«Lo saprai fra un secondo», rispose il capitano, afferrandolo sotto le ascelle e issandolo da terra. «Adesso vedrai un pannello davanti a te», gli mormorò. «Fallo scorrere verso sinistra.»
Sempre alla cieca, Jack tastò davanti a sé e trovò legno levigato. Lo scostò senza fatica e nel passaggio segreto entrò un po' di luce grazie alla quale vide un ragno grosso come un gattino che correva verso il soffitto. Da là guardava in un locale grande come un vestibolo d'albergo, popolato di donne in bianco e arredato con mobili così preziosi da fargli ricordare tutti i musei che aveva visitato con i genitori. Al centro una donna giaceva addormentata o svenuta su un letto immenso e di lei scorgeva solo la testa e le spalle sopra l'orlo delle lenzuola.
Allora a stento Jack non gridò per lo stupore e il terrore, perché la donna a letto era sua madre. Era sua madre e stava morendo.
«Ora l'hai vista», bisbigliò il capitano, stringendolo con maggior vigore sotto le ascelle.
A bocca spalancata Jack contemplava sua madre. Stava morendo, ormai non c'erano più dubbi: persino la sua pelle sembrava scolorita e malsana e anche i suoi capelli avevano perso gran parte del colore. Le infermiere si muovevano zelanti intorno a lei, raddrizzando le lenzuola o riordinando i libri sul tavolo, ma si vedeva che avevano assunto questo atteggiamento così indaffarato solo perché non avevano la più pallida idea di come aiutare la loro paziente. Sapevano che per una paziente come questa non c'era veramente niente da fare. Se fossero riuscite a scongiurare la morte per un altro mese, o anche solo una settimana, avrebbero svolto fino in fondo il loro dovere.
Jack tornò a fissare la maschera di cera della donna coricata nel letto e vide che non era sua madre. Il suo mento era più arrotondato, la linea del suo naso era lievemente più classica. Quella donna morente era la Gemellante di sua madre, era Laura DeLoessian. Ma anche se Svelto aveva sperato che potesse vedere di più, Jack constatava ora che quel volto bianco e immobile nulla gli diceva della Regina.
«Ho visto», sussurrò chiudendo lo spioncino, e il capitano lo posò a terra.
Nell'oscurità domandò: «Che cos'ha?».
«Nessuno riesce a capirlo», rispose l'ufficiale. «La Regina non vede, non parla, non si muove...» Ci fu un silenzio per un momento e poi il capitano gli toccò la mano e disse: «Dobbiamo tornare indietro».
Emersero senza rumore dalla tenebra nella stanza piena di mobili. Il capitano si spazzò le ragnatele che gli erano rimaste attaccate allo sparato della divisa. Con la testa inclinata di lato contemplò Jack per un lungo momento e la sua espressione era di profonda preoccupazione. «Adesso devi rispondere a una mia domanda», lo invitò.
«Va bene.»
«Sei stato mandato qui per salvarla? Per salvare la Regina?»
Jack assentì. «Credo. Almeno in parte. Ma mi dica una cosa.» Esitò. «Perché quei farabutti là fuori non ne approfittano? È chiaro che lei non può fermarli in alcun modo.»
Il capitano sorrise e non c'era traccia di allegria in quel sorriso. «Per colpa mia», rispose. «E dei miei uomini. Li fermeremmo noi. Non so che cosa può essere successo negli Avamposti dove l'ordine è più instabile. Ma qui regna ancora la Regina.»
Un muscolo sotto l'occhio dello zigomo sano gli guizzò come un pesciolino. Si premeva la mano nella mano, palmo contro palmo. «E ti è stata data istruzione, ordine, non so... ehm, di andare a ovest, dico bene?»
Jack sentiva come l'ufficiale vibrava riuscendo a controllare la sua crescente agitazione solo grazie alla consolidata abitudine dell'autodisciplina. «È così, infatti», rispose. «Devo andare a ovest. Non è giusto? Non devo andarci? All'altra Alhambra?»
«Non so dire, non so dire», proruppe il capitano, indietreggiando di un passo. «Devo farti uscire da qui, immediatamente. Ma non so dirti che cosa devi fare.» Ora non riusciva più nemmeno a guardare in faccia Jack. «Ma non ti puoi trattenere qui nemmeno per un minuto ancora. Vediamo se riusciamo a farti fuggire prima che arrivi Morgan.»
«Morgan?» esclamò Jack, quasi convinto di non aver udito bene. «Morgan Sloat? Viene qui?»
7
Farren
1
Il capitano non doveva aver sentito. Stava fissando un angolo di quella stanza abbandonata come se ci fosse qualcosa da vedere. Pensava, attentamente e febbrilmente. Jack lo capiva. E zio Tommy gli aveva insegnato a non interrompere un adulto che sta pensando, perché è maleducato come interrompere un adulto che sta parlando. Però...
Stai alla larga dal vecchio Sloat. Stai attento alle sue tracce, le sue e quelle del suo Gemellante... ti braccherà come una volpe bracca un'oca.
Così gli aveva detto Svelto e Jack si era preoccupato tanto del Talismano che quasi il suo avvertimento gli era sfuggito. Ora però le parole del negro gli tornavano alla mente con forza maligna, quasi che stesse ricevendo un colpo alla base del collo.
«Che aspetto ha?» chiese concitato.
«Morgan?» domandò il capitano trasalendo, come strappato da un intimo sogno.
«È grasso? È grasso e pelato? E quando è in collera fa così?» Sfruttando un dono innato che aveva per la mimica, un talento con il quale riusciva a far sganasciare dalle risa suo padre anche quando era stanco e si sentiva giù di corda, Jack "fece Morgan Sloat". Invecchiò di colpo accigliandosi come si accigliava lo zio Morgan quando era fortemente scocciato per qualcosa. Contemporaneamente si risucchiò le guance nella bocca e si spinse il mento contro il collo per formare una pappagorgia. Quindi spinse le labbra all'infuori in un muso di pesce e cominciò a far vibrare velocemente le sopracciglia. «Fa così?»
«No», rispose il capitano, sebbene un lampo gli passasse negli occhi come già era successo quando Jack gli aveva detto che Svelto Parker era anziano. «Morgan è alto, porta i capelli lunghi.» E il capitano si toccò la spalla destra con la mano per mostrargli quanto. «E zoppica. Ha un piede deforme. Calza uno stivale speciale, ma...» Si strinse nelle spalle.
«Lei lo ha riconosciuto quando io l'ho imitato!»
«Sssst! E non gridare così, ragazzo!»
Jack abbassò la voce. «Io credo di conoscerlo», incalzò e per la prima volta provò paura sotto forma di emozione concreta, qualcosa che si poteva afferrare come ancora non gli era dato di fare in questo strano mondo. Lo zio Morgan qui? Gesù!
«Morgan è Morgan e basta. Non uno da prendere sottogamba, ragazzo. Coraggio, andiamocene.»
Di nuovo la sua mano si chiuse sul braccio di Jack e Jack fece una smorfia, ma oppose resistenza.
Parker diventa Parkus e Morgan... non può essere solo una coincidenza.
«Non ancora», protestò. Doveva risolvere un altro interrogativo. «Aveva un figlio?»
«Dici della Regina?»
«Sì.»
«Aveva un figlio», rispose con riluttanza il capitano. «Sì, ragazzo, non possiamo restare qui. Dobbiamo...»
«Mi parli di lui!»
«Non c'è niente da raccontare», insisté il capitano. «Morì neonato, a nemmeno sei settimane di vita. Corse voce che uno degli uomini di Morgan lo avesse soffocato, forse Osmond. Ma dicerie di questo genere lasciano sempre il tempo che trovano. Non ho alcun motivo per difendere Morgan di Orris, ma tutti sanno che un bimbo su dodici muore appena nato. Nessuno sa perché. Muoiono misteriosamente. Senza causa apparente. C'è un detto: Dio pianta i suoi chiodi. Nemmeno un bimbo reale fa eccezione agli occhi del Falegname. Lui... Ragazzo, ma stai bene?»
Il mondo intorno a Jack diventava grigio. Vacillò e quando il capitano lo trattenne, le sue mani nerborute gli sembrarono soffici come guanciali di piuma.
Anche lui era quasi morto da neonato.
La storia gliel'aveva raccontata sua madre: come lo aveva trovato immobile e apparentemente privo di vita nella culla. Le labbra cianotiche, le guance color di ceri funebri spenti. Gli aveva raccontato come era corsa urlando in soggiorno tenendolo fra le braccia. Suo padre e Sloat erano seduti sul pavimento, imbottiti di vino e di erba, occupati a seguire un incontro di lotta alla televisione. Il padre aveva strappato il neonato dalle braccia della madre. Gli aveva serrato crudelmente le narici con la sinistra (ti sono rimasti i segni per un mese, Jacky) e aveva applicato le labbra alla bocca minuscola di Jack, mentre Morgan strillava: Non credo che così possa funzionare, Phil, non credo che così possa funzionare.
(Lo zio Morgan era buffo, non è vero, mamma? aveva commentato Jack. Sì, molto buffo, Jacky, aveva risposto sua madre con un sorriso stranamente privo di allegria, mentre si accendeva un'altra Catramosa con il mozzicone di quella che finiva di consumarsi nel posacenere.)
«Ragazzo!» bisbigliò il capitano, scrollandolo con tanta forza che Jack avvertì uno strappo nel collo. «Ragazzo! Dannazione! Se mi svieni adesso...»
«Sto bene», disse Jack, con una voce che sembrava giungere da lontano. «Sto bene, mi lasci andare.»
Il capitano smise di scuoterlo, ma lo sorvegliò con attenzione.
«Bene», ripeté Jack e all'improvviso si schiaffeggiò con forza. Ahi! Ma il mondo tornava lentamente a fuoco. Era quasi morto nella sua culla. In quell'abitazione che occupavano allora, quella che ricordava solo vagamente, quella che sua madre aveva sempre chiamato il Palazzo in Technicolor per la vista spettacolare delle colline di Hollywood che si godeva dal soggiorno. Era quasi morto nella culla e suo padre e Morgan Sloat tracannavano vino e quando si beve molto vino si piscia parecchio e Jack ricordava il Palazzo in Technicolor abbastanza bene da sapere che dal soggiorno si arrivava alla stanza da bagno più vicina attraversando la camera che era stata sua da neonato.
Vide: Morgan Sloat che si alzava, con un sorriso tranquillo, dicendo qualcosa come Un attimo che vado a farmi un po' di posto, Phil, suo padre non si girò neppure perché Haystack Calhoun stava per rifilare una palla carica d'effetto o una smorzata a qualche battitore smidollato; Morgan che passava dal bagliore televisivo del soggiorno all'oscurità cinerea della cameretta dove il piccolo Jacky Sawyer dormiva nella sua tutina, piccolo Jacky Sawyer caldo e comodo in un pannolino asciutto. Vide lo zio Morgan che gettava un'occhiata furtiva al riquadro illuminato della porta del soggiorno, la sua fronte stempiata che s'increspava in una serie di rughe profonde, le sue labbra che sporgevano nel muso freddo di una carpa; vide lo zio Morgan prendere un cuscino da una seggiola, lo vide calarlo dolcemente, ma con fermezza sulla testa del bimbo addormentato e tenercelo con la mano mentre con l'altra immobilizzava il neonato. E dopo che ogni movimento fu cessato, vide lo zio Morgan riporre il cuscino sulla seggiola dove soleva sedere Lily ad allattare e andare in bagno a orinare.
Se sua madre non fosse venuta quasi immediatamente dopo a controllarlo...
Un sudore freddo gli scaturì da ogni poro.
Era andata così? Possibile. Il suo cuore glielo confermava. La coincidenza era troppo precisa, troppo assoluta.
A sei settimane di vita, il figlio di Laura DeLoessian, la Regina dei Territori, era morto nella sua culla.
All'età di sei settimane, il figlio di Phil e Lily Sawyer era quasi morto nella sua culla e Morgan Sloat era li.
Sua madre terminava sempre il suo racconto con una battuta divertente. Phil Sawyer aveva quasi grippato il motore della loro Chrysler precipitandosi all'ospedale dopo che Jacky aveva già ripreso a respirare.
Molto divertente. Come no.
2
«Avanti», lo esortò il capitano.
«D'accordo», rispose Jack. Si sentiva debole, intontito. «D'accordo, an...»
«Ssst!» Il capitano alzò di scatto la testa a un rumore di voci vicine. La parete alla loro destra non era di legno, bensì di tela pesante. Arrivava a mezza spanna dal pavimento e grazie a quel tratto scoperto Jack vide passare degli stivali. Cinque paia. Stivali militari.
Nel brontolio confuso una voce disse: «...non sapevo che avesse un figlio».
«Bah», ribatté un'altra voce, «i bastardi generano altri bastardi. Dovresti saperlo bene, Simon.»
Ci fu un'eco sguaiata di risa brutali, del genere di quelle che Jack sentiva prorompere dai ragazzi più grandi a scuola, quelli che si facevano le canne dietro la falegnameria e apostrofavano i più giovani con epiteti misteriosi e talvolta terrificanti: storto o ba-ba o amorfoso. Ognuna di queste definizioni un po' viscide era seguita da un roco schiamazzo di risa proprio come queste.
«Zitti! E chiudete 'sto becco!» ringhiò una terza voce. «Se vi sente lui, vi trovate di pattuglia agli Avamposti prima del tramontare di trenta soli!»
Borbottii.
Un altro scoppio di risa, questa volta sommesso.
Un'altra battuta di spirito, questa volta incomprensibile. Altre risate.
Jack guardò il capitano che fissava il tendone troppo corto con le labbra rovesciate e aperte sui denti fino alle gengive. Era chiaro di chi stessero parlando. E se parlavano poteva esserci qualcuno in ascolto... il qualcuno sbagliato. Qualcuno che avrebbe potuto chiedersi chi fosse in realtà questo bastardino apparso così all'improvviso. Era un pencolo che intuiva anche un ragazzo giovane come lui.
«Hai sentito abbastanza?» sibilò il capitano. «Dobbiamo muoverci!» Sembrava sul punto di scuoterlo di nuovo... ma poi non s'azzardò.
È cambiato, pensò Jack. È cambiato due volte.
Una volta quando Jack gli aveva mostrato un dente di squalo che era stato un plettro filigranato nel mondo in cui le strade sono percorse da autocarri e non da carretti trainati da cavalli. Ed era cambiato di nuovo quando Jack aveva confermato la sua intenzione di dirigersi a ovest. Era passato da un atteggiamento di minaccia a uno di collaborazione e da quello a... che cosa?
Non so dire... non so dirti che cosa devi fare.
Ha un atteggiamento di soggezione religiosa... o di terrore religioso.
Vuole che ce ne andiamo da qui perché ha paura che ci scoprano, rifletté Jack. Ma c'è dell'altro, non è vero? Ha paura di me. Paura di...
«Andiamo», ripeté per l'ennesima volta il capitano. «Andiamo, per amor di Giasone.»
«Per l'amore di chi?» chiese stupidamente Jack, mentre il capitano già lo spingeva fuori. Lo trascinò e lo sospinse furiosamente per un corridoio che era di legno su un lato e di rigida tela odorosa di muffa dall'altro.
«Non è da qui che siamo venuti», mormorò Jack.
«Non dobbiamo passare davanti a quella gente che abbiamo visto quando siamo entrati», gli rispose il capitano in un bisbiglio. «Gli uomini di Morgan. Hai visto quello alto? Quello tutto pelle e ossa che quasi gli vedi attraverso?»
«Sì.» Jack ricordava il suo sorriso sottile sotto agli occhi che non sorridevano. Gli altri gli sembravano rammolliti. Quell'uomo smilzo era un duro e aveva anche l'aria di essere pazzo. E un'altra cosa ancora: gli era vagamente familiare.
