«Mi pare che il vento si sia calmato» disse. «Perché non finiamo di bruciare la roba e ripuliamo un po' la spiaggia?»

Quando Dalgliesh fu pronto per tornare al mulino era passata più di un'ora. Mentre salutava Pascoe sulla porta della roulotte, vide una Fiesta blu con un giovane al volante avvicinarsi sobbalzando sul prato.

«Jonathan Reeves» annunciò Pascoe. «Era fidanzato con Caroline Amphlett, o almeno credeva di esserlo. Lei lo ingannava come Amy ingannava me. È venuto qui un paio di volte a parlare. Pensavamo di andare al Locai Hero a fare una partita a biliardo.»

Non era un quadro piacevole, pensò Dalgliesh: due uomini uniti dal comune dolore che si consolavano a vicenda per la perfidia delle loro donne, tra una birra e una partita a biliardo. Ma Pascoe volle presentarglielo, e Dalgliesh si trovò a stringere una mano sorprendentemente salda e a mormorare frasi di condoglianze.

«Non riesco ancora a crederci» disse Jonathan Reeves. «Immagino che succeda sempre così dopo una morte improvvisa. E non posso fare a meno di pensare che sia stata colpa mia. Dovevo fermarle.»

«Erano due donne adulte» rispose Dalgliesh. «Sapevano quello che facevano. A meno che le trascinasse via di peso dalla barca, e sarebbe stato impensabile, non so proprio come avrebbe potuto trattenerle.»

«Dovevo fermarle» insistette ostinatamente Reeves. Poi aggiunse: «Continuo a fare un sogno... un incubo. Lei è in piedi accanto al mio letto con il bambino in braccio e mi dice: "È tutta colpa tua. Tutta colpa tua".»

«Caroline ti appare con Timmy in braccio?» chiese Pascoe.

Reeves lo guardò come se fosse sorpreso da tanta ottusità. «No, non Caroline. È Amy. Amy, che non conoscevo... me la vedo davanti con i capelli grondanti d'acqua. Tiene in braccio il bambino e dice che è tutta colpa mia.»

 

48

 

Circa un'ora dopo, Dalgliesh si era lasciato alle spalle il promontorio e viaggiava verso ovest, seguendo la A1151. Dopo venti minuti svoltò a sud in una stretta strada di campagna. Stava scendendo la notte e le nubi basse, lacerate dal vento, si muovevano nel cielo come brandelli di una coltre gettata sopra la luna e le stelle. Dalgliesh guidava veloce, senza esitazioni, e quasi senza accorgersi dell'ululato del vento che soffiava a raffiche potenti. Aveva fatto quella strada una sola volta, quella mattina presto, ma non aveva bisogno di consultare la cartina: sapeva dove stava andando. Ai due lati delle siepi basse si stendevano i campi neri e sconfinati. I fari della macchina inargentavano ogni tanto un albero contorto, piegato dal vento, illuminavano fuggevolmente la facciata di una fattoria isolata, inquadravano gli occhi spalancati di un animale notturno, che subito fuggiva al sicuro nel buio. La destinazione non era distante, ci volevano meno di cinquanta minuti; ma mentre guardava dritto davanti a sé e azionava il cambio come un automa, per un attimo Dalgliesh si sentì perso come se stesse guidando da ore e ore in quel paesaggio piatto e misterioso, avvolto nell'oscurità.

La villa vittoriana di mattoni sorgeva alla periferia di un paesino. Il cancello era aperto, e Dalgliesh si inoltrò rallentando fra gli allori scossi dal vento e i rami scricchiolanti dei faggi, e andò a parcheggiare la Jaguar accanto ad altre tre macchine posteggiate con discrezione lungo un lato dell'edificio. Le due file di finestre della facciata erano buie, e l'unica lampada accesa sopra la porta sembrava non tanto un segno di benvenuto quanto un messaggio privato, l'indicazione minacciosa di una vita segreta che si svolgeva all'interno. Qualcuno doveva aver sentito arrivare la macchina, perché la porta venne aperta dallo stesso domestico robusto e gioviale che lo aveva accolto quella mattina. Portava la stessa tuta tagliata con tanta cura da sembrare un'uniforme. Dalgliesh si chiese quale fosse precisamente il suo ruolo: autista, guardiano, factotum? O forse aveva una funzione più precisa e sinistra?

«Sono in biblioteca, signore» disse l'uomo. «Sto per servire il caffè; gradisce anche qualcosa da mangiare, signore? È rimasta un po' di carne, e c'è il formaggio.»

«Mi basta il caffè, grazie» rispose Dalgliesh.

