Io mi fermai, scrutai il suo viso massiccio e dietro il suo tono confidenziale e i suoi modi affabili, colsi il suo disorientamento e la sua rabbia. Mi diede uno spintone, imponendomi di prendere parte a quella messinscena. Io incespicai e lui ne approfittò per aumentare la presa sul mio braccio. «Oggi è il sedici luglio, vecchio mio, quindi se non c'è niente che ti trattiene qui oltre il ventuno, presumo che te ne andrai dalla valle. Manca meno di una settimana. Abbastanza per tenere la bocca chiusa, immagino.»
«Senti, Orso Polare. Io non so di che cosa tu stia parlando, ma penso di sapere chi stai cercando.»
«Chi stavo cercando.»
Ci stavamo avvicinando al cumulo di coperte e mi accorsi che Lokken stava facendo allontanare Andy e Margaret Kastad. I quali, dal canto loro, non si fecero certo pregare, anzi, sembravano felici di potersene andare e si affrettarono nella direzione opposta a quella da dove venivamo noi.
«È un uomo che Andy ha trovato nella vecchia casa di Duane» disse Orso Polare chinandosi come se volesse raccogliere una moneta per terra.
«Un uomo?»
Senza parlare, Orso Polare sollevò il lembo di una coperta.
Lo guardai in faccia. Aveva parte dei capelli bruciati e una guancia insanguinata. Aveva ancora gli occhi aperti. Mi sentii mancare le ginocchia e fu solo a prezzo di uno sforzo sovrumano che riuscii a restare in piedi. Orso Polare mi appoggiò una mano in mezzo alle scapole e ancora una volta percepii la sua rabbia repressa. Lo sentii dire: «Questo è il tuo biglietto per andartene di qui, Miles» e mi voltai a guardare il suo viso infuocato. Poi abbassai di nuovo gli occhi sul corpo di Paul.
«Che cos'ha lì sulla tempia?» domandai. Mi accorsi che mi tremava la voce. «Sembra che sia stato colpito.»
«Una trave che gli è caduta addosso.»
«Ma se hanno cominciato a cadere solo dopo che sono arrivato.»
«Allora vorrà dire che è inciampato da qualche parte e che è caduto.»
Mi voltai dall'altra parte.
«Un'altra cosa, Miles» aggiunse Orso Polare. Si piegò di nuovo, sollevò un altro lembo della coperta, si raddrizzò e usò un piede per allontanare un'altra porzione del tessuto di lana grigio. «Guarda. Andy ha trovato anche un'altra cosa.» Mi prese per un braccio e mi fece girare come un pupazzo. Mi ci volle un po' per capire di che cosa si trattava, perché il metallo era stato annerito dal fuoco. Era una delle taniche di benzina che si trovavano nel garage accanto alla fattoria.
«Ecco come ha appiccato il fuoco» disse Orso Polare. «Chiaro come il sole.»
«Ma quella... quella tanica di benzina viene da casa mia.»
«Proprio così. E uscito di soppiatto, ne ha rubata una, poi è tornato qui, ha sparso la benzina tutt'intorno e ci ha gettato sopra un fiammifero. È come se avesse confessato. Evidentemente non ce la faceva più.»
«No, no, no!» protestai io. «Ascoltami, Orso Polare. Questa notte Paul è venuto a casa mia. Stava scappando perché aveva paura che quella banda di delinquenti gli mettesse le mani addosso e lo uccidesse. Non era colpevole e non aveva niente da confessare.»
«Piantala, Miles. Un minuto fa mi hai detto di non averlo visto e adesso è troppo tardi per mentire.»
«Non sto mentendo.»
«Ah, sì? Mentivi prima e non adesso?» La sua voce era incolore, ma io sentivo che non mi credeva.
«Ha lasciato la fattoria poco dopo le tre. Qualcuno deve averlo seguito fin da quando è sgattaiolato fuori da casa sua. E poi l'ha ucciso. Era quello di cui aveva paura. E per questo che scappava. Ho perfino sentito la macchina.» Stavo alzando la voce.
Orso Polare si allontanò di alcuni passi. Era chiaro che stava lottando con se stesso per non perdere la calma. «Dunque, Miles» disse alla fine, voltandosi di nuovo verso di me. «Cerchiamo di restare con i piedi per terra. A me sembra che il coroner non abbia che un paio di alternative in questo caso. Mi stai ascoltando? O lo giudica un suicidio oppure una morte accidentale sopraggiunta nel compimento di un atto criminoso. Dipenderà soltanto da quanto vorrà difendere la reputazione di Paul. Comunque, in entrambi i casi dovrà tener conto della prova della tanica.»
«E secondo te questi sono i due soli verdetti possibili?»
«Ah-ah.»
«E invece no, se potrò impedirlo.»
«Tu non riuscirai a ottenere un bel niente. Faresti meglio a finire la tua ricerca e a levare le tende.»
«Chi è il coroner qui?»
Orso Polare mi lanciò un'occhiata furente e trionfante al tempo stesso.
«Sono io.»
Non potei fare altro che fissarlo.
«In una contea così piccola non avrebbe senso tenere due dipendenti statali.»
Mi voltai a guardare il fuoco senza rispondere. Le fiamme erano molto più basse adesso. Sia il soffitto sia l'intelaiatura della porta erano crollati nel cuore ruggente della casa. La pelle del viso e delle mani mi bruciava e la stoffa dei pantaloni scottava. Mi resi conto che i Kastad non si tenevano solo lontani dal fuoco, ma anche da me.
«Paul era a casa mia» sbottai. Non potevo sopportarlo oltre. Mi voltai e avanzai verso di lui. «Paul era a casa mia e tu hai violentato mia cugina. Tu e Duane. E poi l'avete uccisa. Forse è stata una disgrazia, ma con questa sono due le morti che vorresti mettere a tacere. Ma questa volta non andrà così.»
La sua rabbia mi faceva più paura di quella di Duane, perché era più misurata. «Dave» disse guardando alle mie spalle.
«Non puoi incolpare di tutto un uomo innocente, solo perché la sua morte ti torna comoda» protestai. «Io so chi è stato.»
«Dave.» Lokken mi raggiunse da dietro. Udii i suoi passi sulla ghiaia.
«È stato quel ragazzo, Zack» dissi. «C'è anche un'altra possibilità, ma è troppo folle... per cui deve essere per forza Zack.» Sentii Lokken bisbigliare qualcosa sorpreso. «Aveva quelle bottiglie di Coca nel furgone e poi il pomello di una porta...»
«Lo sai chi è Zachary, Miles?» mi interruppe Orso Polare, la voce piatta come una pietra tombale.
«E gli piace anche giocare con il fuoco, non è vero?» ripresi io. «Me l'ha detto Duane.»
Dave Lokken mi afferrò per le braccia. «Tienilo stretto, Dave» disse Orso Polare. «Tienilo stretto per bene.» Poi mi si avvicinò e mi chiese: «Lo sai chi è Zachary?»
«Adesso penso di averlo capito» balbettai.
«È mio figlio» tuonò Orso Polare. «È il mio ragazzo. E adesso ti insegno io a tenere la bocca chiusa.»
Un secondo prima che mi colpisse vidi il suo viso accendersi d'ira ed ebbi appena il tempo di chiedermi se Duane mi avrebbe detto tutta la verità se non si fosse tagliato la mano. Poi la mia mente fu oscurata dal dolore. Orso Polare ordinò a Dave di lasciarmi andare e io ruzzolai sulla ghiaia. Non riuscivo a respirare. La sua voce tuonò ancora: «Lokken, porta il tuo culo lontano da qui, e alla svelta.» Aprii gli occhi e vidi le sue scarpe. Alzò un piede e me lo mise in faccia. Sentii Lokken che correva via. L'odore di Orso Polare mi inondò. Sollevò il piede dal mio viso e la sua voce mi giunse diritta nell'orecchio. «Avresti fatto molto meglio a non tornare qui, Miles. E adesso penso che faresti ancor meglio a comportarti come tu sai.» Sentivo il suo respiro ansante. L'aroma del Wild Turkey si mescolava all'odore della polvere da sparo. «Maledetto bastardo, se osi dire ancora una parola su quelle dannate bottiglie di Coca o su quel dannato pomello, io ti spezzo in due.» Il suo respiro divenne aspro e irregolare, e, sotto la sua spinta, la sua pancia si distese contro la cintura. «E tua cugina è morta vent'anni fa, Miles. Ancora una parola su di lei e sei finito. E adesso apri bene le orecchie e vedi di non dimenticarti quello che sto per dirti. Chiunque ci fosse su alla cava quando tua cugina morì, ti ha salvato la vita trascinandoti su quella pietra. Forse adesso non sarebbe più disposto a farti lo stesso favore. Forse ti lascerebbe affogare nell'acqua.» Poi, con un grugnito, si rialzò e se ne andò. Serrai le palpebre e sentii lo stridio delle gomme sulla ghiaia.
Quando riaprii gli occhi mi toccai il viso e mi accorsi che sanguinavo. Mi drizzai a sedere. Ero solo. La Casa dei Sogni di Duane era ridotta ad un cumolo di misere assi da cui saliva un pennacchio di fumo nero. Il corpo di Paul era scomparso e così pure il cumulo di coperte. Ero completamente solo, seduto per terra sulla ghiaia bianca, accanto ad un fuoco che moriva.
CAPITOLO DECIMO
Ebbe inizio l'ultimo atto.
Arrivai a casa, mi lavai il sangue dalla faccia e andai a letto, dove rimasi per trentasei ore. Non avevo più amici: Paul era morto, Duane mi odiava e Orso Polare si era rivelato un nemico troppo complesso per prevedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa. L'impronta della sua scarpa sul mio viso bruciava come ferro incandescente; era peggio dei suoi pugni. La sola persona che poteva difendermi era Rinn, una donna di novant'anni. Ma se Orso Polare e la gente di Arden non mi sospettavano più, perché mai avrei dovuto aver bisogno di aiuto? Dovevo forse difendermi da Zack? Lì sì che avevo commesso un grosso errore. Mi rigirai fra le lenzuola umide in preda al terrore.
Capivo di essere in attesa, ma udivo solamente il suono della mia voce mentre, chino sul corpo di Paul Kant, dicevo a Orso Polare che esisteva un'altra possibilità, ma che era troppo folle... ben sapendo, in realtà, che era proprio da lì che originava quel mio terrore... Ero paralizzato dalla tensione. Ma non accadde nulla. No, non esiste nessun'altra possibilità, ripetei a me stesso. A poco a poco mi calmai e finalmente mi assopii.
Mi svegliai, consapevole dell'odore di acqua fredda che inondava la stanza. «Alison» dissi.
Una mano mi sfiorò la spalla. Proprio così. Mi rotolai nel letto, allungai un braccio e toccai un corpo, sì, toccai il corpo di una ragazza. Un corpo snello e freddo, molto più freddo delle mie mani. Io versavo in quello stato di veglia parziale in cui la realtà appare ancora vaga, inconsistente, ed ero conscio solo del suo perdono e della sua presenza. Le mie mani, seguendo un loro segreto impulso, sfiorarono il suo volto e sentirono ciò che non potevo vedere, gli zigomi duri che incorniciavano il suo viso selvaggio e al tempo stesso magico, i capelli lisci. Sentii il suo sorriso distendersi sotto il palmo della mano: il sorriso inconfondibile di Alison Greening. Una grande sensazione generale di beatitudine pervase il mio corpo. Sfiorai le gambe sottili, abbracciai la vita flessuosa, appoggiai la testa nell'incavo alla base del collo. Non avevo mai provato una gioia simile.
A dire il vero, quella gioia io l'avevo già provata, e per lo stesso motivo. Durante gli anni del mio matrimonio mi capitava a volte, appena sveglio e ancora intontito dal sonno, di sfiorare il corpo di Joan e pensare a Alison: allora l'abbracciavo, e mentre facevamo l'amore percepivo in quel corpo più adulto i lineamenti della ragazza morta di cui avevo un disperato bisogno. In quei momenti avevo provato quella stessa frastornante estasi, quella stessa beatitudine, ma quella notte le sensazioni erano ancora più nette, e mentre l'abbracciavo e la possedevo, sapevo che quelle piccole mani sulla mia schiena e quel corpo sottile sotto il mio appartenevano senza alcun dubbio ad Alison. Tutto il resto svaniva, tutte le sventure della settimana trascorsa. Se anche ci fossimo trovati in un campo di battaglia non mi sarei accorto del fragore degli spari e delle esplosioni.
Ma quando il suo corpo cominciò a scaldarsi accadde una cosa strana. Non che cambiasse, no, non era una cosa così brutale, ma a volte durante la notte ebbi la sensazione che si sdoppiasse, che mutasse di forma impercettibilmente, così che per una frazione di secondo era il corpo che avevo visto scintillare nell'acqua della cava ma subito dopo diventava più pieno. La gamba appoggiata al mio fianco sembrava appesantirsi, premermi con maggiore urgenza. I seni contro il mio petto erano piccoli, poi grandi, poi di nuovo piccoli. La vita sottile, poi piena. Ma forse sarebbe più corretto dire che i due corpi erano presenti simultaneamente, e quando ne ero cosciente, immaginavo, stupidamente, che fossero due metà di una sola creatura.
Una volta, per un solo attimo, subito annegato in una successione irruenta di attimi più lunghi, le mie mani credettero di toccare qualcosa che andava al di là della carne.
Molte ore dopo, quando aprii gli occhi, vidi un corpo giovane sotto di me, una curva di pelle che a poco a poco scoprii essere una spalla. Due mani mi accarezzavano la schiena, un ginocchio rotondo si insinuava malizioso fra le mie gambe. Il letto era un bagno di odori: l'odore pungente e selvaggio del sesso, il profumo di talco, di pelle giovane e di capelli appena lavati. E l'odore del sangue. Sollevai la testa di scatto. La ragazza sotto di me, che mi accarezzava per eccitarmi di nuovo, era Alison Updahl.
Mi drizzai a sedere. «Tu!».
«Mmh.» Lei si strusciò contro di me. Gli occhi erano chiari e smorti, come sempre, ma l'espressione del viso era dolce.
«Da quanto tempo sei qui?»
Rise. «Volevo farti una sorpresa. Ma non mi sei sembrato affatto sorpreso ieri notte. Solo affamato. Tu sì che sai come far sentire una ragazza la benvenuta nel tuo letto!»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Dall'una circa. Hai ancora in faccia i segni dei pugni che ti ha dato Hovre. Conosci quell'imbecille del suo vice, Dave Lokken? L'ha raccontato a tutti. Un paio di giorni fa. Di come il signor Hovre ti ha picchiato e del fatto che l'assassino era Paul Kant. Così ho pensato di venire a darti una mano a festeggiare. Anche se hai cercato di fargli credere che fosse stato Zack. Ma era un'idea così stupida.»
«Voglio che adesso tu vada via.»
«È tutto a posto, non ti preoccupare. Lui non lo verrà mai a sapere. È martedì mattina, e tutti i martedì mattina va alla Cooperativa. Scommetto che non si è nemmeno accorto che non sono a casa.»
La guardai attentamente. Sembrava perfettamente a proprio agio, come se non avesse notato niente di strano.
«Sei stata qui tutta la notte?»
«Certo.»
«E non hai sentito niente di strano?»
«Solo te.» Ridacchiò divertita e mi passò un braccio intorno al collo. «Tu sei davvero strano, Miles. Non avresti dovuto dire a Hovre quella cosa su Zack. Tu piaci a Zack, sul serio. Ha persino letto quei libri che gli hai dato. Di solito legge solo polizieschi, sai, omicidi, sangue e roba del genere. L'hai detto per quello che è successo su alla cava? Per quello che ti abbiamo fatto? Ma noi stavamo solo giocando. Eri proprio bello, sai? Anche dopo, quando hai perso la testa. Mi guardavi in un modo... Be', io non avevo niente addosso, proprio come adesso.»
Fece una smorfia, come se si fosse punta con qualcosa nel letto. Si strofinò un fianco con la mano, scoprendo tutta la parte superiore del suo corpo sodo, e io fui istantaneamente sopraffatto da un'ondata di desiderio. La Regina Guerriera aveva ragione, ero affamato. In quel momento mi sembrò di non fare l'amore da mesi. Allungai una mano e la racchiusi a coppa sul suo seno. L'odore di sangue inondò la stanza. La mia unica scusa era che ci trovavamo insieme nello stesso letto e che lei mi stava deliberatamente seducendo. Ma fu un'esperienza diversa rispetto a quella della notte precedente. Il suo corpo mi era del tutto estraneo, i nostri ritmi non coincidevano. Lei era percorsa da spasmi improvvisi che mi facevano perdere l'equilibrio. Dopo un po' mi rovesciai sulla schiena, lasciando che fosse lei a condurre il gioco. Sembrava non desiderasse altro. Fu un'esperienza strana, forse perché ero roso dai dubbi sulla mia sanità mentale. Ero sicurissimo di aver fatto l'amore con mia cugina, ma quando cercai di rievocare lo "sdoppiamento" provai solo una sensazione molto vaga. Una cosa, però, era certa: dal punto di vista sessuale Alison Updahl era una sconosciuta per me; fra i nostri corpi non vi era la benché minima sintonia.
Quando fu tutto finito, lei si mise a sedere sul letto. «Bene, ma questa volta non ci hai messo il cuore.»
«Alison» dissi, dovevo chiederglielo. «È stato Zack a fare quelle cose ... a uccidere quelle ragazze? Perché nonostante quello che pensa Orso Polare non è stato Paul Kant.»
Prima ancora che concludessi la frase vidi svanire dal suo viso tutta la tenerezza di qualche attimo prima. Mise le gambe giù da letto, voltandomi le spalle, ed ebbi l'impressione che tremasse. «Zack blatera tanto, ma poi non fa niente.» Alzò la testa di scatto. «Ehi, ma si può sapere che cosa c'è in questo letto? È tutta la mattina che mi sento graffiare.» Si alzò, si voltò verso di me, e sollevò il lenzuolo. Sparpagliati sul telo bianco che copriva il materasso c'erano una decina di rametti marroni. «Mi sa che è ora di cambiare le lenzuola» commentò Alison, di nuovo nel pieno controllo di se stessa. «Stanno germogliando».
Guardai sconvolto quei rametti sulla stoffa stropicciata. Lei si voltò dall'altra parte.
«Alison, ho bisogno di farti alcune domande.»
«Non voglio parlare di quelle cose».
«No, ascolta. Due settimane fa tu e Zack avete richiesto una canzone alla radio? Dedicata da A e Z a tutti le persone perdute?»
«Sì, ma ti ho già detto che non mi va di parlarne. Per favore, Miles.»
Alison non poteva certo sapere quale significato avessero quei rametti per me, e quando sgusciai fuori dal letto lì per lì mi ignorò. «Non sei proprio in vena di parlare, questa mattina, eh? A parte quelle tue stupide domande. E comunque a te non piace chiacchierare del più e del meno, vero?» Si era infilata una maglietta di cotone e si stava contorcendo per entrare nei jeans. «A te piace solo rovinare tutto. Ma non preoccuparti, non invaderò mai più la tua privacy.» Siccome non ribattevo nulla lei si avvicinò e mi guardò intensamente. «Miles, che ti succede? Sembri uno spettro, proprio come il giorno che sei arrivato.».
«Non mi sorprende» dissi, «dato che ne ho gli stessi identici motivi. Ma adesso è meglio che tu vada via di qui, per il tuo bene.»
«Per il mio bene? Gesù, sei proprio un tipo strambo, lo sai?»
«Lo so» risposi, mentre lei si infilava gli zoccoli. Dopodiché scese rumorosamente le scale, senza nemmeno degnarmi di un saluto.
Un'altra spiegazione, doveva pur esserci un'altra spiegazione. Quei rametti dovevano essersi impigliati nei miei vestiti quando mi ero addentrato nel bosco, o magari mentre vagavo intorno alla fattoria. Oppure mi erano rimasti appiccicati alla camicia quando Dave Lokken aveva mollato la presa e io ero caduto sul prato davanti a quel che restava della Casa dei Sogni di Duane. Mi alzai e, con un gesto deciso della mano, li scrollai dalle lenzuola. Rifeci il letto, mi vestii, presi alcuni fogli di carta e una matita nel mio studio e scesi al piano di sotto. Volevo provare a lavorare in cucina. Poco dopo arrivò Tuta Sunderson e le chiesi di cambiarmi le lenzuola.
