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IL FUNERALE DI GAMBADILEGNO

Fu un attimo assolutamente straordinario, e con ogni probabilità tutto durò davvero solo un attimo, come pare accada in quei sogni che ci sembrano invece lunghissimi.

A distanza di anni Maigret avrebbe potuto ancora indicare il luogo preciso in cui era successo, il punto del marciapiede dove stavano i suoi piedi, la pietra su cui si profilava la sua ombra. Avrebbe potuto non solo ricostruire la scena in ogni minimo dettaglio, ma persino ritrovare l’odore diffuso, le vibrazioni di quell’aria che aveva il profumo dei ricordi d’infanzia.

Era la prima volta, quell’anno, che usciva senza cappotto, la prima volta che si trovava in campagna alle dieci del mattino. Anche la grossa pipa sapeva di primavera.

Faceva ancora fresco. Maigret camminava a passi pesanti, le mani nelle tasche dei pantaloni. Félicie gli camminava accanto, leggermente più avanti, costretta a fare due passi rapidi per ognuno dei suoi.

Erano arrivati davanti a un nuovo negozio con i muri di mattoni rosa. In vetrina c’erano cesti di verdure, due o tre formaggi, dei sanguinacci su un piatto di ceramica.

Félicie corse avanti, tese il braccio, spinse la porta a vetri. Fu allora che scattò la suoneria e fu allora che il fenomeno si verificò.

Non era una suoneria qualunque. Dietro la porta erano appesi dei tubi di metallo leggero, che urtandosi producevano, come un carillon, una musica celestiale.

Una volta, quando Maigret era ragazzo, nella salumeria del suo paese, che era stata appena rimessa a nuovo, c’era un carillon come quello.

Il tempo parve fermarsi, l’attimo presente rimase sospeso. E Maigret si sentì davvero fuori dalla scena che si stava svolgendo, la osservò come se non fosse più il massiccio commissario che arrancava dietro a Félicie.

Era di nuovo il bambino di allora che, nascosto da qualche parte, se ne stava a guardare senza essere visto, con una gran voglia di scoppiare a ridere.

Suvvia! Siamo seri! Che ci faceva quel signore dall’aria severa, imponente, in uno scenario da paese dei balocchi, dietro quella Félicie che con il suo ridicolo cappello rosso sembrava uscita dalle pagine di un libro illustrato?

Conduceva un’indagine? Si stava occupando di un omicidio? Cercava il colpevole?

E tutto questo mentre gli uccellini cantavano, mentre l’erba era di un verde innocente e i mattoni rosa confetto, e dappertutto c’erano fiori appena sbocciati e persino i porri nella vetrina sembravano mazzi di fiori?

Se ne sarebbe ricordato in seguito, di quell’attimo, e non sempre con piacere. Per anni, in certe ridenti mattine di primavera, i colleghi del Quai des Orfevres avrebbero conservato l’abitudine di rivolgersi a lui con un misto di serietà e di ironia:

«Senti, Maigret…».

«Che c’è?…».

«C’è Félicie!».

E allora lui la rivedeva, sottile, con i suoi vestiti chiassosi, i grandi occhi color nontiscordardimé, il naso impertinente, e il cappello poi, quel terrificante cappellino rosso piazzato in cima alla testa con una lunga penna verde cangiante infilzata come una freccia.

«C’è Félicie!».

Il commissario sbuffava. Lo sapevano tutti che Maigret si metteva a sbuffare come un orso quando qualcuno gli ricordava Félicie, quella ragazza gli aveva dato più filo da torcere di tutti i «duri» che aveva spedito in galera.

Quel mattino di maggio Félicie era lì davvero, davanti alla porta del negozio. Sopra le pubblicità di un amido e di un lucidante per metalli, c’era una scritta in caratteri gialli: «Mélanie Chochoi, Emporio». Félicie se ne stava lì, in attesa che il commissario riemergesse dal suo sogno.

Finalmente Maigret si mosse, rientrò nella vita reale e riprese le fila dell’indagine sull’omicidio di Jules Lapie, detto Gambadilegno.

Il viso affilato, ironica sino all’aggressività, Félicie aspettava le sue domande con lo stesso atteggiamento del mattino. Dietro il banco, una donna piccola di statura e dall’aria pettegola, Mélanie Chochoi, contemplava con le mani incrociate sul grosso ventre la strana coppia formata dal commissario di polizia e dalla domestica di Gambadilegno.