Lo aspettavano nella stessa stanzetta sul retro della casa. Le pareti erano rivestite di pannelli di legno chiaro e c'era una sola finestra, un bovindo dalle pesanti tende di uno sbiadito velluto azzurro. Nonostante la chiamassero biblioteca, la funzione di quella stanza non era chiara. In effetti la parete di fronte alla finestra era coperta di scaffali, ma sulle mensole c'erano solo una mezza dozzina di volumi rilegati in pelle e mucchi di vecchi periodici che sembravano supplementi a colori del giornale della domenica. La stanza aveva un'aria stranamente inquietante, aveva al contempo un che di artificioso e di confortevole, come una sala d'aspetto in cui i viaggiatori di passaggio tentano di sentirsi a proprio agio. Intorno al camino di marmo erano disposte sei poltrone una diversa dall'altra, ma tutte di pelle, e tutte con accanto uno sgabello. Sull'altro lato della stanza si trovava un tavolo da pranzo moderno, di linea semplicissima, intorno al quale c'erano sei sedie. La mattina Dalgliesh vi aveva trovato gli avanzi della colazione, in un'aria appesantita dall'odore di uova e pancetta, ma ora sulla tavola sparecchiata c'era solo un vassoio con bottiglie e bicchieri. Dalgliesh notò l'assortimento dei liquori e pensò che si trattavano piuttosto bene. Quel vassoio era l'unico elemento ospitale in una stanza per il resto abbastanza fredda. Il ventaglio ornamentale aperto davanti al camino frusciava a ogni folata di vento che scendeva per il comignolo e la stufetta elettrica non bastava a riscaldare l'ambiente nonostante le modeste dimensioni della biblioteca.

Nel momento in cui Dalgliesh era entrato, tre paia d'occhi si erano posati su di lui. Clifford Sowerby era in piedi, appoggiato al camino, esattamente nella stessa posizione in cui Dalgliesh l'aveva lasciato quella mattina. Indossava un abito elegante e una camicia immacolata e, fresco come appena alzato, dominava la stanza con la sua presenza. Era un uomo robusto, dall'aspetto piacente e convenzionale, con l'aria sicura e benevola del preside di una scuola o del direttore di una banca. Nessun cliente doveva preoccuparsi entrando nel suo ufficio fintanto che aveva un saldo attivo sul conto. Dalgliesh, che lo vedeva per la seconda volta in vita sua, provò ancora quell'istintivo, irrazionale disagio. Era un uomo implacabile e pericoloso, eppure in quelle ore Dalgliesh non era riuscito a ricordare esattamente la sua faccia e la sua voce.

Non si poteva dire altrettanto di Bill Harding. Con il suo metro e novanta di altezza, la faccia pallida e lentigginosa e i capelli rossi, aveva evidentemente deciso che per lui l'anonimato era impossibile e quindi tanto valeva optare per l'eccentricità. Indossava un abito di tweed pesante a quadretti, con una cravatta a pois. Si alzò con una certa difficoltà da una poltrona bassa, si avvicinò al tavolo e, quando Dalgliesh disse che avrebbe aspettato il caffè, rimase con la bottiglia di whisky in mano come se non sapesse cosa farne. Ma rispetto a quella mattina c'era qualcuno in più. Alex Mair stava accanto alla libreria con il suo bicchiere di whisky, come se fosse interessato alla collezione di volumi e periodici. Sentendo entrare Dalgliesh si girò e gli rivolse una lunga occhiata pensierosa, prima di rivolgergli un cenno di saluto. Era senza dubbio il più simpatico e intelligente dei tre; ma qualcosa - forse la sicurezza, forse l'energia - sembrava averlo abbandonato, e sul volto aveva l'espressione di un uomo che stenta a controllare un dolore fisico.

«Si è bruciacchiato i capelli, Adam» disse Sowerby con un'espressione divertita negli occhi dalle palpebre pesanti. «Puzza come se avesse rastrellato le braci di un falò.»

«È proprio quello che ho fatto.»

Mair non si mosse, ma Sowerby e Harding sedettero ai lati del camino. Dalgliesh prese posto su una poltrona nel mezzo. Attesero che arrivasse il caffè e che lui ne avesse in mano una tazza. Sowerby stava appoggiato alla spalliera della poltrona e guardava il soffitto come se fosse disposto ad aspettare tutta la notte.

Fu Bill Harding a rompere il ghiacchio: «Dunque, Adam?».

Dalgliesh posò la tazza e descrisse esattamente quanto era avvenuto da quando si era recato alla roulotte. Aveva una memoria precisissima e non aveva avuto bisogno di prendere appunti. Terminato il resoconto disse: «Quindi potete stare tranquilli: Pascoe crede a quella che, immagino, diventerà la versione ufficiale. Le due ragazze erano amanti, sono uscite imprudentemente di notte con la barca e sono state investite per sbaglio nella nebbia. Non credo che causerà grane a voi o ad altri. Sembra che abbia esaurito la capacità di provocare guai».