«Ho sentito che eri da Andy's l'altra mattina» mi comunicò con le mani sui fianchi. «A quanto pare ne sono successe di tutti i colori.»
«Uhm» replicai io.
«Immagino che tu sia contento, almeno in parte.»
«Come no, non c'è niente di meglio di una bella manica di botte.»
«Red dice che Paul Kant avrebbe dovuto filarsela molto tempo fa.»
«Mi sembra un tipico commento da Red, questo.»
«Io sono convinta che si sia suicidato. Paul Kant è sempre stato un debole».
«È una delle sue teorie preferite, vero?»
Dalla deposizione di Tuta Sunderson:
18 luglio
Per quel che mi riguardava, io non avevo nessuna intenzione di saltare alle conclusioni solo perché lo facevano tutti gli altri. Non c'erano prove, non è vero? Io penso che Paul Kant sia semplicemente crollato: era troppo debole e non ce l'ha fatta. Non ha nemmeno mai confessato, vero? No. E voi non avevate ancora trovato quell'altra ragazza. Io sono una persona obiettiva.
Comunque, ero decisa a continuare a tenere d'occhio Miles. Caso mai decidesse di scappare, o cose del genere. Così mercoledì mattina sono andata da lui, come sempre, e mentre andavo pensavo a quella foto strappata della figlia di Duane che avevo trovato nella vecchia camera del pian terreno. Non riuscivo a levarmela dalla mente. Mi chiedevo: che cosa passa per la testa di un uomo quando strappa la foto di una ragazza? Sono cose che danno da pensare.
Poi, come ho già detto, mentre stavo per svoltare nel violetto, ho visto la ragazza uscire dalla fattoria. Allora mi sono detta: cara mia, tu non avresti dovuto trovarti qui adesso, e così ho aspettato un po' sulla strada, di modo che lui non capisse che io l'avevo vista. Dopo, quando mi ha mandata di sopra a cambiare le lenzuola, non mi ci è voluto molto per capire quel che era successo. Uno può mentire fin che vuole, ma non può ingannare chi gli lava le lenzuola.
Decisi che dovevo dirlo a Red. Ero sicurissima che si sarebbe infunato come una iena, ma volevo che fosse lui a decidere se bisognava dirlo a Duane. E lui l'uomo di casa adesso.
Quel giorno fui tentato più volte di andarmene, di saltare in macchina e partire, non importava per dove. Ma ero ancora senza auto e poi ero convinto che dovesse esserci un'altra spiegazione oltre a quella che si era fatta strada nella mia mente la sera in cui, guardando fuori dalla finestra della mia camera, avevo visto quella figura esile che, dal bordo del bosco, mi bersagliava di gelide stilettate di invidiosa energia. Era stato in quel momento che mi ero reso conto di avere paura.
E quella paura non mi abbandonava, si rifiutava di soccombere al raziocinio. Mi seguiva su e giù per le scale, era al mio fianco quando mangiavo, era alle mie spalle quando sedevo alla scrivania e penetrava nei miei abiti fino a raggelarmi le ossa.
Lei era il mio laccio, aveva detto zia Rinn. Tutta la mia vita era stata una continua conferma di quella verità.
E questo mi riportava al punto di partenza, e al ricordo sconvolgente del terrore che avevo sperimentato quella notte nel bosco. Cercai di ricostruire quei momenti. A posteriori avevo interpretato quello che era accaduto come una reazione della mia mente sovraeccitata da reminiscenze letterarie, ma in quel momento io non avevo avvertito alcunché di letterario, bensì il puro e travolgente terrore del male. Male è il nome che diamo alla forza che scopriamo quando spingiamo la nostra mente fino al limite a cui può giungere, quando la mente si sbriciola contro qualcosa di più grande, di più duro, di imperscrutabile e di ostile. Non avevo forse corteggiato il male volendo riportare in vita mia cugina? Lei non mi prometteva alcun conforto: lo capii ripensando alla figura che faceva capolino al limitare del bosco; lei non mi prometteva niente ch'io potessi comprendere.
Non riuscivo ancora a capacitarmi dell'idea che stava prendendo forma nella mia mente. La sera, la sera che cambiò ogni cosa, iniziò in modo abbastanza tranquillo, come la maggior parte di quelle che l'avevano preceduta. Con scarso entusiasmo avevo mangiucchiato qualcosa in cucina - una manciata di noccioline, un paio di carote, un po' di formaggio - e poi ero andato a fare due passi sul prato. L'aria era tiepida e sapeva di fieno e di erba appena falciata. Sentivo le cicale frinire e uccelli invisibili spiccare il volo dai noci. Mi sfregai il viso e mi incamminai lungo la strada. Non vedevo il bosco, ma sapevo che c'era. Dal cuore di quella sera tiepida la punta gelida di un ghiacciolo mi sfiorò il viso. Gli abitanti di Arden e della vallata avevano deciso che non ero colpevole della morte delle ragazze, ma mai come allora io mi sentivo guardato e sotto controllo.
Ripensai ai rametti sul lenzuolo, e ritornai verso il vialetto.
Mi sedetti alla scrivania e ricominciai a scrivere meccanicamente. Dopo alcuni minuti mi resi conto che l'atmosfera si era ispessita: l'aria della stanza sembrava carica, agitata da un'attività invisibile. La luce sopra la mia testa tremolò, oscurando la mia ombra sul foglio. Sbattei le palpebre e mi raddrizzai sulla sedia. Tutt'intorno sentivo odore di acqua fredda.
Una mano di vento gelido mi strappò la matita dalle dita, una gomitata ghiacciata mi colpì in pieno stomaco.
La luce si oscurò, come la mia ombra, e ad un tratto fui consapevole della presenza di Alison e della sua lotta per entrare dentro di me. Avevo il volto e le mani di ghiaccio. Mi inclinai indietro con la sedia, roteando le braccia. Stava entrando, attraverso il naso, gli occhi e la bocca. Urlai in preda al terrore. Una pila di carta saettò in aria in un'esplosione di guizzi candidi. La mia mente era diventata elastica, scivolava via sfuggendo al mio controllo. Lei era dentro la mia testa, dentro il mio corpo: attanagliato da un terrore animalesco avvertii il suo odio e la sua invidia. I miei piedi presero a calci la scrivania e la porta rovinò rumorosamente giù dai cardini. Con un tonfo, la macchina da scrivere cadde per terra. Sbattei la testa contro il pavimento di legno. Allungai il braccio destro verso la pila di libri, ma al mio tocco essi schizzarono verso il soffitto. Percepivo il suo odio in tutti e cinque i sensi: l'oscurità, il freddo ustionante sulla mia bocca e sulla punta delle dita, l'odore invadente di acqua, il fragore crescente, il sapore del fuoco in bocca. Era la punizione per quell'ultima squallida copula, per quell'unione animalesca, priva di spiritualità. Lei stava ribollendo in me, le mie braccia percuotevano l'aria, la mia schiena si inarcò per poi sbattere contro le assi del pavimento. Scaraventai i fogli contro la finestra, contro la lampadina e per tutta risposta fui spedito a ruzzolare contro il muro.
Saliva, muco, lacrime mi lordavano il volto. Per un istante uscii da me stesso e fui sopra il mio corpo: lo vidi contorcersi e dibattersi sul pavimento disseminato di oggetti, osservai la mia faccia sozza e storpiata e le mie braccia che scagliavano in aria fogli e libri. Poi fui di nuovo in quel caos violento e ribollente: soffrivo come un animale in preda a convulsioni. Le sue dita si muovevano nelle mie, le sue ossa leggere e aguzze premevano contro il mio scheletro.
Avevo le orecchie schiacciate in avanti, il naso intasato dal muco e il mio petto stava per scoppiare.
Quando riaprii gli occhi era tutto finito. Udii il mio respiro ansante, ma non urlavo. Non ricordavo nemmeno il momento in cui mi aveva lasciato, ma lei se n'era andata. Stavo fissando un tranquillo spicchio di luna che faceva capolino dalla finestra, sopra la scrivania rovesciata.
Poi, violentemente, il mio stomaco si sbloccò, e feci appena in tempo a precipitarmi giù per le scale. La mia bocca si riempì di un succo marrone, amaro, colloso. Un attimo dopo mi ritrovai seduto sulla tazza ad espellere una sostanza acquosa dall'altro orifizio con eguale forza. Appoggiai la testa al lavandino e chiusi gli occhi, mentre un sudore freddo mi imperlava la fronte.
Uscii barcollando dal bagno e mi trascinai a fatica in cucina. Appoggiato al lavello bevvi un bicchiere di acqua fredda dopo l'altro. Acqua fredda. La casa era pervasa da quell'odore.
Lei mi voleva morto. Mi voleva con sé. Quella notte, che ormai sembrava lontana anni luce, Rinn mi aveva avvisato: lei è la morte.
E tutto il resto, e le ragazze uccise? Per la prima volta guardai la paura in faccia, senza esitazioni. Ero nella stanza che avevo preparato per lei con tanta cura, e, ancora stordito, cercavo di accettare quell'ipotesi che fino ad allora avevo cercato di scartare con tutte le mie forze: l'altra possibilità che avevo accennato a Orso Polare. Avevo evocato lo spirito di Alison, quella forza terribile che avevo avvertito nel bosco, e ora sapevo che il suo spirito odiava la vita. Lei sarebbe apparsa il giorno ventuno, comunque: adesso ne avevo la certezza, anche se non avevo ancora ricostruito i vecchi interni della fattoria. E a mano a mano che quella data si avvicinava la sua forza aumentava. Era in grado di ritornare in vita: era in grado di farlo dal giorno in cui ero arrivato in prossimità della valle.
Mi sedetti in quella stanza fredda, paralizzato fin nel midollo. Alison. Pensai: il ventuno comincia alla mezzanotte del venti. Il giorno successivo a quello che stava per sorgere, preannunciato all'orizzonte da strisce porpora sopra il bosco che anneriva le colline.
Mentre fuori albeggiava, uscii sulla veranda. Le strisce color porpora si erano dilatate, i campi striati di giallo e di verde si facevano sempre più chiari e nitidi. Li ammantava una leggera nebbia, un velo grigio e umido simile a batuffoli di cotone rimasti impigliati negli alti fusti del granoturco.
Fui svegliato da un rumore di passi. Avevo le mani e i piedi freddi. Il cielo era una distesa di azzurro uniforme, la nebbia si era sollevata e adesso indugiava soltanto ai margini del bosco. Si preannunciava una giornata in cui la luna sarebbe stata visibile per tutta la mattinata, una pietra bianca e immobile sospesa nel cielo blu. Tuta Sunderson stava risalendo la strada con passo pesante, come se le scarpe rimanessero intrappolate nel cemento. La borsa a tracolla le rimbalzava sul fianco. Non appena mi vide, serrò le labbra e contrasse il suo viso in un'espressione di cupa durezza. Aspettai che aprisse la porta ed entrasse nella veranda.
«Da oggi lei non dovrà più venire qui» le dissi. «Il suo lavoro è finito.»
«Come sarebbe a dire?» Un'ombra di sospetto rabbuiò il suo sguardo stralunato.
«Non ho più bisogno del suo aiuto. La licenzio. Il suo lavoro è finis. Kaput. Finito. Concluso. Terminato.»
«È stato seduto qui fuori tutta la notte?» Incrociò le braccia sul petto, un gesto che le costò uno sforzo impressionante. «A bere gin?»
«La prego, signora Sunderson, torni a casa.»
«Ha paura che veda qualcosa? Non si preoccupi, ho già visto tutto.»
«Lei non ha visto niente.»
«Ha l'aria di uno che sta male. Che cos'ha fatto? Si è forse bevuto un intero tubetto di aspirine o qualcosa del genere?»
«Io proprio non so come potrebbe esistere il suicidio senza di lei.»
«Io però ho diritto alla paga di tutta la settimana.»
«Certo, ha ragione. Anzi, ha diritto a due settimane. Mi perdoni. Accetti quattordici dollari, la prego.» Estrassi alcune banconote dalla tasca dei pantaloni, contai due biglietti da cinque dollari e quattro da uno e glieli porsi.
«Ho detto una settimana. In tutto sono cinque dollari. Mi deve la paga di oggi, di venerdì, di sabato e degli altri tre giorni che ho lavorato.» Trattenne una banconota da cinque dollari, e appoggiò le altre sull'altalena della veranda.
«Come vuole lei. Adesso, la prego, se ne vada e mi lasci solo. Mi rendo conto di averla trattata male, ma non volevo, mi creda. Mi dispiace.»
«Io lo so che cosa ha in mente» ribatté lei. «Lei è più schifoso di un animale.»
«È stata molto eloquente.» Chiusi gli occhi. Dopo un po' mi accorsi che il ritmo del suo respiro era cambiato e capii che se ne stava andando. Cominciai a sentirmi meglio. Sentivo nell'aria l'odore della rabbia. Grazie Alison. La porta della veranda sbatté, ma io rimasi ad occhi chiusi ad ascoltare il rumore dei passi di Tuta che si allontanava sul vialetto.
Chi ha dormito insieme?
Una ha distrutto un formicaio.
Una ha rotto una sedia.
Una aveva paura.
Una nuotava nel sangue.
Una aveva le mani fredde.
Una aveva l'ultima parola.
Quando riaprii gli occhi lei non c'era più. Una Ford marrone, impolverata, l'auto del postino, risalì la strada e oltrepassò la mia cassetta delle lettere senza fermarsi. Fine delle lettere dei miei ammiratori, fine delle lettere di mia cugina. Sì, così aveva senso. Il suo corpo, o piuttosto il suo scheletro, visto che era morta da vent'anni, giaceva nel cimitero di Los Angeles, sotto una lapide che non avevo mai visto. Per questo, per prendere forma, aveva dovuto servirsi del materiale che aveva a disposizione. Oppure decidere di essere un refolo di vento, il respiro freddo dello spirito. Foglie, ghiaia, spine. Spine per lacerare.
Mi alzai e attraversai la veranda. Continuavo a ripetere a me stesso: spine per lacerare. Ero come un sonnambulo. La portiera dal lato di guida della Nash era uscita dai cardini, e quando provai ad aprirla si abbassò con un forte cigolio.
Per alcuni minuti dimenticai dove fossi diretto e risalii semplicemente la strada, procedendo lento e pacifico come Duane alla guida del suo trattore. Poi, ricordai. La mia ultima e unica fonte di salvezza. Premetti l'acceleratore e, sferragliando, l'auto acquistò velocità proprio mentre passavo davanti alla fattoria dei Sunderson. Tuta era affacciata ad una delle finestre e mi seguì con lo sguardo. Poi la scuola, la chiesa, la curva a gomito intorno alla rupe di terra arenaria. Quando oltrepassai l'emporio, vidi Andy accanto alle vecchie pompe di benzina. La sua faccia ricordava il latte cagliato. Alle sue spalle, il terreno su cui prima sorgeva la Casa dei Sogni era nero e desolato. Andy si voltò e mi seguì con gli occhi fino a quando scomparvi dalla sua visuale.
Quando giunsi all'angusta stradina, che dipanandosi fra i campi risale fino al bosco, sterzai con forza e proseguii sobbalzando in direzione del sole. Notai alcune piante di granoturco, spezzate alla base, che giacevano schiacciate e scomposte al limite del campo. In un batter d'occhio raggiunsi i primi alberi e mentre mi inoltravo fra enormi querce, i campi svanirono alle mie spalle. Sottili raggi di sole filtravano fra i rami, le foglie cadevano leggere. Parcheggiai in salita, accanto al grande pollaio rosso. Quando scesi dall'auto sentii le galline starnazzare; alcune, terrorizzate, zampettarono nel bosco.
Per prima cosa guardai nel pollaio. Aprii la porta e fui colpito ancora una volta dal fetore che vi regnava. Mi parve ancor più acre del giorno in cui l'avevo maldestramente aiutata a raccogliere le uova. Due o tre galline sbatterono le ali, altre girarono la testa e mi fissarono terrorizzate con i loro occhi tondi. Indietreggiai con cautela e chiusi delicatamente la porta, come lei mi aveva insegnato.
Due galline si erano appollaiate sul cofano della Nash. Risalii il vialetto che portava alla casa. Lì il sole non arrivava direttamente, ma la sua luce si diffondeva in un alone dorato attraverso la massa frusciante delle foglie che intessevano un secondo cielo. La casetta sembrava buia e vuota.
Una aveva le mani fredde.
Una aveva l'ultima parola.
Sulla credenza della cucina c'era un piatto e sul piatto un canovaccio bianco e rosso con i lembi ripiegati al centro. Toccai la stoffa. Era asciutta. Sollevai un lembo e vidi i "lefsa" picchiettati di macchioline verdi di muffa.
Lei era in camera, sdraiata in mezzo al letto matrimoniale, sotto un lenzuolo ingiallito e un plaid fatto all'uncinetto. Le mie narici catturarono un odore come di corda marcita. Capii che era morta prima ancora di toccarla e di sentire le sue dita fredde e rigide. I capelli bianchi e folti erano sparpagliati sulla federa ricamata. È morta da due o tre giorni, pensai. Forse, era morta mentre Andy estraeva il cadavere di Paul Kant dalle fiamme della Casa dei Sogni, oppure mentre io lottavo contro il fantasma che voleva entrare nel mio corpo. Appoggiai la sua mano rigida sul lenzuolo e ritornai nella cucina buia per chiamare la polizia di Arden.
«Dannazione» esclamò Dave Lokken dopo che gli ebbi spiegato in due parole la situazione. «E lei adesso è lì, Teagarden?»
«Sì.»
«Ha detto di averla trovata lei?»
«È esatto.»
«Ha dei segni sul corpo? Segni di ... di aggressione? Nessun indizio sulla causa della morte?»
«Aveva quasi novantaquattro anni» risposi. «Penso che possa bastare come causa di morte.»
«Dannazione. Ha detto che l'ha appena trovata? Ma lei che cosa diavolo ci faceva lassù?»
Ero venuto alla ricerca di un estremo aiuto. «Era la sorella di mia nonna» risposi.
«Ah, capisco, motivi di famiglia» ribatté. Sapevo che stava scrivendo tutto. «Allora adesso lei è lassù in mezzo al bosco? La fattoria si trova in mezzo al bosco, no?»
«Sì, sono qui.»
«Dannazione.» Non riuscivo a capire perché quella mia telefonata lo stesse mettendo tanto in agitazione. «Mi ascolti, Teagarden, non si muova di lì. Rimanga lì fino a quando arrivo con l'ambulanza. E non tocchi niente.»
«Voglio parlare con Orso Polare.»
«Be', adesso non può. Ha capito? In questo momento il Capo non c'è. Ma non si preoccupi, Teagarden. Parlerà con lui molto presto.» Riagganciò senza salutare.
Lokken si era comportato come un essere proveniente da un altro pianeta, pensai, un pianeta di matti. Ritornai nella camera di Rinn e mi sedetti sul letto. Mi resi conto che non mi ero ancora ripreso dallo stordimento che si era impossessato di me nel corso della notte precedente, che avevo trascorso pressoché insonne nel soggiorno che avevo preparato per Alison Greening. Fui sul punto di sdraiarmi accanto al corpo di Rinn. Il suo viso sembrava più disteso nella morte, meno cinese, meno rugoso. Le ossa del viso premevano sotto la pelle candida. Le sfiorai le guance, poi cercai di tirare su il lenzuolo per coprirla, ma era bloccato dalle sue braccia. In quel momento mi ricordai che Lokken mi aveva ordinato di non toccare nulla.
Passò più di un'ora prima che sentissi il rumore dei mezzi che risalivano la strada. Uscii sulla veranda e vidi Lokken che stava parcheggiando accanto alla Nash, seguito dall'ambulanza.
Il corpulento vice di Orso Polare saltò giù dalla berlina bianca e nera, gesticolando rabbiosamente in direzione del conducente dell'ambulanza. Da questa scesero due infermieri, che incrociarono le braccia e si appoggiarono alla fiancata bianca. Uno di loro stava fumando una sigaretta e le volute di fumo salivano leggere verso il fogliame fitto degli alberi. «Ehi, Teagarden!» urlò Lokken. Mi voltai a guardarlo. Mi accorsi solo allora dell'uomo dall'aria sciatta che lo accompagnava. Era vestito in borghese, aveva i capelli cortissimi e portava occhiali dalle lenti spesse. «Ehi, Teagarden, venga qui, per la miseria!» urlò Lokken. L'uomo in borghese sospirò e si sfregò il mento. Vidi che teneva in mano una borsa nera.
