DUE GIUGNO 1910

 

 

 

Quando l’ombra della finestra si disegnò sulla tenda erano fra le sette e le otto e, ascoltando l’orologio, riebbi coscienza del tempo. Era l’orologio del nonno e il babbo, dandolo a me, mi aveva detto: Quentin, ti do il sepolcro di tutti i desideri e speranze; sventuratamente è molto probabile che te ne servirai per ricavarne il reductio absurdum di ogni umana esperienza, da cui i tuoi personali bisogni non resteranno più soddisfatti di quanto lo furono i suoi, o quelli di suo padre. Non te lo do perché ti ricordi del tempo, ma affinché tu possa dimenticartene per un momento di tanto in tanto, evitando di dedicare ogni tuo sforzo per conquistarlo. Poiché, egli disse, nessuna battaglia venne mai vinta. Nessuna battaglia venne neppure mai combattuta. La lotta rivela all’uomo soltanto la propria follia disperata e la vittoria è un’illusione dei pazzi e dei filosofi.

Era appoggiato alla scatola dei colletti e me ne stavo disteso, ad ascoltarlo. A sentirlo, anzi, perché non credo che nessuno abbia mai deliberatamente ascoltato un orologio o una pendola. È superfluo. Si può restarsene a lungo inconsapevoli di quel suono, poi il tictac di un secondo reca alla mente l’interminabile, decrescente sequenza di tempo trascorso senza che ce ne fossimo accorti. Come il babbo diceva, nei lunghi, solitari raggi di luce si può scorgere Gesù che cammina: così. E il buon San Francesco, che disse Suora Morte, lui che non ebbe mai una sorella.

Di là dalla parete udii le molle del letto di Shreve, le sue pantofole che scivolavano sull’impiantito. Mi levai, andai al cassettone, vi passai sopra la mano e, trovato l’orologio, lo rovesciai e feci, ritorno nel letto. Ma l’ombra della finestra era lì, ancora, e da quella avevo imparato a conoscere quasi il minuto preciso, così dovetti voltarle le spalle, e allora cominciarono a prudermi gli occhi che in tempi remoti gli animali avevano dietro alla testa. Sono sempre le abitudini oziose quelle che si rimpiangono. Lo diceva anche il babbo. Diceva che Cristo non era stato crocifisso, ma liquidato da un minuscolo scatto di piccole ruote. Cristo, che non aveva una sorella.

Poi, quando seppi che non potevo vederla, cominciai a chiedermi che ora fosse. Il babbo diceva che chiedersi costantemente quale sia la posizione di lancette meccaniche su un quadrante convenzionale è sintomo di digestione mentale. Un escremento, diceva il babbo, come il sudore. Ed io dicevo: Ah, sì. Vorrei sapere se è vero. E tu pensaci un poco.

Se fosse stato nuvoloso, avrei potuto guardare alla finestra a meditare su quello che il babbo diceva a proposito delle abitudini oziose. E pensare che sarebbe stato molto piacevole per loro, a New London, se il tempo si fosse mantenuto così. E perché no? Il mese dei matrimoni, la voce che sussurrava. Fuggì correndo dallo specchio, dall’onda di profumo. Rose. Rose. Il signor Jason Richmond Compson e consorte annunziano il matrimonio di. Rose. Non vergini, come le corniole, le asclepiadi. Dissi: Ho commesso un incesto, basso, dissi. Rose. Serene e maliziose. Se vivi un anno a Harvard, e non vedi le regate, dovresti farti rendere i quattrini. Ci vada Jason. Vada per un anno a Harvard.

Shreve stava sulla soglia, mettendosi il colletto; i suoi occhiali avevano dei rosei riflessi, come se li avesse lavati col viso. «Tagli la corda, stamani?»

«È già così tardi?»

Guardò l’orologio: «Fra due minuti suona la campana».

«Non credevo che fosse così tardi.» Guardava ancora l’orologio, sporgendo le labbra. «Devo spicciarmi. Non posso mica far forca un’altra volta. Il rettore mi ha detto, la settimana scorsa...» Rimise in tasca l’orologio. Allora cessai di parlare.

«Faresti meglio a infilarti i pantaloni e a venire» disse. Uscì.

Mi alzai e presi a girellare per la stanza; lo udivo, dall’altra parte del muro. Entrò in salotto e si avviò alla porta.

«Non sei pronto, ancora?»

«Non ancora. Vai pure. Ti raggiungerò in tempo.»

Uscì. La porta si richiuse. I suoi passi dileguarono nel corridoio. Udii allora di nuovo l’orologio. Smisi di girellare, andai alla finestra, scostai la tenda e li vidi correre verso la Cappella, i soliti con le solite giacche svolazzanti, con i soliti libri, con i soliti colletti sbottonati; volavano via come i relitti di un torrente, e Spoade. Chiamava Shreve mio marito. E lascialo fare, diceva Shreve, se pensa ad altro che a correre dietro a quelle sporche sgualdrine. Nel Sud si vergognano di essere vergini. Ragazzi. Uomini. È tutta una bugia. Perché, diceva il babbo, alle donne importa meno. Diceva che sono stati gli uomini a inventare la verginità, e non le donne. Il babbo diceva che era come la morte: uno stato in cui gli altri vengono lasciati, e basta così. E io dicevo: Ma da qui a dire che non ha importanza. E lui diceva: È per questo che tutto è così triste, mica soltanto la verginità. E io dicevo: Perché è toccato a lei, di non essere più vergine, e non a me? E lui diceva: Anche questo è triste; non c’è nulla che valga la pena fare a cambio, e Shreve diceva: Se pensa ad altro che correre dietro a quelle sporche sgualdrine, e io dicevo: Hai mai avuto una sorella? Mai avuta? Mai?

Spoade avanzava in mezzo a tutti, come una tartaruga in una strada cosparsa di foglie morte trasportate dal vento. Aveva il colletto intorno agli orecchi, procedeva col suo passo tranquillo abituale. Era un anziano della Carolina del Sud. Il suo club si vantava ch’egli non avesse mai corso per giungere alla Cappella, che non vi fosse mai arrivato per tempo, che non fosse mai stato assente in quattro anni di studi e che non avesse mai partecipato al servizio religioso o alla prima lezione con la camicia indosso e i calzini infilati. Verso le dieci andava al bar di Thompson, ordinava due tazze di caffè, si metteva a sedere, tirava i calzini fuori di tasca, si levava le scarpe e se li metteva, mentre il caffè si raffreddava. Verso mezzogiorno si poteva vederlo con la camicia e con il colletto, come tutti gli altri. Gli studenti l’oltrepassavano di corsa, ma lui non accelerava affatto il suo passo. Dopo un poco, il cortile si vuotò.

Un passerotto tagliò il sole di sbieco, si posò sul davanzale della finestra e drizzò la testa verso di me. Aveva l’occhio rotondo e brillante. Mi guardò dapprima con un occhio, poi: tac, con l’altro, mentre la gola gli palpitava più veloce di qualsiasi fremito. Cominciò a battere l’ora. Il passerotto smise di scambiare occhiate e mi fissò a lungo con la medesima pupilla finché i rintocchi terminarono, come se anche lui li stesse ascoltando. Poi guizzò via dal davanzale e scomparve.

Ci volle qualche tempo, prima che la vibrazione dell’ultimo rintocco si estinguesse. Restò sospesa in aria a lungo, più sentita che udita. Come tutte le campane che abbiano mai suonato nel mondo vibrano ancora nei lunghi raggi di luce morente, e Gesù e San Francesco che parlava di sua sorella. Perché, se si trattasse soltanto dell’inferno, se tutto fosse lì. Finito. Se le cose finissero e basta. Nessun altro, laggiù, tranne lei ed io. Se almeno avessimo potuto fare qualcosa di così spaventoso da mandar via tutti quanti dall’inferno, all’infuori di noi due. Ho commesso un incesto, babbo, dissi, sono stato io, non Dalton Ames. E quando mi mise in mano. Dalton Ames. Dalton Ames. Dalton Ames. Quando mi mise in mano la pistola, non sparai. Ecco perché non sparai. Sarebbe laggiù, e anche lei, e anch’io. Dalton Ames. Dalton Ames. Dalton Ames. Se almeno avessimo potuto fare qualcosa di così spaventoso e il babbo disse: Anche questo è triste, la gente non può fare nulla di così spaventoso, non può far neppure nulla di spaventoso davvero, non può neppure ricordare all’indomani quello che oggi le sembra così spaventoso. E io dissi: C’è sempre modo di cavarsela. E lui disse: Credi proprio. Ed io mi chinerò a guardare e vedrò le mie ossa che cozzano l’una con l’altra, l’acqua profonda come il vento, come un tetto di vento, e poi, col passare del tempo, su quella sabbia solitaria e inviolata non si potranno scorgere più nemmeno le ossa. Fino al Giorno in cui Egli dirà: Levatevi, e allora solo il ferro da stiro salirà a galla. Non è quando si capisce che nulla può venirci in aiuto: religione, orgoglio, nulla; è quando si capisce di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno. Dalton Ames. Dalton Ames. Dalton Ames. Avessi potuto essere sua madre, stesa col corpo dischiuso e inarcato, a ridere, a respingere suo padre con la mano, a trattenerlo e a veder lui, a guardarlo morire prima di avere vissuto. Per un minuto, ella indugiò sulla soglia.

Andai al cassettone e presi l’orologio, sempre rovesciato. Ruppi il vetro sullo spigolo del cassettone, raccolsi nella mano i frammenti, li collocai nel portacenere, strappai le lancette e le misi nel portacenere. L’orologio seguitava a battere. Lo rigirai: quadrante vuoto coi piccoli ingranaggi, dietro, che facevano tic-tac tic-tac, senza sapere perché. Gesù in cammino per la Galilea e Washington che non dice mai bugie. Il babbo aveva portato a Jason, dalla fiera di Saint Louis, un ciondolo da orologio: un paio di minuscoli binocoli da teatro nei quali, strizzando un occhio, si vedeva un grattacielo, una giostra meccanica tutta ingranaggi e le cascate del Niagara grandi quanto una testa di spillo. C’era una macchia rossa sul quadrante. Quando me ne accorsi, il pollice cominciò a frizzarmi. Deposi l’orologio, andai in camera di Shreve, presi la tintura d’iodio e mi spalmai la bucatura. Con l’asciugamano tolsi tutti i frammenti di vetro che erano rimasti sul quadrante.

Lasciai fuori due ricambi di biancheria, con calzini, camicie, colletti, cravatte, e preparai il baule. Ci misi dentro tutto, tranne l’abito nuovo, un altro vecchio, due paia di scarpe, due cappelli e i miei libri. Portai i libri in salotto e li ammucchiai sul tavolo, quelli che avevo portato da casa e quelli il babbo diceva che un galantuomo si conosceva un tempo dai suoi libri; oggi si conosce da quelli che non restituisce e chiusi il baule e ci scrissi sopra l’indirizzo. Suonò il quarto d’ora. Rimasi in ascolto, finché i rintocchi non furono cessati.

Feci il bagno e mi sbarbai. L’acqua mi faceva frizzare un po’ il dito, così lo disinfettai ancora. Indossai l’abito nuovo, mi posi in tasca l’orologio e sistemai in valigia l’altro vestito, gl’indumenti, le spazzole e il rasoio. Rinvoltai la chiave del baule in un foglio di carta, la misi in una busta e l’indirizzai a mio padre. Scrissi poi i due biglietti e li chiusi in busta.

L’ombra non aveva ancora completamente lasciato la terrazza. Mi fermai, sulla soglia, a guardar l’ombra muoversi. Si moveva quasi percettibilmente, strisciando lungo la vetrata, rientrando nella stanza dalla vetrata. Ma correva di già, quando l’udii. Correva nello specchio, prima che sapessi cos’era. Rapida, con lo strascico raccolto sul braccio, corse via dallo specchio come una nube, il velo le ondulava in fremiti lunghi, correva sui fragili tacchi e con l’altra mano si teneva su l’abito ad una spalla, fuggendo via dallo specchio i profumi rose rose la voce che sussurrava sull’Eden. Poi attraversò la veranda e non potei più udire il suono dei tacchi, poi nel chiaro di luna, come una nube, correva sull’erba l’ombra fluttuante del velo, verso il lamento. Sgusciò fuori dall’abito, quando il velo le rimase attaccato, corse verso il lamento dove T. P. nella rugiada: Muuuh, Salsapariglia, Benjy che se ne stava lì a mugolare, sotto la cassa. Il babbo aveva sul petto una corazza d’argento a forma di V e correva.

Shreve, disse: «Dunque, non sei...È un matrimonio o un funerale?».

«Non ce l’ho fatta» dissi.

«Sfido, hai voluto metterti in ghingheri. Che succede? Credevi che fosse domenica?»

«Spero che non mi arresteranno se, una volta tanto, mi sono messo l’abito nuovo» dissi.

«Pensavo agli studenti modello. Sei divenuto troppo snob per frequentare le lezioni?»

«Prima di tutto vado a mangiare.» L’ombra nella terrazza era dileguata. Uscii alla luce del sole, dove ritrovai la mia ombra. La precedetti, giù per la scalinata. Suonò la mezz’ora. Poi i rintocchi cessarono e si spensero in lontananza.

Deacon non era neanche all’ufficio postale. Affrancai le due buste, imbucai quella per il babbo e misi nella tasca interna quella per Shreve, poi ricordai quando avevo visto Deacon per l’ultima volta. Era il Decoration Day, e lui si trovava al centro del corteo in uniforme di guardia repubblicana. Bastava attendere abbastanza a qualsiasi angolo di strada per vederlo, arrivare in qualche corteo. La volta avanti era stato per l’anniversario della nascita di Colombo o Garibaldi o qualcun altro. Marciava con il Corpo degli Spazzini, in cappello a tubo di stufa, con una bandiera italiana alta dieci centimetri, e fumava un sigaro fra una foresta di scope e badili. Ma l’ultima volta vestiva l’uniforme di guardia repubblicana, perché Shreve aveva detto:

«Ecco, guarda cosa ha fatto tuo nonno di un povero vecchio negro.»

«Sì» risposi «adesso può andarsene tutti i giorni a sfilare in parata. Se non fosse stato per mio nonno, gli toccherebbe a lavorare, come i bianchi.»

Non lo trovai da nessuna parte. Ma non ho mai conosciuto un negro, nemmeno di quelli che lavorano, capace di farsi trovare quando ce n’era bisogno, tranne uno che aveva quattrini a palate. Passò un tram. Scesi in città, andai da Parker e feci una colazione abbondante. Mentre mangiavo, udii un orologio che batteva l’ora. Ma poiché, per creare in noi stessi il senso del progresso meccanico del tempo, è occorso un intervallo più lungo di tutta la storia, pensai che ci fosse bisogno almeno di un’ora per perderlo.

Finito di far colazione, mi comprai un sigaro. La ragazza disse che quelli da cinquanta cents erano i migliori, così ne presi uno, l’accesi e uscii in strada. Mi fermai un attimo, a tirar due boccate, poi, tenendolo fra le dita, mi avviai verso l’angolo. Passai davanti alla vetrina di un gioielliere, ma feci in tempo a distogliere gli occhi. All’angolo due lustrascarpe mi saltarono addosso, uno per parte, striduli e rauchi come cornacchie. Detti il sigaro ad uno e cinque cents all’altro. Allora mi lasciarono in pace. Quello col sigaro cercava di venderlo all’altro per cinque cents.

Molto alto, nel sole, c’era un orologio, e mi resi conto che, quando non si vuol fare una cosa, il nostro corpo ci attira a farla a tradimento, senza che ce ne accorgiamo. Potevo sentire i muscoli, dietro al collo, e poi potevo udire il tic-tac dell’orologio che avevo in tasca, finché ogni altro suono scomparve e rimase soltanto quello dell’orologio in tasca. Rifeci indietro la strada, fino alla vetrina. Lavorava al suo banco, dietro alla vetrina. Era quasi calvo. Aveva un vetro nell’occhio, un tubo metallico avvitato nel viso. Entrai.

Il negozio era pieno di tic-tac, come grilli nell’erba a settembre, e potevo udire una grossa pendola al muro, sopra alla sua testa. Alzò lo sguardo, il suo occhio enorme e sfocato sgusciò fuori dal vetro. Tirai fuori l’orologio e glielo porsi.

«L’ho rotto.»

Lo fece saltare nella mano. «Lo dico anch’io che l’ha rotto. Deve averci camminato sopra.»

«Sì. Mi è caduto dal cassettone e ci ho messo un piede sopra, nel buio. Cammina ancora, però.»

Aprì la cassa, lo scrutò. «Sembra che vada. Impossibile dire, però, finché non l’ho smontato. Ci penso stasera.»

«Lo riporterò più tardi» dissi. «Le dispiace di dirmi se, fra tutti quegli orologi in vetrina, ce n’è qualcuno che segna l’ora giusta.»

Rimase a guardarmi, con l’orologio ancora nella palma della mano.

«Ho fatto una scommessa con un compagno» dissi «e stamani ho dimenticato gli occhiali.»

«Ah, sicuro» disse. Depose l’orologio e, levandosi a mezzo sullo sgabello, guardò al disopra della tendina. Poi alzò lo sguardo sulla parete: «Mancano ven...».

«La prego» dissi, «non me lo dica. Mi dica soltanto se c’è qualche orologio che segna l’ora giusta.»

Mi guardò ancora. Si rimise a sedere sullo sgabello e sollevò sulla fronte la lente. Gli aveva lasciato un cerchio intorno all’occhio e, quando scomparve, fu come se si fosse denudato la faccia. «Che festa è oggi?» chiese. «Le regate non avranno luogo prima della settimana prossima, vero?»

«Infatti. Ma questa è una festa privata. Un compleanno. Ce n’è qualcuno che segna l’ora giusta?»

«No. Non sono stati ancora regolati e rimessi. Se ha idea di comprarne uno...»

«No, non ho bisogno di un orologio. Abbiamo una pendola nel nostro salotto. Quando mi sembrerà il caso, farò accomodare questo qui.» Allungai la mano.

«Meglio che lo lasci adesso.»

«Lo riporto più tardi.» Mi restituì l’orologio. Lo rimisi in tasca. Adesso, col rumore degli altri, non potevo più udirlo. «Molto obbligato. Spero di non averle fatto perdere troppo tempo.»

«Non fa nulla. Lo porti quando le pare. E sarà meglio che rimandi quella festa fino a quando avremo vinto le regate.»

«Sì, proprio, lo credo anch’io.»

Uscii, chiudendo la porta ai tic-tac. Tornai a guardare la vetrina. Mi osservava, di sopra al tramezzo. Vi era, nella vetrina, una dozzina circa di orologi, una dozzina di ore diverse e ciascuno con la medesima sicurezza perentoria e contraddittoria del mio, che era senza lancette. Si contraddicevano l’uno con l’altro. Potevo udire il mio, nella tasca, che si ostinava a fare tictac, anche se nessuno poteva vederlo, anche se nessuno avrebbe potuto leggervi nulla, nel caso che l’avesse visto.

E allora mi dissi che avrei dovuto prendere quello. Perché il babbo diceva che gli orologi ammazzano il tempo. Diceva che il tempo è morto, finché il tic-tac di piccole ruote lo rosica; torna alla vita soltanto quando l’orologio si ferma. Le lancette erano divaricate, non proprio orizzontali, ma in guisa da formare un lievissimo angolo, come un gabbiano librato nel vento. Aveva in sé tutto quanto avrebbe potuto ispirarmi rimpianto, come la luna nuova che, dicono i negri, è piena d’acqua. Il gioielliere si era rimesso al lavoro, curvo sul banco, col tubo incastrato nel viso. Aveva i capelli discriminati nel mezzo. La divisa risaliva fino al punto nel quale era calvo, come una palude prosciugata in dicembre.

Vidi, dall’altra parte della strada, il negozio di ferramenta. Non sapevo che i ferri da stiro si vendessero a peso.

Il commesso disse: «Questi qui pesano dieci libbre». Ma erano più grossi di quel che credevo, così ne presi due piccoli da sei libbre, perché, involtati, sembravano un paio di scarpe. Tutti e due insieme, però, erano piuttosto pesanti, ma io pensai di nuovo a quello che il babbo aveva detto a proposito del reducto absurdum dell’umana esperienza, pensai che l’unico profitto dei miei studi a Harvard. Forse fra un anno; occorrono forse due anni di studio, per imparare a farlo per bene.

Ma, quando fui fuori, pesavano assai. Venne un tram. Vi salii. Non lessi il cartello, davanti. Era pieno, soprattutto di gente dall’aria prospera, intenta a leggere giornali. L’unico posto libero era accanto a un negro. Aveva il tubino e scarpe lustre; in bocca una cicca, spenta di sigaro. Avevo sempre avuto idea che uno del Sud dovesse avere continuamente presente il problema dei negri. Credevo che quelli del Nord pretendessero una simile cosa da lui. Quando andai all’Est, non facevo altro che dirmi: Devi ricordarti di non considerarli dei negri, ma della gente di colore, e, se non fosse stato che mi trovai a contatto con ben pochi di loro, avrei perso un monte di tempo e fatica prima d’imparare che il miglior modo di comportarsi con la gente, bianca o nera che sia, è di prenderla per quello che crede di essere e poi lasciarla in pace. Ciò avvenne quando compresi che un negro non è tanto una persona quanto un modo di essere, una specie di inversione riflessa dei bianchi fra i quali egli vive. Ma dapprincipio immaginavo che avrei dovuto provare la nostalgia di averne una folla d’intorno, perché così, secondo me, pensavano quelli del Nord; però, in realtà, non mi accorsi di sentire la mancanza di Roskus, di Dilsey e di tutti gli altri fino a quel mattino, in Virginia. Quando mi svegliai il treno era fermo; alzai la tendina e guardai fuori. Il vagone sbarrava un passaggio a livello dove due bianchi steccati scendevano giù da una collina, allargandosi poi in basso come a disegnare i frammenti di un corno; in mezzo alla carreggiata di fango indurito che solcava il sentiero, un negro su un mulo attendeva la partenza del treno. Da quanto tempo fosse lì non sapevo, ma se ne stava a cavalcioni del mulo, con la testa fasciata in un pezzo di stoffa, come se l’avessero costruito in quel luogo, insieme allo steccato e alla strada, scolpito sul fianco della collina, quasi un’insegna messa lì a dire: Eccoti a casa di nuovo. Non aveva sella, e i piedi gli ciondolavano fino a toccar quasi terra. Il mulo pareva un coniglio. Alzai il vetro.

«Ehi, zio» dissi. «Si va di qui?»

«Come, signore?» mi guardò, poi si allentò il pezzo di stoffa, sollevandolo per scoprire l’orecchio.

«Regalo natalizio!» dissi.

«Grazie, padrone. Me l’ha fatta, eh?»

«Per questa volta, ti lascio andare.» Tirai giù dalla rete i calzoni e presi un quarto di dollaro. «Ma la prossima, stai attento. Ripasso di qui due giorno dopo Capodanno, e stai in guardia.» Gettai dal finestrino il quarto di dollaro. «Compra qualcosa per Babbo Natale.»

«Sissignore» disse. Discese, raccattò la moneta e la strofinò sulla gamba. «Grazie, padroncino, grazie.» Poi il treno cominciò a muoversi. Mi spenzolai dal finestrino, nell’aria diaccia, a guardare indietro. Stava lì fermo, dinanzi a quel mulo scarno che pareva un coniglio, tutti e due frusti, placidi, immoti. Il treno oscillò sulla curva, con la motrice che ansava in sbuffi brevi, potenti, e dileguarono entrambi così, lievemente, allo sguardo, circonfusi in quella loro atmosfera al di fuori del tempo, di miseria e pazienza, di statica serenità; quel miscuglio d’incoscienza infantile e di paradossale fiducia che spinge costoro a sorvegliare e proteggere quelli che amano oltre ogni misura, e a derubarli e ad evadere da qualsiasi obbligo o responsabilità con mezzi troppo sfrontati per giungere a definirli sia pure dei sotterfugi e che, nel furto come nelle scappate, debbono essere giudicati soltanto con quella franca ammirazione per il vincitore che una persona dabbene non può non provare verso chi l’ha sconfitto in giusta lotta; quella tolleranza benigna e costante pei capricci dei bianchi, che è simile a quella di un nonno coi nipotini disobbedienti e irrequieti. Tutto questo lo avevo scordato. E, per quel giorno intero, mentre il treno serpeggiava attraverso le gole precipitose e lungo i cigli ove il movimento era solo un faticoso fragore di ruote esauste e gementi, mentre le eterne montagne s’illanguidivano sull’azzurro intenso del cielo, pensai a casa mia, alla squallida stazione, alla mota, ai negri, alla gente di campagna che si muoveva lentamente accalcandosi in piazza, con le scimmiette di velluto, i carretti, i cartocci di dolci e le candele romane che facevano capolino fuor dalle tasche, e le budella mi si rivoltolavano come mi succedeva, a scuola, quando la campana suonava.