«E la Camm non aveva lasciato nella roulotte niente di sospetto?» chiese Sowerby.

«Non credo che avesse niente da lasciare. Pascoe mi ha detto di aver letto un paio delle cartoline, ma a quanto pare erano le solite frasi da turisti. Sembra che la Camm le abbia distrutte. E Pascoe, con il mio aiuto, ha distrutto le tracce della sua presenza sul promontorio. L'ho aiutato a portare giù gli indumenti e i cosmetici e a buttarli nel fuoco. Mentre li guardava bruciare, sono tornato indietro e ho controllato: non c'era più niente.»

Sowerby disse in tono formale: «È stato gentile a farci questo piacere, Adam. Certo, dato che Rickards non è al corrente del nostro interesse, non potevamo affidarci a lui. E naturalmente lei aveva un vantaggio che a Rickards mancava: Pascoe deve averla vista più come amico che come poliziotto. È ovvio, data la precedente visita al Larksoken Mill. Si fida di lei».

«Me l'ha già spiegato stamattina» ribatté Dalgliesh. «La sua richiesta mi è sembrata ragionevole, date le circostanze. Non sono un ingenuo, so cos'è il terrorismo. Mi ha chiesto di fare una cosa e l'ho fatta. Sono ancora convinto che dovrebbe informarne Rickards, ma questo è affar suo. Del resto ora ha avuto la risposta che cercava. Se la Camm era coinvolta con la Amphlett, non l'aveva confidato a Pascoe, e Pascoe non aveva sospetti sulle due donne. Crede che la Camm stesse con lui solo per restare vicina all'amante. Nonostante le sue idee di estrema sinistra è pronto a credere, come ogni altro uomo, che se una donna non vuole andare a letto con lui è perché è frigida o lesbica.»

Sowerby si concesse un sorriso ironico. «Mentre lei recitava la parte di Ariele a quel Prospero sulla spiaggia, immagino che non le abbia confessato di aver ucciso la Robarts. Non che abbia molta importanza, ma sono curioso.»

«Il compito che mi avete affidato riguardava Amy Camm; lui però mi ha accennato al delitto. Non penso che creda davvero che Amy abbia collaborato all'assassinio della Robarts, ma in realtà non gli importa niente che siano state o meno le due donne. Siete convinti che siano loro le colpevoli?»

«Non spetta a noi esserne convinti» rispose Sowerby. «Basta che lo sia Rickards, e immagino che lui lo sia. A proposito, oggi l'ha visto o sentito?»

«Mi ha telefonato verso mezzogiorno, soprattutto per farmi sapere che sua moglie è tornata a casa. Pensava che la cosa mi interessasse. In quanto al delitto, mi sembra che stia arrivando alla conclusione che sia stato commesso dalla Camm e dalla Amphlett.»

«E probabilmente ha ragione» commentò Harding.

«Che prove ci sono?» ribatté Dalgliesh. «E dato che Rickards non sa che almeno una delle due era sospettata di terrorismo, quale sarebbe il movente?»

Harding assunse un tono spazientito. «Andiamo, Dalgliesh... che prove può sperare di trovare? E da quando si è mai pensato davvero al movente? Comunque, quelle due l'avevano, o almeno l'aveva la Camm. Odiava la Robarts. C'è una testimone che ha assistito a un litigio fra loro il pomeriggio della domenica in cui è stato commesso l'omicidio. E la Camm era molto protettiva verso Pascoe e quel suo gruppo di ambientalisti. La querela per diffamazione avrebbe potuto rovinarlo e mettere per sempre fuori causa il PANUP, che già così è in condizioni molto precarie. La Camm voleva morta la Robarts, e la Amphlett l'ha uccisa. Sarà quello che penseranno tutti, sul posto, e Rickards accetterà la teoria. Anche se per rendergli giustizia bisogna dire che forse non ci crede.»

«La Camm era molto protettiva verso Pascoe?» gli fece eco Dalgliesh. «E chi lo dice? È una supposizione, non una certezza provata.»

«Però Rickards qualche indizio ce l'ha, no? Solo indizi, d'accordo, ma probabilmente non troverà altro. La Amphlett sapeva che la Robarts andava a nuotare di notte - alla centrale lo sapevano tutti - e si è fabbricata un alibi falso. La Camm, come tutti gli altri, poteva entrare nel retrocucina della Vecchia Canonica, dove stavano quelle cianfrusaglie. E adesso Pascoe ammette che potevano essere le nove e un quarto quanto è tornato da Norwich. D'accordo, i tempi sono ristretti, ma non impossibili, ammesso che la Robarts sia andata a nuotare un po' prima del solito. È una ricostruzione ragionevole. Non avrebbe giustificato l'arresto di quelle due se fossero ancora vive, ma basterebbe a rendere difficile ottenere un verdetto di colpevolezza a carico di chiunque altro.»

