "piantare" la donna impura nella fossa e ricoprirla di terra fino alle cosce, in modo da tenerla dritta e impedirle di muoversi.
Un mullah si getta sulle spalle le falde del proprio burnus, squadra con disprezzo, per l'ultima volta, il cumulo di veli sotto il quale una persona si prepara a morire e tuona: «Alcuni hanno scelto di sguazzare nel fango come i porci. Eppure, erano a conoscenza del Messaggio, conoscevano i pericoli delle tentazioni, ma la loro fede non è stata abbastanza forte da resistere. Esseri miserabili, ciechi e frivoli, hanno preferito un istante di dissolutezza, effimero quanto irrisorio, al giardino eterno. Hanno tolto le loro dita dall'acqua lustrale delle abluzioni per ficcarle nella risciacquatura, si sono tappati le orecchie all'appello del muezzin per ascoltare le oscenità di Satana, hanno accettato di subire la collera di Dio piuttosto che tenersene al riparo. Cosa dire loro, se non la nostra pena e la nostra indignazione?... (Il suo braccio si tende come una spada verso la mummia.) Questa donna non ignorava quel che faceva. L'ebbrezza della fornicazione l'ha distolta dalla via del Signore. Oggi, è il Signore che le volta le spalle. Non ha diritto né alla sua misericordia né alla pietà dei credenti. Morirà nel disonore come nel disonore è vissuta».
Si interrompe per raschiarsi la gola, dispiega un foglio di carta in un silenzio assordante.
«Allahu' akbar!» grida qualcuno dalle ultime file.
Il mullah alza maestosamente una mano per placare l'urlatore. Dopo aver recitato un versetto del Corano, legge qualcosa che somiglia a una sentenza, rimette il foglio di carta in una tasca interna del gilet e, dopo una breve meditazione, invita la folla ad armarsi di pietre. È il segnale. In una ressa indescrivibile, la gente si getta sui mucchi di pietre appositamente sistemati nella piazza qualche ora prima. Subito, un diluvio di proiettili s'abbatte sulla vittima che, imbavagliata, vibra sotto la furia dei colpi senza un grido. Mohsen raccoglie tre pietre e le lancia contro il bersaglio. Le prime due si perdono nella frenesia generale, ma al terzo tentativo raggiunge la vittima in testa e vede, con insondabile giubilo, una macchia rossa aprirsi nel punto in cui l'ha colpita. Un minuto dopo, insanguinata e sfinita, la vittima si accascia e non si muove più. La sua rigidità galvanizza ancor di più i lapidatori che, con gli occhi stralunati e la bava alla bocca, raddoppiano la propria ferocia come se volessero resuscitarla per prolungare il suo supplizio. Nella loro isteria collettiva, persuasi  d'esorcizzare i propri demoni attraverso quelli della succube (Nella demonologia, i demoni succubi sono demoni femminili che nottetempo vengono a congiungersi carnalmente con gli uominI) alcuni non si rendono conto che quel corpo crivellato non risponde più alle offese, che la donna immolata giace senza vita, semisepolta, come un sacco di orrore gettato agli avvoltoi.

CAPITOLO 2

Atiq Shaukat non si sente bene. Il bisogno di uscire a prendere una boccata d'aria e stendersi sopra un muretto con la faccia al sole lo tormenta. Non può restare un minuto di più in quella topaia a fare soliloqui o a cercare di decifrare gli arabeschi inestricabilmente intrecciati sulle pareti delle celle. La frescura della piccola prigione riacutizza le sue vecchie ferite; ogni tanto, il ginocchio gli si blocca per il freddo e fa fatica a piegarlo. Contemporaneamente, è preso dalla claustrofobia; non sopporta più la penombra né l'angustia dell'alcova che gli serve da ufficio, ingombra di ragnatele e cadaveri di porcellini di terra. Ripone la lanterna, insieme alla borraccia in pelle di capra e allo scrigno foderato di velluto nel quale riposa un voluminoso esemplare del Corano, arrotola la stuoia per le preghiere, l'appende a un chiodo e decide di andarsene. In ogni caso, se avessero bisogno di lui, i miliziani sanno dove trovarlo. L'universo carcerario gli pesa. Da qualche settimana, quanto più riflette sul suo status di carceriere, meno vi trova qualche merito, meno ancora qualche nobiltà. Questa constatazione lo mette continuamente di malumore. Ogni volta che chiude il portone dietro di sé, sottraendosi ai rumori della strada, ha l'impressione di seppellirsi vivo. Una paura chimerica turba i suoi pensieri. Si rannicchia  allora nel suo angolino e rifiuta di tornare in sé, il fatto di lasciarsi andare gli procura una specie di pace ulteriore. Sono i vent'anni di guerra che lo riagguantano? A quarantadue anni, è già logoro, non vede la fine del tunnel e nemmeno la punta del proprio naso. Abbandonandosi poco a poco alla rinuncia, inizia a dubitare delle promesse dei mullah e si sorprende, talvolta, ad avere solo un vago timore dei fulmini celesti.
È dimagrito parecchio. Sotto la barba da integralista il viso gli casca a pezzi; gli occhi, sebbene sottolineati dal khol, hanno perso vivacità. L'oscurità delle mura ha avuto ragione della sua lucidità, quella della sua funzione si radica profondamente nella sua anima. Quando si passano le notti a sorvegliare i condannati a morte e i giorni a consegnarli nelle mani del boia, non ci si aspetta granché dal tempo che resta. Ormai, non sapendo dove sbattere la testa, Atiq è incapace di dire se è il silenzio delle due celle vuote oppure il fantasma della prostituta giustiziata la mattina a impregnare gli angoli di un tanfo d'oltretomba.
Esce in strada. Uno sciame di monelli bracca un cane randagio in un coro discordante. Irritato dalle urla e dalla confusione, Atiq raccoglie un sasso e lo scaglia sul monello più vicino. Questi schiva il proiettile e, impassibile, continua a sgolarsi per disorientare il cane, visibilmente allo stremo. Atiq capisce che sta perdendo tempo. Quegli indemoniati non si disperderanno prima di aver linciato il quadrupede, preparandosi così, precocemente, a linciare uomini.
Il mazzo di chiavi sotto il gilet, si dirige verso il mercato infestato di mendicanti e facchini. Come al solito, per niente scoraggiata dalla canicola, una folla frenetica brulica in mezzo a banchi di fortuna, voltando e rivoltando gli abiti usati, frugando fra le anticaglie in cerca di non si sa cosa, ammaccando con le dita scheletriche frutti troppo maturi.
Atiq chiama ad alta voce un ragazzo accanto a lui e gli affida il melone che ha appena acquistato. «Portalo a casa mia. E cerca di non perdere tempo per strada» lo minaccia brandendo lo scudiscio.

Il ragazzo annuisce, stringe controvoglia il frutto sotto l'ascella e si dirige verso un'incredibile babele di catapecchie.

In un primo momento, Atiq pensa di recarsi da suo zio, ciabattino di mestiere, la cui tana si trova proprio dietro quel mucchio di rovine laggiù; ma subito ci ripensa: suo zio è uno dei più grandi chiacchieroni che la tribù abbia partorito; lo tratterrà fino a notte fonda ripropinandogli le stesse storie sugli stivali che confezionava per gli ufficiali del re e i dignitari del vecchio regime. A settant'anni, mezzo cieco e quasi sordo, il vecchio Ashraf delira proprio. Quando i suoi clienti, stanchi di starlo a sentire, lo piantano in asso, neppure si accorge che se ne sono andati e continua a rivolgersi al muro fino a perdere la voce. Adesso che più nessuno viene a farsi confezionare scarpe su misura e le poche ciabatte che gli sottopongono sono così consunte che non sa più da quale verso prenderle, si annoia da morire.
Atiq si ferma in mezzo alla strada e pensa a come passare la serata. Nemmeno ci pensa a tornare a casa per trovare il letto sfatto, le stoviglie dimenticate nella risciacquatura maleodorante dei catini e sua moglie rannicchiata in un angolo, la testa cinta da un sudicio velo e il viso violaceo. È per causa sua che questa mattina è arrivato tardi, rischiando di compromettere l'esecuzione dell'adultera. Eppure, al dispensario, gli infermieri non si occupano più di lei da quando il dottore ha allargato le braccia in segno d'impotenza. Forse, è ancora per causa sua se, di punto in bianco, ha smesso di credere alle promesse dei mullah e temere oltre misura i fulmini celesti. Lei lo tiene sveglio tutte le notti, gemendo, quasi fuori di sé, per assopirsi solo all'alba, spossata dal dolore e dalle contorsioni.
Tutti i giorni, è costretto a setacciare l'antro pestilenziale dei ciarlatani alla ricerca di qualche elisir in grado di alleviare le sue sofferenze. Né le virtù talismaniche né le preghiere più ferventi sono riuscite ad assistere l'ammalata. perfino sua sorella, che aveva accettato di abitare in casa loro per dargli una mano, si è rifugiata nel Belucistan e non ha più dato segno di vita. Lasciato a se stesso, Atiq non sa più come gestire una situazione che si fa sempre più complicata. Se il dottore ha gettato la spugna, in cosa sperare, se non in un miracolo? Ma i miracoli hanno ancora corso a Kabul? Ogni tanto, i nervi tesi fino a spezzarsi, congiunge le mani tremanti per recitare la fatiha (fatiha è la prima sura del Corano, con cui si aprono tutte le preghiere e per questo viene detta "l'Aprente") e supplica il cielo di chiamare a sé sua moglie. Dopo tutto, perché continuare a soffrire quando ogni respiro che fai ti snatura e fa inorridire i tuoi cari?

«Attenzione!» urlano. «Scansatevi, scansatevi...»

Atiq ha appena il tempo di scansarsi per evitare di essere investito da un carro, la cui cavalcatura si è imbizzarrita. Il cavallo, impazzito, si precipita verso il mercato, creando un principio di panico, per deviare poi improvvisamente verso un accampamento di tende. Disarcionato, il conducente fa un capitombolo e va a ruzzolare sopra una tenda. Il cavallo prosegue la sua corsa disperata in mezzo al pigolio dei bambini e agli strilli delle donne, prima di scomparire dietro le rovine di un santuario.

Atiq rialza le falde del lungo gilet e si picchia sul sedere per toglierne la polvere.
«Ti davo per spacciato» gli confida un uomo seduto a un tavolo della terrazza di un chiosco.
Atiq riconosce Mirza Shah, che gli offre una sedia.
«Posso offrirti un té, aguzzino?»
«Accetto volentieri» dice Atiq lasciandosi cadere sulla sedia.
«Hai chiuso bottega prima del previsto.»
«È difficile essere carcerieri di se stessi.»
Mirza inarca un sopracciglio. «Non verrai a dirmi che le tue celle non hanno inquilini.»
«È la verità. L'ultima è stata lapidata stamattina.»
«La puttana? Non ho partecipato alla cerimonia, ma mi hanno raccontato...»
Atiq si addossa al muro, congiunge le dita sul ventre e contempla le macerie di quello che, una generazione prima, era stato uno dei viali più animati di Kabul.
«Sei triste, Atiq.»
«Sì?»

«Diamine, è la prima cosa che salta agli occhi. Non appena ti ho visto, mi sono detto: "Sst! Quel povero diavolo di Atiq non sta affatto bene".»
Atiq alza le spalle. Mirza Shah è stato un amico d'infanzia. Erano cresciuti in un quartiere povero e avevano frequentato la stessa gente e gli stessi posti. I loro genitori lavoravano in una piccola vetreria. Avevano troppe preoccupazioni per occuparsi di loro. Fu quindi naturale che Mirza si arruolasse a diciotto anni mentre Atiq trovava lavoro da un camionista come autista in seconda prima di tentare un numero incredibile di mestierucoli che gli fruttavano di giorno quel che perdeva di notte. Si persero di vista fino al giorno in cui i russi invasero il paese. Mirza Shah fu uno dei primi soldati a disertare per unirsi ai mujaheddin. Il suo coraggio e il suo ardore l'innalzarono rapidamente di grado. Atiq lo ritrovò al fronte, combattè ai suoi ordini per qualche tempo finché una granata non interruppe lo slancio della  sua jihad. Venne evacuato a Peshawar. Mirza proseguì la guerra con straordinaria dedizione. Dopo il ritiro delle forze sovietiche, gli proposero dei posti di responsabilità nell'amministrazione, ma lui declinò l'offerta. La politica e il potere non gli davano alla testa. Grazie alle sue relazioni, mise in piedi qualche piccola attività di copertura ai suoi investimenti paralleli, in particolare nel contrabbando e nel traffico di stupefacenti. L'avvento dei talebani ha attenuato la sua alacrità senza tuttavia smantellarne la rete d'affari. Sacrificò volentieri un po' di camion e qualche bagattella per la buona causa, contribuì a modo suo allo sforzo bellico della feccia messianica contro i vecchi compagni d'arme e riuscì a conservare i propri privilegi. Mirza sa bene che la fede di un miserabile raramente resiste al guadagno facile; unge quindi le ruote ai nuovi padroni del paese e trascorre così giorni tranquilli nel cuore della tormenta. Più di una volta, ha proposto all'amico di sempre di lavorare per lui. Atiq schiva regolarmente l'offerta, preferendo vivacchiare in una vita effimera piuttosto che doversene pentire per l'eternità.

Mirza sgrana il rosario intorno al dito squadrando l'amico che, infastidito, finge di guardarsi le unghie.
«Cos'è che non va, aguzzino?»
«Me lo chiedo anch'io.»
«Per questo poco fa parlavi da solo?»
«Forse.»
«Non trovi nessuno con cui parlare?»
«È proprio necessario?»

«Visto come stanno le cose, perché no? Eri talmente assorto nelle tue preoccupazioni che non hai sentito arrivare il carro. Subito mi sono detto: "O Atiq sta perdendo la ragione oppure sta macchinando un imminente colpo di stato...".»

«Bada a come parli» l'interrompe Atiq, a disagio. «C'è il rischio che ti prendano sul serio.»
«È solo per punzecchiarti.»
«Non si scherza a Kabul, lo sai bene.»
Mirza gli picchietta dolcemente sul dorso della mano per tranquillizzarlo.
«Da bambini eravamo molto amici. L'hai dimenticato?»
«Le teste matte non hanno memoria.»
«Le teste matte non hanno memoria.»
«Non avevamo segreti.»
«Oggi, questo non è più possibile.»
La mano di Mirza si contrae.

«Oggi cos'è cambiato, Atiq? Niente, assolutamente niente. Circolano le stesse armi, girano gli stessi ceffi, abbaiano gli stessi cani e passano le stesse carovane. Abbiamo sempre vissuto così. Partito il re, un'altra divinità l'ha sostituito. È vero, gli stemmi hanno cambiato logo, ma identici sono i soprusi che rivendicano. Non bisogna illudersi. La mentalità è la stessa di secoli fa. Chi aspetta il sorgere di una nuova era all'orizzonte perde tempo. Da che mondo è mondo, c'è chi lo prende per quello che è e chi rifiuta di accettarlo. Il saggio è colui che prende le cose come vengono. Lui ha capito. Anche tu devi capire. Tu non stai bene, perché non sai quello che vuoi, tutto qua. Gli amici sono fatti per aiutarti a vederci chiaro. Se credi che io sia ancora tuo amico, confidami cos'è che ti turba.»
Atiq sospira. Ritira il polso dalla mano di Mirza, cerca nei suoi occhi un aiuto qualsiasi; cede, dopo una breve esitazione: «Mia moglie è malata. Il dottore sostiene che il suo sangue si deteriora rapidamente e che non vi sono rimedi al suo male». 
Per un istante, Mirza rimane perplesso all'idea che un uomo possa parlare della moglie per strada, poi, lisciandosi la barba tinta di henne, scrolla la testa e dice: «Non è forse la volontà di Dio?».

«Chi oserebbe ribellarsi a essa, Mirza? Io no di certo. 
L'accetto pienamente, con infinita devozione, ma sono solo e spaventato. Non c'è nessuno che mi aiuti.»
«È molto semplice: ripudiala.»

«Non ha famiglia» replica ingenuamente Atiq senza accorgersi del crescente disprezzo che pervade il volto dell'amico, visibilmente irritato di doversi dilungare su un argomento di così poco conto. «I suoi genitori sono morti, i fratelli sono partiti, chi da una parte, chi dall'altra. E poi, non posso farle questo.»

«E perché no?»
«Mi ha salvato la vita, ricordalo.»

Mirza si getta all'indietro, come colto alla sprovvista dalle argomentazioni del carceriere. Sporge le labbra, inclina la faccia su una spalla in modo da guardare di sottecchi il proprio interlocutore.
«Sciocchezze!» esclama. «Solo Dio dispone della vita e della morte. Sei stato ferito combattendo per la Sua gloria. Siccome non poteva inviare Gabriele in tuo aiuto, ha messo questa donna sulla tua strada. Lei ti ha curato perché Dio ha voluto così. Non ha fatto che sottomettersi alla Sua volontà. Tu hai fatto cento volte di più per lei: l'hai sposata. Cosa poteva sperare di più una zitella spenta e priva di fascino, di tre anni più vecchia di te? Si può essere più generosi con una donna che offrirle un tetto, un nome, protezione e onore? Tu non le devi niente. Spetta a lei inchinarsi davanti al tuo gesto, Atiq, e baciarti, una per una, le dita dei piedi ogni volta che ti togli le scarpe. Lei non significa granché all'infuori di quel che tu rappresenti per lei. È solo un essere inferiore. E poi, nessun uomo deve alcunché a una donna. La rovina del mondo deriva proprio da questo malinteso.»

All'improvviso, si acciglia: «Non sarai così pazzo da amarla?».
«Viviamo insieme da una ventina d'anni. Non è una cosa da poco.»
Mirza è scandalizzato, ma si trattiene e cerca di non strapazzare l'amico d'infanzia.

«Mio povero Atiq, io vivo con quattro mogli. La prima, l'ho sposata venticinque anni fa; l'ultima, nove mesi fa. Per l'una come per l'altra provo solo diffidenza, perché mai ho avuto l'impressione di capire come funzioni la loro testa. Sono convinto che non capirò mai del tutto come ragionano le donne. Viene da credere che i loro pensieri girino in senso contrario alle lancette dell'orologio. Che tu viva un anno o un secolo con una concubina, una madre o con tua figlia, avrai sempre la sensazione di un vuoto, come di un sinistro fossato che ti isola sempre più per meglio esporti ai rischi della tua sbadataggine. Con queste creature visceralmente ipocrite e imprevedibili, quanto più credi di addomesticarle, tanto meno hai la possibilità di domare le loro arti malefiche. Se anche nutrissi una vipera in seno, non saresti immune dal loro veleno. Quanto al passare degli anni, non può recare alcun sollievo in una casa in cui l'amore delle donne tradisce l'inconsistenza degli uomini.»

«Non si tratta di amore.»

«Allora, cosa aspetti a cacciarla di casa? Ripudiala e concediti una vergine sana e robusta, che sappia tacere e servire i I suo padrone in silenzio. Non voglio più vederti parlare da solo per strada come uno scimunito. Soprattutto non per colpa di una femmina. Offenderebbe Dio e il suo profeta.»

Mirza tace bruscamente. Un giovane si è fermato sulla soglia del chiosco, lo sguardo perso e le labbra esangui. È alto, il viso imberbe e bello, ornato da una ghirlanda sottile di peli ribelli. I capelli lunghi e lisci gli cadono sulle spalle, che ha strette e minute come quelle di una ragazza.
«Cosa vuoi?» lo apostrofa Mirza.
Il giovane si porta un dito alla tempia per tornare in sé, gesto che infastidisce ulteriormente Mirza.

«Deciditi, entra o vattene. Non vedi che stiamo parlando?»

Mohsen Ramat si accorge che i due uomini hanno messo mano allo scudiscio e stanno per sferzargli il viso. Si profonde in scuse indietreggiando e si allontana verso l'accampamento di tende.
«Ti rendi conto?» s'indigna Mirza. «La gente non ha nessun riguardo.»

Atiq scuote la testa, borbottando. L'intrusione l'ha fatto tornare in sé. Si accorge di quanto siano state indecenti le sue confidenze e se la prende con se stesso per non aver saputo resistere al malsano bisogno di lavare i suoi panni sporchi sulla terrazza di una bettola. Fra lui e il suo amico d'infanzia cala un silenzio imbarazzato. Non osano più guardarsi in faccia, l'uno trincerandosi dietro la contemplazione delle linee della propria mano, l'altro fingendo di correre con lo sguardo dietro al proprietario del chiosco.


CAPITOLO 3


Mohsen Ramat spinge titubante la porta di casa. È dalla mattina che non tocca cibo, e il suo vagabondare l'ha sfiancato. Nei chioschi, al mercato, in piazza, ovunque si è avventurato, è stato subito ripreso dall'incommensurabile stanchezza che si trascina dietro come una palla al piede. L'unico amico e confidente che aveva è morto di dissenteria l'anno scorso. Non è riuscito a farsene altri. La gente fa fatica a convivere con la propria ombra. La paura è diventata il più efficace mezzo di sorveglianza. Suscettibili come non mai, una confidenza viene subito male interpretata, e i talebani non sanno perdonare le lingue imprudenti. Visto che si può condividere solo la mala sorte, ognuno preferisce masticare per conto suo le proprie delusioni per non doversi sobbarcare a quelle altrui. Dal momento che a Kabul la gioia viene annoverata fra i peccati capitali, è perfettamente inutile cercare conforto presso una terza persona. Quale conforto si può ancora ottenere in un mondo in preda al caos, brutale e assurdo, dissanguato da un rosario di guerre di rara ferocia; un mondo disertato dai suoi santi protettori, in balia di corvi e carnefici, che le preghiere più fervide sembrano incapaci di riportare alla ragione?

Tranne un'ampia stuoia intrecciata come un tappeto, due vecchi sgabelli imbottiti ormai  bucati e un cavalletto tarlato sul quale riposa il libro delle Letture, nella stanza non è rimasto più nulla. Mohsen ha venduto tutti i mobili, uno dopo l'altro, per far fronte alle ristrettezze. Adesso, non riesce neppure a sostituire i vetri rotti. Le finestre, dalle imposte cadenti, sono cieche. Ogni volta che un miliziano passava per strada gli ordinava di ripararle al più presto: un passante poteva rimanere offeso dal volto di una donna senza velo. Mohsen ha ricoperto le finestre con le tende: da allora, il sole ha smesso di visitare la sua casa.
Si toglie le scarpe sulla scaletta d'ingresso e crolla a terra.
«Ti porto da mangiare?» s'informa una voce di donna dietro una tenda in fondo alla stanza.
«Non ho fame.»
«Un po' d'acqua?»
«Se è fresca, non dico di no.»
Un tintinnare di stoviglie nella stanza accanto, poi la tenda si apre su una donna bella come il sole. Posa una piccola caraffa davanti a Mohsen e si siede sullo sgabello di fronte. Mohsen sorride. Sorride sempre quando sua moglie si fa vedere. È sublime, di una freschezza imperitura. Nonostante le quotidiane avversità e il lutto per una città in balia delle ossessioni e della follia degli uomini, Zunaira non ha una ruga. È vero, le sue guance non hanno più il riverbero di un tempo, non si sentono più risuonare le sue risate, ma i suoi occhi immensi, splendenti come smeraldi, hanno conservato intatta tutta la loro magia.
Mohsen si porta la caraffa alle labbra.
La moglie aspetta che abbia finito di bere per togliergliela di mano.
«Sembri sfinito.»
«Oggi ho camminato parecchio. Ho i piedi in fiamme.»
La donna sfiora le dita dei piedi del marito prima di mettersi a massaggiarle delicatamente. Mohsen si rovescia all'inietro, appoggiandosi sui gomiti e si abbandona ai palpeggiamenti della moglie.
-Ti aspettavo per pranzo.»
«Me ne sono dimenticato.»
«Ti sei dimenticato?»
«Non so cosa mi ha preso, oggi. Non ho mai provato prima una sensazione del genere, nemmeno quando abbiamo perduto la nostra casa. Ero come inebetito e vagavo alla cieca, incapace di riconoscere le strade che percorrevo avanti e indietro senza riuscire ad attraversarle. Strano davvero. Ero come immerso nella nebbia, non riuscivo a ricordare quale fosse la mia direzione né dove volessi andare.»
«Sarai rimasto troppo a lungo sotto il sole.»
«Non si tratta d'insolazione.»
Improvvisamente, tende la mano verso quella della moglie, costringendola a sospendere il massaggio. Zunaira alza gli occhi scintillanti, sorpresa dalla forza disperata della stretta intorno al polso.
Mohsen esita un moménto, poi chiede con voce atona: «Sono cambiato?».
«Perché mi fai questa domanda?»
«Ti domando se sono cambiato.»
Zunaira corruga le magnifiche sopracciglia per riflettere.
«Non capisco di cosa vuoi parlare.»
«Ma di me. Sono forse rimasto lo stesso uomo, quello che tu preferivi agli altri? Ho conservato le stesse abitudini, le stesse maniere? Pensi che io reagisca normalmente, che ti tratti con lo stesso affetto?»
«Certo, molte cose sono cambiate intorno a noi. La nostra casa è stata bombardata. I nostri cari e i nostri vicini non sono più qui, alcuni di loro hanno lasciato questo mondo. Il tuo commercio è finito in malora. Mi hanno tolto il mio lavoro. Non mangiamo a sufficienza, e  non facciamo più progetti per il futuro. Ma siamo insieme, Mohsen. Questo deve contare per noi. Siamo insieme per sostenerci. Abbiamo solo noi stessi per tenere viva la speranza. Un giorno, Dio si ricorderà di noi. Si accorgerà che le nefandezze che subiamo ogni giorno non sono riuscite a fiaccare la nostra fede, che non abbiamo vacillato e meritiamo la sua misericordia.»
Mohsen lascia il polso della moglie per accarezzarle lo zigomo. Il gesto è affettuoso e lei vi si abbandona.
«Tu sei l'unico sole che mi resta, Zunaira. Senza di te, la mia notte sarebbe più nera delle tenebre, più fredda della morte. Ma, per l'amor di Dio, se vedi che cambio nei tuoi confronti, che divento ingiusto o cattivo, dimmelo. Ho la sensazione che le cose mi sfuggano, che stia perdendo il controllo. Se sto diventando matto, aiutami a rendermene conto. Accetterei di deludere il mondo intero, ma mi proibisco di farti torto, fosse pure senza volerlo.»
Zunaira avverte tutta l'angoscia del marito. Per dimostrargli che non ha nulla da rimproverarsi, fa scivolare la guancia nel palmo titubante della sua mano.
«Amore mio, viviamo momenti difficili. A furia di piangere, non sappiamo più cosa sia la tranquillità. Improvvisamente, la calma ci spaventa e dubitiamo di tutto quel che non ci minaccia.»
Lentamente, Mohsen ritira le dita da sotto la guancia della moglie. La vista gli si offusca; deve fissare il soffitto e lottare dentro di sé per arginare l'emozione. Il pomo d'Adamo sembra impazzito nel collo emaciato. La sofferenza è tale che dei brividi partono dagli zigomi, dilagano fino al mento e tornano a squassargli le labbra.
«Stamattina, ho fatto qualcosa d'impensabile» dice. Zunaira si irrigidisce; ciò che legge nei suoi occhi smarriti la sconvolge. Cerca di prendergli le mani, ma lui le ritira all'altezza del petto, come per difendersi da un'aggressione.
«Non riesco a crederci» farfuglia. «Com'è potuto accadere? Come ho potuto?»
Zunaira rialza la testa, sempre più perplessa.
Mohsen si mette ad ansimare. Il suo petto si alza e si abbassa a un ritmo inquietante. Racconta, terrorizzato dalle sue stesse parole: «Una prostituta è stata lapidata in piazza. Non so come io mi sia unito alla folla di degenerati che chiedeva sangue. Ero come travolto in un gorgo. Anch'io volevo essere in prima fila, guardare da vicino la bestia immonda morire. E quando il diluvio di pietre ha iniziato a sommergere la vittima, anch'io mi sono sorpreso a raccogliere sassi e a mitragliarla. Ero come impazzito, Zunaira. Come ho osato? Per tutta la vita mi sono ritenuto un obiettore di coscienza. Né le minacce degli uni né le promesse degli altri mi hanno convinto a prendere le armi e a dare la morte. Accettavo di avere nemici, ma non sopportavo l'idea di essere nemico di qualcuno. E stamattina, Zunaira, solo perché la folla urlava, ho urlato con lei, solo perché esigeva sangue, anch'io l'ho reclamato. Da quel momento, non smetto di guardare le mie mani che non riconosco più. Ho vagato nelle strade per seminare la mia ombra e prendere le distanze dal mio gesto, ma a ogni angolo di via, allo svoltare di qualsiasi cumulo di macerie, mi sono ritrovato faccia a faccia con quell'attimo di follia. Ho paura di me, Zunaira, non mi fido più dell'uomo che sono diventato».
Zunaira è paralizzata dal racconto del marito. Mohsen non è il tipo da mettersi a nudo. Raramente parla di quel che lo affligge, e non lascia quasi mai trasparire le sue emozioni. Così, quando ha scoperto quella grande sofferenza in fondo ai suoi occhi, ha capito che lui non avrebbe potuto tenerla per sé. Si aspettava una sventura del genere, ma non di quella gravità.
Il viso le si fa livido e, per la prima volta, i suoi occhi, sgranandosi, perdono tutto il loro splendore.
«Hai lapidato una donna?»
«Credo di averla anche colpita alla testa.»
«Non puoi aver fatto una cosa simile, Mohsen. Non sei il tipo, andiamo. Sei un uomo istruito.»
«Non so cosa mi ha preso. È accaduto tutto così in fretta. Come se la folla mi avesse stregato. Non ricordo come ho raccolto le pietre. Ricordo solo che non ho potuto disfarmene, una rabbia irresistibile si è impadronita del mio braccio... Quel che mi spaventa e mi tormenta è il fatto che non ho neppure cercato di resistere.»
Zunaira si alza. Come se si riavesse da uno svenimento. A fatica. Incredula, ma senza collera. Le sue labbra, un attimo prima tumide, si sono disseccate. Cerca un appoggio, ma incontra solo una putrella che sbuca dal muro, vi sì aggrappa. A lungo aspetta di ritrovare le forze, invano. Mohsen cerca di prenderle la mano; lei lo schiva e barcolla verso la cucina nell'irreale fruscio della sua veste. Nel momento in cui scompare dietro la tenda, Mohsen comprende che non avrebbe dovuto confidare alla moglie ciò che lui per primo rifiuta di ammettere.