Maigret, fumando a lente boccate, guardava gli scaffali scuri pieni di barattoli di conserve e, attraverso la vetrina, la strada ancora in costruzione, dove gli alberi appena piantati erano poco più che fragili cuccioli d’albero. Alla fine, estraendo l’orologio dalla tasca del gilet, sospirò:

«Mi ha detto che è arrivata qui alle dieci e un quarto, giusto? Come mai si ricorda così bene l’ora?».

Un sorrisetto sprezzante le assottigliò le labbra.

«Venga a vedere» disse.

Il commissario si avvicinò e lei gli indicò il retrobottega che serviva da cucina alla signora Chochoi. Nella penombra si distingueva una poltrona di vimini dove un gatto dal pelo fulvo stava acciambellato su un cuscino rosso. E proprio sopra la poltrona, su una mensola, una sveglia segnava le dieci e diciassette minuti.

Félicie aveva ragione. Aveva sempre ragione. E intanto la signora Chochoi si chiedeva cosa potessero volere da lei quei due.

«Cosa ha comprato?».

«Mezzo chilo di burro… Mi dia mezzo chilo di burro, signora Chochoi… Il commissario vuole che faccia le stesse cose dell’altro ieri, per filo e per segno.

Vediamo, era quello salato, no?… Aspetti… Mi dia anche un sacchetto di pepe, una scatola di pomodori e due costolette…».

Era uno strano mondo quello in cui Maigret viveva quella mattina, tanto che doveva fare uno sforzo per convincersi di non essere una specie di gigante maldestro in mezzo a delle casette giocattolo.

Qualche chilometro fuori da Parigi, si era allontanato dalla riva della Senna; a Poissy, era salito sulla collina e, all’improvviso, nella realtà dei campi e dei frutteti, aveva scoperto un mondo a parte, annunciato da un cartello sul bordo di una strada appena asfaltata: «Lottizzazione di Jeanneville».

Di sicuro fino a qualche anno prima anche lì c’erano campi, prati, boschi; poi era arrivato un uomo d’affari, con una moglie o un’amante che doveva chiamarsi Jeanne: di qui il nome Jeanneville dato a quel mondo nascente.

Avevano tracciato strade, viali bordati da fragili alberelli, con l’esile tronco circondato di paglia per proteggerli dal freddo.

Qua e là avevano costruito ville e villette che non formavano un paese né una città, ma un mondo a parte, incompleto, con larghi spazi vuoti fra le costruzioni, e palizzate, terreni incolti, lampioni a gas beffardamente inutili in strade che erano soltanto un nome su un cartello blu.

Sogni d’oro… Dolce riposo… Villa serena… ogni casa aveva il proprio nome circondato da svolazzi. Laggiù c’era Poissy, il nastro argenteo della Senna dove scivolavano chiatte vere e i binari su cui sferragliavano treni veri. E in lontananza, sull’altopiano, si vedevano le fattorie e il campanile di Orgeval.

Qui nulla sembrava reale, se non l’anziana bottegaia, Mélanie Chochoi, che i costruttori avevano scovato in qualche borgo vicino e a cui avevano offerto un bel negozio nuovo, in modo che in quel mondo appena sorto non mancassero le attività commerciali.

«Basta così, figliola?».

«Mi faccia pensare… Cos’ho comprato d’altro lunedì?…».

«Delle forcine…».

Si vendeva di tutto da Mélanie Chochoi, dagli spazzolini alla cipria, dal cherosene alle cartoline.

«Mi sembra che ci sia tutto, no?».

Maigret aveva controllato personalmente: dal negozio non si poteva vedere il villino di Gambadilegno, né il viottolo che girava intorno al giardino.

«Il latte!» si ricordò Félicie. «Mi stavo dimenticando il latte!».

E spiegò al commissario con la solita aria altezzosa:

«Mi ha fatto così tante domande che ho dimenticato di prendere il bricco del latte…

Però lunedì ce l’avevo… L’ho lasciato in cucina… Un bricco azzurro a pallini bianchi, che troverà vicino al fornello… Giusto, signora Chochoi?».