«E Amy Camm avrebbe lasciato solo suo figlio?» chiese Dalgliesh.

«Perchè no? Con ogni probabilità il bambino dormiva; e se anche si fosse svegliato e si fosse messo a strillare chi l'avrebbe sentito? Adam, non vorrà sostenere che la Camm era una buona madre, santo Dio. Alla fine l'ha abbandonato, no? E per sempre, anche se forse non era sua intenzione. Mi creda, quel piccolo non veniva al primo posto nell'ordine delle priorità di sua madre.»

«Quindi lei pensa che una madre si offenda per una sgarberia fatta al figlio al punto di vendicarla con un omicidio, e poi lo abbandoni tutto solo in una roulotte per fare una gita in barca con l'amica del cuore?» osservò Dalgliesh. «Non pensa che Rickards troverà un po' difficile conciliare le due cose?»

«Dio solo sa in che modo Rickards rimetterà insieme questa storia» disse Sowerby con una sfumatura di impazienza. «Per fortuna non siamo obbligati a chiederglielo. E comunque, Adam, abbiamo un movente. Può darsi che la Robarts sospettasse della Amphlett. Dopotutto era l'amministratrice della centrale, era intelligente, coscienziosa... anche troppo, non è vero Mair?»

Tutti si voltarono verso Alex Mair che se ne stava silenzioso accanto alla libreria. Lui si girò e senza alzare la voce rispose: «Sì, era coscienziosa. Ma non credo lo fosse al punto di scoprire una cospirazione che a me era sfuggita». Dopodiché tornò a contemplare i libri.

Vi fu un momento di silenzio imbarazzato, rotto da Bill Harding che, come se Mair non avesse parlato, disse vivacemente: «Chi era in una posizione migliore per sospettare un episodio di tradimento? Forse Rickards avrà indizi incerti e un movente inadeguato; ma in sostanza non sbaglierà di molto».

Dalgliesh si alzò e si avvicinò al tavolo. «Capisco. Vi farebbe comodo chiudere il caso. Ma se fossi io a indagare, il caso resterebbe aperto.»

«Allora ringraziamo il cielo che non è lei a occuparsene» osservò Sowerby in tono pungente. «Terrà per sé i suoi dubbi, vero, Adam? Mi sembra che non ci sia neppure bisogno di suggerirglielo...»

«E allora che bisogno c'è di dirlo?»

Dagliesh posò la tazza sul tavolo. Sowerby e Harding seguivano ogni suo movimento come se fosse un individuo sospetto che poteva tentare improvvisamente la fuga. Tornò a sedersi e disse: «E come farà Rickards o chiunque altro a spiegare quella gita in barca?».

Fu ancora Harding a rispondere: «Non è obbligato a farlo. Erano amanti, santo Dio! Gli è venuto il capriccio di una gita in mare. La barca era della Amphlett. Ha lasciato la macchina sul lungomare, sotto gli occhi di tutti. Non si sono portate dietro niente e Amy Camm ha lasciato un biglietto per Pascoe dicendo che sarebbe tornata dopo un'ora. Per Rickards, come per chiunque altro, tutto questo indicherà un tragico incidente. Chi può sostenere il contrario? Non eravamo arrivati abbastanza vicini alla Amphlett perché si spaventasse e cercasse di fuggire.»

«E i vostri non hanno trovato niente in casa?»

Harding scambiò un'occhiata con Sowerby. Era una domanda cui preferivano non rispondere e che sarebbe stato meglio non fare. Dopo un breve silenzio, Sowerby disse: «Tutto pulito. Niente radio, niente documenti, nessuna prova. Se la Amphlett aveva intenzione di sparire, ha sgomberato tutto con molta efficienza».

«Ammesso che fosse in preda al panico e stesse scappando, l'unico mistero è questo: perché tanta fretta?» riprese Bill Harding. «Se aveva ucciso la Robarts e pensava che la polizia stesse per scoprirlo, ecco, questo avrebbe potuto sconvolgerla. Ma non era così. Naturalmente poteva trattarsi davvero di una gita in barca. E può essere davvero che sia successo un incidente. Oppure può darsi che i loro amici le abbiano eliminate entrambe. Se il piano per Larksoken era superato, tutte e due erano sacrificabili. Cosa potevano farsene i compagni? Costruirgli nuove identità, procurargli documenti nuovi, infiltrarle in una centrale nucleare in Germania? Non valevano la fatica, direi.»