CAPITOLO 4


Il sole si prepara a tramontare. I suoi raggi non rimbalzano più con la stessa furia sul fianco delle colline. Eppure, per quanto attendano con impazienza la sera, i vecchi inebetiti sotto i porticati sanno che la notte sarà torrida come il giorno.
Rinchiusa nella stufa delle sue montagne pietrose, Kabul soffoca. Sembra che in cielo si sia dischiuso uno spiraglio d'inferno. Le rare folate di vento, lungi dal rinfrescare o rinnovare l'aria inaridita, si divertono a sospendere la polvere nel vuoto per corrodere gli occhi e prosciugare le gole.
Atiq Shaukat nota che la sua ombra si è smisuratamente allungata a terra; tra poco il muezzin chiamerà i fedeli alla preghiera del tramonto. Fa scivolare la frusta sotto la cintura e si dirige, con passo annoiato, verso la moschea del quartiere, un ampio stanzone imbiancato alla meglio, con il soffitto fatiscente e il minareto mutilato da un bombardamento.
Una muta di talebani gravita attorno al santuario per intercettare i passanti e obbligarli manu militari a raggiungere i fedeli.
L'interno del santuario ronza in quella fornace. I primi arrivati hanno preso d'assalto i tappeti logori sparsi a terra in prossimità del minbar, sul quale un mullah legge dottamente da un libro religioso. I meno previdenti sono costretti a  disputarsi qualche lembo di stuoia. Tutti gli altri, troppo contenti di ripararsi dal sole e dalle frustate dei miliziani, si accontentano di un ruvido pavimento, che lascia sul sedere impronte ben marcate.
Atiq scosta col ginocchio un gruppo di vecchi, ringhia al più anziano di appiattirsi maggiormente contro il muro e si siede contro una colonna. Il suo sguardo accigliato torna a minacciare il vecchio in fondo, che si sforza in tutti i modi di farsi il più piccolo possibile.
Atiq Shaukat detesta gli anziani, soprattutto quelli del quartiere, in maggioranza putridi intoccabili che crepano nell'accattonaggio e nell'insignificanza, salmodiando tutto il giorno funeste litanie e sfiorando, con mani spettrali, le falde degli abiti dei passanti. Simili a rapaci che aspettano al varco la selvaggina data in pasto ai cani, si raccolgono la sera dove qualche anima caritatevole viene a deporre ciotole di riso destinate alle vedove e agli orfani, e non esitano a dare spettacolo pur di spigolarne qualche boccone. Atiq li detesta soprattutto per questo. Ogni volta che li trova nella sua stessa fila, prega con disgusto. Non gli piacciono i loro gemiti quando si prosternano né la loro morbosa sonnolenza durante le prediche. Per lui, sono solo cadaveri dimenticati dal becchino, fetidi e inquietanti, con gli occhi cisposi, la bocca rovinata e il fetore degli animali moribondi addosso...
"Astaghfirou Llahì" dice a se stesso. "Ecco che il tuo cuore si gonfia di fiele anche nella casa del Signore, mio povero Atiq. Riprenditi, dai. Lascia fuori il tuo astio e fa in modo che il Maligno non corrompa i tuoi pensieri."
Si prende le tempie fra le mani, cerca di fare il vuoto nella propria mente, poi ficca il mento nell'incavo della gola, gli occhi ostinatamente fissi al suolo temendo che la vista degli anziani alteri il suo raccoglimento.
Il muezzin va nella sua alcova per chiamare alla preghiera. I fedeli si alzano anarchicamente tutti insieme e iniziano a disporsi per file. Un piccoletto dalle orecchie a punta e l'aspetto di un folletto tira Atiq per la falda del gilet, invitandolo ad allinearsi agli altri. Irritato da quel gesto, il carceriere gli afferra il polso e, con discrezione, lo torce contro il proprio fianco. Dapprima sorpreso, il piccoletto cerca di liberare la mano dalla morsa che la contorce, poi, non riuscendovi, si piega e minaccia di stramazzare a terra tanto il dolore è forte. Atiq continua a stringere ancora per qualche secondo; quando è sicuro che la sua preda sta per mettersi a strillare, molla la presa. Il piccoletto recupera il polso in fiamme, lo fa scivolare sotto l'ascella e, non capacitandosi che un credente possa comportarsi a quel modo in una moschea, si fa posto nella fila davanti per non voltarsi più indietro.
"Astaghfirou Llah!" si ripete Atiq. "Cosa mi succede? Non sopporto la penombra né la luce del giorno, non sopporto di stare seduto né in piedi, non sopporto i vecchi né i bambini, non lo sguardo delle persone né le loro mani su di me. È molto se sopporto me stesso. Che io stia impazzendo?"
Dopo la preghiera, decide di aspettare nella moschea la successiva chiamata del muezzin. Comunque, non se la sente di tornare a casa e trovare il letto sfatto, le stoviglie dimenticate nei catini maleodoranti e sua moglie rannicchiata in un angolo, la testa cinta da un sudicio velo e il viso violaceo... I fedeli si disperdono; alcuni raggiungono le loro case, altri si radunano nel cortile per conversare. I vecchi e i mendicanti si ammucchiano all'ingresso del santuario, la mano già tesa. Atiq si avvicina a un gruppo di mutilati di guerra che stanno scambiandosi fatti d'arme. Il più alto, una specie di Golia impigliato nella sua barba, traccia con un dito tumefatto delle linee curve nella polvere. Gli altri, seduti alla turca intorno a lui, l'osservano in silenzio. Tutti sono mutilati, chi di un braccio, chi di una gamba. Uno di loro, leggermente in disparte,  ha perso tutt'e due le gambe. Sta ficcato in un'artigianale carriola sistemata in modo che gli serva da sedia a rotelle. Il Golia, invece, è cieco da un occhio e ha metà del viso sfigurata. Finisce di disegnare, poi, puntellandosi a terra, inizia a raccontare.
«La configurazione del terreno era più o meno questa» dice con una voce esile che contrasta indecorosamente con l'erculea corpulenza. «Qui c'era una montagna, lì un costone e due colline quaggiù. Da qualche parte scorreva un fiume che da nord aggirava la montagna. I sovietici tenevano le creste e ci sovrastavano su tutta la linea. Da due giorni, ci contenevano tenacemente. Non potevamo ritirarci per via della montagna. Era brulla e gli elicotteri ci avrebbero sicuramente fatto a pezzi. Da qualche parte, il costone finiva in un precipizio. Il fiume, largo e profondo, ci sbarrava la strada da quest'altra parte. Ci rimaneva solo questo passaggio obbligato, un guado, e i russi facevano apposta a lasciarcelo libero. In verità, era una trappola. Una volta finiti là dentro, avremmo fatto la fine del topo. Però non potevamo tenere la nostra posizione ancora a lungo. Ci mancavano le munizioni e non avevamo di che mangiare. Inoltre, il nemico aveva chiesto rinforzi. E con i rinforzi, la sua artiglieria c'incalzava giorno e notte. Non potevamo chiudere occhio. Eravamo in condizioni pietose. Non potevamo neppure seppellire i nostri morti che iniziavano a puzzare terribilmente...»
«I nostri morti non hanno mai puzzato» interviene il mutilato, offeso. «Ricordo che una granata ci era piombata addosso cogliendoci di sorpresa e uccidendo sul colpo quattordici mujaheddin. È stato così che ho perso le gambe. Anche noi eravamo circondati. Per otto giorni siamo rimasti nella nostra tana. E i nostri morti non si sono nemmeno decomposti. Erano distesi lì dove li aveva scaraventati l'esplosione. E non puzzavano, neanche. Il loro volto era sereno. Nonostante le ferite e le pozze di sangue in cui erano immersi, sembravano solo addormentati.»
«Doveva essere inverno» ipotizza il Golia.
«Non era inverno. Eravamo in piena estate, e per il caldo si poteva friggere un uovo su di un sasso.»
«Forse, i tuoi mujaheddin erano dei santi» dice il Golia stizzito.
«Tutti i mujaheddin sono benedetti dal Signore» gli ricorda il mutilato, che gli altri approvano con ampi cenni del capo. «Non puzzano e le loro carni non si decompongono.»
«Allora, veniva da dove, il puzzo che appestava la nostra posizione?»
«Dalle carogne dei muli.»
«Non avevamo muli.»
«Allora, non poteva che essere il puzzo degli sciuravì (russi secondo gli afghani).  Quei maiali puzzerebbero anche dopo aver fatto il bagno. Ricordo che quando ne catturavamo uno, tutte le mosche del paese venivano a fargli visita...»
«Mi lasci finire il mio racconto, Tamreez?» dice il Golia, esasperato.
«Ci tenevo a precisare che i nostri morti non puzzano. D'altra parte, durante la notte odorano di un profumo di muschio che li lascia solo al sorgere del giorno.»
Il Golia cancella con mano rabbiosa i disegni tracciati nella polvere e si alza. Lanciata una torva occhiata al mutilato, scavalca il muretto e se ne va verso un accampamento di tende. Gli altri tacciono finché non è scomparso, poi, febbrili, si avvicinano all'uomo in carriola.
«Comunque, la sua storia la conosciamo a memoria. Quanto la fa lunga per arrivare al suo incidente» dice un monco, dall'aria famelica.
«È stato un valoroso combattente» gli fa notare il suo vicino.
«È vero, ma l'occhio l'ha perso in un incidente, non in battaglia. E poi, francamente, mi chiedo da quale parte stesse, se i suoi morti puzzavano. Tamreez ha ragione. Siamo veterani di guerra. Abbiamo perduto centinaia di amici. Sono morti tra le nostre braccia o sotto i nostri occhi: nessuno puzzava...»
Tamreez si dimena nel suo macinino, si sistema il cuscino sotto le ginocchia avvolte da bende di caucciù e guarda in direzione dell'accampamento di tende come se temesse il ritorno del Golia.
«Ho perduto le gambe, metà dei denti, tutti i capelli, ma la memoria è rimasta intatta. Mi ricordo ogni particolare, come se fosse ieri. Eravamo in piena estate, e quell'anno la canicola spingeva i corvi al suicidio. Li vedevamo salire alti nel cielo, prima di lasciarsi precipitare come incudini, le ali incollate ai fianchi e il becco in avanti. Lo giuro sul Libro Santo, è la verità vera. Sentivamo crepitare i pidocchi nei nostri panni stesi sulle rocce roventi. È stata la peggiore estate che abbia mai visto. Avevamo allentato la vigilanza, certi che nessun culo bianco si sarebbe avventurato fuori dell'accampamento sotto un simile sole di piombo. Ma i rinnegati russi ci avevano scovato grazie all'aiuto di un satellite o qualcosa del genere. Se un elicottero o un aereo avesse sorvolato il nostro covo, un minuto dopo avremmo evacuato la nostra postazione. Invece, niente all'orizzonte. Calma piatta in tutte le direzioni. Stavamo mangiando nella nostra tana, quando la granata ci è piovuta addosso. Azzeccandoci in pieno. Al posto giusto, nel momento giusto. Bum! Ho visto un geyser di terra e fuoco che mi ghermiva, e poi basta. Quando mi sono risvegliato, giacevo squarciato sotto un masso, le mani insanguinate, i vestiti laceri e neri di fumo. Non ho capito immediatamente. Poi, ho visto una gamba accanto a me. Neppure per un attimo ho pensato che fosse la mia. Non sentivo nulla, non soffrivo. Ero solo un po' rintronato. (Di colpo sgrana gli occhi, il viso rivolto verso la cima del minareto. Le labbra gli fremono mentre gli zigomi sono squassati da spasmi irrefrenabili. Giunge le mani come per raccogliere l'acqua da una fontana e racconta con un tremolio nella gola...) È stato così che l'ho visto. Come adesso vedo voi. Lo giuro sul Libro Santo, è la verità... Volteggiava nel cielo blu. Le ali talmente bianche che i loro riflessi illuminavano l'interno della caverna. Volteggiava, volteggiava. Nel silenzio assoluto, non udivo i lamenti dei feriti né le esplosioni tutt'intorno. Sentivo solo il serico fruscio delle sue ali che, maestose, rimestavano l'aria... Era una visione incantevole...»
«È sceso verso di te?» s'informa il monco, eccitato.
«Sì» dice Tamreez. «È sceso fino a me. Piangeva e il suo viso purpureo brillava come un astro.»
«Era l'angelo della morte» garantisce il suo vicino. «Poteva essere solo lui. Appare sempre così, ai prodi. Ti ha detto qualcosa?»
«Non ricordo. Ha dispiegato le ali intorno al mio corpo ma io l'ho respinto.»
«Disgraziato,» gli gridano «dovevi lasciarlo fare. L'angelo ti avrebbe portato dritto in paradiso e adesso non staresti a marcire nella tua carriola.»
Atiq pensa di avere ascoltato fin troppo e decide di andare a sgranchirsi la mente altrove. A furia di essere ripetuti fino alla noia e modificati secondo le circostanze, i racconti dei reduci di guerra sono in procinto di diventare vere e proprie fabulazioni. Atiq pensa sinceramente che i mullah dovrebbero porvi termine. Si accorge soprattutto che non può attardarsi per  strada indefinitamente. Da qualche tempo, cerca di fuggire la sua realtà; quella che non può modificare né raccontare, nemmeno a quell'insensibile e ottuso di Mirza Shah, sempre pronto a rinfacciare alla gente il poco di coscienza che gli resta. D'altra parte, se la prende con se stesso per essersi confidato con lui. Per un bicchiere di té che non ha neanche bevuto. Se la prende con se stesso perché continua a sottrarsi alle proprie responsabilità, perché è stato così sciocco da credere che il modo migliore di risolvere un problema sia voltarsi dall'altra parte. Sua moglie è malata; è colpa sua? Ha dimenticato quanto si è prodigata per lui quando il suo plotone, sbaragliato dalle truppe comuniste, lo aveva abbandonato in un villaggio sperduto; come l'ha nascosto e curato per settimane; com'è riuscita a trasportarlo a dorso di mulo, attraversando per giorni e notti un territorio ostile tra bufere di neve, fino a Peshawar? Adesso che lei ha bisogno di lui, la fugge senza ritegno, correndo dietro a tutto ciò che può distrarlo.
Ma tutto ha una fine, anche il giorno. Scende la notte; la gente rientra nelle proprie case, i senzatetto raggiungono la loro tana, mentre gli sbirri, non di rado, sparano senza intimare l'alt contro ogni ombra sospetta. È bene che anche lui torni a casa a ritrovare la moglie nelle condizioni in cui l'ha lasciata, ossia malata e disperata. Prende per una strada ingombra di macerie, si ferma all'altezza di un rudere, appoggia il braccio contro l'unico muro ancora in piedi e rimane così, il mento sulla spalla, sufficientemente stabile sulle gambe. Ovunque, nell'oscurità in cui rare lucerne dondolano svogliate, sente frignare dei lattanti. I loro vagiti gli fendono il cranio come stilettate. Una donna insorge contro la prole turbolenta, ma subito la voce assordante di un uomo le intima di tacere. Atiq alza la testa, poi la schiena, contempla le miriadi di costellazioni disseminate in cielo. Qualcosa di simile a un singhiozzo gli strozza la gola. Deve stringere le dita fino a sanguinare per non crollare. È stanco, stanco di girare a vuoto e di correre dietro a volute di fumo; stanco di giornate insipide come questa che lo calpestano dal mattino a notte fonda. Non riesce a capire perché sia sopravvissuto, per due decenni di fila, alle imboscate, alle incursioni aeree, agli ordigni esplosivi che maciullavano decine di corpi intorno a lui senza risparmiare donne e bambini, greggi e casolari, per continuare a vegetare, alla fine, in un mondo tanto oscuro e ingrato, in una città completamente sfasata, pavesata di patiboli e percorsa da relitti umani: una città che lo maltratta e lo guasta inesorabilmente, giorno dopo giorno, notte dopo notte, sia in compagnia di una morta con la condizionale in fondo a una fetida cella sia mentre veglia la moglie agonizzante, più miserabile di un pendaglio da forca...
«Dio è misericordioso!» sospira. «Se questa è la prova alla quale mi sottoponi, Signore, dammi la forza per superarla.»
Battendo le mani, biascica un versetto e torna sui propri passi per rientrare a casa.
La prima cosa a colpire Atiq quando spinge la porta di casa è la lanterna accesa. Di solito, a quest'ora, Mussarat è a letto e le stanze sono immerse nel buio. Nota il giaciglio vuoto, le coperte accuratamente distese sul pagliericcio, i cuscini dritti contro il muro come piace a lui e tende l'orecchio; nessun lamento, nessun rumore. Torna indietro, osserva i catini rivolti contro il pavimento, le stoviglie scintillanti nel loro angolo. Tutto ciò l'incuriosisce, perché da mesi ormai è raro che Mussarat si occupi della casa. Rosa dalla malattia, trascorre la maggior parte del tempo a gemere, raggomitolata intorno ai dolori che le attanagliano le viscere. Atiq tossicchia per segnalare la propria presenza. Una tenda si scosta e alla fine compare Mussarat, il viso sciupato, ma in piedi sulle proprie gambe. Non può fare a meno di  appoggiarsi con  la mano al vano della porta, e tuttavia la si sente combattere con tutta l'energia che le rimane per reggersi sulle proprie gambe come se ne andasse della sua dignità. Atiq si prende il mento fra due dita, un sopracciglio inarcato, senza cercare di dissimulare la propria sorpresa.
«Pensavo che fosse tornata mia sorella dal Belucistan» dice.
Mussarat sussulta.
«Non sono ancora inabile» gli fa notare.
«Non intendevo dire questo. Stamattina, ti ho lasciata così male in arnese. Quando ho visto ogni cosa al suo posto, in ordine, e il pavimento spazzato, ho subito pensato che fosse tornata mia sorella. Ci è rimasta solo lei. Le tue vicine sono al corrente delle tue condizioni di salute, eppure nessuna di loro è mai venuta a vedere in che modo potesse rendersi utile.»
«Non ho bisogno di loro.»
«Quanto sei permalosa, Mussarat. Perché devi rigirare ogni parola per vedere cosa c'è sotto?»
Mussarat si rende conto che non sta appianando le cose con suo marito. Toglie la lanterna dalla tavola e l'appende a una putrella per fare più luce; poi, va a cercare un vassoio ricco di cibarie.
«Ho tagliato il melone che mi hai mandato e l'ho messo al fresco sul davanzale» dice in tono conciliante. «Sicuramente avrai fame. Ti ho preparato il riso come piace a te.»
Atiq si disfa delle ciabatte, appènde il tocco e lo scudiscio alla maniglia di una finestra e si siede accanto al vassoio di ferro ammaccato. Non sapendo cosa dire e non osando guardare la moglie per paura di riattizzarne la suscettibilità, afferra una caraffa e se la porta alle labbra. L'acqua rigurgita dalla sua bocca e gli schizza la barba; si asciuga con il dorso della mano e finge di interessarsi a una focaccia d'orzo.
«L'ho cotta con le mie mani» gli dice Mussarat in agguato. «Per te.»
«Perché ti dai tanto disturbo?» si lascia infine scappare Atiq.
«Voglio adempiere ai miei obblighi di moglie fino all'ultimo.»
«Io non pretendo niente da te.»
«Non hai bisogno di farlo.»
Quasi si accascia sulla stuoia di fronte a lui, bracca il suo sguardo e aggiunge: «Mi rifiuto di abdicare, Atiq».
«Donna, non è questo il problema.»
«Sai quanto detesti essere umiliata.»
Atiq posa su di lei uno sguardo penetrante. «Ho fatto qualcosa che ti ha offesa, Mussarat?»
§«L'umiliazione non è necessariamente nell'atteggiamento degli altri, qualche volta risiede nel fatto di non accettarsi.»
«Ma cosa vai a cercare, donna? Tu sei malata, tutto qua. Hai bisogno di riposarti, di recuperare le forze. Non sono cieco. Viviamo insieme da anni; non hai mai barato. Né con me, né con nessun altro. Non hai bisogno di aggravare le tue condizioni solo per dimostrarmi chissà cosa.»
«Viviamo insieme da anni, Atiq, ma questa è la prima volta che ho la sensazione di mancare ai miei doveri di moglie: mio marito non mi parla più.»
«Non ti parlo, è vero, ma non ce l'ho con te. Sono solo stremato da questa guerra che non ha fine, e dalla miseria che guasta ogni cosa intorno a noi. Sono soltanto un carceriere occasionale, che non capisce perché abbia accettato di sorvegliare dei poveracci invece di occuparsi della propria disgrazia.»
«Se hai fede in Dio, devi considerare la disgrazia che sono diventata per te come una prova di pietà.»
«Non sei la mia disgrazia, Mussarat. Sei tu che lo pensi. Ho fede in Dio e accetto tutti i dispiaceri che mi manda per mettere alla prova la mia pazienza.»
«Oltrepassi ogni limite, e poi chiedi scusa. Mi manca solo  questa, figurati.» 
Lei si alza, fa per tornare dietro la tenda. 
«Ecco la ragione che mi spinge a non rivolgerti la parola,  Mussarat: Sei sempre sulla difensiva, come una lupa braccata. E quando cerco di farti ragionare, te la prendi e te ne vai.» 
«È vero,» riconosce lei «ma io ho solo te. Quando ce l'hai con me, è come se il mondo intero mi voltasse le spalle. Darei tutto quel che ho per te. È perché cerco di meritarti, costi quel che costi, che sono così maldestra. Oggi, mi ero ripromessa di non contrariarti o di non deluderti. E tuttavia, è proprio quello che continuo a fare.» 
«In tal caso, perché persisti nell'errore?»
«Ho paura...» 
«Di cosa?» "
«Dei giorni che verranno. Mi terrorizzano. Se solo tu potessi facilitarmi le cose.» 
«E come?»
«Dicendomi cosa ti ha detto il dottore riguardo alla mia malattia.»
«Ancora!» urla Atiq fuori di sé.
Con un calcio rovescia la tavola, si alza di scatto e, raccolti al volo ciabatte, scudiscio e turbante, esce in strada.
Rimasta sola, Mussarat si prende la testa tra le mani. Lentamente, le spalle minute si mettono a sussultare. 
A qualche caseggiato da lì, neppure Mohsen Ramat riesce a dormire. Allungato sul pagliericcio, le mani sotto la nuca, fissa la candela che trasuda sopra una terrina, proiettando ombre incerte contro le pareti. Sopra la testa, il soffitto fatiscente gli fa notare che una grossa asse si è incurvata fino a spezzarsi. La settimana scorsa, nella stanza accanto, un  brandello di muro si è staccato, rischiando di seppellire Zunaira...
Zunaira che si è trincerata in cucina e tarda a raggiungerlo.
Hanno cenato in silenzio, lui prostrato, lei assente. Non hanno toccato cibo, mordicchiando distrattamente il boccone di pane che hanno impiegato un'ora a inghiottire. Mohsen era a disagio. Il suo racconto a proposito dell'esecuzione della prostituta ha portato lo scompiglio in casa sua. Confessandosi a Zunaira, pensava di sgravarsi la coscienza, di riprendere il controllo di sé. Mai avrebbe sospettato di scandalizzare la moglie fino a quel punto. Più d'una volta, ha cercato di tendere la mano verso di lei, di farle capire quanto fosse straziato; il braccio rifiutava di obbedirgli; rimaneva incollato al suo fianco, come anchilosato. D'altra parte, Zunaira non l'incoraggiava. Teneva gli occhi a terra, la testa china, mentre le dita sfioravano appena il bordo del tavolino. Impiegava più tempo a portare un boccone di pane alle labbra che a morderlo. Lontana, i gesti meccanici, rifiutava di risalire in superficie e risvegliarsi. Siccome né l'uno né l'altra mangiavano veramente, ha preso il vassoio e si è ritirata dietro la tenda. Mohsen l'ha aspettata a lungo, poi è andato a stendersi sul pagliericcio. Lì, ancora, l'ha aspettata. Zunaira non è venuta. L'aspetta da due ore, forse più, e Zunaira non lo raggiunge ancora. In cucina, nessun rumore attesta la sua presenza. Lavare due piatti e vuotare un cestino di pane non richiederebbe più di un battere di ciglia. Mohsen si rimette a sedere, pazienta ancora qualche secondo, prima di decidersi ad andare a vedere di che si tratta. Scostata la tenda, scopre Zunaira distesa sopra una stuoia, le ginocchia contro il ventre, voltata verso il muro. È sicuro che non stia dormendo, ma non osa disturbarla. Arretra senza far rumore, infila un abito e un paio di sandali, spegne la candela  ed esce in strada. Un caldo umido opprime il quartiere. Qua e là, degli uomini chiacchierano davanti a qualche portone o ai piedi di qualche muro. Mohsen non ritiene necessario allontanarsi da casa. Si siede sulla soglia, si mette a braccia conserte e cerca una stella nel cielo. In quel preciso momento un uomo sbuca davanti a lui come una belva e divora la viuzza con passo stizzito. Il riflesso di un raggio di luna ne illumina il volto incartapecorito; Mohsen riconosce il carceriere che poco prima, sulla soglia del chiosco, stava per sferzargli il viso con lo scudiscio.