E forniva ogni particolare con grande sussiego, quasi fosse la moglie di Cesare che non può essere neppure sfiorata dal sospetto.

Era lei stessa a insistere perché nulla fosse trascurato.

«Che cosa le ho detto lunedì, signora Chochoi?».

«Mi sembra… Sì, mi ha detto che il mio Zouzou ha i vermi perché continua a mangiarsi il pelo».

Zouzou era senza dubbio il gatto che sonnecchiava in poltrona sul cuscino rosso.

«E poi, aspetti… Ha preso il suo “Ciné-Journal” e un romanzo da venticinque soldi…».

Sul banco, in un angolo, si notavano le copertine sgargianti dei romanzi popolari, ma Félicie non li degnò di uno sguardo e alzò le spalle.

«Quanto le devo? Si sbrighi, perché il signor commissario vuole che faccia tutto come lunedì, e quel giorno non mi sono fermata così tanto…».

Maigret intervenne:

«Mi dica, signora Chochoi… Visto che stiamo parlando di lunedì mattina… Ha sentito per caso passare un’auto mentre serviva la signorina?…».

La negoziante fissò lo scenario inondato di sole al di là della vetrina.

«Non saprei… Mi faccia pensare… Non è che ne arrivano tante da queste parti… Si sentono soltanto quelle che passano sulla statale… Che giorno era?… Ricordo una piccola auto rossa che è passata dietro la casa dei Sébile… Ma dire che giorno era…».

Ad ogni buon conto Maigret annotò sul suo taccuino: «Auto rossa, Sébile».

Si ritrovò in strada con Félicie che camminava ancheggiando, il cappotto gettato sulle spalle come un mantello, con le maniche svolazzanti.

«Da questa parte… Per tornare a casa prendo sempre la scorciatoia».

Un viottolo fra gli orti.

«Ha incontrato qualcuno?».

«Aspetti e vedrà…».

E Maigret vide. Aveva ragione lei. Proprio mentre sbucavano sul viale, passò in bicicletta il postino, un po’ affaticato dopo la salita. Si voltò verso di loro gridando:

«Niente posta per lei, signorina Félicie!».

Félicie guardò Maigret.

«Mi ha visto qui lunedì alla stessa ora, come ogni mattina o quasi».

Girarono intorno a un orribile villino dall’intonaco celeste, circondato da un giardinetto pieno di rigidi animali di ceramica, e costeggiarono una siepe; poi Félicie spinse il cancelletto, sfiorando con il cappotto svolazzante un filare di ribes.

«Eccoci… Questo è il giardino… Da qui si può vedere il pergolato…».

Erano usciti dal villino alle dieci meno qualche minuto, passando dall’altra porta, quella che dava sul viale. Per andare e tornare dall’emporio avevano percorso un cerchio quasi perfetto. Costeggiarono bordure di garofani prossimi alla fioritura e aiuole di insalata di un verde tenero.

«Lui avrebbe dovuto essere qui…» disse Félicie indicando una corda ben tesa e un piantatoio conficcato nel terreno. «Aveva cominciato a trapiantare i pomodori. Il filare è rimasto a metà… Quando ho visto che non c’era, ho pensato che fosse andato a bere un bicchiere di rosé…».

«Ne beveva molto?».

«Quando aveva sete… Troverà il suo bicchiere capovolto sulla botte, in cantina…».

Il giardino di un pensionato modesto e meticoloso, la casa che migliaia di poveracci sognano di costruirsi per trascorrervi gli ultimi anni. Lasciarono il giardino assolato e si ritrovarono nell’ombra azzurrognola del cortile. A destra c’era un pergolato, con un tavolo e delle sedie. Sul tavolo, una caraffa di liquore e un bicchierino con il fondo spesso.

«Qui ci sono una caraffa e un bicchiere. Ma stamattina lei mi ha detto che il suo padrone non beveva mai liquori quando era solo, soprattutto quello della caraffa».

Lei lo guarda con aria di sfida. Sembra sempre che voglia offrirgli, non senza ostentazione, l’azzurro limpido delle pupille perché lui possa leggervi la sua assoluta innocenza.

«Non era il mio padrone» risponde alla fine.

«Lo so, me l’ha già detto…».