Non cominciavo a contare prima che l’orologio avesse suonato le tre. Allora cominciavo, contavo fino a sessanta e, piegando un dito, pensavo alle altre quattordici dita che aspettavano di venire piegate, o tredici, o dodici, od otto, o sette, finché a un tratto mi accorgevo che si era fatto silenzio e che tutti quanti stavano col fiato sospeso, e dicevo: «Come, signorina?». «Ti chiami Quentin, non è vero?» diceva la signorina Laura. Poi silenzio più fitto che mai, e la crudeltà di quelli che stavano col fiato in sospeso, e le mani che annaspavano nel silenzio. «Henry, dillo tu, a Quentin, chi ha scoperto il Mississippi.» «De Soto.» Poi la tensione si rallentava e, dopo un poco, avevo paura di essere rimasto indietro e mi rimettevo a contare più presto e piegavo un altro dito; poi avevo paura di aver contato troppo presto e rallentavo, poi avevo paura e andavo svelto di nuovo. E così non mi riusciva mai di essere a tempo con la campana, e allora, nel sollievo, i piedi già scalpitavano, sentendo la terra nell’assito, e il giorno come una lastra di cristallo scandiva un colpo lieve e secco, e le budella mi si rivoltolavano, mentre restavo immobile. Stare immobile, fremente. Per un minuto ella indugiò sulla soglia, Benjy. Un lamento. Benjamin, il figlio della mia vecchiaia, che si lamenta. Caddy! Caddy!

Voglio scappare di casa. Cominciò a piangere ed ella, avvicinandosi, lo toccò. Zitto. No, non lo farò. Zitto. Tacque. Dilsey.

Annusa quel che gli dici, quando vuole. Non ha bisogno di ascoltare né di parlare.

Può annusare anche il nome nuovo che gli hanno dato? Può annusare anche la sventura?

Cosa vuoi che gl’importi della sventura. La sventura non può toccarlo.

E perché, allora, gli hanno cambiato nome, se non può portargli bene?

Il tram si fermò, si mosse, si fermò ancora. Dal finestrino osservavo le teste dei passanti, con pagliette nuove, non ancora ingiallite. Nel tram vi erano, adesso, donne con ceste da spesa, e gli uomini in tuta cominciavano ad essere più numerosi delle scarpe lustre e dei colletti inamidati.

Il negro mi toccò un ginocchio. «Scusi» disse. Piegai in fuori le gambe per lasciarlo passare. Si procedeva lungo una muraglia nuda, e il fragore echeggiava all’interno, sulle donne con ceste da spesa sui ginocchi e su un uomo dal cappello macchiato, con una pipa infilata nel nastro. Potevo annusare l’acqua, e in una breccia del muro vidi un luccichio d’acqua e due alberi di nave, e un gabbiano immobile a mezz’aria, come su un filo invisibile teso fra i due alberi. Allora alzai la mano e palpai, attraverso la giacca, le lettere che avevo scritto. Quando il tram si fermò, discesi.

Il ponte era aperto, per il passaggio di un veliero. Era rimorchiato, e il rimorchiatore sbuffava sotto bordo, con getti di vapore, ma pareva che il bastimento si muovesse senza alcun impulso visibile. Un uomo nudo fino alla cintola, sul castello di prua, mollava una gomena. Aveva la pelle abbronzata, color foglia di tabacco. Un altro, in cappello di paglia senza cocuzzolo, reggeva il timone. La nave attraversò il ponte, passando a vele tirate, come uno spettro in pieno giorno; tre gabbiani si libravano sulla poppa come giocattoli appesi a un filo invisibile.

Quando venne richiuso l’attraversai e mi sporsi al parapetto, a guardare la darsena. Il pontone era vuoto e gli sportelli erano chiusi. Adesso la squadra usciva soltanto nel tardo pomeriggio, e prima si riposava. L’ombra del ponte, le sbarre del parapetto, la mia ombra che si allungava, piatta, sull’acqua e non voleva abbandonarmi. Misurava almeno cinquanta piedi: se almeno avessi avuto qualcosa per affondarla nell’acqua, per tenerla giù fino a che fosse annegata, l’ombra del pacco, come un paio di scarpe involtate, che si allungava sull’acqua. I negri dicono che l’ombra di un annegato resta sempre a galla, per contemplarlo. Balenava, luccicava, quasi sospirasse, anche il pontone pareva respirare lentamente, e i rottami semisommersi che fluttuavano verso il mare, verso le caverne e le grotte del mare. Lo spostamento dell’acqua è uguale a qualcosa di qualcosa. Reductio absurdum di ogni umana esperienza, e due ferri da stiro da sei libbre pesano più di un quadrello da sarto. Che vergogna, che spreco, direbbe Dilsey. Quando la nonna morì, Benjamin se ne accorse. Pianse. L’aveva fiutato, l’aveva fiutato.

Il rimorchiatore tornò, seguendo la corrente. L’acqua veniva tagliata in lunghi cilindri roteanti e infine giungeva, con l’eco del passaggio, a cullare il pontone che scivolava sul cilindro roteante con un tonfo molle e un lungo cigolio acuto, quando lo sportello fu aperto ed emersero due uomini, con uno scafo. Lo deposero in acqua e, un attimo dopo, giunse Bland, coi remi. Indossava calzoni di flanella, giacca grigia e paglietta. O lui o sua madre dovevano aver letto da qualche parte che gli studenti di Oxford remavano in calzoni di flanella e paglietta: così, al principio di marzo, gli avevano comprato un canotto, e coi suoi calzoni di flanella e la paglietta se n’era andato sul fiume. Quelli della darsena avevano minacciato di chiamare un vigile, ma lui era andato lo stesso. Sua madre era venuta, in automobile a noleggio e con una pelliccia come quelle degli esploratori artici, a vederlo remare sotto un vento di venticinque miglia e un’acqua disseminata di ghiaccioli come un gregge di pecore sudicie. Da allora in poi ho sempre creduto che Dio non sia soltanto un gentiluomo e uno sportivo, ma che per di più sia nato nel Kentucky. Quando si staccò da proda, sua madre girò la macchina e prese a seguirlo parallelamente lungo il fiume col motore in prima. Dicevano che pareva che non si fossero mai visti prima di quel momento e che andavano senza nemmeno guardarsi, come un re e una regina; come due astri se ne andavano per il Massachusetts, seguendo due orbite parallele fra loro.

Scese in canotto e si mosse. Adesso, ormai, remava assai bene. Era logico. Dicevano che sua madre avesse cercato di fargli smettere il canottaggio per scegliere qualcos’altro che i suoi compagni non potessero o non volessero fare, ma una volta tanto si era mostrato ostinato. Se si può chiamare ostinazione, starsene seduto in atteggiamento di noia principesca, coi capelli gialli ricciuti, gli occhi viola e l’abito di New York, mentre sua madre ci parlava dei cavalli di Gerald, dei negri di Gerald e delle donne di Gerald. Mariti e padri del Kentucky avevano dovuto provare un grande sollievo, quando lei spedì Gerald a Cambridge. Aveva affittato un appartamento in città, e anche Gerald ne aveva preso un altro in affitto, oltre alla stanza in collegio. Non era contraria che Gerald mi frequentasse perché io almeno davo prova, sia pure nella mia sventatezza, di un certo senso di noblesse oblige, essendo nato a sud di Mason e Dixon, e altri luoghi la cui posizione geografica corrispondeva alle esigenze (minime) richieste. Lo tollerava, a ogni buon conto. O lo perdonava. Ma da quando aveva conosciuto Spoade, mentre usciva dalla cappella numero uno, e Spoade aveva detto che lei non poteva essere una signora perché una signora non va fuori a quelle ore di notte, non aveva mai potuto perdonarlo di avere cinque nomi, incluso quello di una famiglia ducale inglese non ancora estinta. Sono convinto che si consolava immaginando che qualche degenere Maingault o Mortemar fosse andato a letto con la figlia del portiere. Il che era assai probabile, l’avesse o no inventato lei. Spoade era il campione del mondo dei fannulloni, sport nel quale ogni mossa è lecita e ogni regola lasciata a discrezione del giocatore.

Il canotto era, adesso, una piccola macchia, coi remi che riverberavano il sole a intervalli, come se lo scafo, procedendo innanzi, strizzasse l’occhio di tanto in tanto. Hai mai avuto una sorella? No, ma sono tutte sgualdrine. Hai mai avuto una sorella? Indugiò per un minuto. Sgualdrine. Non una sgualdrina, quel minuto che indugiò sulla soglia. Dalton Ames, Dalton Ames. Camicie Dalton. Avevo sempre creduto che fossero di cotone cachi, come quelle militari, ma poi mi accorsi che erano di seta cinese grossa, o di flanella leggera, perché gli facevano il viso così scuro e gli occhi così azzurri. Dalton Ames. Nome privo di signorilità. Adatto per teatro. Tutta cartapesta, tocca e te ne accorgi. Oh. Amianto. Niente affatto bronzo. Ma non lo vedrai, in casa.

Anche Caddy è una donna, ricordati. È spinta ad agire da impulsi femminili.

Perché non lo porti in casa, Caddy? Perché vuoi fare come fanno le negre, nei prati, nei fossi, nei boschi tenebrosi, ardenti selvagge nascoste nei boschi tenebrosi.

E, dopo avere ascoltato il mio orologio per un poco, e sentito le lettere che mi scricchiolavano nella giacca, contro la ringhiera, mi sporsi in giù e guardai la mia ombra, e pensai al tiro che le avevo giocato. Mi mossi, lungo la ringhiera, ma anche il vestito che indossavo vano comprato un canotto, e coi suoi calzoni di flanella e la paglietta se n’era andato sul fiume. Quelli della darsena avevano minacciato di chiamare un vigile, ma lui era andato lo stesso. Sua madre era venuta, in automobile a noleggio e con una pelliccia come quelle degli esploratori artici, a vederlo remare sotto un vento di venticinque miglia e un’acqua disseminata di ghiaccioli come un gregge di pecore sudicie. Da allora in poi ho sempre creduto che Dio non sia soltanto un gentiluomo e uno sportivo, ma che per di più sia nato nel Kentucky. Quando si staccò da proda, sua madre girò la macchina e prese a seguirlo parallelamente lungo il fiume col motore in prima. Dicevano che pareva che non si fossero mai visti prima di quel momento e che andavano senza nemmeno guardarsi, come un re e una regina; come due astri se ne andavano per il Massachusetts, seguendo due orbite parallele fra loro.

Scese in canotto e si mosse. Adesso, ormai, remava assai bene. Era logico. Dicevano che sua madre avesse cercato di fargli smettere il canottaggio per scegliere qualcos’altro che i suoi compagni non potessero o non volessero fare, ma una volta tanto si era mostrato ostinato. Se si può chiamare ostinazione, starsene seduto in atteggiamento di noia principesca, coi capelli gialli ricciuti, gli occhi viola e l’abito di New York, mentre sua madre ci parlava dei cavalli di Gerald, dei negri di Gerald e delle donne di Gerald. Mariti e padri del Kentucky avevano dovuto provare un grande sollievo, quando lei spedì Gerald a Cambridge. Aveva affittato un appartamento in città, e anche Gerald ne aveva preso un altro in affitto, oltre alla stanza in collegio. Non era contraria che Gerald mi frequentasse perché io almeno davo prova, sia pure nella mia sventatezza, di un certo senso di noblesse oblige, essendo nato a sud di Mason e Dixon, e altri luoghi la cui posizione geografica corrispondeva alle esigenze (minime) richieste. Lo tollerava, a ogni buon conto. O lo perdonava. Ma da quando aveva conosciuto Spoade, mentre usciva dalla cappella numero uno, e Spoade aveva detto che lei non poteva essere una signora perché una signora non va fuori a quelle ore di notte, non aveva mai potuto perdonarlo di avere cinque nomi, incluso quello di una famiglia ducale inglese non ancora estinta. Sono convinto che si consolava immaginando che qualche degenere Maingault o Mortemar fosse andato a letto con la figlia del portiere. Il che era assai probabile, l’avesse o no inventato lei. Spoade era il campione del mondo dei fannulloni, sport nel quale ogni mossa è lecita e ogni regola lasciata a discrezione del giocatore.

Il canotto era, adesso, una piccola macchia, coi remi che riverberavano il sole a intervalli, come se lo scafo, procedendo innanzi, strizzasse l’occhio di tanto in tanto. Hai mai avuto una sorella? No, ma sono tutte sgualdrine. Hai mai avuto una sorella? Indugiò per un minuto. Sgualdrine. Non una sgualdrina, quel minuto che indugiò sulla soglia. Dalton Ames. Dalton Ames. Camicie Dalton. Avevo sempre creduto che fossero di cotone cachi, come quelle militari, ma poi mi accorsi che erano di seta cinese grossa, o di flanella leggera, perché gli facevano il viso così scuro e gli occhi così azzurri. Dalton Ames. Nome privo di signorilità. Adatto per teatro. Tutta cartapesta, tocca e te ne accorgi. Oh. Amianto. Niente affatto bronzo. Ma non lo vedrai, in casa.

Anche Caddy è una donna, ricordati. È spinta ad agire da impulsi femminili.

Perché non lo porti in casa, Caddy? Perché vuoi fare come fanno le negre, nei prati, nei fossi, nei boschi tenebrosi, ardenti selvagge nascoste nei boschi tenebrosi.

E, dopo avere ascoltato il mio orologio per un poco, e sentito le lettere che mi scricchiolavano nella giacca, contro la ringhiera, mi sporsi in giù e guardai la mia ombra, e pensai al tiro che le avevo giocato. Mi mossi, lungo la ringhiera, ma anche il vestito che indossavo era scuro, e potevo fregarmi le mani contemplando l’ombra, pensando al tiro che le avevo giocato. Entrai nell’ombra del viale che costeggiava il fiume. Poi mi diressi ad est.

Harvard, mio figlio studente a Harvard Harvard Harvard Quel ragazzo lentigginoso che incontrò al campo sportivo, coi nastri variopinti. Si nascondeva dietro lo steccato, cercando di farla venire con un fischio, come un cagnolino. Perché con le moine non riuscivano a farlo andare in sala da pranzo, la mamma credeva che avesse in sé una specie di malocchio che le avrebbe trasmesso, quando fosse rimasta sola con lui. Eppure una canaglia qualunque Era steso per terra accanto alla cassetta sotto alla finestra e gemeva capace di andare in giro con una limousine e un fiore all’occhiello. Harvard. Quentin, ti presento Herbert. Mio figlio studente a Harvard. Herbert sarà come un fratello maggiore ha già promesso a Jason un posto in banca.

Tipo gioviale, di celluloide, come un commesso viaggiatore. Faccia piena di denti, bianca, ma non sorridente. Ne ho sentito parlare, laggiù. Tutto denti, ma senza sorriso. Guidi tu?

Sali su, Quentin.

Sei tu che guidi.

È l’automobile di tua sorella, non sei contento che la tua sorellina abbia la prima automobile della città regalo di Herbert. Louis le ha fatto lezione tutte le mattine non hai ricevuto la mia lettera. Il signor Jason Richmond Compson e consorte annunziano il matrimonio della loro figlia Candace con il signor Sydney Herbert Head, celebrato a Jefferson Mississippi il venticinque aprile del millenovecentodieci. In casa a partire dal primo di agosto, numero tale, via tale, South Bend. Indiana. Shreve disse: Non l’apri nemmeno? Tre giorni. Tre volte. Il signor Jason Richmond Compson e consorte Il giovine Lochinvar lasciò l’Ovest un po’ troppo presto, vero?

Io vengo dal Sud. Sei buffo, proprio.

Oh, sì, lo sapevo che esisteva da qualche parte, in provincia.

Sei buffo, proprio. Dovresti andare in un circo.

Lo feci. Per questo mi sono rovinato gli occhi, dando da bere alle pulci degli elefanti. Tre volte. Queste ragazze di provincia. Non si sa mai, con loro, dove si vada a cascare. Bene, a ogni modo però neanche Byron ebbe mai quel che voleva. Ma non bisogna prendere a pugni un uomo, con gli occhiali. Non l’apri nemmeno? Era deposta sulla tavola, con una candela accesa a ogni angolo due fiori artificiali sulla busta legati con una giarrettiera rosa sporca. Non bisogna prendere a pugni un uomo con gli occhiali.

Questi provinciali poveracci non hanno mai visto un’automobile prima di adesso ce n’è un mucchio suona la tromba Candace per Evitava di guardarmi levarli di mezzo non voleva guardarmi se ne metti sotto uno a tuo padre dispiacerà adesso dico tuo padre dovrebbe proprio comprarsi un’automobile adesso mi dispiace quasi che tu l’abbia portata qui Herbert è stato così divertente certo c’è la carrozza ma tante volte quando vorrei andare il signor Compson ha dato da fare qualcosa ai negri e non c’è caso di farli smettere dice sempre che Roskus è ai miei ordini ma so bene ormai quel che significa e so quanto spesso la gente prometta qualcosa tanto per mettersi in pace con la coscienza anche tu Herbert vorresti trattare così la mia bambina ma no so bene che non lo farai Herbert ci ha viziati tutti quanti terribilmente te l’avevo scritto Quentin che ha intenzione di assumere Jason nella sua banca quando Jason avrà finito il liceo Jason sarà un banchiere magnifico è l’unico dei. miei figlioli che possegga senso pratico puoi ringraziarmi per quello che ha preso dalla mia famiglia perché gli altri sono tutti dei Compson Jason portava la pasta. Facevano delle aquiloni, nella veranda posteriore, e le vendevano a un soldo ciascuna, lui e il ragazzo dei Patterson. Jason era il cassiere.

In questo tram non c’era neanche un negro e le pagliette non ancora ingiallite fluttuavano sotto al finestrino. Andare a Harvard. Abbiamo venduto il prato di Stava disteso per terra sotto alla finestra, gemendo. Abbiamo venduto il prato di Benjy perché Quentin potesse andare a Harvard un fratello, per te. Un fratellino.

Dovrebbe avere un’automobile anche lei signora vede come sta meglio dopo la gita non sembra anche a te Quentin lo chiamo Quentin senz’altro perché ne ho sentito parlare tanto da Candace.

Ma certo naturalissimo voglio che tutti i miei ragazzi siano fra loro più che dei semplici amici sicuro Candace e Quentin sono più che due amici Babbo ho commesso che peccato che tu non abbia fratello né sorella Niente sorella niente sorella non ha sorella Non chiederlo a Quentin, lui e il signor Compson si sentono sempre un po’ offesi, quando ho forza abbastanza per scendere a tavola adesso vivo sui nervi ma dopo dovrò scontarla quando mi avrai portato via la mia bambina La mia sorellina non era. Se avessi potuto dire Mamma. Mamma

A meno che non faccia quel che sono tentato di fare e mi prenda lei invece di Candace non credo che il signor Compson ce la farebbe a riacchiappare la macchina.

Ah Herbert Candace sentite un po’ che cosa Evitava di guardarmi l’angolo del mento molle ostinato non si volgeva. Non essere gelosa si diverte soltanto a lusingare una povera vecchia una donna anziana sposata non devi credergli.

Sciocchezze lei sembra una ragazza mille volte più giovine di Candace ha un incarnato di fanciulla sulle guance Volto piangente e pieno di rimprovero odore di canfora e di lacrime morbida voce singhiozzante, senza posa dietro la porta crepuscolare profumo color di crepuscolo dei caprifogli. Bauli vuoti calati giù dalle scale di soffitta suono come dì bare. Saline di French. Nelle saline non si trova la morte

Pagliette non ingiallite e gente a testa nuda. Fra tre anni non potrò più mettermi un cappello. Impossibile. Ci saranno ancora cappelli, quando non ci sarò più io, ci sarà ancora Harvard? Dove, diceva il babbo, quel che vi è di meglio nel pensiero umano si aggrappa come edera morta su vecchi mattoni morti. Niente più Harvard, allora. Non per me, ad ogni modo. Mai più. Che tristezza. Mai più. Cosa tristissima. Mai più.

Spoade indossava una camicia, dunque doveva essere. Quando rivedrò la mia ombra, che ho pensato bene di far cadere in acqua, pesterò quella mia ombra impermeabile. Ma se non avessi avuto una sorella. Non l’avrei fatto. Non voglio che vi mettiate a spiare quello che fa mia figlia non l’avrei.

Come vuoi che mi obbediscano se tu per primo mi manchi di rispetto e non segui uno solo dei miei desideri lo so che tu consideri dall’alto in basso la mia famiglia ma può essere questo un motivo per insegnare ai miei figli, ai miei stessi figli, per i quali ho sofferto a mancarmi di rispetto. Pestavo coi tacchi, forte, le ossa della mia ombra, per farle penetrare nell’asfalto, poi udii l’orologio e palpai, attraverso la giacca, le lettere.

Non voglio che vi mettiate a spiare quello che fa mia figlia, né tu, né Quentin o nessun altro, qualunque cosa tu creda che abbia potuto fare

Riconoscerai almeno la necessità di sorvegliarla

Non l’avrei fatto, non l’avrei fatto. Lo so che non l’avresti fatto e non volevo parlare così duramente, ma le donne non hanno rispetto l’una per l’altra e neppure verso se stesse

Ma come ha potuto L’orologio cominciò a suonare, mentre pestavo la mia ombra, ma batteva il quarto. Deacon non si vedeva da nessuna parte credo che avrei che avrei potuto.

Non voleva dir questo è così che fanno le donne è perché vuol bene a Caddy

Le luci della strada calavano in discesa poi risalivano verso la città Pestai il ventre della mia ombra. Potevo allungare la mano oltre ad essa, sentivo il babbo dietro di me oltre la tenebra corrosiva dell’estate agosto le luci della strada Mio padre ed io proteggiamo le donne l’una dall’altra da loro stesse le nostre donne Le donne sono così non ci conoscono mai per quelli che siamo nate con una tale fertilità di sospetti che ad ogni momento ne mietono un fascio e giustificati di solito hanno un’affinità col male la facoltà di supplire al male tutto ciò che gli manca l’istinto di raggomitolarsi nel male come le coperte del letto quando si dorme di strizzarsi il cervello per il male fino a che questo abbia raggiunto il suo scopo, esista o no. Veniva avanti fra due matricole. Non si era ancora perfettamente rimesso dall’ultimo corteo, perché mi fece un saluto in stile perfetto di ufficiale superiore.

«Voglio vederti un minuto» gli dissi, fermandomi.

«Vedere me? Benissimo. A più tardi, ragazzi» disse, fermandosi e volgendosi. Così era Deacon, tutto lui. E venite a parlarmi dei vostri psicologi nati. Dicevano che, in quarant’anni, non avesse mancato mai un treno solo, all’apertura dei corsi, e che fosse in grado di riconoscere un meridionale con un’occhiata. Bastava che apriste la bocca, e lui poteva dir subito da che Stato voi venivate, né c’era pericolo che si sbagliasse. Per andare ai treni si metteva in una vera e propria uniforme, una specie di costume da Capanna dello Zio Tom, toppe e tutto.

«Sissignore. Per di qui, padroncino, eccoci qua» e vi prendeva i bagagli. «Qui, ragazzo, vieni a portare questa roba.» Al che una montagna di valigie ambulante si avvicinava, rivelando sotto di essa la presenza di un ragazzino bianco di quindici anni all’incirca, e in qualche modo Deacon trovava il sistema di caricargli in groppa un’altra valigia e lo mandava via. «Attento, ora, a non lasciarla cascare. Sissignore, padroncino, dia al vecchio negro il numero della sua stanza e troverà tutto lì quando arriva.»

Da quel momento in poi, e fino a che non vi avesse completamente in sue mani, stava sempre dentro o fuori della vostra stanza, garrulo e onnipresente, sebbene man mano il suo contegno, col miglioramento dell’acconciatura, si facesse sempre più nordico, finché, dopo avervi spremuto a dovere, ecco che già vi chiamava per nome, Quentin o che altro, e poi vi ricompariva davanti in un vecchio abito smesso di Brooks e un cappello con un nastro di non ricordo più quale club di Princeton, che qualcuno gli aveva regalato e che lui incrollabilmente e giocondamente credeva essere un pezzo della sciarpa di comando di Abe Lincoln. Anni fa, quando fece la sua comparsa a Harvard, e sa Iddio di dove veniva, qualcuno mise in giro la storia che si fosse laureato nel corso di teologia. E quando gli spiegarono che cosa volesse dire, l’idea gli piacque talmente che anche lui prese a raccontar quella frottola, fino a convincersi che fosse vera sul serio. Così riferiva interminabili aneddoti sconclusionati dei suoi anni di studi, chiamando familiarmente col loro nome di battesimo, e solitamente sbagliandosi, professori già da tempo defunti o trasferiti. Ma era stato la guida, il mentore, l’amico di legioni innumerevoli di matricole, e mi figuro che, malgrado tutti i suoi petulanti cavilli e la sua ipocrisia, il Signore non avesse motivo di torcere il naso dinanzi al suo puzzo più che a quello di qualsiasi altro mortale.

«Non la vedo da tre o quattro giorni» disse, fissandomi attraverso a quell’atmosfera militaresca di cui sembrava circonfuso tuttora. «È stato malato?»

«No, sono stato benissimo. Ho lavorato, naturalmente. Io, però, ti ho visto.»

«Davvero?»

«Alla parata dell’altro giorno.»

«Oh, a quella. Sì, c’ero. Quella roba non m’interessa affatto, lei capisce, ma i ragazzi desiderano che vada con loro, gli anziani. Sa com’è: le donne vogliono che tutti i vecchi di Harvard siano sul posto. E così bisognava accontentarle.»

«E alla festa italiana, anche» dissi. «L’avrai fatto per accontentare le dame della W.C.T.U., mi figuro.»

«A quella? L’ho fatto per il mio genero. Vorrebbe un posto nelle forze pubbliche comunali. Spazzino. Io gli dico che tutto quello che cerca è una scopa per dormirci sopra. Mi ha visto, eh?»

«Tutte e due le volte, sì.»

«Dico, mi ha visto in uniforme. Che figura facevo?»

«Magnifica. Il migliore di tutti. Dovrebbero farti generale, Deacon.»