CAPITOLO 5


Atiq Shaukat torna alla moschea per seguire la preghiera di El Icha, da cui sarà l'ultimo a rialzarsi. Passerà lunghi minuti, le mani aperte in una fatiha, a recitare versetti e a chiedere ai santi e agli antenati di assisterlo nella sua "disgrazia". Costretto dalle vecchie ferite al ginocchio a interrompere le prosternazioni, si sprofonda in un angolo ingombro di libri religiosi e cerca di leggere. Non riesce a concentrarsi. I testi si confondono sotto i suoi occhi e minacciano di fargli scoppiare la testa. Ben presto, il caldo torrido del santuario lo costringe a raggiungere i gruppi di fedeli sparpagliati nel cortile. I vecchi e i mendicanti sono scomparsi, ma gli invalidi di guerra sono ancora lì, a esibire le loro infermità come trofei. Il mutilato troneggia nella sua carriola, seguendo con attenzione i racconti dei suoi compagni, pronto ad assentire o a protestare. Il Golia è tornato; seduto accanto a un monco, ascolta ossequiosamente un vecchio raccontare come fosse riuscito a immobilizzare un'intera compagnia di carri sovietici con un pugno di mujaheddin armati di un solo fucile mitragliatore.
Atiq non sopporta per molto l'enormità di quelle gesta. Lascia la moschea e vaga per le periferie devastate, ricorrendo di tanto in tanto allo scudiscio per respingere i mendicanti  più ostinati. Senta accorgersene, si ritrova di fronte alla prigione, entra. Il silenzio delle celle lo placa. Decide di passarvi la notte. Cerca a tastoni la lanterna, l'accende e si allunga sulla branda, le mani sotto la nuca e gli occhi rivolti al soffitto. Ogni volta che i suoi pensieri lo riportano dinanzi a Mussarat, sferra un calcio nel vuoto, come per sbarazzarsene. Un'ondata dopo l'altra, la collera torna a fargli pulsare il sangue alle tempie e a comprimergli il petto. Se la prende con se stesso per non aver osato togliersi il dente una volta per tutte e dire il fatto suo a una moglie che dovrebbe ritenersi privilegiata in confronto a quelle femmine private della loro natura che infestano le strade di Kabul. Mussarat abusa della sua pazienza. La sua malattia non rappresenta più un'attenuante; bisogna che inizi ad accettarlo...
Un'ombra mostruosa oscura il muro. Atiq sussulta e afferra lo scudiscio.
«Sono io, Zanish» lo rassicura una voce tremolante.
«Non ti hanno insegnato a bussare prima di entrare?» brontola Atiq, furibondo.
«Ho le mani impegnate. Non volevo spaventarti.»
Atiq dirige la lanterna sul visitatore. È un uomo sulla sessantina, alto come l'albero di una vela, le spalle curve, un collo grottesco e una berretta informe sopra i capelli in disordine. Il viso emaciato si allunga verso il mento, che una barbetta canuta prolunga, mentre gli occhi a palla sembrano schizzargli fuori dalla fronte come per effetto di un dolore atroce.
Rimane in piedi nel vano della porta, il sorriso incerto, aspettando un cenno da parte del carceriere per venire avanti o tornare indietro.
«Ho visto la luce» spiega. «Mi sono detto: "Il buon Atiq non sta bene, devo andare a tenergli compagnia". Ma non sono venuto a mani vuote. Ho portato un po' di carne affumicata e qualche bacca».
Atiq riflette un attimo, poi alza le spalle e accenna a una pelle di pecora per terra. Fin troppo contento per essere stato accolto, Zanish si sistema nel posto indicato, disfa un piccolo involto e sciorina la propria generosità ai piedi del carceriere.
«Mi sono detto: "A casa hanno fatto arrabbiare Atiq. Non sarebbe venuto a quest'ora in una prigione senza detenuti, se non avesse avuto bisogno di schiarirsi le idee". Neppure io mi trovo bene a casa mia. Quel centenario di mio padre non vuole mettere giudizio. Ha perso la vista e l'uso delle gambe, ma ha conservato intatto il suo malumore. Passa il tempo a prendersela con tutti. Prima, per farlo stare zitto, gli davamo da mangiare. Ma adesso non c'è molto da mettere sotto i denti, e siccome lui ha perso i suoi, nulla trattiene più la sua lingua. A volte, inizia col chiedere silenzio, ma poi è lui a non finirla più. Due giorni fa, non ha voluto svegliarsi. Le mie figlie l'hanno scosso e asperso d'acqua: non si è mosso. Gli ho preso il polso, non batteva. Ho appoggiato l'orecchio sul suo petto, non respirava. Mi sono detto: "Be', è morto, vado ad avvertire la famiglia e a preparargli un bel funerale". Sono uscito per dare la notizia al vicinato, poi sono andato a comunicare il decesso del decano della tribù ai cugini, ai nipoti, ai parenti e agli amici. Ho passato la mattinata a ricevere condoglianze e attestazioni di affetto. A mezzogiorno, torno a casa. E chi trovo nel cortile a prendersela con il mondo intero? Mio padre, in carne e ossa, vivo come le sue invettive, la bocca spalancata sulle gengive biancastre. Credo che abbia perso la testa. Non ci si può mettere a tavola né a letto, con lui. Non appena vede passare qualcuno, gli salta addosso e trova qualche rimprovero da muovergli. Ogni tanto, anch'io perdo la testa e mi metto a urlargli contro. Interviene allora il vicinato e tutti ritengono. che faccia torto al Signore perdendo la pazienza con mio padre. Così, per non contrariare Dio, passo la maggior parte del mio tempo fuori casa. Anche i pasti, li prendo per strada.»
Atiq scuote la testa. Tristemente. Anche Zanish non è più lo stesso. L'ha conosciuto quand'era muftì a Kabul, dieci anni prima. Non era tra i più rinomati, ma i suoi sermoni del venerdì radunavano centinaia di fedeli. Viveva in una grande casa, con un giardino e un portone in ferro battuto, qualche volta gli capitava di essere invitato alle cerimonie ufficiali insieme ai notabili. I suoi figli sono stati uccisi durante la guerra contro i russi, e questo ne aveva aumentato la considerazione presso le autorità locali. Sembrava non avere niente di cui lamentarsi e, a dire di tutti, non aveva nemici. Viveva in modo relativamente decoroso, tutto casa e moschea. Leggeva molto; la sua erudizione imponeva il rispetto sebbene lo si andasse a cercare di rado. Poi, inaspettatamente, fu visto un mattino percorrere gesticolando i viali con gli occhi stralunati e la saliva alla bocca. Dapprima, gli venne diagnosticata una possessione, contro la quale gli esorcisti lottarono invano; poi, venne internato per alcuni mesi in un ospedale psichiatrico. Non recuperò più integralmente le sue facoltà. Ogni tanto, gli torna un barlume di lucidità, allora si isola per nascondere la vergogna di quel che è diventato. Spesso sta lì, sulla soglia di casa, seduto sotto un parasole scolorito a guardare passare i giorni e la gente con la medesima indifferenza.
«Sai cosa farò, Atiq?»
«Come posso saperlo? Non mi dici mai nulla.»
Zanish tende l'orecchio, poi, sicuro che nessuno può udirlo, si china verso il carceriere e gli confida in un sussurro: «Me ne vado...».
«Te ne vai dove?»
Zanish guarda verso la porta, trattiene il respiro e rimane in ascolto. Per niente rassicurato, si alza, esce in strada per verificare se ci sia qualcuno, poi torna dentro, le pupille sfavillanti di una gioia demente.
«Che ne so. Me ne vado, punto e basta. Ho preparato fagotto, bastone e denaro. Non appena il mio piede destro sarà guarito, restituirò la tessera di razionamento, i documenti in mio possesso e, senza dire grazie né addìo, me ne andrò. Prenderò una direzione a caso e la seguirò fino all'oceano. E quando sarò in riva al mare, mi butterò in acqua. Non tornerò più a Kabul. È una città dannata. Non c'è salvezza. Troppa gente muore, le strade sono piene di vedove e orfani.»
«E anche di talebani.»
Zanish si volta repentinamente verso la porta, spaventato dall'osservazione del carceriere, poi il suo braccio famelico si agita in un gesto pieno di disgusto e il collo gli si allunga di un pollice quando impreca: «Prima o poi, quelli là avranno ciò che si meritano».
Atiq annuisce. Raccoglie una fetta di carne affumicata e la scruta perplesso. Zanish ne ingurgita due bocconi per dimostrargli che non c'è nulla da temere. Atiq annusa ancora la fetta di carne prima di rimetterla giù; sceglie un frutto e l'addenta con appetito.
«Quando sarà guarito il tuo piede?»
«Tra un paio di settimane al massimo. Dopo, senza dire niente a nessuno, prendo su baracca e burattini e, pfui!, mai visto né conosciuto. Camminerò fino a svenire, dritto davanti a me, senza parlare a nessuno, senza neppure incontrare nessuno sulla mia strada. Camminare, camminare, camminare finché la pianta dei miei piedi non sia tutt'uno con la suola delle mie ciabatte.»
Atiq si lecca i baffi, coglie un secondo frutto, lo pulisce contro il gilet e l'ingoia in un boccone.
«Dici sempre che te ne andrai, e sei sempre qua.»
«Mi fa male il piede.»
«Prima, era l'anca che ti faceva male, e prima dell'anca, era la schiena, e prima della  schiena, erano gli occhi. Sono mesi che dici che te ne vai, e sei ancora qua. Come ieri, come domani. Tu non andrai da nessuna parte, Zanish.»
«Sì, me ne andrò. Cancellerò le orme dei miei passi. Nessuno saprà dove sono andato e neppure io saprò ritrovare la strada se mi venisse voglia di tornare a casa.»
«Ma no» dice Atiq con l'evidente intenzione di risultare sgradevole, come se contraddire quel povero diavolo lo vendicasse di tutte le sue delusioni, «tu non te ne andrai. Resterai piantato in mezzo al quartiere come un albero. Non perché siano le radici a trattenerti, ma perché la gente della tua risma non sa avventurarsi oltre la punta del proprio naso. Fantasticano di paesi lontani, strade senza fine, spedizioni mirabolanti perché non potranno realizzarle.»
«Come fai a saperlo?»
«Lo so.»
«Tu non puoi sapere cosa ci riserva il domani, Atiq. Solo Dio è onnisciente.»
«Non c'è bisogno di consultare una sfera di cristallo per prevedere quel che faranno domani i mendicanti. Domani, al sorgere del sole, li ritroveremo allo stesso posto con la mano tesa e la voce che pare un nitrito, esattamente come ieri e i giorni precedenti.»
«Io non sono un mendicante.»
«A Kabul siamo tutti mendicanti. E tu, Zanish, domani te ne starai sulla soglia di casa tua, all'ombra del tuo fottuto parasole bucato, ad aspettare che le tue figlie ti portino il tuo miserabile pasto, che consumerai per terra.»
Zanish è rattristato. Non capisce perché il carceriere si ostini a non ritenerlo in grado di prendere una iniziativa, di cui tutto sommato tanta gente si mostra capace, e non sa come convincerlo. Rimane in silenzio, poi tira verso di sé il suo modesto fagotto, ritenendo che il carceriere non sia più degno della sua generosità.
Atiq sogghigna e coglie apposta una terza bacca che mette da parte.
«Prima, quando parlavo, venivo creduto» dice Zanish.
«Prima, la tua testa funzionava» ribatte il carceriere intrattabile.
«Pensi che sia diventato matto?»
«Non sono il solo, purtroppo!»
Zanish scuote la testa, costernato. Con mano incerta, raccoglie il fagotto e si alza.
«Vado a casa» dice.
«Ottima idea.»
Si trascina fino alla porta, la morte nell'anima. Prima di sparire, confessa con voce atona: «È vero. Ogni notte dico che me ne vado, e ogni giorno sono ancora qui. Mi chiedo cosa mi ci trattenga».
Uscito Zanish, Atiq si allunga di nuovo sulla branda e intreccia le dita sotto la nuca. Visto che il soffitto della prigione non lo distrae minimamente, si rimette a sedere e si prende le guance tra le mani. Un fiume di rabbia gli monta alla testa. I pugni e le mascelle contratti, si alza per tornare a casa, giurando a se stesso di non avere più riguardi per la moglie se si ostina nel suo atteggiamento da vittima espiatoria.


CAPITOLO 6


Mohsen Ramat tira il fiato. A quanto pare, la notte ha sopito il malumore di Zunaira. Stamattina si è alzata di buon'ora, rasserenata, gli occhi più seducenti che mai. Mohsen ha pensato che forse aveva dimenticato il malinteso del giorno prima, ma che poi se ne sarebbe ricordata e gli avrebbe tenuto ancora il broncio. Zunaira non ha dimenticato; ha solo capito che suo marito era disperato e aveva bisogno di lei. Volergliene per un gesto irriflesso, antidiluviano, abominevole e insensato; un gesto assurdo, ma indicativo di come vanno le cose in Afghanistan, un gesto atroce che Mohsen rimpiange e subisce come un caso di coscienza significherebbe renderlo ancora più fragile. A Kabul le cose vanno di male in peggio, trascinando nella loro deriva gli uomini e i costumi. È il caos nel caos, il naufragio nel naufragio, e guai agli imprudenti. Chi è isolato è irrimediabilmente perduto. L'altro giorno, un folle gridava a squarciagola per il quartiere che Dio aveva fallito. Quel povero diavolo evidentemente ignorava dove fosse e cosa ne fosse stato della sua lucidità. Inflessibili, i talebani non hanno considerato la sua follia un'attenuante e l'hanno fustigato a morte sulla pubblica piazza, gli occhi bendati e la bocca imbavagliata.
Zunaira non è un talebano, e suo marito non è pazzo; se ha avuto un attimo   di smarrimento, nel mezzo di un'isteria collettiva, è perché gli orrori quotidiani si rivelano più tremendi di ogni presentimento e la degradazione umana più profonda degli abissi. Mohsen sta allineandosi agli altri, imitando la loro disperazione, si sta immedesimando nella loro regressione. Il suo gesto è la prova che tutto può precipitare, inavvertitamente.
La notte è stata lunga per l'uno come per l'altra. Mohsen è rimasto seduto sulla soglia fino alla chiamata del muezzin, pietrificato nel proprio sgomento. Neppure Zunaira ha chiuso occhio. Rannicchiata sulla stuoia, si è rifugiata in ricordi lontani, quelli del tempo in cui, al posto dei patiboli che oggi deturpano gli spiazzi polverosi, si levava al cielo il canto dei bambini. Non che fosse festa tutti i giorni, ma nessun energumeno gridava al sacrilegio quando gli aquiloni volteggiavano in aria. Certo, la mano di Mohsen prendeva mille precauzioni prima di sfiorare quella della sua egeria, ma questo non smorzava la passione che nutrivano l'uno per l'altra. Le tradizioni erano quelle e bisognava conviverci. Lungi dal contrariarli, la discrezione preservava il loro idillio dal malocchio, intensificava i brividi che facevano fremere i loro petti ogni volta che le loro dita riuscivano ad aggirare i divieti alla ricerca di un magico tocco estatico. Si erano conosciuti all'università. Lui, figlio di borghesi; lei, figlia di notabili. Lui studiava scienze politiche e aspirava alla carriera diplomatica; lei ambiva a diventare magistrato. Lui era un ragazzo senza tante storie, devoto senza eccessi; lei era una musulmana illuminata, indossava vesti dignitose, talvolta pantaloni a sbuffo, il foulard in bella mostra, e militava attivamente per l'emancipazione della donna. Il suo zelo era pari agli elogi che le rivolgevano. Era una ragazza brillante. La sua bellezza esaltava gli animi. I ragazzi non si stancavano di divorarla con gli occhi. Tutti sognavano di sposarla. Ma era Mohsen il prescelto: si era invaghita di lui fin dal primo sguardo. Lui era cortese e avvampava più di una vergine quando lei gli sorrideva. Si erano sposati molto giovani e molto in fretta, come se avessero intuito che il peggio era già alle porte della città.
Mohsen non nasconde il proprio sollievo. Cerca anzi di mostrarlo senza riserve davanti alla moglie, perché valuti fino a che punto si strugga per lei non appena gli volta le spalle. Non sopporta che gli tenga il broncio: è l'ultimo appiglio che lo tiene ancora legato a questo mondo.
Zunaira non dice nulla. Ma il suo sorriso è eloquente. Non è il largo sorriso che suo marito conosce, tuttavia è più che sufficiente a renderlo felice.
Gli serve la colazione e si siede sullo sgabello imbottito, le mani incrociate sulle ginocchia. I suoi occhi da uri inseguono una voluta di fumo prima di posarsi su quelli del marito.
«Ti sei alzato molto presto» dice.
Lui sussulta, sorpreso nell'udire che gli rivolge la parola come se niente fosse. La sua voce è dolce, quasi materna; ne deduce che la pagina è stata voltata.
Mohsen inghiotte tutto di un fiato il boccone di pane, rischiando di strozzarsi. Si asciuga la bocca con un fazzoletto e confida: «Ero andato alla moschea»
Lei inarca le magnifiche sopracciglia. «Alle tre di notte?»
Lui deglutisce ancora per schiarirsi la voce, cerca un argomento plausibile e azzarda: «Non avevo sonno, così sono uscito a prendere aria sulla soglia di casa».
«È vero, ha fatto molto caldo, stanotte.»
Entrambi concordano nel riconoscere che l'umidità e le zanzare sono particolarmente sgradevoli in questi ultimi giorni. Mohsen aggiunge che quasi tutti i vicini si erano precipitati in strada per sfuggire a quelle fornaci delle loro topaie, che alcuni sono rientrati in casa solo all'aurora.
La conversazione verte sul tempo inclemente, sulla siccità che da anni imperversa in Afghanistan e sulle malattie che piombano addosso alle famiglie come falconi impazziti. Parlano di tutto e di niente senza fare alcuna allusione al malinteso del giorno prima né alle esecuzioni pubbliche che tendono a diventare una routine.
«E se andassimo a fare un giro al mercato?» propone Mohsen.
«Non abbiamo un soldo.»
«Non siamo obbligati a comprare. Ci accontenteremo di dare un'occhiata al mucchio di anticaglie che fanno passare per antiquariato.»
«A cosa ci servirà?»
«Non a molto, ma ci farà camminare.»
Zunaira sorride, divertita dal patetico humour del marito.
«Non ti trovi bene qui?»
Mohsen fiuta la trappola. Con gesto imbarazzato, si gratta la peluria ribelle sulle guance, abbozzando una piccola smorfia. «Non c'entra niente. Ho voglia di uscire con te. Come ai vecchi tempi.»
«I tempi sono cambiati.»
«Noi no.»
«E noi chi siamo?»
Mohsen si addossa al muro e si mette a braccia conserte. Cerca di meditare sulla domanda della moglie, ma la trova eccessiva. «Perché dici sciocchezze?»
«Perché è la verità. Noi non siamo più niente. Non abbiamo saputo preservare quel che avevamo acquisito, e gli apprendisti mullah ce l'hanno requisito. Mi piacerebbe uscire con te, tutti i giorni, tutte le sere, fare scivolare la mia mano sotto il tuo braccio e lasciarmi trasportare dalla tua falcata. Sarebbe meraviglioso, io e te, in piedi l'uno contro l'altra, davanti a una vetrina oppure attorno a un tavolo, a chiacchierare e architettare progetti mirabolanti. Ma adesso non è più possibile. Ci sarà sempre un fetido spaventapasseri, armato fino ai denti, che ci richiamerà all'ordine e ci impedirà di parlare all'aria aperta. Piuttosto che subire un tale affronto, preferisco murarmi viva in casa mia. Qui, almeno, quando lo specchio riflette la mia immagine, non debbo ripararmi dietro le mie braccia.»
Mohsen non è d'accordo. Prolunga la smorfia, indica la povertà della stanza, le tende ormai logore che nascondono le imposte putrescenti, le pareti senza più intonaco e le travi pericolanti sulla testa.
«Non siamo a casa nostra, Zunaira. La nostra casa, dove avevamo creato il nostro mondo, è stata spazzata via da una granata. Questo è solo un rifugio. Non voglio che diventi la nostra tomba. Abbiamo perduto il nostro patrimonio; non perdiamo le nostre buone maniere. Il solo modo di combattere che ci è rimasto per rifiutare l'arbitrio e la barbarie è di non rinunciare alla nostra educazione. Siamo stati fatti crescere come esseri umani, con un occhio rivolto al Signore e l'altro ai mortali che noi siamo; abbiamo visto abbastanza da vicino lampadari e lampioni per non credere alla sola luce delle candele, abbiamo gustato le gioie della vita e le abbiamo trovate buone quanto le gioie eterne. Non possiamo accettare che ci assimilino alle bestie.»
«Non è forse ciò che siamo diventati?»
«Non ne sarei così sicuro. I talebani hanno approfittato di un attimo di confusione per assestare un colpo terribile ai vinti. Ma non è il colpo di grazia. È nostro dovere convincercene.»
«E come?»
«Sfidando i loro diktat. Usciremo, Tu e io. Certo, non ci prenderemo per mano, ma nulla ci impedisce di camminare fianco a fianco.»
Zunaira scuote la testa. «Non ci tengo a tornare a casa con un cuore gonfio così, Mohsen. Quel che vedremo per strada guasterà inutilmente la mia giornata. Non sono capace di passare davanti a qualcosa di orribile e fare come se niente fosse. E poi mi rifiuto di portare il burqa. Di tutti i basti, questo è il più avvilente. Una tunica di Nesso non lederebbe la mia dignità quanto questa funerea infagottatura che mi reifica cancellando il mio volto e confiscando la mia identità. Qui, almeno, sono io, Zunaira, moglie di Mohsen Ramat, trentadue anni, magistrato licenziato dall'oscurantismo, senza processo e senza indennità, ma con sufficiente presenza di spirito per pettinarmi tutti i giorni e badare alla mia toilette come alle pupille dei miei occhi. Invece, sotto quel velo maledetto, non sono un essere umano né una bestia, tutt'al più un affronto o un obbrobrio che si deve nascondere come una infermità. È troppo duro da accettare. Soprattutto per una ex avvocato, nonché militante femminista. Ti prego, non pensare che faccia la preziosa. D'altra parte, mi piacerebbe farlo, ma purtroppo mi manca il cuore. Non chiedermi di rinunciare al mio nome, ai tratti del mio viso, al colore dei miei occhi e alla forma delle mie labbra per una passeggiata attraverso la miseria e la desolazione; non chiedermi di essere da meno di un'ombra, un anonimo fruscio lanciato in un loggione ostile. Sai quanto sono permalosa, Mohsen; mi rattristerebbe volertene mentre tu cerchi solo di farmi piacere.»
Mohsen alza le mani. A un tratto, Zunaira prova pena per quell'uomo che non riesce più a trovare la sua collocazione in una società completamente sottosopra. Già prima dell'avvento dei talebani, mancava di slancio e si accontentava di attingere al proprio patrimonio piuttosto che spendersi in progetti impegnativi. Non che fosse pigro, ma aborriva le difficoltà e non voleva complicarsi la vita. Viveva di rendita ma senza sfarzo, era un ottimo marito, affettuoso e pieno di premure. Non le faceva mancare niente, non le rifiutava mai nulla e cedeva così facilmente alle sue richieste che spesso lei aveva la sensazione di abusare della sua gentilezza. Era così, il cuore in mano, pronto più a dire sì che a porsi problemi. Il molteplice sconvolgimento provocato dai talebani l'ha completamente destabilizzato. Mohsen non ha più punti di riferimento, né la forza per inventarsene altri. Ha perso: patrimonio, privilegi, parenti e amici. Ridotto al rango d'intoccabile, vegeta alla giornata, rinviando a più tardi la promessa di riprendere in mano la propria vita.
«Bène,» concede Zunaira «d'accordo, usciamo. Preferisco correre mille rischi piuttosto che vederti così abbattuto.»
«Non sono abbattuto, Zunaira. Sé vuoi restare a casa, va benissimo. Ti assicuro che non te ne voglio. Hai ragione. Le Strade di Kabul sono odiose. Non si sa mai cosa ci aspetta.»
Zunaira sorride alle parole del marito che contrastano così nettamente con la sua aria avvilita.
«Vado a cercare il mio burqa» dice.