Buon Dio! Che carattere indisponente! E cos’ha detto con quella sua vocetta acuta che tanto gli da sui nervi? Ah, sì. Ecco le sue parole:

«Non ho il diritto di rivelare i segreti altrui. Forse agli occhi di qualcuno io ero solo la domestica. Ma per lui ero qualcosa di più, e un giorno si saprà».

«Che cosa?».

«Niente!».

«Vuole dirmi che era l’amante di Gambadilegno?».

«Ma per chi mi ha preso?».

Maigret ha buttato là:

«Sua figlia, allora?».

«È inutile che continui a farmi domande. Un giorno, forse…».

Félicie è fatta così! Rigida come un’asse da stiro, acida, lunatica, il viso dai tratti affilati impiastricciato di cipria e rossetto, una domestica qualsiasi che si da arie da principessa in una balera di periferia. Poi, all’improvviso, una fissità inquietante nello sguardo, o, sulle labbra, un vago sorriso, carico di sprezzante ironia.

«Se anche ha bevuto da solo, la cosa non mi riguarda…».

Ma no, il vecchio Jules Lapie, detto Gambadilegno, non ha bevuto da solo, Maigret ne è convinto. Un uomo che sta lavorando in giardino, con il cappello di paglia e gli zoccoli, non lascia così all’improvviso le sue piante di pomodori per andare a prendere nel buffet una caraffa di liquore invecchiato e bersi un bicchierino sotto il pergolato.

Su quel tavolo da giardino dipinto di verde c’è stato un secondo bicchiere. Poi qualcuno l’ha tolto. Forse Félicie.

«Cos’ha fatto non vedendo Lapie?».

«Niente. Sono entrata in cucina, ho acceso il fornello per scaldare il latte e ho pompato l’acqua per lavare la verdura».

«E poi?».

«Sono salita sulla sedia, quella vecchia, per cambiare la carta moschicida».

«Portava ancora il cappello? Lei va sempre a far la spesa con il cappello, vero?».

«Non sono una sguattera, io!».

«Quando se lo è tolto?».

«Dopo che ho tirato via il latte dal fuoco. Sono andata di sopra…».

Tutto è nuovo e pulito nella casa che il vecchio ha battezzato Capo Horn. La scala odora di abete verniciato. I gradini scricchiolano.

«Salga… la seguo».

Félicie apre la porta della sua stanza. Un letto rivestito di cretonne a fiori funge da divano e le pareti sono tappezzate da fotografie di attori.

«Ecco… Mi stavo togliendo il cappello e ho pensato: “To’! Ho dimenticato di aprire la finestra nella stanza del signor Jules…”. Ho attraversato il pianerottolo… Ho aperto la porta e ho gridato…».

Tirando una boccata dopo l’altra dalla pipa che ha ricaricato in giardino, Maigret osserva sul parquet lucido di cera il profilo tracciato con il gesso del corpo di Gambadilegno, così come è stato scoperto la mattina di lunedì.

«E la pistola?».

«Non c’era nessuna pistola. Lei lo sa bene, dal momento che ha letto il rapporto della polizia».

Sopra il caminetto, il modellino di un trealberi e, alle pareti, quadri con riproduzioni di velieri. Sembra la stanza di un vecchio marinaio a riposo, ma il poliziotto che ha svolto le prime indagini ha già messo al corrente il commissario della curiosa avventura di Gambadilegno.

Jules Lapie non era un marinaio, non lo è mai stato; faceva il contabile presso una ditta di Fécamp che vende forniture navali, vele, cordami, pulegge, e anche generi alimentari per lunghi viaggi in mare.

Uno scapolo tozzo, preciso, quasi maniacale, un tipo incolore, fratello di un carpentiere di marina.

Un mattino Jules Lapie, che allora aveva una quarantina d’anni, sale a bordo del Sainte-Thérèse, un trealberi che salpa quel giorno stesso per il Cile, dove va a caricare fosfati. Lapie ha un incarico molto modesto: assicurarsi che tutta la merce sia stata consegnata e riscuotere il pagamento dal capitano.

Che succede quel giorno? Certo, non è la prima volta che i marinai di Fécamp si prendono gioco di quel contabile pignolo, che non nasconde il suo disagio ogni volta che per lavoro deve salire a bordo di una nave. Secondo la tradizione, si brinda. Lo fanno bere. E Dio solo sa quanto devono averlo fatto bere per ubriacarlo a quel modo!