«Qualcosa fa pensare che sia stato un incidente?» chiese Dalgliesh. «Qualche nave ha riferito di aver subito danni alla prua nella nebbia per una possibile collisione?»

«Finora no» rispose Sowerby. «E non credo che succederà. Ma se la Amphlett faceva parte dell'organizzazione che sospettiamo l'avesse reclutata, be'... quelli non si sarebbero fatti scrupoli di fornire alla causa due martiri involontarie. Con chi crede che avesse a che fare? La nebbia li deve aver aiutati, ma le avrebbero investite anche se la nebbia non ci fosse stata. Oppure le avrebbero portate altrove per poi ucciderle. Simulare un incidente era la soluzione più pratica, dato che avevano dalla loro le condizioni atmosferiche. Anch'io avrei fatto lo stesso.» Sì, ne sarebbe stato capace, pensò Dalgliesh. L'avrebbe fatto senza provare il minimo rimorso.

«Non aveva mai avuto sospetti su quella ragazza?» domandò Harding rivolto a Mair.

«Me l'ha già chiesto: no. Mi sono sorpreso, anzi un po' irritato, quando mi ha detto che preferiva non seguirmi come assistente nel mio nuovo incarico, e la ragione mi aveva stupito ancora di più. Jonathan Reeves non mi sembrava affatto il suo tipo.»

«Eppure» intervenne Sowerby, «è stata una scelta abile. Un uomo insignificante, uno che la Amphlett fosse in grado di dominare: non troppo intelligente, già innamorato di lei. Avrebbe potuto piantarlo quando voleva e lui non ne avrebbe nemmeno capito il motivo. Comunque, perché sospettare? L'attrazione sessuale è del tutto irrazionale.»

Dopo un attimo di silenzio riprese: «Aveva mai visto l'altra ragazza... Amy? Da quello che so, è venuta a visitare la centrale una volta, durante una giornata aperta al pubblico, ma immagino che non se la ricordi».

Il viso di Mair era una maschera di cera. «L'ho vista una volta, mi pare. Capelli biondi, tinti, un viso tondo, piuttosto carina. Aveva in braccio un bambino. A proposito, cosa ne sarà di lui?»

«Resterà affidato all'assistenza pubblica, immagino» osservò Sowerby, «a meno che rintraccino il padre o i nonni. Con ogni probabilità verrà dato in adozione. Mi chiedo cosa diavolo pensasse di fare sua madre.»

Harding intervenne con inattesa veemenza: «Perché, è gente che pensa, quella? Ne sono capaci? Niente fede, niente stabilità, niente affetti familiari, niente lealtà. Sono come cartacce al vento. Poi, quando si tratta di trovare qualcosa in cui credere, qualcosa che gli dia l'illusione di essere importanti, che cosa scelgono? La violenza, l'anarchia, l'odio, il delitto».

Sowerby lo fissò, sorpreso e vagamente divertito. «Idee per le quali alcuni di loro sono persino disposti a morire. E naturalmente il problema è proprio questo.»

«Solo perché vogliono morire! Se non ce la fai a vivere, cerca una scusa, una causa che ti illudi valga il sacrificio della vita, e soddisfi il tuo desiderio di morte. Se hai fortuna puoi trascinarti dietro una decina di poveracci, gente a cui la vita non dispiace affatto, che non vuole morire. E c'è sempre l'inganno supremo, l'arroganza finale: il martirio. Non mancano gli idioti che in tutto il mondo stringeranno il pugno e grideranno il tuo nome, portando in corteo un cartello con il tuo ritratto. Poi cercheranno qualcuno da uccidere o da far saltare in aria con una bomba. È quella ragazza, la Amphlett... Non aveva neppure la scusa della povertà. Il padre era un alto ufficiale dell'esercito; sicurezza, un'ottima educazione, privilegi, denaro... Aveva tutto!»

Fu Sowerby a rispondere: «Sappiamo che cosa aveva, ma non possiamo sapere che cosa non aveva».

Harding non gli badò. «E cosa pensavano di fare con Larksoken se l'avessero occupata? Non sarebbero durati più di mezz'ora. Avrebbero avuto bisogno di esperti, di programmatori.»

«Penso» intervenne Mair, «che sapessero di cosa e di chi avevano bisogno, e che avessero studiato il modo per assicurarseli.»

«E come li avrebbero fatti arrivare fino alla centrale?»

«Forse per mare.»

Sowerby lo fissò, poi ribatté un po' spazientito: «Ma non è andata così. Non ci sono riusciti. Ed è nostro compito fare in modo che non ci riescano mai».