CAPITOLO 7


Atiq Shaukat si fa ombra agli occhi con la mano. La canicola ha ancora parecchi giorni davanti a sé. Non sono ancora le nove e il sole, implacabile, martella come un fabbro su tutto ciò che si muove. I carrettieri e i furgoni convergono verso il mercato principale della città, i primi carichi di cassoni semivuoti o di prodotti ortofrutticoli appassiti, i secondi di passeggeri pigiati gli uni sugli altri come sardine. La gente zoppica per i vicoli, raschiando con i sandali il suolo polveroso. Velo opaco e passo da sonnambulo, sparute greggi di donne rasentano i muri, guardate a vista da maschi impacciati. E poi, ovunque, sulla piazza, sulle carreggiate, in mezzo alle vetture e intorno alle bettole, centinaia di mocciosi dalle narici verdastre e lo sguardo tagliente, abbandonati a se stessi, che si reggono a malapena sulle gambe e sono già inquietanti, intrecciano in silenzio la corda di canapa con la quale, un bel giorno, impiccheranno senza indugio l'ultima salvezza della nazione. Atiq prova sempre un profondo malessere ogni volta che li vede invadere inesorabilmente, la città, simili a quelle mute di cani che vengono non si sa da dove e che, dai bidoni alle discariche, finiscono con il colonizzare la città e tenere a bada la popolazione. Le innumerevoli scuole  coraniche, che spuntano come funghi a ogni angolo di strada, non bastano più a contenerli. Ogni giorno, il loro numero aumenta e si fanno sempre più minacciosi, ma a Kabul nessuno se ne preoccupa. Per tutta la vita, Atìq ha rimpianto che Dio non gli abbia dato dei figli, ma da quando le strade ne rigurgitano si ritiene fortunato. A cosa serve circondarsi di marmocchi per poi vederli morire poco a poco o finire come carne da cannone, vittime di chi si crogiola in una guerra senza fine, nella quale s'identifica?
Persuaso che la sua sterilità sia una benedizione del cielo, Atìq schiocca lo scudiscio sulla coscia e marcia dritto verso il centro città.
Zanish sonnecchia al riparo del suo parasole, il collo storto. Viene da credere che abbia trascorso la notte lì, sulla soglia di casa, seduto per terra alla turca. Vedendo arrivare Atiq, fa finta di dormire. Atiq gli passa davanti senza dire niente. Fatti una trentina di passi, si ferma, soppesa il prò e il contro e torna indietro. Zanish, che lo spiava con la coda dell'occhio, stringe i pugni e si rattrappisce ulteriormente nel suo angolo. Atiq gli si pianta di fronte a braccia conserte, poi si accovaccia e, con la punta del dito, si mette a tracciare figure geometriche nella polvere.
«Ieri sera sono stato maleducato» riconosce. Zanish stringe le labbra per accentuare l'aria da cane bastonato.
«Eppure, non ti avevo fatto niente.» 
«Ti chiedo scusa.» 
«Bah!» 
«Sì, davvero. Mi sono comportato molto male con te, Zanish. Sono stato cattivo, ingiusto e stupido.»
«Ma no, sei stato soltanto un po' sgradevole.» 
«Me la prendo con me stesso.» 
«Non è necessario.» 
«Mi perdoni?»
«Questo va da sé, via. E poi, a essere sinceri, me lo sono meritato. Avrei dovuto riflettere un momento prima di venire a disturbarti. Eri lì, in una prigione vuota, in cerca di tranquillità per pensare ai tuoi problemi a mente fredda. E io sbarco, senza alcun preavviso, a parlare di cose che non ti riguardano. Colpa mia. Non dovevo disturbarti.»
«È vero, avevo bisogno di stare da solo.»
«Allora, sei tu che devi perdonarmi.»
Atiq tende la mano. Zanish l'afferra premuroso, trattenendola a lungo nella sua. Senza mollare la presa, si guarda intorno per essere sicuro che la strada sia sgombra; si raschia In gola e bela con voce quasi impercettibile, tanto grande è l'emozione: «Pensi che un giorno potremo sentire della musica a Kabul?».
«Chissà.»
La morsa del vecchio si accentua, il collo scarno si tende per prolungarne il lamento: «Ho voglia di sentire una canzone. Non immagini quanto. Una canzone con accompagnamento musicale e una voce che ti scuota dalla testa ai piedi. Pensi che un giorno, o una sera, potremo accendere la radio e ascoltare le orchestre fondersi insieme fino a svenire?».
«Dio solo è onnisciente.»
Gli occhi del vecchio, per un attimo annebbiati, prendono a luccicare per un lampo di dolore che pare risalire dal più profondo del suo essere. Dice: «La musica è il vero soffio vitale. Si mangia per non morire di fame. Si canta per sentirsi vivere. Capisci, Atiq?».
«In questo momento, la mia testa non funziona del tutto.»
«Quando ero bambino, spesso mi capitava di non trovare nulla da mettere sotto i denti. Non era grave. Mi bastava sedermi sopra un ramo e soffiare nel mio flauto per placare i brontolii dello stomaco. E quando cantavo, puoi non credermi se vuoi, stavo benissimo.»
I due uomini si guardano. Il viso teso come un crampo. Alla fine, Atiq ritrae la mano per alzarsi.
«arrivederci, Zanish.»
Il vecchio annuisce. Proprio quando il carceriere sta per andarsene, lo trattiene per la falda della camicia.
«Eri sincero, ieri, Atiq? Pensi davvero che non me ne andrò mai, che resterò piantato qui come un albero e non vedrò mai l'oceano né i paesi lontani né l'ultimo orizzonte?»
«È chiedermi troppo.»
«Voglio che tu me lo dica in faccia. Tu non sei un ipocrita, non ti curi della suscettibilità degli altri quando spiattelli loro in faccia la verità. Non ho paura, e non te ne vorrò. Devo saperlo una volta per tutte: pensi che un giorno lascerò questa città?»
«Sì, certo... Con i piedi in avanti.»
Detto ciò, si allontana schioccando lo scudiscio contro il fianco.
Avrebbe potuto risparmiare il vecchio, dice fra sé e sé, e fargli credere che, sebbene impossibile, la speranza era permessa. Non capisce cosa gli abbia preso né perché, di punto in bianco, il maligno piacere di angosciare ulteriormente quel povero diavolo abbia prevalso sul resto. Tuttavia, l'irresistibile bisogno di guastare in due parole ciò che quello implora in cento lo impensierisce, come un prurito: se anche si grattasse a sangue non vorrebbe liberarsene... Ieri, rientrando a casa, ha trovato Mussarat addormentata. Senza sapere perché, ha rovesciato apposta uno sgabello, sbattuto le imposte della finestra e si è messo a letto solo dopo aver recitato ad alta voce versetti interminabili. Al mattino, si è reso conto di quanto fosse stato sgarbato. E tuttavia, pensa, se questa sera trovasse ancora sua moglie addormentata, si comporterebbe allo stesso modo.
Prima, Atiq non era così. È vero, non passava per una persona affabile, ma non era neppure cattivo. Troppo povero per essere generoso, non esagerava astenendosi dal donare con la manifesta intenzione di non aspettarsi nulla in cambio. In questo modo, non esigendo niente da nessuno, non si sentiva in debito né in obbligo. In un paese dove i cimiteri rivaleggiano in estensione con le terre incolte e i funerali prolungano i convogli militari, la guerra gli ha insegnato a non legarsi troppo a esseri che un semplice sbalzo di umore avrebbe potuto rapirgli. Atiq si era deliberatamente chiuso nel suo bozzolo, al riparo da dispiaceri inutili. Ritenendo di aver visto abbastanza per commuoversi sulla sorte del prossimo, diffidava della propria sensibilità come di una vipera e limitava il dolore del mondo alle proprie sofferenze. Tuttavia, negli ultimi tempi, non si limita più a ignorare quel che lo circonda. A lui, che si era ripromesso d'impicciarsi solo degli affari propri, non ripugna più pensare alle delusioni altrui per lenire le proprie. Senza accorgersene, ha sviluppato una strana aggressività, imperiosa quanto insondabile, che sembra confarsi ai suoi stati d'animo. Non vuole più trovarsi solo di fronte alle avversità; anzi, cerca di dimostrare a se stesso che, aggravando quelle altrui, sopporterebbe più facilmente il peso delle proprie sventure. Del tutto consapevole del torto che infligge a Zanish, e ben lungi dall'angustiarsene, lo assapora come una prodezza. È questo il "maligno piacere"? Che importa, gli va bene così e, anche se non gli riesce concretamente, ha la sensazione di non perderci nel cambio. È come se si prendesse la rivincita su qualcosa che continua a sfuggirgli. Da quando Mussarat si è ammalata, ha l'intima convinzione che è stato ingannato, che i suoi sacrifici,' le sue concessioni, le sue preghiere non sono servite a niente; che il suo destino non si raddrizzerà mai, mai, mai...
«Dovresti consultare un cospiratore» l'apostrofa un vocione.
Atiq si volta. Mirza Shah è seduto allo stesso tavolo che occupava il giorno prima,  sulla terrazza del chiosco, intento a sgranare il rosario. Spinge indietro il tocco sulla testa e aggrotta la fronte. «Non sei normale, Atiq. Ti ho detto che non volevo più vederti parlare da solo per strada. La gente non è cieca. Ti prenderanno per uno scimunito e ti sguinzaglieranno dietro i loro marmocchi.»
«Non ho ancora preso a strapparmi i vestiti di dosso» borbotta Atiq.
«Di questo passo, non ci vorrà molto.»
Atiq alza le spalle e continua per la sua strada.
Mirza Shah si prende il mento fra le dita e scuote la testa. Osserva il carceriere squagliarsela, sicuro di vederlo riprendere la sua pantomima prima che sia giunto in fondo alla strada.
Atiq è furente. Gli sembra che gli occhi della città lo spiino, e che Mirza Shah lo perseguiti. Allunga il passo per allontanarsi al più presto, convinto che l'uomo seduto al tavolo sulla terrazza alle sue spalle lo sorvegli, pronto a lanciargli rozze frecciate. È talmente incollerito che, nello svoltare, investe una coppia, prima urtando la donna e incespicando poi nel suo accompagnatore, che deve addossarsi al muro per non cadere all'indietro.
Atiq raccoglie lo scudiscio, scosta l'uomo che fa per rialzarsi e si affretta a scomparire.
«Un vero cafone» impreca Mohsen Ramat ripulendosi.
Zunaira spolvera l'orlo del suo burqa.
«Non si è neppure scusato» dice, divertita dal broncio del marito.
«Ti sei fatta niente?»
«Tranne un leggero spavento, niente.»
«Bene, meglio così.»
Si rassettano l'infagottatura, lui con gesto irritato, lei chiocciando sotto la maschera. Mohsen percepisce il riso soffocato della moglie. Brontola per un attimo, poi, tranquillizzato dal buonumore di Zunaira, scoppia a ridere anche lui. Improvvisamente, un manganello si abbatte sulla sua spalla. «Pensate di essere al circo?» gli urla un talebano sgranando gli occhi lattiginosi nel viso riarso dalla canicola.
Mohsen cerca di protestare. Il manganello piroetta in aria e lo colpisce al viso.
«Non si ride per strada» insiste lo sbirro. «Se vi resta un briciolo di pudore, tornate a casa e chiudetevi a doppia mandata.»
Mohsen freme di rabbia, la mano sulla guancia.
«Cosa c'è?» lo schernisce il talebano. «Vuoi cavarmi gli occhi? Dai, fammi vedere di cosa sei capace, femminuccia!»
«Andiamo via» supplica Zunaira tirando il marito per il braccio.
«Tu non toccarlo; stai al tuo posto» le urla lo sbirro sferzandole l'anca. «E non parlare in presenza di un estraneo.»
Attirato dall'alterco, un gruppo di sbirri si avvicina, lo scudiscio bene in vista. Il più alto si liscia la barba con aria beffarda e chiede al collega: «Qualche problema?».
«Pensano di essere al circo.»
Quello alto fissa Mohsen.
«Chi è questa donna?»
«Mia moglie.»
«Allora, comportati da uomo. Insegnale a stare in disparte quando discuti con una terza persona. Dove stai andando?»
«Accompagno mia moglie dai suoi genitori» mente Mohsen.
Lo sbirro lo squadra intensamente. Zunaira sente che le gambe non la reggono più. È in preda al panico. Dentro di sé implora il marito di tenere i nervi saldi.
«L'accompagnerai più tardi» decide lo sbirro. «Per il momento, unisciti ai fedeli nella moschea laggiù. Il mullah Bashir terrà un sermone tra meno di un quarto d'ora.»
«Ma vi dico che devo accompagnare...»
§Due scudisciate l'interrompono. Le riceve tutte e due insieme sulla spalla.
«Ti dico che il mullah Bashir terrà un sermone tra dieci minuti... e tu mi parli di accompagnare tua moglie dai suoi genitori. Ma davvero, cos'hai nel cervello? Devo forse intendere che per te una visita famigliare è più importante del sermone di uno dei nostri più eminenti eruditi?»
Con la punta della frusta, gli solleva il mento in modo da incontrarne lo sguardo, poi lo allontana, sprezzante.
«Tua moglie ti aspetterà qui, ai piedi di questo muro, in disparte. L'accompagnerai più tardi.»
Mohsen alza le mani in segno di resa e, data un'occhiata furtiva in direzione della moglie, si dirige verso un edificio tinteggiato di verde e di bianco, intorno al quale altri miliziani intercettano i passanti per obbligarli ad assistere al sermone del mullah Bashir.


CAPITOLO 8


«Non vi è nessun dubbio» proclama il mullah Bashir da sopra il suo gozzo.
Il suo dito da orco sciabola l'aria.
Si aggiusta il cuscino per sedersi comodamente, si dimena sul podio cigolante che funge da tribuna, enorme e famelico, il viso tozzo che sbuca dalla barba filamentosa.
Gli occhi vigili spazzano l'assemblea, brillando di una vivida intelligenza, che mette soggezione.
«Nessun dubbio a questo riguardo, fratelli. È vero, com'è vero che il sole sorge a oriente. Ho consultato le montagne, interrogato i segni del cielo, l'acqua dei fiumi e del mare, i rami degli alberi e le carreggiate delle strade; tutto mi ha confermato che l'Ora tanto attesa è giunta. Dovete solo tendere l'orecchio per udire ogni cosa su questa terra, ogni creatura, ogni fruscio attestare che il momento della gloria è vicina, che l'imam El Mehdi è fra di noi e i nostri cammini ne sono illuminati. Coloro che ne dubitano anche per un istante non sono dei nostri. Il Demonio li possiede e l'Inferno troverà nelle loro carni un combustibile inesauribile. Li udirete rimpiangere per l'eternità di non aver saputo cogliere l'opportunità che gli offrivamo su un vassoio d'argento: l'opportunità di unirsi a noi per porsi definitivamente sotto le ali del Signore.»
Con il dito batte un colpo secco sul palco. Di nuovo, il suo sguardo incendiario abbraccia l'assemblea, pietrificata in un silenzio siderale. «Potranno supplicarci per milioni di anni, noi rimarremo sordi alle loro invocazioni come oggi loro lo sono alla propria salvezza.»
Mohsen Ramat approfitta di un ondeggiamento nelle prime file per sbirciare da sopra la spalla. Vede Zunaira che lo aspetta seduta sulla scalinata esterna di un rudere di fronte alla moschea. Uno sbirro le si avvicina, il fucile a tracolla. Lei si alza e indica la moschea con mano tremante. Lo sbirro guarda nella direzione indicata, annuisce e se ne va.
Il mullah Bashir tambureggia sul palco esigendo un'attenzione costante. «Non vi è nessun dubbio. La Parola di giustizia risuona ai quattro angoli della Terra. I popoli musulmani uniscono le loro forze e le loro più intime convinzioni. Presto su tutta la Terra vi sarà una sola lingua, una sola legge, un solo ordine: questo!» esclama brandendo un Corano. «L'Occidente è morto, non esiste più. Il modello che proponeva agli stolti è fallito. Cos'è mai questo modello? Cos'è, esattamente, quello che spaccia per liberazione e modernità? Forse le società amorali che ha creato, dove primeggia il profitto e gli scrupoli, la pietà, la carità non contano niente, dove i valori sono esclusivamente monetari, dove i ricchi sono dei tiranni e i salariati dei forzati, dove l'impresa soppianta la famiglia per isolare gli individui al fine di addomesticarli e poi licenziarli senza tante formalità, dove la donna si compiace della propria natura viziosa e gli uomini si sposano fra loro, dove si fa mercato del corpo umano sotto gli occhi e il naso di tutti senza suscitare la minima reazione e generazioni intere sono parcheggiate in esistenze rudimentali fatte di emarginazione e povertà? È questo il modello che lo rende così fiero e orgoglioso? No, miei cari fedeli, non si costruiscono monumenti sulle sabbie mobili. L'Occidente è fottuto, morto e sepolto, il suo fetore appesta lo strato d'ozono. È un universo costruito sulla menzogna. Quel che voi credete di discernere in lui, è solo illusione, un fantasma ridicolo, sprofondato sulle macerie della propria inconsistenza. L'Occidente è una soperchieria, un'enorme farsa che si sta disgregando. Il suo pseudoprogresso è una fuga in avanti. Il suo gigantismo apparente, una mascherata. Il suo zelo ne tradisce il panico. Non ha scampo, è preso in trappola e farà la fine del topo. Perdendo la fede, ha perduto la propria anima, e noi di certo non l'aiuteremo a ritrovare né l'una né l'altra. Crede che la sua economia sia in grado di proteggerlo; crede d'impressionarci con la sua tecnologia di punta e intercettare le nostre preghiere con i suoi satelliti; crede d'intimidirci con le sue portaerei e i suoi eserciti di paccottìglia... ma dimentica che non s'impressiona chi ha scelto di morire per la gloria del Signore e che, se anche i radar non riescono a captare i suoi bombardieri furtivi, nulla sfugge allo sguardo di Dio.»
Stizzito, picchia il pugno. «Chi oserebbe sfidare la collera di Dio?»
Un sorriso vorace dischiude le sue labbra. Con le dita si asciuga la schiuma ispessitasi agli angoli della bocca. Scuote la testa lentamente, poi il suo dito torna a picconare il palco come se volesse trapassarlo.
«Fratelli, noi siamo i soldati di Dio. La vittoria è la nostra vocazione, il paradiso il nostro caravanserraglio. Se uno di noi soccombe alle sue ferite, un drappello di uri, splendide come mille soli, verrà a raccoglierlo. Non crediate che chi si è sacrificato per la causa del Signore muoia; egli vive a fianco del suo Signore che lo colma di favori... Quanto ai loro martiri, lasceranno il calvario di questo mondo solo per la geenna eterna. I loro cadaveri marciranno come carogne sui campi di battaglia e nella memoria dei superstiti. Non avranno diritto né alla misericordia del Signore né alla nostra pietà. Nulla ci impedirà di purificare la terra dei credenti affinchè, da Giakarta a Gerico, da Dakar a Città del Messico, da Khartum a San Paolo, da Tunisi a Chicago risuoni dai minareti il grido di vittoria...»
«Alla.hu' akbar!» prorompe un compagno del mullah.
«Allahu' akbar!» vibra l'assemblea.
Zunaira sussulta quando il grido rimbomba nella moschea. Pensando che la riunione sia terminata, raccoglie i lembi del burqa e aspetta di vedere uscire i fedeli. Dal santuario non emerge nessuno. Anzi, al contrario, gli sbirri continuano a intercettare i passanti e a dirigerli, a furia di scudisciate, verso l'edificio dipinto di verde e di bianco. La voce del guru tuona più di prima, galvanizzata dalle sue stesse parole. Ogni tanto, sale così in alto che i talebani, soggiogati, dimenticano di controllare i passanti. Anche i bambini, stralunati e cenciosi, si sorprendono ad ascoltare la predica prima di correre strillando verso i vicoli gremiti di folla.
Devono essere le dieci, e il sole non si trattiene più. L'aria è satura di polvere. Mummificata sotto il velo, Zunaira soffoca. La rabbia le contorce le viscere e le strozza la gola. Il folle desiderio di alzare il cappuccio alla ricerca di un improbabile refolo di frescura accentua il suo nervosismo. Ma non osa neppure asciugarsi il viso madido con un lembo del burqa. Come un'ossessa stretta nella camicia di forza, rimane accasciata sulla scalinata, a grondare sotto la calura e ad ascoltare il suo ansito accelerarsi e il sangue batterle alle tempie. Improvvisamente, se la prende con se stessa perché si trova lì, seduta sulla soglia di un rudere, simile a un fagotto dimenticato, ad attirare l'incuriosito sguardo dei passanti ora le sprezzanti occhiate dei talebani. Ha la sensazione di essere un oggetto sospetto, esposto a ogni sorta d'interrogativi, e questo la tortura. È sopraffatta dalla vergogna. Il bisogno di scappare via, di tornare subito a casa  e sbattere la porta per non uscire mai più le attanaglia la mente. Perché ha accettato di seguire suo marito? Cosa sperava di trovare nelle vie di Kabul, se non misèria e oltraggi? Come ha potuto accettare d'infilarsi quell'orrenda infagottatura che l'annienta, quella tenda ambulante che è il simbolo della sua destituzione e della sua prigionia, con quella maschera graticciata intagliata nel viso come caleidoscopiche grate, con quei guanti che le impediscono di riconoscere le cose al tatto e il peso dei soprusi? È accaduto quello che temeva. Sapeva che la sua imprudenza l'avrebbe esposta a ciò che detesta maggiormente e che rifiuta perfino quando dorme: la degradazione. È una ferita incurabile, un'infermità da cui non si guarisce, un trauma che né la rieducazione né le terapie riescono a far superare, al quale non ci si può abituare senza sprofondare nel disprezzo di sé. Questo disprezzo, Zunaira lo percepisce chiaramente; fermenta in lei, le consuma le viscere e minaccia d'immolarla. Lo sente crescere nel più intimo del suo essere, come un rogo. Forse è per questo che gronda e soffoca sotto il burqa, mentre la gola disseccata sembra riversarle nel palato come un puzzo di cremazione. Una rabbia incoercibile le opprime il petto, calpesta il suo cuore e le gonfia le vene del collo. Il suo sguardo si offusca: sta per scoppiare in singhiozzi. Con uno sforzo inaudito, inizia a contrarre i pugni per frenarne il tremito, raddrizza la schiena e si concentra per disciplinare il respiro. Lentamente reprime la propria rabbia, gradualmente fa il vuoto dentro di sé. Deve sopportare la sua pena e resistere fino al ritorno di Mohsen. Un gesto avventato, una protesta, e si esporrebbe inutilmente allo zelo dei talebani.
Il mullah Bashir è molto ispirato, constata Mohsen Ramat. Trascinato dalle proprie diatribe, sospende i suoi slanci solo per picchiare sul palco o portare alle labbra incandescenti una caraffa. Parla da due ore, veemente e gesticolante, la bava dello stesso biancore degli occhi. Il suo respiro da bufalo, che vibra nello stanzone, ricorda una scossa di terremoto. Nelle prime file, i fedeli inturbantati non si rendono conto di trovarsi in una fornace. Sono letteralmente soggiogati dalla prolissità del guru, la bocca spalancata per non perdere nulla del fiotto di parole dissetanti che casca loro addosso. Alle loro spalle, le opinioni sono equamente divise: c'è chi impara e c'è chi si annoia. Molti non sono contenti di trovarsi lì invece che badare alle proprie occupazioni. Quelli non smettono di agitarsi e triturarsi le dita. Un vecchio si è addormentato, un talebano lo scuote con la punta del manganello. Risvegliatosi, il povero diavolo sbatte le palpebre come se non riconoscesse il posto, si asciuga il viso con il palmo della mano, poi, dopo uno sbadiglio, il collo da uccello gli si affloscia e si riaddormenta. Da un pezzo, Mohsen ha perso il filo del sermone. Le parole del mullah non lo raggiungono più. Preoccupato, non smette di voltarsi verso Zunaira, laggiù, dall'altra parte della strada, immobile sulla scalinata. Sa che sta soffrendo sotto quel suo paramento, per il sole e per il fatto di stare lì come un fenomeno da baraccone in mezzo ai curiosi, lei che odia dare spettacolo. La guarda, sperando che lei lo veda in mezzo a quell'accozzaglia d'individui dall'espressione grave e dal silenzio incongruo, forse capisce quanto sia dispiaciuto della piega che ha preso una semplice passeggiata in una città, dove le cose si muovono freneticamente senza avanzare di un passo. Qualcosa gli dice che Zunaira ce l'ha con lui. La sua rigidità è raccolta come quella di una tigre ferita costretta a passare all'attacco...
Una frusta sibila all'altezza della sua tempia. «Guarda avanti» gli ricorda il talebano. 
Mohsen annuisce e volta le spalle alla moglie. Con dolore. 
Terminata la predica, le pecorelle delle prime file si alzano in un moto di giubilo e ruzzolano verso il guru per baciargli la mano o la falda del turbante. Mohsen deve pazientare finché i talebani autorizzano i fedeli a lasciare la moschea. Alla fine, quando riesce a sottrarsi alla calca, Zunaira è stordita dal sole. Le sembra che il mondo si sia oscurato, che i rumori intorno a lei girino al rallentatore, e fatica a rialzarsi.
«Non ti senti bene?» le chiede Mohsen.
Lei trova la domanda così assurda che non la degna di una risposta.
«Voglio tornare a casa» dice.
Cerca di riprendere i sensi, appoggiata al portone, poi, senza dire una parola, si mette a camminare barcollando, la vista annebbiata e la testa in fiamme. Mohsen cerca di sorreggerla, lei lo respinge senza tanti complimenti.
«Non mi toccare» gli urla con voce straziata.
Mohsen riceve il grido della moglie con lo stesso dolore che gli avevano inflitto, due ore prima, le due scudisciate abbattutesi insieme sulla sua spalla.