Fatto sta che quando arriva l’alta marea, e il Sainte-Thérèse scivola tra i moli del porto verso il mare aperto, Jules Lapie, ubriaco fradicio, russa in un angolo della stiva, mentre tutti lo credono a terra - o almeno così tutti sosterranno!

Le stive sono chiuse, e passano due giorni prima che il contabile venga scoperto. Il capitano si rifiuta di invertire la rotta, così come di modificarla, e Lapie, che all’epoca possiede ancora tutte e due le gambe, si ritrova in viaggio verso Capo Horn.

Quell’avventura gli costerà una gamba, il giorno in cui una tempesta lo scaraventerà giù da un boccaporto.

Ed ecco che a distanza di molti anni rimane vittima di un colpo di pistola, un lunedì di primavera, pochi minuti dopo aver lasciato le sue piante di pomodori, mentre Félicie è a far la spesa nel nuovo negozio di Mélanie Chochoi.

«Scendiamo…» mormora Maigret.

Il villino è così tranquillo, così grazioso, lindo e profumato come una casa-giocattolo! La sala da pranzo, sulla destra, è stata adibita a camera mortuaria. Il commissario si limita a socchiuderne la porta; nella penombra le persiane lasciano filtrare sottili strisce di luce. La bara è appoggiata sul tavolo ricoperto da un lenzuolo, e accanto c’è una ciotola piena di acqua benedetta in cui è immerso un ramoscello di ulivo.

Félicie lo aspetta sulla porta della cucina.

«Insomma, lei non sa niente, non ha visto niente, non ha la minima idea di chi il suo padrone… sì, insomma, Jules Lapie abbia ricevuto mentre lei non c’era…».

Félicie sostiene senza battere ciglio il suo sguardo e non risponde.

«Ed è sicura che quando è rientrata c’era un solo bicchiere sul tavolo del giardino?».

«Io ne ho visto uno solo… Ma se lei ne vede due…».

«Lapie riceveva spesso visite?».

Maigret si siede vicino al fornello a gas. Berrebbe volentieri qualcosa, magari un bicchiere di quel rosé cui ha fatto cenno Félicie e di cui ha visto una botte nella penombra fresca della cantina. Il sole è ora più alto nel cielo e la foschia mattutina si dissolve a poco a poco.

«Non gli piacevano le visite…».

Uno strano tipo, e quel viaggio intorno a Capo Horn gli avrebbe completamente sconvolto l’esistenza! Tornato a Fécamp, dove nonostante la gamba di legno la gente non può fare a meno di prenderlo in giro per la sua avventura, vive più solo che mai e intraprende una lunga battaglia legale contro gli armatori del Sainte-Thérèse. Alla fine la sua tenacia avrà la meglio. Sostiene che è colpa della compagnia, che è stato trattenuto a bordo contro la sua volontà e che quindi gli armatori sono responsabili dell’incidente. Chiede un elevato risarcimento per la gamba perduta e i giudici gli danno ragione, riconoscendogli il diritto a una cospicua pensione.

Gli abitanti di Fécamp si sono divertiti a lungo alle sue spalle. Lapie scappa, lontano da loro e dal mare che odia, ed è tra i primi a lasciarsi sedurre dagli allettanti opuscoli pubblicitari dei promotori di Jeanneville.

Come domestica, si prende in casa una ragazza di Fécamp che conosce sin da bambina.

«Da quanti anni vive con lui?».

«Sette…».

«Lei ha ventiquattro anni… Quindi ne aveva diciassette quando…».

Insegue i suoi pensieri, poi chiede all’improvviso:

«Ha un fidanzato?».

Lei lo guarda e non risponde.

«Le ho chiesto se ha un fidanzato».

«La mia vita privata non la riguarda».

«Lo incontra qui?».

«Non sono tenuta a risponderle».

Che faccia da schiaffi! In certi momenti Maigret sente forte la tentazione di mollargliene uno, oppure di afferrarla per le spalle e scuoterla.

«Non importa! Lo scoprirò lo stesso».

«Lei non scoprirà un bel niente!».

«Ah no?».