Vi fu un momento di silenzio, quindi Mair disse: «Immagino che la Amphlett fosse l'elemento dominante. Mi chiedo quali argomenti, quali incentivi abbia usato. Quella ragazza, Amy, mi sembrava una creatura istintiva, poco disposta a dare la vita per una fede politica. Ma il mio non può che essere un giudizio superficiale, dopo tutto l'ho vista una volta sola».

«Non conoscendole» osservò Sowerby, «non si può sapere chi fosse l'elemento dominante; ma quasi sicuramente concorderei nel dire che era la Amphlett. Sul conto della Camm non si sa e non si sospetta nulla. Con ogni probabilità era stata reclutata come corriere. La Amphlett doveva avere un contatto nell'organizzazione, doveva incontrarlo ogni tanto, se non altro per ricevere istruzioni. Ma dovevano stare attenti a non avere mai rapporti diretti. Probabilmente la Camm riceveva i messaggi in codice che fissavano l'ora e il luogo per il successivo incontro, e provvedeva a inoltrarli. In quanto alle sue motivazioni, senza dubbio era insoddisfatta della vita.»

Bill Harding si avvicinò al tavolo e si versò un whisky abbondante. Aveva la voce impastata, come se fosse sbronzo. «La vita è insoddisfacente quasi per tutti, e quasi sempre. Il mondo non è stato creato per il nostro piacere, ma non è una ragione sufficiente per cercare di farcelo crollare addosso.»

Un quarto d'ora più tardi Dalgliesh se ne andò insieme a Mair. Mentre aprivano le portiere delle rispettive macchine, si voltarono a guardare la casa e videro che il domestico era ancora sulla soglia.

«Deve assicurarsi che ce ne andiamo. Che strana gente! Mi domando come abbiano fatto ad arrivare a Caroline. Mi è sembrato inutile chiederlo: si capiva che non intendevano spiegarcelo.»

«No, non l'avrebbero detto. Quasi sicuramente è stata una soffiata dei servizi di sicurezza tedeschi.»

«E questa casa... Come diavolo fanno a scovare posti simili? Sarà di loro proprietà, o l'avranno presa in prestito o in affitto... oppure l'avranno semplicemente occupata?»

«Con ogni probabilità appartiene a uno dei loro funzionari in pensione, che gli lascia una chiave perché possano servirsene di tanto in tanto.»

«E adesso immagino che se ne andranno. Spolvereranno i mobili, controlleranno di non aver lasciato impronte digitali, finiranno la scorta di viveri e toglieranno la corrente. Così fra un'ora nessuno sarà più in grado di dire che sono stati qui. Ma almeno su una cosa hanno sbagliato: non c'era una relazione tra Amy e Caroline. È assurdo!»

Mair aveva parlato con straordinaria veemenza e convinzione, quasi con sdegno, e Dalgliesh si chiese se Caroline Amphlett era stata qualcosa di più della sua assistente personale. Mair doveva aver intuito ciò che stava pensando, ma non diede spiegazioni e non negò. «Non mi sono ancora congratulato con lei per il nuovo incarico» disse Dalgliesh.

Mair si era seduto al volante e aveva acceso il motore. Ma la portiera era ancora aperta e il custode attendeva pazientemente sulla porta della casa.

«Grazie» rispose Mair. «Le tragedie avvenute a Larksoken hanno attenuato un po' la soddisfazione, ma è pur sempre l'incarico più importante che potrà mai capitarmi di avere.» Poi, mentre Dalgliesh stava per allontanarsi, soggiunse: «Dunque lei crede che sul promontorio ci sia ancora un assassino».

«Lei non è d'accordo?»

Mair non rispose. Chiese invece: «Se fosse nei panni di Rickards, ora cosa farebbe?».

«Cercherei di scoprire se Blaney o Theresa hanno lasciato lo Scudder's Cottage quella domenica sera. E se uno dei due l'ha fatto, allora penserei che la mia ricostruzione è completa. Non sarei in grado di provarla, ma secondo logica reggerebbe, e penso che corrisponderebbe alla verità.»

 

49

 