Mi toccò il braccio, lievemente, con la sua mano, mano consunta e morbida di negro. «Senta, ma poi non vada a ridirlo. A lei lo dico volentieri, perché tutti e due siamo dello stesso tipo, alla fine dei conti.» Si chinò un poco verso di me, parlando veloce, senza guardarmi. «Ci sono delle novità in corso. Aspetti fino a un altr’anno. Aspetti, le dico. E vedrà allora a che posto mi troverà a sfilare in parata. Inutile spiegarle che leve sto manovrando. Le dico: aspetti e vedrà.» Mi guardò, poi mi dette un colpetto sulla spalla e si tenne in equilibrio sui tacchi, con un cenno d’intesa. «Sissignore. Non mi sono iscritto al partito democratico, or sono tre anni, per nulla. Mio genero al comune, ed io... Sissignore. Se bastasse iscriversi al partito democratico per far lavorare quel figlio di puttana... Quanto a me, fra un anno a partire da ieri l’altro lei si metta a quell’angolo e guardi.»

«Lo spero proprio. Te lo meriti, Deacon. E intanto, mentre ci penso...» Trassi di tasca la lettera. «Portala domani in camera mia e dàlla a Shreve. Ti farà un regalo. Ma non prima di domani, ricordati.»

Prese la lettera e l’esaminò. «È chiusa.»

«Sì, e dentro c’è scritto. Ma è roba che non serve, fino a domani.»

«Hum» disse lui. Guardò la busta, stringendo le labbra. «Un regalo per me, ha detto?»

«Sì. Un regalo che ti fo io.»

Guardava me, adesso, con la busta bianca nella mano nera, al sole. Aveva occhi dolci, bruni, senza iride e, a un tratto, dietro a tutta quella sua cianfrusaglia di uomini bianchi - uniformi, politica, posa alla Harvard, - vidi Roskus che mi osservava, diffidente, misterioso, inarticolato e mesto: «Non ha mica intenzione di fare un tiro mancino a un povero vecchio negro, eh?».

«No di certo, lo sai. Ti ha mai fatto un tiro mancino, un meridionale?»

«E vero. Sono brava gente. Ma non ci si può vivere insieme.»

«Hai mai provato?» dissi. Ma Roskus era scomparso. Ancora una volta tornò ad essere quello che da tempo aveva imparato a sembrare dinanzi agli occhi del mondo: artificiale, pomposo, non del tutto banale.

«Farò secondo i suoi desideri, ragazzo mio.»

«Non prima di domani, ricorda.»

«Certo» disse, «ho capito, ragazzo mio. E allora...»

«Spero...» dissi. Mi rivolse uno sguardo benigno, profondo. Tesi a un tratto la mano ed egli la strinse con gravità, dall’alto del suo sogno fastoso di glorie militari e municipali. «Sei un brav’uomo, Deacon. Spero... Hai aiutato una quantità di giovinotti, quando ti è capitato.»

«Mi sono sempre sforzato di non fare torto a nessuno» disse. «Non ho mai badato a grette stratificazioni sociali. Per me, un uomo resta sempre un uomo, dovunque lo incontri.»

«Spero che troverai sempre tanti amici quanti hai saputo creartene!»

«I giovani. Vado d’accordo con quelli. E neanche loro mi dimenticano» disse, agitando la busta. La ripose nella tasca interna e si abbottonò la giacca. «Sissignore» disse «di buoni amici ne ho avuti parecchi.»

I rintocchi ricominciarono, la mezza. Stavo in piedi, sul ventre della mia ombra, ad ascoltare quei colpi che scivolavano distanziati e tranquilli sui raggi del sole, fra le fragili immobili piccole foglie. Distanziati e pacati e sereni, con quella sensazione autunnale perenne delle campane, anche nel mese dei matrimoni. Steso per terra sotto la finestra a mugolare Le dette un solo sguardo e comprese. Dalla bocca dei fanciulli. Le luci stradali I rintocchi cessarono. Tornai all’ufficio postale, pestando l’ombra sul lastricato calavano in discesa poi risalivano verso la città come lanterne appese l’una sopra all’altra ad un muro. Il babbo diceva che lei voleva bene a Caddy perché le piaceva la gente per i suoi difetti. Zio Maury, a gambe larghe davanti al fuoco, doveva stendere una mano quanto bastava per brindare alla salute di Natale. Jason correva, con le mani in tasca: cadde per terra e ci rimase come un pollo pronto per essere infilato allo spiedo finché Versh non lo ritirò su. Perché quando corri non stai con le mani fuori di tasca così almeno potresti tenerti a qualcosa Dimenava la testa nella culla la sbatteva da tutte le parti. Caddy diceva a Jason che Versh aveva detto che lo zio Maury non lavorava perché aveva sbattuto la testa contro la culla quando era piccolo.

Shreve si avvicinava per strada, goffo, grasso, bonario, con gli occhiali che balenavano, fra le foglie stormenti, come due piccoli specchi d’acqua.

«Ho dato a Deacon un biglietto per una certa cosa. Può darsi che non rientri, nel pomeriggio, così fino a domani non dargli nulla, capito?»

«Va bene» mi guardava. «Ehi, dimmi un poco, che cosa hai intenzione di fare, oggi? Vestito di tutto punto e con un’aria di funerale, come il prologo di una tragedia. Sei andato stamani a psicologia?»

«Non fo proprio nulla. Ricordati, non prima di domani.»

«Che ci hai, lì?»

«Nulla. Un paio di scarpe che ho fatto risuolare. Non prima di domani, hai capito?»

«Va bene, sicuro. Oh, a proposito, hai visto una lettera, stamani, sul tavolo?»

«No.»

«Allora c’è sempre. È di Semiramis. L’ha portata l’autista prima delle dieci.»

«Va bene. La prenderò. Vorrei sapere adesso che vuole.»

«Un altro concerto di jazz, mi figuro. Zum zum tarazum, bene Gerald. “Un po’ più forte sul tamburo, Quentin.” Signore Iddio, come sono felice di non essere un gentleman.» Tirò innanzi cullandosi un libro, leggermente informe, grasso, attento. Le luci della strada credi che dipenda dal fatto che uno dei nostri antenati era governatore e tre generali, mentre quelli della mamma non erano nulla

un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto Idea fissa nel cervello della mamma, però. Finito. Finito. E tutti quanti ne fummo avvelenati tu confondi il peccato con la moralità le donne non fanno questo la mamma pensa alla moralità che sia peccato o no non ci ha pensato

Jason bisogna che me ne vada tu pensa agli altri io porto con me Jason e andremo in qualche posto dove nessuno ci conosca dove possa crescere e dimenticare tutto quanto gli altri non mi vogliono bene non hanno mai voluto bene a nulla con quell’egoismo tipico dei Compson e quel falso orgoglio Jason è l’unico verso il quale il mio cuore si accosti senza timore

sciocchezze Jason sta bene pensavo che quando starai meglio potresti andare insieme a Caddy alle Saline di French

e lasciar qui Jason solo con te e i negri

vedrai che allora lei dimenticherà finiranno le chiacchiere non si trova la morte nelle saline

forse potrei trovarle un marito niente morte nelle saline

Il tram si avvicinò, si fermò. Le campane suonavano ancora la mezza. Salii e riprese la corsa, i rintocchi della mezza si propagavano. No, i tre quarti. Poi sarebbero stati dieci minuti a qualche ora. Lasciare Harvard il sogno di tua madre il prato di Benjy venduto per

che cosa ho fatto perché mi capitassero dei ragazzi come questi Benjamin era già un gastigo sufficiente ed ecco lei ora senza la minima considerazione per me sua madre io che ho sofferto per lei fatto progetti e sacrifici sono discesa nella valle eppure mai una volta dal giorno che aprì gli occhi alla luce ha mai avuto per me un pensiero gentile a volte mi domando se è possibile che sia mia figlia soltanto Jason non mi ha mai procurato un attimo di dispiacere da quando lo presi in collo appena nato mi accorsi subito che sarebbe stato la mia gioia e salvezza mi pareva che Benjamin fosse già un gastigo sufficiente per tutti quei peccati che posso avere commesso credevo fosse lui la punizione per aver messo da parte il mio orgoglio sposando un uomo che si credeva superiore a me non me ne pento perché l’amavo più di ogni cosa al mondo per questo e perché era mio dovere sebbene Jason fosse il mio affetto più caro ma ora mi accorgo di non aver sofferto abbastanza mi accorgo adesso che debbo pagare per i tuoi peccati oltre che per i miei che cosa hai fatto quali colpe la tua grande e potente famiglia ha rovesciato su di me ma tu starai sempre da quella parte è inutile tu hai sempre trovato delle scuse per gloriarti del tuo sangue non c’è che Jason che faccia tutto male perché lui è più un Bascomb che un Compson mentre la tua stessa figlia la mia bambina vedi quello che vale quando ero ragazza io ero una disgraziata ero soltanto una Bascomb e m’insegnavano che non c’è via di mezzo e che una donna è una signora o non lo è ma non mi sarei mai sognata quando la tenevo in collo da piccina che una mia figlia avrebbe potuto giungere a non lo sai che mi basta guardarla negli occhi per indovinare tu immagini forse che ti direbbe ma non dice nulla e così chiusa tu non la conosci io so certe cose che ha fatto ma vorrei piuttosto morire prima di raccontartele proprio così avanti critica Jason accusami perché lo mando a spiare quello che fa come se fosse un delitto mentre tua figlia stessa può lo so benissimo che tu non gli vuoi bene che ti diverti a credere quando ti dicono qualcosa contro di lui non gli hai mai voluto bene sicuro prendilo in giro come hai fatto sempre con Maury non potrai addolorarmi più di quanto non abbiano già fatto i tuoi figli e quando non ci sarò più e Jason non avrà nessuno che gli voglia bene e lo protegga lo guardo tutti i giorni con la paura che prima o poi il sangue dei Compson non cominci a rivelarsi anche in lui con la sorella che scappa di casa per incontrarsi sa Iddio con chi ma tu non l’hai mai visto non vuoi lasciarmi cercare di scoprire chi sia non lo dico per me non potrei mai sopportare la sua vista ma per te per la tua reputazione ma è inutile lottare contro un sangue corrotto tu non vuoi permettermelo dovremo restarcene a sedere con le mani in mano mentre lei non solo trascina il tuo nome nel fango ma avvelena l’aria stessa che i tuoi figli respirano Jason devi lasciarmi andare non posso più sopportarlo lascia che porti via Jason con me e tieni tu gli altri non sono carne e sangue miei come lui sono soltanto degli estranei e mi fanno paura potrei andare con Jason in qualche luogo dove non ci conosca nessuno mi butterò in ginocchio a pregare per l’assoluzione delle mie colpe in modo da sottrarlo a questa maledizione e per dimenticare che anche gli altri sono stati

Se allora erano i tre quarti, adesso non potevano mancare meno di dieci minuti. Un tram era partito proprio in quel momento, ma già qualcuno attendeva il successivo. M’informai, ma non seppero dirmi se il prossimo sarebbe passato prima di mezzogiorno o no perché si sa quelle linee interurbane. Vi salii, quando giunse. Si può sentire quand’è mezzogiorno. Mi piacerebbe sapere se anche i minatori nelle viscere della terra. Per questo fischia: per la gente che suda, e se siete lontani abbastanza dal sudore non sentite il fischio e tempo otto minuti tutti dovrebbero essere lontani così dal sudore di Boston. Il babbo diceva che un uomo è la somma delle proprie sfortune. Si potrebbe pensare che un giorno, prima o poi, la sfortuna dovesse stancarsi, ma allora è il tempo che diviene la vostra sfortuna, diceva il babbo. Un gabbiano si librava nello spazio, appeso a un filo invisibile. Tu rechi con te, nell’eternità, il simbolo delle nostre delusioni. Allora, diceva il babbo, le ali saranno più ampie, ma chi avrebbe suonato l’arpa.

Ogni volta che il tram si fermava potevo udire il mio orologio, ma non troppo spesso, stavano già mangiando Chi avrebbe suonato Mangiare voglia di mangiare in corpo anche lo spazio tempo e spazio mischiati insieme Lo stomaco che dice è mezzogiorno il cervello che dice è l’ora di mangiare Sicuro vorrei proprio sapere che ora è proprio. Gente scendeva. Il tram si fermava più di rado, adesso, perché andavano a mangiare.

Poi fu mezzogiorno passato. Discesi e indugiai in piedi sulla mia ombra, e dopo qualche tempo passò un tram, vi salii e feci ritorno alla stazione interurbana. C’era un tram pronto alla partenza e trovai un posto a sedere accanto al finestrino e osservai la città che svaporava in un deflusso lento di caseggiati e poi alberi. Vedevo il fiume di tanto in tanto e pensavo come sarebbe stato gradevole per loro a New London se il tempo e il canotto di Gerald che scivolava pomposamente e mi chiedevo che diavolo volesse ora la vecchia, a mandarmi un biglietto prima delle dieci di mattina. Che bel quadro di Gerald io dovrei essere dunque Dalton Ames oh amianto Quentin ha sparato un personaggio di sfondo. Qualcosa dove ci fossero delle ragazze. Le donne hanno la sua voce sempre al disopra del chiacchierio delle altre voci la sua voce che sussurrava un’affinità col male, per credere che nessuna donna sia da fidarsi, mentre certi uomini sono troppo ingenui per sapersi proteggere. Ragazze qualsiasi. Cugine lontane e amiche di famiglia alle quali il semplice fatto di trovarsi in rapporti di conoscenza attribuisce una sorta di consanguineità noblesse oblige. E quella lì seduta, a raccontarci davanti a loro che peccato che Gerald si sia preso tutta la bellezza di famiglia perché un uomo non ne ha bisogno, anzi sta meglio senza, mentre una ragazza che ne sia sprovvista è semplicemente rovinata. A raccontarci delle donne di Gerald in Quentin ha sparato su Herbert ha sparato la sua voce attraverso il pavimento della camera di Caddy tono civettuolo e compiaciuto. «Quando aveva diciassette anni gli dissi un giorno: “Non ti vergogni ad avere una bocca così starebbe bene sul viso di una ragazza” e immaginate un po’ le tende appese sul crepuscolo sul profumo dell’albero fiorito la testa di lei contro il crepuscolo le sue braccia incrociate dietro la testa, con ali di chimono, la voce che sussurrava sull’Eden le vesti stese sopra il letto quasi a portata di mano intraviste dall’albero cosa rispose? Diciassette anni appena, badate bene. “Mamma” disse “le capita spesso.”» E lui seduto, in atteggiamento regale, a guardarne due o tre attraverso le ciglia. Si slanciavano come un volo di rondini, quelle sue ciglia. Shreve diceva di non essere mai riuscito a Penserai tu a Benjy e al babbo

Quanto meno parlerai di Benjy e del babbo tanto meglio dato che non ci hai fatto caso Caddy

Prometti

Non devi preoccuparti di loro te ne vai via in buona salute

Prometti sono malata devi promettere sapere chi avesse inventato quella freddura ma in fondo aveva sempre considerato la signora Bland una donna discretamente conservata per la sua età e diceva che allevava suo figlio perché un giorno fosse in grado di sedurre una duchessa. Chiamava Shreve quel giovinotto grasso canadese due volte senza neppure consultarmi mi aveva trovato un nuovo compagno di camera, una volta mi aveva fatto sgomberare, un’altra volta

Aprì la porta nel crepuscolo. Aveva un viso come una torta di mele.

«Eccomi, vengo a darti un addio commovente. Un destino crudele può dividerci, ma non amerò mai nessun altro. Mai.»

«Di che diavolo stai parlando?»

«Parlo di un destino crudele fasciato, in otto metri di seta colore albicocca e con indosso più metallo di uno schiavo di galera, e cioè dell’unica e esclusiva proprietaria dell’insuperabile e peripatetico John della fu Confederazione sudista.» Poi mi raccontò che era andata dal rettore per farlo sgomberare, ma che il rettore era stato abbastanza maleducato e testardo da pretendere di consultare Shreve anzitutto. Lei allora aveva insistito perché lo mandasse a chiamar subito, ma quello si era rifiutato e così, dopo, si era mostrata appena appena sufficiente nei confronti di Shreve. «Per principio non parlo mai male di una donna» disse Shreve, «ma quella lì è la più puttana di quante ve ne siano in tutti questi Stati Sovrani e Possedimenti.» E adesso Lettera sul mio tavolo a portata di mano Ordinare orchidee colorite profumate Se immaginasse che sono passato quasi sotto alla finestra sapendo che era là senza Mia cara signora non ho ancora avuto l’occasione di ricevere il suo messaggio ma la prego fin d’ora di scusarmi per oggi o ieri o domani o qualsiasi altro giorno Poiché ricordo che il suo prossimo racconto sarà quello di Gerald che scaraventa giù il negro dalle scale e allora il negro lo supplica di farlo iscrivere alla scuola di teologia per restare accanto al padroncino Gerald e segue di corsa la carrozza per tutta la strada fino alla stazione con le lacrime agli occhi quando il padroncino Gerald se ne va, aspetterò fino al giorno in cui verrà la storia del marito proprietario di una segheria che si presenta davanti all’uscio di cucina col fucile in braccio e Gerald scese giù spezzò in due il fucile con un morso e glielo rese e si pulì le mani a un fazzoletto di seta e lo gettò nel fornello, dato che questa l’ho udita soltanto due volte

gli sparò nello t’ho visto che entravi e ho pensato che l’occasione era propizia per fare conoscenza gradisci un sigaro

Grazie non fumo

Le cose non devono essere cambiate molto da quando c’ero io permetti che accenda

Fai pure

Grazie ho sentito molto parlare spero che tua madre non si arrabbierà se getto il fiammifero dietro il parafuoco vero di te Candace non faceva altro che parlarmi di te laggiù a Lick. Ti confesso che ero un po’ geloso mi chiedevo chi è questo Quentin bisogna proprio che veda chi è quest’animale perché appena conobbi quella ragazza è inutile che te lo nasconda ci presi subito una bella cotta e non mi era mai venuto in mente che fosse di suo fratello che stava parlando non avrebbe potuto parlarne di più se fosse stato l’unico uomo a questo mondo se si fosse trattato del marito non hai mica cambiato idea non vuoi proprio un sigaro

Non fumo

In questo caso non insisto sebbene si tratti di un tabacco proprio speciale mi costa venticinque dollari la scatola di cento all’ingrosso da un amico a La Avana già mi figuro che le cose debbano essere assai cambiate laggiù da quando c’ero io mi riprometto sempre di farci una scappata ma non riesco mai sono dieci anni che lo dico impossibile lasciare la banca negli anni di università si hanno altri gusti poi cambiano certe cose che sembrano importanti a uno studente sai dimmi raccontami come vanno le cose laggiù

Se è questo che ti preoccupa puoi star certo che non lo dirò al babbo e alla mamma

Non dirai non dirai oh è questo che volevi dire eh allora mettiti bene in mente che non me ne importa un cavolo se lo dici o no mettiti bene in mente che una cosa come quella è molto seccante ma non è un delitto punito dalla legge non sono stato io il primo e non sarà l’ultimo sono stato soltanto sfortunato a te forse può darsi che sia andata meglio

È una bugia

Calmo non prendertela non voglio certo farti dire quello che preferisci tacere non volevo offenderti è naturale che un ragazzo giovine come te giudichi queste cose assai più gravi di quanto non ti sembreranno fra cinque anni

Conosco un unico modo di giudicare un impostore e non credo che Harvard mi farà cambiare idea

Meglio che a teatro avresti dovuto scrivere drammi insomma hai ragione inutile andare a raccontarlo lasciamo andare quello che è andato eh non c’è motivo di litigare per una simile inezia eppoi Quentin tu mi piaci mi piace molto il tuo aspetto sei così diverso da tutti quegli altri giovinastri sono contento che ogni cosa si accomodi così ho promesso a tua madre di far qualcosa per Jason ma vorrei dare una mano anche a te Jason starebbe benissimo anche qui ma in un buco come questo non c’è futuro per un giovine in gamba come sei tu

Grazie mille ma farai meglio a occuparti di Jason voi due vi troverete benissimo assieme

Sono spiacente di tutta questa storia ma da ragazzo non ho mai avuto una mamma come la tua che m’insegnasse i tratti più nobili le farebbe male se sapesse si hai ragione inutile raccontare Candace compresa naturalmente

Ho detto al babbo e alla mamma

Senti un po’, guardami per quanto tempo credi che resisteresti contro di me

Non ci sarà bisogno di resistere a lungo se all’università hai imparato a fare ai cazzotti provati e vedrai quanto resisto

Fottuto moccioso vuoi dirmi dove intendi arrivare

Provati e vedrai

Porca miseria il sigaro che direbbe tua madre se trovasse una bruciatura sulla mensola del camino ho fatto appena in tempo ad accorgermene senti Quentin siamo tutti e due sul punto di fare qualcosa di cui in seguito ci pentiremo mi piaci mi sei piaciuto appena ti ho visto ho detto chiunque sia dev’essere un ragazzo maledettamente in gamba se Candace gli vuol tanto bene senti sono dieci anni che vivo nel mondo e ti dico che certe cose non hanno poi tanta importanza te ne accorgerai anche te mettiamoci d’accordo tutti e due e siamo tutti e due figli della vecchia Harvard e scommetto che oggi non mi ci ritroverei più il miglior posto del mondo per un giovinotto ci manderò i miei figli e avranno più fortuna di me aspetta non andartene via ancora discutiamo la faccenda se uno studente d’università ha di queste idee sono d’accordo che gli fanno onore gli formano il carattere l’università è eccellente per le tradizioni ma quando poi si trova nella vita bisogna che si arrangi come può perché si accorge che tutti quanti fanno lo stesso e altrimenti suvvia diamoci la mano e lasciamo perdere quello che è stato fallo per tua madre pensa alla sua salute vieni dammi la mano ecco guarda che bello uscito fresco fresco di banca non una macchia nemmeno una piega ecco guarda

Vai all’inferno con i tuoi quattrini

Ma no ma no via ormai sono anch’io di famiglia e so bene come vanno certe cose con un ragazzo ha sempre un mucchio di piccole faccende personali ed è difficile cavar fuori qualcosa dal vecchio anch’io mi sono trovato nelle stesse condizioni e neppure tanto tempo fa ma adesso che mi sposo suvvia non fare lo stupido senti quando avremo modo di parlare un po’ sul serio ti dirò che in città conosco una certa vedovella

Anche questa l’ho già sentita tieni per te i tuoi maledetti quattrini

Diciamo allora che si tratta di un prestito chiudi gli occhi un attimo e avrai un bel cinquantone

Giù le mani faresti meglio a togliere quel sigaro dalla mensola

E allora vattene pure a raccontare tutto e vedrai quel che ci guadagni se tu non fossi un idiota fottuto avresti capito che ormai li tengo troppo stretti perché un Galahad qualsiasi uno scimunito di fratello tua madre mi ha parlato di te e di tutte le belle idee che ti gonfiano la testa vieni oh vieni pure mia cara stavo facendo conoscenza con Quentin e si parlava di Harvard volevi me non può stare lontana la piccina dal suo vecchio eh

Esci un attimo Herbert devo parlare a Quentin

Vieni vieni facciamo una bella chiacchierata e rompiamo il ghiaccio stavo dicendo proprio adesso a Quentin

Per piacere Herbert esci fuori un momento

E va bene mi figuro che tu voglia rivedere il fratellino un’altra volta vero

Faresti meglio a togliere quel sigaro dalla mensola

Hai ragione come sempre ragazzo mio e allora me ne vado bisogna lasciarli fare quello che vogliono finché è possibile da domanlaltro in poi però Quentin dovrà chiedere il permesso vero cara dammi un bacio amore

Oh smettila serbalo per domanlaltro

Allora ti chiederò anche gl’interessi ti prego cara non permettere a Quentin di cominciare nulla che poi non possa finire oh a proposito Quentin ti ho raccontato la storia del pappagallo di quel tale e di quello che gli successe una triste storia lasciate che ci pensi e pensateci anche voi ah ah arrivederci al corriere dei piccoli

E allora

E allora

Che cosa ti salta in mente adesso

Nulla

Hai ricominciato un’altra volta a mettere il naso nei miei affari privati non ti è bastato l’estate scorsa

Caddy tu hai la febbre Sei malata cos’hai

Malata e basta. Non posso chiedere.

Ammazzato la sua voce attraverso il

Non quel mascalzone Caddy

Di quando in quando il fiume balenava sulle cose circostanti con mobili rapidi riflessi, attraverso mezzogiorno ed oltre. Era passato da un pezzo, ormai, sebbene avessimo incrociato il punto dove se ne stava ancora a remare controcorrente, maestoso sotto lo sguardo del dio degli dèi. Meglio. Gli dèi. Anche a Boston, Massachusetts, Dio può essere canaille. Remi fradici lo portano via strizzando l’occhio, in fulgidi riflessi e fra i palmizi. Insinuante. Insinuante, senza essere un marito ignorerebbe Iddio. Quel mascalzone, Caddy Il fiume dileguava balenando nella curva precipitosa.