«Osmond», disse il capitano trascinando Jack verso destra.
L'odore della carne arrosto era diventato via via più intenso e adesso tutta l'aria ne era pregna. Mai in vita sua Jack aveva fiutato carne che desiderasse tanto assaggiare. Era spaventato, mentalmente ed emotivamente era teso come non mai, forse in bilico sull'orlo della follia... ma aveva la bocca piena di acquolina.
«Osmond è il braccio destro di Morgan», grugnì il capitano. «Vede troppe cose ed è opportuno che non veda te due volte, ragazzo mio.»
«Come sarebbe?»
«Sssst!» Strizzò quasi con rabbia il braccio indolenzito di Jack. Erano arrivati a una tenda di stoffa che pendeva nel riquadro di una porta. A Jack sembrava una tenda da doccia, solo che questa era una specie di juta di trama così grezza e allentata da somigliare a una rete e gli anelli ai quali era appesa, più che cromati, sembravano di osso. «Adesso mettiti a piangere», gli alitò il capitano nell'orecchio.
Scostò la tenda e trascinò Jack in un'ampia cucina dove si confondevano aromi gustosi fra i quali predominava quello della carne in un'atmosfera resa calda e lattiginosa dai vapori. Jack colse un'immagine sconnessa di bracieri, un enorme camino di pietra, facce di donne sotto le pieghe dei fazzoletti bianchi che gli ricordavano i veli delle suore. Alcune erano attorno a un grande crogiuolo di ferro sorretto da cavalietti e avevano la faccia rossa e imperlata di sudore, occupate a lavare pentolame e utensili da cucina. Altre stavano a un banco che occupava un intero lato della stanza e tagliavano e affettavano, riducevano legumi in cubetti, toglievano noccioli e torsoli. Un'altra trasportava una griglia di ferro con alcune torte da cuocere. Tutte guardavano Jack e il capitano che attraversavano la cucina.
«Non ti permettere mai più!» tuonò il capitano, scrollando Jack come un terrier scuote un topo... continuando frattanto a camminare veloce diretto all'ampia porta che si trovava dall'altra parte.
«Mai più, mi hai sentito? La prossima volta che non fai quello che ti ordino, ti apro la pelle lungo la schiena e ti pelo come una patata al forno.» E a voce bassissima gli sibilò: «Ricorderanno e parleranno, perciò piangi, dannazione!».
Allora, mentre il capitano con la cicatrice lo trascinava attraverso i fumi della cucina tenendolo per il colletto e stringendogli il braccio indolenzito, Jack richiamò alla mente l'immagine terribile di sua madre agonizzante in una camera ardente. La vide fra pieghe vaporose di organza bianca, sdraiata nella sua bara, nel vestito da sposa che aveva indossato in un film. Il suo viso acquistò contorni sempre più precisi nella mente di Jack, una perfetta effigie di cera e allora vide che portava i suoi minuscoli orecchini d'oro a forma di croce, quelli che Jack le aveva regalato per Natale due anni prima. Poi la faccia cambiò. Il mento si arrotondò, il naso diventò più patrizio. I capelli diventarono più chiari e un po' più ruvidi. Adesso in quella bara vedeva Laura DeLoessian e la cassa stessa non era più l'anonimo contenitore messo a disposizione dall'impresa delle pompe funebri, bensì un contenitore che sembrava ricavato con furia cieca da un vecchio tronco, una bara da Vichingo, posto che una cosa del genere fosse mai esistita. Era più facile immaginarsi questa bara incendiata con una torcia in cima a una pira di ceppi inondati di petrolio che immaginarsela calata nella terra mansueta. Era Laura DeLoessian, Regina dei Territori, ma nella sua fantasticheria diventata precisa come una visione, la Regina indossava l'abito di nozze che aveva sua madre nel film e gli orecchini d'oro a forma di croce che lo zio Tommy lo aveva aiutato a scegliere. Lacrime improvvise gli sgorgarono in un'ondata calda e pungente, non lacrime fasulle, ma molto reali, non solo per sua madre, ma per entrambe queste povere donne che morivano in due differenti universi legate da un medesimo cordone invisibile che poteva forse marcire, ma che mai si sarebbe spezzato, almeno non prima che fossero entrambe decedute.
Attraverso le lacrime vide un uomo gigantesco correre verso di loro in uno svolazzo di indumenti bianchi. Portava una fascia rossa alla testa invece del morbido copricapo di un cuoco, ma Jack pensò che avesse lo stesso scopo, vale a dire identificare il comandante in capo di una cucina. Brandiva inoltre una minacciosa forchetta di legno a tre rebbi.
«FUORI!» strillò il cuoco, vomitando una voce assurdamente flautata da un torace possente: era la voce di un gay mellifluo che strapazzava il commesso di un negozio di calzature. Ma non c'era niente di assurdo in quel forcone, che gli sembrò micidiale.
Le donne scapparono di qua e di là come uccelli spaventati. La torta più pericolante scivolò dalla griglia della donna diretta al forno che lanciò un grido acuto e disperato vedendola disfarsi sulle assi del pavimento. Succo di fragole schizzò e si sparse, un rosso fresco e brillante come sangue d'arteria.
«FUORI DALLA MIA CUCINA, DISGRAZIATI! QUI NON SIAMO IN PIAZZA D'ARMI! QUESTO NON È UN CESSO! QUESTA È LA MIA CUCINA E SE NON VE LO FICCATE NELLA TESTA VI AFFETTO IL CULO!»
Agitò la sua forchetta e simultaneamente girò per metà la testa strizzando gli occhi come se, a dispetto delle sue rudi minacce, il pensiero di caldo sangue sgorgante gli fosse disgustosamente insopportabile. Il capitano staccò la mano dal colletto di Jack e allungò il braccio in un gesto che al ragazzo parve quasi casuale. Un attimo dopo il cuoco era riverso sul pavimento in tutti i suoi duecento centimetri di statura. La forchetta era finita in una pozzanghera di succo di fragola nella quale navigavano pezzetti di pasta bianca ancora cruda. Il cuoco si dimenò afferrandosi il polso destro spezzato e strillando con quella sua voce acuta e flautata.
I messaggi che lanciava a tutti i presenti erano indubbiamente sensazionali: era morto, il capitano lo aveva sicuramente assassinato (aveva una strana pronuncia, quasi teutonica). Era come minimo storpiato per la vita perché quel crudele e spietato capitano delle Guardie Esterne gli aveva maciullato la mano destra e con questo strappato la sua vitalità, destinandolo alla miserabile esistenza di mendicante per gli anni a venire; il capitano gli aveva inflitto un dolore terribile, da non crederci, impossibile da sopportare...
«Zitto!» ruggì il capitano, e il cuoco chiuse la bocca. Immediatamente. Restò sdraiato per terra come un enorme neonato con la mano destra ripiegata sul petto, la fascia rossa di sghimbescio a lasciare scoperto un orecchio (al centro del lobo c'era una perlina nera), la ciccia che gli tremava nelle guance. Le cuciniere mandarono grida soffocate o pigolarono al vedere il capitano che si chinava sul temuto orco della caverna dei vapori dove trascorrevano i loro giorni e le loro notti. Jack, ancora piagnucolante, scorse un ragazzo nero (bruno, per meglio dire) fermo vicino a uno dei bracieri più grandi. Aveva la bocca spalancata in una comica espressione di sorpresa da avanspettacolo, ma continuava a girare la manovella e il quarto di manzo sospeso sulla brace continuò a ruotare.
«Adesso ascoltami, che ti darò qualche consiglio che non troverai sul Libro dell'agricoltura», disse il capitano. Si chinò sul cuoco quasi a sfiorargli il naso, senza però allentare la stretta con la quale paralizzava il braccio di Jack. «Mai e poi mai... ti venga in mente di affrontare un uomo con un coltello... o una forchetta... o uno spiedo... o foss'anche una dannata scheggia in mano se non hai intenzione di uccidere. Ci si aspetta temperamento dai cuochi, ma nel temperamento non sono comprese aggressioni alla persona del capitano delle Guardie Esterne. Hai capito?»
Il cuoco gemette qualcosa di lacrimoso e insieme arrogante che Jack non riuscì a comprendere del tutto, anche perché il suo accento si era ulteriormente appesantito. Comunque aveva a che fare con la madre del capitano.
«Può anche essere», ribatté il capitano. «Non ho mai conosciuto mia madre. Ma certamente non hai risposto alla mia domanda.» Toccò il cuoco con la punta cromata e impolverata dello stivale. Fu abbastanza delicato, tuttavia il cuoco cacciò uno strillo come se il capitano gli avesse sferrato una potente pedata. Le donne si misero a pigolare di nuovo.
«Abbiamo o non abbiamo raggiunto la necessaria comprensione in tema di cuochi e armi e capitani? Perché se ancora non ci siamo, ti ci vuole un'altra lezioncina.»
«L'abbiamo!» gracchiò il cuoco. «L'abbiamo! L'abbiamo! L'abb...»
«Bene. Perché per oggi ho già dovuto dispensare fin troppe lezioni.» Scosse Jack tenendolo per il colletto. «Non è vero, ragazzo?» Lo strapazzò di nuovo e Jack lanciò un gemito del tutto autentico. «Allora... mi pare di non avere altro da aggiungere. Questo ragazzo è un sempliciotto. Come sua madre.» Il capitano lasciò spaziare il suo cupo cipiglio per tutta la cucina.
«Buongiorno, signore. Abbiate la benedizione della Regina.»
«Lo stesso a voi, buon signore», riuscì a rispondere la più anziana accartocciandosi in una riverenza aggraziata. Fu imitata dalle altre.
Il capitano riprese a trascinare Jack, che urtò con l'anca un mastello con tale violenza da lasciarsi sfuggire un altro strillo.
Si rovesciò acqua calda. Gocce fumiganti schizzarono le assi e scivolarono sibilando fra di loro. E quelle donne ci tenevano dentro le mani, pensò Jack. Come fanno a sopportarlo? Poi il capitano, che ormai praticamente lo trasportava di peso, uscì da un'altra tenda di juta in un corridoio.
«Puah», commentò a bassa voce. «Non mi piace. Neanche un po', e c'è un puzzo schifoso.»
A sinistra, a destra, di nuovo a sinistra. Jack cominciò a sentire che si stavano avvicinando alle pareti esterne del padiglione ed ebbe tempo di domandarsi come potesse quel luogo sembrare tanto più grande all'interno di quanto apparisse all'esterno. Poi il capitano lo sospinse attraverso un lembo di tela e si trovarono nuovamente alla luce del giorno. Luce da mezzo pomeriggio, così brillante dopo le mutevoli penombre del padiglione che Jack dovette serrare gli occhi con una fitta di dolore.
Il capitano procedeva senza indugio. Sotto di loro c'era lo sciacquio di una fanghiglia. Intorno c'era un odore di fieno e di cavalli e di sterco. Jack riaprì gli occhi e vide che stavano attraversando un recinto per il bestiame, oppure un'aia. Vide un'apertura in una tela e sentì chiocciare le galline. Un uomo incartapecorito, tutto nudo eccetto che per un lurido gonnellino e sandali di laccio, gettava fieno in una stalla aperta servendosi di un forcone con i rebbi di legno. Dall'interno della stalla un cavallo non molto più grande di un pony li osservò con l'aria cupa. Avevano già sorpassato la stalla quando la mente di Jack riuscì finalmente ad accettare quello che avevano visto i suoi occhi. Il cavallo aveva due teste.
«Ehi!» esclamò. «Posso guardare di nuovo in quella stalla? Quel...?»
«Non c'è tempo.»
«Ma quel cavallo aveva...?»
«Non c'è tempo, ho detto.» Il capitano alzò la voce e gridò: «E se ti ritrovo a bighellonare quando c'è del lavoro da svolgere, ti buschi una razione doppia!».
«Non succederà più!» strillò Jack (per la verità gli sembrava che questa scena stesse diventando stantia). «Lo giuro! Ti ho detto che farò il bravo!»
Davanti a loro un grande cancello di legno a due battenti era ritagliato in una palizzata di tronchi che avevano ancora la corteccia: sembrava il muro esterno di un forte in un vecchio film western (sua madre aveva recitato in alcuni). Pesanti sostegni a elle erano avvitati nei battenti, ma mancava la sbarra che avrebbero dovuto reggere. Essa era appoggiata a una catasta di legna sulla sinistra, grossa come una traversina di strada ferrata. I battenti erano dischiusi. Nel generale disorientamento, la mente di Jack gli suggerì l'ipotesi che avessero compiuto un giro completo del padiglione e si trovassero ora sull'altro versante.
«Dio sia ringraziato», commentò il capitano con una voce più normale. «Adesso...»
«Capitano», lo chiamò una voce. Era bassa, questa voce, ma il richiamo giunse alquanto preciso, sebbene illusoriamente casuale. Il capitano si fermò sui suoi passi. I due erano arrivati al portone di legno e già l'ufficiale stava per spingere un battente. Era come se il possessore di quella voce li avesse sorvegliati aspettando proprio quell'istante.
«Forse vorrete essere tanto gentile da presentarmi a vostro... ehm... figlio.»
Il capitano si girò voltando anche Jack. In mezzo alla zona delle scuderie, vistosamente incongruo, c'era quello scheletrico cortigiano che il capitano temeva: Osmond. Li osservava con malinconici occhi color grigio scuro. Jack scorse qualcosa che si agitava in quegli occhi, in fondo in fondo. La sua paura si fece all'improvviso più acuta, come la punta di una picca che lo feriva. È pazzo, questa fu l'intuizione che gli balzò spontanea alla mente. Più suonato di una campana.
Osmond avanzò con due passi elastici. Nella sinistra stringeva l'impugnatura di una frusta di cuoio grezzo. Essa si assottigliava solo lievemente in uno scuro tentacolo che teneva arrotolato per tre volte sulla spalla: il diametro centrale della sua sferza era quello di un serpente a sonagli. All'estremità questo nerbo centrale dava origine a una dozzina di propaggini più sottili, formate da fili di cuoio intrecciati, ciascuna sormontata da uno sperone metallico di rudimentale fattura, per quanto scintillante.
Osmond diede un leggero strattone all'impugnatura della frusta che gli scivolò dalla spalla con un sibilo secco. Mosse quindi il polso e le punte metalliche fremettero lentamente nel fango cosparso di paglia.
«Vostro figlio?» ripeté Osmond avanzando di un passo ancora e Jack capì all'improvviso perché quest'uomo aveva qualcosa di familiare. Quel giorno in cui l'avevano quasi rapito: costui non era forse quello che indossava l'abito bianco?
3
Il capitano chiuse un pugno e se lo portò alla fronte, quindi si chinò in avanti. Dopo un attimo di esitazione Jack fece lo stesso.
«Mio figlio Lewis», presentò l'ufficiale. Era ancora chinato, notò Jack con una rapida occhiata obliqua. Così rimase chino anche lui, con il cuore che gli batteva forte.
«Grazie, capitano. Grazie, Lewis. Abbiate la benedizione della Regina.»
Quando lo toccò con l'impugnatura della frusta, Jack per poco non cacciò un grido. Si drizzò mordendosi la lingua.