Dalgliesh uscì per primo dal viale, ma con una brusca accelerata Mair lo superò sul primo tratto di rettilineo. Il pensiero di seguire la Jaguar fino a Larksoken era intollerabile, del resto non c'era pericolo: Dalgliesh guidava da poliziotto, restando - sia pure di poco - nei limiti di velocità. Una volta arrivati sulla strada principale, i fari della Jaguar scomparvero dallo specchietto retrovisore. Mair guidava come un automa, con lo sguardo fisso davanti a sé, facendo appena caso alle sagome nere degli alberi agitati dal vento che gli sfilavano accanto come in un film accelerato, ai catarifrangenti che si snodavano sull'asfalto come un torrente ininterrotto di luce. Non si aspettava di incrociare nessuno lungo la strada per il promontorio, così superando il dosso si accorse all'ultimo momento delle luci lampeggianti di un'ambulanza. Fece una brusca sterzata e uscì di strada, frenando sull'erba. Quando si fermò, restò immobile ad ascoltare il silenzio. Le emozioni che in quelle ultime tre ore aveva rigorosamente represso parevano assalirlo con la stessa forza con cui il vento assaliva la macchina. Doveva disciplinare i pensieri, rimettere ordine tra tutte quelle sensazioni che lo facevano inorridire con la loro violenta irrazionalità. Come era possibile che provasse sollievo per la morte di quella ragazza, per un pericolo scongiurato, per una situazione imbarazzante evitata, e nello stesso tempo tuttavia si sentisse dilaniato da una sofferenza e da un rimpianto così sconvolgenti? Dovette trattenersi dal non sbattere la testa contro il volante. Lei era così disinibita, così audace e divertente. E aveva mantenuto le promesse: dopo il loro ultimo incontro, il pomeriggio della domenica, non l'aveva più cercata e lei non aveva tentato di contattarlo né per lettera né per telefono. Avevano deciso che quella relazione doveva finire e che entrambi l'avrebbero tenuta nascosta. Lei aveva tenuto fede all'impegno, come era sicuro che avrebbe fatto, e adesso era morta. Pronunciò il suo nome ad alta voce: «Amy, Amy, Amy!». All'improvviso proruppe in un singhiozzo che gli straziò il petto come il dolore che annuncia un infarto, e finalmente sentì le lacrime liberatrici che gli scorrevano sul volto. Non piangeva da quando era un bambino; e persino ora, mentre le lacrime scendevano come gocce di pioggia e ne sentiva sulle labbra il sorprendente sapore salato, si disse che quello sfogo era prezioso, terapeutico. Lo doveva ad Amy: e una volta che le avesse reso quel tributo di dolore, avrebbe potuto cancellarla dalla mente come aveva deciso di cancellarla dal proprio cuore. Solo mezz'ora dopo, quando riaccese il motore, pensò all'ambulanza e si chiese chi tra i pochi abitanti del promontorio era stato trasportato d'urgenza all'ospedale.

 

50

 

Mentre i due uomini dell'ambulanza spingevano la barella a ruote lungo il vialetto del giardino, il vento si insinuò sotto l'angolo della coperta rossa e la sollevò in un arco. Le cinghie la trattennero, ma Blaney quasi si buttò sul corpo di Theresa come per ripararla da qualcosa di più minaccioso del vento. Avanzava di traverso come un granchio accanto alla figlia, stava curvo e le teneva la mano sotto la coperta... la mano piccola, dalla ossa delicate, era calda e madida di sudore. Avrebbe voluto mormorarle parole confortanti, ma il terrore gli aveva inaridito la gola. Non era in grado di rassicurare la figlia. Troppo recente era il ricordo di un'altra ambulanza, un'altra barella, un altro tragitto. Non osava quasi guardare Theresa per timore di vedere sul suo volto ciò che aveva visto sul volto della madre, quell'espressione rassegnata e remota, come se si stesse già distaccando da lui, da tutte le cose terrene, persino dal suo affetto, per addentrarsi in una terra di ombre dove lui non poteva seguirla e dove, comunque, non sarebbe stato ben accolto. Cercava di trovare consolazione nel ricordo della voce energica del dottor Entwhistle.

«Guarirà. È solo un'appendicite. Se la portiamo subito all'ospedale potranno operarla stanotte, e con un po' di fortuna fra qualche giorno sarà a casa. Sia chiaro, per un po' niente pulizie; ne parleremo dopo. Adesso telefoniamo. E non si faccia prendere dal panico: non si muore di appendicite.»

E invece sì. C'era chi moriva sotto l'anestetico, chi moriva perché sopravveniva un attacco di peritonite, chi moriva per un errore del chirurgo. Blaney si sentiva disperato.

Quando la barella venne sollevata con delicatezza e caricata sull'ambulanza, si voltò a guardare lo Scudder's Cottage. Adesso lo odiava, odiava ciò che quella casa gli aveva fatto, ciò che lo aveva spinto a fare. Era un posto maledetto, come lui. Sulla soglia la signora Jago stringeva Anthony fra le braccia inesperte, mentre le gemelle le stavano accanto in silenzio. Blaney aveva telefonato al Locai Hero per chiedere aiuto, e George Jago aveva subito accompagnato lì la moglie perché restasse con i bambini fino a che lui fosse tornato a casa. Non c'era nessun altro a cui chiederlo. Aveva provato a chiamare Alice Mair al Martyr's Cottage, ma gli aveva risposto la segreteria telefonica. La signora Jago sollevò la manina di Anthony e l'agitò in segno di saluto, poi si chinò a parlare alle gemelle. Anche loro salutarono con la mano, obbedienti.