Uscii dalla veranda. Lokken fremeva di rabbia e di impazienza. Vedevo i suoi muscoli contrarsi sotto la camicia. «Benissimo, sentiamo la sua storia, Teagarden.»
«Le ho già detto tutto.»
«È in casa?» chiese il dottore. Aveva l'aria molto stanca, come se la presenza di Dave Lokken lo infastidisse.
Annuii e il medico si avviò verso l'entrata.
«Aspetti un attimo, dottore. Prima ho un paio di domande da fargli. Ha detto che l'ha trovata lei. È vero?»
«Si.»
«Ha un testimone, qualcuno in grado di confermarlo?»
Uno degli infermieri ridacchiò, e Lokken arrossì. «Allora?»
«No, nessun testimone.»
«Ha detto di essere arrivato qui questa mattina?»
Annuii.
«A che ora?»
«Pochi minuti prima che le telefonassi.»
«Immagino che fosse già morta quando è arrivato.»
«Sì.»
«Da dove veniva?» Il tono della sua voce si era fatto improvvisamente più serio.
«Dalla fattoria degli Updahl.»
«Qualcuno l'ha vista? Aspetti, dottore. Voglio finire qui prima di entrare. D'accordo?»
«Sì, Tuta Sunderson. L'ho licenziata questa mattina.»
Quel particolare sembrò confonderlo e contrariarlo, ma alla fine decise di ignorarlo.
«Ha toccato la vecchia?»
Annuii. Per la prima volta il medico si voltò a guardarmi.
«Ah, l'ha toccata? E come?»
«Le ho preso la mano.»
Lokken si incupì e l'infermiere sghignazzò di nuovo.
«E come mai ha deciso di venire quassù stamattina?»
«Volevo venirla a trovare.»
«Solo venirla a trovare?» L'espressione ottusa sul suo viso flaccido tradiva un irrefrenabile desiderio di prendermi a pugni.
«Ho avuto una mattinata piuttosto pesante, Dave» lo interruppe il dottore. «Cerchiamo di spicciarci così torniamo giù e io scrivo il mio rapporto.»
Lokken annuì con un rabbioso gesto del capo. «Teagarden, guardi che la pacchia potrebbe finire.»
Il dottore mi osservò con curiosità quasi professionale, poi lui e Lokken si avviarono con passo marziale verso la casa.
Li seguii con lo sguardo, poi mi voltai a guardare i due infermieri. Tenevano gli occhi fissi sul terreno. Dopo un po' uno di loro mi lanciò un'occhiata di sfuggita, poi si tolse la sigaretta dalle labbra e la fissò torvo, come se stesse meditando di cambiare marca. Un istante dopo entrai in casa.
«La morte è avvenuta per cause naturali» stava dicendo il medico. «No, mi sembra che non ci sia nient'altro. Si è semplicemente spenta.»
Lokken annuì scribacchiando qualcosa sul suo blocco. Sollevò lo sguardo e si accorse della mia presenza. «Fuori di qui Teagarden. Lei non può stare qui!»
Uscii sulla veranda. Un minuto dopo il poliziotto mi raggiunse e fece un cenno ai due uomini, che scomparvero dietro l'ambulanza per poi riapparire con una barella. Li seguii all'interno della casa, ma non entrai in camera da letto. Impiegarono solo pochi secondi per trasferire Rinn sulla barella. Le lenzuola e la coperta erano stati sostituiti da un telo bianco che le copriva il viso.
Mentre aspettavamo che caricassero il suo corpo sull'ambulanza Lokken eseguì una sinfonia di piccoli movimenti: batté un piede per terra, si strofinò la punta di una scarpa contro la stoffa dei pantaloni, si tamburellò la coscia grassa con le dita, si sistemò la fondina. Capii che tutti quei movimenti esprimevano il disagio che provava nel dover stare vicino a me. Quando il dottore uscì dicendo: «Andiamo, ho già lavorato quattro ore per quell'altro», Lokken si voltò e disse: «Bene, Teagarden, ma troveremo qualcuno che ci dirà di averla vista entrare in quel bosco. Adesso torni a casa e non si muova. Ha capito bene? Mi ha capito, Professore?»
Tutto si chiarì qualche ora dopo, quando ricevetti una visita. Ero nello studio: stavo raccogliendo i fogli sparpagliati per terra e li stavo radunando a casaccio in un cesto. Poco prima avevo gettato la macchina da scrivere nella cantina interrata: era inutilizzabile, il carrello era piegato e il rullo non scorreva più.
Ad un certo punto udii il rumore di una macchina che risaliva il vialetto d'accesso; mi affacciai alla finestra, ma l'auto si era fermata così vicina alla fattoria che non riuscivo a vederla. Aspettai che bussassero, ma non sentii nulla. Decisi di scendere e quando fui sull'ultimo gradino, vidi un'auto della polizia ferma proprio davanti alla veranda. Orso Polare era seduto sul paraurti e si stava asciugando la fronte con un grande fazzoletto a pois.
Quando mi vide uscire sulla veranda, abbassò la mano e si girò leggermente per guardarmi in faccia. «Esci, Miles» disse.
Io mi fermai davanti alla porta a zanzariera con le mani in tasca.
«Mi dispiace per la vecchia Rinn. E immagino anche di doverti le mie scuse per il comportamento di Dave Lokken. Il Dottor Hampton, il medico legale, mi ha detto che è stato piuttosto brusco con te.»
«No, non brusco come pensi tu. Semplicemente stupido e presuntuoso.»
«Be', non è proprio una cima» commentò Orso Polare. Notai qualcosa di nuovo nel suo comportamento, una sorta di vigile ritegno. Rimanemmo entrambi immobili e ci scambiammo un paio di occhiate finché lui non aprì bocca di nuovo. Non mi importava nulla né di lui né di quello che diceva. «Pensavo che ti sarebbe interessato sapere. Il medico legale dice che è morta da quarantott'ore, forse sessanta. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, lei deve aver intuito quello che stava per succedere. Si è messa a letto, ed ha aspettato. Arresto cardiaco, una morte tranquilla.»
«Duane è stato avvertito?»
«Sì. L'ha fatta trasferire alla camera mortuaria questo pomeriggio. Il funerale sarà dopodomani.» Di tanto in tanto scuoteva la testa e mi lanciava uno sguardo furtivo. La luce del sole riverberava contro la stella di latta puntata sopra la visiera del suo berretto, appoggiato sul cofano della macchina.
«Allora, grazie» dissi, voltandomi per rientrare in casa.
«Ancora una cosa.»
Mi fermai. «Sì?»
«Vorrei spiegarti perché Dave Lokken è stato così rude con te questa mattina.»
«Non mi interessa» replicai.
«Oh, invece sì che ti interessa, Miles. Vedi, questa mattina abbiamo trovato la Michalski.» Mi rivolse uno dei suoi sorrisi ambigui. «Strana coincidenza, vero? Era morta, naturalmente. Ma non penso che la cosa ti sorprenda.»
«No, e non dovrebbe sorprendere nemmeno te.» Fui percorso di nuovo da un brivido di terrore, e mi appoggiai alla porta.
«No, io me l'aspettavo. Il fatto è, Miles, che l'abbiamo trovata proprio in quel tratto di bosco, a nemmeno trecento metri dalla casa di Rinn. Siamo partiti dalla 93 e abbiamo battuto il bosco palmo a palmo: abbiamo esaminato ogni cespuglio, ogni ramoscello, e finalmente questa mattina l'abbiamo trovata, seppellita sotto uno strato di immondizia, in una specie di radura.»
Deglutii.
«Tu conosci quella radura, Miles?»
«Forse sì.»
«Uh, huh. Molto bene. Capisci adesso perché Dave è stato così duro con te? Tu eri lassù, in compagnia di un cadavere, e noi ne abbiamo trovato un altro ad uno sputo da te. È una piccola radura naturale; in mezzo c'erano i resti di un bivacco. A vederlo sembra che venga utilizzato abbastanza spesso.»
Anuii, senza togliere le mani di tasca.
«Forse lassù tu ci andavi spesso. Comunque questo non ha importanza, tranne che per un particolare. Lo sai, Miles? Lei era ridotta molto peggio delle altre due. Aveva i piedi bruciati. E anche i capelli. Penso che il nostro amico l'abbia tenuta segregata lassù per tutto il tempo. Deve averla legata ad un albero. Poi di notte tornava su per sistemarla. Per più di una settimana. Comunque, queste sono solo mie supposizioni.»
Ripensai alla figura leggiadra che aveva guidato i miei passi verso la radura e ricordai anche di aver considerato le ceneri tiepide come un segno confortante della sua presenza.
«Non hai idea di chi possa aver fatto una cosa simile?»
Stavo per rispondergli sì, ma invece dissi: «Pensi che sia stato Paul Kant?»
Orso Polare annuì, come un maestro orgoglioso. «Bene, molto bene. Vedi, questo ci riporta al piccolo particolare a cui accennavo poco fa. Che cos'è che abbiamo bisogno di sapere?»
«Da quanto tempo è morta.»
«Lo sai, Miles? Tu dovresti fare il poliziotto. Vedi, noi non pensiamo che sia morta in seguito... in seguito agli esperimenti che ha compiuto su di lei il nostro amico. È stata strangolata. I segni che aveva sul collo non lasciano dubbi. Ora, il dottor Hampton non sa dirci con precisione a quando risale la morte. Ma supponiamo per un istante che sia avvenuta dopo il suicidio di Paul Kant...»
«Non sono stato io, Orso Polare».
Lui continuò a rimanere seduto dov'era e a guardarmi di sottecchi, fingendo cortese interesse. Non aggiunsi altro. Lui incrociò le braccia sul petto. «Bene, adesso tutti e due sappiamo chi non è stato, vero, Miles? Ieri ho fatto due chiacchiere con il tuo principale indiziato. Mi ha detto che quelle bottiglie di Coca-Cola provengono dalla cantina di Duane dove tu potevi andarle a prendere in qualunque momento, senza la minima difficoltà. Per quanto riguarda il pomello, ha detto che sei stato tu stesso a gettarlo via. Lui non ha la più pallida idea di come quelle cose siano finite nel suo furgoncino. E io so che non è stato su nel bosco di notte, perché mi ha confessato cosa fa di solito di notte.» Sorrise di nuovo. «Prima che andasse in fumo, lui e la figlia di Duane andavano nella casupola dietro l'emporio di Andy e ci passavano tutta la notte. Paul Kant ha praticamente mandato all'aria il loro passatempo preferito.»
«Il tuo colpevole non lo troverai fra i vivi» dissi.
Orso Polare aggrondò il viso, poi grugnì di disgusto e si risistemò il cappello in testa. «Miles, fa' bene attenzione a non prenderti gioco di me. Potresti pentirtene.» Inforcò gli occhiali da sole e si alzò dal paraurti. Sembrava uno di quei tipi loschi che se si incontrano di notte si fa di tutto per evitarli. «Perché non vieni a fare un giretto con me?»
«Un giretto?»
«Sì, una gita. Voglio farti vedere una cosa. Salta in macchina.»
Lo scrutai, cercando di intuire che cosa avesse in mente.
«Coraggio, Miles, schioda il culo.»
Obbedii.
Guidò fino alla superstrada senza dire una parola, il viso contratto in una smorfia di disapprovazione. Cominciai a sentire di nuovo quegli orribili odori.
Ci stavamo dirigendo verso Arden a velocità sostenuta, di un buon venti miglia superiore a quella consentita dalla legge.
«Mi stai portando dai suoi genitori» dissi.
Non aprì bocca.
«Insomma, hai deciso di arrestarmi?»
«Chiudi il becco» sbottò lui.
Oltrepassammo la stazione di polizia senza fermarci. Quindi, Orso Polare sfrecciò attraverso Arden e, giunto alla periferia della città, accelerò ancora. I ristoranti, il bowling, i campi. E di nuovo le fattorie e i campi di granoturco. Eravamo nella stessa campagna dove mi aveva portato il pomeriggio in cui ero andato a trovare Paul Kant: ampie distese verdi e gialle, e il fiume Blundell che luccicava tra il fogliame degli alberi. Alla fine Orso Polare si tolse il cappello e lo gettò sul sedile posteriore. «Fa un caldo maledetto» disse passandosi una mano sulla fronte.
«Non capisco. Se volevi farmi il terzo grado potevi risparmiarti tutto questo viaggio.»
«Non voglio sentire la tua voce.» Poi si voltò a guardarmi. «Sai cosa c'è a Blundell?»
Scossi la testa.
«Bene, lo scoprirai presto.»
Alcune mucche si voltarono a guardare la macchina con sguardo indolente.
«L'ospedale civile?»
«Esattamente, l'ospedale.» E non aggiunse altro.
Hovre accelerò ancora, e superammo rapidamente il cartello segnaletico di Blundell. Era una cittadina molto simile ad Arden, con una strada principale piena di negozietti e una serie di stradine laterali su cui si affacciavano casette di legno con la veranda. Una fila di lampioncini e di bandierine pendeva di fronte ad un rivenditore di auto usate: le bandierine erano troppo flosce per ondeggiare al vento. Alcuni uomini, con abiti da lavoro e cappelli di paglia, stavano seduti sul bordo del marciapiede.
Appena fuori dalla città, Orso Polare imboccò la prima strada a destra e attraversò quello che sembrava un parco. Ad un certo punto la strada si restrinse. «Ecco l'ospedale civile» disse con voce atona. «Ma noi non andiamo lì.»
Guardando a sinistra, attraverso gli alberi, individuai i grandi edifici grigi del nosocomio. Sembravano appartenere ad un mondo lontano. Il prato era punteggiato qua e là di ombrelloni, ma non vidi nessuno seduto alla loro ombra.
«Sto per farti un grosso favore» riprese. «Nessun turista ha mai visitato questa parte della contea.»
Ad un bivio, Orso Polare svoltò a sinistra e poco dopo ci ritrovammo in un parcheggio grigio, di fronte ad un imponente edificio anch'esso grigio, che assomigliava ad un cubetto di ghiaccio. Tutt'intorno, intrappolati nella terra secca, crescevano cespugli striminziti. Capii dov'ero alcuni istanti prima di accorgermi dell'insegna metallica che faceva capolino fra il verde delle foglie.
«Benvenuto all'Obitorio della Contea di Furniveau» disse Orso Polare, scendendo dall'auto. Attraversò il piazzale desolato senza aspettarmi.
Raggiunsi l'entrata proprio nel momento in cui il portone si richiudeva alle sue spalle. Lo aprii ed entrai in un atrio bianco e freddo. Oltre i muri sentii il ronzio di macchine in funzione.
«Questo è il mio assistente» stava dicendo Orso Polare. Mi ci volle qualche secondo per capire che si stava riferendo a me. Si era tolto gli occhiali da sole e aveva appoggiato le mani sui fianchi. In quella stanza fredda e asettica puzzava come un bufalo. Seduto dietro una scrivania ammaccata, un uomo basso, con la carnagione scura e un camice bianco macchiato, lo stava fissando senza la minima curiosità. Fatta salva la presenza di una radio portatile e di un posacenere, la scrivania era sgombra. «Vorrei che il mio assistente desse un'occhiata all'ultima arrivata.»
L'uomo mi guardò. Per lui era una cosa di normale amministrazione. Tutto ormai per lui era di normale amministrazione.
«L'ultima quale?»
«La Michalski.»
«Ah! E appena tornata dall'autopsia. Non sapevo che avessi un nuovo assistente.»
«È un volontario» ribatté Orso Polare.
«Okay, andiamo» sbuffò l'uomo alzandosi. Varcò le porte di metallo verde alla fine dell'atrio. «Dopo di te» disse Orso Polare facendomi segno di precederlo.
Non sarebbe servito a nulla protestare. Seguii l'impiegato lungo una fila di fredde celle metalliche. Hovre camminava dietro di me, così vicino che quasi mi pestava i tacchi.
«Sei pronto?» mi chiese.
«Non capisco.»
L'impiegato si fermò davanti ad una cella, tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca ed aprì lo sportello.
«Reggiti forte» disse Orso Polare.
L'addetto dell'obitorio fece scivolare il lungo carrello fuori dalla cella. Sulla tavola era disteso il cadavere nudo di una ragazza. Io credevo che li coprissero con un lenzuolo. «Dio mio!» esclamai alla vista delle ferite e delle cicatrici dell'autopsia.
Orso Polare era rimasto immobile, in attesa. Guardai il volto della ragazza. Poi cominciai a sudare nonostante il freddo gelido della stanza.
La voce di Orso Polare squarciò il silenzio. «Ti ricorda qualcuno?»
Cercai di deglutire. Era una prova più che sufficiente, caso mai avessi avuto bisogno di altre prove. «Le altre due le assomigliavano?»
«Sì, e parecchio anche. Soprattutto la Strand, come una goccia d'acqua.»
All'improvviso ricordai tutta la violenta carica d'odio che avevo percepito quando lei si era introdotta nel mio corpo. Era ritornata e aveva ucciso tre ragazze che vagamente le assomigliavano. Adesso sarebbe toccato a me.
«Interessante, vero?» domandò Hovre. «Chiudi pure, Archy.»
L'addetto dell'obitorio, che era rimasto per tutto il tempo impalato, a braccia conserte, come se dormisse in piedi, spinse il carrello dentro la cella.
«Bene, adesso possiamo andare» ordinò Orso Polare.
Appena varcammo il portone fummo investiti da una vampata di caldo e dalla luce accecante del sole. Salimmo in macchina e Hovre mi ricondusse alla fattoria degli Updahl senza proferir parola.
Risalì il vialetto, fermò l'auto nel prato di fronte alla veranda e scese contemporaneamente a me. Mi si avvicinò, una presenza ingombrante e intimidatoria. «Restiamo d'accordo di non farne parola a nessuno fino a quando non riceverò il rapporto del medico legale.»
«Perché non mi metti dentro?»
«Perché tu, Miles, sei il mio assistente in questo caso» disse risalendo in macchina. «Nel frattempo dormi un po'. Hai una faccia!» Mentre faceva inversione vidi le sue labbra incresparsi in un sorriso perfido e soddisfatto.
Mi svegliai nel cuore della notte. Alison Greening era seduta su una sedia ai piedi del letto. Riuscivo a malapena a distinguerne il volto e la sagoma del corpo alla luce della luna. Avevo paura, non so per quale motivo, ma temevo per la mia vita. Lei non fece nulla. Mi drizzai a sedere sul materasso. Mi sentivo terribilmente nudo, indifeso. Lei sembrava incredibilmente normale, come una qualsiasi giovane donna. Mi guardava con un'espressione placida e immota. Per un attimo pensai che non era possibile che una persona così normale potesse essere responsabile dello sconvolgimento della mia vita e delle tragedie accadute nella contea. Il suo volto sembrava di cera. All'improvviso sentii riesplodere in me la paura. Aprii la bocca, ma prima che riuscissi a parlare lei scomparve.
Mi alzai, toccai la sedia, attraversai la casa e andai nel mio studio. Le carte erano sul pavimento, il cestino era vuoto. Lei non era lì.
La mattina dopo tracannai mezza pinta di latte; il pensiero del cibo mi disgustava e sapevo che dovevo andarmene. Rinn aveva avuto ragione fin dall'inizio. Dovevo lasciare la valle. La vista di lei pacificamente seduta sulla sedia ai piedi del letto, il viso illuminato dai raggi pallidi della luna, mi avevano sconvolto più dell'aggressione forsennata di cui ero stato vittima nello studio. Ripensai al suo volto, cereo ed esangue nella luce tenue, e non vi riconobbi alcuna emozione a me familiare. Ogni minima traccia di emozione vi era stata cancellata. C'era meno vita in quel volto che in una maschera. Rimisi a posto la bottiglia del latte, controllai se avevo i soldi e le chiavi, ed uscii al sole. Sull'erba brillava ancora la rugiada.
Devo prendere la superstrada 93 fino a Liberty, pensai, poi proseguire fino a La Crosse, attraversare il ponte e dirigermi verso una cittadina qualsiasi dove abbandonare la mia auto e telegrafare alla New York Chemical per farmi mandare dei soldi con cui comprarne una usata. Sarei potuto andare nel Colorado, o nel Wyoming, dove nessuno mi conosceva. Imboccai la strada della valle e accelerai, diretto verso la superstrada.