Adesso Osmond era a due passi da loro e rimirava Jack con quei suoi occhi folli e malinconici. Indossava una giacca di pelle tempestata forse di diamanti. La sua camicia era ornata da una sovrabbondanza di trine. Quando muoveva il polso destro faceva tintinnare rumorosamente un braccialetto formato da numerosi anelli (dal modo in cui maneggiava la frusta, Jack giudicò che fosse mancino). Portava i capelli tirati all'indietro e legati con un grande fiocco bianco, forse di raso. Emanava due odori distinti. Quello principale era ciò che sua madre chiamava «tutti quei profumi da donna», assimilando dopobarba, acqua di colonia e altro del genere. Questo odore di Osmond era denso e farinoso. Faceva pensare a Jack a quei vecchi film inglesi in bianco e nero dove qualche poveraccio veniva giudicato alla corte penale di Londra. I giudici e gli avvocati in quei film portavano sempre la parrucca e Jack riteneva che le scatole da cui uscivano quelle parrucche avessero l'odore di Osmond: asciutto e dolciastro, come le più antiche ciambelle dolci del mondo, rivestite di zucchero a velo. Sotto di esso, però, c'era un altro odore più vivo e ancor meno gradevole: questo sembrava pulsargli fuori. Era un odore di strati di sudore, strati di sporcizia, l'odore di un uomo che si lava raramente o mai.
Sì. Questa era una delle creature che avevano cercato di sequestrarlo.
Gli si annodò lo stomaco.
«Non sapevo che aveste un figlio, capitano Farren», commentò Osmond. Anche se parlava al capitano teneva gli occhi fissi su Jack. Lewis, pensò, mi chiamo Lewis, non te lo dimenticare...
«Avrei preferito non saperlo nemmeno io», ribatté il capitano, indirizzando a Jack un'occhiata di ira e sdegno. «Lo onoro portandolo al grande padiglione e lui se la svigna come un cane randagio. L'ho pescato che giocava al...»
«Sì, sì», lo interruppe Osmond, con un sorriso remoto. Non crede a una sola parola, pensò disperatamente Jack, e la sua mente si avvicinò di un altro passo goffo al pozzo del panico. Non una sola parola! «Questi monelli! Tutti i ragazzi sono cattivi. È assiomatico.»
Toccò Jack al polso con l'impugnatura della frusta. Jack, che aveva i nervi insopportabilmente tesi, gridò... e immediatamente dopo arrossì per la vergogna.
Osmond ridacchiò. «Cattivi, oh sì, è assiomatico. Tutti i ragazzi sono cattivi. Io ero cattivo. E scommetto che anche voi eravate un monello, capitano Farren, eh? Eh? Eravate un birbante?»
«Sì, Osmond», rispose il capitano.
«Parecchio?» lo pungolò Osmond. Per quanto incredibile, si pavoneggiava in quello scenario di fango e stalle. Eppure in lui non c'era niente di effeminato: Osmond era sinuoso e quasi delicato, ma Jack non vi leggeva traccia autentica di omosessualità; se qualche allusione trapelava dalle sue parole, allora Jack percepiva d'intuito che erano prive di fondamento. No, quello che gli trasmetteva assai chiaramente era un senso di malvagità... e di follia. «Molto birbante? Spaventosamente birbante?»
«Sì, Osmond», rispose il capitano Farren, legnoso. Nel sole pomeridiano gli brillava la cicatrice, ora più rossa che rosa.
Osmond cessò il suo piccolo ballo improvvisato bruscamente come l'aveva iniziato. Contemplò freddamente il capitano.
«Nessuno sapeva che aveste un figlio, capitano.»
«È bastardo», disse il capitano. «E stupido. Pigro per giunta, come si è scoperto ora.» Si voltò di scatto e assestò un manrovescio a Jack. Nel colpo non aveva messo una grande forza, ma la mano del capitano era dura come un mattone. Jack ululò e cadde nel fango schiacciandosi l'orecchio malmenato.
«Molto cattivo, spaventosamente cattivo», commentò Osmond, ma adesso la sua faccia era mortalmente inespressiva, assottigliata ed enigmatica. «Alzati, bambino cattivo. I bambini cattivi che disubbidiscono ai loro padri devono essere puniti. Un bambino cattivo deve essere interrogato.» Vibrò la frusta che produsse uno schiocco cupo. La mente traballante di Jack formulò un'altra singolare associazione, forse con l'intento di restare legato in ogni modo possibile all'altro mondo che conosceva. Il rumore della frusta di Osmond era uguale allo schiocco del fucile ad aria compressa che aveva avuto all'età di otto anni. Anche Richard Sloat aveva un fucile così.
Osmond si chinò per afferrare con una mano bianca e somigliante a un ragno il suo braccio inzaccherato. Issò Jack nei suoi odori, quello farinoso più dolce e quello ammuffito e rancido. I suoi occhi grigi e stregati trafissero con un'espressione solenne quelli azzurri di Jack. Jack si sentì gonfiare la vescica e dovette faticare per non orinare nei pantaloni.
«Chi sei?» domandò Osmond.
4
La domanda restò sospesa nell'aria.
Jack sentiva che il capitano lo fissava con un'espressione severa che non riusciva a nascondere del tutto la sua disperazione. Sentiva starnazzare i polli. Un cane che abbaiava. Il fragore lontano di un grosso carro in arrivo.
Dimmi la verità, capirò se menti, gli dicevano quegli occhi. Somigli a un certo ragazzo cattivo che ho conosciuto in California, o sbaglio?
Per un momento tutto gli tremò sulle labbra.
Jack, sono Jack Sawyer, sissignore, il ragazzo della California, la Regina di questo mondo era mia madre, solo che io sono morto e conosco il tuo padrone, conosco Morgan, lo zio Morgan, e ti dirò tutto quello che vuoi se solo smetterai di guardarmi con quegli occhi ammattiti, sicuro, perché io sono solo un bambino, ed è questo che fanno i bambini, dicono, dicono tutto...
Poi udì la voce di sua madre, asciutta, ai limiti del duro rimprovero:
Vuoi calare le brache davanti a costui, Jacky? Proprio QUESTO individuo? Che puzza come una svendita al reparto dei profumi da uomo e sembra una versione medievale di Charles Manson...? Fai pure. Potresti mangiartelo in insalata, se tu volessi, così, ma fai pure.
«Chi sei?» chiese di nuovo Osmond, avvicinandosi ancora, e sulla sua faccia Jack riconobbe ora una sicurezza totale, perché era abituato a ottenere dalla gente le risposte che voleva, da chiunque, non solo da ragazzini dodicenni.
Jack trasse un respiro profondo e tremulo (Quando vuoi ottenere il massimo del volume, quando vuoi che la voce arrivi fino in piccionaia, devi tirartela fuori dal diaframma, Jacky. Salendo è come se venisse amplificata dall'imbuto della bocca) e gridò:
«VOLEVO TORNARE SUBITO! LO GIURO DAVANTI A DIO!»
Osmond, che si era chinato fino a sfiorarlo, anticipando un bisbiglio rotto e privo di vita, rinculò, quasi che Jack gli avesse sferrato un pugno. Calpestò l'estremità della sua frusta e rischiò di inciampare e cadere.
«Razza di dannato piccolo...»
«LO GIURO! VI PREGO NON FRUSTATEMI, OSMOND, STAVO TORNANDO! NON VOLEVO VENIRE QUI, NON VOLEVO, NON VOLEVO...»
Il capitano Farren lo colpì alla schiena, Jack stramazzò lungo disteso nel fango, continuando a urlare.
«È scarso di testa, vi avevo avvertito», sentì dire dal capitano. «Vi porgo le mie scuse, Osmond. Potete stare tranquillo che lo tramortisco di botte come merita.»
«Che cosa ci fa qui?» strillò Osmond. Adesso la sua voce era stridula, maligna e scaltra come quella di una pescivendola. «Che cosa ci fa qui questo vostro sottobastardo moccioso? E non offritemi di mostrarmi il suo lasciapassare! So che non ce l'ha! Lo avete intrufolato qui dentro perché si sazi alla tavola della Regina... perché rubi l'argenteria della Regina, per quel che ne so. È cattivo... mi è bastata una sola occhiata per sapere che è assolutamente, intollerabilmente, indubitabilmente cattivo!»
La frusta calò di nuovo e questa volta non fu il fioco colpo di tosse di un fucile ad aria compressa, ma la stentorea detonazione di una calibro ventidue e Jack ebbe tempo di pensare So dove sta andando a finire, e subito un artiglio gli lacerò le carni della schiena. Il dolore gli sprofondò nel corpo intensificandosi. Era lancinante e intorbidiva la mente. Urlò e si dimenò nel fango.
«Cattivo! Spaventosamente cattivo! Indubitabilmente cattivo!»
A ogni "cattivo" l'aria vibrava di un altro crepitare di frusta che lasciava un'altra impronta bruciante nelle carni di Jack e gli strappava un altro grido. Gli ardeva la schiena. Non credeva che avrebbe resistito a lungo, perché Osmond sembrava alimentare a ogni colpo la sua folle frenesia, ma proprio in quell'istante una nuova voce gridò: «Osmond! Osmond! Eccoti! Meno male!».
Un tramestio di passi in corsa.
Poi la voce di Osmond, furente e lievemente affannata. «Che cosa c'è? Che cosa c'è?»
Una mano afferrò Jack per un braccio e l'aiutò ad alzarsi in piedi. Quando barcollò, la mano che lo aveva ghermito gli scivolò attorno alla vita per sorreggerlo. Era difficile credere che il capitano, che si era dimostrato così spietato e severo durante la visita al padiglione, sapesse essere così delicato.
Jack vacillò di nuovo. Il mondo minacciava di rovesciarsi intorno a lui. Dalla schiena gli colavano rivoli caldi di sangue. Guardò Osmond provando un fremito improvviso di odio e gli fece bene. Era un antidoto efficace contro la paura e la confusione.
Questo hai fatto, mi hai fustigato, mi hai fatto male, e ascoltami bene, se avrò occasione di ripagarti...
«Stai bene?» gli bisbigliò il capitano.
«Sì.»
«Che cosa?» strillò Osmond ai due uomini che lo avevano interrotto. Il primo era uno dei damerini che Jack e il capitano avevano incontrato nel padiglione. L'altro somigliava un po' al carrettiere nel quale Jack si era imbattuto quasi subito al suo ritorno nei Territori. Costui sembrava più spaventato che mai e anche ferito: aveva un taglio vistoso alla testa, dal quale gli sgorgava sangue che gli aveva sporcato quasi tutta la faccia. Aveva anche un braccio graffiato e il farsetto stracciato.
«Che cosa mi stai dicendo, razza di imbecille?»
«Il carro mi si è rovesciato alla curva del villaggio di Ognimmani», rispose il carrettiere. Parlava con la pazienza lenta e stupita di una persona in stato di choc. «Mio figlio è rimasto ucciso, mio Dio. Schiacciato sotto le botti. Aveva appena compiuto sedici anni, al Maggio Agricolo. Sua madre...»
«Che cosa?» gridò di nuovo Osmond. «Barili? Birra? Non Kingsland? Non mi verrai a dire che hai rovesciato un carico intero di Kingsland Ale, stupido pene di capra? Non è questo che mi vieni a dire, veeeeeero?»
La voce di Osmond s'inerpicò su quell'ultima parola come la voce di un uomo lanciato in una burlesca imitazione di una cantante d'opera. Fremeva e gorgheggiava e riprese anche a ballare, ma questa volta per il furore. Era così strambo che Jack dovette portarsi le mani alla bocca per soffocare un risolino involontario. Il movimento gli fece sfregare la camicia sulla schiena scorticata e questo gli fece passare la voglia di ridere prima che il capitano potesse mormorargli una raccomandazione
Pazientemente, come se a Osmond fosse sfuggito l'unico fatto saliente (così doveva essere dal suo punto di vista) il carrettiere riprese: «Aveva appena compiuto sedici anni all'ultimo Maggio Agricolo. Sua madre non voleva che venisse con me. Non riesco a capire che cosa...».
Osmond alzò la frusta e la calò con l'accecante velocità di una folgore. Un attimo prima l'impugnatura era brandita mollemente nella sua mano sinistra e la frusta pendeva immobile nel fango; un attimo dopo ci fu uno schiocco non come l'esplosione di una calibro ventidue, ma piuttosto come la detonazione di un fucile giocattolo. Il carrettiere spiccò un balzo all'indietro urlando e coprendosi la faccia con le mani. Fra le dita gli scivolò sangue fresco. Cadde strillando: «Signore! Signore! Signore!» in un rantolo sconnesso.
Jack gemette: «Andiamocene. Presto!».
«Aspetta», lo trattenne il capitano. La sua faccia non era più contratta in una smorfia come prima. Forse c'era un barlume di speranza nei suoi occhi.
Osmond si girò verso il damerino, che s'affrettò a distanziarsi di un passo con un grande lavorio delle labbra carnose e rosse. «Era Kingsland?» ansimò Osmond.
«Osmond, non dovresti lasciarti prendere...»
Osmond sollevò di scatto il polso sinistro. Le terminazioni metalliche della sua frusta rumoreggiarono sugli stivali del damerino. Il damerino indietreggiò di un altro passo.
«Non dirmi quello che devo e non devo fare», ringhiò. «Rispondi alle mie domande. Sono nervoso, Stephen. Sono intollerabilmente, indubitabilmente nervoso. Era Kingsland?»
«Sì», rispose finalmente Stephen. «Mi dispiace dirlo, ma...»
«Sulla Via degli Avamposti?»
«Osmond...»
«Sulla Via degli Avamposti, pene flaccido?»
«Sì», gorgogliò Stephen mentre deglutiva.
«Naturalmente», esclamò Osmond, con la faccia magra attraversata da un orribile ghigno bianco. «Dov'è il villaggio di Ognimmani se non sulla Via degli Avamposti? Può forse un villaggio spiccare il volo? Eh? Può forse un villaggio spostarsi in volo da una strada a un'altra, Stephen? Dimmelo tu!»
«No, Osmond, certo che no.»
«No. E dunque ci sono botti abbandonate sulla Via degli Avamposti, dico bene? Ho ragione di desumere che ci sono barili e un carro ribaltato che ostruiscono la Via degli Avamposti, mentre la migliore birra dei Territori finisce a ubriacare i lombrichi nel terreno? È così?»
«Sì... sì. Ma...»
«Morgan sta per arrivare sulla Via degli Avamposti!» starnazzò Osmond. «Morgan sta per arrivare e sai benissimo come lancia i suoi cavalli! Se la sua diligenza esce da quella curva per piombare su quel pasticcio, può darsi che il suo cocchiere non abbia tempo di frenare! Potrebbe ribaltarsi! Potrebbe restare ucciso!»
«Dio mio», gemette Stephen, come pronunciando un'unica parola. La sua faccia già pallida si sbiancò ulteriormente. Osmond annuì lentamente. «Io penso che se la diligenza di Morgan dovesse ribaltarsi ci conviene pregare per la sua morte e non per la sua incolumità.»
«Ma... ma...»
Osmond lo ignorò e tornò quasi di corsa a dove erano rimasti il capitano delle Guardie Esterne e suo "figlio". Dietro di lui il carrettiere continuava a dimenarsi nel fango e a gorgogliare Signore.
Gli occhi di Osmond sfiorarono Jack sorvolandolo come se non ci fosse nemmeno. «Capitano Farren», esordì. «Avete seguito quello che è avvenuto in questi ultimi cinque minuti?»
«Sì, Osmond.»
«Avete seguito attentamente? Avete capito bene? Fino in fondo?»
«Sì. Credo di sì.»
«Voi credete? Ma che capitano eccellente che siete, capitano! Mi sa che torneremo su come un capitano eccellente possa aver prodotto per figlio un testicolo di rana come questo.»
I suoi occhi si posarono per un attimo sulla faccia di Jack, gelidi. «Ma adesso non c'è tempo, no? Non c'è. Vi suggerisco di radunare una dozzina dei vostri uomini più robusti e di recarvi alla Via degli Avamposti a marce forzate, che dico, a marce straforzate. Vi basterà il naso per trovare il luogo dell'incidente, non credete?»
«Sì, Osmond.»