CAPITOLO 9


Il conducente sterza violentemente il volante per evitare un enorme masso sulla strada, in un modo o nell'altro si porta sulla banchina. I freni malconci non riescono a rallentare la corsa del grosso 4x4 che, nell'assordante stridio degli ammortizzatori, rimbalza in una crepa del terreno prima di fermarsi miracolosamente sul bordo del fosso.
Imperturbabile, Qassim Abdul Jabbar si limita a scrollare la testa.
«Vuoi ammazzarci o cosa?»
Il conducente deglutisce notando che una delle ruote è a meno di dieci centimetri dal baratro. Si asciuga con la falda del turbante, biascica uno scongiuro, innesta la retromarcia e riporta indietro la vettura.
«Da dov'è caduto questo fottutissimo masso?»
«Forse è un meteorite» ironizza Qassim.
Il conducente si guarda intorno per cercare un punto che spieghi come quell'enorme masso sia potuto rotolare fino alla strada. Alzando gli occhi sulla cresta più vicina, sorprende un vecchio intento a inerpicarsi lungo i fianchi della collina.
Aggrotta la fronte. «Non è Zanish, quello lassù?»
Qassim segue lo sguardo del conducente.
«Mi stupirebbe.»
Il conducente socchiude le palpebre per concentrarsi sullo straccione intento a scalare pericolosamente la collina. «Se non è Zanish, dev'essere suo fratello gemello.» «Non preoccuparti di lui e cerca di riportarmi a casa intero.» Il conducente annuisce e, incorreggibile, lancia a tutta velocità il 4x4 sulla pista accidentata. Prima di scomparire dietro un poggio da un'ultima occhiata nello specchietto retrovisore, convinto che il vecchio in questione sia proprio il sempliciotto che di tanto in tanto viene a gironzolare intorno alla prigione dove bazzica Atiq Shaukat.
Sfinito, la gola in fiamme e le gambe a pezzi, Zanish si accascia in cima alla cresta. Carponi, cerca di riprendere fiato, poi si allunga sulla schiena e si abbandona alla vertigine. Il cielo a portata di mano gli infonde una sensazione di rara leggerezza; ha l'impressione di schiudersi come una crisalide, d'insinuarsi, spira dopo spira, fra le maglie sfibrate del suo corpo. Rimane così, steso a terra, il petto ansante e le braccia in croce. Quando il respiro torna regolare, si rimette a sedere e si porta la borraccia alla bocca. Adesso che ha vinto la montagna, nulla gli impedirà di affrontare l'orizzonte. Si sente capace di camminare fino in capo al mondo. Fiero della sua impresa, inimmaginabile per un uomo della sua età, alza al cielo il pugno e lascia planare lo sguardo vendicativo sopra quella vecchia strega di Kabul, ostinatamente chiusa nei propri tormenti, che giace bocconi ai suoi piedi, smembrata, irsuta, le mandibole rotte a furia di mordere la polvere. Un tempo, la sua fama rivaleggiava con quella di Samarcanda o di Baghdad e i suoi re, non appena saliti al trono, immediatamente sognavano imperi più vasti del firmamento... Quel tempo è passato, pensa Zanish indispettito, e non saranno i ricordi a farlo tornare. Perché Kabul ha orrore del ricordo. Ha giustiziato la propria storia sulla pubblica piazza, immolato i nomi delle vie in terrificanti autodafé, polverizzato i monumenti a colpi di dinamite e annullato i giuramenti che i suoi fondatori avevano sottoscritto nel sangue nemico. Oggi, i nemici di Kabul sono i suoi stessi figli. Hanno rinnegato i loro avi e si sono abbruttiti per non assomigliare a nessuno," meno che mai a quegli esseri inferiori che vagano spettrali tra il disprezzo dei talebani e l'anatema dei guru.
A un tiro di schioppo, un varano troneggia sopra un masso, la lunga coda al fianco come una sciabola. Decisamente, fra i predatori la tregua genera gravi equivoci. Nella terra degli afghani, si può appartenere alle tribù o alla fauna, si può essere nomadi o guardiani del tempio, ma ci si sente vivi solo accanto a un'arma. Anche il varano reale è sul chi va là: fiuta l'aria a caccia di trappole. Ora, Zanish non vuole più sentire parlare di battaglie, assedi, sciabole o fucili; non vuole più affidarsi allo sguardo vendicativo dei mocciosi. Ha deciso di voltare le spalle al frastuono delle mitragliatrici per andare a raccogliersi sulle spiagge selvagge e vedere da vicino l'oceano. Vuole raggiungere il paese che le sue utopie hanno partorito e che ha costruito con i suoi sospiri, le sue preghiere, i suoi voti più fervidi; un paese in cui gli alberi non muoiono di noia, in cui i sentieri viaggiano come gli uccelli, in cui nessuno metterà in dubbio la sua determinazione a percorrere le immutabili contrade da cui non farà più ritorno. Raccoglie sette sassi. A lungo il suo sguardo sfida la città in cui non ha più punti di riferimento. Improvvisamente, stende il braccio e lancia lontano i suoi proiettili per scongiurare la sorte e lapidare il Demonio sul suo cammino.
Il 4x4 beccheggia follemente sull'imprevedibile pista. Lo sbandamento di poco prima non ha fatto rinsavire il conducente. Qassim Abdul Jabbar si aggrappa alla portiera e porta pazienza. Da quando hanno lasciato il villaggio tribale, il giovane autista ha fatto di testa sua. 
Visto che ha imparato a guidare facendolo, come quasi tutti i combattenti, non si rende conto dei danni che arreca al veicolo. Per lui, la docilità del mezzo si misura in funzione della velocità che gli si strappa dalle viscere, come si fa con i ronzini. Qassim si avvinghia al sedile e cerca di non badargli, certo che nessuna argomentazione avrà ragione della sua caparbietà. Pensa alla tribù che la guerra ha spogliato, alle vedove e agli orfani il cui numero è diventato intollerabile, al bestiame decimato dall'inclemenza delle stagioni, al villaggio distrutto, dove non ha ritenuto necessario attardarsi. Se fosse per lui, non ci metterebbe più piede. Ma è appena morta sua madre. È stata sepolta ieri. Arrivato troppo tardi per il funerale, si è limitato a raccogliersi sulla sua tomba. Qualche minuto in silenzio e un versetto sono stati sufficienti. Poi, ha fatto scivolare una mazzetta di banconote nel gilet di suo padre e ha ordinato al conducente di riportarlo a Kabul.
«Potevamo restare fino a domani» dice l'autista come se leggesse nei suoi pensieri.
«Perché?»
«Be', per riposarci. Non abbiamo nemmeno pranzato.»
«Non avevo niente da fare laggiù.»
«Eri dai tuoi.»
«E allora?
«E che ne so. Al posto tuo, me la sarei presa comoda. Da quante settimane non torni al villaggio? Mesi e mesi, o forse anni.»
«Non mi trovo bene al villaggio.»
Il conducente annuisce, senza crederci troppo. Sorveglia il passeggero con la coda dell'occhio, trovando che ha uno strano atteggiamento, per uno che ha appena perso la madre. Affronta una curva a tutta velocità e poi rilancia.
«Uno dei tuoi cugini mi ha raccontato che tua madre era una santa.»
«Era una brava donna.»
«Ti mancherà?»
«Probabile, ma non vedo come. Era sordomuta. A dire la verità, di lei mi rimarrà ben poco. E poi sono andato via che ero molto giovane. A dodici anni correvo da una frontiera all'altra dietro la mia ciotola di riso. Raramente tornavo all'ovile. Ogni tre ramadan. Per questo non ho conosciuto la defunta come si doveva. Per me, era la donna che mi aveva messo al mondo. Punto e basta. Ero il sesto dei suoi quattordici figli, e il meno interessante. Imbronciato, inawicinabile, le mani più leste della lingua, per me c'era troppa gente in quella stamberga. E troppo poca ambizione. D'altra parte, la defunta era di una discrezione sconcertante. Il vecchio amava dire che l'aveva sposata perché non discutesse i suoi ordini. E scoppiava a ridere a crepapelle. Un vero burlone, il vecchio. Spilorcio, ma per nulla esigente né cattivo. Del resto, non aveva motivo di esserlo. Le rare scenate si svolgevano in silenzio e lo divertivano più di quanto lo facessero uscire dai gangheri...»
I ricordi riempiono il suo sguardo di un remoto bagliore. Tace sporgendo le labbra. Non è triste; più che altro deluso, come se i ricordi lo disturbassero. Dopo un lungo silenzio, si raschia la gola e aggiunge voltandosi tutto sulla sinistra: «Forse era una santa. Tutto sommato, perché no? Non udiva né proferiva ingiurie».
«Una beata, allora.»
«Comunque, non fino a questo punto. Era una persona tranquilla, senza tante storie e senza inimicizie. Per me, incarnava il suo sorriso, sempre lo stesso, largo quando era contenta, tirato quando la contrariavano. Se sono andato via troppo presto, è stato proprio per questo. Con lei, mi sembrava di parlare al muro.»
Il conducente sporge la testa fuori del finestrino per sputare.
La saliva piroetta nella polvere prima di ricadérgli sulla barba. Si asciuga con il dorso della mano e dice, in tono stranamente allegro: «Non ho conosciuto mia madre. È morta mettendomi al mondo. Aveva quattordici anni, il vecchio faceva pascolare il gregge a due passi. Era appena pubere. Perso nelle sue bambinate. Quando mia madre ha iniziato a gemere, non si è fatto prendere dal panico. Invece di avvisare i vicini, ha voluto cavarsela da solo. Come un adulto. Ben presto, la faccenda ha preso una brutta piega. Lui si è intestardito. Ed ecco. Ignora come io sia sopravvissuto; peggio, non capisce perché mia madre gli sia morta fra le mani. Ancora ci pensa, dopo tanti anni e quattro matrimoni... Mia madre ha molto sofferto prima di rendere l'anima. Io non l'ho conosciuta, e tuttavia è sempre qui, al mio fianco. Ti giuro che, ogni tanto, sento il suo respiro sul mio viso. È il mio terzo matrimonio in meno di un anno».
«Per causa sua?»
«No, le mie due prime mogli erano ribelli. Non erano dinamiche e facevano troppe domande.»
Qassim non vede il nesso. Rovescia la nuca sullo schienale e fissa la plafoniera. Dopo una curva, Kabul!... rannicchiata in mezzo ai viali devastati, simile a una tragica farsa e, in disparte, come un rapace in attesa della selvaggina data in pasto ai cani, la tetra prigione di Pul-e-Charki. Gli occhi di Qassim s'illuminano di uno strano bagliore. Se non perde occasione di accompagnare i malcapitati al patibolo è proprio per attirare su di sé l'attenzione dei mullah. È stato un ottimo combattente. La sua reputazione di miliziano è encomiabile. Un giorno, a forza di perseveranza e dedizione, finirà con l'ottenere che i governanti lo nominino direttore di quella fortezza, ossia del più importante penitenziario del paese. Potrà così entrare nei ranghi dei notabili, allacciare relazioni e buttarsi negli affari. Solo allora assaporerà il riposo del guerriero.
«A quest'ora sarà in paradiso?»
«Chi?» sussulta Qassim.
«Tua madre.»
Qassim squadra il conducente che sembra un po' toccato. Quest'ultimo gli sorride guidando maldestramente in mezzo a un intrico di solchi. In quel mentre, la curva volta le spalle alla città e la fortezza di Pul-e-Charki scompare dietro una cava di arenaria.
Più in basso, molto più in basso, lì dove la valle si tuffa nelle ingannevoli acque del miraggio, una squadra di cammelli risale la scarpata. Ancora più in basso, in piedi in mezzo a un cimitero, Mohsen Ramai scruta la montagna percorsa dallo scintillio di un grosso 4x4. Tutte le mattine viene qui a contemplare le vette taciturne, senza però osare scalarle. Da quando Zunaira si è barricata dietro un opprimente mutismo, non sopporta più la promiscuità. Non appena esce di casa, si affretta a raggiungere il vecchio cimitero e si isola per ore, al riparo dai bazar infestati di imbonitori e di zelanti miliziani. E tuttavia, sa che la sua ascesi non lo porterà lontano. Non c'è niente da vedere, tranne l'abbandono, e niente da sperare. Tutt'intorno, l'aridità supera se stessa. Sembra che si denudi solo per accentuare lo sgomento degli uomini incastrati fra le pietraie e la canicola. Le rare strie di verde, che ardiscono manifestarsi qua e là, non promettono nessuna fioritura; le erbe disseccate si sbriciolano al minimo stormire. Gigantesche idre disidratate, i fiumi languono nei loro letti sfatti, potendo offrire agli dèi dell'insolazione solo le loro viscere pietrificate. Cosa viene a cercare in mezzo a queste tombe grottesche, ai piedi di queste montagne taciturne?...
Il grosso 4x4 sbuca al cimitero con un'impressionante nube di polvere alle calcagna. Qassim da un'occhiata al giovane avvilito che vaga in mezzo ai morti. È lo stesso tizio che  aveva intravisto la mattina, quando correva verso il villaggio natio. Per un attimo lo squadra ben bene, chiedendosi cosa mai potesse trattenerlo, tutto il giorno, in un cimitero deserto e sotto un sole di piombo.
Il conducente si rilassa e alza il piede dall'acceleratore, mentre affronta i primi vicoli della città. La vista dei gruppoli di vecchi ammonticchiati all'ombra delle palizzate e delle sfilze di mocciosi lo rinfranca. È contento di tornare a casa.
«Per essere una gita, è stata una vera gita» ammette salutando con la mano qualcuno di sua conoscenza in mezzo alla calca. «Ore e ore a spaccarsi la schiena sulle gobbe della strada e a inghiottire schifezze di ogni genere.»
«Smettila di frignare» impreca Qassim.
«Quando avrò spento il motore, non prima» s'impunta l'autista facendo una smorfia ridicola. «Che si fa? Ti deposito a casa tua?»
«Non subito. Ho bisogno di rinfrescarmi le idee. Visto che non smetti di rompermi i timpani con il tuo digiuno forzato, che ne diresti di andare a smangiucchiare degli spiedini da Khorsan? Invito io.»
«Ti avverto che mangio per quattro.»
«Non mi fa paura.»
«Sei un principe generoso, padrone. Grazie a te, mi abbufferò fino a scoppiare.»
La taverna di Khorsan si trova all'angolo di una piazza devastata, di fronte a una stazione delle corriere. Il fumo del barbecue contende i rari refoli d'aria della piazzetta ai tornado che i veicoli sollevano al loro passaggio. Pochi clienti, fra cui Atiq il carceriere, occupano i rudimentali tavolacci affiancati sotto una volta di vimini; indifferenti al sole e alle squadriglie di mosche, reagiscono solo per respingere i monelli affamati, stuzzicati dall'odore della carne ai ferri. Il ventre sulle ginocchia e la barba fino all'ombelico, Khorsan ravviva la brace con un ventaglio. Con l'altra mano rivolta i quarti di carne sul fuoco e si lecca i baffi, quando verifica che la carne è cotta a puntino. Il 4x4 che si ferma di fronte a lui non lo distrae minimamente. Rivolge solo il ventaglio verso la polvere che l'avvolge tutto, senza perdere di vista le cotolette che sfrigolano. Qassim gli mostra quattro dita sedendosi su una panca tarlata; Khorsan registra l'ordinazione con un cenno del capo e prosegue meticolosamente il suo rituale.
Atiq consulta l'orologio. La sua impazienza è evidente, ma è soprattutto l'arrivo di Qassim Abdul Jabbar ad accentuare il suo nervosismo. Cosa penserà sorprendendolo lì, in una taverna a due passi da casa? Incassa il collo nelle spalle e s'imbosca dietro la mano finché un cameriere non gli porta un enorme sandwich avvolto in carta da pacchi. Atiq lo fa scivolare in una busta di plastica, deposita alcune banconote sul tavolo e batte in ritirata senza aspettare il resto. Proprio quando crede di essersi tratto d'impaccio, lo raggiunge la mano di Qassim.
«È da me che scappi, Atiq?»
Il carceriere finge di cascare dalle nuvole.
«Già di ritorno?»
«Perché te ne vai così, all'inglese? Ti ho fatto qualcosa?»
«Non ti seguo.»
Qassim scrolla la testa, deluso: «Vuoi che te lo dica, Atiq? Non ti comporti bene. No, per favore, non è il caso di protestare. Non è necessario, ti assicuro. Non ti sto facendo la predica. Solo che, ecco, ti trovo molto cambiato negli ultimi tempi, e questo mi dispiace. Di solito, mi faccio gli affari miei, e tuttavia non riesco a fregarmene. Forse è a causa dei lunghi anni passati insieme, qualche volta nella buona, più spesso nella cattiva sorte. Non ci tengo a immischiarmi in cose che non mi riguardano, però nulla m'impedisce di farti notare che, a furia di rinchiuderti a doppia mandata nelle tue preoccupazioni, finirai per non uscirne più».
«Non è niente. Ogni tanto mi prende la malinconia, tutto qua.»
Qassim non gli crede e neppure lo nasconde. Si china verso di lui. «Hai bisogno di soldi?»
«Non so che farmene.»
Il miliziano si gratta la fronte per riflettere. Propone: «Perché non vieni a trovarci, la sera, da Haji Palwan? Saremo tra amici. Si beve té, si chiacchiera, si parla di eserciti e scaramucce e si ride dei guai di un tempo. Ti farà bene, te lo prometto. Saremo in compagnia, molto rilassati. Se hai qualche progetto, lo discuteremo insieme per trovare dei soci e darci da fare subito dopo. Organizzare un affare non è difficile. Un po' d'immaginazione, uno straccio di motivazione e la locomotiva è pronta sui binari. Se non hai soldi, te li presteremo e ce li restituirai dopo».
«Non si tratta di soldi» dichiara stancamente Atiq. «È un miraggio che non mi abbaglia.»
«Nemmeno t'illumina, a quel che vedo.»
«Il buio non mi dispiace.»
«È da vedere. Per parte mia, ci tengo solo a dirti che non c'è niente di male ad andare a trovare, ogni tanto, un amico quando non si sta bene.»
«Ti manda Mirza Shah?»
«Lo vedi? Ti sbagli su tutta la linea. Non ho bisogno di Mirza Shah per tendere la mano a un collega che stimo.»
Atiq osserva la sua busta, sporgendo le ossa della nuca. Con la punta del piede, dissotterra un sasso e inizia a scavare una buca nella polvere.
«Posso andarmene?» chiede con voce strozzata.
«Ma certo, che idea!»
Atiq lo ringrazia con un cenno del capo e se ne va.
«C'era un erudito a Jalalabad» gli racconta d'improvviso Qassim seguendolo passo passo. «Un sapiente fuori del comune. Aveva una risposta per tutto. Non gli sfuggiva nessun riferimento libresco. Conosceva a memoria gli hadit certificati, i grandi eventi che hanno segnato la storia dell'islam dall'Oriente fino all'estremo Occidente. Era un uomo allucinante. Se fosse vissuto fino ai nostri giorni, credo che sarebbe finito impiccato oppure decapitato, tanto il suo sapere oltrepassava il comune intendimento. Un bel giorno, mentre faceva lezione, qualcuno gli ha bisbigliato qualcosa all'orecchio. L'illustre erudito è diventato grigio di colpo. Il rosario gli è scivolato dalle dita. Senza dire una parola, si è alzato e ha abbandonato la stanza. Nessuno l'ha più rivisto.»
Atiq inarca un sopracciglio. «Cosa gli hanno bisbigliato all'orecchio?» dice, sulla difensiva.
«La storia non lo dice.»
«E la morale della storia?»
«Possiamo sapere tutto della vita e degli uomini, ma cosa sappiamo davvero di noi stessi? Mio buon Atiq, non complicarti troppo la vita. Non indovinerai mai cosa ti riserva. Smettila di riempirti la testa di idee fasulle, questioni inspiegabili e ragionamenti inutili. Avere una risposta per tutto non ti mette al riparo da ciò che il domani tace. L'erudito sapeva molte cose, ma ignorava l'essenziale. Vivere è anzitutto tenersi pronti a che il cielo ci cada sulla testa. Se parti dal principio che l'esistenza è solo una prova, sei preparato ad affrontare le pene e le sorprese che ti riserva. Se continui ad aspettarti da lei quel che non può darti, è la prova che non hai capito nulla. Prendi le cose come vengono, non farne un dramma e non farla tanto lunga; non sei tu a condurre la barca, ma il corso del tuo destino. Ieri è morta mia madre. Oggi sono andato a raccogliermi sulla sua tomba. Adesso sono da Khorsan a mangiare un boccone. Stasera prevedo di andare da Haji Palwan a tastare il polso agli amici. Se nel frattempo mi capita qualcosa, non è la fine del mondo. Non vi è amore più infelice dello sguardo che ci si scambia in una stazione quando i due treni partono per opposte direzioni.»
Atiq si ferma, la nuca sempre china. riflette per un attimo, poi, sollevando il mento, chiede: «Si vede proprio che me la passo male?».
«Se vuoi la mia opinione, salta agli occhi.»
Atiq scrolla la testa prima di allontanarsi.
Addolorato, Qassim lo guarda andarsene, poi si gratta sotto il turbante e va a raggiungere il suo conducente nella taverna.
La vita è solo inesorabile consunzione, pensa Mussarat. Ci si può prendere cura di sé oppure lasciarsi andare, non cambia nulla. La caratteristica di ogni nascita è di essere votata alla morte, è la regola. Se il corpo potesse fare di testa sua, gli uomini vivrebbero mille anni. Ma non sempre la volontà ha modo di realizzare i propri proponimenti, e la lucidità del vecchio non saprebbe indurre le sue ginocchia a essere più salde. La tragedia principale degli uomini deriva dal fatto che nessuno può sopravvivere ai suoi voti più ferventi, che sono per di più la causa prima della sua sventura. Il mondo non è forse il fallimento dei mortali, la mostruosa dimostrazione della loro inconsistenza? Mussarat ha deciso di non sottrarsi all'evidenza. Velarsi gli occhi non serve a niente. Ha lottato contro il male che la rode, si è rifiutata di darsi per vinta. Adesso, è ora di risparmiarsi e di affidarsi ai destino, perché è l'unica cosa che rimane quando si è tentato tutto. Le dispiace solo di dover cedere a un'età in cui i miraggi non sono irraggiungibili. A quarantacinque anni, si ha ancora la vita davanti a sé, più sfumata, più misurata; i sogni non sono più deliranti, gli slanci sereni e il corpo, quando gli artigli del desiderio lo strappano all'indolenza, freme con tale discernimento che quel che i piaceri perdono in freschezza lo recuperano in intensità. La quarantina è un'età della ragione, una carta in più per venire a patti con le sfide che ci attendono. Troppo forte è la convinzione per dubitare un solo secondo del suo successo. Mussarat non dubita. Solo che la sua convinzione non la porterà a nessun successo. Non ci sarà alcun miracolo. E questo l'affligge. Ma non troppo; è inutile, quasi grottesco, in ogni caso blasfemo. Certo, le sarebbe piaciuto farsi bella, sottolineare le ciglia con il rimmel e sgranare gli occhi per non perdere nulla di quelli di Atiq. Ma adesso non è più possibile. A quarantacinque anni, si fa fatica ad ammetterlo. Ahimè, far fatica non esime da granché. Il riflesso che le rimanda lo specchietto sbreccato è senza appello; si sta putrefacendo più velocemente delle sue preghiere. Il suo viso è solo un cranio scarnificato, con le guance solcate dalle rughe e le labbra rientranti. Il suo sguardo ha già un lucore d'oltretomba, vitreo, glaciale; una scheggia di vetro incagliatasi in fondo alle sue pupille. E le mani, Dio mio, ossute, ricoperte di una pelle sottile e opaca, sgualcite come fossero di carta, impacciate nel riconoscere gli oggetti al tatto. Questa mattina, quando ha finito di pettinarsi, una manciata di capelli le è rimasta tra le dita. Come si possono perdere tanti capelli in così poco tempo? Li ha arrotolati intorno a un legnetto e li ha nascosti in una crepa del muro, poi si è lasciata scivolare a terra, la testa fra le mani e ha aspettato che una lacrima venisse a riportarla in sé. Non vedendo arrivare nulla, si è trascinata carponi fino al pagliericcio. Lì, seduta alla turca, si è messa faccia al muro per un'ora. Avrebbe continuato a voltare le spalle al patio per tutta la giornata se le forze non le fossero venute meno. Vinta dalla propria testardaggine, si è stesa a terra e si è subito addormentata, la bocca aperta in un lungo gemito.
Trovandola sdraiata a terra, Atiq ha subito pensato al peggio. Curiosamente, la busta non gli  è sfuggita di mano e il respiro non gli si è spezzato. È rimasto in piedi nel vano della porta, un sopracciglio più alto dell'altro e si è imposto di non far rumore. Per lunghi minuti ha osservato il corpo, la mano rivolta al soffitto, le dita contratte, la bocca aperta, il torace in tensione, alla ricerca di un segno di vita. Mussarat non ha mosso un capello. Sembra proprio morta. Atiq ha deposto la busta sopra un tavolino, poi, deglutendo, si è accostato al corpo inerte della moglie. Si è inginocchiato con mille precauzioni; proprio quando si è chinato sulla mano esangue per tastarle il polso, un sospiro l'ha rigettato indietro. Il pomo d'Adamo ha preso ad agitarsi rabbiosamente. Ha teso l'udito, sospettando un banale fruscio, e ha accostato l'orecchio al volto impenetrabile. Un respiro flebile gli ha sfiorato nuovamente la guancia. Ha stretto le labbra per reprimere la collera, raddrizzato il busto e, gli occhi e i pugni chiusi, è indietreggiato fino al muro per mettersi a sedere. Le mascelle contratte e le braccia rigidamente incrociate sul ventre, ha fissato il corpo steso ai suoi piedi come se volesse trapassarlo con lo sguardo.