Sono malata devi promettermi

Malata cos’hai

Malata e basta non posso chiederlo a nessuno ma devi promettermi che

Se hanno bisogno di essere sorvegliati è perché tu malata cos’hai Potevamo udire sotto alla finestra la macchina che andava alla stazione, treno delle 8 e 10. Andava a prendere cugini. Testa. Cresciuto di una testa, ma niente barbiere. Manicures. Un tempo avevamo un purosangue. Purosangue nella stalla, ma quando si muoveva un brocco. Quentin ha sparato tutte le loro voci attraverso il pavimento della camera di Caddy

Il tram si fermò. Discesi, sul centro della mia ombra. Una strada s’incrociava coi binari. C’era una baracca di legno con un vecchio che mangiava qualcosa in un sacchetto di carta, ma poi anche il rumore del tram dileguò in lontananza. La strada si dirigeva verso gli alberi, dove avrebbe dovuto esservi l’ombra, ma nella Nuova Inghilterra il fogliame, di giugno, non è molto più fitto di quanto non lo sia da noi, nei Mississippi. Potevo scorgere una ciminiera. Le volsi le spalle, calpestando l’ombra nella polvere. Talora, di notte, c’era in me qualcosa di terribile, la vedevo che mi ghignava, la vedevo attraverso di loro, mi ghignava attraverso i loro volti adesso è scomparsa e sono malata

Caddy

Non toccarmi prometti e basta

Se sei malata non puoi

Sì posso e poi tutto sarà a posto non ha importanza non fasciare che lo mandino a Jackson prometti

Prometto Caddy Caddy

Non toccarmi non toccarmi

A che assomiglia Caddy

Chi

Quella cosa che ghigna quella cosa attraverso i loro volti

Potevo vedere ancora la ciminiera. Laggiù doveva esservi l’acqua, in cammino verso il mare verso le grotte tranquille. Sarebbero calati a picco lentamente, e quando Egli avesse detto Alzatevi soltanto i ferri da stirare. Quando andavo a caccia per tutto il giorno con Versh, non si portava con noi la colazione e verso mezzogiorno avevo fame. Aveva fame fino all’una circa, poi tutto a un tratto dimenticavo di avere fame. Le luci della strada calavano in discesa poi udii la macchina che scendeva dalla collina. Il bracciolo fresco morbido liscio sotto la mia fronte indicava la forma della sedia l’albero che si curvava fino a sfiorarmi i capelli sull’Eden vesti a portata di mano Hai la febbre me ne sono accorto ieri sembra di essere accanto a un braciere.

Non toccarmi.

Caddy non puoi farlo se sei malata. Quel mascalzone.

Bisogna che sposi qualcuno. Poi mi dissero che dovevano rompermi l’osso un’altra volta.

Finalmente non potei più vedere la ciminiera. La strada fiancheggiava un muro. Alberi si sporgevano sul muro, spruzzati di luce di sole. La pietra era diaccia. Passandovi accanto si poteva sentir la freschezza che ne emanava. Però il nostro paese non era come questo. Vi era qualcosa soltanto ad aggirarvisi. Una sorta di fecondità costante e intensa tale da soddisfare sempre come fame di pane. Scorrevo sfiorandovi tutto all’intorno, senza indugiare a cullarsi e accarezzare ogni piccolo sasso derelitto. Quasi un pretesto per attirare un po’ di verde fra le piante e perfino quell’azzurro lontano, ma non un’affascinante chimera, dissero che bisognava rompermi l’osso un’altra volta e qualcosa dentro di me cominciò a dire Ah ah ah e principiai a sudare. Che me ne importa lo so cos’è una gamba rotta non è nulla dovrò restare in casa un po’ più di tempo ecco tutto e i muscoli delle mascelle che mi s’intorpidivano e la bocca che diceva Aspettate aspettate un minuto solo tutto un bagno di sudore ah ah ah fra i denti e il babbo Maledetto cavallo maledetto cavallo. Aspettate è colpa mia. Tutte le mattine veniva, costeggiando lo steccato con un cesto in braccio andava verso la cucina facendo scorrere il bastone sullo steccato e io mi trascinavo alla finestra con l’ingessatura e tutto e l’aspettavo per tirargli addosso un pezzo di carbone Dilsey diceva vuoi rovinarti non hai punto cervello neanche quattro giorni che te la sei rotta. Aspettate che ci faccia l’abitudine fra un minuto un minuto soltanto ci avrò fatto

Perfino il suono pareva perdersi in quell’aria, come si fosse stancata di trasportare suoni da tanto tempo. Il latrato di un cane giunge più lontano del rumore del treno, almeno di notte. E la voce di certe persone. Dei negri. Louis Hatcher non si serviva mai del corno, sebbene lo portasse sempre con sé insieme a quella vecchia lanterna. Gli dissi: «Louis, da quanto tempo non hai pulito codesta lanterna?».

«L’ho pulita poco fa. Si ricorda di quell’inondazione che spazzò via tutti quei poveri diavoli che vivevano laggiù? La pulii proprio quel giorno. Quella sera ero seduto innanzi al fuoco con la mia vecchia e lei dice: “Louis, che faresti se la piena arrivasse fino a qui?” ed io rispondo: “Hai ragione. Credo che farei bene a ripulire subito la mia lanterna”. E così la pulii proprio quella notte.»

«Ma l’inondazione era lassù in Pennsylvania» dissi. «Non avrebbe mai potuto arrivare fin qui.»

«Lo dice lei» disse Louis. «A quel che ne so io, l’acqua può essere alta e umida a Jefferson come in Pennsylvania. Sono quelli che dicono che la piena non può arrivare fin qui, che poi si vedono a galla sulle banderuole delle case.»

«Uscisti fuori con Martha, quella notte?»

«Proprio così. Pulimmo la lanterna e passai con lei il resto della notte sulla collina dietro il cimitero. E, se ne avessi conosciuta un’altra più alta, sarei andato su quella.»

«E da allora non hai più pulito la lanterna?»

«Perché dovrei pulirla quando non ne ho bisogno?»

«Vuoi dire fino alla prossima inondazione?»

«Ci ha salvato da quella.»

«Oh, andiamo, via, zio Louis» dissi.

«Sissignore. Lei faccia quello che crede e io lo stesso. Se mi comoda pulire la lanterna per salvarmi dalle inondazioni, non c’è motivo di leticare con nessuno, mi sembra!»

«Lo zio Louis non riuscirebbe a prendere nulla, con una lanterna che gli facesse lume sui serio» disse Versh.

«Figliolo, andavo a caccia di opossum da queste parti quando tua nonna affogava ancora col petrolio i pidocchi sulla testa di tuo padre» disse Louis. «E ne prendevo parecchi!»

«È vero» disse Versh. «Bisogna ammettere che lo zio Louis è quello che, da queste parti, ha acchiappato più opossum.»

«Sissignore» disse Louis. «Ho tutto il lume che occorre perché gli opossum ci vedano. Non ne ho mai incontrato uno che protestasse. Zitti, ora. Eccolo. Psst. Avanti, cane.» E sedevamo sulle foglie secche che frusciavano un poco al respiro lento della nostra attesa all’alito leggero della terra nell’aria ferma d’ottobre. L’aria frizzante era intrisa dell’odore rancido della lanterna, ascoltavamo i cani e l’eco della voce di Louis che dileguava. Non s’alzava mai, quella voce, eppure in una notte tranquilla potevamo udirla dalla veranda di casa nostra. Quando chiamava i cani, pareva proprio il suono di quel corno che recava sempre a tracolla senza mai usarlo, ma più limpida, più morbida, quasi fosse una parte del silenzio e dell’oscurità, quasi ne scaturisse per poi rientrarvi di nuovo. Iohùuuu. Iohùuuu. Iohùuuuuuuuuuuuuu! Bisogna che sposi qualcuno.

Ce ne sono stati parecchi Caddy

Non saprei troppi avrai cura di Benjy e del babbo.

Allora tu non sai di chi è e lui sa

Non toccarmi avrai cura di Benjy e del babbo

Cominciai a sentire l’acqua prima di giungere al ponte. Il ponte era di pietra grigia, coperto di licheni, screziato di chiazze d’umido là dove il muschio si arrampicava. L’acqua, nell’ombra sottostante, era limpida e calma, mormorava e gorgogliava lungo la pietra in vortici evanescenti dove il cielo si rifletteva Caddy che

Bisogna che sposi qualcuno Versh mi aveva raccontato la storia di un tale che si era mutilato da se stesso. Andò nella foresta, sedette in un fosso e si tagliò con un rasoio. Un rasoio rotto poi se li era gettati dietro le spalle, tutto in un gesto solo e il brandello di carne sanguinolenta che cadeva per terra di schianto. Ma non serve a nulla. Non serve a non averli più. A non averli avuti mai, allora si potrebbe dire: Oh, per me questo è cinese ed io non conosco il cinese. E il babbo che diceva: È perché sei vergine, non capisci? Le donne non sono mai vergini. La purezza è uno stato negativo e quindi contro-natura. È la natura che ti fa soffrire, non è Caddy e io dicevo: Tutte parole e lui diceva: È la verginità ed io dicevo: Non sai. Non puoi sapere e lui diceva: Sì. Nel momento stesso in cui ne abbiamo coscienza la tragedia passa in secondo piano.

Là dove cadeva l’ombra del ponte potevo vedere molto in basso, ma non fino in fondo. Quando si lascia una foglia a lungo nell’acqua, dopo un certo tempo l’ordito si disfa e restano soltanto le fibre delicate che ondeggiano lentamente, come il movimento del sonno. Comunque fossero prima intrecciate l’una con l’altra, comunque fossero state un tempo vicine alle vene della struttura, adesso non si toccano mai. E forse quando Egli dirà Levatevi anche gli occhi saliranno la superficie, dalla pace e dal sonno profondo, per contemplare tanta gloria. E, dopo qualche tempo, anche i ferri da stiro saliranno su. Li nascosi sotto un pilastro, tornai in mezzo al ponte e mi sporsi sul parapetto.

Non potevo vedere il fondo, ma prima che la pupilla mi si stancasse potevo vedere molto addentro nel moto dell’acqua e allora scorsi un’ombra sospesa, come una grossa freccia diretta contro corrente. Moscerini volavano dentro e fuori la zona d’ombra del ponte sfiorando la superficie. Ci fosse almeno un inferno nell’al di là. La fiamma limpida e noi due più che morti. Avresti allora me soltanto me soltanto allora e poi noialtri due fra l’esecrazione e l’orrore nel mezzo della fiamma limpida Senza muoversi la freccia andava ingrandendosi, poi con un guizzo rapido la trota acchiappò una mosca alla superficie con la delicatezza gigantesca di un elefante che raccoglie una nocciola. Il vortice evanescente dileguò sulla corrente e vidi ancora la freccia che seguiva cullandosi dolcemente il corso dell’acqua su cui i moscerini volteggiavano e si posavano. Tu ed io soltanto fra l’esecrazione e l’orrore nel mezzo della fiamma limpida

Delicata e immobile la trota stava sospesa fra le ombre oscillanti. Tre ragazzi con le canne da pesca sopraggiunsero sul ponte e tutti quanti ci curvammo sulla ringhiera per guardare la trota. Conoscevano quel pesce. Era un personaggio famoso in quei dintorni.

«Da venticinque anni stanno cercando di acchiappare quel pesce. C’è un negozio, a Boston, che regala una canna da pesca da venticinque dollari a chiunque sia capace di prenderlo.»

«E allora perché non lo prendete voialtri? Non vorreste avere una canna da pesca da venticinque dollari?»

«Sì» risposero. Si spenzolavano alla ringhiera, guardando la trota. «Certo che vorrei» disse uno di loro.

«Non prenderei mica la canna» disse il secondo. «Preferirei i soldi.»

«Non credo che te li darebbero» disse il primo. «Scommetto che ti farebbero prendere la canna.»

«Allora la venderei.»

«Mica ci prenderesti venticinque dollari.»

«Mi contenterei allora di venderla al miglior prezzo possibile. Con questa qui posso prendere tanti pesci come con una canna da venticinque dollari.» Poi cominciarono a parlare di quel che avrebbero fatto con venticinque dollari. Parlavano tutti insieme e con le loro voci insistenti e impazienti e contraddittorie trasformavano ciò che era irreale in fatto possibile, quindi probabile, infine in verità incontrovertibile, come la gente è solita a fare quando i suoi desideri sono parole.

«Comprerei un cavallo e un carretto» disse il secondo.

«Già, figurati» dissero gli altri.

«Sicuro, so dove potrei trovarne uno per venticinque dollari. Conosco chi me lo darebbe.»

«Chi è?»

«Chi mi pare. Potrei comprarlo per venticinque dollari.»

«Certo» dissero gli altri. «Non sa quel che si dice. Parole e basta.»

«Credete proprio?» disse il ragazzo. Seguitarono a canzonarlo, ma lui non disse altro. Si spenzolava sulla ringhiera guardando la trota che aveva già speso e all’improvviso la stizza il livore scomparvero dalle loro voci, quasi che anche per gli altri fosse come se lui avesse già preso il pesce e comprato il suo cavallo con relativo carretto, dando prova anch’essi di quella facoltà degli adulti di lasciarsi convincere da chiunque si esprima con aria di superiorità silenziosa. Mi sembra che l’umanità, solita a spendere tante parole inutilmente, in questo almeno sia logica: nell’attribuire saggezza a chi riesce a starsene zitto e difatti, per qualche tempo, potei udire gli altri due che si sforzavano di tener testa al primo con qualsiasi mezzo, pur di portargli via il suo cavallo con relativo carretto.

«Non riusciresti mai a cavar fuori venticinque dollari da quella canna» disse il primo. «Scommetto quanto vuoi che non potresti.»

«Ma non l’ha mica ancora acchiappata, quella trota» disse il terzo ad un tratto, e allora tutti e due gridarono:

«Già, che ti avevo detto? Chi è che ti venderebbe un cavallo col carretto per venticinque dollari? Provati un po’ a dire il nome. Non esiste.»

«Silenzio, via, finitela» disse il secondo. «Guardate, rieccola daccapo.» Si spenzolarono alla ringhiera, immobili, identici, con le canne snelle, oblique contro il sole, identiche anch’esse. La trota salì alla superficie senza fretta, un’ombra lieve che tremolando cresceva, poi il piccolo vortice di nuovo dileguò sulla corrente. «Accidenti» mormorò il primo dei tre ragazzi.

«Inutile intestarsi per acchiapparla» disse. «Ci contenteremo di stare a guardare quelli che vengono da Boston a provarsi.»

«Non ci sono altri pesci, da queste parti?»

«No. Li ha fatti scappar via tutti. Il punto migliore per pescare, qui vicino, è giù al Gorgo.»

«No, non è vero» disse il secondo. «Meglio due volte al molino di Bigelow.» Leticarono per un poco su quale fosse il punto migliore, poi smisero a un tratto per guardare la trota che veniva su a galla di nuovo, e il vortice spezzato che risucchiava un poco di cielo. Chiesi a quale distanza si trovasse il villaggio più prossimo. Me lo dissero.

«Ma la linea tranviaria più vicina è quella là» disse il secondo, indicando la strada. «Dove vuole andare?»

«Da nessuna parte. Passeggio.»

«Studia all’università?»

«Sì. Vi sono fabbriche in quel villaggio?»

«Fabbriche?» mi guardarono.

«No» disse il secondo. «In quello là non ce ne sono.» Mi guardavano l’abito. «Cerca lavoro?»

«E il molino di Bigelow?» disse il terzo. «Quella è una fabbrica.»

«Fabbrica un corno. Intende una fabbrica sul serio.»

«Una con la sirena» dissi. «Non ho ancora sentito da nessuna parte il fischio delle una.»

«Oh» disse il secondo. «C’è un orologio al campanile della chiesa degli Unitari. Da quello potrà sapere che ore sono. Non ha un orologio, a quella catena?»

«L’ho rotto stamani.» Mostrai l’orologio. Lo esaminarono gravemente.

«Cammina ancora» disse il secondo. «Quanto costerà un orologio come quello?»

«È un regalo» dissi. «Me lo dette mio padre quando presi la licenza liceale.»

«È canadese, lei?» chiese il terzo. Aveva i capelli rossi.

«Canadese?»

«Non parla mica come i canadesi» disse il secondo. «Ne ho sentiti parlare. Parla come i suonatori girovaghi.»

«Ehi» disse il terzo «non hai paura che ti picchi?»

«Picchiarmi?»

«Hai detto che parla come un uomo di colore.»

«Oh, piantala» disse il secondo. «Se va in cima a quel colle potrà vedere il campanile.»

Li ringraziai. «Vi auguro buona fortuna. Però non acchiappate quella povera vecchia giù in acqua. Merita di essere lasciata in pace.»

«Ma che nessuno possa mai riuscire a pescare quel pesce» disse il primo. Stavano spenzolati alla ringhiera a guardare nell’acqua, con le tre canne simili a tre fili obliqui di fuoco giallo accesi al sole. Camminavo sulla mia ombra, ributtandola a calci nella screziata oscurità delle piante. Abbandonato il fiume, la strada saliva in un’ampia curva, attraversava la collina per poi calar giù a serpentina trasportando innanzi l’occhio, la mente fin sotto a una galleria di silenziosa verzura. E il campanile quadrato, sulla cima degli alberi, e l’occhio rotondo dell’orologio, ma piuttosto distante. Sedetti a un lato della strada. L’erba, foltissima, mi arrivava alle caviglie. Le ombre, sulla via, erano così immobili che sembravano disegnate li, a stampino, con matite oblique di raggi di sole. Ma era soltanto un treno e dopo un attimo scomparve dietro agli alberi, quasi inseguendo il suo stesso fragore, ed io potevo udire il mio orologio e il treno che si allontanava come fuggendo verso un altro mese o un’altra estate in qualche parte, sotto il gabbiano librato immobile e tutto il resto che dileguava. Tranne Gerald. Egli sarebbe rimasto solitariamente maestoso, ad attraversare il mezzogiorno remando, a navigare oltre il mezzogiorno, sollevandosi nell’aria luminosa come un’apoteosi, ascendendo verso la vertigine dell’infinito, fino a trovarsi solo insieme al gabbiano, l’uno miracolosamente immoto, mosso l’altro nel ritmo costante e misurato dei remi, partecipe egli stesso dell’inerzia comune, col mondo ai loro piedi, nell’ombra da essi disegnata di contro al sole. Caddy quel mascalzone quel mascalzone Caddy.

Le voci loro giunsero in vetta alla collina, e le tre canne sottili come zampilli obliqui di fuoco sgorgante. Mi guardarono, passando, senza rallentare.

«E allora» disse «non la vedo.»

«Non abbiamo nemmeno cercato di prenderla» disse il primo. «Non si riesce a pescarla, quella trota.»

«L’orologio è là» disse il secondo, indicando con la mano. «Quando sarà un po’ più vicino, potrà veder che ore sono.»

«Sicuro» dissi «bene.» Mi alzai in piedi. «Tornate in città?»

«Andiamo al Gorgo a pescar ghiozzi» disse il primo.

«Non c’è da pescar nulla al Gorgo» disse il secondo.

«Scommetto che vorresti andare al molino, con tutta quella gente che schizza l’acqua e fa paura ai pesci.»

«Non c’è da pescar nulla al Gorgo.»

«Non pescheremo nulla da nessuna parte, se non ci muoviamo di qui» disse il terzo.

«Non capisco perché seguitate a parlare del Gorgo» disse il secondo. «Lì non c’è nulla da pescare.»

«Non sei affatto obbligato a venire» disse il primo. «Non siamo mica legati con lo spago.»

«Andiamocene al molino per fare una nuotata» disse il terzo.

«Io vado a pescare al Gorgo» disse il primo. «Voialtri fate pure quello che vi pare.»

«Senti un po’, da quanto tempo hai sentito dire che qualcuno abbia preso un pesce, al Gorgo? disse il secondo al terzo.

«Andiamocene al molino per fare una nuotata» disse il terzo. Il campanile affondava lentamente dietro agli alberi, con il viso rotondo dell’orologio ancora piuttosto lontano. Si procedeva nell’ombra screziata. Giungemmo a un pomario rosa e bianco. Era pieno d’api, già si udiva il ronzio.

«Andiamocene al molino per fare una nuotata» disse il terzo. Un sentiero si apriva, a fianco del pomario. Il terzo ragazzo rallentò e si fermò. Il primo tirò innanzi, macchie di sole gli scivolavano lungo la canna, sulle spalle e sul dorso, solcando la camicia. «Vieni avanti» disse il terzo. Anche il secondo ragazzo si fermò. Perché devi sposare qualcuno, Caddy

Vuoi che te lo dica non credi che se lo dico sarà

«Andiamo al molino» disse. «Vieni avanti.»

Il primo ragazzo si rimise in cammino. I suoi piedi scalzi non producevano il minimo suono, più soffici ancora di foglie si posavano sulla polvere lieve. Nel pomario le api ronzavano come vento che si levasse, un sussurro condotto per magia ai margini stessi del crescendo e trattenuto su quel tono costante. Il sentiero correva lungo il muro sotto una volta di verzura, era pieno di fiori, si dissolveva fra le piante. Il sole vi penetrava obliquamente, diffuso e vivido. Farfalle gialle balenavano nell’ombra come guizzi di sole.

«Perché vorresti andare al Gorgo?» chiese il secondo ragazzo. «Puoi pescare al molino, se hai voglia.»

«E lascialo andare» disse il terzo. Seguirono con lo sguardo il terzo ragazzo. La luce del sole gli screziava le spalle, che camminando scuoteva, gli rigava la canna, come formiche gialle.

«Kenny» disse il secondo. Perché non lo dici al babbo Glielo dirò non sono forse anch’io figlio di mio padre Gli dirò Sono io che l’ho inventato io che l’ho messo al mondo Diglielo intanto non ci crederà e allora tu ed io poiché non si può non amare le nostre creature

«Avanti, vieni» disse il ragazzo «sono già in acqua.» Guardarono il primo ragazzo. «E va bene» dissero a un tratto. «Vattene via, allora, cucco di mamma. Se va a nuotare si bagna la testa e si prende un mucchio di sculaccioni.» Svoltarono nel sentiero e s’incamminarono, con le farfalle gialle che volteggiavano nell’ombra intorno a loro.

è perché non c’è nient’altro che credo che ci sia qualcos’altro ma può darsi di no e allora ti accorgerai che anche l’ingiustizia non vale neppure quello che tu credi di essere. Non mi badava nemmeno, con quel mento in profilo e il viso appena di scorcio, sotto al cappello strappato.

«Perché non vai a nuotare con loro?» chiesi, quel farabutto Caddy

Cercavi di attaccar lite con lui vero

Un bugiardo e un mascalzone Caddy l’hanno buttato fuori dal suo club perché barava a carte l’hanno mandato a Coventry l’hanno acchiappato mentre copiava il compito agli esami ed è stato espulso

E a me che me ne importa non devo mica mettermi a giocare a carte con

«Ti piace più pescare che nuotare?» dissi. Il ronzio delle api andava calando, eppure sostenuto come se, in luogo di affondare nel silenzio, il silenzio ci crescesse all’intorno, come acqua che sale. La strada curvò ancora e divenne un viale fra prati ombrosi, con case bianche. Caddy quel mascalzone perché non pensi a Benjy ed al babbo invece di occuparti di me

A che altro potrei pensare a che altro ho mai pensato Il ragazzo lasciò la strada. Scavalcò la traversa di uno steccato senza volgersi indietro a guardare, attraversò il prato fino ad un albero, depose in terra la lenza, salì sulla forca dell’albero e vi rimase a cavalcioni, col dorso alla strada e le chiazze di sole immobili alfine sulla camicia bianca. A che altro ho mai pensato non riesco più nemmeno a piangere sono morta l’hanno scorso te l’avevo detto ma allora non sapevo quel che voleva dire non sapevo quel che dicevo Certe giornate sul finire d’agosto, a casa, sono proprio così, l’aria sottile e pungente come questa, con qualcosa di intimo, mesto, nostalgico. Uomo, somma delle sue esperienze climatiche, diceva il babbo. Uomo, somma di quello che si ha. Problema sulle proprietà impure condotto meticolosamente fino a un invariabile nulla; circolo vizioso di polvere e di desiderio. Ma ora lo so che sono morta te lo dico io

E allora perché dovresti badare a certe cose potremmo fuggir via tu e Benjy ed io dove nessuno ci conosce dove Il calesse era tirato da un cavallo bianco con gli zoccoli che risuonavano nella polvere lieve; le ruote come tele di ragno producevano un cigolio aspro ed acuto muovendosi su per la salita sotto una coltre increspata di fogliame. Olmi. No: ellum. Ellum.

Con che cosa coi soldi dell’ università coi soldi del prato che vendettero perché tu potessi andare a Harvard non capisci che ormai devi finirla se non la finisci non gli resterà più nulla

Il prato che fendettero La camicia bianca sulla forca dell’albero stava immobile, nell’ombra balenante. Le ruote erano come tele di ragno. Sotto la sala del calesse gli zoccoli, rapidi e precisi come i movimenti di una signora che facesse la calza, rimpiccolivano senza progredire, come una marionetta trascinata velocemente dalla ribalta dietro le quinte. La strada svoltava ancora. Potevo vedere il campanile bianco, la stupida indicazione rotonda dell’orologio. Il prato che vendettero

Dicono che il babbo morirà fra un anno se non smette di bere e non vuole smettere non può smettere da quando io dall’estate scorsa e allora manderanno Benjy a Jackson non mi riesce di piangere non mi riesce di piangere neppure per un solo minuto indugiava in piedi sulla soglia e un minuto dopo lui la tirava per la veste mugolando la sua voce martellava avanti e indietro fra le pareti in onde sonore e lei si rannicchiava contro il muro si faceva più piccola sempre più piccola col viso bianco e gli occhi come se vi premesse dentro coi pollici finché la spìnse fuori dalla stanza e la sua voce martellava avanti e indietro quasi impedita di fermarsi dallo stesso suo moto quasi nel silenzio non vi fosse spazio sufficiente a contenere quel mugolio

Quando si apriva l’uscio un campanello squillava, ma uno squillo soltanto, limpido acuto e breve nell’oscurità quieta, sopra alla porta, come se fosse stato regolato e misurato in modo da produrre quell’unico limpido brevissimo squillo per non consumare il campanello ed evitare la spesa di un suono troppo prolungato, ricadendo il silenzio quando l’uscio si apriva sul profumo recente di pane caldo; una bambina sporca e piccola, con gli occhi di un orsacchiotto di velluto e due codini di cuoio lucido.