Mentre passavo davanti alla chiesa, notai nello specchietto retrovisore una macchina che procedeva alla mia stessa velocità. Provai ad accelerare, e la macchina che mi seguiva accelerò a sua volta, mantenendo invariata la distanza fra di noi. Sembrava il preludio di quell'orribile notte in cui l'avevo persa, la notte della nostra promessa. Ad un certo punto, l'auto mi raggiunse. Vidi le strisce bianche e nere e capii che si trattava di una macchina della polizia. Se è Orso Polare, pensai, giuro che scendo e lo meno senza tanti preamboli. Premetti l'acceleratore a tavoletta e sterzai bruscamente per imboccare la curva all'altezza della rupe di pietra arenaria. La carrozzeria iniziò a vibrare. La berlina della polizia mi superò costringendomi ad accostare al ciglio della strada. Svoltai nel parcheggio di Andy's e aggirai le pompe di benzina. L'auto della polizia, però, mi precedette e si fermò in modo da bloccarmi l'uscita. Mi guardai intorno, con l'intenzione di fare retromarcia ed inversione, ma con quella vecchia cariola non avevo alcuna possibilità di seminare l'altra macchina.
Così decisi di spegnere il motore e di scendere. L'uomo alla guida aprì lo sportello e uscì. Era Dave Lokken. Si avvicinò senza togliere la mano dalla fondina della pistola.
«Bella corsettina.» Stava imitando Orso Polare, persino nella camminata dinoccolata. «Dove credeva di andare?»
Mi appoggiai alla carrozzeria bollente della Nash. «A far spese.»
«Non penserà mica di squagliarsela, vero? Sono due giorni che sto davanti a casa sua per assicurarmi che un'idea del genere non la sfiori nemmeno.»
«Mi stava pedinando?»
«Lo faccio solo per il suo bene» rispose sogghignando. «Il Capo dice che ha bisogno di aiuto. E io voglio aiutarla a restare dove possiamo tenerla sotto controllo. Il medico legale dovrebbe chiamare il Capo fra poco.»
«Guardi che non sono io la persona che state cercando» dissi. «Si fidi, è la verità... la pura e semplice verità.»
«Scommetto che fra un po' mi dirà che è stato Zack, il ragazzo di Hovre. L'ho sentita, sa, un paio di sere fa. Ma non ci provi: sarebbe come puntarsi una pistola alla tempia. Quel ragazzo è tutta la sua famiglia. E adesso faccia dietro-front che la scorto fino a casa.»
Mi tornò in mente la maschera pallida che mi fissava ai piedi del letto. Alzai lo sguardo verso le finestre del negozio di Andy. Andy e sua moglie ci stavano guardando, lei con orrore, lui con disprezzo.
«Andiamo, mi accompagni a restituire l'auto» dissi, voltandomi verso il poliziotto.
Feci alcuni passi e poi mi fermai. «Come reagirebbe se le dicessi che il suo capo ha violentato e ucciso una ragazza? Venti anni fa.»
«Direi che va in cerca di guai. Proprio come ha fatto dal primo momento che ha messo piede nella valle.»
«E come reagirebbe se le dicessi che la ragazza che lui ha violentato...» Mi voltai, notai l'espressione irata della sua faccia da bifolco, e tacqui. Puzzava di gomma bruciata. «Vado ad Arden» dissi. «Mi stia dietro.»
Mi seguì fino in città. Dallo specchietto retrovisore vidi che ogni tanto comunicava con la centrale. Quando mi fermai al garage per parlare con Hank Speltz lui parcheggiò dalla parte opposta della strada e rimase in macchina. Il meccanico mi disse che le "riparazioni" alla Volkswagen mi sarebbero costate cinquecento dollari, ma io rifiutai di pagare un simile prezzo. Allora lui infilò le mani nelle tasche della tuta e mi guardò con odio. Gli chiesi cosa avesse fatto. «Ho dovuto ricostruire quasi tutto il motore, e riparare quello che non potevo ricostruire. E ho messo anche le cinture nuove.»
«Hai voglia di scherzare» dissi. «Scommetto che non riusciresti a ricostruire nemmeno una sigaretta.»
«O lei paga o la macchina resta qui. O preferisce che chiami la polizia?»
«Ti do cinquanta dollari, non uno di più. Non mi hai nemmeno fatto la nota spese.»
«Cinquecento. Qui non si usano le note spese. Dalle nostre parti si va sulla fiducia.»
Quel giorno avevo deciso di sfidare la sorte fino in fondo. Non avevo nessuna intenzione di dargliela vinta. Attraversai la strada, aprii lo sportello di Lokken, e gli chiesi di seguirmi al garage. Dalla sua faccia, mi resi conto che Hank Speltz si era amaramente pentito di aver nominato la polizia.
«Bene» disse il meccanico dopo che ebbi costretto Lokken ad ascoltare il succo della nostra discussione. «Se sapevo che andava così, mi facevo pagare in anticipo.»
Lokken lo guardò con disprezzo.
«Ti do trenta sacchi» dissi.
Speltz sbottò: «Aveva detto cinquanta.»
«Ho cambiato idea.»
«Fagli la fattura per trenta» intervenne Lokken. Il ragazzo scomparve nell'ufficio del garage.
«È buffo» dissi a Lokken, «in questo paese non puoi fare niente di male se hai un poliziotto accanto.»
Lokken si allontanò con passo pesante, e Speltz riapparve, mugugnando che solo i finestrini nuovi gli erano costati più di trenta dollari.
«Adesso fammi il pieno. Pago con la carta di credito.»
«Non accettiamo carte di altri stati.»
«Lokken!» urlai. Il poliziotto si sporse dal finestrino.
«Zitto!» mi pregò il ragazzo. Portai la macchina alla pompa e lui mi fece il pieno; poco dopo tornò con tutto l'occorrente per addebitarmi l'importo attraverso la carta di credito.
Quando mi immisi sulla strada, Lokken mi si affiancò e si sporse per parlarmi. «Ho ricevuto nuove istruzioni dal capo. Pare che non la debba più pedinare.» Detto questo fece inversione e si allontanò sgommando lungo la Main Street, in direzione della stazione di polizia.
Non appena premetti l'acceleratore per risalire la collina, capii subito che cosa intendeva Hank Speltz quando aveva detto di aver ricostruito il motore: alla prima accelerata, con un paio di sussulti, la macchina si spense. Dovetti accostare e aspettare diversi minuti prima che ripartisse. La cosa si ripeté mentre risalivo la seconda collina dove sorge il termometro del Fondo della Comunità, e di nuovo mentre discendevo l'ultimo pendio prima di immettermi nella superstrada. Si spense per la quarta volta quando entrai nel vialetto della fattoria e allora decisi di lasciarla sul prato.
Nel posto dove parcheggiavo di solito, di fronte al garage, c'era un'altra auto della polizia, con la stella del Capo dipinta sulla fiancata.
Mi avviai verso la figura che indovinavo seduta sull'altalena della veranda. «È andato tutto bene alla stazione di servizio?» mi chiese Orso Polare.
«Che cosa ci fai qui?»
«Buona domanda. Entra che ne parliamo.» Aveva in parte calato la maschera. La sua voce era piatta e stanca.
Entrai nella veranda e vidi che Orso Polare era seduto vicino ad una pila di miei abiti. «Davvero geniale!» esclamai. «Porta via a un uomo i suoi vestiti e lui non potrà andare da nessuna parte. Roba da manuale.»
«Parleremo dei vestiti fra un attimo. Siediti.» Quello non era un invito, ma un ordine. Mi diressi verso la sedia in fondo alla veranda e là mi sedetti.
«Il medico legale mi ha telefonato un paio di ore fa. Pensa che la Michalski sia morta giovedì. Più o meno ventiquattro ore dopo che Paul Kant si è ucciso.»
«Il giorno prima che la trovaste.»
«Esatto.» Stava facendo uno sforzo enorme per contenere la sua rabbia. «Siamo arrivati con un giorno di ritardo. E molto probabilmente non l'avremmo nemmeno trovata se qualcuno non avesse deciso di farci sapere che a te piaceva andare in quel bosco. Forse anche Paul Kant sarebbe vivo se fossimo arrivati lì prima.»
«Vuoi forse dire che non è stato ucciso dai vigilantes di Arden?»
«D'accordo.» Si alzò e venne verso di me. Le travi scricchiolarono sotto i suoi passi pesanti. «D'accordo, Miles. Direi che ti sei divertito anche troppo. Hai sparato accuse contro tutti, senza nessuna prova. Ma adesso basta giocare. Perché non ti chiarisci bene le idee e mi fai una bella confessione?» Sorrise. «Questo è il mio lavoro, Miles. Sono stato molto paziente con te, e molto cauto. Non voglio che un astuto avvocato ebreo di New York venga qui a dirmi che ho calpestato tutti i tuoi diritti.»
«Voglio che tu mi metta dentro» ribattei.
«Lo so. Te l'avevo già detto parecchi giorni fa. Ma c'è ancora una piccola cosa che devi fare per metterti in pace con la tua coscienza.»
«Io penso...» balbettai, ma la gola mi si serrò. «So che può sembrare pazzesco, ma credo che sia stata Alison Greening ad uccidere quelle ragazze.»
Hovre aveva le vene del collo gonfie di rabbia. «E stata lei a scrivere, cioè a mandarmi quelle lettere in bianco. Quella che ti ho fatto vedere, e anche l'altra. L'ho vista, Orso Polare. È tornata. La notte in cui è morta facemmo un giuramento. Giurammo che ci saremmo incontrati qui nella valle nel 1975. È per questo che io sono tornato e... e anche lei è qui. L'ho vista. Vuole portarmi via con sé. Lei odia la vita. Rinn lo sapeva. Lei...»
Mi accorsi con terrore che Orso Polare stava per esplodere. Si mosse con una rapidità che non avrei neanche sospettato in un uomo della sua stazza, e sferrò un calcio potente contro la mia sedia. Rotolai a terra. Partì un altro calcio, che mi colpì il fianco.
«Tu, stupido, dannato idiota!» urlò. Fui investito dall'odore di polvere da sparo. Poi Hovre mi diede un calcio alla bocca dello stomaco, costringendomi a piegarmi su me stesso. Alcune schegge delle travi della veranda mi si conficcarono in una guancia. Come la notte in cui era morto Paul Kant, Orso Polare si chinò su di me. «Hai intenzione di farla franca spacciandoti per pazzo? Ti racconto io quel che c'è da sapere su quella puttana di tua cugina, Miles. Perché io ero lassù quella notte. Tutti e due c'eravamo. Duane ed io. Ma Duane non l'ha violentata. Sono stato io, io solo. Duane era troppo impegnato a stenderti a cazzotti.» Stavo cercando disperatamente di riprendere fiato. «L'ho colpita alla testa dopo che Duane ti ha steso con quella pietra. Poi l'ho presa. Non desiderava altro. Lottava e si dimenava solo perché c'eri tu.» Mi afferrò per i capelli e poi mi sbatté la testa contro il pavimento. «Ho scoperto che aveva perso i sensi solo alla fine. Quella maledetta cagna mi aveva preso in giro per tutta l'estate. Magari avevo anche intenzione di ucciderla. Non lo so. So solo che ogni volta che pronunciavi il nome di quella sgualdrina ti avrei ucciso, Miles. Non avresti dovuto tirare di nuovo in ballo questa dannata storia.» Mi sbatté di nuovo la testa contro le assi di legno. «Non avresti dovuto farlo!» Mollò la presa e inspirò rumorosamente. «Comunque risparmiati la pena di andarlo a raccontare in giro, perché nessuno ti crederebbe. Lo sai, vero?» Sentivo il suo respiro ansante. «Vero?» Mi riafferrò per i capelli e mi mandò di nuovo a sbattere contro il pavimento. Poi disse: «Andiamo dentro, non voglio che ci vedano.» Mi sollevò, mi trascinò in casa e mi mollò sull'impiantito. Sentii un dolore lancinante al naso e alle orecchie. Respiravo a fatica.
«Arrestami» lo supplicai. Sentii la mia voce ansimante. «Mi ucciderà.»
«Troppo facile, Miles.» Udii i suoi passi sul pavimento e mi irrigidii, in attesa di un altro calcio. Poi intuii che andava in cucina. L'acqua scrosciò. Aprii gli occhi. Stava tornando con un bicchiere d'acqua in mano.
Si sedette sul vecchio divano. «Vorrei sapere una cosa. Che cos'hai provato quando hai visto Paul Kant la notte in cui è morto? Che cosa hai provato guardando quel miserabile finocchio e sapendo che era tutta colpa tua?»
«Non sono stato io» protestai con voce rotta.
Hovre emise un grosso sospiro. «Sei tu che mi costringi a ricorrere alle maniere forti. Che cosa mi dici del sangue sui tuoi vestiti?»
«Quale sangue?» Riuscii a drizzarmi a sedere.
«Il sangue sui tuoi vestiti. Ho guardato nel tuo armadio. C'erano un paio di calzoni insanguinati ed un paio di scarpe con macchie, presumibilmente di sangue, sulla tomaia.» Appoggiò il bicchiere sul pavimento. «Li porto al laboratorio di Blundell per vedere se il sangue è dello stesso gruppo di quello delle ragazze. Candice Michalski e Gwen Olson avevano il gruppo AB, Jenny Strand O.»
«Sangue sui miei vestiti? Ah, sì. Dev'essere stato quando mi sono tagliato la mano. Il giorno che sono arrivato qui. Mi deve essere gocciolato sulle scarpe mentre guidavo. È per questo che i miei calzoni sono macchiati.»
Hovre scosse la testa.
«E io ho il gruppo AB» aggiunsi.
«Come mai lo sai, Miles?»
«Mia moglie era un'anima pia. Ogni anno donavamo mezzo litro di sangue al centro donatori di Long Island City.»
«Long Island City.» Scosse di nuovo il capo. «E sei AB?» Si alzò dal divano e mi passò accanto, diretto alla veranda.
«Miles, se hai la coscienza davvero pulita, perché ti dai tanta pena per farti mettere dentro?»
«Te l'ho già detto» risposi.
«Cristoo!» Andò a prendere i miei pantaloni e le mie scarpe. Sentii una fitta alla testa prima ancora che si avvicinasse. «Adesso ti spiego come vanno le cose a questo mondo» mi disse. «La voce comincerà a girare, e io non farò niente per impedirlo. Non dirò nemmeno a Lokken di starsene seduto tutto il giorno su quel suo grasso culo per farti la guardia. Se qualcuno vorrà venire a trovarti, per me va benissimo, io non ho niente da ridire. Un po' di sana legge della giungla non mi dà nessunissimo fastidio. Caro mio, preferirei quasi vederti morto che in galera. E non credo che tu sia tanto stupido da pensare di poterla fare franca. Ho ragione o no? In ogni caso, non faresti molta strada con quel rottame d'auto.» Il suo piede si fermò a un centimetro dalle mie costole. «Hai capito?»
Annuii.
«Ci sentiamo presto, Miles. Molto presto. Sono sicuro che riusciremo ad avere quello che vogliamo, tutti e due.»
Rimasi per un'ora nella vasca da bagno, ad aspettare che il dolore si sciogliesse fra i vapori dell'acqua calda; poi salii di sopra e scrissi per diverse ore, finché non mi accorsi che fuori stava facendo buio. Sentii Duane che sbraitava con sua figlia. La sua voce si alzava e si abbassava, monotona, arrabbiata, insistente ma non riuscivo a capire il motivo della sua sfuriata. Duane e la luce dell'imminente crepuscolo mi impedivano di lavorare. Non avrei retto a un'altra notte nella fattoria: continuavo a vederla, seduta sulla sedia ai piedi del letto, mentre mi fissava con quel suo sguardo vuoto, quasi inebetito, simile ad una statua di cera, come se quello che io vedevo non fosse che un guscio spesso un millimetro dietro il quale si celavano fuochi fatui e volute di gas. Poggiai la penna sulla scrivania, afferrai una giacca dall'armadio e uscii.
Stava rapidamente imbrunendo. Nubi scure si muovevano nel cielo immenso. Sopra di loro si stagliava una luna pallida, quasi trasparente. Ebbi l'impressione che un singolo dardo di vento gelido fosse stato scoccato dall'alto, dai boschi scuri verso la casa. Rabbrividendo salii sulla vecchia Volkswagen.
Inizialmente pensai di andarmene in giro per le strade di campagna finché il sonno non avesse avuto la meglio su di me e fossi crollato addormentato sul volante. Poi considerai che sarei potuto andare da Freebo's, a comprarmi l'oblio. In fondo, non mi sarebbe costato più di dieci dollari, un buon affare, senz'altro il migliore che avrei potuto fare ad Arden. Imboccai la 93 e mi diressi verso la città. Ma quale accoglienza avrei trovato da Freebo's? Sicuramente tutti ormai sapevano della perizia del medico legale. Ai loro occhi io non ero altro che un mostruoso paria. O un essere immondo da eliminare. In quel momento l'auto si spense. Maledii Hank Speltz. Di mettere le mani nel motore non se ne parlava neanche; non ci capivo un'acca. Immaginai che cosa sarebbe stato il viaggio di ritorno a New York alla velocità costante di trentacinque miglia orarie. Avevo bisogno di un altro meccanico; il che significava spendere quasi tutto quello che mi rimaneva sul conto. Poi mi ritornò in mente la faccia cerea che celava fuochi fatui e volute di gas, e pensai che avrei dovuto considerarmi già fortunato se fossi riuscito ad arrivarci vivo a New York.
Quella notte invocai la pietà, poi mi appellai alla violenza.
Alla fine riuscii a far partire di nuovo la macchina.
Mentre percorrevo una strada periferica di Arden scorsi una figura familiare dietro il vetro illuminato di una finestra. Frenai all'istante e balzai fuori dalla VW prima ancora che il motore si spegnesse. Attraversai di corsa l'asfalto nero e il prato, e mi precipitai a suonare il campanello dei Bertilsson.
Venne lui ad aprire la porta. Non appena mi vide gli si dipinse sul volto un'espressione di sorpresa. La sua faccia sembrava una maschera, proprio come quella di lei. Ignorò la moglie che alle sue spalle chiedeva chi fosse alla porta.
«Molto bene» disse sogghignando. «Sei venuto per ricevere la mia benedizione? O per confessarti?»
«Voglio che lei mi faccia entrare. Voglio che lei mi protegga.»
Il viso di sua moglie fece capolino al di sopra della sua spalla, da un'apertura della casa che non riuscii ad individuare, forse un angolo o una porta. Non appena mi riconobbe avanzò con passo marziale verso l'uscio.
«Abbiamo sentito la storia raccapricciante della morte della figlia di Michalski» disse lui. «Hai proprio un bel senso dell'umorismo, a venire qui, Miles.»
«Vi prego, fatemi entrare. Ho bisogno d'aiuto!»
«Il mio aiuto è riservato a quelli che sanno che uso farne.»
«Ma io sono in pericolo! La mia vita è in pericolo!»
«Che cosa vuole? Digli di andarsene» sbraitò sua moglie fissandomi con sguardo impietoso.
«Credo che voglia chiederci di ospitarlo qui questa notte.»
«Ma non è vostro dovere aiutare il prossimo?»
«È nostro dovere aiutare tutti i cristiani» rispose lui. «Ma tu non sei un cristiano, tu sei un mostro.»
«Digli di andarsene.»
«Vi prego!»
«Hai voluto disprezzare il nostro consiglio quando ti abbiamo incontrato in città, e adesso noi non abbiamo nessun obbligo nei tuoi confronti. Ci stai forse chiedendo di dormire qui?» La voce della signora Bertilsson era dura e tagliente.
«Solo per questa notte.»
«E credi che io riuscirei a dormire con te in casa? Chiudi la porta Elmer.»
«Aspettate...»
«Un mostro» sibilò Bertilsson sbattendo la porta. Un secondo dopo sua moglie chiuse le tende della finestra.
Ero disperato. Un disperato che non poteva né dare né ricevere aiuto. Non riuscivo nemmeno a farmi arrestare!