CAPITOLO 10


Mohsen Ramat non ne può più. Le interminabili giornate che trascorre regolarmente al cimitero non fanno che aggravare il suo smarrimento. Ha un bel vagare in mezzo alle tombe, non riesce a rimettere ordine nelle sue idee. Le cose gli sfuggono a velocità vertiginosa; non ritrova più le proprie orme. Lungi dall'aiutarlo a concentrarsi, il suo isolamento lo rende fragile, accentua il suo malessere. Ogni tanto, il folle desiderio di afferrare una spranga e devastare ogni cosa intorno a sé dilaga per tutto il suo essere; stranamente, non appena si prende la testa fra le mani, il suo furore si tramuta nell'irresistibile bisogno di scoppiare a singhiozzare e allora si abbandona alla propria prostrazione, i denti stretti e le palpebre sigillate. Sente che sta per impazzire.
Da quell'alterco per le vie di Kabul, non distingue più il giorno dalla notte. Qualcosa d'irreversibile ha segnato quella maledetta passeggiata. Se solo avesse ascoltato sua moglie! Come ha potuto credere che gli innamorati potessero ancora passeggiare in una città che sembra un cronicario, infestata da arcigni energumeni, dallo sguardo buio come la notte dei tempi? Come ha potuto perdere di vista gli orrori che costellano quotidianamente  una nazione sbeffeggiata al  punto che lo scudiscio ne è diventato la lingua ufficiale? Non avrebbe dovuto cullarsi nelle illusioni. Stavolta, Zunaira rifiuta di passarvi sopra. Ce l'ha con lui, non sopporta la sua vista, tanto meno la sua voce. «Per l'amor del cielo,» l'ha implorata «non complicare le cose fra di noi.» Zunaira lo ha squadrato, lo sguardo torvo dietro la maschera graticciata. Il petto le si è sollevato in una risacca d'indignazione. Ha cercato le parole più dure, più cattive, per dirgli quanto soffra a causa di quel che lui ormai rappresenta per lei, quanto non riesca a dissociarlo dagli sbirri inturbantati che hanno trasformato le strade in arene e le giornate in agonia, quanto la vicinanza di un uomo le ripugni e l'opprima nello stesso tempo. Non trovando parole così virulente da tradurre il suo livore e il suo tormento, si è chiusa in una stanza e si è messa a urlare come una forsennata. Terrorizzato dagli ululati assordanti della moglie, Mohsen si è affrettato a uscire di casa. Di corsa. Se la terra si fosse spalancata sotto i suoi piedi, non avrebbe esitato a lasciare che si richiudesse sopra di lui. Era orribile. Le urla di Zunaira si propagavano per il quartiere, richiamavano capannelli di vicini, lo braccavano come uno stormo di rapaci scatenati. Gli girava la testa. Sembrava la fine del mondo.
Zunaira non è più la donna di un tempo; quella che, coraggiosa e vigile, lo aiutava a tener duro e a rialzarsi ogni volta che cedeva. La creatura che ha deciso di non sbarazzarsi più del suo burqa è sprofondata deliberatamente in un mondo abominevole, dal quale non sembra prossima a emergere. Dal mattino fino a notte fonda, gira per casa, ostinatamente imbacuccata nel suo velo di sventura, che non abbandona nemmeno per dormire. «Il tuo volto è l'ultimo sole che mi resta» le ha confessato. «Non confiscarmelo...» «Non vi è sole che resista alla notte» lei gli ha ritorto contro, sistemandosi significativamente il cappuccio. Dall'affronto subito l'altro giorno, non se lo toglie più. È diventato la sua fortezza e la sua diserzione, la sua bandiera e la sua abiura. Per Mohsen è una vera barriera che s'innalza fra lui e lei, il simbolo della dolorosa frattura che minaccia di dividerli. Negandosi al suo sguardo, lei si sottrae al suo mondo, lo rinnega da cima a fondo. Questa intransigenza lo destabilizza. Ha cercato di capire, ma non c'era nulla da capire. Zunaira si rende conto dei suoi eccessi? In ogni caso, sembra prenderli grottescamente sul serio. Quando cerca di avvicinarsi, lei indietreggia, le braccia protese per tenerlo a distanza. Mohsen non insiste. A sua volta, alza le mani in segno di resa ed esce in strada, la schiena curva sotto un peso mortale.
Dieci giorni!
Sono dieci giorni che il malinteso consolida i suoi bastioni.
Dieci giorni da vivere in un delirio comicamente crudele, in una totale infermità.
«Non si può andare avanti così» si ripete Mohsen ogni volta che torna a casa. A chi lo dice? Zunaira non cede di un millimetro, non solleva di un dito la sua cappa. Il dolore del marito non la commuove; anzi, la inasprisce. Non sopporta più il suo sguardo da cane bastonato né la sua voce salmodiante. Non appena riconosce il suo passo nel cortile, smette quello che sta facendo e si precipita nella stanza accanto. Mohsen contrae le mascelle per contenere gli assalti del suo furore, poi, battendo le mani, torna sui propri passi.
Stasera, ha diritto alla stessa accoglienza. Ha appena spinto la porta del patio che la vede attraversare la sala e sparire dietro la tenda della camera, furtiva come un'allucinazione. Tutto il suo essere vibra per alcuni istanti; non è più il caso di andarsene sbattendo la porta. Le sue intempestive partenze non l'hanno fatto avanzare di molto. Al contrario, hanno  a allargato il fossato che lo separa dalla moglie. È ora di andare a fondo della questione, pensa. È un momento che teme, per via della caparbietà di una Zunaira sbrigativa e imprevedibile, ma non può prolungare oltre una situazione che si va sempre più deteriorando.
Respira profondamente e raggiunge la moglie in camera.
Zunaira è seduta sul pagliericcio, la schiena dritta. S'intuisce che è compressa come una molla, pronta a balzare sulle gambe. Mohsen non l'ha mai vista in quello stato. Il suo mutismo è gravido di tempesta. Quando tace a quel modo, Zunaira diventa impossibile da decifrare, il che rende ogni approccio problematico, per non dire rischioso. Mohsen ha paura. Tremendamente paura. Sembra un artificiere intento a disinnescare una bomba, sicuro che la sua vita è appesa a un filo. Zunaira è sempre stata difficile. È una persona scorticata, che detesta subire e perdona raramente. Forse è per questo che la teme, perdendo il proprio sangue freddo non appena lei aggrotta le ciglia. Il momento è decisivo. Mohsen trema, e tuttavia non ha scelta. Spia un segno, un minuscolo segno in grado d'ispirargli un barlume di fiducia. Niente. Zunaira non si muove. Dietro il suo contegno da sfinge, Mohsen sente che qualcosa cresce dentro di lei, come se nelle sue viscere ribollisse la lava in attesa di schizzar fuori all'improvviso, violenta come un geyser. Sebbene il suo viso sia nascosto dal velo, lui è convinto che lo guardi con odio. «Cosa mi rimproveri, esattamente?» esclama sfinito. «Di non aver messo al suo posto quell'imbecille di talebano? Cosa potevo fargli? Loro sono la legge. Hanno diritto di vita e di morte su tutto quel che si muove. Credi che i loro modi di fare mi lascino indifferente? Disgusterebbero una bestia da soma. Quando penso che quel cane di un miliziano non meriterebbe neppure di baciare le orme dei tuoi passi nella polvere. Sono perfettamente cosciente dell'abiezione che sgretola i rari sussulti d'orgoglio che non riesco a esternare, ma, per la memoria dei nostri morti, dimmi, cosa potevo fare, Zunaira?»
S'inginocchia di fronte a lei, concitato, sgomento, cerca di prenderle la mano. Lei si getta indietro e si rannicchia nel suo sudario.
«È ridicolo» borbotta Mohsen. «Completamente ridicolo. Mi tratti come se fossi un appestato... Non mi voltare le spalle, Zunaira. È come se l'universo intero mi tenesse il broncio. Ho solo te. Guarda come t'implorano le mie mani, come sono perduto senza di te. Sei il solo ormeggio che ancora mi tenga legato a questo mondo.»
Le lacrime gli gonfiano le palpebre. Non capisce come siano riuscite a ingannare la sua vigilanza e a scorrergli sulle guance di fronte a Zunaira... Zunaira che detesta vedere gli uomini piangere.
«Sto malissimo» si scusa. «Improvvisamente ho paura dei miei pensieri. Devo tornare in me, Zunaira. Il tuo atteggiamento è un incubo. Non so cosa fare dei miei giorni, né delle mie notti. Sei la mia unica ragione di vita, se vivere ha ancora un senso in questo paese.»
Cerca nuovamente di afferrarle il polso.
Zunaira getta un grido e si alza, ansimante.
«Ti ho detto cento volte di non toccarmi.»
«Cos'è questa storia? Sono tuo marito...»
«Dimostralo.»
«Non ha senso. Insomma, dove vuoi arrivare?»
Zunaira si strappa dal muro per ergersi contro di lui, quasi lo sfiora con la punta del naso. La sua collera è tale che il velo sobbalza sotto il respiro incontrollato.
«Non voglio vederti mai più, Mohsen Ramat!»
Una deflagrazione non l'avrebbe scosso fino a quel punto. Mohsen è stordito dalle parole della moglie. Dapprima incredulo, impiega qualche istante per comprendere quel che ha appena udito. Il pomo d'Adamo impazzisce nella sua gola. Batte le mani, gira sui talloni. Nella stanza, il respiro dell'uno si avvinghia al respiro dell'altra in un ronzio sovrannaturale. Improvvisamente, Mohsen emette un rantolo incongruo e sferra un pugno contro le imposte della finestra, così forte da rompersi il polso.
Sfigurato dal dolore, torna a fronteggiare la moglie e la minaccia: «Ti proibisco di parlarmi a questo modo, Zunaira. Non ne hai il diritto. Mi stai ascoltando?» urla afferrandola alla gola e scuotendola. «Te lo proibisco, categoricamente.»
Imperturbabile, Zunaira scioglie le dita che le stritolano il collo.
«Non voglio vederti mai più, Mohsen Ramat» martella, scandendo le parole.
Preso dal panico, Mohsen si asciuga le mani madide lungo i fianchi, come per cancellare le tracce della propria brutalità, si guarda intorno, poi, considerando che la situazione sta degenerando, si porta le mani alle tempie e cerca di calmarsi.
«D'accordo» concede. «Forse stasera sono rientrato troppo presto. Tornerò da dove sono venuto. Se vuoi, posso passare la notte fuori. Bisogna assolutamente dare una possibilità alla riconciliazione... Zunaira, io ti amo. Ecco, non trovo parole più ragionevoli. Quello che hai appena detto è sicuramente la più atroce dichiarazione che abbia mai udito. Detta da te, ha l'impatto di una terribile bestemmia. Adesso vedo quanto sia necessario che ti lasci tranquilla. Tornerò domani, oppure fra due giorni. Non so come farò a tener duro fino a quel momento, ma ci riuscirò. Per salvare il nostro matrimonio sono disposto a tutto. Cerca anche tu di fare altrettanto. Ti amo. Qualunque cosa succeda, voglio che tu lo sappia. È molto importante. Non c'è nulla di più importante.»
Zunaira non cede. Sotto il velo, le sue labbra si muovono insidiosamente. Mohsen le mette la mano alla bocca. «Non una parola di più. Hai detto abbastanza per oggi. Lasciami sperare che si tratti solo di un brutto momento, che domani tutto tornerà come prima.»
Zunaira indietreggia per liberarsi della mano del marito.
«Credo che tu non abbia capito bene» dice. «Non voglio vederti mai più, Mohsen. Non sono parole dette a vanvera, e i giorni a venire non le renderanno più giudiziose. Esci dalla mia vita e non tornare in questa casa. Altrimenti, sarò io ad andarmene.»
«Ma perché?» si ribella Mohsen strappandosi la camicia in un gesto di stizza e denudandosi il petto macilento, di un pallore malaticcio. «Dimmi quale grande errore ho mai commesso per meritare la sorte che si accanisce contro di me!»
«È finita, Mohsen... Eppure è così semplice: fra di noi, tutto è finito. La sola cosa che voglio è che tu te ne vada per sempre.»
Mohsen scuote la testa.
«Non è vero. Rifiuto di accettarlo.»
«Mi dispiace.»
Fa per andarsene. Lui la trattiene per il braccio e l'attira violentemente a sé.
«Sono ancora tuo marito, Zunaira Ramat! Non ho ritenuto necessario ricordartelo, ma, visto che insisti, farò violenza a me stesso. Qui, comando io. Non è nelle nostre tradizioni che una moglie ripudi il marito. Non si è mai visto. E io non lo permetterò. Da dieci giorni, cerco di fare la mia parte, sperando che tu rinsavisca. A quanto pare, non ci tieni a rinsavire, e io ne ho abbastanza.»
Con uno strattone, lei si strappa dalla sua morsa.
Lui la riacciuffa, le torce il polso e la costringe a guardarlo in faccia.
«Inizierai subito togliendoti questo fottuto burqa.»
«Neanche a parlarne, visto che la sharia di questo paese lo esige.»
«Te lo togli, e subito.»
«Prima chiedi il permesso ai talebani. Dai, fammi vedere di che pasta sei fatto. Valli a trovare, intima loro di abrogare la loro legge e ti prometto che un minuto dopo mi toglierò il velo. Perché stai qui ad angariarmi, a fare il duro, invece di andare a tirar loro le orecchie finché non odono chiaramente la voce del Signore? Visto che sei mio marito, va' da quel miserabile bastardo che ha osato alzare la mano su tua moglie e mozzagli il polso. Vuoi vedere il mio volto, l'ultimo sole che ti resta? Dimostrami, allora, che si è fatto giorno e la notte dell'infamia è solo un brutto sogno frutto di un lontano ricordo.»
Mohsen le stropiccia il velo, si sforza di sollevarlo. Zunaira si contorce in tutti i modi per impedirglielo. Una lotta accanita li oppone. Agli ansiti seguono i gemiti e le imprecazioni. Zunaira si avvinghia al suo burqa, nonostante il dolore causatole dalle numerose, frenetiche artigliate che l'attanagliano. Visto che suo marito non molla la presa, lei gli morde la spalla, il braccio, il petto, senza riuscire a scoraggiarlo. Al culmine della disperazione, lo morde selvaggiamente al viso. Sorpreso, Mohsen indietreggia per il morso che gli ha inciso lo zigomo. Un fiotto di dolore gli inonda le pupille accecandolo; le sue narici fremono di rabbia. La mano, irrefrenabile, descrive una curva folgorante e si abbatte sulla guancia della moglie che, stordita, stramazza a terra.
Orripilato dal proprio gesto, Mohsen si guarda la mano. Come ha osato? Non ricorda di aver mai alzato il mignolo su di lei. Mai si è creduto capace di apostrofarla o rimproverarle alcunché. Si guarda la mano come se non la riconoscesse. «Cosa ci sta succedendo?» farfuglia. Letteralmente sconvolto, si accovaccia di fronte alla moglie tremando come una foglia.
«Perdonami. Non volevo...»
Zunaira lo respinge, riesce ad alzarsi e barcolla verso la sala.
Lui la segue, supplicandola.
«Sei solo un volgare cafone e non sei migliore di quei pazzi furiosi che si pavoneggiano per strada.»
«Perdonami.»
«Non potrei nemmeno se lo volessi.»
Lui le afferra il braccio. Lei si volta di scatto, raccoglie le ultime forze e lo scaraventa contro il muro. Mohsen incespica in una caraffa e cade all'indietro. La testa urta una sporgenza della parete prima di picchiare violentemente contro il pavimento.
Tornata in sé, Zunaira si accorge che il marito non si muove. La nuca storta in modo bizzarro, giace a terra, gli occhi sgranati e la bocca spalancata. Sul viso livido, si è diffusa una strana serenità, appena alterata dal rivolo di sangue che fuoriesce da una narice.
«Oh! Mio Dio!» esclama.


CAPITOLO 11


«Qassim Abdul Jabbar ti prega di non abbandonare il tuo posto oggi» dice il miliziano. «C'è un nuovo arrivo per te.»
Atiq, seduto su uno sgabello all'ingresso della prigione, alza le spalle senza togliere lo sguardo dai camion carichi di guerrieri che stanno lasciando la città in un'agitazione indescrivibile. Lo sbraitare dei conducenti e i colpi di clacson fendono la folla come un rompighiaccio mentre, eccitati dalla confusione generata dal convoglio, dei monelli corrono strillando da ogni parte. La notizia è arrivata stamattina: le truppe del comandante Massud sono cadute in un'imboscata e Kabul invia rinforzi per annientarle.
Anche il miliziano guarda i mezzi militari attraversare il quartiere alla velocità del vento, una tempesta di polvere alle calcagna. Con la mano nerastra per le cicatrici tritura istintivamente la culatta del fucile. Si volta per sputare e impreca: «Stavolta si fa sul serio. A quanto pare, abbiamo perso molti uomini, ma quel rinnegato di Massud farà la fine del topo. Non rivedrà più il suo maledetto Panshir».
Atiq raccoglie un bicchiere di té ai suoi piedi e se lo porta alla bocca. Chiude un occhio per via del sole, squadra il miliziano prima di brontolare: «Spero che il tuo Qassim non mi farà aspettare tutto il giorno. Ho un sacco di cose da fare, io».
«Non mi ha detto a che ora verrà. Al tuo posto, non mi muoverei di qui. Sai com'è fatto.»
«Non so com'è fatto, e non ci tengo a saperlo.»
Il miliziano corruga la fronte, che ha larga e prominente. Osserva il carceriere con aria infastidita: «Non stai bene, stamattina».
Atiq posa il bicchiere, le labbra imbronciate. La presenza del miliziano lo esaspera. Non capisce perché non se ne vada, ora che gli ha trasmesso il suo messaggio. Lo fissa per un attimo, nota che ha un profilo ributtante con quella barba arruffata, il naso schiacciato e gli occhi cisposi dallo sguardo ebete.
«Se vuoi, me ne vado» dice il miliziano come se leggesse nei pensieri della guardia carceraria. «Non mi piace disturbare la gente.»
Atiq trattiene un sospiro e si volta. Gli ultimi mezzi militari sono passati. Per qualche minuto ancora li si sente rombare dietro le macerie, poi il silenzio si addensa, attenuando il baccano della marmaglia. La polvere continua a fluttuare per aria, velando un lembo di cielo, dove staziona immobile un branco di nuvole di un desolante biancore. Laggiù, dietro le montagne, si ha l'impressione di udire delle deflagrazioni, che l'eco falsifica a modo suo. Da due giorni," eruttano tiri sporadici nell'indifferenza generale. A Kabul, in particolare al mercato e nei bazar, il bailamme delle speculazioni coprirebbe il coro delle battaglie più aspre. Le mazzette di banconote si vendono all'asta, per uno sbalzo d'umore si fanno e si disfano fortune, la gente ha occhi solo per il guadagno e l'investimento; quanto alle notizie dal fronte, le si ascolta di nascosto, come per dar brio agli affari. Atiq non ne può più. A sua volta, inizia a chiedersi seriamente se non sia il caso di seguire le orme di Zanish. Quel povero diavolo ha finito per decidersi; un bel mattino ha preso baracca e burattini e si è volatilizzato, senza una parola ai figli che l'hanno cercato per una settimana. Alcuni pastori hanno dichiarato di aver visto il vecchio sulle montagne, ma nessuno li ha presi sul serio. Alla sua età, Zanish sarebbe incapace di affrontare la più modesta delle colline dei dintorni, soprattutto con un caldo del genere. Eppure, Atiq è convinto che l'ex mullah si sia davvero avventurato fra le montagne, se non altro per dimostrare a lui, carceriere crudele e sardonico, che aveva torto a seppellirlo prima del tempo.
Il miliziano si accovaccia bruscamente per impossessarsi del bicchiere del guardiano.
«Sei simpatico» dice. «Non so cos'hai in questi ultimi tempi, ma non fa niente, non te ne vorrò se mi mandi via.»
«Non ti mando via» sospira Atiq mentre, disgustato, lo guarda bere dal suo bicchiere. «Sei tu che parli di andare via.»
Il miliziano annuisce. Accoccolato, si addossa al muro e si rimette a maneggiare il suo kalashnikov.
«Che fine ha fatto Qaab?» gli chiede Atiq dopo un lungo silenzio. «Sono lustri che non lo vedo.»
«Qaab, chi? Quello dei blindati?»
«E chi, se no?»
Il miliziano si volta verso il guardiano, inarcando le sopracciglia.
«Non vorrai farmi credere di non saperne nulla?»
«Sapere cosa?»
«Qaab è morto, dai, da più di due anni.»
«È morto?»
«Basta, Atiq. Siamo stati tutti al suo funerale.»
Il guardiano abbozza una smorfia, si gratta una tempia, poi, sapendone quanto prima, scuote la barba, imbarazzato.
«Come mai l'ho dimenticato?»
Il miliziano lo spia con la coda dell'occhio, sempre più incuriosito.
«Non ti ricordi?»
«No.»
«Strano.»
Atìq recupera il bicchiere, si accorge che è vuoto. Lo contempla con aria assorta e lo ripone sotto lo sgabello.
«Com'è morto?»
«Non mi starai prendendo in giro, vero, Atiq Shaukat?»
«Ti assicuro che sono serio.»
«Il suo carro armato è esploso durante un'esercitazione di tiro. La carica della granata era difettosa. Invece di attenersi alle misure di sicurezza e osservare il minuto di attesa regolamentare, ha proceduto immediatamente all'espulsione della granata, che è esplosa dentro la torretta. Il carro armato si è sparpagliato in un raggio di cinquanta metri.»
«Il corpo di Qaab è stato ritrovato?»
Il miliziano picchia a terra il calcio del fucile e si rialza, sicuro che il carceriere lo prenda in giro.
«Non stai bene, tu, oggi. In tutta franchezza, non stai bene proprio per niente.»
Al che, sputa per terra e si allontana biascicando imprecazioni.
Qassim Abdul Jabbar arriva nel tardo pomeriggio a bordo di un furgone scassato. Le due miliziane che l'accompagnano afferrano la prigioniera e la spingono brutalmente dentro l'edificio. Atiq chiude a doppia mandata la sua nuova pensionante in una fetida cella in fondo al corridoio. La testa altrove e il gesto meccanico, non sembra rendersi conto di quel che capita intorno a lui. Qassim l'osserva in silenzio, a braccia conserte, lo sguardo intenso dall'alto della sua statura da lottatore. Quando le due miliziane hanno raggiunto il furgone, lo provoca: «Almeno avrai compagnia».
«Altroché!»
«Non vuoi sapere cos'ha combinato?»
«A che mi serve?»
«Ha ammazzato il marito.»
«Sono cose che capitano.»
Qassim intuisce il crescente disgusto del carceriere. La cosa lo esaspera più che mai, ma resiste alla tentazione di rimetterlo in riga. Si liscia la barba con aria assorta e, voltandosi verso il fondo del corridoio, aggiunge: «Resterà un po' di più delle altre».
«Perché?» chiede Atiq, seccato.
«Per la grande manifestazione che si terrà venerdì allo stadio. Sono attesi ospiti di alto rango. Le autorità hanno deciso di eseguire pubblicamente una decina di condanne per creare l'atmosfera. La tua pensionante sarà della partita. All'inizio, i capi volevano fucilarla subito. Poi, visto che nessuna donna era in programma per venerdì, le hanno concesso un rinvio di cinque giorni.»
Atiq scrolla la testa, per niente convinto.
Qassim gli mette una mano sulla spalla.
«Noi ti abbiamo aspettato l'altra sera, da Haji Palwan.»
«Ho avuto un contrattempo.»
«Anche le sere successive.»
Atiq preferisce battere in ritirata. Si ritira nello stambugio che funge da ufficio. Qassim esita un momento prima di andargli dietro.
«Hai riflettuto sulle mie proposte?»
«Dovrei avere una testa per riflettere su qualcosa.»
«Sei tu che rifiuti di rialzarla. Le cose sono chiare. Basta solo guardarle in faccia.»
«Tì prego, Qassim, non ho voglia di tornare sull'argomento.»
«D'accordo» si scusa Abdul Jabbar portando le mani al petto, «ritiro quanto ho detto. Ma, per l'amor del cielo, sbrigati a toglierci di torno questa faccia da funerale.»


CAPITOLO 12


Atiq Shaukat non ha capito subito. Qualcosa è scattato in lui e un soffio tetanizzante l'ha attraversato dalla testa ai piedi, come se una doccia gelata si fosse riversata sul suo corpo. Il tegame gli sfugge di mano e si schianta per terra, spandendo palline di riso nella polvere. Per tre o quattro secondi pensa di avere un'allucinazione. Stordito dall'apparizione che l'ha colpito in pieno, torna nel suo stambugio per cercare di riprendere i sensi. La luce della finestra lo aggredisce, gli schiamazzi dei bambini, che si fanno la guerra lì fuori, lo disorientano; si lascia cadere sulla branda e, le dita contro le tempie, maledice più volte il Demonio per respingere le influenze malefiche.
«Dio è misericordioso!»
Dopo aver recuperato parte della propria lucidità, torna nel corridoio per cercare il tegame, recuperare il coperchio che è rotolato più lontano e raccogliere i grumi di riso sparsi a terra. Mentre continua a ripulire il pavimento, alza cautamente gli occhi sulle sbarre chiuse col lucchetto, sull'abbaino che incombe sull'alveolo come un uccello del malaugurio, si attarda sul debole, anemico lume che agonizza sul soffitto, poi, preso il coraggio a due mani, torna verso la cella e lì, nel bel mezzo della gabbia, l'incantevole visione!... La prigioniera  ha sollevato il burqa. Seduta a gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia e le mani giunte sotto il mento, prega. Atiq è sbalordito. In vita sua, non ha mai visto una simile meraviglia. La detenuta è di una bellezza inaudita, con un profilo da dea, i lunghi capelli sciolti lungo la schiena e gli occhi immensi, simili a orizzonti. Sembra di assistere al sorgere dell'aurora nel cuore stesso di quella cella fetida, sordida e funesta.
Tranne quello di sua moglie, è da parecchi anni che Atiq non vede il viso di una donna. Ha imparato a farne a meno. Per lui, a parte Mussarat, ci sono solo spettri, senza voce e senza attrattive, che attraversano le strade senza suscitare alcunché; nugoli di rondini decrepite, blu o giallastre, il più delle volte scolorite e in ritardo di parecchie stagioni, che, quando passano accanto agli uomini, emettono un suono cupo.
Ed ecco che un velo cade e ne spunta una meraviglia. Atiq non si capacita. Una donna integrale, compatta; un volto di donna autentico, tangibile, anch'esso integrale, lì, davanti a lui? Inimmaginabile. Ha divorziato da così tanto tempo da una simile realtà che riteneva fosse stata bandita dai pensieri. Quand'era più giovane, sul limitare dell'adolescenza, gli capitava di profanare il nascondiglio di alcune cugine per spiarle da lontano, di nascosto, attento ai loro scoppi di risa, alla loro venustà e alla scioltezza dei loro movimenti. Si era anche innamorato di una maestra uzbeka, di dieci anni più grande di lui, dalle trecce senza fine, che rendevano la sua andatura seducente come una danza mistica. Era convinto, in quell'età incerta, in cui le leggende resistono pateticamente all'assedio dei pregiudizi e delle tradizioni, che bastasse sognare una ragazza per intravedere uno spiraglio di paradiso. Non era la via più sicura per accedervi, ma di certo la meno inumana... Poi, più nulla. Il mondo delle deliziose imprudenze si sfascia e si sgretola. I sogni si velano il volto. Cala un cappuccio graticciato e confisca ogni cosa, le risate, i sorrisi, gli sguardi, le fossette sulle guance, il frusciare delle ciglia...
Il giorno dopo, Atiq si accorge di aver trascorso la notte in bianco seduto nel corridoio di fronte alla detenuta, dalla quale non ha mai distolto lo sguardo. Si sente sottosopra, con la testa leggera e la gola straziata. Ha l'impressione di risvegliarsi nella pelle di un altro. Qualcosa di simile a una possessione fulminante lo ha investito fin nelle sue pieghe più riposte, abita i suoi pensieri, martella i suoi polsi, cadenza il suo respiro, anima il più piccolo dei suoi fremiti, ora canna rigida e immobile, ora edera strisciante che s'aggroviglia intorno al suo essere. Atiq non cerca neppure di vederci chiaro. Subisce, senza soffrirne, una sensazione vertiginosa e implacabile, un'ebbrezza estatica che strapazza le sue difese al punto da fargli dimenticare le abluzioni. Ha tutta l'aria di un sortilegio, ma non lo è. Atiq è cosciente della gravità della sua scorrettezza, ma non ci bada. Si abbandona, da qualche parte, così lontano eppure così vicino, all'ascolto delle sue più impercettibili pulsazioni, sordo ai più perentori richiami all'ordine.
«Qualcosa non va?» gli chiede Mussarat. «È la quinta volta che aggiungi sale al tuo riso senza mangiarlo e porti la tazza d'acqua alle labbra senza berne un sorso.»
Atiq contempla la moglie con aria inebetita. Non sembra cogliere il senso delle sue parole. Le mani gli tremano, il petto s'ingolfa e, di tanto in tanto, pare sul punto di soffocare. Non ricorda di aver attraversato il quartiere con le gambe molli e la testa vuota, non ricorda di aver incontrato qualcuno per strada, dove, di solito, non può avventurarsi senza essere interpellato o salutato da qualcuno che conosce. Mai, in tutta la sua vita, ha vissuto la condizione che lo consuma dal giorno prima. Non ha fame, non ha sete, il mondo  circostante non lo sfiora neppure; sta vivendo qualcosa di prodigioso e terrificante insieme, ma non vorrebbe privarsene per tutto l'oro del mondo: sta bene.
«Cos'hai, Atiq?»
«Scusa?»
«Dio sia lodato, mi senti. Temevo che fossi diventato sordomuto.»
«Ma, insomma, che vuoi?»
«Niente» rinuncia Mussarat.
Atiq posa la tazza a terra, attinge un pizzico di sale da una minuscola terrina e torna a cospargerne la sua razione di riso. Mussarat si porta la mano alla bocca per nascondere un sorriso. La distrazione del marito la diverte e la preoccupa, ma, riconosce, lo splendore del suo viso è rasserenante. Di rado l'ha visto così teneramente maldestro. Sembra un bambino al ritorno da uno spettacolo di burattini. I suoi occhi sfavillano di luce interiore e la sua eccitazione è appena credibile in uno come lui, che vibrava solo d'indignazione, quando non minacciava di spaccare tutto quel che si trovava a portata della sua collera.
«Mangia» lo invita.
Atiq s'irrigidisce. Corruga la fronte attorno alle sopracciglia. Si alza di scatto picchiando le mani sulle cosce.
«Dìo mio!» esclama correndo verso il mazzo di chiavi appeso al chiodo. «Sono imperdonabile.»
Mussarat cerca di alzarsi. Le braccia scarne cedono e ricade sul giaciglio. Spossata dallo sforzo, si addossa alla parete e osserva il marito.
«Cos'hai combinato, ancora?»
E Atiq, frastornato: «Ho dimenticato di dar da mangiare alla detenuta».
Mussarat rimane assorta. Suo marito è uscito dimenticando turbante, gilet e scudiscio. È la prima volta che succede.
Si aspetta di vederlo tornare a riprenderli. Atiq non torna. Mussarat ne deduce che quel carceriere occasionale di suo marito ha perso la testa.
Assopita sopra una logora coperta, Zunaira sembra offerta in sacrificio. Intorno a lei, la cella vacilla sotto le luci della lanterna, gli angoli crivellati di schizzi acuminati. Si sente cigolare la notte, densa e vischiosa, priva di effettiva profondità. Atiq posa a terra un piatto ricolmo di spiedini che ha pagato di tasca sua, una focaccia e una manciata di bacche. Accoccolato, allunga la mano per risvegliare la prigioniera. Le dita rimangono sospese sopra la spalla tornita. Deve riprendere le forze, si dice. I suoi pensieri non riescono a spronare il suo gesto; la mano resta interdetta a mezz'aria. Camminando a ritroso, finisce per addossarsi al muro, incrocia le braccia intorno alle gambe, ficca il mento fra le ginocchia e non si muove più, gli occhi inchiodati al corpo della donna, la cui ombra, plasmata dal biancore accecante della lanterna, disegna un paesaggio di sogno sulla parete che funge da tela. Atiq è sbalordito dalla serenità della detenuta, non pensa che la calma possa evidenziarsi meglio che su quel volto limpido e puro come acqua di sorgente. E quei capelli neri, lisci e morbidi, che il meno audace dei respiri solleverebbe in aria come un aquilone. E quelle mani da uri, trasparenti e delicate, che s'intuiscono tenere come una carezza. E quella bocca piccola e rotonda... La hawla, si riprende Atiq. Non ho il diritto di approfittare del suo sonno. Devo tornare a casa e lasciarla in pace. Atiq pensa, ma non si muove. Rimane accovacciato nel suo angolo, le gambe imprigionate dalle braccia, gli occhi più grandi della coscienza.
«È molto semplice,» confessa Atiq «non vi sono parole per descriverla.»
«È davvero così bella?» s'informa Mussarat, dubbiosa.
«Bella? La parola mi sembra dozzinale, al limite della banalità. La donna che marcisce nella mia segreta è più che bella. Ne tremo ancora. Ho trascorso la notte a vegliare sul suo sonno, così abbagliato dal suo splendore che non ho visto spuntare l'alba.»
«Spero che non ti abbia distratto dalla preghiera.»
Atiq china la testa. «È la verità.»
«Hai dimenticato di assolvere alla salai (Salai è la preghiera in generale)?»
«Sì.»
Mussarat scoppia in una risata i cui sussulti subito si tramutano in una sfilza di colpi di tosse. Atiq si acciglia. Non capisce perché sua moglie rida di lui, ma non si offende. È raro che la senta ridere, e la sua insolita allegria rende la penombra del tugurio quasi abitabile. Mussarat si asciuga gli occhi, affannata ma estasiata, si sistema il cuscino dietro la schiena e vi si appoggia.
«Ti diverto?»
«Enormemente.»
«Mi trovi ridicolo.»
«Ti trovo fantastico, Atiq. Come hai potuto nascondermi parole così generose? Siamo sposati da più di vent'anni e solo adesso riveli il poeta che si nascondeva in te. Non puoi immaginare quanto sia felice di apprendere che sei capace di dire le cose con il cuore invece di limitarti a esorcizzarle come se si trattasse di conati di vomito. Atiq, l'eterno imbronciato, che passava accanto a una moneta d'oro senza vederla, in grado di provare buoni sentimenti? Non mi diverte, mi fa risuscitare. Ho voglia di andare a baciare i piedi di quella donna che, nello spazio di una notte, ha risvegliato tanta sensibilità in te. Dev'essere una santa. Oppure una fata.»
«È quel che mi sono detto la prima volta che l'ho vista.»
«Ma perché l'hanno condannata a morte?»
Atiq sussulta. Evidentemente, è una domanda che non si era posto. Scrolla la testa e biascica: «Mi rifiuto di ritenerla capace di azioni riprovevoli. Non sarebbe da lei. C'è un errore, senza dubbio».
«E lei, cosa dice?»
«Non ho parlato con lei.»
«Perché?»
«Non si fa. Ho ospitato tante condannate a morte, alcune per parecchi giorni. Non abbiamo scambiato nemmeno una parola. È come se nessuno fosse lì per l'altro; ci ignoriamo, loro nelle celle, io nella mia tana. Nemmeno le lacrime servono a granché dopo che è stata pronunciata una sentenza capitale. In quei casi, non vi è posto migliore della prigione per raccogliersi. Quindi si sta zitti. Soprattutto alla vigilia di un'esecuzione.»
Mussarat afferra la mano del marito e la stringe al seno. Stranamente, il carceriere la lascia fare. Forse non se ne accorge nemmeno. Il suo sguardo è remoto, il respiro profondo.
«Oggi, mi sento in forma» dice, rinvigorita dal colorito soffuso sul viso del marito. «Se vuoi, posso prepararle qualcosa da mangiare.»
«Faresti questo per lei?»
«Farei qualunque cosa per te.»