«Salute, ragazzina.» Nella serena tiepida nudità dell’ambiente il suo volto era simile a una tazza di latte macchiato appena di caffè. «Non c’è nessuno?»

Ma si limitò a guardarmi, finché un uscio si aperse ed entrò la padrona. Di sopra al banco, con la sua sfilata di vaghe fragili forme dietro al cristallo, il viso di lei, nitido e grigio, i capelli radi e tirati sul cranio nitido e grigio, occhiali dai cerchi nitidi e grigi; si avvicinava come qualcosa appeso a un filo, come il tiretto automatico di un registratore di cassa in una bottega. Sembrava una bibliotecaria. Pareva fatta di qualche materia depositata fra i polverosi scaffali delle certezze ordinate e divorziate da tempo dalla realtà, che se ne stesse a disseccarsi tranquillamente come se un soffio di quest’aria che vede compiersi tante ingiustizie

«Due di queste, per piacere, signora.»

Di sotto al banco trasse fuori un pezzo quadrato di giornale, lo depose sul piano e prese le due brioches. La bambina le contemplava a occhi fissi, senza battere ciglio, come due chicchi d’uva che galleggiassero, immobili, in una tazza di caffè molto debole: terra d’America casa degli italiani. Guardava il pane, le mani nitide e grigie, un grosso anello d’oro tenuto fermo all’indice della mano sinistra con un fermaglio azzurro.

«È lei, signora, che cuoce i suoi dolci?»

«Signore?» disse lei. Proprio così. Signore? Come a teatro. Signore? «Cinque cents. Desidera nient’altro?»

«No, signora. Non per me. Questa signorina, però, desidera qualcosa.» Non era alta abbastanza per vedere oltre il banco, così vi girò attorno e guardò la bambina.

«L’ha portata lei?»

«No, signora. Era qui quando sono arrivato.»

«Brutta cattiva» disse. Si fece innanzi, ma non la toccò. «Ti sei messa in tasca qualcosa?»

«Non ha tasche» dissi. «Non faceva nulla. Stava lì ferma, aspettando che lei arrivasse.»

«Perché, allora, il campanello non ha suonato?» Mi guardò fisso. Le mancava soltanto una frusta e una lavagna dietro le spalle 2x2 = 5.

«Potrebbe aver nascosto chissà cosa sotto l’abito, e nessuno se ne accorgerebbe. Ehi, bambina. Come hai fatto ad entrare?»

La bambina non rispose nulla. Guardò la donna, poi mi détte una rapida occhiata scontrosa, e si rimise a guardare la donna. «Questi stranieri» disse la padrona. «Come avrà fatto ad entrare, senza che il campanello suonasse?»

«Sarà entrata quando ho aperto la porta» dissi. «Ha suonato una volta sola per tutti e due. Ma ad ogni modo, da qui, non poteva prendere nulla. Eppoi non credo che l’avrebbe fatto. L’avresti fatto, piccina?» Mi guardava, misteriosa, contemplativa. «Che cosa vuoi? Pane?»

Tese il pugno. Lo spalancò su una moneta da cinque cents, umida e sporca, le aveva lasciato impresso nella carne un cerchio umido e sporco. La moneta era calda e bagnata. Potevo sentirne l’odore, lievemente metallico.

«Per piacere, signora, avrebbe un filone da cinque cents?»

Di sotto al banco trasse fuori un pezzo quadrato di giornale, lo depose sul piano e v’involtò un filone di pane. Posai sul banco la moneta, insieme a un’altra. «Ancora una brioche, per piacere, signora.»

Ne prese un’altra dalla vetrina. «Mi dia quel pacchetto» disse. Glielo detti, l’aperse, ci mise la terza brioche e lo rifece poi prese le monete, cavò fuori dal grembiale due cents e me li porse. Li posi in mano alla bambina. Umide e calde, come vermi, le dita di lei si richiusero.

«Ha intenzione di regalarle quella brioche?» chiese la donna.

«Sissignora» dissi. «Credo che anche a lei piaccia come a me il profumo dei suoi dolci.»

Presi i due pacchetti e diedi il filone alla ragazzina. La donna dietro il banco, tutta grigio- ferro, ci guardava con gelida sicurezza. «Aspetti un attimo» disse. Andò nella retrobottega. La porta si aprì di nuovo e si richiuse. La bambina mi contemplava, premendo il filone di pane contro la veste sporca.

«Come ti chiami ?» Aveva smesso di guardarmi, ma restava ancora immobile. Sembrava che neppure respirasse. Tornò la donna. Aveva in mano qualcosa di bizzarro. Lo teneva come avrebbe tenuto un topolino morto.

«Ecco» disse. La bambina la guardò. «Prendi» disse la donna, spingendolo verso la bambina. «La forma è un poco bizzarra, ma mi figuro che non ti accorgerai della differenza quando lo mangi. Tieni. Non posso mica star qui ad aspettare per tutto il giorno.» La bambina lo prese, sempre contemplandola. La donna si pulì le mani al grembiule. «Bisogna che faccia accomodare quel campanello» disse. Andò all’uscio di strada e lo spalancò. Il campanello tintinnò una volta, lieve limpido e invisibile. Ci avviammo verso la porta, la donna ci guardava con la coda dell’occhio.

«Grazie per la pasta» dissi.

«Questi stranieri» disse guardando in su, nell’oscurità, dove il campanello tintinnava. «Segua il mio consiglio, giovanotto, se ne tenga lontano.»

«Sissignora» dissi. «Vieni, piccina.» Uscimmo. «Grazie, signora.»

Chiuse la porta, poi la spalancò di nuovo perché il campanello scoccasse la sua nota unica e breve. «Stranieri» disse, scrutando in su, verso il campanello.

C’incamminammo. «Dunque» dissi «ti piacerebbe un gelato?» Mangiava la pasta tutta rosicchiata. «Lo vorresti un gelato?» Mi lanciò un’occhiata nera, fissa, masticando. «Vieni.»

Andammo al bar e ci facemmo dare due gelati. Non voleva posare il filone. «Perché non lo posi, così puoi mangiar meglio?» dissi e feci l’atto di prenderglielo. Ma lo teneva stretto, masticando il gelato come se fosse una caramella mou. La pasta morsicata era deposta sul tavolino. Mangiò il gelato senza interrompersi mai, poi si dedicò di nuovo alla pasta, guardando le vetrine intorno a sé. Finii il mio ed uscimmo.

«Da che parte stai?» dissi.

Un calesse, era quello col cavallo bianco. Solo il cane Peabody è grasso. Trecento libbre. Ci si attacca alla coda e lui ci tira su per la salita. Bambini. È più facile camminare da soli che farsi tirare su per la salita. Sei andata dal dottore non ci sei ancora andata Caddy

Non è necessario non posso chiedere adesso dopo si non ci sarà nulla di male

Perché le donne sono così delicate, così misteriose, diceva il babbo. Un equilibrio sottile di flusso periodico fra due lune bilanciate fra loro. Lune piene e gialle, diceva, come grano maturo, lune i suoi fianchi le sue cosce. Sempre sempre il flusso periodico ma. Gialle. Come piante dei piedi ingiallite dal troppo camminare. Poi si viene a sapere che un uomo che tutto quel mistero categorico nascondeva. E tutti quegli organi interni dànno forma a una soavità esteriore che attende un solo contatto per. Putrefazione liquida come relitti galleggianti come una pallida flaccida cosa di gomma, riempita di tanta roba mescolata, che ha l’odore del caprifoglio.

«Ora faresti meglio a portare a casa il tuo pane, ti sembra?»

Mi guardò. Masticava tranquillamente, senza mai smettere un attimo; a intervalli regolari una lieve contrazione le scivolava dolcemente lungo la gola. Apersi il mio pacchetto e le detti una brioche. «Addio» dissi.

Tirai innanzi. Poi mi volsi. Mi veniva dietro. «Stai da questa parte?» Non rispose nulla. L’avevo accanto, sotto il gomito, per così dire, e mangiava. Tirammo innanzi. Tutto era quieto, senza nessuno intorno tanta roba mescolata che ha l’odore del caprifoglio Caddy mi avrebbe detto di non starmene lì seduto sui gradini ad ascoltare la porta di camera sua crepuscolo chiusa di schianto ad ascoltare Benjy che piangeva ancora Cena avrebbe dovuto scendere per cena tanta roba mescolata che ha l’odore del caprifoglio Giungemmo all’angolo.

«Ecco, devo andare di qui» dissi. «Addio.» Si fermò anche lei. Inghiottì l’ultimo boccone della pasta e attaccò la brioche, senza cessare di guardarmi. «Addio» dissi. Girai l’angolo e mi avviai, senza voltarmi fino a che non fui giunto all’angolo successivo.

«Da che parte stai?» dissi. «Da questa parte?» Indicai in fondo alla strada. Si limitava a guardarmi. «Abiti laggiù? Scommetto che stai vicino alla stazione, dove ci sono i treni. Vero?» Si limitava a guardarmi, masticando tranquilla e misteriosa. La strada era vuota, da una parte e dall’altra, coi prati silenziosi e le piccole case ravviate fra gli alberi, ma nessuno intorno, tranne più indietro, lontano. Tornammo indietro. Due uomini stavano seduti davanti a una bottega.

«Sapete mica chi sia questa bambina? Si è appiccicata a me e non mi riesce di sapere dove abita.»

Smisero di guardarmi e guardarono lei.

«Dev’essere di una di quelle famiglie d’italiani arrivati da poco» disse uno. Indossava una logora giacchetta nera. «L’ho veduta altre volte. Come ti chiami, piccina?» Li fissò con gli occhi neri, muovendo su e giù le mascelle e inghiottiva senza smettere di masticare.

«Forse non sa l’inglese» disse l’altro.

«L’hanno mandata a prendere il pane» dissi. «Sarà capace di dire qualche cosa.»

«Come si chiama il babbo?» disse il primo. «Pete? Joe? Si chiama John, eh?» Dette un altro morso alla brioche.

«Che cosa me ne faccio?» dissi. «Seguita a venirmi dietro, e devo tornare a Boston.»

«Studia al collegio, lei ?»

«Sì. E bisogna che torni.»

«Forse potrebbe andare là, per quella via, e consegnarla ad Anse. Lo troverà alla rimessa da noleggio. È la guardia.»

«Credo che non ci sia altro da fare» dissi. «Bisogna che la sistemi in qualche modo. Grazie mille. Vieni, piccina.»

C’incamminammo per la strada, dalla parte in ombra, dove il profilo frastagliato delle case si disegnava vagamente sul fondo stradale. Andammo alla rimessa da noleggio. La guardia non c’era. Un uomo su una sedia appoggiata allo spigolo del portone ampio e basso, onde emanava un’aria fresca ed oscura soffusa di ammoniaca, proveniente dalle stalle mi disse di provare alla posta. Neanche lui la conosceva.

«Questi stranieri. Non si riesce a distinguerli. Potrebbe portarla oltre ai binari, dove vivono loro, e forse qualcuno la riconoscerà.»

Ci avviammo verso la posta. Era dall’altra parte della strada. L’uomo in abito nero stava sfogliando un giornale.

«Anse se n’è andato proprio adesso fuori di città in macchina» disse. «La meglio è che lei vada laggiù, oltre la stazione, fino a quelle case accanto al fiume. Probabilmente sta da quelle parti.»

«Mi sembra che sia l’unica» dissi. «Vieni, piccina.» Si mise in bocca l’ultimo pezzo di brioche e l’inghiottì. «Ne vuoi un’altra?» dissi. Masticava e mi guardava, con gli occhi neri, benigni, senza battere ciglio. Presi le altre due brioches, gliene porsi una e détti un morso all’altra. Chiesi a un uomo dov’era la stazione e me l’indicò. «Vieni, piccina.»

Giungemmo alla stazione e oltrepassammo i binari, dove il fiume scorreva. Un ponte l’attraversava e una strada di case di legno alla rinfusa lo costeggiava. Strada misera, ma con un’aria pittoresca ed eterogenea. Al centro di un terreno incolto, cinto da una barriera di pali spezzati e sbilenchi, stavano una vecchia carrozza piegata su un fianco e una casupola tentennante dove, a una finestra del primo piano, ciondolava una veste color rosa acceso.

«Ti sembra questa la tua casa?» dissi. Mi guardò di sopra alla sua brioche. «Questa?» dissi, indicando. Si limitava a masticare, ma nel suo contegno mi parve di distinguere qualcosa di affermativo, un segno di assenso, anche se vago. «Questa?» dissi. «Vieni, allora.» Entrai dal cancello sconquassato e mi volsi a guardarla. «È questa?» dissi. «Ti sembra questa la tua casa?»

Assentì brevemente con la testa, sempre guardandomi, sempre biascicando la mezzaluna umida della brioche. C’inoltrammo. Due file di giaggioli sparsi, calpestati, frammisti a fili d’erba fresca e rigogliosa, segnavano un sentiero fino al portico in rovina. Non si udiva, in casa, nessun movimento, e la veste rosa ciondolava inerte alla finestra, senza un soffio di vento che l’agitasse. C’era un campanello con una maniglia di porcellana, appesa a due metri circa di fil di ferro. Mi fermai per tirare e per bussare. La bambina masticava adesso la parte croccante della brioche.

Una donna aprì la porta. Mi guardò, poi prese a parlare rapidamente alla bambina in italiano, in tono sempre più vibrato, poi una pausa, su una nota interrogativa. Le parlò ancora, mentre la bambina la fissava pigiandosi in bocca, con la mano sporca, l’ultimo pezzo di crosta.

«Dice che sta qui» dissi. «L’ho trovata in paese. È suo, questo filone di pane?»

«Non parlare» disse la donna. Di nuovo si rivolse alla bambina. La bambina si limitava a fissarla.

«Non sta qui?» dissi. Accennai alla bambina, poi a lei, poi alla porta. La donna scosse la testa. Parlava rapidamente. Si affacciò fuori dal portico e, sempre parlando, indicò in fondo alla strada.

Anch’io scossi la testa, vigorosamente. «Venga a farmi vedere» dissi. La presi per un braccio e agitai la mano in direzione della strada. Parlava velocemente, con molti gesti. «Venga a farmi vedere» dissi, cercando di farle scendere i gradini.

«Sì, sì» disse, tirandosi indietro e indicandomi sa Iddio che cosa. Scossi ancora la testa.

«Grazie, grazie, grazie.» Scesi i gradini e mi avviai verso il cancello, senza correre, ma piuttosto svelto. Giunto che fui al cancello mi fermai e presi per un poco a fissarla. Anche la crosta, adesso, era scomparsa, e mi contemplava con quegli occhi neri e benigni. La donna era rimasta nel portico, a guardarci.

«E vieni, allora» dissi. «Prima o poi si troverà la casa giusta.»

Mi camminava accanto, proprio sotto al gomito. Ci muovemmo. Tutte le case parevano vuote. Non si vedeva un’anima viva. Quel senso di sospensione che danno le case vuote. Eppure non era possibile che tutte fossero vuote. Tante stanze diverse, se si fosse potuto soltanto tagliare i muri in due a un tratto. Signora, prego, eccole sua figlia. No, signora, per l’amor di Dio, sua figlia. Mi camminava accanto, proprio sotto al gomito, coi codini lustri, e finalmente oltrepassammo anche l’ultima casa e la strada scomparve girando intorno ad un muro, dietro al fiume. La donna stava affacciata al cancello sconquassato con uno scialle in testa, serrato sotto al mento. La strada girava intorno al muro, solitaria. Trovai una moneta e la détti alla bambina. Un quarto di dollaro. «Addio, piccina» dissi. Poi mi misi a correre.

Correvo a perdifiato, senza guardarmi indietro. Proprio nell’attimo in cui la strada entrava in curva, mi voltai. Stava ferma, in mezzo alla via: piccola, col filone di pane stretto contro la veste sporca, gli occhi neri ed immobili, senza battere ciglio. Seguitai a correre.

Un sentiero si staccava dalla strada. Lo infilai e, dopo un poco, cessai di correre e presi a camminare di passo svelto. Il sentiero si allungava sul retro delle case, case di legno grezzo, senza vernice, con altre vesti dai colori accesi appese ai fili; una capanna dai fianchi in rovina marciva quietamente tra i filari degli alberi di un orto, inselvatichiti, sprofondati nell’erba, bianchi e rosa, stormenti al sole e gremiti d’api. Mi voltai. L’ingresso del sentiero era deserto. Rallentai ancora l’andatura. L’ombra mi accompagnava, trascinando la testa fra l’erba che nascondeva lo steccato.

Il sentiero conduceva a un cancello chiuso, dileguava nell’erba, appena una viottola lievemente segnata nell’erba nuova. Scavalcai il cancello, m’inoltrai per un boschetto, l’attraversai, giunsi a un altro muro e lo costeggiai. Adesso l’ombra mi seguiva. Vi erano viti e rampicanti là dove, da noi, vi sarebbe stato il caprifoglio. Specie nel crepuscolo, quando pioveva, si levava nell’aria l’odore del caprifoglio, pervadeva ogni cosa, come se non fosse stato abbastanza anche senza quello, come se tutto non fosse stato anche troppo per sopportarsi.

Perché ti sei lasciata baciare baciare

Non mi sono lasciata sono io che ho voluto si divertiva a guardarmi mentre mi arrabbiavo Che cosa hai da ridire? L’impronta rossa della mia mano si disegnava sul suo volto gli occhi le si accesero come quando si gira con una mano l’interruttore della luce elettrica

Non è per il bacio che ti ho dato uno schiaffo. I gomiti di una ragazza a quindici anni Il babbo mi disse Tu inghiotti come se ti fosse andata attraverso una lisca di pesce che ti succede e Caddy dall’altra parte della tavola che non mi voleva guardare. È perché ti sei messa con uno di quei maledetti giovinastri del paese che ti ho dato uno schiaffo e scommetto adesso eh scommetto che dirai di aver preso una cotta. L’impronta rossa della mia mano si disegnava sul volto di lei. Che ne diresti di strofinarle la testa nell’. Strofinarle sgraffiarle la testa coi ciuffi d’erba che si attaccavano alla sua cute. Dimmi che hai preso una cotta dillo.

Io almeno non ho mai baciato una ragazza sudicia come Natalie Il muro entrava nell’oscurità e così pure la mia ombra: le avevo giocato un altro bel tiro. Avevo dimenticato che il fiume seguiva la curva della strada. Mi arrampicai sul muro. E allora, col filone di pane stretto contro la veste, la vidi a guardarmi mentre saltavo per terra.

Indugiai sull’erba e restammo per un poco a fissarci.

«Perché, piccina, non mi hai detto che stavi da questa parte?» Il filone lentamente sgusciava fuori dall’involto, ce ne sarebbe voluto già un altro. «Via, andiamo, portami a casa tua.» non una ragazza sudicia come Natalie. La pioggia cadeva potevamo sentirla sul tetto, respirava nel silenzio profondo sereno della stalla.

Qui? toccandola

No, non lì

Qui? non pioveva forte ma non si udiva nient’altro che il tetto e come se fosse il mio sangue o il sangue di lei

Mi ha fatto cadere giù dalla scala ed è corsa via lasciandomi solo ecco quello che ha fatto Caddy

È li che ti sei fatto male quando Caddy è scappata è lì

Oh mi camminava accanto, avevo proprio sotto al gomito quei suoi capelli di cuoio lucido, il filone sgusciava fuori dal suo giornale.

«Se non fai presto a tornartene a casa, sciuperai tutto il pane. E che dirà allora la mamma?» Scommetto che ti prendo in collo

Non ti riesce sono troppo pesante

E Caddy allora è scappata via è tornata a casa Da casa nostra non si può vedere la stalla hai mai cercato di vedere la stalla da

È colpa sua mi ha dato uno spintone è corsa via

Posso prenderti in collo guarda se mi riesce

Oh il sangue suo il mio sangue Oh Ci rimettemmo in cammino sulla polvere lieve, con piedi silenziosi come gomma sulla polvere lieve dove matite di sole guizzavano tra le fronde di sghembo. E potevo udire di nuovo l’acqua che correva rapida e tranquilla nella misteriosa penombra.

«Abiti lontano, eh? Sei proprio brava ad andartene in città da sola, così da lontano.» È come quando balla stando seduti hai mai ballato stando seduto? Potevamo udire la pioggia, un topo nella greppia, la stalla vuota, senza cavalli. Come fai quando balli tieni cosi

Oh

Quando ballo tengo così credevi che non fossi forte abbastanza vero

Oh Oh Oh Oh

Quando tengo ballo così voglio dire hai sentito quel che ho detto ho detto

oh oh oh oh

La strada procedeva solitaria e tranquilla, il soie si faceva sempre più obliquo. Quei suoi codini intirizziti erano legati all’estremità con strisce di cencio rosso. Un angolo del foglio ciondolava un poco mentre lei camminava, faceva capolino la punta nuda del filone di pane. Mi fermai.

«Senti, stai in fondo a questa strada? Abbiamo fatto già quasi un miglio senza incontrare nemmeno una casa.»

Mi guardò con gli occhi neri, benigni e misteriosi.

«Dove abiti, piccina? Non stai mica più indietro, in paese?»

Si udiva da qualche parte del bosco un uccello, oltre i raggi sghembi e radi del sole.

«Il babbo sarà in pensiero per te. Non hai paura che ti frusti per non essere tornata subito a casa col pane?»

L’uccello cinguettò ancora, invisibile: una melodia priva di significato e profonda, disarticolata, rotta ad un tratto come recisa con un colpo di lama, poi di nuovo, e quell’impressione d’acqua rapida e calma che scorreva su luoghi segreti, sentita, non vista né udita.

«Oh, porca miseria, bambina.» Una metà quasi del foglio ciondolava per aria. «Adesso ormai non serve più a nulla.» Lo strappai gettandolo a un lato della strada. «Vieni. Bisogna tornare in paese. Passiamo dal fiume.»

Abbandonammo la strada. Piccoli fiori pallidi crescevano nel terreno muschioso, e quella sensazione d’acqua, muta e invisibile. Quando tengo ballo così voglio dire quando ballo tengo così Stava sulla porta a guardarci con le mani sui fianchi.

Sei tu che mi hai dato una spinta colpa tua eppoi mi sono fatto anche male.

Si ballava stando a sedere scommetto che Caddy non sa ballare stando a sedere

Finiscila finiscila

Ti spolveravo soltanto il vestito sul dorso

Levami di dosso quelle tue manacce cattive è stata colpa tua sei tu che mi hai dato una spinta è con te che ce l’ho

Non me ne importa ci guardava fai pure le bizze se ne andò Cominciammo a udire le grida, gli schizzi dell’acqua; per un attimo vidi balenare un corpo abbronzato.

Fai pure le bizze. Cominciavo a bagnarmi la camicia e i capelli. Adesso attraverso il soffitto si udiva il tetto più forte potei scorgere Natalie che attraversava il giardino sotto la pioggia. Bagnati spero che tu ti buschi una polmonite vattene a casa muso di mucca. Saltavo con tutta la forza nel truogolo del maiale il fango giallo e puzzolente m’impillaccherava fino alla vita seguitai a saltellare finché caddi e mi rotolai nella mota «Li senti piccina, che nuotano? Non mi dispiacerebbe di fare un bel bagno anch’io.» Se avessi tempo. Quando avrò tempo. Potevo udire l’orologio, la mota era più calda della pioggia puzzava in modo insopportabile. Mi volgeva le spalle le andai dinanzi. Sai allora che ho fatto? Mi volgeva le spalle le andai dinanzi la pioggia colava nel fango appiccicava la maglia alla veste l’odore era orrendo. La stringevo fra le braccia ecco quel che facevo Mi volgeva le spalle le andai dinanzi. La strizzai forte ti dico.

Non m’importa un cavolo di quel che facevi.

Ah no vero non te ne importa non te ne importa t’insegnerò io a fartene importare un cavolo. Con uno strappo si svincolò e allora con una mano la imbrattai tutta dì mota non potevo sentire i tonfi umidi della mano di lei che mi colpiva staccai dalle mie gambe la mota e ne imbrattai il suo corpo sodo fradicio che si torceva udivo le dita di lei che mi schioccavano sulla faccia ma non riuscivo a sentire nemmeno quando la pioggia cominciò ad assaporarmi di dolce le labbra

Dall’acqua dov’erano, videro dapprima le nostre teste e le spalle. Urlavano e uno di essi spiccò un balzo a ranocchio, e si tuffò in mezzo a loro. Parevano castori, l’acqua lambiva i loro menti, strillavano.

«Porta via quella bambina! Che ti piglia di portar qui una bambina. Andate via!»

«Non vi farà mica male. Vuole soltanto guardarvi un momento.»

Stavano acquattati nell’acqua. Guardandoci, facevano siepe con le loro teste. Poi si separarono, precipitandosi verso di noi, schizzandoci l’acqua con le mani aperte.

«Attenzione, ragazzi, non vi farà mica male.»

«Vattene via, Harvard!» Era il secondo ragazzo, quello che laggiù sul ponte pensava al cavallo e al carretto. «Forza, figlioli, annaffiamoli!»

«Usciamo dall’acqua e buttiamoli dentro» disse un altro. «Io non ho paura di nessuna bambina.»