Si blocca di colpo. Che stupidaggine! Non si metterà mica a litigare con una ragazzina?

«È sicura di non avere nulla da dirmi? Rifletta bene, è ancora in tempo».

«Non c’è niente su cui riflettere».

«Non mi nasconde niente?».

«E come potrei? Lei è così furbo!».

«Va bene! Staremo a vedere».

«Non c’è niente da vedere».

«Cosa conta di fare quando arriverà la famiglia e il signor Lapie sarà sepolto?».

«Non lo so».

«Pensa di rimanere qui?».

«Può darsi».

«Spera di ereditare?».

«È possibile».

Maigret non riesce proprio a mantenere la calma.

«In ogni modo, ragazza mia, non dimentichi una cosa. Sinché durerà l’inchiesta, le proibisco di allontanarsi senza avvertire la polizia».

«Non posso allontanarmi da casa?».

«No!».

«E se ho voglia di andare da qualche parte?».

«Deve chiedere a me l’autorizzazione».

«Pensa che l’abbia ucciso io?».

«Penso quel che mi pare e comunque non la riguarda».

Maigret ne ha abbastanza. È furibondo. Ce l’ha con se stesso: è mai possibile che una Félicie qualunque gli faccia saltare i nervi in questo modo? Ventiquattro anni?

Ma via! È una ragazzina di dodici o tredici anni che gioca a chissà quale gioco e che si prende troppo sul serio.

«La saluto».

«Arrivederci».

«Ha qualcosa da mangiare in casa?».

«Non si preoccupi per me. Non morirò certo di fame».

Ne è certo. Non fa fatica a immaginarsela, una volta che sarà andato via, seduta al tavolo di cucina, mentre mangia lentamente leggendo uno di quei romanzetti che compra dalla signora Chochoi.

Maigret è furioso. È stato preso in giro davanti a tutti, e quel che è peggio da quella vipera di Félicie.

È giovedì. La famiglia Lapie è arrivata: il fratello, Ernest Lapie, il carpentiere di Fécamp, un uomo rude con i capelli a spazzola e il viso segnato dal vaiolo, sua moglie, una donna grassa e baffuta, e due bambini, che la madre spinge davanti a sé come si fa con le oche nei campi. C’è poi il nipote venuto da Parigi, Jacques Pétillon, un ragazzo di diciannove anni nervoso e malaticcio, guardato con diffidenza dal gruppo dei Lapie.

Non c’è ancora un cimitero a Jeanneville, e il corteo funebre si incammina verso Orgeval, che è il comune cui fa capo la nuova lottizzazione. Il velo di crespo di Félicie ha fatto colpo. Dove l’avrà scovato? Come Maigret scoprirà in seguito, gliel’ha prestato Mélanie Chochoi.

Félicie non aspetta che qualcuno le indichi dove mettersi. Prende posto in prima fila, e cammina davanti a tutta la famiglia, rigida, vero monumento al dolore. Di tanto in tanto si porta agli occhi un fazzoletto bordato di nero, anch’esso probabilmente preso in prestito da Mélanie e che lascia una scia di acqua di colonia a buon mercato.

Il brigadiere Lucas, che ha trascorso la notte a Jeanneville, segue il corteo funebre accanto a Maigret lungo un sentiero polveroso, mentre nel cielo limpido cantano le allodole.

«Quella Félicie sa qualcosa, ne sono certo. Crede di essere furba, ma prima o poi si tradirà…».

Lucas annuisce. Le porte della chiesetta rimangono aperte durante la funzione, e così, più che dell’incenso, si sente il profumo della primavera. Pochi passi ancora e si trovano accanto alla fossa.

Dopo la cerimonia la famiglia deve andare alla villa per occuparsi del testamento.

«Che bisogno aveva mio fratello di fare testamento?» esclama stupito Ernest Lapie. «Nella nostra famiglia non si usa».

«Félicie sostiene…».

«Félicie! Félicie! Sempre questa Félicie…».

Qualcuno non può fare a meno di alzare le spalle.

Ed eccola che si infila davanti a tutti e getta la prima palata di terra sulla bara.

Quindi si allontana in fretta piangendo, così in fretta che sembra debba cadere da un momento all’altro.

«Non perderla di vista, Lucas».