Osmond controllò rapidamente il cielo. «Morgan è atteso alle sei, forse un po' prima. Adesso sono... le due. Io direi le due. Voi direste le due, capitano?»
«Sì, Osmond.»
«E tu che cosa diresti, stronzetto? Le tredici? Le ventitré? Le ottantuno?»
Jack manovrò la bocca senza produrre suono. Osmond gli rivolse una smorfia di disprezzo e Jack si sentì travolgere da un'ondata di odio.
Mi hai fatto male e se si offrirà l'occasione...
Osmond tornò a guardare il capitano. «Fino alla quinta ora vi suggerisco di farvi in quattro per recuperare tutti i barili che siano ancora integri. Dopo le cinque vi suggerisco di sgomberare semplicemente la strada il più velocemente possibile. Avete capito?»
«Sì, Osmond.»
«E allora muovetevi.»
Il capitano Farren si portò il pugno chiuso alla fronte e s'inchinò. Con la bocca sempre stupidamente aperta, odiando Osmond ancora così ferocemente che gli dolevano le tempie, Jack fece lo stesso. Osmond si era girato prima ancora che avessero cominciato a salutarlo. Tornava a lunghe falcate verso il carrettiere, maneggiando la frusta, facendola tossire come altrettanti colpi di fucile ad aria compressa.
Il carrettiere sentì che si avvicinava e si mise a strillare.
«Vieni», disse il capitano, tirando Jack per il braccio per l'ultima volta. «Questo non lo vuoi vedere.»
«No», confermò Jack. «Mio Dio, proprio no.»
Ma mentre il capitano Farren apriva un battente del portone e lasciava finalmente il recinto del padiglione, Jack lo udì: lo udì nei suoi sogni anche quella notte, un susseguirsi sibilante di spari di carabina, ciascuno accompagnato da un urlo dello sventurato carrettiere. E c'era anche un suono prodotto da Osmond. Un ansimare affannoso rendeva però difficile stabilire con esattezza che suono fosse senza girarsi a guardarlo in faccia, cosa che Jack non aveva la minima intenzione di fare.
Ma era abbastanza sicuro di aver capito.
Era sicuro che Osmond stesse ridendo.
5
Ora si trovavano nell'area pubblica dei terreni intorno al padiglione. I passanti sbirciavano il capitano Farren con la coda dell'occhio... e gli giravano alla larga. Il capitano camminava di buon passo, con un'espressione tesa e scura sul volto. Jack era costretto a trotterellare per non farsi distanziare.
«Abbiamo avuto fortuna», sbottò il capitano. «Una dannata fortuna. Io credo che avesse intenzione di ucciderti.»
Jack trasalì sentendosi la bocca arida e riarsa.
«È pazzo. Pazzo come l'uomo che inseguì la torta.»
Jack non sapeva a che cosa alludesse, ma conveniva che Osmond era matto.
«Che cosa...?»
«Aspetta», lo interruppe il capitano. Erano tornati alla piccola tenda sotto la quale il capitano aveva condotto Jack dopo aver visto il suo dente di squalo. «Tu fermati qui e aspettami. Non parlare con nessuno.»
Il capitano entrò sotto la tenda. Jack aspettò. Un giocoliere gli passò vicino e lo guardò senza rallentare il ritmo con il quale lanciava una dozzina di palle in aria in un complesso ghirigoro di traiettorie. Una masnada di fanciulli sporchi lo seguiva come i bambini che seguivano il Pifferaio. Una giovane donna con un lercio infante appeso a una poppa voluminosa venne a dirgli che aveva da insegnargli qualcos'altro da fare con il suo gingillo oltre che farci la pipì, posto che avesse da ricompensarla con un paio di monete. Jack si sentì imbarazzato e abbassò gli occhi con la faccia che gli scottava.
La ragazza rise sguaiatamente. «Ooooh, quest'amore di giovanotto è timido! Vieni qui, bellino, vieni!»
«Alza i tacchi, puttana, o finirai la giornata nelle sottocucine.»
Era stato il capitano. Era uscito da sotto la tenda in compagnia di un altro uomo. Costui era anziano e grasso, ma aveva una caratteristica in comune con Farren: sembrava un soldato vero. Cercava di allacciarsi la giubba della divisa sul ventre rigonfio, tenendo contemporaneamente in una mano un corno francese ricurvo.
La ragazza con il poppante sporco batté in ritirata. Il capitano prese il corno dalla mano del grassone perché finisse di abbottonarsi e scambiò con lui ancora qualche parola. L'altro annuì, finì di allacciarsi, recuperò il suo corno e si allontanò soffiandovi dentro. Non era simile al suono che Jack aveva udito al suo primo assaggio dei Territori. Quella volta erano molti i corni che suonavano e c'era qualcosa di trionfale negli squilli, un presagio di araldi e sfilate. Questo sembrava piuttosto la sirena di una fabbrica che annunciava l'inizio del lavoro.
Il capitano tornò a rivolgersi a Jack.
«Vieni con me.»
«Dove?»
«Alla Via degli Avamposti», rispose l'ufficiale, prima di scoccargli un'occhiata dubbiosa e in parte timorosa. «Quella che il padre di mio padre chiamava la Via dell'Ovest. Si spinge verso occidente toccando paesi sempre più piccoli finché arriva agli Avamposti. Oltre gli Avamposti si perde nel nulla... o nell'inferno. Se devi andare a ovest avrai bisogno che ti accompagni Iddio, ragazzo. Ma ho sentito dire che nemmeno Lui Stesso si è mai avventurato oltre gli Avamposti. Ora andiamo.»
Molti interrogativi affollavano la mente di Jack, almeno un milione, ma il capitano si era incamminato a un'andatura micidiale e Jack non ebbe più fiato sufficiente per rivolgergli domande. Giunsero in vetta all'altura che si trovava a sud del vasto padiglione e passarono là dove la prima volta era flippato fuori dei Territori. La rusticana fiera dei divertimenti adesso era chiusa. Jack udiva un imbonitore che cercava di convincere la gente a tentare la sorte su Wonder, il Somaro del Diavolo: restarci in groppa due minuti ti valeva la vincita di un premio, gridava l'imbonitore. La brezza marina portava la sua voce scandita insieme con una fragranza appetitosa di cibo caldo nella quale questa volta all'odore della carne si mescolava quello di pannocchie arrostite. Lo stomaco di Jack brontolò. Adesso che si trovava sano e salvo a distanza di sicurezza da Osmond il Grande e Terribile, aveva una fame da lupo.
Prima di essere arrivati alla fiera, svoltarono a destra e presero per una strada molto più ampia di quella che portava al grande padiglione. La Via degli Avamposti, pensò Jack e poi, con un brivido gelido di paura e ansia nel ventre, si corresse: No, la Via dell'Ovest. La via del Talismano.
Quindi corse di nuovo a raggiungere il capitano Farren.
6
La previsione di Osmond era esatta: avrebbero usato l'olfatto, se necessario. Erano ancora a un miglio dal villaggio con quello strano nome quando il venticello portò alle loro narici la prima zaffata acidula di birra.
C'era traffico intenso che sopraggiungeva in senso inverso. Soprattutto si trattava di carri trainati da tiri di cavalli bagnati di schiuma (nessuno dei quali aveva però due teste). Alcuni erano stracarichi di balle e sacchi e borse, altri trasportavano carne cruda, altri cataste di stie di polli. Nei sobborghi del villaggio di Ognimmani furono incrociati da un carro scoperto pieno di donne, che procedeva ad andatura allarmante. Le donne ridevano e vociavano. Una si alzò in piedi, si sollevò le vesti fino all'inguine peloso e fece ruotare i fianchi. Sarebbe caduta dal carro e probabilmente si sarebbe rotta l'osso del collo se una delle sue colleghe non fosse stata lesta ad afferrarla per un lembo della sottana e a tirarla giù bruscamente.
Jack arrossì di nuovo. Rivide la grande mammella bianca di quella ragazza con il capezzolo nella bocca laboriosa del neonato lercio. Oooh, quest'amore di giovanotto è timido!
«Dio!» borbottò Farren, allungando ancora il passo. «Erano tutte ubriache. Ubriache di Kingsland. Prostitute e cocchiere! Capace che le rovesci per la strada o che le butti giù dalla scogliera. Meglio così. Tutte troie ammorbate!»
«Però», ansimò Jack, «questo deve significare che la strada è abbastanza sgombra, se tutto questo traffico riesce a passare, non è vero?»
Adesso erano nel villaggio di Ognimmani. Qui l'ampia Via dell'Ovest era stata ingrassata perché non si alzasse la polvere. C'erano carri che andavano e venivano, gruppi di persone che attraversavano e tutti sembravano parlare a voce troppo alta. Jack scorse due uomini che litigavano davanti a quello che poteva essere un ristorante. All'improvviso uno dei due menò un cazzotto. Un momento dopo erano entrambi a rotolare per terra. Quelle prostitute non sono le sole a essere ubriache di Kingsland, rifletté Jack. Mi pare che in questa città tutti ci abbiano dato dentro.
«Tutti i carri che abbiamo visto passare venivano da qui», rispose il capitano Farren. «Alcuni di quelli più piccoli possono anche essere passati dal luogo dell'incidente, ma la diligenza di Morgan non è piccola, ragazzo mio.»
«Morgan...»
«Non pensiamo a Morgan, adesso.»
Superato il centro del paese, l'odore della birra diventò più penetrante. La fatica di tener dietro al capitano aveva sfiancato le gambe di Jack, che adesso gli facevano male. Calcolava che avevano percorso ormai tre miglia. A quanto corrisponderà nel mio mondo? si chiese, e quel pensiero gli fece ricordare il succo magico di Svelto. Si rovistò nel farsetto, convinto di non ritrovarlo. Ma era lì, al sicuro nello sconosciuto capo di vestiario che nei Territori aveva sostituito i suoi calzoncini.
Quando furono sull'altro versante del paese, il traffico divenne più rarefatto mentre s'intensificò vistosamente la processione dei pedoni. La gran parte di costoro vacillavano, incespicavano, ridevano. Puzzavano tutti di birra. Alcuni avevano gli abiti gocciolanti, come se ci si fossero tuffati dentro a bere come cani. Vide un uomo ridanciano che teneva per la mano un bambino ridente di forse otto anni. L'uomo presentava una somiglianza da incubo con l'odiato impiegato nell'atrio dell'Alhambra e Jack capì immediatamente che si trattava del suo Gemellante. Entrambi erano ubriachi, uomo e bambino, e mentre Jack girava la testa per seguirli con lo sguardo, il ragazzino cominciò a vomitare. Suo padre, o almeno così lo riteneva Jack, gli diede uno strattone impedendogli di mettersi al riparo della vegetazione che cresceva lungo il margine del fossato, dove avrebbe potuto rigettare in pace. Il bambino si drizzò come un cane richiamato dal guinzaglio corto e schizzò di vomito un uomo anziano che si era abbandonato sul ciglio della strada e russava.
La faccia di Farren si rabbuiò. «Meriterebbero una suonata tutti quanti», brontolò.
Ma anche quelli che avevano alzato il gomito a dismisura si allontanavano prudentemente dal capitano con la cicatrice. Dal posto di guardia accanto al padiglione aveva prelevato prima di partire una corta guaina di cuoio appesa a un cinturone e dall'aspetto assai pratico. Jack presumeva (non senza fondamento) che contenesse una corta e pratica spada. Quando qualcuno s'avventurava alla sua portata, il capitano si toccava la spalla e subito il viandante cambiava direzione.
Dieci minuti dopo, quando Jack cominciava a pensare che non ce l'avrebbe mai fatta, giunsero sul luogo dell'incidente. Il carro era sbandato in curva e si era rovesciato. Di conseguenza le botti si erano sparpagliate per tutta la strada. Molte si erano fracassate trasformando la strada in un pantano per una ventina di passi. C'era un cavallo morto sotto il carro e di esso si vedevano solo le zampe posteriori. L'altro giaceva nel fossato con un acuminato pezzo di doga che gli sporgeva da un orecchio. Jack non riteneva che potesse essere accaduto per caso. Probabilmente il cavallo era gravemente ferito e qualcuno lo aveva misericordiosamente finito servendosi del mezzo più a portata di mano. Gli altri cavalli erano scomparsi.
Fra il cavallo schiacciato dal carro e quello che si trovava nel fossato, giaceva il figlio del carrettiere, con mezza faccia rivolta al blu lucente del cielo dei Territori in un'espressione di stupore. L'altra metà della faccia era ridotta a una poltiglia rossa nella quale s'intravedeva il bianco dell'ossatura simile a scaglie di gesso.
Jack vide che gli avevano rivoltato in fuori le tasche.
Si aggiravano intorno alla scena dell'incidente una dozzina di persone; camminavano lentamente chinandosi sovente a raccogliere a due mani la birra dall'impronta di uno zoccolo o a intingere in una pozzanghera un fazzoletto o uno scampolo di camiciola. Barcollavano quasi tutti. Le voci si levavano in risa e grida litigiose. Dopo reiterate insistenze, la madre di Jack gli aveva permesso di andare con Richard a vedere una doppia proiezione di La notte dei morti viventi e L'alba dei morti in uno dei cinematografi di Westwood. Tutti questi ubriachi che si aggiravano strascicando i piedi gli ricordavano ora gli zombie protagonisti di quei due film.
Il capitano Farren sguainò la spada. Era corta e pratica come Jack l'aveva immaginata, perfetta antitesi della spada di una storia romanzata. Era poco più lunga di un coltellaccio da macellaio, tutta intaccata e segnata e maculata, con l'impugnatura rivestita di vecchio cuoio brunito dal sudore. Anche la lama era scura... eccetto che lungo il taglio. Quello era scintillante e molto affilato.
«Circolare!» tuonò Farren. «State lontani dalla birra della Regina, farabutti! Alla larga, che non vi sventri!»
Grugniti di rancore risposero al suo ordine, ma tutti si allontanarono dal capitano Farren: tutti meno un colosso di individuo con ciuffi di capelli che gli crescevano disordinatamente qua e là sul cranio peraltro calvo. Jack giudicò che pesasse sui centocinquanta chili per una statura che superava i due metri.
«Ti piace l'idea di parlare alla collettività riunita, soldato?» lo apostrofò questo mastodonte, indicando con la mano sporca il capannello di paesani che si erano allontanati dal lago di birra al comando di Farren.
«Sicuro», rispose il capitano, sorridendo all'omaccione. «Mi piace molto, specialmente se in testa ci sei tu, ubriaco grumo di merda.» Il sorriso di Farren diventò più spietato e il gigante si ritrasse intimorito. «Fatti avanti, se ti va. Affettare te sarà la prima cosa buona che mi succede in tutta la giornata.»
L'ubriaco prese il largo borbottando a voce bassa.
«Ora, tutti quanti!» gridò Farren. «Scomparite! Una squadra dei miei uomini sta partendo dal padiglione della Regina! Non saranno felici di questa corvée e io non li posso biasimare e non posso garantire per loro! Credo che abbiate giusto il tempo di tornare al paese a nascondervi nelle vostre cantine prima del loro arrivo! Vi conviene! Fuori dai piedi!»
La gente già si era avviata verso il villaggio di Ognimmani, compreso l'omone che aveva sfidato il capitano. Farren bofonchiò qualcosa, quindi tornò a contemplare la scena dell'incidente. Si tolse la giubba e con essa coprì la faccia del figlio del carrettiere.
«Chissà chi di loro ha spogliato le tasche di questo ragazzo morto o morente», meditò a voce alta Farren. «Se lo sapessi lo appenderei a una croce all'imbrunire.»
Jack non rispose.
Il capitano si soffermò a lungo a fissare il ragazzo morto, passandosi ripetutamente la mano sui bordi della cicatrice in rilievo. Quando voltò gli occhi su Jack, fu come se rinvenisse in quel momento.