«Annaffiamoli! Annaffiamoli!» Correvano verso di noi, schizzandoci l’acqua addosso. Indietreggiammo. «Andate via!» urlavano. «Andate via!»

Andammo via. Ci seguirono in frotta fin sotto l’argine, con le teste metalliche in fila contro l’acqua lucente. Ci allontanammo. «Non è un posto per noi, vero?» Il sole filtrava di sghembo sul terreno muschioso, qua e là, sempre più basso. «Povera piccina, non sei altro che una femmina, tu.» Piccoli fiori crescevano nel muschio, i più piccoli che avessi mai visti. «Non sei altro che una femmina, tu. Povera bambina.» C’era una viottola che seguiva il corso dell’acqua. Poi l’acqua tornò ad essere calma, cupa calma e veloce. «Nient’altro che una femmina. Povera piccina.» Ansanti ci stendemmo sull’erba fradicia la pioggia come grandine diaccia sul dorso. E adesso t’importa t’importa

Mio Dio come siamo conciati alzati in piedi. La fronte dove cadeva la pioggia cominciava a frizzarmi ritrassi la mano rigata di rosa nella pioggia. Ti duole

Certo puoi immaginare

Ho cercato di cavarti gli occhi mio Dio senti come puzziamo faremmo bene a cercar di lavarci nel ruscello «Rieccoci in paese, piccina. E adesso bisogna che tu vada a casa. Io devo tornare a scuola. Guarda, comincia a esser tardi sul serio. Adesso andrai a casa, vero?» Ma si limitava a guardarmi con quei suoi occhi neri, benigni e misteriosi, con filone seminudo stretto sul petto. «Si è bagnato. Abbiamo fatto appena in tempo a scappare.» Trassi di tasca il fazzoletto e cercai di asciugare il filone, ma la crosta cominciava a staccarsi così ci rinunziai. «Lasciamolo asciugare da sé. Reggilo a questo modo.» Lo resse a quel modo. Pareva adesso che i topi l’avessero morsicato e l’acqua cadeva cadeva sul dorso disteso e i grumi di mota fetida che venivano a galla punteggiando la superficie melmosa come bolle di grasso su un fornello rovente. Te l’avevo detto che ti avrei fatto

Non m’importa un corno di quello che fai

Poi udimmo correre e ci fermammo a guardarci indietro e lo vedemmo che arrivava al galoppo per la viottola, con le ombre orizzontali che gli guizzavano sulle gambe.

«Deve aver fretta. Bisognerebbe...» Poi vidi un altr’uomo, un uomo bizzarro che correva pesantemente, con in mano una mazza, e un ragazzo nudo dalla cintola in su, che si teneva i calzoni correndo.

«Ecco Giulio» disse la bambina, e vidi allora il viso italiano di lui e i suoi occhi, mentre si lanciava sopra di me. Cademmo per terra. Mi batteva le mani sul viso, diceva qualcosa e cercava di mordermi, credo. Poi lo trascinarono via che ansimava si dimenava vociferava, e lo tenevano fermo e lui si sforzava di prendermi a calci finché non lo tirarono indietro. La bambina frignava stringendo il filone con le due braccia. Il ragazzo seminudo si agitava e saltellava qua e là, tenendosi i calzoni, e qualcuno mi tirò su in tempo per scorgere un altro, interamente nudo, che giungeva di corsa dalla tranquilla curva del fiume verso la viottola, per poi cambiare direzione ad un tratto e balzare nel bosco, tirandosi dietro gli abiti rigidi e tesi come due pezzi di legno. Giulio seguitava a divincolarsi. Quello che mi aveva tirato su disse: «Ecco fatto, ti abbiamo preso alla fine». Aveva una sottoveste, ma era senza giacca. Su questa spiccava uno scudetto metallico. Nell’altra mano stringeva una mazza lustra, nodosa.

«Lei è Anse, vero?» dissi. «La stavo cercando. Che succede?»

«L’avverto che qualunque cosa lei dica potrà essere usata contro di lei» disse. «Lei è in arresto.»

«L’ammazzo» disse Giulio. Si divincolava. Due uomini lo tenevano. La bambina frignava senza interruzione, stringendo a sé il pane. «Ha rapito la mia sorella» disse Giulio. «Lasciatemi andare, signori.»

«Rapito sua sorella?» dissi. «Come, se sono stato...»

«Zitto» disse Anse. «Si spiegherà davanti al giudice.»

«Rapito sua sorella?» dissi. Giulio si liberò dei due uomini e si lanciò ancora una volta su di me, ma la guardia lo fronteggiò e lottarono fino a che gli altri l’ebbero afferrato di nuovo alle braccia. Anse si staccò da lui, ansando.

«Maledetto straniero» disse «avrei una voglia matta di arrestare anche te, per rivolta e aggressione.» Si volse a me nuovamente: «È disposto a seguirmi tranquillamente, o debbo ammanettarla?».

«Verrò tranquillamente» dissi. «Sono disposto a fare qualsiasi cosa, purché possa trovare qualcuno... mettere a posto le cose... Rapito sua sorella» dissi. «Rapito sua...»

«L’ho avvisata» disse Anse. «Costui ha intenzione di accusarla per violazione premeditata di minorenne. Eh, voi, fate star zitta quella bambina!»

«Oh» dissi. Poi cominciai a ridere. Altri due ragazzi, coi capelli incollati e gli occhi rotondi, sbucarono fuori da cespugli, abbottonandosi le camicie che già cominciavano ad aderire sulle spalle e sui bracci umidi. Cercai di smettere di ridere, ma non mi riusciva.

«Attento, Anse, mi ha l’aria di un pazzo.»

«Bisogna che sm-smetta» dissi. «Smetterò fra un minuto. Quando mi ha detto che ah ah ah» dissi, ridendo. «Mi faccia sedere un momento.» Sedetti, mentre gli altri restavano a guardarmi, e la bambina col viso rigato e il filone che pareva morsicato dai topi, e l’acqua tranquilla e veloce, più giù, sotto alla viottola. Dopo un poco smisi di ridere. Ma la gola non voleva saperne di smettere, come quando si hanno degli urti di vomito e lo stomaco è vuoto.

«Suvvia, adesso» disse Anse. «Cerchi un po’ di trattenersi.»

«Sì» dissi, irrigidendo la gola. C’era un’altra farfalla gialla, come se una piccola chiazza di sole fosse andata smarrita. Dopo un poco non fu più necessario che tenessi la gola così irrigidita. Mi alzai. «Sono pronto. Da che parte?»

Seguimmo il sentiero, coi due che sorvegliavano Giulio; la bambina e i ragazzi ci seguivano dietro. Il sentiero correva lungo il fiume, fino al ponte. L’attraversammo e oltrepassammo i binari; la gente si affacciava sulle porte di casa a guardarci, altri ragazzi si materializzavano da tutte le parti finché, quando svoltammo sulla via principale, si era formato un corteo vero e proprio. Davanti al bar stava ferma un’automobile, una grande automobile, ma non la riconobbi fino a che la signora Bland disse:

«Ma come, Quentin! Quentin Compson!» Allora vidi Gerald, e Spoade sul sedile posteriore, con la testa appoggiata. E Shreve. Le due ragazze non le conoscevo.

«Quentin Compson!» disse la signora Bland.

«Buonasera» dissi, togliendomi il cappello. «Mi hanno arrestato. Spiacente di non aver ricevuto il suo biglietto. Shreve l’ha informata?»

«Arrestato?» disse Shreve. «Scusatemi» disse. Si tirò su, scavalcò i loro piedi e scese a terra. Aveva un paio di miei calzoni di flanella che gli stavano a pennello. Non ricordavo di averli lasciati fuori dal baule. E non ricordavo neppure quanti menti avesse la signora Bland. La ragazza più carina stava davanti, accanto a Gerald. Mi guardavano, traverso alle velette, con una sorta di delicato spavento. «Chi hanno arrestato?» disse Shreve. «Che cosa succede, signore?»

«Gerald» disse la signora Bland. «Manda via questa gente. Salga in macchina, Quentin.»

Gerald discese. Spoade non si era mosso.

«Che cosa ha fatto sergente?» disse. «Ha svaligiato un pollaio?»

«L’avverto» disse Anse. «Conosce il prigioniero?»

«Se lo conosco» disse Shreve. «Senta...»

«Allora può venire dal giudice. Lei impedisce alla giustizia di seguire il suo corso. Avanti.» Mi scosse il braccio.

«Allora, buonasera» dissi. «Molto lieto di avervi veduti. Spiacente di non aver potuto venire con voi.»

«Ma, Gerald» disse la signora Bland.

«Senta, sergente» disse Gerald.

«La diffido a non intrattenersi con un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni» disse Anse. «Se ha qualcosa da dire, può venire dal giudice e identificare il prigioniero.» C’incamminammo. Ormai avevamo formato addirittura una processione. Anse ed io si procedeva in testa. Potevo udire gli altri che raccontavano com’erano andate le cose, e Spoade che faceva domande, e poi Giulio che diceva qualcosa violentemente in italiano. Mi volsi e vidi la bambina, ferma sull’imbocco della curva, che mi guardava con quel suo sguardo benigno e impenetrabile.

«Vattene a casa» le gridò Giulio. «O ti faccio sentire io.»

Si giunse in fondo alla via, poi svoltammo in un piccolo prato dove sorgeva un edificio di mattoni intonacato di bianco. Giungemmo alla porta per un vialetto lastricato e qui Anse fermò tutti quanti all’infuori di noi, e ci lasciò fuori. Entrammo in una stanza nuda, che sapeva di tabacco stantio. Al centro di un riquadro di legno pieno di sabbia c’era una stufa di ferro, alle pareti una carta geografica stinta e una pianta di città sgualcita. Dietro a una tavola tutta sfregiata e ricolma di fogli un uomo, con un ciuffo prepotente di capelli ferrigni, ci fissava al disopra di un paio di occhiali di acciaio.

«L’ha preso, eh, Anse?» disse.

«L’ho preso, sì, giudice.»

Aprì un enorme registro polveroso, l’avvicinò a sé, intinse una penna imbrattata in un calamaio pieno di roba che pareva polvere di carbone.

«Senta, signore» disse Shreve.

«Il nome del prigioniero» disse il giudice. Glielo dissi. Lo scrisse lentamente sul libro, con la penna che raspava con tormentosa ostinazione.

«Senta, signore» disse Shreve. «Conosciamo questo giovine. Lo...»

«Silenzio nell’aula» disse Anse.

«Zitto, amico» disse Spoade. «Lasciagli fare quel che gli comoda. Inutile opporsi.»

«Età» disse il giudice. Gliela dissi. La scrisse, muovendo le labbra mentre scriveva. «Occupazione.» Gliela dissi. «Studente di Harvard, eh?» disse. Levò gli occhi a guardarmi, curvando un po’ il collo per vedere al disopra degli occhiali. Gli occhi erano lucidi e freddi, come quelli di una capra. «Che cosa le piglia, di venir qui a rapire bambine?»

«Sono pazzi, giudice» disse Shreve. «Chiunque pretenda che questo giovine abbia rapito...»

Giulio si riscosse violentemente. «Pazzo?» disse. «Non l’ho sorpreso io, eh? Non l’ho visto io con questi occhi?»

«È una menzogna» disse Shreve. «Lei non ha affatto...»

«Ordine, ordine» disse Anse, alzando la voce.

«Zitti voi, laggiù» disse il giudice. «Se non fanno silenzio, Anse, li butti fuori.» Fecero silenzio. Il giudice guardò Shreve, poi Spoade, poi Gerald. «Conoscete questo giovinotto?» chiese a Spoade.

«Sì, vostro onore» disse Spoade. «È soltanto un ragazzo di provincia che studia all’università. Non può aver fatto nulla di male. Sono sicuro che la guardia si accorgerà di aver preso un granchio. Suo padre è pastore!»

«Hum» disse il giudice. «Che cosa ha fatto precisamente, mi dica.»

Glielo dissi, mentre lui mi osservava con quegli occhi pallidi e freddi. «Che cosa ne dice lei, Anse?»

«Può darsi» disse Anse. «Questi maledetti stranieri.»

«Io americano» disse Giulio. «Ho il certificato.»

«Dov’è la bambina?»

«L’ha mandata a casa» disse Anse.

«Era impaurita o che altro?»

«No, finché Giulio non saltò addosso al prigioniero. Costeggiavano il fiume, diretti verso il paese. Dei ragazzi che facevano il bagno ci hanno detto da che parte erano andati.»

«È uno sbaglio, giudice» disse Spoade, «Cani e bambini gli si attaccano sempre alle calcagna. Non sa cosa farci.»

«Hum» disse il giudice. Guardò per un poco alla finestra. Restammo a osservarlo. Potevo udire Giulio che si grattava. Il giudice volse lo sguardo nell’aula.

«E lei, laggiù, non si contenta che alla bambina non sia stato fatto del male?»

«Niente male, almeno per ora» disse Giulio, cupamente.

«Ha dovuto sospendere il lavoro per ricercarla?»

«Di certo che ho dovuto sospenderlo. Mi sono messo a correre. Ho corso come un dannato. Guarda qua, guarda là, poi mi hanno detto che l’avevano vista mentre le dava da mangiare qualcosa. Era andata con lui.»

«Hum» disse il giudice. «Ebbene, figliolo, mi sembra che lei gli debba dare qualcosa per averlo costretto a sospendere il proprio lavoro.»

«Sta bene, signore» dissi. «Quanto?»

«Un dollaro mi sembra che basti.»

Detti un dollaro a Giulio.

«Dunque» disse Spoade. «Se è tutto qui, vostro onore, mi figuro che adesso sia libero.»

Il giudice non lo guardò. «Fino a dove ha dovuto rincorrerlo, Anse?»

«Per due miglia almeno. Ci sono volute circa due ore, prima di poterlo acchiappare.»

«Hum» disse il giudice. Meditò per un attimo. Restammo a osservarlo, quel suo ciuffo rigido, gli occhiali a cavallo del naso, verso la punta. Il riflesso giallo della finestra si allungava lentamente sull’impiantito, giungeva alla parete, vi si arrampicava. Pulviscolo roteava di sghembo. «Sei dollari.»

«Sei dollari?» disse Shreve. «E perché?»

«Sei dollari» disse il giudice. Fissò un attimo Shreve, poi mi guardò nuovamente.

«Senta» disse Shreve.

«Zitto» disse Spoade. «Daglieli e usciamo di qui. Le signore ci aspettano. Hai sei dollari?»

«Sì» dissi. Gli diedi sei dollari.

«La causa è finita» disse.

«Fatti dare una ricevuta» disse Shreve. «Fatti dare una ricevuta firmata per quel che hai pagato.»

Il giudice guardò Shreve con aria benigna. «La causa è finita» disse, senza alzare la voce.

«Roba da pazzi» disse Shreve.

«Avanti, andiamo» disse Spoade, prendendolo per un braccio. «Buonasera, giudice. Grazie mille.» Mentre si attraversava la porta, la voce di Giulio si levò ancora, violenta, poi tacque. Spoade mi guardava, con gli occhi grigi pieni d’ironia, un po’ freddi. «E adesso, caro mio, mi figuro che, dopo quanto è successo, quando avrai voglia di dare la caccia alle ragazzine andrai a Boston.»

«Pezzo d’imbecille che non sei altro» disse Shreve. «Che cosa ti piglia di vagabondare da queste parti, con quegli italiani fottuti?»

«Andiamo» disse Spoade «cominceranno a impazientirsi.»

La signora Bland parlava con le due ragazze. Erano la signorina Holmes e la signorina Daingerfield; smisero di ascoltarla e mi guardarono, con il solito delicato spavento e qualche curiosità.

Le velette erano sollevate sui piccoli candidi nasi, gli occhi sfuggenti e misteriosi, sotto alle velette.

«Quentin Compson» disse la signora Bland «che cosa direbbe sua madre? È logico che un giovinotto venga a trovarsi in mezzo a qualche pasticcio, ma giungere al punto di venire arrestato da una guardia campestre, via! Che cosa credevano che avesse fatto, Gerald?»

«Nulla» disse Gerald.

«Sciocchezze. Che cosa credevano, Spoade?»

«Ha cercato di violentare quella ragazzina sporca, ma hanno fatto in tempo a pigliarlo» disse Spoade.

«Sciocchezze» disse la signora Bland, ma la sua voce si spense e mi fissò per un attimo, mentre le ragazze tiravano il fiato con una lieve aspirazione concorde. «Fandonie» riprese a un tratto la signora Bland. «Ecco un tipico esempio di come agiscono questi yankees grossolani e ignoranti. Salga su, Quentin.»

Sedetti con Shreve sui due strapuntini. Gerald avviò il motore, entrò in macchina e ci muovemmo.

«E adesso, Quentin, mi racconti com’è andata tutta questa stupida storia» disse la signora Bland. Raccontai. Shreve se ne stava raggomitolato e furioso sul suo strapuntino, e Spoade sul sedile posteriore, con la testa appoggiata, accanto alla signorina Daingerfield.

«E il bello si è che Quentin ce l’ha fatta per tutto questo tempo» disse Spoade. «Noi credevamo che fosse un giovinotto modello, un giovinotto al quale chiunque avrebbe potuto affidare sua figlia, ed ecco che la polizia l’ha smascherato nell’esercizio delle sue nefaste prodezze.»

«Zitto, Spoade» disse la signora Bland. Giungemmo in fondo alla strada, si attraversò il ponte, passammo dinanzi alla casa dove pendeva alla finestra la veste rosa. «Ecco quel che le succede per non aver visto il mio biglietto. Perché non è andato a prenderlo? Il signor MacKenzie mi ha detto che l’aveva avvertito.»

«Già, avevo questa intenzione, signora, ma poi non sono più tornato in camera.»

«E così saremmo rimasti ad aspettarla non so quanto tempo, se non fosse stato per il signor MacKenzie. Quando ci disse che lei non era rientrato, c’era disponibile un posto e così gli abbiamo chiesto di venire con noi. Però siamo tanto contenti di averla qui, signor MacKenzie.» Shreve non disse nulla. Teneva le braccia incrociate e guardava diritto davanti a sé, oltre il berretto di Gerald. Era un berretto di quelli che si usano in Inghilterra, per andare in macchina. Così diceva la signora Bland. Oltrepassammo quella casa e tre altre, e un cortile dove scorsi la bambina, in piedi accanto al cancello. Non aveva più il filone di pane, adesso, e pareva che avessero imbrattato di polvere di carbone il suo viso. Agitai una mano, ma non rispose, volse solo lentamente la testa mentre passava la macchina, seguendoci senza battere ciglio. La macchina poi prese a correre lungo il muro, con le nostre ombre che vi scivolavano sopra, e dopo un poco oltrepassammo un pezzo di giornale strappato, abbandonato al margine della strada. Ricominciai a ridere. Potevo sentirmelo in gola, quel riso, e guardai fuori, negli alberi dove discendeva il meriggio, pensando alla giornata trascorsa, all’uccello e ai ragazzi che nuotavano. Ma non mi riusciva di trattenermi, e allora mi accorsi che, se mi fossi troppo sforzato, mi sarei messo a piangere. Pensai all’idea che avevo avuto di non poter restare vergine, con tante ragazze che passeggiavano nell’ombra sussurrando con le loro tenere voci di donna, indugiando nei luoghi appartati e tante parole e profumo ed occhi sentiti senza vederli, ma, se tutto era così semplice a farsi, non doveva essere nulla, e, se non era nulla, che cosa ero io, finché la signora Bland disse: «Quentin! Si sente male, signor MacKenzie?» e la grassa mano di Shreve mi toccò sul ginocchio e Spoade si mise a chiacchierare e non cercai più di trattenermi.

«Se questa cesta le dà fastidio, signor MacKenzie, la metta dalla sua parte. Ho portato una cesta di vino perché mi sembra che dei giovinotti di buona famiglia debbano bere vino, sebbene mio padre, il nonno di Gerald» mai fatto Non l’hai mai fatto Nelle tenebre grigie una piccola luce teneva le mani incrociate sui

«Lo bevono, quando ne hanno» disse Spoade. «Vero, Shreve?» ginocchi il viso rivolto al cielo l’odore di caprifoglio sul suo viso sulla sua gola

«Anche la birra» disse Shreve. La sua mano mi toccò nuovamente il ginocchio. Lo mossi di nuovo, come soffusa di un velo lievissimo di tinta viola parlava di lui lo evocava.

«Non sei un signore» disse Spoade. fra noi finché il profilo di lei si scompose ma non per il buio

«No, sono canadese» disse Shreve. parlava di lui i remi strizzavano l’occhio strizzavano il berretto di quelli che si usano in Inghilterra per andare in macchina e il tempo che fuggiva e loro due insieme per sempre aveva fatto il soldato aveva ucciso degli uomini

«Adoro il Canada» disse la signorina Daingerfield. «È un paese meraviglioso.»

«Hai mai provato a bere profumo?» disse Spoade. poteva alzarla con una mano mettersela sulle spalle e correre via insieme a lei correre Correre

«No» disse Shreve. correva come un cammello a due gobbe e lei si scomponeva in due remi che facevano l’occhiolino correva e faceva finta di essere il maiale di Euboleo correva accoppiata cosi con quante persone Caddy

«Neanch’io» disse Spoade. Non so troppe persone c’era in me qualcosa di terribile babbo terribile ho commesso un Hai fatto mai quella cosa No non l’abbiamo mai fatta l’abbiamo fatta

«e il nonno di Gerald andava sempre a cogliere da sé la sua menta, prima di colazione, quando era ancora tutta coperta di rugiada. Non permetteva nemmeno al vecchio Wilkie di toccarla, ricordi, Gerald? La coglieva sempre da sé e si faceva da sé il suo mint-julep, come una vecchia zitella, misurando le dosi secondo una sua ricetta che aveva imparato a memoria. A un uomo soltanto ha confidato questa ricetta, era» si l’abbiamo fatta possibile che tu l’ignori se hai pazienza ti dirò come è andata è una gran colpa abbiamo commesso una terribile colpa e nasconderla non è possibile ormai tu credi di si ma aspetta Povero Quentin tu non hai mai fatto quella cosa mai e ti dirò io com’è andata lo dirò al babbo e allora bisognerà per forza che sia così perché tu vuoi bene al babbo e poi dovremo fuggire in mezzo all’esecrazione e alla condanna la fiamma vivida ti costringerò a dire che l’abbiamo fatta sono più forte di te ti farò comprendere che l’abbiamo fatta tu credi che siano stati loro e invece io sono stato senti ti ho ingannata per tutto questo tempo sono stato io tu credevi che io fossi in casa dove quel maledetto caprifoglio a sforzarmi di non pensare all’amaca i cedri l’impeto segreto il fiato anelante chiuso a bere l’impetuoso respiro il sì Sì Sì sì «per tutta la vita non ha mai toccato un goccio di vino, ma diceva sempre che una cesta di vino, in che libro l’ha letto, in quello dov’era descritto il costume di vogatore di Gerald? era l’attributo indispensabile del picnic di un signore» li hai amati Caddy li hai amati Quando mi toccavano mi sentivo morire

indugiò lì per un minuto un attimo dopo Benjy cominciò a strillare e a tirarle la veste andarono nell’ingresso e su per le scale Benjy strillava la trascinava su per le scale fino alla porta del bagno la spingeva contro la porta e lei si copriva il viso col braccio strillava e cercava di spingerla in stanza da bagno quando scese in sala da pranzo T. P. lo stava imboccando ma ricominciò daccapo a gemere soltanto dapprima poi quando lei lo toccò si mise ad urlare Caddy stava lì ferma con gli occhi come due topi in trappola e allora fuggii di corsa nelle tenebre grigie odoravano di pioggia il profumo dei fiori diffuso nell’aria aperta umida e calda il frinire dei grilli dileguava sull’erba circondandomi di un’isola mobile di silenzio Fancy mi contemplava di sopra allo steccato vaga massa rigonfia come un piumino appeso a un filo da stendere pensai maledetto quel negro anche stasera ha dimenticato di darle la biada corsi giù per la scesa in quel vuoto di grilli come un soffio che percorra uno specchio era distesa nell’acqua con la testa sull’umida sabbia l’acqua scorreva attorno al suo corpo c’era un po’ più di luce nell’acqua la sottana quasi inzuppata le batteva sui fianchi secondo il moto dell’acqua corrugata in increspature pesanti che non andavano in nessun luogo rinnovandosi da sé per forza del loro stesso movimento pacato mi fermai sulla riva potevo annusare il caprifoglio sul ruscello l’aria sembrava intrisa di caprifoglio e di frinire di grilli quasi una sostanza percettibile all’epidermide

piange ancora Benjy?

non lo so sì non lo so

povero Benjy

sedetti sulla riva l’erba era un poco umida poi mi accorsi che avevo le scarpe bagnate

esci fuori dall’acqua sei pazza

ma non si mosse il suo viso era una chiazza bianca staccata dalla chiazza della sabbia pei capelli che l’incorniciavano

esci fuori adesso

si levò a sedere poi si drizzò in piedi la sottana gocciolante le sbatteva sui fianchi si arrampicò a riva con le vesti fruscianti sedette

perché non strizzi l’acqua vuoi prendere freddo

l’acqua risucchiava gorgogliava sulla striscia di sabbia e più oltre nel buio fra i salici dell’altra sponda l’acqua s’increspava come un pezzo di stoffa conservando ancora appena un poco di luce così come fa l’acqua

ha navigato per tutti gli oceani ha viaggiato per tutto il mondo

poi si mise a parlarmi di lui con le braccia incrociate sui ginocchi umidi il viso rovesciato all’indietro nella luce grigia l’odore del caprifoglio era acceso in camera della mamma e in quella di Benjy dove T. P. stava mettendolo a letto

ne sei innamorata

stese la mano non mi mossi mi cercò il braccio a tentoni e mi premette la mano sul seno di lei il cuore le martellava

no no

allora è stato lui che ti ha costretta è stato lui hai dovuto lasciarlo fare era più forte di te e domani l’ammazzerò giuro che l’ammazzerò non c’è bisogno che il babbo lo sappia lo saprà dopo e poi tu ed io non c’è bisogno che lo sappia nessuno possiamo prendere i soldi dell’università possiamo ritirare la mia iscrizione Caddy tu senti odio soltanto per lui vero vero

mi premette la mano sul petto il cuore le martellava mi volsi e la presi ad un braccio