CAPITOLO 13


La detenuta allontana il vassoio e si asciuga delicatamente la bocca con il lembo di uno strofinaccio. Il modo in cui si strofina gli angoli delle labbra denota un rango sociale ormai abolito; ha classe e, di certo, ha studiato. Atiq la scruta facendo finta di esaminare le linee della propria mano. Non vuole perdere nulla dei suoi gesti, delle sue espressioni, del suo modo di mangiare, bere, prendere e posare gli oggetti intorno a lei. Non ha dubbi, quella donna è stata ricca e di alto rango, ha indossato sete e gioielli, si è cosparsa di profumi da favola e ha strapazzato il cuore d'innumerevoli pretendenti; il suo volto è brillato sopra idilli fulminanti e il suo sorriso ha lenito più di un dolore. Come è arrivata fin lì? Quale vento miserabile l'ha cacciata in quella prigione, lei che sembra addolcire nello sguardo le luci del mondo intero?
Alza gli occhi su di lui. Lui si volta immediatamente, il petto assediato da insondabili affanni. Quando torna su di lei, la sorprende a osservarlo con un sorrisetto enigmatico sulle labbra. Per vincere il disagio che lo invade, le chiede se ha ancora fame. Lei scrolla la testa. Si ricorda delle bacche sul suo tavolo, ma non osa andare a cercarle. In verità, non vuole assentarsi nemmeno per un attimo. Sta bene dov'è, dall'altra parte delle sbarre e, nello stesso tempo, così vicino a lei da aver l'impressione di percepirne le pulsazioni.
Il sorriso della donna non si smorza. Erra sul suo volto come un sogno appena accennato. Sorride davvero o è lui che sta farneticando? Non ha detto una parola da quando l'hanno imprigionata. Si trincera nel suo esilio, dignitosa e in silenzio, senza tradire angoscia né tormento. Sembra aspettare che spunti il giorno per andarsene con lui, senza far rumore. La fatale scadenza, che aleggia sulle sue preghiere paziente come la mannaia, non allunga la sua ombra perniciosa fino ai suoi pensieri. Sembra inespugnabile nel suo martirio.
«È mia moglie che le ha preparato da mangiare» dice Atic..
«E molto fortunato.»
Che voce! Atiq deglutisce. Aspetta che parli ancora e riveli una parte di quel dramma che le rode dentro. Inutilmente.
Dopo un lungo silenzio, sente se stesso borbottare: «Meritava di morire». 
Poi, con maggior convinzione: «Ci metterei la mano sul fuoco. Chi non è consapevole della propria fortuna, non ha diritto a nessuna simpatia».
Il pomo d'Adamo gli raschia la gola quando aggiunge: «Sono sicuro che era un bruto. Della peggior specie. Pieno di sé. Non poteva essere diversamente. Quando non si è consapevoli della propria fortuna, non la si merita, per forza».
Le spalle della detenuta si contraggono.
Ariq alza il tono man mano che le sue parole si susseguono.
«La picchiava, vero? Per un sì o per un no, tirava su le maniche e si accaniva contro di lei.» 
Lei alza la testa. I suoi occhi ricordano delle gemme; il suo sorriso si è accentuato, triste e sublime insieme.
«Non ne poteva più, è così? Era diventato insopportabile...»
«Era meraviglioso» si lascia sfuggire con voce serena. «Sono io che non mi rendevo conto della mia fortuna.»
Atiq è in piena esaltazione. Non sta fermo un minuto. Rientrato prima del previsto, non smette di misurare il patio a larghe falcate, alzare gli occhi al cielo e parlare da solo.
Seduta sul pagliericcio, Mussarat lo guarda senza dire una parola. Questa storia comincia a preoccuparla. Atiq non è più lo stesso da quando gli hanno affidato la prigioniera.
«Cosa c'è?» le urla. «Perché mi guardi così?»
Mussarat non ritiene prudente rispondergli, tanto meno calmarlo. Atiq sembra aspettare solo questo per saltarle addosso. Ha uno sguardo carico di fulmini e i pugni sono bianchi alle giunture.
Le si avvicina, una secrezione lattiginosa agli angoli della bocca. «Hai detto qualcosa?»
Lei scuote la testa.
Atiq si porta le mani alle anche, si volta verso il cortile, poi, facendo una smorfia di rabbia, picchia contro il muro e ruggisce: «È stato uno stupido incidente. Può capitare a chiunque. È qualcosa che non puoi prevedere, che ti prende alla sprovvista. Suo marito è scivolato su una caraffa e ha picchiato mortalmente la testa contro il pavimento. È così semplice. Tragico, certo, ma un incidente. La poveretta non ha colpa. Bisogna che le autorità si rendano conto di aver condannato ingiustamente una vittima. Non hanno il diritto di mandare a morte un'innocente solo perché ha provocato un incidente. Quella donna non ha ucciso suo marito. Non ha ucciso nessuno».
Mussarat l'approva annuendo. Timidamente. Immerso nel suo rancore, Atiq non lo nota nemmeno.
«Devo dire due paroline a Qassim» dice al termine di un lungo monologo. «Ha conoscenze in alto loco, amici influenti al posto giusto. Gli daranno ascolto. Non è il caso di consegnare al boia un'innocente per colpa di un malinteso.»
«Ma cosa dici?» s'indigna Qassim Abdul Jabbar, che non ha apprezzato che Atiq sia venuto a disturbarlo a casa per una sciocchezza. «Quella cagna rabbiosa è stata giudicata e condannata. Sarà giustiziata fra tre giorni, allo stadio, davanti a ospiti di prestigio. È la sola donna prevista per la cerimonia. Anche se fosse innocente, nessuno potrebbe fare più niente per lei. E poi, è colpevole.»
«È innocente...»
«Ma che ne sai?»
«Me l'ha detto lei.»
«E tu le hai creduto?»
«Perché no?»
«Perché ti ha mentito. È solo una bugiarda matricolata, Atiq. Si prende gioco della tua cortesia. Non metterti a difendere una criminale di cui non sai nulla. Hai già abbastanza preoccupazioni.»
«Non ha ucciso nessuno...»
«I suoi vicini hanno testimoniato contro di lei. Sono stati categorici. Quella puttana ne combinava di tutti i colori al marito. Lo cacciava continuamente di casa. I capi non hanno neppure avuto bisogno di deliberare... (Lo prende per le spalle e lo fissa dritto negli occhi.) Atiq, mio povero Atiq, se non torni subito in te, finirai per non trovare più la via di casa. Dimentica quella strega. Fra tre giorni, raggiungerà quelle che l'hanno preceduta, e un'altra la sostituirà. Non so come abbia fatto ad abbindolarti, ma, al posto tuo, cercherei di non sbagliare persona. Sei tu ad aver bisogno di attenzioni, non lei. Ti avevo messo in guardia l'altro giorno. Ti chiudi troppo nella tua acredine, Atiq, ti ho avvisato, fai attenzione: dopo non potrai più uscirne. Non mi hai dato ascolto. Risultato, sei ancora più fragile ed è bastato che una lurida cagna si mettesse a guaire per spezzarti il cuore. Lascia che crepi. Ti assicuro che sta bene dove sta. E poi, è solo una donna.»
Atiq è fuori di sé. Preso in un turbine, non sa dove sbattere la testa né dove menare le mani quando si sorprende a imprecare contro il mondo intero. Non capisce niente di niente. E un altro, qualcuno che lo sovrasta, lo sommerge, lo maltratta, ma senza il quale si sentirebbe menomato. Che dire dei tremori che lo fanno battere i denti nelle ore più calde della giornata e dei sudori che lo rinfrescano un minuto dopo? Che dire dell'audacia che lo afferra ogni volta che osa rifiutare il fatto compiuto, lui che non muoveva il mignolo davanti a un dramma che un semplice schiocco di dita avrebbe potuto evitare? Che dire di questa risacca impetuosa che lo fa uscire di senno quando il suo sguardo s'incaglia in quello della detenuta? Non avrebbe mai pensato di condividere l'angoscia di una terza persona. Tutta la sua vita è trascorsa con questa ambizione: passare davanti a un suppliziato senza farci caso, tornare da un cimitero senza rimangiarsi le proprie decisioni. Ed eccolo farsi carico del destino di una detenuta che nulla potrebbe sottrarre all'ombra della forca. Atiq non capisce perché, di punto in bianco, il suo cuore batta al posto di un altro né come, da un giorno all'altro, abbia accettato che nulla sarebbe più stato come prima. Si aspettava di trovare in Qassim Abdul Jabbar un simulacro d'indulgenza in grado di aiutarlo a sollecitare le autorità, a convincerle a riesaminare il loro verdetto. Qassim l'ha deluso. Imperdonabile. Atiq l'ha detestato in blocco. Fra loro, è tutto finito. Nessuna predica, nessun guru potrebbero riconciliarli. Qassim è solo un bruto. Non ha più cuore di una clava, più pietà di un serpente. È l'immagine della propria sventura. Ne morirà. Tutti ne moriranno, senza eccezioni. I dignitari rannicchiati nella loro veneranda mostruosità. Gli energumeni sbraitanti, osceni e febbrili, che già si preparano a invadere lo stadio venerdì. Gli ospiti di prestigio, che si divertiranno a seconda delle esecuzioni pubbliche, salutando l'applicazione della sharia con la stessa mano che scaccia le mosche e spazzando via le spoglie con lo stesso gesto che benedice lo zelo grottesco dei carnefici. Tutti. Compresa Kabul, la maledetta, che ogni giorno impara a uccidere e a svivere, visto che in questa terra le feste sono diventate atroci come i linciaggi.
«Non permetterò che l'ammazzino» esplode una volta tornato a casa.
«Perché ti riduci in questo stato?» lo rimprovera Mussarat. «Non è la prima né l'ultima. Quel che fai non ha senso. Devi tornare in te.»
«Non voglio tornare in me.»
«Ti stai infliggendo una sofferenza inutile. Guardati. Sembri sul punto d'impazzire.»
Atiq la minaccia col dito. «Ti proibisco di trattarmi da pazzo.»
«Allora, torna in te, e subito» protesta Mussarat. «Ti comporti come chi non sa più dove si trovi. Il peggio è che diventi una belva quando si cerca di farti ragionare.»
Atiq l'afferra per il collo e la sbatte contro il muro. «Smettila di gracchiare, vecchia megera. Non sopporto più il suono della tua voce né l'odore del tuo corpo...»
La lascia andare.
Sorpresa dalla violenza del marito e annichilita dalle sue parole, Mussarat s'accascia a terra, le mani intorno alla gola dolorante, gli occhi fuori delle orbite per l'incredulità.
Atiq abbozza un gesto di stizza, raccoglie scudiscio e turbante ed esce in strada.
C'è moltissima gente alla moschea; i mendicanti e gli invalidi di guerra si contendono aspramente gli anfratti del santuario. Atiq sputa da sopra la spalla, tanto lo disgusta quello spettacolo e decide di andare a pregare altrove. Poco lontano incrocia Mirza Shah che si affretta a unirsi ai fedeli prima della chiamata del muezzin. Gli passa davanti senza badargli. Mirza Shah si ferma, si volta per seguire con lo sguardo il suo vecchio amico e si gratta a lungo sotto il turbante, prima di riprendere il cammino. Atiq cammina dritto davanti a sé strizzando gli occhi, il passo aggressivo. Attraversa le strade senza guardare a destra e a sinistra, indifferente ai colpi di clacson e alle urla dei carrettieri. Qualcuno lo chiama ad alta voce da una bettola, ma non lo sente. Non sentirebbe l'uragano tuonargli sopra la testa. Ascolta solo il sangue battergli alle tempie, vede solo i meandri della sua furia secernere la loro oscurità nel suo animo: Qassim che non tiene conto del suo turbamento, Mussarat che non capisce il suo dolore, il cielo che si vela il viso, le macerie che gli voltano le spalle, i curiosi che si preparano a invadere lo stadio, i talebani che si pavoneggiano lungo i viali, i mullah che arringano le folle con il dito, letale quanto una sciabola..
Sbattuta la porta della prigione alle sue spalle, i rumori che lo perseguitano si smorzano. Improvvisamente, l'abisso è lì, e il silenzio profondo come una caduta. Cosa gli sta succedendo? Perché non riapre la porta per far sì che lo raggiungano i rumori, le luci del crepuscolo, gli odori e la polvere? La schiena curva, ansimante, percorre in lungo e in largo il corridoio. Lo scudiscio gli sfugge di mano, non lo raccoglie. Cammina, cammina, la barba nell'incavo del collo, le mani dietro la schiena. Improvvisamente, si volta verso la porta della cella e l'apre con rabbia.
Zunaira si ripara dietro le braccia, spaventata dalla violenza del carceriere.
«Vada via» le dice. «Presto sarà notte. Ne approfitti per proteggersi la fuga e vada il più lontano possibile da questa città di pazzi. Corra con quanto fiato ha in gola, ma, soprattutto, non si volti indietro, qualunque cosa succeda, altrimenti farà la fine della moglie di Lot.»
Zunaira non capisce dove voglia arrivare il carceriere. Si rannicchia nella coperta, pensando che sia giunta la sua ora.
«Vada via» l'implora Atiq. «Se ne vada, non rimanga qui. Dirò che è stata colpa mia, che devo aver chiuso male le catene col lucchetto. Sono pashtun come loro. Me ne diranno di tutti i colori, ma non mi faranno del male.»
«Cosa succede?»
«Non mi guardi così. Raccolga il burqa ed esca di qui...»
«Per andare dove?»
«Dove vuole, ma non rimanga qui.»
Lei scrolla la testa. Le sue mani si allungano sotto la coperta per cercare qualcosa che non mostreranno.
«No» dice. «Ho già distrutto una famiglia, non voglio rovinarne un'altra.»
«Il peggio che mi possa capitare è perdere il posto. È l'ultima delle mie preoccupazioni. Adesso, se ne vada.»
«Non so dove andare. I miei sono morti o dispersi. L'ultimo legame che mi restava si è volatilizzato per colpa mia. Era una fiammella, vi ho soffiato sopra troppo forte per trasformarla in torcia e l'ho spenta. Non c'è più nulla che mi trattenga qui. Ho fretta di andarmene, ma non come lei mi propone.»
«Non permetterò che la uccidano.»
«Siamo stati tutti uccisi. Da così tanto tempo che l'abbiamo dimenticato.»


CAPITOLO 14


I giorni passano simili a pachidermi indolenti. Atiq è sballottato fra l'incompiutezza e l'eternità. Le ore durano meno di una scintilla; le notti sono infinite come i supplizi. Sospeso fra i due estremi, nella sua folle disperazione chiede solo di esserne squartato. Non sta bene da nessuna parte. Lo si vede vagare per i vicoli, gli occhi stralunati, la fronte segnata da solchi implacabili. In prigione, non osando più avventurarsi nel corridoio, si chiude nel suo box e si trincera dietro il Corano. Dopo qualche capitoletto, esce all'aria aperta, stremato e senza fiato, per farsi largo tra la folla come uno spettro fra le tenebre. Mussarat non sa cosa fare per venire in suo aiuto. Non appena torna a casa, si chiude nella camera e lì, seduto di fronte a un leggio, sillaba versetti senza interruzione. Quando va a vedere cosa fa, lo trova sprofondato nella sua angoscia, le mani sulle orecchie e la voce tremula, sul punto di perdere i sensi. Si siede di fronte a lui e, recitata la fatiha rivolta al cielo, prega. Non appena si accorge della sua presenza, lui richiude seccamente il Libro Santo e torna in strada. Per rientrare poco dopo, il viso violaceo e il respiro in affanno. Non mangia quasi più, di notte non chiude occhio, diviso tra la prigione, dove non resta a lungo, e la camera da letto, che  abbandona prima ancora di mettervi piede. Mussarat è angustiata dalle condizioni del marito al punto da dimenticare il male che l'attanaglia. Quando Atiq tarda a tornare a casa, è assediata da orribili presentimenti. Qualcosa le dice che il carceriere è impazzito e una disgrazia fa in fretta a capitare.
Una sera, lo raggiunge nella camera, quasi gli strappa il leggio affinchè fra loro non vi sia nulla, lo prende per i polsi e lo scuote vigorosamente.
«Torna in te, Atiq.»
Atiq, inebetito: «Le ho spalancato la porta e le ho detto di andarsene. Si è rifiutata di uscire dalla cella».
«Perché sa, diversamente da te, che non si sfugge al proprio destino. Ha accettato la propria sorte e vi si è piegata. Sei tu che rifiuti di guardare le cose in faccia.»
«Non ha ucciso nessuno, Mussarat. Non voglio che paghi per una colpa che non ha commesso.»
«Ne hai viste altre morire prima di lei.»
«È la dimostrazione che non ci si può abituare a tutto. Ce l'ho con me e con l'universo intero. Come si può accettare di morire solo perché l'hanno deciso dei dignitari sbrigativi? È assurdo. Se non ha più la forza per lottare, io mi proibisco di darmi per vinto. È così giovane, così bella... così raggiante di vita. Perché non se n'è andata quando le ho spalancato la porta?»
Mussarat gli solleva il mento, con la mano rovista teneramente nella barba arruffata.
«Ma tu, sinceramente - guardami, per piacere e dimmi in tutta coscienza, l'avresti lasciata andare via?»
Atiq rabbrividisce. Gli occhi luccicano d'incontenibile sofferenza.
«Visto che ti ho detto che le ho spalancato la porta...»
«Ho capito, ma tu l'avresti lasciata andare via?»
«Certo...»
«L'avresti guardata allontanarsi nella notte, senza correrle dietro? Avresti accettato che sparisse per sempre per non rivederla mai più?»
Atiq accusa il colpo; la sua barba grava pesantemente nel palmo tremante della moglie. Mussarat continua ad accarezzargli la guancia.
«Io non credo» dice lei.
«Allora, spiegami» le risponde in un gemito. «Per amore del profeta, dimmi cosa mi sta capitando.»
«Quanto di meglio possa capitare a un essere vivente.»
Atiq alza la testa, così repentinamente che le sue spalle sussultano. «Cosa, esattamente, Mussarat? Voglio capire.»
Lei gli prende il viso fra le mani. Quel che legge nel suo sguardo le da il colpo di grazia. Un brivido l'attraversa da parte a parte. Cerca invano di lottare; due grosse lacrime le imperlano le palpebre, le scorrono lungo il viso e raggiungono il mento prima che abbia modo di trattenerle.
«Credo che alla fine tu abbia trovato la tua strada, Atiq, marito mio. Si è fatto giorno in te. Quel che ti succede, i re e i santi te lo invidierebbero. Il tuo cuore rinasce. Non posso spiegarti. E poi è meglio così. Queste cose vanno vissute senza tante spiegazioni. Perché non c'è nulla da temere.»
«Cosa devo fare?»
«Torna da lei. Prima di aprirle la porta, apri il tuo cuore e lascia che le parli. Lei lo ascolterà. E ti seguirà. Prendila per mano e andatevene il più lontano possibile senza voltarvi indietro.»
«Sei tu che mi chiedi di andarmene, Mussarat?»
«Mi getterei ai tuoi piedi per convincerti. Nessuno ha il diritto di sciupare quanto di meglio possa capitare a un essere vivente, anche se dovesse patirne per il resto della vita. Sono istanti così rari da diventare sacri.»
«Non ti abbandonerò.»
«Ci credo. Ma non è questo il problema. Quella donna ha bisogno di te. La sua vita dipende  dalla tua decisione.   Da quando l'hai vista, i tuoi occhi risplendono. T'illumina dentro. Al tuo posto, un altro starebbe cantando a squarciagola sui tetti. Se tu non canti, Atiq, è perché non te l'hanno insegnato. Sei felice, ma non lo sai. Trabocchi di gioia, e non sai come rallegrartene. Per tutta la vita hai ascoltato gli altri; i tuoi maestri e i tuoi guru, i tuoi capi e i tuoi demoni che ti parlavano di guerra, livore e offese. Le tue orecchie ne tracimano; le tue mani ne tremano. Ecco perché ora hai paura di ascoltare il tuo cuore e cogliere la fortuna che, alla fine, ti sorride. Sotto un altro cielo, il tuo turbamento commuoverebbe l'intera città. Ma Kabul non comprende questi turbamenti. È proprio perché vi ha rinunciato che più nulla le riesce, né le gioie né i dolori... Atiq, marito mio, uomo della mia vita, tu sei benedetto. Ascolta il tuo cuore. È il solo a parlarti di te stesso, il solo a conoscere la verità vera. La sua ragione è più forte di tutte le ragioni del mondo. Fidati di lui, lascia che guidi i tuoi passi. Ma soprattutto, non avere paura. Perché, fra tutti gli uomini, questa sera, tu sei colui che ama...»
Atiq si mette a tremare.
Mussarat riprende il suo viso tra le mani e lo supplica: «Torna da lei. Avete ancora tempo. Con un po' di fortuna, prima dell'alba sarete dall'altra parte della montagna».
«Ci penso da due giorni e due notti. Non sono sicuro che sia una buona idea. Ci raggiungeranno e ci faranno lapidare. Non ho il diritto di propinarle false speranze. È così fragile e infelice. Giro a vuoto per le strade ruminando il mio piano d'evasione. Ma non appena la vedo, serena nel suo angolo, tutte le mie convinzioni si sgretolano. Allora, esco di nuovo a vagare per il quartiere, torno qui, con i miei progetti alle calcagna, e quando ritrovo le forze perdo le mie certezze. Sono disperato, Mussarat, non voglio che me la confischino, capisci? Ho dato loro i più begli anni della mia vita, i miei sogni più folli, la mia carne e la mia anima...»
E, con grande meraviglia della moglie, Atiq si nasconde dietro le ginocchia, le spalle scosse dai singhiozzi.
Atiq deve prepararsi. Domani, Qassim Abdul Jabbar verrà a prendere la detenuta per portarla là dove gli dèi e gli angeli non si avventurano. Si cambia nella camera da letto, stringe forte il turbante. I gesti precisi contrastano con la fissità del suo sguardo. In fondo alla stanza, Mussarat l'osserva, metà del viso nella penombra. Non dice nulla quando le passa accanto, non si muove quando lo sente sollevare il paletto dell'uscio e uscire in strada.
È luna piena. Si vede chiaro e lontano. Grappoli d'insonni affollano la soglia dei tuguri; il loro farfugliare eccita gli stridori della notte. Un neonato vagisce dietro le mura; la sua vocina sale lentamente al cielo dove milioni di stelle si chiamano.
La prigione è rintanata nelle proprie ossessioni. Atiq tende l'orecchio, ma percepisce solo lo scricchiolio delle travi schiantate dal calore. Accende la lanterna che proietta sul soffitto la sua ombra deforme. Si siede sulla branda, di fronte al corridoio della morte e si prende la testa fra le mani. Per una frazione di secondo, l'attanaglia il desiderio di andare a vedere come sta la detenuta; resiste e rimane seduto. Il cuore gli batte fino a spezzarsi. Il sudore si ramifica sul suo viso e gocciola lungo la schiena; non si muove. La voce di Mussarat gli attraversa la mente: Stai vivendo i soli momenti degni di essere vissuti... In amore, anche le bestie diventano divine... Atiq si aggrappa al proprio dolore, cerca di contenerlo. Ben presto, le sue spalle riprendono a sussultare e un lungo gemito lo costringe a inginocchiarsi a terra. Si prosterna, la fronte nella polvere, e si mette a recitare tutte le preghiere che gli vengono in mente...
«Atiq...»
Si risveglia, faccia a terra. Si è addormentato mentre pregava. Alle sue spalle, la finestra riflette il primo riverbero dell'aurora.
Una donna in burqa è dritta davanti a lui.
«Cosa? Le miliziane sono già qui?»
La donna solleva il cappuccio graticciato.
È Mussarat.
Atiq si alza con un balzo e si guarda attorno.
«Come hai fatto a entrare?»
«La porta era aperta.»
«Dio mio! Dove avevo la testa?» Poi, tornando in sé: «Che ci fai qui? Cosa vuoi?».
«Stanotte è avvenuto un miracolo» gli dice. «Le mie preghiere e le tue si sono congiunte e il Signore le ha ascoltate. Credo che i tuoi voti saranno esauditi.»
«Di quale miracolo parli?»
«Ho visto le lacrime scorrere dai tuoi occhi. Ho pensato: se quel che vedo è vero, allora non è tutto perduto. Tu, piangere? Anche quando ho estratto le schegge di granata dalle tue carni, non sono riuscita a strapparti un solo lamento. Per lungo tempo mi ero abituata all'idea che il tuo cuore si fosse fossilizzato, che più nulla avrebbe potuto far palpitare la tua anima o farti sognare. Ti ho visto, giorno dopo giorno, diventare l'ombra di te stesso, insensibile alle tue delusioni come una roccia all'erosione che la sbriciola. La guerra è una mostruosità e i suoi figli sanno a chi rassomigliare. Visto che le cose stanno così, ho accettato di dividere la mia vita con qualcuno che ambiva solo a corteggiare la morte. Almeno, così, avevo ragione di credere che il mio fallimento non dipendesse da me. Poi, stanotte ho visto con i miei occhi l'uomo che credevo irrecuperabile prendersi la testa fra le mani e piangere. Mi sono detta, è la prova che in lui vi è ancora un barlume di umanità. Sono venuta a soffiarci sopra affinchè divenga più luminoso del giorno.»
«Ma cosa dici?»
«Che il mio fallimento dipendeva proprio da me. Eri infelice perché non ho saputo dare un senso alla tua vita. Se i tuoi occhi non riuscivano a rendere sinceri i tuoi sorrisi è colpa mia. Non ti ho dato figli né alcun'altra consolazione. Quando mi prendevi, le tue braccia cercavano qualcuno che non hanno mai trovato. Quando mi guardavi, tristi ricordi ti afferravano. Sapevo di essere solo un'ombra che si sostituiva alla tua ombra, e provavo vergogna ogni volta che distoglievi lo sguardo. Non ero la donna che avevi amato, ero l'infermiera che ti aveva curato e nascosto, e che tu hai sposato in segno di gratitudine.»
«La tua malattia ti fa sragionare, Mussarat. Torna a casa, adesso.»
«Ho cercato di essere bella e desiderabile per te. Soffrivo di non riuscirci. Sono fatta di carne e sangue, Atiq. Ogni tuo sospiro è come una frustata per me. Quante volte mi sono sorpresa ad annusare i tuoi vestiti, come una pecora l'orma del suo agnellino che si è allontanato dal gregge e ancora non torna, quante volte ho peccato non riconoscendo nel destino la Volontà divina. Mi chiedevo perché fosse capitato a te, perché fosse capitato a me, mai perché fosse capitato a noi.»
«Cosa vuoi esattamente?»
«Che si compia un miracolo. Quando ho visto le lacrime spuntare dai tuoi occhi, ho creduto di vedere il cielo aprirsi su quanto vi è di più bello. E mi sono detta che la donna capace di produrre un tale sconvolgimento non deve morire. Dopo che te ne sei andato, ho palpato il posto dove stavi alla ricerca di una lacrima dimenticata. Volevo bagnarmi in lei, ripulirmi delle pene di questo mondo. Nel ripulirmi sono andata oltre, Atiq.» 
«Non ti capisco. 
«Perché voler capire quel che, in sé, è un enigma? Da noi, chiodo scaccia chiodo. Non c'è niente di male a sopportare quel che non si può evitare; la buona e la cattiva sorte non dipendono da noi. Quel che voglio dire è semplice e doloroso insieme, ma bisogna accettarlo: cos'è la vita e cos'è la morte? Le due si equivalgono, e si annullano.»
Atiq arretra mentre Mussarat avanza verso di lui. Cerca di prendergli le mani; lui se le mette dietro la schiena. La luce dell'alba illumina il viso della donna. Mussarat è serena. Il suo volto non è mai stato così bello.
«Nel paese degli errori senza rimpianti, la grazia o l'esecuzione non sono il risultato di una deliberazione, ma la conseguenza di uno sbalzo d'umore. Le dirai che hai perorato la sua causa presso un mullah influente. Non aggiungere altro. Non deve sapere quel che è successo. Fra poco, quando verranno a prenderla, rinchiudila nel tuo ufficio. Io m'introdurrò furtivamente nella sua cella. Sarà solo un burqa al posto di un altro. Nessuno si prenderà la briga di controllare l'identità di chi c'è sotto. Vedrai, tutto filerà liscio.»
«Sei completamente pazza.»
«Comunque, io sono condannata. Tra qualche giorno, al più tardi tra qualche settimana, il male che mi consuma finirà per avere la meglio. Non voglio prolungare inutilmente la mia agonia.»
Atiq è spaventato. Respinge la moglie e, le mani in avanti, la implora di restare dov'è.
«Quel che dici non ha senso.»
«Sai benissimo che ho ragione. È il Signore che m'ispira: quella donna non morirà. Sarà tutto quel che io non ho saputo offrirti. Non puoi immaginare come sono felice stamattina. Morta, sarò più utile che viva. Ti supplico, non sciupare l'occasione che infine ti è stata data. Ascoltami per una volta...»