«Adesso devi partire, ragazzo. Subito. Prima che Osmond decida di indagare ancora su questo mio figlio imbecille.»
«In che guaio si verrà a trovare lei?» volle sapere Jack.
Il capitano gli fece un sorrisetto. «Se tu non ci sarai più, non correrò rischi. Potrò sostenere di averti rispedito da tua madre o di essermi lasciato sopraffare dall'ira e di averti finito a legnate. Osmond ci crederebbe. È distratto. Lo sono tutti. Stanno aspettando che muoia. Non ci manca molto. A meno che...»
Non finì.
«Vai», lo esortò. «Non indugiare. E quando sentirai arrivare la diligenza di Morgan lascia la strada e nasconditi nei boschi. Nel folto dei boschi. Se no ti fiuterà come il gatto fiuta il topo. Sentirà all'istante che c'è qualcosa fuori posto. Nel suo ordine delle cose. È un demonio.»
«Ma la sentirò arrivare? La sua diligenza?» domandò timidamente Jack. Allungò lo sguardo per la strada oltre i resti delle botti. Saliva uniformemente verso i bordi di una foresta di conifere. Doveva esser buio là dentro, pensò... e Morgan sarebbe sopraggiunto in senso contrario. Paura e solitudine si fusero dentro di lui in una scorata onda di infelicità come non aveva mai provato. Svelto, non ce la posso fare, non capisci? Sono solo un bambino!
«La diligenza di Morgan è trainata da sei coppie di cavalli con un tredicesimo a guidare gli altri», spiegò Farren. «Al gran galoppo, quell'odioso feretro scuote la terra come un rombo di tuono. La sentirai, non temere. Avrai tutto il tempo di nasconderti. Ma non ti dimenticare.»
Jack bisbigliò qualcosa.
«Come?» lo incalzò bruscamente Farren.
«Ho detto che non ci voglio andare», rispose Jack con un filo di voce. Le lacrime erano vicine e sapeva che una volta che fossero cominciate a sgorgare, avrebbe perso tutto il suo coraggio e avrebbe scongiurato il capitano Farren di toglierlo da quell'impiccio, di proteggerlo, di fare qualcosa...
«Credo che sia troppo tardi per mettersi a esaminare la questione», dichiarò il capitano Farren. «Non conosco la tua storia, ragazzo, e non la voglio conoscere. Non so nemmeno come ti chiami.»
Jack lo guardava con l'aria mogia, le spalle incassate, gli occhi che bruciavano, le labbra che tremavano.
«Su con quelle spalle», gli gridò con furia improvvisa Farren. «Chi devi salvare? Dove stai andando? Con quella faccia non farai due metri! Sei troppo giovane per essere un uomo, ma puoi almeno far finta, no? Sembri un cane bastonato!»
Ferito nell'orgoglio, Jack raddrizzò le spalle e ricacciò indietro le lacrime sbattendo le palpebre. I suoi occhi si posarono sulle spoglie del figlio del carrettiere e pensò: Almeno non sono ridotto così anch'io, non ancora. Lui ha ragione. Compiangermi è un lusso che non mi posso permettere.
Così era, infatti, tuttavia non poteva fare a meno di serbare rancore a quel capitano sfigurato che, come se niente fosse, aveva saputo toccarlo nel vivo.
«Meglio», commentò asciutto Farren. «Non molto, ma un pochino sì.»
«Grazie», rispose Jack con sarcasmo.
«Non c'è tempo per frignare, giovanotto. Osmond ti è alle calcagna. Morgan ti sarà presto alle costole a sua volta e forse... forse ci sono problemi anche da dove tu provieni, ma prendi questo. Se Parkus ti ha mandato da me, vuol dire che vuole che ti dia questo. Perciò prendilo e poi vai.»
Gli stava tendendo una moneta. Dopo un attimo d'esitazione Jack l'accettò. Era grande come un mezzo dollaro, ma assai più pesante, pesante come se fosse d'oro, anche se il colore era piuttosto quello di argento opaco. E su di essa vedeva il profilo di Laura DeLoessian. Restò nuovamente colpito, per breve tempo, ma decisamente, dalla somiglianza con sua madre. No, non solo somiglianza, perché nonostante certe differenze fisiche come il naso più sottile e il mento più arrotondato, quella era davvero sua madre. Jack lo sapeva. Rigirò la moneta e vide un animale con la testa e le ali di un'aquila e il corpo di un leone. Pareva che lo fissasse. Lo rese un po' nervoso e allora s'affrettò a riporre la moneta nel farsetto, dove andò a raggiungere la fiaschetta di succo magico di Svelto. «A che cosa serve?» domandò.
«Lo saprai al momento opportuno», rispose il capitano. «O forse no. In un modo o nell'altro, io con te ho concluso. Così dirai a Parkus quando lo vedrai.»
Jack si sentì invadere da un senso turbinoso di irrealtà.
«Vai, figliolo», lo incitò Farren. La sua voce era più bassa, ma non necessariamente più dolce. «Porta a compimento il tuo lavoro... o perlomeno quella parte che ti riesce.»
Alla fine fu quella sensazione di irrealtà, quella di essere nient'altro che un frammento dell'allucinazione di un'altra persona a spingerlo a muoversi. Piede destro, piede sinistro, uno-due. Allontanò con un calcio una scheggia di legno inzuppata di birra. Scavalcò i resti sminuzzati di una ruota. Girò intorno al carro per nulla impressionato dal sangue rappreso e dal nugolo delle mosche. Che effetto potevano fare sangue e mosche in un sogno?
Arrivò in fondo a quel tratto di strada intriso di birra e cosparso di pezzi di legno e si girò a guardare... ma il capitano Farren si era voltato dall'altra parte, forse in attesa dei suoi uomini, forse per non dover scambiare un'occhiata con Jack. In ogni caso il risultato non cambiava: una schiena è sempre una schiena, niente di speciale. S'infilò la mano nel farsetto e tastò la moneta che gli aveva donato Farren, poi l'afferrò con forza. Ebbe la sensazione che lo facesse stare un po' meglio. Tenendola stretta come un bambino terrebbe la monetina ricevuta per acquistarsi una leccornia in drogheria, Jack riprese il suo cammino.
7
Trascorsero forse due ore prima che Jack udisse quel rumore che il capitano Farren aveva descritto come «rombo di tuono». Ma forse ne erano passate quattro. Dopo che il sole fu sceso dietro il sipario della foresta (e questo avvenne non molto tempo dopo che Jack vi era entrato), gli fu difficile calcolare il passare del tempo.
Più di una volta sbucarono da ovest veicoli presumibilmente diretti al padiglione della Regina. Ogni volta che ne sentiva uno (e, da quelle parti, un veicolo lo si udiva già da molto lontano; la chiarezza con cui l'aria trasportava i suoni fece pensare a Jack alla storia che gli aveva raccontato Svelto di uno che sradica un ravanello e un altro che ne sente l'aroma a mezzo miglio di distanza), ricordava Morgan, e ogni volta dapprima si buttava nel fossato e poi s'arrampicava dall'altra parte per nascondersi nel bosco. Non gli piaceva trovarsi nell'ombra della boscaglia, nemmeno ai margini, da dove ancora era in grado di sbirciare da dietro un tronco e vedere la strada. Non era un balsamo per i suoi nervi, ma ancora meno gli andava l'idea di essere sorpreso dallo zio Morgan. Sì, perché era ancora convinto che fosse lui il superiore di Osmond, nonostante le assicurazioni del capitano Farren.
Così ogni volta che sentiva arrivare un carro o una carrozza si dileguava e ogni volta che il veicolo era passato, tornava sulla strada. Una volta, mentre attraversava in fretta e furia il fossato di destra, umidiccio e invaso da erbacce, qualcosa gli corse o gli scivolò sopra il piede, e Jack cacciò un grido.
Il traffico era una vera seccatura e non lo aiutava certamente a guadagnar tempo. Ma c'era anche qualcosa di consolante in quell'irregolare passaggio di veicoli: servivano almeno a segnalargli che non era solo.
Provava una gran voglia di battersela dai Territori.
Il succo magico di Svelto era la peggior medicina che avesse mai bevuto, ma sarebbe stato ben contento di mandarne giù una sorsata come si deve, se qualcuno, magari proprio Svelto, gli si fosse parato davanti ad assicurargli che, quando avesse riaperto gli occhi, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stata l'insegna della Coca-Cola. Cresceva dentro di lui un senso opprimente di pericolo, la sensazione che quella foresta fosse insidiosa, che in essa ci fosse chi era consapevole del suo passaggio, che forse la foresta stessa ne fosse cosciente. Qui gli alberi crescevano più vicini alla strada o no? Eh sì. Prima si fermavano sul ciglio dei fossati. Qui infestavano anche quelli. Più indietro, la foresta sembrava composta solo di pini e abeti. Adesso era un assortimento di alberi di vario genere, alcuni con tronchi neri che si contorcevano come grovigli di corde imputridite, altri che sembravano improbabili ibridi di conifere e felci, queste ultime munite di inquietanti radici grigiastre che s'aggrappavano al terreno come dita di plastilina. Il nostro ragazzo? sembravano mormorare questi esseri maligni nella testa di Jack. Il nostro ragazzo?
È solo immaginazione, Jacky. È solo la fifa.
Ma la verità è che Jack non era del tutto disposto a crederci.
Questi alberi si stavano modificando. Quella sensazione opprimente che c'era nell'aria, la sensazione di essere osservato, era troppo reale. E aveva cominciato a pensare che il ricorso ossessivo della sua mente a pensieri mostruosi fosse un contagio che gli veniva dalla foresta... come se gli alberi stessi gli mandassero comunicazioni su qualche orrenda lunghezza d'onda.
Ma la fiaschetta di succo magico di Svelto era piena solo per metà e doveva durargli da una parte all'altra degli Stati Uniti.
L'avrebbe finita prima ancora di essere uscito dalla Nuova Inghilterra se ne avesse bevuto un sorso ogni volta che gliene veniva voglia.
La sua mente tornava anche spesso alla sorprendente distanza che aveva coperto nel suo mondo quando era riflippato in esso dai Territori. Cinquanta metri di qui equivalevano a un miglio dall'altra parte. A questo ritmo, se il rapporto fra le distanze non era variabile come non poteva escludere, percorrendo dieci miglia da questa parte si sarebbe trovato praticamente fuori del New Hampshire nell'altro mondo. Era come calzare gli stivali delle sette leghe.
Però questi alberi... queste radici di plastilina grigia...
Quando diventerà veramente buio, quando il cielo passerà dall'azzurro al viola, riflippo dall'altra parte. Sicuro, non attraverserò questi boschi di notte. E se finisco il succo magico nell'Indiana, il vecchio Svelto potrà sempre mandarmene un'altra fiaschetta in qualche modo.
Rimuginando questi pensieri e meditando su quanto meglio si sarebbe sentito se avesse avuto in mente un piano (anche se solo per le prossime due ore), Jack si accorse a un tratto che stava sopraggiungendo un altro veicolo trainato da numerosi cavalli.
Tese l'orecchio, immobile al centro della strada. Sgranò gli occhi e due immagini lo folgorarono nella mente: la grande automobile che non era una Mercedes sulla quale viaggiavano i due uomini e il furgone della WILD CHILD che si lasciava alle spalle il cadavere dello zio Tommy con il sangue che colava dalle zanne di plastica della griglia del radiatore. Vide le mani sul volante del furgone... solo che non erano mani. Erano incredibili zoccoli articolati.
Al gran galoppo, quel dannato feretro scuote la terra come un rombo di tuono.
Ora che lo udiva, ancora lontano, ma trasportato perfettamente dall'aria pura, Jack si chiedeva come avesse potuto anche solo lontanamente scambiare il rumore degli altri carri con quello della diligenza di Morgan. Di sicuro non avrebbe mai più commesso quell'errore. Il rumore che udiva era decisamente sinistro, colmo di infinita cattiveria, davvero un rumore di feretro, oh sì, un feretro guidato da un diavolo.
Era paralizzato in mezzo alla strada, quasi ipnotizzato, come un coniglio viene ipnotizzato dai fari di un'automobile. Intanto il rumore cresceva, il tuono delle ruote e degli zoccoli, lo scricchiolare delle bardature. Poi udì la voce del conducente: «He-ya! He-ya! HEEEEE-YAAAA!».
E lui era ancora lì, immobile, pieno di orrore. Non riesco a muovermi. Mio Dio santissimo Gesù non riesco a muovermi. Mamma! Mamma!...
Era fermo al centro della strada e gli occhi della sua immaginazione videro un enorme veicolo nero simile a una diligenza che veniva a capofitto trainato da animali neri che somigliavano più a puma che a cavalli; vide tende nere che svolazzavano dentro e fuori i finestrini; vide il cocchiere in piedi a cassetta, i capelli al vento, gli occhi da forsennato come quelli di uno psicopatico armato di coltello a serramanico.
Se lo vide venire incontro.
Si vide travolto dalle sue ruote.
Fu questo a strapparlo alla sua paralisi. Si buttò sulla destra scivolando giù per la massicciata della strada, infilando un piede sotto a un intrico di quelle radici e cadendo, rotolando. La schiena che lo aveva lasciato più o meno in pace nelle ultime due ore rinnovò le sue fitte di dolore e Jack aprì le labbra in una smorfia.
Si rialzò e corse al riparo della boscaglia, accovacciandosi.
Dapprima si nascose dietro uno di quegli alberi neri, ma quando toccò il tronco nodoso, lo trovò viscido e sgradevole. Allora si spostò dietro un tronco di pino.
Il rombo della carrozza in arrivo era sempre più forte. Al passare di ogni secondo Jack si aspettava di veder sfrecciare il tiro lanciato sul villaggio di Ognimmani. Le sue dita si chiudevano e riaprivano involontariamente sulla corteccia gommosa del pino. Si morsicò un labbro.
Proprio davanti a lui si apriva un varco da cui si godeva di uno scorcio della strada, come un tunnel ricavato da foglie e felci e aghi di pino. E proprio mentre Jack cominciava a pensare che Morgan non sarebbe mai arrivato, vide passare al galoppo una dozzina di soldati a cavallo. In testa ce n'era uno che portava un vessillo, ma Jack non ebbe il tempo di vederne lo stemma... né era sicuro di averne voglia. Poi passò la diligenza.
Fu un attimo, non più di un secondo, anche meno, ma il ricordo rimase scolpito nella memoria di Jack. La diligenza era un veicolo gigantesco, sicuramente alto quattro metri. Un altro metro veniva aggiunto dai fardelli e bauli assicurati con una fune al tetto. Ciascuno dei cavalli del tiro era ornato da un pennacchio nero sulla testa e tutti questi pennacchi erano appiattiti all'indietro dalla forza dello spostamento d'aria. Jack avrebbe pensato in seguito che probabilmente Morgan rinnovava il tiro a ogni suo viaggio, perché quelle bestie gli erano sembrate ormai agli sgoccioli. Schiuma e sangue sfuggivano loro dal muso e ne schizzavano il manto; i loro occhi ruotavano impazziti mostrando il bianco.
Come già nella sua precedente visione, tendine nere svolazzavano dentro e fuori i finestrini sprovvisti di vetro.
A un tratto apparve una faccia bianca in una di quelle aperture nere oblunghe, una faccia bianca incorniciata in un legno stranamente intagliato. L'improvvisa apparizione di quella faccia fu traumatica come il materializzarsi di uno specchio nella finestra semidiroccata di una casa stregata. Non era la faccia di Morgan Sloat... ma lo era.