Guidai fino alla Main Street e fermai la macchina in mezzo alla strada deserta. Suonai il clacson una volta, poi due. Appoggiai un attimo la fronte sul volante, poi aprii lo sportello. Percepii il ronzio di un'insegna al neon, poi un battito d'ali in cielo. Scesi e rimasi fermo accanto alla macchina. Intorno a me tutto era immobile, privo di vita. I negozi erano bui, le auto parcheggiate su entrambi i lati della strada, con il muso puntato verso il marciapiede, sembravano un gregge dormiente. Urlai. Nemmeno l'eco mi rispose. Anche i due bar sembravano deserti, nonostante le insegne luminose fossero ancora accese. Attraversai la strada diretto verso Freebo's. Avvertii la presenza dell'orrore blu dei miei sogni intorno a me.
Una pietra grande quanto una patata era rimasta incastrata nella griglia di un tombino accanto al marciapiede. Forse era una delle pietre che mi avevano tirato addosso. La raccolsi e la soppesai prima di scagliarla contro la vetrata rettangolare del bar. Ripensai a quando scagliavo i bicchieri contro le pareti di casa mia, nei giorni infuocati del mio matrimonio. Con un rumore assordante i vetri caddero in frantumi sul marciapiede.
Tutto tornò come prima. Io ero in piedi, fermo in mezzo alla strada vuota: le insegne dei negozi erano ancora accese, nessuno urlava, nessuno correva verso di me. L'unico rumore percepibile era il ronzio dell'insegna. Dovevo a Freebo circa cinquanta dollari, ma sapevo che non sarei mai stato in grado di pagarlo. Sentivo l'odore della polvere e dell'erba, gli odori che il vento portava dalla campagna. Immaginai gli uomini dentro il bar, fuggiti lontano dalla vetrata rotta, impazienti di sentirmi andare via. Lì dentro, con i tavoli sfregiati, il juke-box, le scritte luminose delle birre, tutti immobili ed inquieti in attesa che io scomparissi. La mia ultima, ultimissima chance.
La mattina del ventuno mi svegliai sul sedile posteriore della VW. Mi era stato concesso di sopravvivere anche a quella notte. Urla rabbiose provenivano dalla casa di mio cugino Duane, ma in quel momento i suoi problemi con sua figlia mi sembravano terribilmente distanti, come se sia lui sia le sue difficoltà domestiche appartenessero ad un altro mondo. Mi sporsi sul sedile anteriore, aprii lo sportello, spinsi lo schienale in avanti e scesi. La schiena mi faceva male e sentivo un dolore acuto e continuo dietro gli occhi. Quando guardai l'orologio vidi che mancavano ancora tredici ore al crepuscolo. Non sarei sfuggito al mio destino; non avevo scampo. Quel giorno, il mio ultimo giorno, faceva caldo e il cielo era terso. Nel campo attiguo alla fattoria, la giumenta appoggiò la testa sullo steccato e mi rivolse uno sguardo placido. L'aria era immobile. Un grosso tafano iridescente si mise a ronzare sul tetto dell'auto, attratto dagli escrementi degli uccelli. Ogni cosa, intorno a me, sembrava prepararsi alla venuta di Alison, tasselli di un puzzle che si sarebbe composto prima di mezzanotte.
Pensai: se torno in macchina e cerco di scappare lei mi fermerà. Rami e foglie avrebbero oscurato il parabrezza, sinuosi rampicanti avrebbero intrappolato l'acceleratore. Ad un tratto ebbi una visione chiarissima di quanto sarebbe accaduto: per un istante, vidi l'interno familiare della Volkswagen soffocato da un intreccio convulso di fronde e trattenni a stento un conato di vomito all'odore dolciastro della linfa. Staccai le mani dal tetto e mi allontanai dalla macchina.
Mi chiesi come avrei fatto a sopportare quella tensione per tutte quelle ore. Dove mi avrebbe sorpreso il suo arrivo?
Con la disperata temerarietà del soldato che sa che la battaglia sta per infuriare, nonostante lui non sia pronto ad affrontarla, decisi quello che avrei fatto non appena fosse calata la sera. C'era un solo posto in cui mi sarei potuto trovare quando fosse accaduto. Avevo atteso per vent'anni e sapevo dove avrei aspettato che si compisse l'atto finale, quando il frastuono del vento impetuoso avrebbe annunciato la sua venuta e gli alberi del bosco avrebbero fatto largo per liberarla, affinché anche la mia violenta liberazione avesse luogo. Non avevo più chance.
Il tempo passò. Per un po' gironzolai frastornato intorno alla fattoria, chiedendomi di tanto in tanto come mai Tuta Sunderson non si fosse presentata al lavoro, per poi ricordarmi, all'improvviso, che l'avevo licenziata il giorno avanti. Ad un certo punto mi sedetti sul vecchio divano del salotto e piombai, fisicamente, nel passato. Mia nonna stava infilando un tegame nel forno, Oral Roberts pontificava alla radio, Duane batteva le mani, seduto su una sedia in un angolo buio; aveva vent'anni e portava i capelli pettinati alti. Alison Greening, quattordici anni, magicamente piena di vita, apparve sulla soglia (camicia da uomo, pantaloni color ruggine, una promessa di rivelazioni sessuali che elettrizzava l'aria intorno a lei) e attraversò la stanza con passo furtivo. Mia madre e la sua chiacchieravano sulla veranda; le loro voci erano calme e annoiate. Vidi Duane che lanciava un'occhiata d'odio a mia cugina.
Poi mi ritrovai in camera da letto, senza però ricordare di aver salito le scale. Stavo fissando il letto. Mi riaffiorò alla mente la sensazione dei seni contro il mio torace, prima piccoli, poi grandi, e quella, sconcertante, di essere penetrato nel corpo di un fantasma. Lei era al piano inferiore: sentii i suoi passi leggeri che attraversavano il salotto, poi la sentii chiudere con decisione la porta della veranda.
Ti sei messo nei guai anche l'anno scorso. Ero diventato paonazzo. L'estate sta per finire, mio caro. Andai nel mio studio e vidi i fogli traboccare dal cesto. Non mi risulta che gli uccelli tossiscano. Non riuscivo ad immaginare che un solo, possibile epilogo. Lei mi aveva in pugno. Eppure, nei miei ricordi, io la sentivo attraversare il salotto con passo leggero. Mi sembrava di essere avvolto nella bambagia, di muovermi in mezzo alla melassa, ad una polvere spessa...
Ritornai in camera da letto e mi sedetti sulla sedia ai piedi del letto. Avevo perso tutto. Avevo la sensazione di avere una maschera sul viso, una maschera che mi sembrava di poter staccare come la poltiglia verde di Rinn. Anche quando cominciai a piangere capii che i miei lineamenti erano inespressivi e vacui come i suoi la notte in cui mi aveva fissato con indifferenza da quella stessa sedia. Lei era entrata di nuovo dentro di me, è di sotto che beve Kool-Aid, in quella bolla del tempo che è il 1955, ed è in attesa.
Alcune ore più tardi, sono seduto alla mia scrivania, intento a guardare fuori dalla finestra, quando sento Alison Updhal urlare. Un attimo dopo, mentre i miei sensi si risvegliano dal torpore, la vedo precipitarsi lungo il vialetto che porta al granaio. Ha la maglietta strappata sulla schiena, come se qualcuno l'avesse afferrata e trattenuta contro la sua volontà, e i brandelli di stoffa sventolano nell'aria mentre lei corre. Raggiunto il granaio non si ferma, ma vi gira attorno, scavalca la recinzione di filo spinato e corre su per il pendio erboso verso il bosco che ammanta quel versante della valle. È il bosco in cui, armati di badile, Alison Greening ed io eravamo andati a cercare i tumuli degli Indiani. Nel momento in cui, dopo esser giunta in cima ad una piccola altura, comincia a correre verso una conca traboccante di fiori gialli, la Regina Guerriera si sfila la maglietta strappata e la getta alle sue spalle. In quello stesso istante io sento che sta piangendo.
Poi si anima una scena secondaria, più vicina: vedo Duane, con gli abiti da lavoro, che cammina con passo indeciso lungo il sentiero. Sottobraccio porta un fucile, ma sembra a disagio. Avanza di qualche metro, il fucile puntato in avanti, poi si ferma, lo guarda e mi volta le spalle. Ancora qualche passo, poi si volta di nuovo e riprende ad avanzare verso di me. Ancora un'occhiata al fucile. Compie altri tre passi, poi sospira; scorgo il movimento delle spalle che si sollevano e poi si abbassano. Getta il fucile fra le erbacce vicino al garage. Leggo sulle sue labbra la parola puttana. Lancia un'occhiata alla vecchia fattoria, come se desiderasse vederla avvolta dalle fiamme. Poi alza gli occhi verso la finestra e mi vede. Sento immediatamente l'odore di polvere da sparo e di carne bruciata. Dice qualcosa, agita le braccia, ma i vetri mi impediscono di udire le sue parole e io spalanco la finestra.
«Vieni fuori» mi dice. «Che Dio ti maledica, Miles, vieni fuori!»
Scendo le scale ed esco sulla veranda. Lui cammina avanti e indietro su quel che resta del prato, le mani sprofondate nelle tasche della tuta, la testa china. Quando mi vede, sferra un calcio potente a un cumulo di terra sollevata dalla ruota di una macchina. «Lo sapevo» urla con voce rauca e soffocata. «Maledizione alle donne! E maledizione a te!»
La sua faccia sembra sul punto di esplodere. Non sembra più preda della furia di prima, bensì di quella rabbia sorda e repressa con cui alcuni giorni prima l'avevo visto misurarsi nella rimessa, mentre prendeva il trattore a martellate. «Tu sei un essere sudicio! Schifoso! E hai sporcato anche lei! Tu e Zack, l'avete resa sudicia come voi!»
Esco dalla veranda mentre calano le prime ombre della sera. Duane ribolle di rabbia. Toccarlo significherebbe ustionarsi le mani. Anche se la mia mente è annebbiata, anche se non riesco a fare a meno di pensare a quello che succederà fra quattro o cinque ore, sono colpito dalla violenza del confuso stato emotivo in cui versa Duane. Il suo odio è quasi tangibile, soffocato come un fuoco sotto una coperta.
«Ho visto che hai gettato via il fucile» dico io.
«Hai visto che ho gettato via il fucile» risponde lui facendomi il verso. «Hai visto che ho gettato via il fucile. Fottutissimo bastardo. Non pensi che mi bastino le mani per farti fuori?» Ancora un minimo aumento della pressione dietro la pelle paonazza del viso, ed ero certo che la sua faccia sarebbe esplosa, disintegrandosi in una miriade di frammenti. «Ehi! Non crederai mica di cavartela così facilmente, vero?»
Perché, che cosa ho fatto? vorrei chiedergli, ma la sua disperazione mi sgomenta.
«Bene, sappi che non sarà così.» Non riesce a controllare il tono della voce e le ultime parole gli escono in falsetto. «Lo sai che cosa ti faranno in galera, maledetto pervertito? Ti ridurranno in poltiglia. E tu invocherai la morte con tutto il tuo cuore. Oppure, chi lo sa, magari ti rinchiudono in un manicomio. Comunque, dovunque ti sbattano, il tuo destino è quello di marcire. Marcire! E quando al mattino aprirai gli occhi maledirai di essere ancora vivo. Ed è giusto, perché tu non meriti di morire.»
La portata del suo odio mi terrorizza.
«Oh sì, Miles, andrà proprio a finire così. Dovevi tornare qui, vero? A sbattermi davanti agli occhi la tua dannatissima faccia, la tua dannatissima laurea? Bastardo. Ho dovuto picchiarla perché parlasse, ma me l'ha detto. L'ha ammesso.» Duane mi si avvicina, distinguo tutti i colori che si alternano sul suo viso. «Quelli come te sono convinti di poterla sempre fare franca, non è vero? Pensate che le ragazze non abbiano mai il coraggio di parlare.»
«Non c'è niente di cui parlare.» Finalmente ho capito a che cosa si riferisce.
«Tuta l'ha vista. Tuta l'ha vista uscire. L'ha detto al mio amico Red, e lui l'ha detto a me. Lo so, Miles, lo so. Tu l'hai inzozzata. Mi fa schifo guardarti.»
«Io non ho violentato tua figlia, Duane» protesto io, incapace di credere che tutto questo stia realmente accadendo.
«Questo lo dici tu. Allora dài, raccontami che cosa è successo secondo te. Avanti, fottuto figlio di puttana. Sei bravo, tu, con le parole, sai parlare bene. Su, dimmi com'è andata.»
«E stata lei a venire da me. Non gliel'ho chiesto io. Io non volevo che accadesse. È entrata nel mio letto. È stata usata da qualcun altro.»
Naturalmente Duane mi fraintende. «Da qualcun altro....»
«È stata usata da Alison Greening.»
«Maledizione, maledizione, maledizione!» Tira fuori le mani dalle tasche e si percuote la testa. «Quando ti sbatteranno dentro a marcire, brucerò questo maledetto posto, lo raderò al suolo con un bulldozer ... E voi dannata gente di città potrete andare tutti quanti all'inferno!» Riesce a calmarsi un po'. Allontana i pugni serrati dalle tempie e mi fissa con uno sguardo di fuoco. Per la prima volta mi accorgo che lui e la figlia hanno lo stesso colore di occhi, ma i suoi sembrano pieni di una luce astratta, come quelli di Zack.
«Perché non mi hai sparato?»
«Perché sarebbe stato troppo comodo per te. Tu non sei tornato qui, a sollevare quest'inferno, solo per farti uccidere. Ti meriti le torture peggiori di questo mondo.» Il suo sguardo si era fatto incandescente. «Non credere che non sappia di quell'altro schifoso di Zack. Io lo so che lei di notte scappa di nascosto dalla finestra. Tu non sai niente che io non sappia già, anche se tu alle donne paghi da bere e tutto il resto. Ho le orecchie anch'io. La sento quando rientra la mattina, quella sgualdrina, uguale a tutte le altre del suo sesso. A cominciare da quella di cui porta il nome. Sono tutte sporche. Animali. Dieci di loro non valgono un solo uomo. Non so perché diavolo mi sono sposato. Con quella puttana polacca avevo già imparato tutto quello che c'era da sapere sulle donne. Sono sporche, come te. Lo sapevo che non sarei riuscito a tenerla lontana da te. Le donne sono tutte uguali. Ma tu me la pagherai.»
«Mi odi così tanto a causa di Alison Greening?» gli chiesi. «E per che cosa dovrei pagare?»
«Per il fatto di essere quello che sei.» La sua voce è decisa, come se la spiegazione di tutto stesse in quella frase. «È finita per te, Miles. Hovre ti sistemerà come si deve. Gli ho appena parlato. Ti restano al massimo ventiquattro ore. Se cerchi di scappare ti prenderanno.»
«Hai parlato con Hovre? Ha deciso di arrestarmi?» Comincio a sentirmi sollevato.
«Puoi scommetterci le palle.»
«Perfetto» esclamo, sbalordendo Duane. «Io non chiedo altro.»
«Gesù Maria!» sospira mio cugino.
«Alison Greening ritornerà questa notte. Non è più quella che era una volta... È una cosa orribile. Rinn aveva cercato di avvertirmi.» Fisso la faccia incredula di Duane. «È stata lei ad uccidere quelle ragazze. Io credevo che fosse stato Zack, ma adesso so che è stata Alison.»
«Smettila di pronunciare quel nome» grida Duane.
Gli volto le spalle e mi affretto verso la fattoria. Duane mi urla dietro qualcosa e io gli rispondo: «Vado dentro a chiamare Hovre.»
Mi segue e mi scruta con sospetto mentre faccio il numero della polizia. «Non ti servirà a niente» mormora, misurando la cucina a passi lunghi e lenti. «Non ti resta che aspettare, oppure montare in quel rottame e tentare la fuga. Hank dice che non tiene le quaranta miglia all'ora. Non riusciresti ad arrivare nemmeno a Blundell. Hovre ti prenderebbe prima.» Parla più a se stesso che a me. Fisso la sua schiena curva.
Il telefono dà il segnale di libero e da un momento all'altro mi aspetto di sentire la voce di Dave Lokken. Mi risponde Orso Polare. «Parla Hovre.»
«Sono Miles.»
Duane: «Con chi stai parlando? Con Hovre?»
«Orso Polare, sono Miles. Cosa ci fai ancora lì? Come mai non sei già qui?»
Silenzio sconcertante. Poi Hovre dice: «Toh, il buon vecchio Miles. Ho appena sentito parlare di te. Pare che tu non riuscissi proprio a fermarti. Scommetto che tuo cugino Duane è lì con te.»
«Sì, è qui.»
«Sì, accidenti, sono qui.»
«Bene, bene. Ho ricevuto i risultati dell'analisi del sangue. È AB! Però il laboratorio ha bisogno di un altro giorno per analizzarlo ancora e vedere se è di un uomo o di una donna.»
«Io non ho un altro giorno.»
«Mio caro Miles, io mi stupirei se ti restassero altri cinque minuti. Duane non ha portato con sé un calibro dodici? Glielo avevo detto io di portarselo dietro quando veniva a farti visita. In certi casi la legge può chiudere un occhio. Come si dice, a mali estremi...»
«Ascoltami, Orso Polare, io ti sto chiedendo di salvarmi la vita!»
«C'è chi pensa che tu saresti molto più innocuo da morto, Miles.»
«Lokken sa quello che stai facendo?»
Lo sento tossire. «Oggi Dave è dovuto andare dalla parte opposta della contea. Strano, no?»
«Digli di venire qui, subito» mi esorta Duane. «Non sopporto più l'idea che tu resti in questa casa.»
«Duane dice di venire subito.»
«Perché tu e Duane non continuate a chiacchierare? Mi sembra un'ottima idea.» Riattacca.
Mi volto, con il ricevitore ancora in mano, e vedo che mio cugino mi sta fissando, scoraggiato, il volto in fiamme. «Non viene, Duane. È convinto che tu voglia uccidermi. Anzi, vorrebbe che tu lo facessi. Ha spedito via Lokken, perché nessuno sappia che è stato lui ad organizzare la cosa.»
«Balle!»
«Non è stato lui a dirti di portare il fucile?»
«Certo. Lui crede che sia stato tu ad uccidere quelle ragazze.»
«Oh, non è solo questo. Orso Polare è infido. Mi ha detto di Alison Greening, mi ha raccontato quello che è successo quella notte su alla cava. Preferisce vedermi morto piuttosto che in galera. Se muoio, rimango colpevole degli omicidi, e in più non posso raccontare niente a nessuno.»
«Chiudi il becco, Miles!» urla Duane agitando le braccia. «Non voglio più sentirti pronunciare neanche una parola su quella storia.»
«Solo perché odi pensarci. Perché tu non sei riuscito a farlo. Perché tu non sei riuscito a violentarla.»
Duane schiuma, la faccia viola e tesissima. «Non sono venuto qui per parlare di questo. Voglio solo che tu confessi di aver infilato la parte più sudicia di te dentro mia figlia. Credi che mi sia divertito a picchiarla per farle sputare la verità?»
«Si.»
«Che cosa hai detto?»
«Ho detto di sì. Penso proprio che ti sia piaciuto.»
Duane si gira di scatto e preme con forza le mani contro il piano della credenza, spingendo con tutto il peso del corpo sulle braccia, proprio come l'avevo visto fare contro il motore del trattore. Quando si volta, fa del suo meglio per sorridermi. «Bene, ora so che tu sei pazzo. E questo spiega tutto. Forse dovrei ucciderti, come dici che vuole Hovre.»
«Sì, forse dovresti farlo.» Sono sconvolto dal tremendo sforzo che è costretto a fare per mantenere il controllo. La sua faccia ha perso ogni traccia di colore, sembra fatta di grumi d'argilla. E lui, che credevo imperturbabile e forte come un toro, sembra sul punto di sgretolarsi, di frantumarsi in mille pezzi.
«Perché mi hai permesso di ritornare qui?» gli chiedo. «Perché non mi hai scritto che la casa era già occupata? E perché hai fatto finta che la mia venuta ti facesse piacere?»
Non dice nulla, mi guarda. Ogni centimetro del suo corpo emana una rabbia sorda e repressa.
«Io sono innocente. Non c'entro con la morte di quelle ragazze, come non c'entro con la morte di Alison Greening» gli dico.