CAPITOLO 15


Il 4x4 di Qassim Abdul Jabbar ruggisce frenando davanti alla prigione, subito seguito da un pulmino pieno di donne e bambini, che preferisce disporsi sul lato opposto della strada, come per proteggersi dai sortilegi che gravitano intorno al malefico edificio. Atiq Shaukat scivola furtivamente nel corridoio e si addossa al muro, le mani tremanti schiacciate dalle natiche, lo sguardo a terra per non tradire l'intensità delle proprie emozioni. Ha freddo, e paura. Le sue viscere si contorcono fino a spezzarsi in uno stridio incessante mentre crampi lancinanti, quasi voraci, gli martirizzano le gambe. Le pulsazioni del sangue risuonano sordamente alle sue tempie simili a colpi di maglio dentro gallerie sotterranee. Contrae le mascelle e trattiene il respiro sempre più caotico per non cedere al panico.
Qassim si raschia la gola per strada. È il suo modo di annunciarsi. Stamattina, il suo gorgoglio ha un che di mostruoso. Si sente sbattere il ferrovecchio, poi scendere qualcuno. Delle ombre si agitano a terra, dove si riflette una luce violenta. Due miliziane si precipitano nell'edificio immerso in un'oscurità malsana, gelida e umida nonostante l'incipiente canicola del giorno. Passano con aria marziale davanti al carceriere senza dire una parola e si  dirigono verso la cella in fondo. Compare Qassim. La colossale larghezza delle sue spalle s'inquadra nel vano della porta, accentuando la penombra. I pugni sui fianchi, rotea la testa a destra e a sinistra, si contorce esageratamente e si avvicina al guardiano fingendo d'interessarsi a una lucertola sul soffitto.
«Su la testa, guerriero. La tua nuca s'incepperà e dopo non potrai più guardarti decentemente allo specchio.»
Atiq annuisce senza obbedire.
Tornano le miliziane, la prigioniera davanti a loro. I due uomini si scostano per farle passare. Qassim, che sorveglia l'amico con la coda dell'occhio, tossicchia nel pugno.
«È già finito» si lascia sfuggire.
Atiq incassa ulteriormente il collo, scosso da brividi senza fine.
«Devi venire con me» insiste Qassim. «Devo definire alcune cose con te.»
«Non posso.»
«Cosa te lo impedisce?»
Visto che il carceriere preferisce mantenere il silenzio, Qassim si guarda attorno e crede di scorgere una sagoma nascosta in un angolo.
«C'è qualcuno nel tuo ufficio.»
Atiq sente il cuore contrarsi, mozzandogli di netto il respiro. «Mia moglie.»
«Scommetto che vuole andare allo stadio.»
«Già, è così... è proprio così.»
«Anche le mie mogli e le mie sorelle. Mi hanno costretto a requisire il pulmino qua fuori. Ma che importa. Dille di unirsi a loro. La recupererai all'uscita dallo stadio. Quanto a te, verrai con me. Devo assolutamente sottoporti un progetto che mi sta a cuore.»
Atiq annaspa. Cerca di farsi venire subito un'idea, ma il vocione di Qassim gli impedisce di concentrarsi. «Che succede? Ce l'hai con me?»
«Non ce l'ho con te.»
«E allora?»
Preso alla sprovvista, Atiq si trascina verso l'ufficio, gli occhi socchiusi per cercare di rimettere in ordine le idee. Intorno a lui le cose precipitano, l'oltrepassano, lo travolgono. Aveva previsto tutt'altro esito, nulla è andato come doveva andare. Lo sguardo di Qassim non gli è mai sembrato così acuto e accorto. Ne trasuda in ogni poro. Un principio di vertigine isterilisce il suo respiro e gli trancia le gambe. Si ferma nel vano, medita per un paio di secondi mentre si chiude la porta alle spalle. La donna seduta sulla branda l'osserva. Non ne distingue lo sguardo, ma la sua rigidità acuisce il suo disagio.
«Vedi?» bofonchia. «Il cielo ci ha ascoltati: sei libera. L'uomo che aspetta qui fuori me l'ha appena confermato. Non vi è più nulla a tuo carico. Puoi tornare a casa fin da oggi.»
«Chi sono le donne che ho visto passare nel corridoio?»
«È una prigione femminile. Vanno e vengono di continuo.» 
«Hanno portato una prigioniera?»
«Non è più affar tuo. La finestra di ieri si è chiusa, apriamo quella di domani. Sei libera. Solo questo conta.»
«Posso andarmene adesso?»
«Certo. Ma prima ti accompagnerò da altre donne, in un pulmino che sta perdendo la pazienza qua fuori. Non è necessario che tu dica loro chi sei né da dove vieni. Non devono sapere... Il pulmino vi farà scendere allo stadio, dove si sta svolgendo una cerimonia ufficiale.»
«Voglio tornare a casa.»
«Zitta! Parla a bassa voce.»
«Non voglio andare allo stadio.»
«Bisogna... Non durerà a lungo. Finita la manifestazione, ti aspetterò all'uscita e ti porterò al sicuro.»
Nel corridoio Qassim si raschia la gola per indicare al carceriere che è ora di andare.
Zunaira si alza. Atiq l'accompagna al pulmino e torna a prendere posto nel 4x4 a fianco di Qassim. Neppure per una volta ha guardato le due miliziane e la loro prigioniera sedute nella parte posteriore del veicolo.
Le diatribe dei mullah, diffuse da numerosi altoparlanti, rimbombano sulle macerie circostanti. Di tanto in tanto, lo stadio vibra per le ovazioni e le grida isteriche. La folla continua ad affluire da tutti gli angoli della città. Nonostante i cordoni del servizio d'ordine siano stati rinforzati, un'agitazione sfrenata impregna i dintorni dell'arena. Qassim comincia con il dirigere il pulmino verso un ingresso meno gremito, fa scendere le donne e le affida ad alcune miliziane perché le accompagnino in tribuna. Rassicurato, risale sul 4x4 e piomba sul prato dove dei talebani armati si danno da fare con indebito entusiasmo. I corpi che penzolano un po' dovunque attestano che le esecuzioni pubbliche sono già iniziate. La gente si accalca sugli spalti gremiti. Molti sono lì per evitare noie e assistono agli orrori senza manifestare alcuna emozione. Altri, che hanno scelto di portarsi il più vicino possibile alla tribuna dove si pavoneggiano i dignitari dell'apocalisse, fanno di tutto per essere notati; il loro giubilo eccessivo, anzi morboso, e le loro grida dissonanti disgustano finanche gli stessi guru. Atiq balza a terra e, immobile davanti al veicolo, non toglie lo sguardo dalla tribuna riservata alle donne, credendo di riconoscere Zunaira in ognuna di esse. Trincerato in fondo al proprio delirio, il ventre mestricabile come la testa, non ode gli applausi né i sermoni dei mullah. Non sembra neppure vedere le migliaia di spettatori che riempiono le gradinate di torme inferocite dalle fauci più sudice delle barbe. Le pupille incandescenti, cerca d'indovinare dove sia la sua protetta, relegando il resto del mondo a nulla. In un'ala dell'arena scoppia un putiferio, si alzano urla funeste. Degli sbirri spintonano un "maledetto" al suo destino, dove un uomo lo aspetta con il coltello in mano. Lo spettacolo dura il tempo di pochi gesti. L'uomo immobilizzato viene fatto inginocchiare. Il coltello brilla prima di tagliargli la gola. Sugli spalti, sporadici applausi salutano la destrezza del boia. Il corpo insanguinato viene gettato in una barella; avanti un altro! Atiq è talmente concentrato sulle schiere di burqa che lo sovrastano come un bastione blu che non vede le miliziane afferrare la loro prigioniera. Quest'ultima cammina fino al centro del prato poi, scortata da due uomini, si dirige verso lo spazio che le è riservato. Una voce perentoria le intima d'inginocchiarsi. Obbedisce e, alzando per l'ultima volta lo sguardo dietro la maschera graticciata, scorge Atiq che le volta le spalle, laggiù, accanto al 4x4. Quando sente la canna del fucile sfiorarle la nuca, prega il cielo perché il carceriere non si volti. Il colpo parte all'improvviso, trascinando nella sua bestemmia una preghiera incompiuta.
Atiq ignora se la cerimonia sia durata qualche ora oppure un'eternità. I barellieri finiscono di ammucchiare i loro cadaveri sul rimorchio di un trattore. Un sermone particolarmente perentorio conclude i "festeggiamenti". Immediatamente, il prato è invaso da migliaia di fedeli per la grande preghiera. Un mullah dai modi di sultano guida il rito mentre sbirri rabbiosi danno la caccia ai ritardatari. Partiti gli ospiti di prestigio, orde pullulanti si tramutano in risacche feroci prima di convergere verso le uscite. Scoppiano zuffe inaudite, e così violente che il servizio d'ordine è costretto a battere in ritirata. Non appena i burqa iniziano a  defluire dagli spalti, Atiq raggiunge un assembramento di uomini fuori dello stadio. Qassim è lì, le mani sui fianchi, visibilmente soddisfatto della sua prestazione. È convinto che il suo contributo al buon svolgimento delle esecuzioni pubbliche non sia sfuggito ai guru. Si vede già promosso alla testa del più grande penitenziario del paese.
Le prime donne iniziano a uscire dallo stadio, subito recuperate dai loro uomini. Si allontanano a gruppetti più o meno uniformi, alcune cariche di figli. La gazzarra si attenua man mano che le orde sgombrano i dintorni dello stadio. La folla si diluisce nella polvere risalendo verso la città, inframmezzata dai camion dei talebani che s'inseguono in un carosello infernale.
Qassim riconosce il suo harem in mezzo alla calca; con un cenno del capo, indica il pulmino in attesa sotto un albero.
«Se vuoi, posso portare te e tua moglie a casa.»
«Non c'è bisogno» gli dice Atiq.
«La deviazione non mi darebbe alcun fastidio.»
«Ho delle faccende da sbrigare in città.»
«Bene, d'accordo. Spero che rifletterai sulle mie proposte.»
«Certo...»
Qassim lo saluta e si affretta a raggiungere le sue donne.
Atiq continua ad aspettare la sua. Intorno a lui, l'assembramento si restringe come una pelle di zigrino. Ben presto, solo un piccolo grappolo d'individui irsuti gli tiene compagnia per pochi minuti ancora, prima di sparire a sua volta, trascinandosi dietro il fruscio dei burqa. Tornato in sé, Atiq si accorge che sul piazzale non è rimasto più nessuno. Tranne il cielo gravido di polvere e il portone dello stadio spalancato, è il silenzio; un silenzio miserabile, profondo come un abisso. Atiq si guarda intorno, incredulo, completamente disorientato; è proprio solo. Preso dal panico, si precipita dentro la cinta. Il prato, gli spalti, la tribuna sono deserti. Rifiuta di ammetterlo e corre verso la tribuna riservata alle donne. Tranne i lastroni di una straziante nudità, nessuno. Torna sul prato e si mette a correre come un pazzo. Il suolo ondeggia sotto le sue falcate. Gli spalti abbandonati si mettono a girare, vuoti, vuoti, vuoti. Per un momento, la nausea lo costringe a fermarsi. Ma subito riprende la sua folle corsa mentre il respiro ronzante minaccia di sommergere lo stadio, la città, il paese intero. Stordito, terrorizzato, il cuore sul punto di schizzargli fuori dalla gola, torna in mezzo al prato, esattamente lì dove si è coagulata una pozza di sangue e, la testa fra le mani, scruta ostinatamente, una dopo l'altra, le tribune. Realizzando improvvisamente quanto vasto sia il silenzio, le gambe gli cedono e cade in ginocchio. Il suo urlo da bestia folgorata si riversa sulla cinta, raccapricciante come la caduta di un titano: Zunaira!
Nel cielo plumbeo, le prime striature della notte si accingono a spegnere gli ultimi fuochi del crepuscolo. Una dopo l'altra, le luci del giorno si rannicchiano in cima agli spalti mentre le ombre, subdole e tentacolari, stendono il loro manto a terra per accogliere la notte. I rumori della città si vanno placando in lontananza. E nello stadio, che una brezza intrisa di fantasmi si prepara ad assillare, i lastroni si rintanano in un mutismo sepolcrale. Atiq, che ha pregato e aspettato come mai prima d'ora, accetta infine di rialzare la testa. La dolorosa miseria della cinta lo richiama all'ordine; non ha più nulla da fare in mezzo a quelle livide mura. Si alza poggiando una mano a terra. Le gambe malferme barcollano. Azzarda un passo, poi due, riesce a raggiungere alla meno peggio il portone. Fuori, la sera accumula oscurità ai piedi delle macerie. Dei mendicanti emergono dalle loro tane, la voce abbastanza  assonnata da rendere convincente la loro cantilena. Poco lontano, dei ragazzini armati di spade e fucili di legno continuano le cerimonie della mattinata; hanno immobilizzato alcuni loro compagni in un piazzale sinistrato e si accingono a giustiziarli. Qualche incanutito perdigiorno li osserva sorridendo, divertito e intenerito dalla verosimiglianza della ricostruzione. Atiq va dove lo portano i suoi passi. Ha l'impressione di camminare sopra una nuvola. Nella bocca inaridita, un solo nome ritorna - Zunaira - impercettibile, ma ossessivo. Passa davanti alla prigione, poi; davanti alla casa di Zanish. La notte lo coglie in fondo a un vicolo ingombro di macerie. Sagome evanescenti l'attraversano da parte a parte. Quando raggiunge casa sua, le gambe lo tradiscono nuovamente e s'accascia nel patio.
Supino, Atiq contempla la luna. Stasera, è perfettamente rotonda. Sembra una mela d'argento sospesa per aria. Quando era piccolo, passava le ore a contemplarla. Seduto sopra una collinetta, lontano dalla topaia di famiglia, si sforzava di capire come un astro così pesante potesse fluttuare nello spazio e si chiedeva se degli esseri simili agli abitanti del suo villaggio vi coltivassero i campi e vi facessero pascolare le capre. Una volta, suo padre era venuto a tenergli compagnia. Fu così che gli rivelò il mistero della luna. Era il sole, gli disse, che, dopo essersi pavoneggiato tutto il giorno, aveva spinto il proprio zelo fino a profanare i segreti della notte. Ma quel che vide era così insopportabile che perse tutti i suoi ardori.
A lungo Atiq aveva creduto a quella storia.
Ancora oggi, non può impedirsi di credervi. Cosa c'è di così terribile dall'altra parte della notte perché il sole vi lasci tutti i suoi colori?
Raccolte le ultime forze, si trascina dentro casa. Il braccio brancolante rovescia la lampada. Non l'accende. Sa che il più debole chiarore lo accecherebbe. Le sue dita scivolano lungo il muro, raggiungono il vano della stanza dove dormiva sua moglie. Cerca il pagliericcio, vi si lascia cadere e lì, la gola gonfia di singhiozzi, prende la coperta e se l'annoda intorno fino a strozzarsi: «Mussarat, mia povera Mussarat, cosa ci hai fatto?».
Si allunga sul giaciglio, stringe le ginocchia al ventre e si fa piccolo, piccolo.
"Atiq..."
Trasale.
Una donna è in piedi in mezzo alla stanza. Il burqa opalescente brilla nell'oscurità. Atiq è sbalordito. Si stropiccia energicamente gli occhi. La donna non scompare. È rimasta nello stesso posto, ondeggiando nella luce incerta.
"Pensavo che te ne fossi andata e che non ti avrei rivisto mai più" farfuglia cercando di alzarsi.
"Ti sbagliavi..."
"Da dove sei passata? Ti ho cercata dappertutto..."
"Non ero lontano... mi nascondevo."
"Sono stato sul punto d'impazzire."
"Adesso sono qui."
Atiq si appoggia al muro per rimettersi in piedi. Trema come una foglia. La donna allarga le braccia.
"Vieni" gli dice.
Lui corre a rannicchiarsi contro di lei. Come un bambino restituito alla madre.
"Oh, Zunaira, Zunaira, cosa sarei diventato senza di te?»
"Il problema non si pone."
"Ho avuto tanta paura."
"È colpa del buio che imperversa qui dentro."
"Non ho acceso apposta. E non ci tengo a farlo. Il tuo volto m'illuminerebbe più di mille candelabri. Togliti il cappuccio, per favore, e lascia che sogni di te."
Lei fa un passo indietro e solleva la parte superiore del burqa. Atiq lancia un grido di terrore gettandosi indietro. Non è più Zunaira; è Mussarat e ha metà del viso strappato via da una fucilata.
Atiq si risveglia urlando con le mani in avanti per respingere l'orrore. Gli occhi fuori delle orbite e il corpo madido di sudore, gli ci vorrà qualche secondo per capire che era solo un incubo.
Fuori, il sole sorge, e con lui i dolori del mondo.
È un Atiq spettrale quello che si arena al cimitero della città. Senza scudiscio né turbante. I pantaloni bassi, appena trattenuti da una cintura allacciata malamente. Non cammina in senso proprio, si trascina, lo sguardo sconvolto, il passo pesante. Le stringhe delle sue ciabatte imprimono nella polvere arabeschi sinuosi; la destra è rotta ed espone al sole un alluce informe, con l'unghia spezzata, orlata da una macchia di sangue. Deve essere scivolato da qualche parte, perché il fianco destro è macchiato di fango e ha il gomito scorticato. Sembra che sia ubriaco, e che ignori dove è diretto. Ogni tanto, si ferma per appoggiarsi contro un muro, la schiena curva, le mani schiacciate contro le ginocchia, indeciso fra la voglia di vomitare e la necessità di riprendere fiato. Il volto cupo, che una barba arruffata ombreggia, è sgualcito come una mela vizza con la fronte incisa e le palpebre tumefatte. Il suo dramma è lampante; il suo sfacelo, avanzato. I pochi curiosi che gli passano accanto lo esaminano intimoriti; alcuni effettuano larghe deviazioni per evitarlo, mentre i ragazzini che giocano un po' ovunque non lo perdono di vista. Atiq non è consapevole della paura che suscita. La testa gli pesa sulle spalle, i suoi gesti sono incoerenti; vede vagamente il labirinto dei vicoli. Non mangia da tre giorni. Il digiuno e il dolore lo hanno svigorito. Una saliva lattiginosa si è disseccata agli angoli della bocca; non smette di soffiarsi il naso sul polso. Gli ci vuole più di un colpo di reni per staccarsi dal muro e riprendere il cammino. Le gambe tremano sotto la carcassa sfibrata. Un gruppo di talebani l'ha fermato due volte, sospettando uno stato di ebbrezza; qualcuno l'ha anche picchiato intimandogli di tornare subito a casa. Atiq non se n'è accorto. Non appena l'hanno rilasciato, ha ripreso la strada del cimitero, come guidato da un richiamo sconosciuto.
Una famiglia, composta di donne cenciose e bambini dai visetti screziati da tracce di sudiciume, si raccoglie intorno a una tomba scavata di fresco. Poco lontano, un mulattiere cerca di riparare la ruota del carretto che una grossa pietra deve aver fatto uscire dall'asse. Qualche cane macilento annusa i sentieri, il muso sporco di terra, le orecchie dritte. Atiq barcolla in mezzo ai cumuli di terra che rigonfiano il terreno abbandonato di ecchimosi screpolate, senza pietre tombali né epitaffi; giusto delle fosse ricoperte di polvere e breccia, scavate un po' alla rinfusa, in un guazzabuglio allarmante che aggiunge un tocco tragico alla tristezza del luogo. Atiq si attarda sulle tombe scheletriche, ogni tanto si accovaccia per tastarle con la punta delle dita, poi le scavalca o v'inciampa sopra brontolando. Dopo aver fatto un giro, si rende conto che non è in grado di riconoscere l'estrema dimora di Mussarat, visto che non sa neppure dove si trovi. Scorge un becchino intento a mordere un pezzo di carne affumicata sul lato opposto del quadrato, e va a chiedergli dov'è sepolta la donna giustiziata pubblicamente il giorno prima allo stadio della città. Il becchino gli indica un ammasso di polvere poco distante e riprende a mangiare con appetito.
Atiq si lascia cadere davanti alla tomba della moglie. Si prende la testa fra le mani. Resta così fino a pomeriggio inoltrato. Senza una parola. Senza un lamento. Senza una preghiera. 
Incuriosito, il becchino viene a controllare se lo strano visitatore sia sveglio. Gli fa notare che il sole picchia forte e che, se non si mette al riparo, rischierà di pagarne le conseguenze. Atiq non capisce di cosa lo stiano rimproverando. Continua a fissare la tomba della moglie senza muoversi. Poi, con la testa che gli scoppia, mezzo cieco, si rialza e lascia il cimitero senza voltarsi indietro. La mano ora appoggiata a un muro, ora contro un arbusto, vaga da un vicolo all'altro. È allora che una donna, uscendo da una mansarda, quasi lo fa rinsavire. Indossa un burqa scolorito, dai lembi strappati, e calza scarpe scalcagnate. Atiq si piazza in mezzo al vicolo per intercettarla. La donna si scansa sul lato; Atiq l'afferra per il braccio e cerca di trattenerla. Lei si libera con uno strattone dalla morsa dell'uomo e scappa via... Zunaira, le dice, Zunaira... La donna si ferma in fondo al vicolo, lo osserva incuriosita e scompare. Atiq si affretta a correrle dietro, le braccia protese come se cercasse di afferrare una voluta di fumo. In un altro vicolo, sorprende una donna sulla soglia di un rudere. Vedendolo arrivare, questa rientra e si chiude la porta alle spalle. Atiq si volta e vede un burqa giallo scivolare verso la piazza del quartiere. Lo segue, le mani sempre in avanti. Zunaira, Zunaira... I bambini si fanno da parte, spaventati da quell'uomo arruffato, dagli occhi in fuori e le labbra blu, che sembra braccare la propria follia. Il burqa giallo si ferma di fronte a una casa. Atiq gli piomba addosso, lo raggiunge proprio mentre una porta si apre... Da dove sei passata? Ti ho aspettato all'uscita dello stadio, come avevamo deciso, e tu non sei venuta... Il burqa giallo cerca di sottrarsi agli artigli che lo lacerano... Lei è pazzo. Mi lasci o mi metto a gridare. .. Stavolta non ti lascerò più sola, Zunaira. Se non sei capace di trovarmi, non ti costringerò più a cercarmi... Non sono Zunaira. Vada via, disgraziato, altrimenti i miei fratelli la uccideranno... Togliti il cappuccio. Voglio vedere il tuo viso, il tuo bel viso da uri... Il burqa sacrifica un lembo del fianco e si volatilizza.
Alcuni ragazzini, che hanno assistito alla scena, raccolgono dei sassi e si mettono a mitragliare il pazzo finché non torna indietro. La tempia squarciata da un proiettile, il sangue che gli cola sull'orecchio, Atiq si mette a correre, dapprima a passettini, poi, man mano che si avvicina alla piazza, allunga la falcata, il respiro rauco, le narici frementi, la schiuma alla bocca. Zunaira, Zunaira, balbetta urtando i passanti a caccia di burqa. Improvvisamente, in preda alla frenesia, si mette a braccare le donne e - oh, sacrilegio! - a scoprirne i volti. Zunaira, so che sei qui. Esci dal tuo nascondiglio. Non hai nulla da temere. Nessuno ti farà del male. Ho sistemato tutto. Non permetterò a nessuno di darti fastidio... Si alzano grida indignate. Le sue mani afferrano i veli, li strappano con rabbia, facendo talvolta cadere le donne prese in trappola. Se qualcuna gli resiste, la scaraventa a terra, la trascina nella polvere e la lascia andare solo dopo essersi accertato che non si tratta di colei che sta cercando. Una prima manganellata lo raggiunge alla nuca. Non demorde. Catapultato da una forza sovrannaturale, prosegue la sua corsa forsennata. Ben presto, una folla scandalizzata si dispiega per trattenerlo. Le donne si disperdono urlando; lui riesce ad afferrarne qualcuna, ne lacera la veste, solleva loro la testa tirandole per i capelli. Alla manganellata seguono le frustate, poi i pugni e i calci. Gli uomini "disonorati" travolgono le loro donne pur di gettarsi addosso al pazzo... Demone! Tizzone d'inferno!... Atiq ha la vaga sensazione di essere trascinato da una valanga. Mille ciabatte si abbattono su di lui, mille bastoni, mille scudisci. Depravato! Maledetto! Travolto dal tumulto, crolla a terra. La muta furibonda si avventa su di lui per linciarlo. Ha giusto il tempo di notare che la sua camicia non c'è più, lacerata da dita rapaci, che il sangue cola copioso sul petto e lungo le braccia, mentre le sopracciglia spaccate gli impediscono di commisurare l'irrefrenabile furia che l'assedia.
Frammenti di parole confuse si aggiungono alla miriade di colpi per tenerlo a terra... Impicchiamolo; crocifiggiamolo, bruciamolo vivo... Improvvisamente, la sua testa vacilla e quanto lo circonda piomba nell'oscurità. Segue un silenzio, grave e intenso. Chiudendo gli occhi, Atiq supplica gli antenati affinchè il suo sonno sia impenetrabile come i segreti della notte.


 

LE RONDINI DI KABUL
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