Caddy tu senti odio soltanto per lui vero

mi fece salire la mano fino alla gola anche lì il cuore le martellava

povero Quentin

levò il viso al cielo era basso così basso che tutti gli odori tutti i suoni della notte parevano condensarsi sotto di esso come sotto una tenda allentata specie il caprifoglio che si era insinuato nel mio respiro diffuso come un velo di tinta su tutto il suo volto e la gola il sangue pulsava sotto alla mia mano mi appoggiavo sull’altro braccio cominciò a palpitare a trasalire e ansai alla ricerca di un soffio d’aria nella densità grigia di tutto quel caprifoglio

sì l’odio mi farà morire mi ha già fatto morire mi fa morire ogni volta che quella cosa succede

quando staccai la mano da terra potevo ancora sentire l’erba e gli stecchi che mi facevano frizzare la palma

povero Quentin

si rovesciò all’indietro con le mani incrociate sui ginocchi

tu non l’hai mai fatto vero

che cosa non ho mai fatto

quello che ho fatto io

sì sì tante volte con tante ragazze

allora mi misi a piangere e la sua mano mi toccò nuovamente e piansi appoggiandomi sulla sua blusa bagnata e lei stesa sul dorso guardava oltre la mia testa nel cielo potei scorgere un cerchio bianco attorno alle sue pupille apersi il coltello

ricordi il giorno che morì la nonna e ti mettesti a sedere nell’acqua con le mutande

tenevo il coltello puntato sulla sua gola

ci vorrà appena un secondo un secondo soltanto poi farò lo stesso con me farò lo stesso con me

sì ma ti riuscirà di farlo da te

certo la lama è lunga abbastanza a quest’ora Benjy è già a letto

ci vorrà appena un secondo cercherò di non farti male

va bene

meglio che tu chiuda gli occhi

non così dovrai pigiare più forte

toccalo con la mano

ma non si mosse teneva gli occhi sgranati guardando oltre la mia testa nel cielo

Caddy ricordi come ti sgridò Dilsey perché ti eri sporcata le mutande di mota

non piangere

non piango mica Caddy

forza vuoi deciderti o no

vuoi proprio che io

sì forza

toccalo con la mano

non piangere povero Quentin

ma non mi riusciva di trattenermi mi teneva la testa contro il seno duro bagnato potevo udire il cuore che adesso le batteva calmo e misurato non più martellante e l’acqua che gorgogliava fra i salici nel buio e ondate di caprifoglio che salivano in aria avevo un braccio e una spalla indolenziti sotto il peso del corpo

che c’è che fai

i suoi muscoli si contrassero mi drizzai a sedere

è il mio coltello è caduto

si drizzò a sedere

che ore sono

non lo so

si levò in piedi mi posi a frugare per terra

voglio andar via lascialo dov’è

potevo sentirla lì in piedi potevo annusare la sua vesta bagnata potevo sentirla vicina

dev’essere per qui

andiamo potrai cercarlo domani vieni

aspetta un momento lo trovo

hai paura di

eccolo era proprio qui

ah sì vieni

mi alzai la seguii andammo su per la salita i grilli al nostro avvicinarsi ammutolivano

buffo come càpiti spesso di lasciar cadere qualcosa quando si sta seduti e poi bisogna cercare da tutte le parti

grigio tutto era grigio la rugiada saliva obliquamente nel cielo grigio e più oltre gli alberi

maledetto quel caprifoglio vorrei non sentirlo più

un tempo ti piaceva

giungemmo in cima e c’incamminammo verso gli alberi mi urtò poi si ritrasse un poco il fossato era una cicatrice nera nell’erba grigia mi urtò nuovamente mi guardò si ritrasse giungemmo al fossato

andiamo di qui

perché

andiamo a guardare se si vedono ancora le ossa di Nancy è tanto tempo che non ho più pensato a guardare e te

il buio era intrecciato di rampicanti e di rovi

erano proprio qui non si vede se ci sono o no ancora tu ci vedi

basta Quentin

vieni

il fossato si faceva più angusto finiva si voltò verso gli alberi

basta Quentin

Caddy

mi posi di nuovo dinanzi a lei

Caddy

basta

la strinsi

sono più forte di te

stava ferma tesa inflessibile eppure

non voglio lottare basta ti dico basta

Caddy non fare così Caddy

non servirebbe a nulla lo sai no lasciami andare

il caprifoglio stillava e stillava potevo sentire i grilli che ci facevano cerchio osservandoci indietreggiò mi girò attorno si mosse verso gli alberi

torna a casa è inutile che tu mi segua

la seguivo

perché non torni a casa

maledetto quel caprifoglio

giungemmo allo steccato vi passò attraverso e anch’io l’attraversai raddrizzandomi lo vidi che sbucava fuori nel grigio dagli alberi e veniva verso di noi alto e magro ed immobile anche muovendosi sembrava immobile Caddy si avvicinò verso di lui

questo è Quentin sono bagnata sono tutta bagnata se non vuoi non sei mica obbligato

le loro due ombre un’ombra sola la testa di lei s’innalzò sopra a quella di lui le loro teste sullo sfondo del cielo

se non vuoi non sei mica obbligato

poi non più due teste il buio sapeva di pioggia di erba umida e di foglie luce grigia stillava come pioggia il caprifoglio saliva in umide ondate potevo vedere il viso di lei una chiazza sulla spalla dell’uomo la teneva sollevata in un braccio come se fosse stata una bambina egli mi tese la mano

piacere di conoscerti

ci stringemmo la mano poi restammo lì fermi l’ombra di lei allungata contro la sua ombra un’ombra sola

che cosa hai intenzione di fare Quentin

passeggiare per un poco voglio passare attraverso il bosco fino alla strada e tornare indietro dal paese

mi volsi ed andai

buonanotte

Quentin

mi fermai

che cosa vuoi

nel bosco i ranocchi gracidavano fintando la pioggia nell’aria sembravano giocattoli musicali arrugginiti e il caprifoglio

vieni qui

che cosa vuoi

vieni qui Quentin

tornai indietro mi toccò su una spalla la sua ombra si curvò la chiazza del viso di lei si staccava dall’ombra alta dell’uomo mi ritrassi

bada

torna a casa

non ho sonno voglio fare una passeggiata

aspettami al ruscello

voglio fare una passeggiata

ti raggiungo fra poco aspettami aspettami

no ho intenzione di passare dal bosco

non mi volsi a guardare i tre ranocchi non badavano a me la luce grigia come muschio fra le piante stillanti senza però che ancora piovesse mi rimisi in cammino verso l’orlo del bosco e quando vi giunsi potei scorgere l’orologio luminoso del tribunale e il bagliore della piazza del paese sul cielo e i salici neri lungo il ruscello e la finestra della mamma la luce ancora accesa in camera di Benjy e passai sotto allo steccato e attraversai il prato di corsa correvo nell’erba grigia fra i grilli il caprifoglio si faceva più intenso e l’odore dell’acqua poi potei veder l’acqua color grigio di caprifoglio mi stesi a riva con la faccia contro terra per non sentir più l’odore del caprifoglio e così non lo sentii più e rimasi lì sdraiato e la terra mi filtrava attraverso il vestito ascoltavo l’acqua e dopo un poco il respiro mi si era fatto più calmo e rimasi lì sdraiato pensando che se non avessi sollevato la faccia non avrei ricominciato ad ansare non l’avrei più annusato e poi non pensai più a nulla ella giunse costeggiando la riva si avvicinò si fermò non mi mossi

è tardi vai a casa

che cosa

torna a casa è tardi

va bene

i suoi abiti frusciavano non mi mossi smisero di sfrusciare

hai intenzione di tornare a casa di fare quel che ti ho detto

non udivo nulla

Caddy

sì va bene se vuoi lo farò

mi levai a sedere anche lei sedeva per terra con le mani incrociate attorno al ginocchio

torna a casa come ti ho detto

sì tutto quello che vuoi tutto sì

non mi guardava nemmeno la presi per una spalla e la scossi forte

basta

la scossi

basta basta

alzò il viso e allora mi accorsi che non mi guardava nemmeno potevo vedere quel cerchio bianco

àlzati

la tirai su abbandonata lasciava fare completamente la misi in piedi

vattene ora

piangeva ancora Benjy quando sei uscito

vattene

attraversammo il ruscello apparve il tetto poi le finestre del piano di sopra

adesso dorme

dovetti fermarmi per chiudere il cancello lei prosegui innanzi nella luce grigia l’odore della pioggia eppure ancora non pioveva e il caprifoglio cominciava a farsi sentire dallo steccato del giardino s’immerse nell’ombra e allora potei udire i suoi piedi

Caddy

mi fermai dinanzi ai gradini non potevo più udire i suoi piedi

Caddy

adesso udivo nuovamente i suoi piedi allora la toccai con la mano né calda né fredda l’abito ancora appena bagnato

gli vuoi bene adesso

respiro lento come respiro lontano

Caddy gli vuoi bene adesso

non lo so

luce grigia al di fuori ombra di cose come cose morte nell’acqua stagnante

vorrei che tu fossi morta

ah sì entra in casa ora

pensi a lui adesso

non lo so

dimmi a che pensi dimmi

basta basta Quentin

taci taci capisci taci vuoi tacere

va bene starò zitta facciamo troppo rumore

ti ammazzo capisci

andiamo verso l’amaca qui ti sentiranno

non piango mica credi che pianga

no zitto ora sveglieremo Benjy

entra in casa adesso entra in casa

sì non piangere lo so che sono cattiva non ci posso far nulla

c’è una maledizione su noi non è nostra colpa è colpa nostra

zitto entra in casa ora e vai a letto

non puoi mica costringermi c’è una maledizione su noi

finalmente lo vidi stava entrando dal barbiere guardò fuori mi avvicinai e attesi

sono due o tre giorni che ti sto cercando

volevi parlarmi

voglio parlarti

si arrotolò rapidamente una sigaretta in due o tre movimenti accese un fiammifero sul pollice

impossibile parlare qui possiamo incontrarci da qualche parte

posso venire a trovarti in camera tua sei all’albergo

no lì non va conosci quel ponte sul torrente laggiù dietro a

sì va bene

all’una precisa

voltai i tacchi

grazie mille

senti

mi fermai e mi voltai

e lei come sta lei

sembrava scolpito nel bronzo con quella sua camicia cachi

posso fare qualcosa per lei mi troverai laggiù all’una

sentì che dicevo a T. P. di sellare Prince per l’una mangiò poco e mi guardava mi venne dietro

che cosa hai intenzione di fare

nulla non posso fare una galoppata se ho voglia

tu hai intenzione di fare qualcosa che cosa

nulla che ti riguardi sgualdrina sgualdrina

T. P. condusse Prince davanti alla porta laterale

non ne ho più bisogno preferisco di andare a piedi

discesi il viale uscii dal cancello svoltai per la viottola e cominciai a correre lo vidi prima di raggiungere il ponte stava appoggiato sulla spalletta avevo attaccato il cavallo nel bosco guardò disopra alla spalla poi volse la schiena e non guardò più fino a che non fui giunto sul ponte e mi fermai aveva in mano un pezzo di corteccia ne staccava dei pezzi che gettava via via oltre la spalletta nell’acqua

sono venuto a dirti di lasciare questa città

con gesto deciso staccò un pezzo di corteccia lo gettò meticolosamente nell’acqua l’osservò che si allontanava

mi dette uno sguardo

è lei che ti manda

dico che devi lasciare questa città lo dico io e non mio padre o nessun altro

senti parleremo poi di questa faccenda prima di tutto dimmi se lei sta bene se ha avuto delle noie a casa

questo

non ti riguarda poi mi udii che dicevo ti do tempo fino al tramonto per lasciare questa città

staccò un pezzo di corteccia e lo lasciò cadere nell’acqua poi depose la corteccia sulla ringhiera coi soliti due o tre rapidi gesti si arrotolò una sigaretta gettò il fiammifero oltre la ringhiera

che intendi fare se non me ne vado

ti ammazzo forse non ci crederai perché ti sembro un ragazzo

due getti di fumo gli scaturirono dalle narici attraversandogli il volto

quanti anni hai

cominciai a tremare tenevo le mani sulla ringhiera se le avessi nascoste avrebbe capito perché

ti do tempo fino a stasera

senti figliolo come ti chiami Benjy è l’idiota vero e tu saresti

Quentin

la mia bocca lo disse io non avevo parlato

ti do tempo fino al tramonto

Quentin

meticolosamente raccolse la cenere sul parapetto e la gettò via lentamente e meticolosamente quasi avesse temperato una matita le mie mani non tremavano più

senti non vale la pena di prenderla tragicamente non è colpa tua ragazzo se non ero io sarebbe stato qualcun altro ti pare

hai mai avuto una sorella tu l’hai mai avuta!

no ma sono tutte puttane

e lo colpii a mano aperta vincendo l’impulso di chiuderla sul viso di lui la sua mano si mosse veloce come la mia la sigaretta schizzò oltre la ringhiera tirai con l’altra mano ma lui l’acchiappò prima che la sigaretta toccasse l’acqua con una sola mano mi strinse ai polsi e infilò l’altra sotto la giacca il sole calava dietro di lui un uccello cantava da qualche parte oltre il sole ci guardammo mentre l’uccello cantava mi lasciò andare i polsi

bada ragazzo

raccolse la corteccia dalla ringhiera e la lasciò cadere nell’acqua si dondolò un poco poi la corrente la prese la mano di lui sulla ringhiera stringeva la pistola distrattamente restammo in attesa

adesso non puoi colpirla

no

galleggiava allontanandosi sulla corrente il silenzio regnava nel bosco udii nuovamente l’uccello e il suono dell’acqua poi alzò la pistola non prese nemmeno la mira e la corteccia scomparve risalirono a galla pochi frammenti sparsi tirò ancora su due di quei pezzi non più grandi di un dollaro d’argento

mi figuro che basti

aperse il tamburo e soffiò nella canna un filo di fumo ne uscì e si disperse ricaricò le tre cartucce chiuse il tamburo e mi porse l’arma per il calcio

perché dovrei provare non pretendo mica di essere più bravo di te

devi esser più bravo se vuoi fare quello che hai detto ti do questa pistola perché hai visto che cosa è possibile farci

al diavolo te e la tua pistola

gli sferrai un pugno e anche dopo quando mi ebbe ripreso pei polsi cercai di colpirlo poi fu come se lo guardassi attraverso a un vetro colorato potevo sentire il mio sangue e finalmente rividi il cielo di nuovo e le fronde che si stagliavano sul cielo e il sole che filtrava di sghembo attraverso le fronde e lui che mi teneva su in piedi

mi hai colpito

non riuscivo a sentire

che cosa

sì come ti senti

mi sento bene lasciami andare

mi lasciò andare mi appoggiai alla ringhiera

ti senti bene

lasciami in pace sto bene

ce la fai a tornare a casa da solo

vattene lasciami in pace

è meglio che tu non vada a piedi prendi il mio cavallo

no vattene

mi sporsi alla ringhiera guardando l’acqua l’udii che staccava il cavallo e se ne andava e dopo un attimo non udii nient’altro che l’acqua e poi ancora l’uccello mi allontanai dal ponte e sedetti col dorso appoggiato ad un albero e la testa piegata sull’albero e chiusi gli occhi una losanga di sole si fece strada fra i rami e mi cadde sugli occhi dovetti spostarmi appena intorno all’albero udivo l’uccello e l’acqua poi tutto parve rotolar via e non sentii più nulla provavo una specie di benessere dopo tanti giorni e tante notti col caprifoglio che saliva su dalle tenebre fino in camera mia dove cercavo di addormentarmi anche quando compresi che non mi aveva colpito che aveva mentito per lei e che mi ero semplicemente svenuto come una femmina ma ormai neanche questo m’interessava me ne stavo seduto appoggiandomi all’albero con piccole chiazze di sole che mi guizzavano sul viso come foglie gialle su un ramo ascoltavo l’acqua e quando udii il cavallo che arrivava al galoppo non pensavo proprio più a nulla sedevo lì ad occhi chiusi ad ascoltare gli zoccoli che raspavano in terra facendo schizzar via la sabbia e i piedi che correvano e le mani nervose di lei che mi percorrevano il viso

stupido stupido ti sei fatto male

apersi gli occhi le mani di lei mi percorrevano il viso

non capivo da che parte finché non ho udito i colpi non sapevo dove non credevo che voi due sareste scappati via per nascondervi non immaginavo che lui avrebbe

mi teneva il viso fra le mani sbattendomi la testa contro l’albero

basta smetti

la presi pei polsi

smetti smetti

lo sapevo lo sapevo che non avrebbe potuto far questo

cercava di sbattermi la testa contro l’albero

gli ho detto di non rivolgermi la parola mai più gli ho detto

cercava di liberarsi i polsi

lasciami andare

stai ferma sono più forte di te stai ferma ora

lasciami andare debbo raggiungerlo e chiedergli lasciami andare Quentin te ne prego lasciami andare lasciami andare

si abbandonò a un tratto i polsi divennero inerti

va bene potrò dirglielo poi mi capirà in qualsiasi momento mi capirà

Caddy

non aveva legato Prince se gli passava per la mente l’idea avrebbe potuto andarsene verso la stalla

mi capirà in qualsiasi momento

gli vuoi bene Caddy

gli voglio che cosa

mi guardava poi gli occhi le si vuotarono a un tratto parevano gli occhi di una statua ciechi vacui e sereni

mettimi la mano sulla gola

mi prese la mano e la premette contro la gola

e adesso dimmi come si chiama

Dalton Ames

vi sentii palpitare il primo fiotto di sangue in rapide pulsazioni crescenti

dillo ancora

il viso di lei vagava fra gli alberi dove il sole filtrava di sghembo e dove l’uccello

Dalton Ames

il sangue affluiva sempre più forte batteva e batteva contro la palma della mia mano

seguitò a scorrere a lungo, ma avevo il viso diaccio e come morto, e l’occhio, e il dito dove m’ero tagliato ricominciava a frizzarmi. Udivo Shreve che pompava l’acqua poi venne con un catino su cui galleggiava una bolla rotonda di crepuscolo, coi margini gialli, come un globo evanescente, poi la mia immagine. Cercai di contemplarvi il mio volto.

«Ha smesso di sanguinare?» disse Shreve. «Dammi il fazzoletto.» Cercò di levarmelo di mano.

«Attento» dissi. «Lascia fare a me. Sì, ha quasi smesso.» Tuffai il fazzoletto di nuovo, facendo scoppiare la bolla. Il fazzoletto macchiò tutta l’acqua. «Vorrei averne uno pulito.»

«Ti ci vorrebbe una braciola di carne, per quell’occhio» disse Shreve. «Scommetto che domani ci sarà un livido grosso così. Figlio d’un cane». disse.

«Gli ho fatto male?» Strizzai il fazzoletto e cercai di togliere la chiazza di sangue sulla sottoveste.

«Impossibile smacchiarla» disse Shreve. «Dovrai mandarla al tintore. Avanti, bàgnati l’occhio, perché non lo bagni?»

«Si può smacchiarla alla meglio» dissi. Ma non riuscivo a gran che. «In che stato è il colletto?»

«Non lo so» disse Shreve. «Premi il fazzoletto sull’occhio. Così.»

«Attento» dissi. «Lascia fare a me. Gli ho fatto male?»

«Può darsi che tu l’abbia colpito. Può darsi che in quel momento io sbattessi le palpebre o che guardassi da un’altra parte o roba del genere. Te le ha date di santa ragione. Te le ha date da tutte le parti. Perché diavolo hai voluto prenderlo a pugni? Pezzo di stupido, come ti senti?»

«Mi sento benone» dissi. «Si potrebbe trovare qualcosa per pulirmi la sottoveste?»

«Oh, non pensar più al tuo maledetto vestito. Ti fa male l’occhio?»

«Mi sento benone» dissi. Tutto quanto all’intorno pareva silenzioso e. violaceo, il verde del cielo volgeva in oro dietro all’abbaino della casa, dal comignolo si levava un pennacchio di fumo senza un filo di vento. Sentii di nuovo la pompa. Un uomo stava riempiendo una secchia, osservandoci di sopra alla spalla che si muoveva su e giù. Una donna passò davanti alla porta, all’interno, ma non guardò fuori. Udii una vacca che mugghiava, da qualche parte.

«Avanti» disse Shreve «non ti occupare del tuo vestito e premi il fazzoletto sull’occhio. Penserò io a mandarlo al tintore per prima cosa domani mattina.»

«Va bene. Mi rincresce di non essere riuscito neppure a sanguinare un po’ su di lui.»

«Figlio d’un cane» disse Shreve. Spoade uscì dalla casa, mi figuro che fosse stato a parlare con quella donna, e attraversò il cortile. Mi guardava con quei suoi occhi freddi ed ironici.

«E allora, amico» disse, fissandomi «mi sembra che per divertirti tu abbia bisogno di cacciarti in un mare di guai. Prima rapimento, poi pugilato. Che cosa fai nei giorni festivi? Dài fuoco alle case?»

«Sto benone» dissi. «Che ha detto la signora Bland?»

«Sta sgridando Gerald per averti fatto sanguinare. Sgriderà anche te, quando ti vede, per averlo lasciato fare. Non ha nulla in contrario per il pugilato, ma il sangue l’annoia. Credo che tu sia calato parecchio di casta sociale, a suo giudizio, per non essere stato capace di trattener meglio il tuo sangue. Come ti senti?»

«È logico» disse Shreve. «Quando non si è un Bland, non resta altro di meglio da fare che mettere le corna ad un Bland, oppure, secondo i casi, ubriacarsi e prendere un Bland a cazzotti.»

«Giustissimo» disse Spoade. «Ma non sapevo che Quentin fosse ubriaco.»

«Non era ubriaco» disse Shreve. «C’è forse bisogno di essere ubriachi per prendere a cazzotti quel figlio d’un cane?»

«Be’, credo che per decidermi a farlo dovrei essere brillo abbastanza, dopo aver visto in che modo Quentin è rimasto conciato. Dove ha imparato a fare a pugni?»

«Va tutti i giorni da Mike, in città» dissi.

«Davvero?» disse Spoade. «E tu lo sapevi, quando gli sei saltato addosso.»

«Non so» dissi. «Credo di sì. Sì.»

«Bagnalo ancora» disse Shreve. «Vuoi dell’acqua fresca?»

«Così va bene» dissi. Bagnai di nuovo il fazzoletto e lo tenni sull’occhio. «Vorrei avere qualcosa per smacchiarmi la sottoveste.» Spoade mi stava ancora guardando.

«Senti» disse «perché gli sei saltato addosso? Che aveva detto?»

«Non lo so. Non so perché l’ho fatto.»

«Quando meno me l’aspettavo ti ho visto scattare e dirgli: “Hai avuto mai una sorella? Mai avuto una?” e quando lui ti ha risposto di no, gli sei saltato addosso. Ho notato che lo stavi guardando da un pezzo, senza fare attenzione a quello che si diceva, quando a un tratto scatti su a chiedergli se ha una sorella.»

«Oh, si vantava come al solito delle sue donne» disse Shreve. «Lo sai come fa, davanti alle ragazze che neppure capiscono precisamente quello che dice. Tutti quei suoi doppisensi fottuti e bugie e un monte di cose che non significano nulla. Parlava di una sgualdrina con cui aveva fissato un appuntamento in una sala da ballo ad Atlantic City, e poi invece se n’era andato a letto in albergo, molto rattristato all’idea che quella lo stesse aspettando sul molo senza che lui fosse lì per darle quel che lei si aspettava. Parlava della bellezza del corpo e della sua triste fine, della dura sorte delle donne, che non hanno nient’altro da fare che sdraiarsi sul dorso. Leda nascosta nella selva, a piangere e a lamentarsi per il suo cigno, capisci? Figlio d’un cane. Avrei voluto prenderlo anch’io a pugni. Soltanto, al suo posto, avrei preso quel maledetto paniere di vino e gliel’avrei scaraventato sul muso.»

«Oh» disse Spoade «come sei cavalleresco. Ragazzo mio, tu ecciti in me, non soltanto ammirazione, ma orrore.»

Mi guardava, freddo ed ironico. «Signore Iddio» disse.

«Mi dispiace di averlo aggredito» dissi. «Sono troppo impresentabile per andare a fare la pace?»

«Vattene al diavolo te, con le tue scuse» disse Shreve. «Mandali all’inferno. Noi andiamo in città.»

«Dovrebbe presentarsi di nuovo per mostrare di sapersi battere come un gentiluomo» disse Spoade. «Di sapersi far battere come un gentiluomo, anzi.»

«In questo stato?» disse Shreve. «Col vestito tutto insanguinato?»

«Sarà come tu dici» disse Spoade. «Lo sai meglio di me.»

«Non può andare in giro in camiciola» disse Shreve. «Non è mica un anziano, ancora. Suvvia, andiamo in città.»