E quell'uomo sentì che Jack era là fuori. O almeno sentì un pericolo altrettanto odiato e altrettanto personale. Questo Jack lesse nel dilatarsi degli occhi e nella crudele improvvisa piega all'ingiú delle sue labbra.
Il capitano Farren gli aveva detto che lo avrebbe fiutato come un gatto sente l'odore del topo e adesso Jack pensò, al colmo della disperazione: Mi ha fiutato. Sa che sono qui. E adesso? Fermerà la colonna e manderà i soldati nel bosco a cercarmi.
C'era un altro drappello di soldati a proteggere la diligenza di Morgan anche da tergo. Jack aspettò, le mani gelide contro la corteccia del pino, sicuro che Morgan avrebbe dato l'ordine di fermarsi. Ma l'alt non venne. Poco dopo il rombo cupo della diligenza e della sua scorta cominciò a scemare.
I suoi occhi. Quelli sono gli stessi. Quegli occhi scuri in quella faccia bianca e...
Qualcosa gli scivolò sul piede... e gli salì per la caviglia. Jack strillò e vacillò all'indietro convinto che fosse una serpe, ma quando guardò vide che era una di quelle radici grigie che gli era montata sul piede e adesso gli si arrotolava su un polpaccio.
Non è possibile, pensò stupidamente. Le radici non si muovono...
Diede uno strattone, strappando la gamba da quella manetta vegetale, avvertì un lieve dolore al polpaccio, come quello della frizione eccessiva di una corda. Alzò gli occhi e gli venne il voltastomaco per la paura. Credette di capire perché Morgan aveva avvertito la sua presenza e non si era dato pena di fermarsi; Morgan sapeva che camminare in questa foresta era come cercare di nuotare in un fiume infestato dai piraña. Perché il capitano Farren non lo aveva avvertito? L'unica risposta che trovava era che il capitano non lo sapeva. Forse non si era mai spinto fin laggiù.
Le radici grigiastre di quegli incroci fra conifera e felce si muovevano tutte insieme, adesso, alzandosi e ricadendo, scivolando verso di lui. Una in particolare, più grossa delle altre e scura e umida di terra, si sollevò e gli dondolò davanti come un cobra risvegliato dal flauto di un fachiro.
Lo attaccò e Jack indietreggiò, mentre si accorgeva angosciato che le radici formavano ora uno schermo vivente che lo divideva dalla strada. Urtò un albero... e subito si allontanò gridando perché la corteccia si era messa a fremere contro la sua schiena: era stato come avvertire lo spasmo di un muscolo. Jack si guardò attorno e vide un altro di quegli alberi neri con il tronco nodoso. Si stava muovendo, si contorceva. Tutti quei nodi nella corteccia formavano una sorta di spaventosa faccia bitorzoluta, con un occhio strabuzzato e nero, l'altro chiuso in un ammiccare malefico. Uno squarcio si allungò in verticale nel tronco con un impressionante rumore di lacerazione e cominciò a sgorgarne linfa giallognola.
Radici simili a dita s'infilarono fra il braccio e il torace di Jack come per fargli il solletico.
Aggrappato ai residui del suo raziocinio grazie a un possente sforzo di volontà, Jack si frugò nel farsetto alla ricerca della fiaschetta di Svelto. Nel caos, avvertiva un moltiplicarsi di strappi giganteschi. Pensò che fossero gli alberi che si sradicavano dal suolo. Tolkien non era mai stato così.
Afferrò la fiaschetta per il collo e la tirò fuori. S'avventò maldestramente sull'imboccatura mentre una di quelle radici grigie gli scivolava attorno al collo. Un attimo dopo gli si era avvitata e lo stringeva come in un cappio di forca.
Smise di respirare. La fiaschetta gli cadde dalle mani mentre lottava con quel viticcio che lo stava soffocando. Riuscì a infilare le dita sotto la radice. Non era fredda e rigida, bensì tiepida e cedevole come carne viva. Lottò disperatamente e sentì il suono strozzato che gli usciva dalla gola e la saliva che gli scendeva sul mento.
Con un ultimo sforzo convulso si liberò dalla radice che cercò di avvitarglisi sul polso. Jack agitò il braccio con un grido. Sul terreno la sua fiaschetta si allontanava rotolando, trascinata da una di quelle radici grigie che l'aveva catturata per il collo.
Quando cercò di recuperarla, fu afferrato da altre radici alle gambe. Cadde pesantemente e subito s'allungò quanto più poteva scavando nel suolo nero della foresta con la punta delle dita...
Toccò il vetro verde della fiaschetta... e riuscì a prenderla. Allora tirò con violenza mentre le radici gli si accavallavano e intrecciavano sulle gambe inchiodandolo contro il terreno. Un'altra radice sottile come un filo di ragnatela cercò di strappargli la fiaschetta dalle mani. Jack la respinse e si portò la bottiglia alle labbra. A un tratto parve che quell'odore nauseante si diffondesse dappertutto come una membrana vivente.
Svelto, aiutami tu!
Mentre altre radici gli aggredivano la schiena e gli si avvinghiavano alla vita, Jack bevve sporcandosi le guance di vino scadente. Deglutì, gemette, pregò, ma non andava, non funzionava, teneva gli occhi chiusi, ma sentiva che le radici gli stavano stringendo anche le braccia, sentiva...
8
...l'acqua che gli inzuppava i jeans e la maglietta, l'odore...
Acqua?
di fango, i versi
Jeans? Maglietta?
di un coro di rane e...
Jack aprì gli occhi e vide la luce arancione del tramonto riflessa dall'acqua di un grande fiume. Sulla sponda orientale si estendeva una foresta compatta; su quella occidentale, dove lui si trovava, un prato, ora parzialmente oscurato dalla nebbia della sera, scendeva in lieve pendenza fino all'acqua. Qui il terreno era acquitrinoso. Jack si trovava ai margini della corrente, nella zona più paludosa; vi cresceva erba alta nella quale Jack si era impigliato come chi, svegliandosi da un incubo, si trovi impigliato nelle proprie lenzuola.
Faticosamente si mise in piedi, fradicio e viscido di fango odoroso. Le cinghie dello zaino gli tiravano sotto le braccia. Si sbarazzò con orrore dei pezzetti di vegetazione che gli erano rimasti appiccicati alle braccia e alla faccia. Si allontanò dall'acqua, poi si girò a guardare e vide la fiaschetta di Svelto che sporgeva dal fango. Durante la sua battaglia con i malefici alberi dei Territori un po' di succo magico si era versato e adesso la fiaschetta era piena per non più di un terzo.
Sostò per un momento con le scarpe da ginnastica affondate nella poltiglia del terreno e osservò il fiume. Era nel suo mondo. Era di nuovo nei suoi cari, vecchi Stati Uniti d'America. Non vedeva l'insegna della Coca-Cola, né un grattacielo, né un satellite artificiale che ammiccava nel cielo serale, ma era sicuro di essere ritornato nel suo mondo, quanto era sicuro del proprio nome. La domanda era: era stato davvero in quell'altro mondo?
Contemplò quel fiume sconosciuto, quel paesaggio a lui ignoto, e ascoltò un lontano, malinconico muggire di vacche. Pensò: Sei da qualche altra parte. Questa non può essere Arcadia Beach.
No, non era Arcadia Beach ma non conosceva i paraggi di Arcadia Beach abbastanza bene da poter affermare con certezza di essersi allontanato per più di quattro o cinque miglia, quanto sarebbe bastato per non percepire più l'odore dell'Atlantico. Era ritornato come svegliandosi da un incubo. Non era quindi possibile che proprio di quello si fosse trattato? Dal carrettiere con il suo carico di carne piena di mosche agli alberi che si spostavano? Era più che possibile. Sua madre stava morendo e adesso, ripensandoci, si rendeva conto di averlo saputo da molto tempo. Ne aveva riconosciuto i sintomi e il suo inconscio aveva tratto la conclusione corretta, anche se la sua mente l'aveva rifiutata. Tutto questo poteva aver contribuito a creare l'atmosfera adatta a un fenomeno di autoipnosi, catalizzata dall'intervento di quel balordo di Svelto Parker. Sicuro. I conti tornavano.
E come si sarebbe divertito lo zio Morgan.
Jack rabbrividì e deglutì. Sentì dolore nella gola. Non quello di un'irritazione, ma quello di un muscolo sforzato.
Alzò la mano destra, non quella in cui reggeva la fiaschetta, e si massaggiò dolcemente la gola. Trovò un'abrasione poco sopra il pomo d'Adamo. Non aveva sanguinato più che tanto, ma a toccarsela gli faceva anche troppo male. Quella ferita gliel'aveva lasciata quella radice che aveva cercato di strangolarlo.
«Vero», mormorò Jack, mentre guardava l'acqua arancione e ascoltava il gracidare dei rospi e il muggire delle vacche lontane. «Tutto vero.»
9
S'incamminò per il prato risalendo il leggero pendio e lasciandosi alle spalle il fiume. Dopo che ebbe percorso mezzo miglio, il costante sfregarsi dello zaino sulla schiena (le frustate di Osmond gli erano rimaste nelle carni e lo zaino non mancava di rammentarglielo) gli ravvivò un ricordo. Aveva rifiutato l'enorme sandwich di Svelto, ma Svelto non glielo aveva infilato nel sacco mentre lui esaminava il plettro?
A quell'idea il suo stomaco sussultò.
Senza perder tempo Jack si tolse lo zaino, fermo in un basso banco di nebbia sotto la prima stella della sera. Slacciò una fibbia e trovò il sandwich, non già un boccone, bensì tutt'intero, avvolto in un foglio di carta di giornale. Gli occhi gli si riempirono di calde lacrime e rimpianse che Svelto non fosse presente per ricevere il suo abbraccio.
E dieci minuti fa gli davi del vecchio balordo.
Gli s'infiammò la faccia a quel pensiero, ma la vergogna non gli impedì di sbranare il sandwich in una mezza dozzina di famelici bocconi. Richiuse il sacco e se lo rimise in spalla. Riprese il cammino sentendosi meglio: ora che quel buco sibilante che aveva nelle viscere era stato riempito, Jack si sentiva di nuovo se stesso.
Non molto tempo dopo vide tremolare delle luci nell'oscurità sempre più fitta. Una fattoria. Un cane cominciò ad abbaiare, il latrato cupo di una bestia di notevoli dimensioni, e Jack trasalì per un momento.
Chiuso in casa, pensò. O alla catena. Speriamo.
Prese verso destra e poco dopo il cane smise di abbaiare. Facendosi guidare dalle luci della fattoria Jack uscì ben presto su una stretta strada asfaltata. Guardò a destra e a sinistra non sapendo da che parte procedere.
Dunque, ragazzi, ecco qui Jack Sawyer, tra la padella e la brace, bagnato fradicio e con le scarpe incrostate di fango. Coraggio, Jack!
Si sentì nuovamente prendere dalla solitudine e dalla nostalgia di casa. Dovette lottare per non soccombere. Si posò una goccia di saliva sull'indice sinistro e la lanciò con un colpo secco della mano. La goccia si divise in due ed ebbe l'impressione che la parte più grossa volasse verso destra, perciò s'incamminò per di là. Quaranta minuti dopo, fiacco per la fatica, e di nuovo affamato, il che era anche peggio, scorse una cava di ghiaia con accanto una baracca oltre a una catena che bloccava la strada d'accesso.
Passò sotto la catena e si avvicinò alla baracca. C'era un lucchetto all'uscio, ma notò che su un lato l'erosione dell'acqua aveva aperto una buca sotto le assi della parete. In un batter d'occhio si tolse lo zaino, s'infilò nello stretto passaggio, si issò dall'altra parte e recuperò il suo bagaglio. La presenza del lucchetto alla porta lo faceva sentire più sicuro.
Si guardò attorno e vide che gli facevano compagnia attrezzi molto vecchi, dai quali dedusse con sollievo che quel posto doveva essere stato abbandonato da tempo. Si spogliò del tutto perché gli dava fastidio la sensazione degli indumenti bagnati e appiccicati al corpo. Avvertì sotto le dita la moneta che gli aveva regalato il capitano Farren, gigantesca fra le monetine dei suoi spiccioli. La tolse di tasca e vide che si era trasformata in un dollaro d'argento del 1921. Per qualche secondo restò immobile con lo sguardo fisso sul profilo di Lady Liberty sulla ruota del carro, quindi ripose la moneta nella tasca dei jeans.
Trovò vestiti puliti meditando di aspettare che quelli sporchi si fossero asciugati per riporli nello zaino l'indomani mattina. In seguito li avrebbe lavati, in qualche lavanderia automatica o al primo ruscello a portata di mano.
Nel cercare le calze, la sua mano incontrò qualcosa di sottile e duro. Era il suo spazzolino da denti. Fu subito assalito da immagini di casa, di sicurezza domestica e di razionalità, tutto quello che sapeva rappresentare uno spazzolino da denti. Impossibile sbarazzarsi di quest'emozione. Uno spazzolino da denti è un oggetto che si trova normalmente in una stanza da bagno ben illuminata, che si usa avendo indossato un pigiama di cotone e un paio di comode pantofole ai piedi. Non è cosa da trovarsi in fondo a uno zaino in una baracca fredda e buia accanto a una cava di ghiaia in mezzo a una campagna di cui non si conosce nemmeno il nome.
Costretto ad accettare la sua posizione di emarginato, lo colse l'angoscia della solitudine, così pianse. Non da isterico, strillando e singhiozzando come fa la gente che dissimula la rabbia con le lacrime; pianse con la palpitante tristezza di chi ha scoperto di essere assolutamente solo e di dover sopportare la sua solitudine ancora per molto tempo. Pianse perché gli sembrava che dal mondo fosse scomparso ogni senso di sicurezza e raziocinio. Qui c'era solitudine, unica realtà; ma in una situazione come questa incombeva in agguato la follia.
Si addormentò prima ancora di aver smesso di singhiozzare. Dormì rannicchiato attorno al suo zaino, vestito solo di mutande e calzini puliti. Lo scorrere delle lacrime gli aveva lasciato tracce sulle guance sporche. In una mano inerte teneva ancora lo spazzolino da denti.
8
Il tunnel di Oatley
1
Sei giorni dopo Jack si era quasi totalmente rimesso dalla sua disperazione. Trascorsi i primi giorni di cammino, aveva l'impressione di essere passato dall'infanzia attraverso l'adolescenza fino all'inizio dell'età adulta, l'età della competenza. È vero che non aveva più fatto ritorno ai Territori da quando si era ritrovato sulla sponda occidentale di quel fiume, ma aveva razionalizzato la sua diffidenza e giustificato la necessità di procedere più lentamente convincendosi che conservava il succo di Svelto per quando ne avrebbe avuto veramente bisogno. E poi non era stato Svelto stesso a raccomandargli di viaggiare soprattutto sulle strade di questo mondo? Sto eseguendo i tuoi ordini, amico.
Quando il sole era alto nel cielo e le automobili lo trasportavano verso occidente per tappe di trenta o quaranta miglia e il suo stomaco era sazio, i Territori gli sembravano incredibilmente lontani e onirici: come un film che si incomincia a scordare, una fantasia passeggera. Certe volte, quando viaggiava sul sedile posteriore dell'automobile di qualche insegnante di scuola e rispondeva alle solite domande sulla Storia, se ne dimenticava del tutto. I Territori l'avevano lasciato e lui era ridiventato più o meno il ragazzo che era all'inizio dell'estate.