«Forse questo è stato il primo avvertimento che hai avuto» ribatte Duane. «Sappi che starò con le orecchie tese tutta la notte per controllare che tu non te la svigni con quella tua maledetta cariola. Quindi farai meglio a startene qui tranquillo finché Hovre non verrà a prenderti.» Poi un sorriso che sembra quasi sincero. «Sarà davvero un bello spettacolo.» Un pensiero gli attraversa la mente e la sua faccia grigia si scompone, si altera. «Per Dio, se avessi avuto il fucile con me ti avrei già fatto saltare il cervello.»
«Allora Alison Greening verrebbe a reclamare la tua vita questa notte.»
«Non serve a niente che tu finga di essere pazzo» replica Duane. «No, non ora.»
«No, non ora.»
Uscendo dalla fattoria Duane disse: «Lo sai, mia moglie era stupida come tutte le altre. Quella vacca se l'è voluta. Non riusciva nemmeno a far finta di essere un'unghia meglio di quello che era veramente. Non faceva altro che lamentarsi di quanto mi sporcavo nei campi, e io le rispondevo che il mio sporco non era niente rispetto al luridume che c'era nella sua testa. Speravo solo che mi desse un figlio.»
Quando l'oscurità cominciò a divorare l'orizzonte mi resi conto che mi restavano circa tre ore per raggiungere il posto dove avrei atteso l'arrivo di Alison Greening. Ci sarei dovuto andare a piedi, altrimenti Duane avrebbe sentito il rumore della macchina e avrebbe chiamato Hovre. Loro non avevano nulla a che vedere con il luogo in cui stavo andando. L'alternativa era aspettare nella fattoria e rimanere tutta la sera in ascolto per leggere in ogni minimo scricchiolio del legno un segno della sua venuta. No. Se aveva intenzione di comparire e di far scattare la trappola del nostro vecchio giuramento, tutto sarebbe avvenuto dove aveva avuto inizio, su alla cava Pohlson. Dovevo ritornarci da solo e rivederla come era la notte in cui tutto era cominciato, senza la Regina Guerriera e Zack; dovevo sentire di nuovo sotto i piedi i lastroni di pietra, piatti e freddi, e respirare l'aria della notte. Mi sembrava quasi che ritornando di nuovo lassù, sarei forse potuto ritornare indietro nel tempo e rovesciare il corso degli eventi: forse avrei ritrovato un'eco della ragazza viva e avrei potuto salvare me stesso e anche lei. Duane e le sue sfuriate, Orso Polare e le sue macchinazioni scomparivano alla luce di questa immensa opportunità. Cinque minuti dopo che Duane era uscito dalla fattoria, dimenticai entrambi. Tormentato dalla fame, Paul Kant aveva attraversato i campi. L'avrei fatto anch'io.
Mi ci volle poco più di un quarto del tempo che aveva impiegato Paul Kant. Mi limitai a camminare sul ciglio della strada, ricoperto di soffice erba, inseguendo il sole che lentamente moriva. Ad un tratto, un camion mi passò accanto sferragliando e io deviai in un campo di granoturco fino a quando non vidi scomparire i fanalini rossi dietro la curva. Avevo la sensazione di essere invisibile. Nessuna testa calda di camionista avrebbe potuto fermarmi, proprio come io non avrei potuto impedire a mia cugina di pretendere il rispetto del nostro giuramento. La paura mi elettrizzava i muscoli. Camminavo rapidamente, quasi senza avvertire la ghiaia sotto i piedi. In cima alla lunga strada tortuosa che risale la collina toccai il legno fradicio del cartello del Fondo della Comunità. Nella vallata buia brillavano le luci di una fattoria. Per un attimo provai l'ebbrezza di essere sul punto di spiccare un balzo e di volare: un sogno non-umano, un sogno di fuga. Mani fredde mi sfiorarono i fianchi e mi imposero di proseguire.
Ai piedi della pista che conduce alla cava, mi fermai a prender fiato. Erano le nove e qualche minuto. Nel cielo che imbruniva si stagliava la pietra bianca e inanimata della luna. Ripresi il cammino: ero il polo negativo di un magnete, il polo lunare. Costretti nelle scarpe da città, i miei piedi pulsavano. Il ramo solitario di una quercia si delineava con una nitidezza soprannaturale, quasi parlante. Un'energia titanica percorreva la pianta sotto l'involucro della corteccia. Mi sedetti su un masso di granito e mi sfilai le scarpe. Poi le lasciai cadere accanto alla roccia è, riscoperta la ragione dei miei passi, mi mossi. L'aria mi toglieva il respiro.
Camminando in punta di piedi, risalii la pista. Alla fine della salita la ghiaia lasciò il posto all'erba secca e io potei riappoggiare i talloni a terra. Di fronte a me si apriva una distesa marrone, piatta, delimitata all'orizzonte da cespugli morenti. Stava rapidamente annottando. Mi accorsi che tenevo la giacca a cavallo del braccio, e la misi sulle spalle. Alison Greening sembrava parte del paesaggio. Era incisa in ogni frammento di roccia, nelle venature di ogni singola foglia. Proseguii (l'atto più coraggioso di tutta la mia vita) e sentii l'invisibilità vibrare intorno a me.
Quando raggiunsi il limite opposto di quello spiazzo marrone era già calata la notte. Il passaggio dal crepuscolo alla notte era stato istantaneo, era durato una frazione di secondo. I miei piedi, avvolti solo nei calzini, si fermarono su una pietra liscia. Una vescica mi bruciava sul tallone. Il rossore cominciava ad invadere la gamba, lo vedevo risalire e chiazzarmi la pelle. Proseguii sull'erba marrone fino ai cespugli. La mia mente ondeggiò e io voltai di scatto la testa verso destra e vidi una coppia di fringillidi spiccare il volo nell'oscurità. La luna li sfiorò per un attimo, poi inondò con la sua luce argentata gli scheletri dei radi cespugli. Feci un altro passo, guardando in basso, verso la tazza di acqua nera della cava. Era il fulcro di un silenzio intenso, compatto.
E di una grande luminosità. La luna, grande medaglione pallido come il volto di Alison, brillava dal centro dell'acqua. Mi tremavano le gambe. La mia mente era una superficie piatta di immagini: mi ci sarebbe voluto un intero minuto per ricordare il mio nome, per associare ad uno sfuggente Miles un nebuloso Teagarden. La pietra sotto i miei piedi si sgretolò. Scesi sul gradino successivo e mi sentii attirare verso quella luce. Lo specchio fermo dell'acqua, con il suo cuore luccicante, mi invitava, mi chiamava a sé. Un altro gradino. Sembrava che l'intero bacino, circondato da rocce levigate e mute, stesse mormorando... No, non era un'impressione: mormorava davvero, incuneato nello spartiacque fra l'oscurità senza fondo dell'acqua e la testa piatta e lucente della luna. Il mondo si capovolgeva per farmi scivolare giù, ed io mi capovolgevo con esso.
Poi fui lì, sul fondo del fondo del mondo. La roccia fredda premeva contro le piante dei miei piedi. Il caldo mi bruciava le tempie e mi arricciava i peli del naso. L'acqua mi scivolò sui polsi. Le mie dita toccarono le maniche della camicia: erano asciutte. Sul fondo del fondo del mondo la mia faccia si voltò verso l'effige fredda della luna. Ero immerso nella sua luce spietata e irreale.
Quando il mio corpo iniziò a tremare piantai le mani sulla lastra di roccia fredda e chiusi gli occhi. Non era possibile immaginare quali segni avrebbero annunciato il suo arrivo: forse, mi dissi, sarebbe emersa dal cuore di quel disco luminoso che galleggiava sull'acqua. La roccia scorreva sotto le mie mani. Avevo gli occhi serrati e mi stavo muovendo, parte, io stesso, di un elemento mobile, la roccia che si incuneava sotto le mie mani e il mio corpo, conformandosi ad esso come un'immagine negativa, riflessa. Era una sensazione molto intensa. Le mie dita si insinuarono in minuscole fessure della pietra, solchi a forma di mano incontrarono le mie mani, e quando aprii nuovamente gli occhi pensai che mi sarei trovato di fronte un muro di roccia.
Mi concentrai sul mio corpo e lo collocai al centro della lastra di pietra. Sentii la roccia sollevarsi al ritmo del mio respiro, le vene delle mie mani congiungersi alle vene della pietra e rimasi immobile. Pensai: sono una mente umana in un corpo umano. Una luce irreale illuminava le mie ginocchia e i miei piedi. Alte pareti mi circondavano, l'acqua era immota, unico elemento di questo mondo sotto di me. Sapevo che mi restava pochissimo tempo. La giacca mi ricopriva le spalle come una pioggia di foglie. Avevo tutto il resto della vita per pensare. Per aspettare.
Ma l'attesa stessa è pensiero, anticipazione di un'idea nel corpo, e per molto tempo persino il battito del mio cuore fu alimentato dall'energia di quella mia attesa. Ebbi l'impressione di correre attraverso il tempo. Non tremavo più. Le mie dita scivolarono nelle fessure della pietra. Nel grande bacino della cava la notte era terribilmente silenziosa. Aprii gli occhi e guardai l'orologio, dove le lancette fosforescenti e i puntini che sostituivano i numeri brillavano di luce verde : erano le dieci e quarantacinque.
Cercai di ricordare a che ora avevamo cominciato a nuotare. Doveva essere stato all'incirca fra le undici e mezzanotte. Alison doveva essere morta intorno a mezzanotte. Levai lo sguardo alle stelle per poi riabbassarlo sull'acqua, nel punto in cui galleggiava la luna. Ricordavo ogni parola pronunciata quella notte, ogni gesto: erano rimasti stipati nella mia mente per venti lunghi anni. Due volte, mentre facevo lezione, mi era capitato di ritornare indietro nel tempo, di rivivere quei minuti intensi, mentre la mia voce incorporea continuava a ronzare, prendendosi gioco della letteratura. Era giusto dire che io ero rimasto intrappolato lì, in quella frazione di tempo, da quella notte, e ciò che mi aveva spaventato in classe non era altro che un'immagine della mia vita.
Tutto stava ancora accadendo, in uno spazio lontano, dietro i miei occhi, ed io potevo guardarvi dentro, e assistere da spettatore alla scena. Il modo in cui lei mi guardava, sorridendomi, mentre l'aria fresca mi sfiorava le spalle. Vuoi che facciamo quello che facciamo noi in California? Aveva le mani sui fianchi. Poi vidi le mie dita che lottavano con i bottoni della camicia, le mie gambe, le gambe di un ragazzo di tredici anni, pallide e magre sulla lastra di pietra. Sollevai lo sguardo: lei era un arco bianco che si tuffava nell'acqua, un pesce che guizzava nel cuore nero della cava.
Quell'immagine doveva essersi impressa nella mente di altre due persone oltre a me. Loro ci avevano visti: avevano visto i nostri corpi fendere l'acqua, le nostre braccia bianche, i suoi capelli, una massa lucente contro il mio viso. Dalla posizione in cui si trovavano noi dovemmo apparire loro come meri volti pallidi incorniciati da capelli anneriti dall'acqua, due facce così vicine da dare l'impressione di essere una sola.
Fui percorso da un forte tremito. Alzai il braccio e guardai l'orologio: le undici. Sentii la pelle della nuca che cominciava a formicolare.
Chiusi di nuovo gli occhi. L'energia della pietra corse ad incontrare le mie mani, i talloni, le gambe allungate. Il rumore del mio respiro sembrava ingigantito, amplificato dai complessi passaggi dell'aria dentro il mio corpo. L'intera cava stava respirando con me, inspirando ed espirando. Contai fino a cento, facendo durare ogni inalazione ed esalazione otto battute.
Molto presto.
Mi rividi com'ero un mese prima, quando ancora non avevo osato ammettere a me stesso che ero ritornato alla fattoria per non mancare all'appuntamento con un fantasma. E che mi ero trascinato dietro una lunga sequela di morti, come una coda. Nonostante la messinscena degli scatoloni pieni di libri e di appunti, avevo lavorato sì e no tre giorni alla mia tesi: poi, vi avevo rinunciato con il più futile dei pretesti, e cioè che le farneticazioni di Zack erano troppo simili alle idee di Lawrence. Per contro, avevo fatto il possibile per attirarmi l'odio di tutta la valle, come se non desiderassi altro. E poi mi vidi: un uomo grande e grosso, con i capelli sempre più radi e una faccia che tradiva la minima emozione; un uomo che da solo aveva messo in subbuglio una piccola città. Avevo insultato più persone in quelle quattro settimane che negli ultimi quattro anni della mia vita. Rivivevo tutto da spettatore: mi vedevo mentre entravo come una furia nei negozi, mentre lanciavo messaggi folli dagli sgabelli del bar, mentre facevo finta di rubare, con un'espressione di disgusto dipinta sul viso. Persino Duane era stato più bravo di me a mascherare i propri sentimenti. Dalla mattina del mio arrivo avevo percepito l'approssimarsi di Alison Greening, e quel fatto - la visione di lei che indugiava al limite dei campi - mi aveva fatto precipitare nella più totale irrazionalità, come una palla da biliardo impazzita.
Pronunciai il suo nome e una foglia frusciò. La luce della luna rendeva il mio corpo bidimensionale, come il personaggio di un fumetto.
Doveva essere quasi ora. Undici e mezzo. All'improvviso sentii la pressione aumentare nella vescica e la faccia avvampare. Incrociai le gambe e aspettai che la pressione svanisse. Poi cominciai a dondolarmi in avanti sulle braccia rigide. I nervi della roccia assecondarono il mio movimento: dapprima la pietra dondolò insieme a me, quindi iniziò a muoversi di moto proprio finché fu lei a cullarmi. E quando il bisogno di urinare si fece più urgente e doloroso, la roccia mi cullò più velocemente, finché il bisogno sparì. Mi sdraiai sulla schiena e lasciai che la pietra creasse un incavo per la mia testa. Le mie braccia, distese lungo i fianchi, trovarono lì il loro posto.
Molto presto.
Una nube oscurò metà delle stelle e lentamente fu sospinta dal vento oltre la sfera inerte della luna. Sembrava che il mio corpo fosse già privo di vita, che l'avesse ceduta alla pietra. L'acqua fredda della cava respirava attraverso me, usandomi come un polmone. Ad un tratto credetti di sentirla camminare verso di me, ma un refolo di vento mi sfiorò e ancora una volta le complicazioni della vita, le complicazioni dei sentimenti si riversarono dal mio corpo in ciò che mi circondava. Pensai: non può durare, è troppo, la morte è necessaria, necessaria. All'improvviso, come un lampo dorato nel tunnel buio della mia paura, mi resi conto di essere ritornato nella valle con la consapevolezza che lì sarei morto.
Udii della musica: sapevo che nasceva dal contatto elettrico fra la mia testa e la roccia che affiorava dall'acqua. Presto, presto, presto! La morte stava giungendo rapida e io sentii il mio corpo diventare leggero. Le forze tremende che mi circondavano parvero sollevarmi di qualche centimetro sopra la roccia, la musica riecheggiò nella mia testa e io sentii l'anima contrarsi in una capsula ronzante proprio sotto lo sterno. Rimasi così a lungo, pronto a squarciarmi al suo tocco.
Vidi la mia persona massiccia, empia, sarcastica, mortale, ingenua, precipitarsi per Arden, nascondersi nella casa di mia nonna, tremare nella foresta, semi-violentare una ragazza ripiegata su se stessa; ansimai, perché stava durando troppo la sensazione della levitazione, delle mie cellule legate dalla luce della luna in un contratto per ignorare la forza di gravita.
Ogni fibra del mio corpo mi avvertì dell'approssimarsi della mezzanotte. Non riuscii a sopprimere una seconda volta il dolore alla vescica, una foglia stormì, agitata da un alito di vento, e il liquido tiepido si riversò sopra le mie gambe dandomi un delizioso senso di liberazione. Allungai le braccia per afferrarla, ogni secondo del suo tempo ticchettava nel mio corpo. Ma catturai solo l'aria vuota, illuminata dalla luna.
E ricaddi sulla terra e sulla pietra inerte. In quella gigantesca confusione la musica cessò ed io fui conscio dei miei polmoni che inspiravano aria, della roccia inanimata sotto di me, dell'acqua nera e fredda. Indietreggiai per riposare la schiena sulla parete della cava. I pantaloni bagnati mi fasciavano le gambe. Avevo sbagliato ora. Doveva essere successo più tardi. Ma quel pensiero non poté attenuare la profonda disperazione che all'improvviso si impossessò di me: allora mi appoggiai alla pietra e guardai attraverso il pallore della luna la più grande perdita della mia vita.
Era mezzanotte e due minuti. Non era venuta. Il ventun luglio era scivolato nel passato e lei non era venuta. Non sarebbe mai venuta. Era morta. E io ero solo e alla deriva in un mondo umano. La mia colpa, animata da una forza propria, si agitò violenta dentro di me, instaurando un nuovo rapporto con il mio corpo.
Ero paralizzato. Mi ero inventato tutto. Non avevo visto nulla al limite dei campi, nulla: era stato tutto frutto della mia isteria. Mi strinsi la giacca intorno alle spalle, obbedendo ad un riflesso ereditato dall'infanzia.
Lo shock durò per ore. I pantaloni avevano già iniziato ad asciugarsi quando mi accorsi che avevo le gambe e i piedi addormentati. Mi chinai in avanti e piegai le ginocchia con le mani. Un dolore lancinante mi trafisse le articolazioni. Cercai di alzarmi. Per un attimo affogai la mia consapevolezza nel dolore, muovendomi goffamente sulle gambe di un altro. Poi mi sedetti su uno dei gradini di pietra e guardai in faccia la mia perdita. Non riuscivo a piangere: troppa parte di quella perdita riguardava me stesso. Qualunque cosa fossi diventato, ogniqualvolta avessi pensato di divenire qualcosa in cui potermi identificare, sarei stato comunque diverso. Mi ero costruito un'identità che contava su Alison Greening per il proprio chiaroscuro, ed ora mi sentivo come un gemello siamese cui fosse stata strappata con il bisturi l'altra metà. La colpa che avevo portato in me per vent'anni era mutata, ma non sapevo se fosse diventata più grande o più piccola.
Sarei stato costretto a vivere.
Trascorsi l'intera notte alla cava, pur sapendo, dal preciso momento in cui mi era sembrato di ricadere sulla terra, prima ancora di guardare l'orologio, che Alison Greening se n'era andata dalla mia vita per sempre.
Nell'ultima ora in cui piansi la seconda, definitiva dipartita di mia cugina dalla mia vita, riuscii a pensare ad Arden e a quello che era accaduto. A Duane, Orso Polare, Paul Kant e a me stesso. A come, dopo vent'anni, ci fossimo ritrovati tutti insieme in uno scenario tragico. A come tutti noi fossimo stati profondamente segnati dalle donne della nostra vita. Vedevo il comune destino che ci univa come le "linee di forza" di Zack.
E capii anche qualcos'altro.
Alla fine capii che l'assassino delle ragazze era mio cugino Duane. Che odiava le donne più di qualsiasi altro uomo che io avessi mai conosciuto; forse, aveva incominciato a progettare gli omicidi delle ragazze che assomigliavano a Alison Greening dal giorno stesso in cui aveva ricevuto la lettera con cui gli annunciavo il mio arrivo. Appartenevano a Duane le vecchie bottiglie di Coca-Cola, le asce, i pomelli: Zack doveva aver rubato la bottiglia che avevo visto sul suo furgoncino dal luogo in cui mio cugino le teneva nascoste.
Seduto sul bordo della cava, ancora frastornato dal dolore della perdita, vidi tutto con una chiarezza cristallina, spietata. Se non era stata Alison, non poteva che essere stato Duane. E sua figlia lo aveva paventato fin dall'inizio... Ecco perché aveva sempre evitato di parlare della morte delle ragazze. Quello che io avevo interpretato come un desiderio di apparire più dura (e quindi, nella sua ottica, più adulta) di quanto non fosse in realtà, adesso aveva ancora più senso, considerando la sua paura di avere come padre un assassino. Aveva sempre rifiutato recisamente di parlare degli omicidi.
Mi alzai. Riuscivo a camminare. Una specie di forza benedì il mio corpo. Un'intera epoca della mia vita, paragonabile ad un'era geologica, stava volgendo al termine, e si sarebbe conclusa non appena avessi compiuto ciò che mi restava da fare. Non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe stato di me dopo.