La ragazza cammina a lungo, percorre rapida le strade e le viuzze di Orgeval. A un certo punto Lucas, che è a non più di cinquanta metri da lei, si ritrova in una strada quasi deserta. Troppo tardi. Fa giusto in tempo a vedere un furgone che scompare dietro l’angolo.

Lì vicino c’è una locanda, e Lucas spinge la porta:

«Mi dica… Il furgone che è appena partito…».

«È quello di Louvet, il meccanico… Era qui un attimo fa, a bersi un bicchierino…».

«È salito qualcuno con lui?».

«Non lo so… Non credo… Non sono mica uscito…».

«Sa dove sta andando?».

«A Parigi, come tutti i giovedì».

Lucas si precipita all’ufficio postale, che fortunatamente è proprio lì di fronte.

«Pronto… Sì… Sono Lucas… Presto… Un furgone un po’ malandato… Un momento…».

«Per caso ricorda la targa del furgone di Louvet, il meccanico?…» chiede all’impiegata.

«No… Mi ricordo soltanto che finisce con 8».

«Pronto… Il numero di targa finisce con 8… A bordo c’è una ragazza vestita a lutto… Pronto… Non interrompa… No, non è il caso di arrestarla… Basta seguirla…

Tutto chiaro?… Il commissario telefonerà personalmente».

Poi raggiunge Maigret che avanza tutto solo lungo il sentiero che va da Orgeval a Jeanneville, un po’ distaccato rispetto ai congiunti del defunto.

«Se l’è filata…».

«Cosa?».

«Deve essere salita su un furgone che si stava mettendo in moto… Il tempo di girare l’angolo e… Ho telefonato al Quai des Orfèvres… Stanno avvisando le pattuglie… Le strade che portano a Parigi sono sorvegliate».

E così Félicie se l’è squagliata! In pieno giorno, sotto il naso e alla faccia di Maigret e del suo migliore ispettore! È scomparsa nonostante un lunghissimo velo di crespo nero che da solo basterebbe a farla riconoscere a un chilometro di distanza!

I familiari del defunto, che ogni tanto si voltano a guardare i due poliziotti, notano con stupore l’assenza di Félicie. E poiché è lei che ha le chiavi di casa, sono costretti a entrare dal giardino. Maigret apre le persiane della sala da pranzo, dove ristagna l’odore delle candele. Sul tavolo ci sono ancora il lenzuolo e il ramoscello di ulivo.

«Berrei volentieri qualcosa…» se ne esce Ernest Lapie. «Etienne!… Julie!… Fuori dalle aiuole! Ci deve essere del vino da qualche parte…».

«In cantina…» lo informa Maigret.

La moglie di Lapie va da Mélanie a comprare dei dolci per i bambini e, già che c’è, ne porta per tutti.

«Mio fratello non aveva nessun motivo di fare testamento, signor commissario… È

vero che era un tipo strano, che viveva come un orso e che non ci vedevamo tanto spesso… Ma da questo a…».

Maigret fruga nei cassetti di una piccola scrivania che sta in un angolo della stanza.

Tira fuori dei pacchetti di ricevute suddivise accuratamente, e trova un vecchio portafoglio grigio che contiene soltanto una busta gialla.

Da aprire dopo la mia morte

«Bene signori, ecco quello che cercavamo.

«“Io sottoscritto Jules Lapie, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, in presenza di Forrentin Ernest e di Lepape François, entrambi residenti a Jeanneville, comune di Orgeval…”».

Maigret legge con un tono di voce via via più solenne.

«Félicie aveva ragione!» conclude alla fine. «È lei che eredita la casa e tutto quello che c’è dentro».

I parenti restano sbigottiti. Il testamento contiene una breve frase che non dimenticheranno tanto facilmente:

«… Considerato l’atteggiamento che mio fratello e sua moglie hanno ritenuto opportuno assumere dopo l’incidente…».

«Gli ho semplicemente detto che era ridicolo smuovere cielo e terra solo perché…»

cerca di spiegare Ernest Lapie.

«… Considerato il modo di vivere di mio nipote Jacques Pétillon…».

Il giovane parigino sembra l’ultimo della classe il giorno in cui vengono distribuite le pagelle.

Ma che importa? È Félicie che eredita. E Félicie, chissà perché, è scomparsa.