Specialmente sulle grandi autostrade statali, quando veniva scaricato vicino a un'uscita, trovava normalmente un nuovo passaggio nel giro di dieci minuti da quando aveva cominciato ad agitare il pollice in aria. Ora si trovava nei pressi di Batavia, nella regione più occidentale dello stato di New York, a camminare sulla corsia d'emergenza dell'autostrada, pollice nuovamente alzato, diretto a Buffalo. Dopo Buffalo avrebbe cominciato a dirigersi verso sud. In fondo, rifletteva, si trattava di elaborare il miglior sistema per ottenere il risultato voluto e mettersi al lavoro. Gli sarebbe bastato quel tanto di fortuna da trovare un automobilista in viaggio per Chicago o Denver (o addirittura Los Angeles, visto che sognando a occhi aperti tanto valeva spingersi al massimo), e avrebbe potuto riprendere la via di casa prima della metà di ottobre.
Era abbronzato, aveva in tasca i quindici dollari guadagnati con il suo ultimo lavoretto (aveva lavato i piatti in una tavola calda) e si sentiva tutti i muscoli ben sciolti e tonificati. Anche se qualche volta gli veniva voglia di piangere, non si era più abbandonato alle lacrime dopo quella prima notte sconsolata. Aveva preso le redini della situazione, ecco dove stava la differenza. Ora che sapeva come procedere, ora che tanto si era accanito nella progettazione, dominava gli eventi. Gli pareva d'intravedere già la fine del suo viaggio, per quanto distante. Se avesse proseguito in questo mondo, come Svelto gli aveva raccomandato, non ci avrebbe messo più che tanto e sarebbe tornato in tempo utile nel New Hampshire con il Talismano. Tutto sarebbe andato per il meglio e avrebbe incontrato difficoltà assai inferiori di quelle che aveva temuto.
Così almeno immaginava Jack Sawyer mentre una Ford color carta da zucchero accostava al ciglio della strada e aspettava che lui la raggiungesse di corsa, gli occhi socchiusi nel sole basso. Trenta o quaranta miglia, pensò fra sé. Richiamò alla mente la pagina dell'atlante che aveva studiato quel mattino e decise: Oatley. Gli dava la sensazione di un luogo anonimo, piccolo e sicuro. Ed era in viaggio e niente poteva più ostacolarlo.
2
Prima di aprire la portiera della Ford, Jack si chinò a sbirciare dal finestrino. Sul sedile posteriore erano sparpagliati cataloghi e pieghevoli a colori vivaci; davanti, accanto al guidatore, c'erano due voluminose valigie. Quell'uomo bruno con la pancetta che adesso sembrava quasi mimare la posa di Jack, curvo sul volante a sbirciare il ragazzo attraverso il finestrino aperto, era un commesso viaggiatore. A un gancio, dietro di lui, era appesa la giacca del suo abito blu; aveva la cravatta a mezz'asta, le maniche della camicia rimboccate. Un commesso viaggiatore sulla trentina, serenamente in giro per la regione di sua competenza. Gli sarebbe piaciuto chiacchierare, come tutti i venditori. L'uomo gli sorrise e, l'una dopo l'altra, issò le valigie facendole ricadere sul sedile posteriore. «Facciamo un po' di posto», disse.
Jack sapeva che la prima cosa che gli sarebbe stata chiesta era perché non era a scuola.
Aprì la portiera e salì. «Grazie mille.»
«Vai lontano?» domandò il commesso viaggiatore, controllando lo specchietto retrovisore mentre innestava il cambio automatico e si rimetteva in carreggiata.
«Oatley», rispose Jack. «Credo che sia a una trentina di miglia.»
«Si vede che non sei forte in geografia», ribatté l'altro. «Saranno circa quarantacinque, per Oatley.» Girò la testa per guardarlo e lo sorprese facendogli l'occhiolino. «Senza offesa», riprese, «ma non mi va di vedere ragazzini così giovani che fanno l'autostop. È per questo che li carico sempre, quando li trovo. Almeno so che con me stanno al sicuro. Niente palpeggiamenti, capisci? Ci sono troppi svitati da queste parti, ragazzo mio. Li leggi, i giornali? Carnivori, è di quelli che sto parlando. Potresti ritrovarti a fare l'esemplare di una specie in pericolo.»
«So che ha ragione», convenne Jack. «Ma io sto molto attento.»
«Abiti da quelle parti, vero?»
Continuava a guardarlo fisso negli occhi spostando lo sguardo per brevissimi controlli alla strada. Jack frugò febbrilmente nella memoria a caccia del nome di qualche cittadina di quei paraggi. «Palmyra. Sono di Palmyra.»
L'uomo annuì e commentò: «Un bel posticino», prima di tornare a dedicarsi alla strada. Jack si accomodò contro lo schienale imbottito. Allora finalmente l'uomo domandò: «Immagino che non è proprio che stai bigiando, vero?».
E fu di nuovo l'ora della Storia.
L'aveva raccontata tante volte, variando i nomi delle località via via che si spostava verso occidente, che ormai gli sembrava che il suo monologo sapesse di vecchio. «No, signore. Devo andare a Oatley da mia zia Helen a stare con lei per qualche tempo. Helen Vaughan. È la sorella di mia madre. Fa l'insegnante. Mio padre è morto pochi mesi fa, vede, e allora non navighiamo in buone acque. Poi, due settimane fa, la tosse di mia madre è molto peggiorata, tanto che non ce la faceva più a salire le scale, e allora il medico ha detto che doveva restare a letto il più a lungo possibile, così lei ha chiesto a sua sorella se poteva tenermi con sé per un po'. Visto che è insegnante sicuramente tornerò a scuola a Oatley. Zia Helen non mi permetterà certo di starmene a casa.»
«Vuoi dire che tua madre ti ha detto di fare l'autostop da Palmyra fino a Oatley?»
«Oh, no, questo no. Mi ha dato i soldi per l'autobus, ma io ho deciso di risparmiarli. Non mi aspetto che mi mandi molto da casa e so che la zia Helen non ha da sperperare. Mia madre farebbe il diavolo a quattro se sapesse che faccio l'autostop, ma a me sembra di buttar via i soldi. Dico, cinque dollari sono cinque dollari, e allora perché regalarli al guidatore?»
L'uomo gli scoccò un'occhiata di traverso. «Per quanto tempo credi che resterai a Oatley?»
«Difficile dirlo. Ma spero che mia madre guarisca presto.»
«Be', non tornare a casa in autostop, intesi?»
«Non abbiamo più la macchina», rispose Jack, aggiungendo un nuovo capitolo alla Storia. Cominciava a divertirsi. «Roba da non crederci. Sono venuti di notte a sequestrarla. Carogne. Sapevano che a quell'ora erano tutti a dormire. Sono arrivati in piena notte e hanno portato via la macchina dal box. Se me ne fossi accorto, avrei lottato per quella macchina, può starne certo, e non perché così avevo un mezzo per arrivare da mia zia. Quando mia madre va dal dottore deve farsela tutta a piedi giù per la collina e poi ancora cinque isolati di strade per arrivare alla fermata dell'autobus. Non dovrebbero permettergli di fare queste cose, vero? Venire a portar via un'automobile. Appena ci fosse stato possibile, avremmo ricominciato a pagare le rate. Dico, secondo lei questo non è rubare?»
«Se succedesse a me la penserei allo stesso modo», replicò l'altro. «Be', speriamo che tua madre si rimetta alla svelta.»
«Lo spero anch'io», fece eco Jack in assoluta onestà.
E così arrivarono fino alle prime segnalazioni per l'uscita di Oatley. Il commesso viaggiatore si spostò nella corsia d'emergenza subito dopo la rampa d'uscita e sorrise a Jack augurandogli: «Buona fortuna, ragazzo».
Jack annuì e aprì la portiera.
«Spero comunque che non dovrai trattenerti a lungo a Oatley.»
Jack gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Sai che posto è, no?»
«Lo conosco poco.»
«Ah, una vera fogna. Uno di quei posti dove mangiano quello che schiacciano sulla strada. Gorillaville. Mangi la birra e poi ti bevi il bicchiere. Roba del genere.»
«Grazie dell'avvertimento», disse Jack smontando. Il commesso viaggiatore lo salutò ingranando la marcia. Pochi istanti dopo la sua automobile era solo una sagoma scura che filava contro un grande sole basso e arancione.
3
Per un paio di chilometri la strada gli offrì un paesaggio piatto e insignificante: in lontananza si vedeva una casetta a due piani ai margini di un campo. I campi erano bruni e brulli e le case non erano fattorie. Molto distanziate l'una dall'altra, si affacciavano su quelle distese isolate in una quiete bigia e immobile rotta soltanto dal sibilo del traffico dell'autostrada. Non c'erano bovini che muggissero, non c'erano cavalli che nitrissero; non c'erano animali e non c'erano attrezzature agricole. Davanti a una di queste casette scorse una mezza dozzina di automobili arrugginite. Queste erano le abitazioni di persone che avevano in tale antipatia la propria specie da trovare persino Oatley sovraffollata. I campi deserti rappresentavano i fossati di cui avevano bisogno attorno ai loro piccoli castelli.
Finalmente arrivò a un incrocio. Sembrava quello di un fumetto: due strade deserte e strette che s'intersecavano nel nulla più assoluto per protendersi nelle quattro direzioni verso un altro nulla. Jack aveva cominciato a non fidarsi più del suo orientamento. Si sistemò meglio lo zaino sulla schiena e andò a fermarsi sotto l'alto paletto arrugginito sul quale erano fissati i rettangoli neri, altrettanto malridotti, con i nomi delle strade. Forse aveva sbagliato a girare a destra all'uscita dell'autostrada? Uno dei cartelli diceva DOGTOWN ROAD. La città dei cani? Jack guardò da quella parte e non vide altro che un infinito pianoro, campi pieni di erbacce tagliati dal nastro nero dell'asfalto. La strada sulla quale si trovava lui si chiamava MILL ROAD, secondo il cartello. Un miglio più avanti s'infilava in un tunnel la cui apertura era stata quasi del tutto invasa dalle fronde basse degli alberi vicini e da uno strano intrico di rampicante che somigliava a un ciuffo di peli pubici. C'era un cartello bianco nel folto del rampicante che sembrava sorreggerlo. La scritta era troppo piccola perché riuscisse a leggerla. Jack s'infilò la mano destra in tasca e afferrò la moneta che gli aveva dato il capitano Farren.
Lo stomaco gli parlava. Presto avrebbe dovuto pranzare, perciò doveva rimettersi in marcia e trovare un abitato dove guadagnarsi un pasto. Dunque, si trovava in Mill Road. Poteva almeno arrivare dall'altra parte del tunnel a vedere che cosa c'era. Così si mise in cammino e a ogni passo la bocca scura fra gli alberi s'ingrandì.
Fredda e umida e odorosa di mattoni scalcinati e di zolle rivoltate, la galleria sembrò ingoiare il ragazzo e quindi stringerglisi attorno. Per un momento Jack temette di finire nel sottosuolo perché non vedeva luce all'altra estremità. Poi si tranquillizzò quando si rese conto che il fondo d'asfalto era pianeggiante. ACCENDERE I FARI, era scritto sul cartello all'imboccatura. Urtò la parete di mattoni e sentì che gli si sgretolava fra le mani. «Fari», borbottò rammaricandosi di non averne uno da accendere. Evidentemente nel tunnel c'era una curva. Pur camminando lentamente e con prudenza estrema era finito contro la parete come un cieco che si sposta con le mani protese. Proseguì tastando il muro. Quando il coyote dei cartoni animati tentava qualcosa del genere, finiva puntualmente spiaccicato sul muso di un autocarro.
Udì un frenetico scalpiccio e si paralizzò.
Doveva essere un topo. O forse un coniglio che tentava una scorciatoia fra i campi, ma l'impressione che aveva avuto era di un animale più grosso.
Udì di nuovo il rumore, più lontano nelle tenebre, e avanzò di un altro passo. Più avanti ancora, una sola volta, udì un respiro. Si fermò di nuovo e si chiese: Era un animale? Con i polpastrelli appoggiati ai mattoni della parete aspettò di sentire emettere il fiato. Il suono non era stato quello di un animale, certamente un topo o un coniglio non avrebbe inalato così a fondo. Procedette di qualche centimetro ancora mentre cercava di evitare di dover ammettere di essersi spaventato.
Si paralizzò di nuovo quando udì un rumorino sommesso, simile a una risatina roca, giungere dall'oscurità che aveva davanti. Un attimo dopo gli arrivò alle narici un odore che per quanto familiare non riuscì a identificare, rude, penetrante e muschioso.
Si guardò alle spalle. L'ingresso del tunnel era ora solo grande come una tana di coniglio, per metà oscurato dalla curvatura della parete.
«Che cosa c'è qui?» gridò. «Ehi, c'è qualcuno?»
Ebbe l'impressione di udire un bisbiglio.
Non era nei Territori, ricordò a se stesso, e il peggio che poteva essergli accaduto era di aver sorpreso qualche stupido cane venuto a schiacciare un pisolino al fresco; in tal caso gli avrebbe salvato la vita svegliandolo prima del sopraggiungere di un'automobile. «Ehi, cane!» gridò di nuovo. «Cane!»
E fu ripagato all'istante da un rumore di zampe al trotto. Ma... andavano o venivano? Non riuscì a stabilirlo. Allora gli sovvenne che forse il rumore gli giungeva dalle spalle e girò la testa per scoprire che ormai si era inoltrato tanto da non scorgere più l'entrata.
«Dove sei, cane?»
Qualcosa grattò sul terreno un paio di passi dietro di lui e Jack balzò in avanti e urtò violentemente la parete con la spalla.
Avvertiva la presenza di un corpo, forse quello di un cane, nelle tenebre. Si mosse di nuovo, ma fu subito bloccato da un senso di smarrimento così acuto che immaginò di essere nuovamente nei Territori. Il tunnel era invaso da quell'odore acre da giardino zoologico e quell'essere che gli stava venendo incontro non era un cane. Fu investìto da una zaffata d'aria fredda che sapeva di grasso animale e alcol. Sentì che l'essere gli era più vicino.
Per un brevissimo istante scorse una faccia appesa nel buio, quasi che fosse illuminata da una luce interiore propria, debole e inquietante. Era una faccia lunga e corrucciata che sarebbe potuta essere quasi giovanile, ma non lo era. L'alito che ne usciva sapeva di sudore, grasso e liquore. Jack s'appiattì contro la parete alzando i pugni, ma la faccia scomparve nel buio.
Nel pieno del suo terrore ebbe l'impressione di udire passi silenziosi che tornavano rapidamente verso l'ingresso del tunnel, e girò la testa, ma vide solo tenebre e udì solo silenzio. Si schiacciò le mani sotto le ascelle e si lasciò andare dolcemente contro i mattoni premendovi contro lo zaino. Un attimo dopo riprese il cammino.
Appena fu fuori si girò a guardare la galleria. Non ne usciva alcun suono. Non c'erano creature improbabili sulle sue orme. Avanzò di qualche passo e sbirciò all'interno. Fu allora che per poco non gli si fermò il cuore, perché lo fissarono due enormi occhi arancioni. Dimezzarono in un istante la distanza che li separava da lui. Jack non poteva muoversi, aveva i piedi inchiodati nell'asfalto. Finalmente riuscì a protendere le mani, i palmi alzati in un gesto istintivo di difesa. Gli occhi gli venivano incontro e in quel momento si udì un clacson. Una frazione di secondo prima che l'automobile sbucasse dalla galleria rivelando un uomo dalla faccia paonazza che agitava il pugno chiuso, Jack riuscì a scansarsi.
«PORCAAAAA!» urlò la bocca distorta.
Ancora intontito, Jack si girò a guardare la macchina filare giù per una discesa verso un paese che doveva essere Oatley.