Percorsi a ritroso il cammino che avevo fatto poche ore prima e ritrovai le mie scarpe. In una sola notte erano diventate inservibili: si erano accartocciate e, quando cercai di infilarle, il contatto con la soletta interna mi fece venire in mente la pelle di una lucertola morta. Non mi andavano più bene, come se fossero state indossate da un altro uomo, che le aveva adattate al proprio piede.
Quando raggiunsi la superstrada, vidi un grosso camion che sferragliava pigramente in direzione della valle. Era uguale a quello che avevo incontrato la sera prima e alla vista del quale mi ero rifugiato nel campo di granoturco. Allungai il braccio per chiedere un passaggio e l'uomo che era al volante rallentò. Dal camion usciva un fetore tremendo di maiali.
«Bisogno di aiuto?» mi chiese il vecchio camionista.
«Sì, mi si è rotta la macchina» risposi. «Non è che per caso lei va verso la Norway Valley?»
«Salta su, giovanotto» replicò, sporgendosi ad aprire lo sportello.
Mi arrampicai sulla cabina e presi posto accanto a lui. Era un uomo asciutto, sulla settantina, con capelli bianchi irti come le setole di una spazzola. Le mani appoggiate sul volante erano grandi come bistecche. «Alzato presto» disse, senza fare domande.
«Ho fatto un viaggio lunghissimo.»
Il camion ripartì, e il rimorchio cominciò a sobbalzare e a cigolare.
«È davvero diretto nella Norway Valley?»
«Sì» rispose. «Ho portato un carico di maiali in città, e adesso torno a casa. Io e mio figlio abbiamo un pezzo di terra a circa dieci miglia dall'imboccatura della valle. Ci sei mai stato?»
«No» dissi.
«È una bella valle, proprio bella. Non capisco perché un giovane sano e forte come te se ne vada in giro per il mondo quando potrebbe sistemarsi nella terra più fertile di tutto lo stato. Dai retta a me, l'uomo non è nato per vivere in città.»
Annuii e, in quello stesso istante scattò in me la consapevolezza che non sarei più ritornato a New York.
«Scommetto che fai il rappresentante» continuò lui.
«A dire il vero in questo momento sono disoccupato» risposi, conquistandomi un'occhiata curiosa.
«Peccato. Ma tu vota democratico e vedrai che rimettiamo in piedi questo paese e i ragazzi come te avranno di nuovo un lavoro.» Socchiuse gli occhi alla luce del sole che sorgeva. Dal retro del camion arrivavano zaffate di puzzo dei maiali. «Ricordatelo, mi raccomando.»
Quando entrammo nella valle mi chiese dove fossi diretto. «Perché non mi accompagni fino a casa? Potremmo rimetterti in sesto con una buona tazza di caffè. Che ne dici?»
«No, ma molte grazie lo stesso. Vorrei che mi lasciasse da Andy's.»
«Come preferisci» rispose, perfettamente tranquillo.
Poco dopo rallentammo di fronte all'emporio dei Kastad. Il sole delle sette rischiarava la polvere e la ghiaia. Quando abbassai la maniglia dello sportello, il vecchio camionista voltò maliziosamente la testa irsuta verso di me e mi disse: «Lo so che mi hai mentito, sai giovanotto?»
Lo guardai sorpreso, chiedendomi cosa avesse potuto leggere sulla mia faccia.
«A proposito della macchina, intendo. Tu non hai una macchina, vero? Hai fatto tutto il viaggio in autostop.»
Risposi al suo sorriso. «Grazie per il passaggio» dissi, e saltai giù dalla cabina, lasciando l'odore greve dei maiali per immergermi nell'aria tiepida. Lui ingranò la prima e si allontanò con il suo camion sferragliante mentre io attraversavo la strada e salivo i gradini.
La porta era chiusa. Sbirciai attraverso i vetri ma non vidi nessuna luce accesa. Non c'era il cartello CHIUSO sulla porta, ma dietro la rete della zanzariera, intravidi un cartello recante la scritta Lunedì-Venerdì 7.30-18.30, Sabato 7.30-21.00. Bussai con insistenza. Dopo circa un minuto vidi sopraggiungere Andy con la sua caratteristica andatura da anatra, gli occhi socchiusi nel tentativo di mettermi a fuoco.
Non appena mi riconobbe si fermò. «È chiuso.» Gli feci cenno di avvicinarsi. Scosse la testa. «Per favore» urlai. «Voglio solo fare una telefonata.»
Esitò, poi si avvicinò lentamente alla porta. Aveva l'aria preoccupata e confusa. «C'è un telefono su da Duane» mi disse, la voce attutita dal vetro.
«Ho bisogno di fare una telefonata prima di tornare là» lo supplicai.
«A chi devi telefonare, Miles?»
«Alla polizia. A Orso Polare Hovre.»
«Perché? Che devi dirgli?»
«Se mi fai entrare lo scoprirai.»
Appoggiò la mano sulla maniglia. Contrasse i muscoli del viso, poi girò la chiave ma non aprì la porta. «Se devi chiamare la polizia va bene, Miles. Ma come faccio a sapere che è vero?»
«Può stare dietro di me. Se vuole può fare il numero lei stesso.»
Aprì la porta. «Fa piano, Margaret è in cucina. Lei non ti avrebbe certo fatto entrare.» Lo seguii. Si voltò verso di me: aveva lo sguardo preoccupato. Era abituato a prendere sempre le decisioni sbagliate. «Il telefono è sul banco» bisbigliò.
Mentre si avvicinava al banco, sua moglie lo chiamò. «Chi è?»
«Un rappresentante» rispose.
«Per carità, Andy, mandalo via. È troppo presto.»
«Solo un attimo.» Mi indicò il telefono, poi bisbigliò. «No, faccio io il numero.»
Al segnale di libero mi passò la cornetta e incrociò le braccia sul petto.
Il telefono squillò due volte, poi sentii la voce di Lokken. «Polizia»
Chiesi di parlare con Orso Polare. Se vuoi il tuo assassino, stavo per dirgli, fa' quello che ti dico. Lo troverai alla sua fattoria, alla guida del suo trattore o occupato a prendere a martellate qualche macchina.
«Teagarden?» chiese con voce acuta, sorpresa. «È lei Teagarden? Ma dove diavolo è? Lei doveva essere qui, questa mattina. Dannazione...»
«Che cosa significa che dovevo essere lì?»
«Be', ieri pomeriggio il capo mi ha spedito in quel maledetto postaccio, ma io non ho concluso niente, per il semplice fatto che non c'era niente da concludere. Insomma, mi voleva solo fuori dai piedi. Comunque, sono tornato che era quasi mezzanotte e lui stava dando di matto. Duane lo aveva chiamato per dirgli che lei era scomparso, che se n'era andato. Allora il capo ha detto, sta' calmo, io so dov'è. Poi penso che sia andato a prendere Duane per farsi dare una mano a portarla dentro. Ma lei adesso dov'è? E dov'è il capo?»
«Sono all'emporio di Andy» risposi. Guardai Andy. La sua faccia preoccupata era rivolta verso il retrobottega. Aveva paura che sua moglie si affacciasse alla porta e mi scoprisse. «Lokken, mi ascolti. Io so chi è il colpevole, e penso di sapere dov'è andato Hovre. Passi a prendermi da Andy.»
«Puoi scommetterci la testa che vengo a prenderti.»
«Finalmente avrete il vostro assassino» dissi e restituii la cornetta ad Andy.
«Devo riagganciare?» mi chiese perplesso.
«Sì, riagganci.»
Riappese, poi cominciò a fissare la mia barba incolta e i miei vestiti stropicciati. «Grazie» dissi. Mi voltai e facendomi strada nel labirinto degli scaffali mi avviai verso l'uscita, lasciandolo interdetto, con la mano ancora appoggiata sul telefono. Scesi i gradini e uscii nella luce del primo mattino, ad aspettare Lokken.
Otto minuti dopo, sicuramente un record per lui, l'auto del poliziotto comparve in fondo alla strada. Feci cenno con una mano e lui frenò, sollevando una gran nuvola di polvere. Smontò dalla berlina e attraversò la strada sbraitando. «D'accordo, Teagarden. Adesso mi spiegherà a che gioco sta giocando. Tutto questo non ha senso... Dov'è Hovre?»
«Credo che abbia pensato che sarei tornato alla radura dove avete trovato la giovane Michalski. Forse Duane è andato con lui.»
«Forse sì o forse no» ribatté Lokken. Teneva la mano sul calcio della rivoltella. «Forse ci andremo anche noi o forse no. Perché diavolo ha chiamato la polizia?»
«Gliel'ho detto.» Vidi Lokken serrare le dita intorno all'impugnatura della pistola. «Io so chi ha ucciso quelle ragazze. Saliamo in macchina. Le spiego tutto mentre andiamo.»
Con sguardo sospettoso si allontanò dall'auto e mi permise di raggiungere da solo la portiera dal lato del passeggero. Salimmo a bordo contemporaneamente. Mi appoggiai allo schienale di plastica caldo. «Bene» disse Lokken. «E adesso mi racconti la sua storia. Se mi piace, c'è caso che l'ascolti.»
«È stato Duane Updahl» dissi. Lokken, che stava per inserire la chiave nell'accensione si bloccò con la mano a mezz'aria e si voltò a guardarmi a bocca aperta.
«Io non ero nemmeno in città quando è morta Gwen Olson» continuai.
«È per questo che ho deciso di ascoltarla» mi interruppe Lokken. Lo guardai allibito. «Lo abbiamo saputo questa mattina dalla polizia dell'Ohio. Il capo aveva chiesto che controllassero la sua storia del motel. Alla fine hanno trovato un ragazzo, un certo Rolfshus, che ha riconosciuto la sua foto. Gestisce un piccolo albergo appena fuori dalla superstrada. Questo Rolfshus ha dichiarato che lei hai dormito lì quella notte.»
«Mi sta dicendo che Orso Polare ha cercato quel motel dalla sera in cui gliene ho parlato?»
«Ha raccolto anche un bel po' di deposizioni» proseguì Lokken. «Pare che sia molta la gente da queste parti a cui lei non va a genio.» Avviò la macchina. «Non so cosa ne penserà il capo, ma, quant'è vero Iddio, secondo me lei non c'entra niente nell'omicidio della Olson. E perché sarebbe stato Duane?»
Gli dissi quello che pensavo mentre la berlina bianca e nera divorava la strada. Il suo odio per le donne, il suo odio per me. La prova fisica. «Penso che abbia inscenato tutto perché mi condannassero a marcire per il resto dei miei giorni in un manicomio criminale» aggiunsi. «E Orso Polare sperava che lui mi sparasse, in modo che io non potessi dire la verità sulla morte di Alison Greening. Ieri l'ha mandata dalla parte opposta della contea per non averla tra i piedi.»
«Per la miseria, non ci capisco un corno» protestò Lokken. «E roba da matti. Che cos'è questa storia di Alison Greening?»
Gli raccontai ogni cosa. «E credo che Duane non si sia più riavuto da allora» conclusi. «Quando gli scrissi che sarei tornato, qualcosa deve essere scattato nella sua testa.»
«Per tutti i diavoli dell'inferno!»
«Ma anch'io dovevo essere fuori con la testa, perché se no me ne sarei accorto prima. Io avevo una mia teoria, una teoria delirante, ma l'altra notte ho capito che era sbagliata.»
«A me sembra roba da matti» commentò Lokken in tono disperato. Accelerò, lasciando alle spalle i campi di granturco. Ad un tratto, scorgemmo l'auto di Orso Polare, ferma sul lato opposto della strada. «A quanto pare aveva ragione riguardo al capo. Pensa che ci sia anche Duane con lui?»
«Sì, sono convinto che l'abbia seguito. Per lui sarebbe stato troppo rischioso non andare.»
«Okay, saliamo a dare un'occhiata.» Scendemmo dall'auto e saltammo il fosso.
Fino a quando non guadammo il torrente, Lokken non disse nulla, perché la corsa verso il bosco non gli lasciava il fiato per parlare. Poi, con voce ansante, riprese. «Se lei hai ragione, c'è il rischio che Duane abbia tentato di aggredire Hovre.»
«No, non credo» lo tranquillizzai.
«Sì, d'accordo, ma il rischio c'è» ribatté estraendo la pistola. «Non riesco a ricordarmi bene dove diavolo è quella radura.»
«Mi segua» gli dissi e attaccai il pendio che porta al bosco. Lokken arrancava alle mie spalle.
Quando raggiunsi i primi alberi puntai con passo deciso verso l'alto, in direzione della vecchia casupola di Rinn. Non avevo la più pallida idea di quel che sarebbe successo. Da un lato ero contento della presenza di Lokken, però ero inquieto. Perché mai Orso Polare avrebbe dovuto passare tutta la notte nella radura? I grandi alberi dai tronchi nodosi cominciarono ad infittirsi. Rallentai il passo. In alcuni tratti dovevo fermarmi e aprirmi un varco con le mani fra i rami e l'erba alta.
«Non nota niente di strano?» chiesi dopo un po'.
«Sarebbe a dire?» Lokken era rimasto indietro e la sua voce mi giunse appannata.
«Non ci sono rumori. Niente uccelli, niente scoiattoli. Nessun rumore di animali.»
«È vero» ammise Lokken.
Era proprio così. Tutte le altre volte che mi ero addentrato nel bosco ero stato accolto dall'allegro chiacchierio della natura. Quel mattino, invece, era come se tutti gli animali fossero morti. E lì, in quel posto buio, circondato da alberi giganteschi, il silenzio faceva paura.
«Saranno stati spaventati dagli spari» fu la spiegazione di Lokken. «Magari è successo qualcosa.» Sembrava preoccupato almeno quanto lo ero io, ed ero certo che avesse ancora in mano la pistola.
«Fra poco lo sapremo. Siamo quasi arrivati.»
Alcuni minuti più tardi individuai la fila di alberi che cingeva la radura. «Ecco, ci siamo» dissi, voltandomi verso il poliziotto. Aveva la faccia paonazza dallo sforzo.
«È vero, adesso ricordo.» Racchiuse la mani a coppa ai lati della bocca e chiamò: «Capo! È lì?» Nemmeno l'eco gli rispose. Urlò più forte: «Capo! Capo Hovre!» Mi guardò, l'espressione irata e frustrata al tempo stesso, il viso segnato da rivoli di sudore. «Porca miseria, Teagarden, schiodi il culo!»
Nonostante avessi freddo, cominciai anch'io a sudare. Non potevo dire a Lokken che avevo paura di entrare in quella radura. Gli alberi mi sembravano titanici.
«Avanti! Abbiamo visto la sua macchina, per cui dev'essere per forza qui» mi incitò Lokken.
«C'è qualcosa di strano» dissi. Sentivo l'odore di acqua fredda. Ma non poteva essere.
«Coraggio, si muova ho detto.» Agitando la mano, per invitarmi a proseguire, urtò con la pistola contro un albero.
Avanzai verso la fila degli alberi. La luce filtrava fra le fronde illuminando la radura. L'improvviso bagliore quasi ci accecò. Dalle braci, al centro dello spiazzo, saliva un pennacchio di fumo. Feci ancora un passo. Mi sfregai gli occhi. Il silenzio era assoluto, non si udiva nemmeno il ronzio degli insetti.
Poi li vidi e mi fermai di colpo, incapace di parlare.
Lokken irruppe rumorosamente nella radura dietro di me. «Ehi, che cosa succede? Ehi, Teagarden, li ha trovati? Lei...» La voce gli morì in gola, come se fosse stata tranciata di netto da un colpo d'ascia.
Adesso capivo perché aveva vomitato quando aveva visto il corpo di Jenny Strand.
Orso Polare era davanti, Duane subito dietro di lui, infisso ad un albero più basso. Erano conficcati ognuno in un albero, nudi, i corpi bruciacchiati che penzolavano come frutti spappolati.
Lokken si portò al mio fianco, un rantolo soffocato gli sfuggì di bocca. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella vista. Era lo spettacolo più atroce e selvaggio che avessi mai visto. Sentii il rumore sordo della pistola che cadeva a terra. «Che diavolo...» cominciò Lokken. «Che...».
«Mi sono sbagliato» mormorai. «Oh, Cristo! Mi sono sbagliato. Lei è tornata.»
«Cosa...» La faccia di Lokken era terrea.
«Non è stato Duane» dissi. «È stata Alison Greening. Loro sono venuti quassù l'altra notte e lei li ha uccisi.»
«Dio, guardi la loro pelle!» gemette Lokken.
«Ha deciso di risparmiarmi. Sa che mi può avere quando vuole.»
«La loro pelle...»
«Li ha puniti perché l'avevano violentata e uccisa. Oh, Dio mio!»
Lokken cadde in ginocchio sull'erba.
«Adesso pretenderà la vita della figlia di Duane» dissi, rendendomi conto all'improvviso che forse quel giorno avremmo dovuto piangere un'altra morte. «Dobbiamo correre alla fattoria. Subito!» Lokken stava vomitando nel prato.
«Come è possibile che uno riesca a ridurli in quello stato...»
«La mia folle teoria era esatta» gli dissi. «Non c'è tempo da perdere. Dobbiamo correre alla fattoria! Ce la fa a correre?»
«Correre?»
«Allora mi segua appena può. Torni alla macchina e vada alla fattoria di Duane.»
«... di Duane» balbettò lui. Si ricompose, raccolse la pistola e l'agitò verso di me. «Ehi, aspetti. Lei non va da nessuna parte, capito?»
Mi chinai e scostai la pistola. «Sono stato io a portarla qui, si ricorda? E poi pensa che io sia così forte da riuscire a sollevare due uomini e da appenderli ad un albero in quel modo? Forza, si alzi e si rimetta in sesto. Se corriamo, forse possiamo impedire che tutto questo accada di nuovo. Speriamo solo che non sia già troppo tardi.»
«Come...»
«Non lo so» risposi, voltandogli le spalle. Poi mi venne un'idea e mi girai di nuovo verso di lui. «Mi dia le chiavi della macchina. Lei prenderà quella di Orso Polare. Per lei collegare i fili elettrici sarà uno scherzo.»
Quando raggiunsi la strada, balzai nell'auto di Lokken e avviai il motore. Premetti l'acceleratore a tavoletta e, nel giro di una manciata di secondi, la macchina di Orso Polare divenne un puntolino bianco e nero avvolto da una nuvola di polvere.
Un trattore procedeva lemme lenirne sul tratto di strada davanti alla chiesa, occupando tutte e due le corsie. Suonai il clacson, e il conducente, un contadino grande e grosso con un cappello di paglia calcato in testa, agitò la mano, senza nemmeno voltarsi. Cercai il pulsante della sirena e lo premetti. Il contadino fece un balzo sul sedile, si girò di scatto e quando vide l'auto della polizia si spostò immediatamente sulla destra. Io mi gettai di peso sul clacson e sfrecciai oltre.
Mentre risalivo la strada che porta alla vecchia fattoria non notai nulla di insolito: la giumenta pascolava placidamente insieme alle mucche, il prato annerito dal fuoco era deserto. Di Alison nessuna traccia. Sterzai nel vialetto d'accesso e deglutii, attanagliato dal terrore di trovarla nelle stesse condizioni in cui avevo trovato suo padre e Orso Polare. Frenai sul prato e balzai fuori prima ancora che l'auto si fermasse.
Ne percepivo l'odore... Sentivo l'odore di acqua fredda, come se avesse appena smesso di piovere. La paura mi paralizzava le gambe, e mi stringeva lo stomaco in una morsa ghiacciata.
Mi diressi con passo incerto verso la casa di Duane. Sentii sbattere una porta. Doveva essere Alison Updahl che aveva visto arrivare la macchina della polizia. Dopo alcuni secondi vidi la sua figura compatta uscire di corsa dalla porta e risalire il sentiero. Quando capì che ero io, e non Dave Lokken o Orso Polare, smise di correre e mi guardò preoccupata, confusa e piacevolmente sorpresa al tempo stesso. Una strana tensione pervase l'aria, come la prima notte che ero stato nel bosco: sembrava più spessa, permeata da uno spirito maligno. «Corri» urlai agitando le braccia. «Continua a correre, non fermarti!» L'odore della cava riempì il cielo sopra di noi, e questa volta anche lei lo sentì, perché alzò la testa e si voltò.
«Sei in pericolo!» urlai di nuovo precipitandomi verso di lei.
Una raffica di vento mi scaraventò a terra, con la medesima naturalezza con cui una debole brezza fa volare una carta da gioco.
«Miles?» disse Alison. «Mio padre non è...»