«È inutile che veniate anche voi» dissi. «Perché non tornate con gli altri a fare il picnic?»

«Al diavolo gli altri» disse Shreve. «Forza, andiamo.»

«Che cosa racconto?» disse Spoade. «Devo dire che anche tu hai fatto ai pugni con Quentin?»

«Non dire nulla» disse Shreve. «Dille che la sua opzione spirava al tramonto. Vieni, Quentin. Chiediamo a quella donna dove passa il tram interurbano più prossimo.»

«No» dissi «non voglio tornare in città.»

Shreve si fermò e mi diede uno sguardo. Mentre si girava i suoi occhiali parevano due piccole lune gialle.

«Che cosa vuoi fare?»

«Non torno ancora in città. Andate con gli altri a fare il picnic. Direte che non sono voluto venire perché mi ero sporcato il vestito.»

«Senti» disse «che diavolo hai in mente?»

«Nulla. Sto benone. Vai pure con Spoade. Ci rivedremo domani.» Mi avviai attraverso il cortile, in direzione della strada.

«Lo sai dov’è la fermata?» disse Shreve.

«La troverò. Ci rivedremo tutti quanti domani. Dite alla signora Bland che sono spiacente di avere guastato la gita.» Rimasero fermi a guardarmi. Girai intorno alla casa. Un sentiero di pietre scendeva fino alla strada. Passai il cancello, mi trovai nella strada. Calava in discesa, verso il bosco, e potei scorgere l’automobile, a un lato della strada. Mi diressi nel senso opposto, in salita. La luce cresceva, via via che avanzavo, e prima di essere giunto in cima udii un motore. Pareva lontano, in fondo al crepuscolo, e mi fermai ad ascoltare. Adesso non potevo più scorgere l’automobile, ma vidi Shreve in mezzo di strada, dinanzi alla casa, che guardava in su. Dietro di lui, come una mano di tempera, la luce gialla dilagava sul tetto della casa. Agitai la mano e ripresi a salire, ascoltando il motore. Poi la casa scomparve e mi fermai nella luce verde e gialla; il rombo del motore si faceva più forte, sempre più forte, poi, proprio mentre stava scemando, si spense ad un tratto. Attesi fino a che non lo udii ricominciare di nuovo, poi mi rimisi in cammino.

Mentre scendevo, la luce andava lentamente illanguidendo, senza variare tuttavia di gradazione. Si sarebbe detto che io, e non la luce, stessi trasformandomi illanguidendo, sebbene anche quando la strada prese a correre fra gli alberi sarebbe stato possibile leggere il giornale. Ben presto giunsi a un sentiero. Lo presi. Era più angusto e più oscuro della strada, ma quando sboccò dinanzi alla fermata del tram, - un’altra baracca di legno, - la luce tornò come prima. Dopo il sentiero, sembrava anzi più viva, quasi che, percorrendolo, avessi oltrepassato la notte per poi ritrovarmi al mattino di un giorno nuovo. Ben presto giunse un tram. Vi salii, tutti quanti si voltavano a guardarmi l’occhio, e trovai un posto a sinistra.

Nel tram le luci erano accese e così, mentre correvamo fra gli alberi, potevo vedere soltanto me stesso e una donna dall’altra parte, con un cappello in punta di testa decorato da una piuma spezzata. Ma quando uscimmo dagli alberi, potei rivedere il crepuscolo, una luce speciale, come se il tempo si fosse davvero fermato per un secondo, col sole sospeso appena al disotto dell’orizzonte. Passammo dinanzi alla baracca dove avevo visto il vecchio che mangiava tirando fuori la roba dal suo sacchetto di carta, e la strada proseguì poi sotto il crepuscolo, nel crepuscolo, e più oltre quella sensazione di acqua tranquilla e veloce. E il tram correva innanzi. Dalla porta aperta la corrente d’aria andava facendosi sempre più forte, finché prese a soffiare senza interruzione recando, attraverso la vettura, l’odore dell’estate e del buio, ma non del caprifoglio. Credo che l’odore del caprifoglio sia l’odore più triste di tutti. Ricordo tanti profumi. Quello del glicine è uno. Nei giorni di pioggia, quando la mamma si sentiva così poco bene da essere costretta a stare lontana dalle finestre, si giocava sotto ai glicini. Quando la mamma era a letto, Dilsey ci metteva gli abiti vecchi e ci lasciava andar fuori sotto la pioggia perché, diceva, la pioggia non fa mai male ai bambini. Ma, se la mamma era alzata, allora si cominciava sempre a giocare nella veranda, finché poi diceva che facevamo troppo rumore, e allora si andava fuori a giocare sotto il pergolato dei glicini.

Era qui che avevo visto il fiume per l’ultima volta, al mattino, qui press’a poco. Potevo sentire l’acqua, oltre il crepuscolo, potevo annusarla. In primavera quando fioriva e pioveva il profumo si diffondeva dovunque certe volte non era così forte ma quando pioveva l’odore cominciava a entrare in casa verso il crepuscolo sia che verso il crepuscolo piovesse di più sia che vi fosse qualcosa nell’aria fatto è che allora si faceva più penetrante finché dovevo buttarmi sul letto pensando quando smetterà quando smetterà. La corrente d’aria che penetrava dalla porta sapeva d’acqua un soffio umido e costante. Talora riuscivo ad addormentarmi ripetendo più volte le solite parole e quando infine il caprifoglio venne a collegarsi con tutto l’insieme l’intero complesso prese a simbolizzare per me la notte e l’irrequietudine. Mi pareva di starmene lì a giacere né addormentato né sveglio a contemplare un lungo corridoio di grigia penombra dove tutte le cose stabili si trasformavano in vaghe parvenze paradossali ombre erano tutte le cose che avevo fatto tutto quello che avevo sentito sofferto assumeva forme visibili grottesche e perverse beffarde e insensate coerenti esse stesse a quell’assenza di significato che avrebbero dovuto affermare e pensavo che ero quel che non ero e che non erano le cose che erano.

Potevo sentire le curve del fiume oltre il crepuscolo e scorgevo le ultime luci supine e tranquille sulle increspature dell’acqua come i frammenti di uno specchio rotto; poi al di là di quelle cominciarono ad accendersi luci nell’aria pallida limpida, tremolanti appena come farfalle svolazzanti molto lontano. Benjamin, figlio della. Come gli piaceva sedersi davanti a quello specchio. Rifugio sicuro dove si attutiva si placava taceva ogni conflitto. Benjamin, figlio» della mia vecchiaia, tenuto per ostaggio in Egitto. Oh, Benjamin. Dilsey diceva che avevano fatto così perché la mamma era troppo orgogliosa e si vergognava di lui. È a questo modo che penetrano nella vita dei bianchi in repentine improvvise infiltrazioni nere che per un attimo isolano i fatti dei bianchi in realtà incontrovertibili come sotto la lente di un microscopio; per tutto il resto del tempo sono voci e nient’altro voci che ridono quando voi non vedete nessun motivo per ridere, lacrime quando non c’è motivo di pianto. Ai funerali giocano a pari e dispari sul numero dei convenuti. Un bordello pieno di negre a Memphis fu preso da follia religiosa corsero nude fuori per strada. Ci vollero tre guardie per trattenerne una sola. Sì, Gesù. Oh, buon Gesù. Oh, buon Signore.

Il tram si fermò. Discesi, mentre tutti quanti mi guardavano l’occhio. Quando venne il tram di città era pieno. Mi fermai sulla piattaforma posteriore.

«Davanti c’è posto» disse il bigliettario. Guardai all’interno. Non c’erano posti a sinistra.

«Non vado lontano» dissi. «Preferisco restare qui in piedi.»

Attraversammo il fiume. Cioè il ponte, con le sue arcate lente e slanciate nel vuoto, fra il silenzio ed il nulla dove le luci, gialle rosse e verdi tremolavano nell’aria limpida e si ripetevano.

«Meglio che vada davanti e si metta a sedere» disse il bigliettario.

«Discendo fra poco» dissi. «Fra un paio d’isolati.»

Discesi prima che si giungesse davanti alla posta. A quell’ora dovevano essere tutti quanti seduti in circolo da quelle parti; avevo ricominciato a sentire l’orologio, tendevo l’orecchio in attesa dei rintocchi del campanile. Palpando la lettera di Shreve di sopra alla giacca vidi scorrere sulla mia mano le ombre frastagliate degli olmi. Poi, mentre svoltavo nel cortile dell’università, principiai a udire i rintocchi e proseguii il mio cammino mentre le note si propagavano come cerchi d’acqua su uno stagno, mi oltrepassavano, dileguavano dicendo: Un quarto a che cosa? Sicuro: un quarto a che cosa.

Le nostre finestre erano al buio. L’ingresso era vuoto. Entrando mi tenni accosto alla parete di sinistra, ma era vuoto: soltanto le scale che snodavano la loro spirale nell’ombra, l’eco dei passi di tante generazioni infelici come polvere lieve sulle ombre svegliate dai passi miei, come polvere che sarebbe lievemente ricaduta fra breve.

Scorsi la lettera prima ancora di accendere la luce, appoggiata contro un libro sul tavolo perché la notassi. Lo chiamava marito mio. E poi Spoade per dirmi che sarebbero andati da qualche parte e non avrebbero fatto ritorno che tardi, e che la signora Bland aveva bisogno di un altro cavaliere. Ma ormai l’avevo visto e non poteva prendere un altro tram che fra un’ora, perché dopo le sei. Trassi fuori l’orologio ed ascoltai quel suo tictac ignaro di non poter più mentire. Poi lo deposi per diritto sul tavolo, presi la lettera della signora Bland, la strappai e gettai i pezzi nel cestino; mi tolsi giacca, sottoveste, colletto, cravatta e camicia. Anche la cravatta si era macchiata, ma i negri. Una decorazione di sangue forse avrebbe detto che era quella portata da Cristo. Trovai la benzina in camera di Shreve, collocai la sottoveste sul tavolo, perché stesse bene distesa, e stappai la boccetta.

la prima macchina della città una ragazza Ragazza odore di benzina ecco una cosa che Jason non poteva sopportare prima si sentiva male poi si arrabbiava peggio che mai perché una ragazza non aveva sorella ma Benjamin Benjamin figlio della mia se almeno avessi una mamma per poter dire Mamma Mamma Ci volle molta benzina e poi non avrei più saputo dire se era ancora la macchia oppure la benzina soltanto. Il taglio aveva ricominciato a frizzare e così quando andai a lavarmi appesi la sottoveste a una seggiola e tirai il filo della luce per asciugare la chiazza con la lampada. Mi lavai mani e faccia, ma anche così potevo sentirla attraverso il sapone, che mi solleticava un po’ le narici, le faceva contrarre. Poi apersi la valigia, ne tirai fuori camicia, cravatta e colletto, vi ripòsi la roba insanguinata, la richiusi e mi vestii. Mentre mi spazzolavo i capelli suonò la mezza. Ma c’era tempo fino ai tre quarti a meno che per caso nelle tenebre fuggenti vedevo soltanto il volto di lui non la piuma spezzata a meno che non ve ne fossero stati due ma è impossibile che due come quelli vadano a Boston la stessa sera e poi il mio viso e il viso di lui per un attimo nell’urto improvviso quando due finestre accese nel buio cozzano fra loro impetuosamente dileguato il suo viso e il mio lo vedo ancora l’ho visto o non l’ho visto addio baracca nessuno più mangia la strada deserta buia silenziosa il ponte che curva nel silenzio i suoi archi tenebre sonno acqua tranquilla e veloce no non addio

Spensi la luce e tornai in camera, lontano dalla benzina, ma ne sentivo ancora l’odore. Indugiai alla finestra. La tenda si agitava lentamente gonfiandosi sulle tenebre, mi toccava sul viso come chi respirasse nel sonno, poi si scostava lentamente e ricadeva nel buio, lasciando la sensazione di quel contatto. Quando furono saliti al piano di sopra la mamma si abbandonò sulla poltrona premendosi sulla bocca il fazzoletto inzuppato di canfora. Il babbo non si era mosso le sedeva accanto immobile tenendola per una mano i gemiti si allontanavano come se nel silenzio non vi fosse stato spazio per loro. Quand’ero piccolo c’era un’illustrazione su un nostro libro: un luogo oscuro in cui penetrava in tralice un unico raggio di debole luce che illuminava due volti stagliati nell’ombra. Sai che farei se fossi re? non era mai una regina né una fata ma sempre un re o un gigante o un generale sfonderei quel muro li trascinerei fuori e li frusterei come si deve E il muro veniva sgretolato e sfondato. Ne ero contento. Mi rimettevo a guardare fino a che i due prigionieri erano la mamma in persona col babbo, che si tenevano le mani nella debole luce dall’alto, e noi giù, smarriti da qualche parte, più in basso perfino di loro e senza nemmeno un raggio di luce. Poi s’intromise il caprifoglio. Non appena spengevo la luce e mi sforzavo di addormentarmi, cominciava a penetrare nella stanza ad ondate salendo salendo finché mi si gonfiava il respiro nella ricerca affannosa di aria finché ero costretto ad alzarmi e farmi strada a tentoni come quando ero bambino le mani possono vedere brancolando la mente dà forma alle cose invisibili porta Porta adesso le mani non vedono nulla Potevo vedere la benzina col naso, la sottoveste sul tavolo, la porta. Il corridoio era ancora vuoto dei passi di tutte le generazioni infelici alla ricerca di acqua, eppure gli occhi sebbene incapaci a vedere si attaccavano come coi denti non increduli ma dubbiosi perfino della mancanza di dolore stinco caviglia ginocchio lungo la fuga invisibile della rampa di scale dove s’inciampa nel buio pieno di sonno la mamma il babbo Caddy Jason Maury porta non ho paura soltanto la mamma il babbo Caddy Jason Maury che dormono lontani così lontani dormirò dormirò di un sonno profondo quando porta Porta porta Anche qui tutto era vuoto, le condutture, la porcellana, le pareti verniciate tranquille, il trono della contemplazione. Avevo dimenticato il bicchiere, ma avrei potuto le mani possono vedere le dita che si raffreddano a contatto con la cannella dove come Mosè con la bacchetta cozza il bicchiere tentativo di non farlo tintinnare, tintinna contro la fresca snella gola metallica il bicchiere si riempie trabocca sì raffredda raffredda le dita sonno che scorre lasciando un gusto di umido sonno nel silenzio della gola Rifeci all’indietro il corridoio, risvegliando tutti i passi perduti in uno scalpicciare tumultuoso nel silenzio, nell’odore della benzina e l’orologio, sul tavolo oscuro, che ripeteva la sua pazza menzogna. Poi la tenda che si gonfiava sul buio verso il mio viso, che mi lasciava quel respiro sul viso. Un altro quarto d’ora. Poi non sarò più. Parole di pace. Parole piene di pace più di tutte le altre. Non fui. Sum. Fui. Non Sum. Ho udito suonare campane una volta, in qualche luogo. Mississippi o Massachusetts. Sono stato. Non sono. Massachusetts o Mississippi. Shreve ha in baule una bottiglia. Non vuoi nemmeno stapparla Il signor Jason Richmond Compson e consorte annunziano il Tre volte. Tre giorni. Non vuoi nemmeno stapparla matrimonio della loro figlia Candace l’alcool t’insegna a confondere il fine coi mezzi. Sono. Bevo. Non fui. Vendiamo il prato di Benjy così Quentin potrà andare a Harvard ed io potrò permettere alle mie ossa di urtarsi fra loro in eterno. Morirò fra. È un anno fa che Caddy mi disse. Shreve ha in baule una bottiglia. Nossignore, non ho bisogno di quella di Shreve, ho venduto il prato di Benjy e così posso morire a Harvard Caddy diceva nelle grotte e nelle caverne del mare dolcemente cullato dall’onda fluttuante perché Harvard è una parola che suona così bene all’orecchio e quaranta ettari sono spesi bene per un suono così gentile. Un bel suono davvero, baratteremo il prato di Benjy con questo bel suono. Gli durerà a lungo, perché non può udirlo, a meno che non lo fiuti non appena apparve sulla soglia egli cominciò a piangere Avevo sempre creduto che fosse uno di quei bellimbusti del paese di cui il babbo la canzonava sempre, finché. Non ci avevo fatto più caso che a un commesso viaggiatore qualsiasi, avevo appena notato quelle sue camicie, credevo che fossero da militare, quando a un tratto mi accorsi che non mi considerava affatto come un’eventuale minaccia per lui, ma mi guardava pensando a lei, mi guardava attraverso di lei come attraverso un pezzo colorato di vetro perché ti vuoi immischiare nei miei affari privati non capisci che non servirà a nulla credevo che certe cose tu le lasciassi fare alla mamma e a Jason

è stata la mamma a mandare Jason a spiarti io non l’avrei fatto.

Le donne non fanno altro che mettere in pratica il codice d’onore degli altri è perché vuol bene a Caddy scendeva giù anche quando si sentiva male perché il babbo non prendesse in giro lo zio Maury davanti a Jason il babbo diceva che lo zio Maury aveva un’anima troppo poco classica per cimentarsi col piccolo fanciullo bendato in persona avrebbe scelto piuttosto Jason perché Jason era tipo da smarronarla nell’identico modo dello zio Maury ma senza pericolo di lividi all’occhio il bambino dei Patterson era anche più piccolo di Jason e vendevano aquiloni a cinque cents l’uno fino a che si trovarono in imbarazzi finanziari e allora Jason prese un altro socio ancora più piccolo a ogni buon conto piccolo quanto bastava perché T. P. aveva detto che Jason era sempre rimasto cassiere ma il babbo diceva perché zio Maury avrebbe dovuto lavorare dato che lui padre poteva mantenere cinque o sei negri che non facevano altro che starsene a sedere coi piedi nel forno naturalmente era in grado di offrire ora e in seguito vitto e alloggio a zio Maury e prestare un po’ di quattrini a quel poveretto che difendeva con tanto nobile ardore la fede paterna nella derivazione celeste della sua stirpe e allora la mamma si metteva a piangere e diceva che il babbo era convinto di appartenere a una famiglia migliore della sua e prendeva in giro lo zio Maury per insegnarlo anche a noi non si rendeva conto che il babbo parlava così per farci capire che tutti gli uomini sono soltanto un mucchio di fantocci ripieni di segatura raccolta dall’immondezzaio dov’erano stati gettati tutti i fantocci vissuti avanti e che la segatura sortiva da quello sbrano in quei fianchi di quel fantoccio che non era morto per me. Un tempo immaginavo la morte come un uomo sul tipo del nonno un suo amico una specie d’amico intimo e particolare così come eravamo soliti a considerare la scrivania del nonno proibito toccare proibito perfino parlare a voce alta nella stanza dov’era mi figuravo che loro due stessero insieme per tutto il tempo da qualche parte in attesa che il vecchio colonnello Sartoris li raggiungesse per sedersi con loro in attesa su un’alta collina oltre ai cedri il colonnello Sartoris si trovava su una collina più alta a contemplare qualcosa e quelli aspettavano che avesse finito di contemplare e scendesse il nonno indossava la sua uniforme e potevamo udire oltre ai cedri il sussurro delle voci loro non stavano zitti un minuto e il nonno aveva sempre ragione

Cominciarono a rintoccare i tre quarti. La prima nota scoccò, placida e misurata, perentoria e serena, facendo posto alla seguente nel silenzio tranquillo; così fosse per gli uomini, se potessero darsi il cambio fra loro per sempre a quel modo, levarsi un attimo in alto, come una fiamma vorticosa, per poi estinguersi decentemente nelle fredde tenebre eterne, invece di starsene lì disteso a sforzarsi di non pensare all’amaca finché tutti i cedri non diffondessero quel profumo funebre e acuto che Benjy non sopportava. A ricordare soltanto quel ciuffo d’alberi mi pareva di udire il sussurro delle sorgenti nascoste sentire il palpito del sangue caldo sotto la pelle nuda fremente scorgere attraverso le rosse palpebre chiuse i suini disciolti che si precipitavano accoppiati nel mare e lui dobbiamo tenerci svegli un attimo solo per veder compiersi il male non mica per l’eternità ed io ma per chi abbia coraggio non dev’esserci bisogno nemmeno di un attimo e lui credi che questo si chiami coraggio ed io sicuro e lui ogni uomo è l’arbitro delle proprie virtù che tu creda questo coraggio o no ha più importanza dell’atto di per se stesso più importanza di qualsiasi altro atto altrimenti non saresti sincero ed io tu non credi che parli sul serio e lui credo che tu parli troppo sul serio perché abbia motivo di allarmarmi non saresti ricorso all’espediente di dirmi che hai commesso un incesto altrimenti ed io non ho mentito non ho mentito e lui tu volevi sublimare in un gesto terribile un po’ di follia naturale negli uomini per poi esorcizzarla con la realtà ed io era per isolarla da questo mondo vociante per sottrarci alle necessità della vita e allora ogni sua condanna sarebbe stata come se non fosse e lui hai tentato di farglielo fare ed io avevo paura di farlo avevo paura che non acconsentisse ed allora sarebbe stato inutile ma dicendoti che l’avevamo fatto sarebbe stato davvero così e gli altri l’avrebbero creduto e il mondo sarebbe dileguato vociando e lui eccone un’altra nuova neppure adesso tu menti ma sei ancora cieco dinanzi a quello che c’è dentro a te stesso quella parte di verità generale quella sequenza di avvenimenti naturali e delle loro cause che oscura la fronte di tutti gli uomini perfino dei Benjy tu non pensi a un’idea definita tu contempli un’apoteosi in cui uno stato d’animo temporaneo possa perfezionarsi al di sopra dell’esistenza carnale affinché consapevole in pari tempo di se stesso e della carne sia in grado di conservarsi di modo che in certo senso tu non saresti morto neppure ed io momentaneamente e lui tu non puoi sopportare neanche il pensiero che un giorno non soffrirai più così eccoci adesso alla conclusione pare che tu veda in tutto questo soltanto una di quelle esperienze che per così dire fanno diventar bianchi i capelli nello spazio di una notte senza tuttavia mutare affatto il tuo aspetto in tali condizioni non lo farai sarebbe un rischio e quel che c’è di bizzarro è che l’uomo concepito incidentalmente ed ogni respiro del quale non è altro che una nuova gettata di dadi truccati a suo danno si rifiuta di affrontare il colpo finale sebbene già sappia in anticipo di doverlo subire senza aver prima tentato numerosi espedienti che vanno dalla violenza a cavilli più futili espedienti che non ingannerebbero un bambino finché un giorno disgustato di lottare gioca tutto alla cieca su un’unica carta coperta nessuno giunge mai a farlo sotto l’impulso iniziale di disperazione o rimorso o dolore lo fa solo quando ha capito che neppure la disperazione o il rimorso o il dolore hanno grande importanza per il tenebroso giocatore di dadi ed io momentaneamente e lui è difficile a credersi che un amore o un dolore siano soltanto delle obbligazioni acquisite senza nessun ulteriore disegno che scadono quando capita o meno e vengono ritirate senza preavviso per convertirle con quella nuova emissione che agli dèi salta in mente in quell’attimo di distribuire no tu non puoi farlo finché non ti sarai reso conto che forse non valeva la pena di disperarsi neppure per lei ed io questo non sarà mai nessuno sa quel che so io e lui credo che ti converrebbe di tornartene subito a Cambridge dovresti trascorrere un mese nel Maine se fai attenzione alla spesa puoi anche permetterti il lusso e poi quella di limare sui soldi è una cura che ha cicatrizzato più piaghe di quante ne abbia sanate Gesù ed io mettiamo che mi renda conto di quello che dici quando fossi laggiù da una settimana o da un mese e lui allora ricorderai che il sogno di tua madre è stato sempre quello che tu andassi a Harvard sempre da quando sei nato e nessun Compson ha mai mancato di parola a una signora ed io momentaneamente sarà meglio per me per tutti noialtri e lui ogni uomo è l’arbitro delle proprie virtù ma nessuno deve mai insegnare all’altro quel che deve fare ed io momentaneamente e lui ecco la parola più triste di tutte non ce n’è un’altra più triste non c’è disperazione nel mondo fino a che il tempo non è neanche tempo fino a che il tempo fu

Suonò l’ultimo rintocco. Le vibrazioni finalmente si spensero e le tenebre tornarono immobili. Entrai in salotto e accesi la luce. Infilai la sottoveste. L’odore della benzina adesso era lieve, percettibile appena, e nello specchio non si notava la macchia. Per lo meno non si notava come il mio livido all’occhio. Infilai la giacca. La lettera di Shreve scricchiolava nella tasca interna, la trassi fuori, esaminai l’indirizzo e la rimisi a suo posto. Quindi portai l’orologio nella stanza di Shreve e lo chiusi nella sua cassetta; rientrai in camera mia, presi un fazzoletto pulito, mi avviai alla porta e toccai l’interruttore. Mi ricordai allora di non essermi lavato i denti e così dovetti riaprire la valigia ancora una volta. Trovai lo spazzolino, presi un po’ di pasta di Shreve, uscii e mi lavai i denti. Strizzai lo spazzolino per asciugarlo il più possibile, lo riposi in valigia e la chiusi, poi mi avviai nuovamente alla porta. Prima di girare l’interruttore mi guardai attorno per vedere se c’era qualcos’altro e mi accorsi di aver dimenticato il cappello. Dovevo passare dalla posta e avrei certo incontrato qualcuno. Avrebbero creduto che fossi un tipico studente di Harvard che voleva posare ad anziano. Avevo dimenticato di spazzolare anche quello, ma Shreve aveva una spazzola e così non dovetti più riaprire il bagaglio.