4
Situata in una larga depressione del suolo, Oatley si espandeva con avarizia da due vie principali. Una, la continuazione di Mill Road, passava davanti a un fabbricato immenso e squallido collocato al centro di una vasta zona di parcheggio e con tutta probabilità sede di una fabbrica; sui lati cimiteri di automobili, tavole calde, una sala da bowling con un'enorme insegna al neon, negozi di alimentari, distributori di benzina. Di là da tutto questo, Mill Road presentava i cinque o sei isolati del centro cittadino, una teoria di vecchie palazzine di mattoni davanti alle quali le macchine erano parcheggiate a spina di pesce. L'altra strada era evidentemente quella riservata alle abitazioni più importanti di Oatley, case di ragguardevoli dimensioni, provviste di veranda e prato. Dove le due strade s'incrociavano c'era un semaforo che mostrava il suo occhio rosso nel tardo pomeriggio. Un altro semaforo, otto isolati più avanti, passò al verde davanti a un alto edificio un po' tetro e con innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il liceo. A ventaglio erano poi disposte un mucchio di casette fra le quali risaltavano anonimi stabili protetti da alte recinzioni di ferro.
Molte delle finestre delle fabbriche erano rotte e alcune di quelle delle case del centro erano state chiuse con assi inchiodate. Nei cortili di cemento recintati c'erano cumuli di immondizie e cartacce che tremavano nel vento. Persino le abitazioni più importanti sembravano trascurate, con i tetti delle verande accasciati e le tinteggiature scorticate.
Lì dovevano abitare i proprietari delle rivendite di invendibili automobili usate.
Sul momento Jack considerò se non gli convenisse lasciar perdere Oatley e cercare un passaggio per Dogtown, dovunque si trovasse quest'altro posto, ma questo significava dover ripercorrere il tunnel di Mill Road. Dal quartiere dei negozi giunse il suono di un clacson che si srotolò nell'aria fino a Jack pieno di inesprimibile malinconia.
Non riuscì a sentirsi tranquillo finché non arrivò ai cancelli della fabbrica con il tunnel di Mill Road ormai a distanza di sicurezza. Circa un terzo delle finestre della facciata di mattoni erano state rotte e in molte delle altre, riquadri di cartone avevano sostituito i vetri. Persino nella strada si sentiva l'odore di olio lubrificante, grasso, cinghie di ventilatore surriscaldate e utensileria meccanica. Si ficcò le mani in tasca e scese per la strada il più in fretta possibile.
5
Da vicino la cittadina era ancora più depressa di come gli era apparsa dalla collina. I venditori di automobili se ne stavano appoggiati contro le vetrate dei loro uffici, troppo annoiati per voler venire fuori. Le bandierine pendevano, gualcite e lugubri, gli ottimistici avvisi collocati lungo il marciapiede pieno di crepe davanti a file e file di automobili erano ingialliti attorno ai loro richiami: UNICO PROPRIETARIO! STRAORDINARIA OFFERTA! AFFARE DELLA SETTIMANA! L'inchiostro di alcune delle lettere era colato, forse per essere rimasto esposto alla pioggia. Pochissimi erano i passanti. Nei pressi del centro cittadino, Jack vide un vecchio con le guance incavate e la pelle ingrigita che tentava invano di far montare un carrello della spesa vuoto sul ciglio del marciapiede. Quando gli si avvicinò, il vecchio si mise a strillare qualcosa di ostile e spaventoso e gli mostrò gengive nere. Credeva che Jack volesse rubargli il carrello! «Scusi», borbottò Jack con il cuore nuovamente in gola. Il vecchio stava cercando di abbracciare tutto quanto il carrello, di proteggerlo, sempre mostrando al nemico le sue gengive annerite. «Scusi», ripeté Jack. «Pensavo solo che volesse...»
«Ladro! Ladro!» strillò il vecchio, con le lacrime che gli scivolavano nelle rughe delle guance.
Jack s'allontanò alla svelta.
Vent'anni addietro, negli anni Sessanta, Oatley era stata probabilmente prospera. La relativa vivacità dell'ultimo tratto di Mill Road era un ricordo dell'epoca in cui i beni di consumo erano in eccesso e la benzina costava poco e tutti avevano più del necessario. La gente aveva investito il proprio denaro in operazioni commerciali e piccoli negozi e per un certo periodo, se proprio non aveva navigato nell'oro, aveva comunque tenuto la testa sopra il pelo dell'acqua. Si leggeva ancora in questo quartiere l'ottimismo superficiale di quegli anni. Ma solo pochi adolescenti annoiati sedevano nei ristorantini a sorbire Coca-Cola e nelle vetrine di troppi negozietti cartelli stinti come quelli delle rivendite d'automobili di seconda mano dichiaravano: SVENDIAMO TUTTO! VENDITA TOTALE. Jack proseguì senza imbattersi in alcuna offerta di lavoro.
Il centro di Oatley mostrava la realtà dietro l'ostentazione clownesca lasciata dagli anni Sessanta. Aggirandosi fra queste case di mattoni, Jack sentiva che lo zaino diventava sempre più pesante e i suoi piedi sempre più doloranti. Si sarebbe anche risolto di recarsi a piedi a Dogtown, vista la mala parata, se non fosse stato per il mal di piedi e la necessità di ripercorrere il tunnel di Mill Road. Naturalmente non era vero che nell'oscurità della galleria si nascondeva un lupo mannaro, ormai di questo si era convinto. Nessuno avrebbe potuto rivolgergli la parola in quel tunnel. I Territori lo avevano lasciato molto scosso. Prima la Regina, poi quel ragazzo morto sotto il carretto con mezza faccia spappolata, poi Morgan. Gli alberi. Ma tutto questo era successo laggiù, dove tutto era possibile, dove fenomeni del genere rientravano forse nella normalità. Qui, la normalità non ammetteva volgarità del genere.
Si trovava davanti a una finestra alta e sporca sopra la quale si leggeva a mala pena la scritta: DEPOSITO DI MOBILI. Si portò le mani ai lati degli occhi e sbirciò all'interno. Su un ampio tratto di parquet sgombro, vide un divano e una sedia coperti da tele bianche. Riprese il cammino cominciando a domandarsi se non sarebbe stato costretto a mendicare un po' di cibo. Quattro uomini sedevano a bordo di un'automobile davanti a un negozio con la porta inchiodata. Solo in un secondo momento Jack si accorse che la vecchia DeSoto nera non aveva le gomme. Sul parabrezza era fissato con del nastro adesivo un pezzo di cartone con scritto: CLUB DEL BEL TEMPO. Gli uomini seduti nell'abitacolo, due davanti e due dietro, stavano giocando a carte. Jack s'avvicinò a un finestrino.
«Scusate», esordì, e il giocatore a lui più vicino ruotò un occhio grigio da pesce. «Sapete dirmi dove...?»
«Sparisci», lo interruppe l'uomo. La sua voce aveva un timbro liquido e catarroso, di chi è disabituato a parlare. La faccia rivolta verso Jack solo per metà era butterata da cicatrici d'acne e stranamente appiattita, come se qualcuno l'avesse calpestata quando quell'individuo era ancora neonato.
«Volevo solo sapere se qualcuno mi poteva indicare dove lavorare per un paio di giorni.»
«Prova nel Texas», rispose l'uomo seduto al posto di guida, e i due sul sedile posteriore si misero a sghignazzare sputacchiando birra sulle carte che tenevano in mano.
«Ti ho detto di sparire, ragazzo», ripeté l'uomo con la faccia piatta e l'occhio grigio. «O ti rompo la schiena con queste mani.»
Diceva sul serio. Era evidente che se si fosse trattenuto anche solo per un altro momento, la collera di quell'uomo sarebbe traboccata. Sarebbe sceso, lo avrebbe tramortito di cazzotti, e poi sarebbe rimontato in macchina ad aprirsi un'altra birra. Il fondo dell'automobile era ingombro di lattine, quelle svuotate buttate in qualche maniera, quelle ancora piene tenute assieme da anelli di plastica lattiginosa. Jack indietreggiò. L'occhio di pesce lo abbandonò. «Vorrà dire che proverò nel Texas», borbottò. Aspettò di udire il cigolio di una delle portiere mentre se ne andava, ma sentì solo l'aprirsi di un'altra lattina.
Track! Cssss!
Proseguì.
Arrivò in fondo all'isolato e si trovò affacciato sull'altra via principale del paese. Sull'altro lato della strada c'era un prato morente di erba gialla dalla quale si alzavano statue in fibra di vetro di fauni disneyani. Una donna anziana e informe, armata di scacciamosche, lo fissava da un'altalena su una veranda.
Jack si sottrasse al suo sguardo sospettoso e vide davanti a sé l'ultimo degli esanimi edifici di Mill Road. Tre gradini di cemento salivano a una porta a zanzariera rimasta aperta. Una finestra oblunga e buia conteneva una pubblicità. Qualche centimetro più in basso, scritte a mano su un cartone giallo più o meno come quello della DeSoto, c'erano le due parole miracolose CERCASI AIUTO. Jack si tolse lo zaino dalla schiena, se lo sistemò sotto un braccio e salì i gradini. Per non più di un istante, abbandonando la luce stanca del sole per immergersi nell'oscurità del bar, ricordò il momento in cui aveva varcato lo schermo dell'edera per imboccare il tunnel di Mill Road.
9
Jack nella pianta carnivora
1
Prima della sessantesima ora da che Jack Sawyer si era avventurato nel tunnel di Oatley, il mercoledì precedente, un Jack Sawyer in uno stato d'animo tutto diverso si trovava nel freddo del magazzino dell'Oatley Tap, intento a nascondere il suo sacco dietro i fusti di birra impilati nell'angolo in fondo come birilli di alluminio al baraccone di un gigante. In meno di due ore, quando finalmente il Tap avrebbe chiuso per la notte, Jack aveva in mente di scappare. Che la pensasse proprio in questi termini, cioè non di partire o riprendere il viaggio, bensì proprio di scappare, era la prova di quanto considerasse ormai disperata la sua situazione.
Avevo sei anni, sei, John B. Sawyer aveva sei anni, Jacky aveva sei anni. Sei.
Questo pensiero, apparentemente incongruo, gli era balenato nella mente quella sera e continuava a ripetersi. In esso Jack vedeva una chiara manifestazione di quanto fosse impaurito, di quanto si fosse convinto che ormai gli eventi fossero sul punto di precipitare. Non aveva idea di che cosa significasse quel pensiero: gli girava e girava nel cervello, come un cavallo di legno su una giostra.
Sei. Avevo sei anni. Jacky Sawyer aveva sei anni.
E via di seguito, altro giro, altra corsa.
Una delle pareti del ripostiglio faceva da divisorio con il bar vero e proprio, e quella sera il muro vibrava per il baccano, pulsava come la pelle di un tamburo. Fino a venti minuti prima era stato venerdì sera e il venerdì era giorno di paga sia alla Oatley Tessili e Filati, sia alla fabbrica di articoli di gomma su misura a Dogtown. Ora l'Oatley Tap era stracolmo; trecento persone a dimenarsi sulle note di un'orchestra country western che si faceva chiamare "I Ragazzi della Genny Valley". Era un'orchestra spaventosa, ma vantava una chitarra con l'eco a pedale. «C'è gente qua attorno che non gliene frega un cacchio dell'eco a pedale, Jack», aveva commentato Smokey.
«Jack!» urlò Lori in mezzo a quel frastuono.
Lori era la donna di Smokey. Jack ancora non conosceva il suo cognome. La udiva a stento perché il juke-box andava a tutto volume durante l'intervallo del complesso. I cinque musicanti erano certamente in piedi in fondo al banco a imbottirsi di birra. Lori fece capolino dalla porta del magazzino. Stanchi capelli biondi, fissati ai lati con infantili sbarrette di plastica, illuminati dalla lampada fluorescente.
«Jack, se non gli fiondi alla svelta quel fusto, mi sa che ti farà un lavoretto al braccio.»
«Okay», rispose Jack. «Digli che sto arrivando.»
Gli si era accapponata la pelle e non solo per il freddo umido del ripostiglio. Smokey Updike non era un uomo da prendersi alla leggera: Smokey che calzava sul cranio stretto cappelli di carta da friggitore, Smokey con la sua vistosa dentiera di plastica acquistata per corrispondenza, macabra e vagamente funerea nell'artificiale uniformità dell'arcata, Smokey con i suoi violenti occhi castani dalla cornea ingiallita dal tempo. Smokey Updike che, in un modo che a Jack ancora sfuggiva, era riuscito a prenderlo prigioniero.
Il juke-box si zittì per qualche istante, ma subito il fragore della folla aumentò di volume per compensazione. Un cowboy del lago Ontano alzò la voce in un possente Hip Ia Ie! da ubriaco. Una donna urlò. Un bicchiere si ruppe. Poi ripartì il juke-box simile a un razzo in accelerazione di decollo.
Uno di quei posti dove mangiano quello che schiacciano sulla strada.
Crudo.
Jack abbracciò uno dei fusti di alluminio e lo trascinò per circa un metro, la bocca contratta in una smorfia, il sudore che gli trapelava dalla fronte nonostante la bassa temperatura, la schiena che gli lanciava le sue rimostranze. Il fusto grattò e gemette sul cemento. Jack si concesse una pausa. Aveva il fiato corto e gli fischiavano le orecchie.
Andò a prendere il carrello e lo avvicinò al fusto, quindi affrontò nuovamente il contenitore di alluminio. Lo fece dondolare finché riuscì a sollevarlo su un bordo per spingerlo in avanti facendolo ruotare. Mentre lo sistemava sul carrello, il fusto gli sfuggì di mano: ricadde con tutto il suo peso di poco inferiore a quello di Jack sul fondo del carrello le cui sbarre di metallo erano protette da uno scampolo di tappeto che serviva proprio a smorzare atterraggi così violenti. Jack tentò di girare il fusto e contemporaneamente di sottrarre le mani. Fu troppo lento. Il fusto gli schiacciò le dita contro la spalliera del carrello. Ci fu un tonfo, una fitta di dolore. Sfilò la mano da dietro il fusto, si mise tutte le dita in bocca e succhiò con le lacrime che gli traboccavano dalle palpebre.
Ma soprattutto lo angosciava il sibilo lento dei gas che sfuggivano tutt'attorno al tappo dello sfiatatoio sul fusto. Se Smokey avesse inserito la spina e la birra fosse uscita troppo spumeggiante... o, peggio ancora, se avesse tolto il tappo e uno schizzo gli avesse inondato la faccia...
Meglio non pensarci.
La sera prima, giovedì, quando aveva cercato di "portare fuori un fusto alla svelta", il contenitore gli si era rovesciato su un fianco. Il tappo dello sfiatatoio era stato sparato da una parte all'altra del locale. Spuma abbondante di birra dorata si era riversata per il pavimento ed era finita nello scarico. Gli occhi strabuzzati, Jack si era ritrovato incapace di muoversi, insensibile agli urlacci di Smokey.
Era stato allora che Smokey l'aveva picchiato per la prima volta, con un colpo veloce e preciso che l'aveva spedito contro una delle pareti scheggiate del ripostiglio.
«E così ti sei giocato la paga di oggi», aveva dichiarato Smokey. «E guai a te se ci rifai, Jack.»
Jack aveva provato un brivido di terrore nel prendere atto del sottinteso di quelle parole: avrebbe avuto molte altre occasioni per ripetere il suo errore, come a dire che Smokey Updike si aspettava che restasse lì per molto, molto tempo.
«Sbrigati, Jack!»
«Arrivo!» Jack ansimava. Trascinò il carrello fino alla porta, cercò a tentoni la maniglia dietro la schiena, aprì e urtò con l'uscio qualcosa di voluminoso e cedevole.
«Cristo! Sta' attento!»
«Oops, mi scusi», biascicò Jack.
«Sai che cosa me ne faccio delle tue scuse, cretino», rispose la voce.
Jack aspettò di udire passi pesanti fuori del ripostiglio prima di spingere nuovamente l'uscio.