Prima che riuscisse a finire la frase scorsi dietro di lei un'altra figura femminile, più piccola. Il sangue mi si agghiacciò nelle vene. Era fatta d'ombra e ci stava guardando, le mani sui fianchi. Un istante dopo era già svanita. Alison Updahl doveva aver percepito la forza che emanava la creatura, perché si girò di scatto per guardarsi alle spalle. Vidi il terrore storpiarle il volto: era come se la volontà e la vita stessa l'avessero abbandonata. Aveva visto qualcosa, ma io non sapevo cosa. Mi rialzai dal sentiero fatto di polvere e di sassi. «Scappa! Scappa!»
Era troppo tardi. Era paralizzata dal terrore e non riusciva a muovere nemmeno un dito. «Alison!» urlai di nuovo, ma questa volta non mi rivolgevo alla ragazza viva. «Lasciala stare!»
Sentii il frastuono di un vortice d'aria, il fragore di un tifone che si avvicinava. Mi voltai verso la fonte di quel baccano consapevole che Alison Updahl, impietrita come un uccellino di fronte a un serpente, stava lentamente cercando di voltarsi. Sul prato davanti alla casa il vento stava tracciando dei cerchi concentrici sull'erba. Foglie e ramoscelli turbinavano nell'aria. Pietre e frammenti neri di asfalto cominciarono a sollevarsi dalla strada e a volare verso i cerchi sul prato.
Chiamai Alison Updahl: «Vieni verso di me!» Cercò di muoversi, inciampò. L'aria era trafitta da minuscoli pezzi di legno e da foglie turbinanti.
Mi lanciai in mezzo a quella tempesta e tentai di raggiungerla. Era caduta sul sentiero, e una cascata di rametti e di sassi si stava abbattendo su di lei. L'afferrai per una mano e la costrinsi ad alzarsi.
«Ho visto qualcosa» mormorò.
«Anch'io. Dobbiamo scappare.»
Il mulinello di pietre e di fronde esplose: i rami e le foglie che si agitavano nell'aria furono scagliati lontano, e ricaddero, immoti, sul tratto di prato fra le due case. Solo una struttura scheletrica, una sorta di costruzione marrone e verde, continuò a torreggiare nel cielo; poi anch'essa si afflosciò al suolo. Alcuni sassi rotolarono accanto a noi. Tutt'intorno, l'aria continuava a crepitare, come se ci trovassimo al centro di un tifone. Nell'erba ripresero a disegnarsi cerchi concentrici.
Alison aveva la bocca aperta, ma non riusciva a parlare.
Serrai con forza la mia mano intorno alla sua e la trascinai via. Mentre correvamo lungo il sentiero, la macchina di Orso Polare con a bordo Dave Lokken svoltò nel vialetto. Aveva la faccia di uno che si stia lentamente riprendendo dalla più grande sbornia della sua vita. Guardò Alison, poi me, che correvamo con tutte le nostre forze verso di lui. «Ehi» disse «dobbiamo prendere quei corpi...»
I cerchi sull'erba avanzarono nella sua direzione. Poi, dietro la sua macchina, vidi apparire la stessa figura eterea che avevo visto materializzarsi sul sentiero. All'improvviso, il vetro del lunotto e quello del parabrezza esplosero all'unisono. Lokken urlò e si coprì il viso con le braccia. Una forza inimmaginabile lo sollevò dal sedile e lo scaraventò fuori dal finestrino aperto. Lokken rotolò sulla ghiaia del vialetto. Perdeva sangue dal naso.
Cercai di trascinare Alison Updahl verso il campo adibito a pascolo; mi rendevo conto che sarebbe stato inutile tentare di nascondersi in casa. Ma avevamo fatto solo tre passi, io che la tiravo e lei che inciampava, quando le nostre mani furono separate con violenza e una raffica di vento che puzzava di cimitero e di carne imputridita, mi scagliò contro l'albero dove mio nonno appendeva sempre la falce. Qualcosa attraversò il prato, diretto verso Alison Updahl.
Era come se lo strato più esterno del mondo, quello a noi familiare fatto di case, alberi, cani, persone, aria e sole fosse stato spazzato via - asportato come si asporta la lana quando si tosa una pecora - e fossero rimaste solo tracce di vita primordiale e oscura; ciò che sopravvive quando tutto ciò che ci è noto e comprensibile viene meno e quello che emerge è come quello che si vede quando si rovescia una grande pietra piatta nel bosco. Lokken, intrappolato in un groviglio di rampicanti alle mie spalle, col naso ancora sanguinante, vide ciò che anch'io stavo vedendo, e urlò di nuovo. Sapevo che si stava coprendo gli occhi con le mani.
Alison guadagnò la veranda e corse dentro. Qualunque cosa la stesse inseguendo, svanì come un'alitata su un vetro.
Una colonna di erba, foglie, sassi, si sollevò dal prato e si abbatté contro uno dei muri della casa.
In garage era rimasta ancora una tanica di benzina. Ricordavo perfettamente dove si trovava e avvertii il contatto delle mie dita con il metallo freddo del manico. Quindi, senza sapere che cosa ne avrei fatto o in che modo mi sarebbe potuta tornare utile, corsi nella vecchia rimessa e la afferrai. Era piena, ma questo io già lo sapevo. Ebbi l'impressione che la tanica stessa, con il suo peso, mi trascinasse fuori, come se mi tirasse giù da un pendio.
Mi precipitai verso la casa. L'hai già fatto una volta, mi dissi, l'hai fatto l'altra notte. Ma io sapevo che mentre su alla cava ero disposto a morire adesso non lo ero più. Mi voltai a guardare Lokken; era rannicchiato per terra, trattenuto dai rami e dall'erba in cui lei lo aveva intrappolato ed emetteva suoni rauchi. La camicia dell'uniforme era sporca di sangue. Dalla casa non giungeva nessun rumore. Il ricordo del povero Duane e del povero Orso Polare, semi-carbonizzati e appesi agli alberi come frutti, mi attraversò fugacemente la mente, e una sorta di dovere verso il passato - un sentimento simile all'amore - mi spinse ad agire.
Adesso, l'odore che regnava nell'aria e che assediava la veranda era quello dell'acqua putrida dei cimiteri. Avvertivo nel braccio indolenzito il peso della tanica di benzina. Entrai nel salotto: benché nulla fosse stato mosso o cambiato la stanza che io avevo preparato per Alison Greening mi apparve completamente diversa: più cupa, più dimessa e più squallida. Le pareti erano macchiate d'acqua. Qui l'odore di acqua marcia era più intenso che sulla veranda. Alison Updahl era rannicchiata su una sedia, le gambe strette al petto, come se fosse pronta a prendere a calci qualsiasi cosa le si fosse avvicinata troppo. Non penso che mi avesse visto entrare. Il suo viso era ridotto ad uno scudo bianco e teso. Quello che lei aveva visto quando si era voltata di scatto sul sentiero era la stessa cosa che Lokken ed io avevamo visto dirigersi verso la casa. «Stai tranquilla, lei non ti avrà. Non glielo permetterò» la rassicurai. «Ti porterò fuori di qui.»
All'improvviso, tutti i vetri della casa si infransero. Alison cominciò a tremare in preda a terribili convulsioni. «Alzati» le ordinai. Lei abbassò le gambe e cercò di alzarsi dalla sedia. Io mi allontanai, contento che riuscisse a muoversi di nuovo, e cominciai a versare benzina sul pavimento. Se così deve essere, pensai, sarà sempre meglio che... Rividi quei corpi appesi agli alberi. Bagnai i mobili, poi la parete che dava sul retro.
Lei era lì, lo sapevo. Percepivo la sua presenza nella casa con la stessa chiarezza con cui la prima notte nel bosco avevo avvertito intorno a me una forza ostile. Alison Updahl era in piedi, le braccia protese in avanti come se fosse cieca. Il pavimento della stanza era ricoperto di sporcizia e in un angolo del soffitto scorsi una macchia di muschio.
Poi, sulla parete fradicia di benzina, apparve un'ombra: era minuta, informe ma la sua sagoma ricordava vagamente quella di un essere umano. Lasciai cadere la tanica vuota che rotolò rumorosamente sul pavimento. Fuori, un ramo percuoteva le assi di legno bianche. «Miles» sussurrò Alison Updahl.
«Sono qui.» Inutili parole di conforto.
Le foglie spingevano contro il vetro rotto della cucina per entrare nella stanza. Le sentii stormire febbrilmente nell'aria corrotta.
L'ombra sul muro si fece più scura. Afferrai il braccio proteso di Alison e la tirai verso di me. «Quell'odore...» Era sull'orlo di una crisi isterica, me lo diceva la sua voce stridula e rotta. Girò la testa e vide l'ombra che incupiva sulla parete. Il sudiciume ondeggiava sul pavimento, muovendosi in cerchi come dervisci danzanti.
«Adesso io accenderò un fiammifero» le dissi. «Appena l'ho acceso voglio che tu corra sulla veranda e che salti attraverso la rete della porta. È piena di buchi, non ti dovrebbe essere difficile sfondarla. Poi corri più forte che puoi e non fermarti per nessun motivo!»
In preda al terrore la ragazza fissava l'ombra che diventava sempre più scura. Aprì bocca. «Una volta tirai fuori un cane... dopo che l'avevo seppellito...»
L'ombra prese corpo, e lievitò dalla parete come un altorilievo. L'aria putrida si riempì del fremito convulso delle foglie. Era come se la stanza fosse appena riemersa da un'alluvione, pensò una parte del mio cervello. Strinsi le spalle di Alison Updahl. Sembrava respirare appena. «Adesso esci. Corri!» le ordinai sospingendola verso la veranda. L'aria sibilava. Avevo in mano una scatola di fiammiferi; le dita mi tremavano. Estrassi cinque o sei fiammiferi di legno e li sfregai contro la fascetta smerigliata. Appena presero fuoco li scagliai contro la parete.
Abbaglianti lingue di fuoco rovente esplosero nella stanza. Oltre il sibilo della benzina che si incendiava, sentii Alison sfondare la porta della veranda e correre verso la salvezza.
Poi la vidi. Di fronte a me, dalla parte opposta del salotto, non c'era un'ombra, né cerchi d'erba, né rami, né un essere oscuro proveniente dalle viscere della terra, ma una persona vivente. Forse, se fossi stato più vicino sarei riuscito a scorgere le giunzioni e le imperfezioni del suo corpo, la vena rilevata di una foglia, o una chiazza nel bianco dell'occhio, ma dal punto in cui mi trovavo lei era identica alla ragazza che avevo amato nel 1955, una ragazza in carne ed ossa. Persino in quel momento, con le fiamme che palpitavano e crepitavano intorno a noi, la sua vista mi tolse il respiro. Era il suo volto composto da migliaia di magiche complessità. Nessun uomo sarebbe riuscito a fissarlo senza soffrire, per il dolore che esprimeva, per il dolore che provocava.
Non sorrideva, ma era come se sorridesse. La sua aria solenne racchiudeva e ispirava l'intera gamma delle emozioni umane. Solo la solennità, la grave compostezza di un volto simile può produrre questo effetto. Dietro la sua figura piccola e sottile il fuoco divorava il muro. Il calore mi bruciava la pelle.
Prigioniero di un fascino che mi paralizzava vidi la punta delle dita della sua mano destra prendere fuoco. Senza passione, con una gravità quieta che prometteva più di quanto potessi conoscere o comprendere, lei mi dominava con il suo sguardo e il suo volto, e mi impediva di andarmene.
Al piano di sopra, la casa cedette con un rumore simile ad un sospiro. Il fuoco si insinuò come un torrente arancione giù per la scala. Indietreggiai di alcuni passi per allontanarmi dalle fiamme. Avevo le sopracciglia bruciate e la pelle del viso ustionata, come se avessi trascorso troppe ore al sole e mi fossi scottato.
Dal suo sguardo capii che in quel momento noi stavamo stringendo un patto. Capii che desiderava vedermi morto, ma che la figlia di Duane, la sua omonima, era la ragione per la quale mi sarebbe stato concesso di vivere. Adesso, tutta la sua mano stava bruciando, persa nel centro di un cerchio ardente di luce. Sì, era un patto: non lo capivo appieno e probabilmente non l'avrei mai capito, ma io ero una delle due parti contraenti e dovevo rispettarlo.
Alison Greening, o la creatura che stava di fronte a me e che tanto le assomigliava, mi permise di indietreggiare fino alla porta. L'espressione su quel volto, così simile al suo, non era mutata nemmeno di un millimetro. Il caldo era insopportabile, e stava per uccidermi. Allora mi voltai e corsi via per fuggire lontano dal fuoco, e, in egual misura, da quello strano vincolo.
La vecchia fattoria stava bruciando alle mie spalle, come la Casa dei Sogni di Duane. Quando mi voltai a guardarla avvolta dalle fiamme, mi resi conto che anch'essa era una casa dei sogni. Capii anche che una parte di me era rimasta lì dentro; ero profondamente legato a quella casa e vi sarei rimasto legato per il resto della mia vita, come lo ero stato per venti anni. Sette ore prima avevo creduto di aver raggiunto un nuovo compromesso, ma adesso mi rendevo conto, anche se solo intuitivamente, che ogni compromesso è uguale all'altro. Mi sentivo più leggero e più pesante al tempo stesso, con la faccia ustionata e la vita che mi era stata restituita con il suo fardello di responsabilità: responsabilità che avevo sempre avuto, per la semplice ragione che le avevo accettate, che ero la persona che se le era assunte. La figlia di mio cugino era in piedi accanto al filare dei noci e mi fissava incredula. Quando notai l'espressione dei suoi occhi cominciai a tremare ancora di più. Distolsi lo sguardo e ripresi a fissare la casa. Seduto per terra, Dave Lokken piagnucolava.
Ripensai a lei all'interno del salotto, a lei che mi imponeva il sigillo di un nuovo patto. La parte superiore e posteriore della casa erano dilaniate dalle fiamme. Avevo riso di Duane, senza rendermi conto che anch'io possedevo una casa dei sogni. E lui aveva pagato per le mie illusioni nella notte in cui le avevo accarezzate più intensamente.
«C'era una... c'era una persona là dentro» balbettò Alison Updahl. «Credevo che saresti morto.»
«Anch'io temevo che tu saresti morta» dissi. «E non sapevo se sarei riuscito ad impedirlo.»
«Ma ce l'hai fatta.»
«Ero qui. La mia presenza è bastata.»
Le fiamme ruggenti stavano divorando la casa. Alison mi venne vicino. «Miles, ho visto una cosa orribile...» balbettò, ma non riuscì a terminare la frase.
«Anche noi» la rassicurai, mentre il ricordo di quella visione le faceva morire il respiro in gola. «È per questo che lui è ridotto così.» Ci voltammo insieme a guardare Dave Lokken, che adesso era inginocchiato e fissava la casa con occhi attoniti. La sua camicia era sporca di sangue e di vomito.
«Se tu non fossi arrivato in tempo...»
«Saresti morta. E anch'io.»
«Ma adesso, quella... quella persona non tornerà più, vero?»
«Non lo so» dissi. «Non lo so. Ma se ritornerà non sarà più in questo modo.»
La casa aveva ceduto interamente al dominio delle fiamme e stava per crollare. Il calore mi avvampava la pelle: dovevo immergermi nell'acqua fredda. Sul palmo delle mie mani si stavano formando delle vesciche. Il fuoco aveva ridotto il vecchio edificio ad uno scheletro così esile che sembrava galleggiare nell'aria.
«Quando tirai su il nostro cane, puzzava così» disse Alison. «Aveva lo stesso odore che c'era lì dentro.»
Con uno schianto alcune travi rovinarono al suolo. Adesso la veranda poggiava contro un muro di fuoco e sospirava come un bambino stanco. Poi, all'improvviso, si accasciò senza far rumore.
«Se non torna in questo modo, allora come ritorna?»
«Come noi.»
«Tuo padre ed io l'amavamo» le spiegai. «Forse lui la odiava anche, ma ti ha dato il suo nome perché prima di odiarla l'aveva molto amata.»
«E l'ha uccisa lui, vero?» chiese. «E poi ha fatto ricadere la colpa su di te.»
«No, lui era solo lì quando è successo. Ha fatto tutto il padre di Zack.»
«Sapevo che non eri stato tu. Volevo che tu me lo dicessi, su alla cava. Ero convinta che fosse stato mio padre.» Vidi la sua gola tremare e poi pulsare come quella di una rana. «Sono contenta che non sia stato lui.»
«Certo.»
«Mi sento... intontita. Non provo nulla.»
«Lo so.»
«Potrei parlare all'infinito, oppure star zitta per ore.»
«Lo so.»
Le pareti laterali della casa erano ancora in piedi e incorniciavano le due stanze invase dal fuoco. Al centro di una lingua di fuoco vidi un'ombra immobile, una colonnina scura. Barcollando, Dave Lokken si tirò in piedi.
«Mio padre è...?» Alison mi prese una mano e io sentii la sua pelle fresca contro la mia.
«Non siamo arrivati in tempo» dissi. «Lokken ed io abbiamo trovato tuo padre e Orso Polare nel bosco. Avrei tanto voluto poter fare qualcosa. Lokken li porterà giù.»
Mentre lei si aggrappava al mio collo e le sue lacrime bruciavano la mia pelle ustionata, l'ombra che stavo fissando si inscurì in mezzo alle fiamme.
La condussi alla mia macchina. Non ce la facevo più a restare lì. Con sguardo allucinato, Lokken ci fissò mentre salivamo a bordo del vecchio maggiolino. Anche noi due eravamo sotto shock. La faccia e le mani mi bruciavano, ma io non provavo alcun dolore, o meglio, provavo solo l'astrazione del dolore. Feci retromarcia sul vialetto e mi fermai per guardare la casa per l'ultima volta. Addio nonna, addio casa, addio sogni, addio Alison. Ciao. Addio, addio, Alison. Lei sarebbe ritornata: come un gesto colto in una strada affollata, come un brano di musica che rimbalza da una finestra aperta, come la curva di un collo, la pressione di due mani, o come un bambino. Sarebbe sempre rimasta con noi, adesso. I contadini dei poderi vicini stavano risalendo lentamente la strada: chi a piedi, con la vanga in spalla, chi con il camion; avevano tutti il volto teso, preoccupato. Red e Tuta Sunderson stavano attraversando il prato, in fondo al quale si trovava Dave Lokken. La vecchia fattoria era quasi interamente distrutta e le fiamme erano basse. Proseguii in retromarcia fendendo la folla e mi immisi sulla strada, con il muso puntato verso il cuore della valle.
«Dove andiamo?» domandò Alison.
«Non lo so.»
«Mio padre è morto davvero?» Si morse una mano, sapeva già la risposta.
«Sì. Anche Orso Polare.»
«Credevo che fosse lui... l'assassino di quelle ragazze.»
«Sì, l'ho creduto anch'io, per un po'. Mi dispiace. Anche Orso Polare l'ha pensato per un po'. È stato lui a a farmi venire il sospetto.»
«Non posso tornare indietro, Miles.»
«D'accordo.»
«Pensi che dovrei farlo?»
«Puoi rifletterci su e poi decidere.»
La mia mente era vuota e io mi limitavo a governare la VW. Accanto a me, Alison piangeva sommessamente. La strada si snodava verso occidente. Il paesaggio che mi si apriva dinnanzi era fatto solo di fattorie e delle curve tortuose della strada. Dopo quella valle ce ne sarebbe stata un'altra e un'altra ancora. Qui il bosco era più fitto e scendeva fino alle case che sorgevano alle pendici del pendio.
Alison allungò la schiena contro il sedile. Non piangeva più. «Continuiamo ad andare» mi supplicò. «Non voglio vedere Zack, non posso. Gli scriveremo dal posto in cui ci fermeremo.»
«D'accordo.»
«Non importa dove andiamo. Un posto qualsiasi nel Wyoming, o nel Colorado.»
«Dove vuoi tu» dissi io. «Faremo tutto quello che vuoi tu.» La curva di un collo, la pressione di due mani, il gesto familiare di un braccio. All'improvviso avvertii il bruciore delle vesciche sulle mani e i nervi del viso cominciarono a trasmettermi il dolore delle ustioni; finalmente cominciavo a sentirmi meglio.
Alla curva successiva la macchina vibrò e il motore si spense. Nel silenzio della valle, udii l'eco della mia risata.
FINE