L'ambulanza imboccò sobbalzando il vialetto, e appena raggiunta la strada per Lydsett accelerò. A un tratto fece una brusca sterzata, e per poco Blaney non cadde dal sedile. L'infermiere di fronte a lui imprecò: «Qualche imbecille che corre troppo».

Ma Blaney non rispose. Stava vicino a Theresa, la teneva per mano, e pregava disperatamente il Dio in cui non credeva più da quando aveva diciassette anni. «Non farla morire. Non punirla per colpa mia. Crederò, farò qualsiasi cosa. Posso cambiare. Punisci me, non lei. Oh, Dio, lasciala vivere.»

All'improvviso gli parve di essere di nuovo in quel piccolo cimitero, di risentire la voce monotona di padre McKee, con Theresa al fianco, la mano fredda nella sua. Da una corona era caduto un fiore bianco, un bocciolo a cui nessuno badava, torturato dal filo di ferro infilato nello stelo. Aveva provato un impulso quasi irresistibile di raccoglierlo prima che venisse spalato nella tomba insieme alla terra, di portarlo a casa, metterlo nell'acqua e lasciare che morisse in pace. Aveva dovuto imporsi di rimanere immobile per non piegarsi a raccoglierlo. Non aveva avuto il coraggio di muoversi, così il fiore era rimasto lì ed era stato soffocato dalle prime zolle.

Theresa gli sussurrava qualcosa e lui si chinò ad ascoltarla, tanto da sentire l'odore del suo alito. «Papà, sto per morire?»

«No. No!»

Blaney gridò quella risposta, un urlo di sfida alla morte, e si accorse che l'infermiere stava per alzarsi. Allora riprese, abbassando la voce: «Hai sentito il dottor Entwhistle. È una semplice appendicite».

«Voglio vedere padre McKee.»

«Domani, dopo l'operazione. Glielo dirò e lui ti verrà a trovare. Non lo scorderò, te lo prometto. Ora stai tranquilla.»

«Papà, voglio vederlo subito, prima dell'operazione. C'è qualcosa che devo dirgli.»

«Glielo dirai domani.»

«Posso dirlo a te? Devo dirlo subito a qualcuno.»

«Domani, Theresa» ribatté Blaney con veemenza. «Può aspettare fino a domani.» Ma poi, sgomentato dal proprio egoismo, bisbigliò: «Dimmelo, cara, se proprio devi». Chiuse gli occhi perché lei non vi leggesse l'orrore, la disperazione.

Theresa mormorò: «La notte della morte della signorina Robarts, ero andata di nascosto alle rovine dell'abbazia. L'ho vista correre e buttarsi in mare. Ero là».

«Non ha importanza» la rassicurò Blaney con voce rauca. «Non hai bisogno di dirmi altro.»

«Voglio dirlo. Avrei dovuto farlo prima. Ti prego, papà.»

Blaney le strinse la mano tra le sue. «Dimmi.»

«C'era anche un'altra persona quella sera. L'ho vista che camminava sul promontorio verso il mare. Era la signora Dennison.»

Il sollievo pervase Blaney, un'ondata dopo l'altra, purificatore come l'acqua tiepida del mare d'estate. Dopo un attimo di silenzio udì di nuovo la voce della figlia: «Papà, lo dirai a qualcuno? Alla polizia?».

«No» rispose lui. «Hai fatto bene a parlarmene, ma non è importante. Non significa nulla. Stava solo facendo una passeggiata al chiaro di luna. Non lo dirò a nessuno.»

«Non dirai neppure che quella notte ero andata sul promontorio?»

«No» le assicurò Blaney con fermezza. «Neppure questo. Almeno per ora. Ma avremo tempo di decidere cosa fare. Ne parleremo dopo l'operazione.»

E per la prima volta si sentì capace di credere che per loro ci sarebbe stato un futuro, dopo l'operazione.

 

51

 

Lo studio del signor Copley era sul retro della Vecchia Canonica e guardava sul prato incolto e sulle tre file di cespugli deformati dal vento. Era l'unica stanza dove Meg non si sarebbe permessa di entrare senza prima bussare; veniva considerata il rifugio privato del signor Copley, come se avesse ancora la responsabilità di una parrocchia e avesse bisogno di un luogo tranquillo per preparare il sermone settimanale o consigliare i parrocchiani che venivano a chiedergli un parere. Era lì che ogni giorno si ritirava a recitare la Preghiera del Mattino e della Sera, con la sua piccola congregazione formata solo da sua moglie e da Meg, le cui esili voci femminili rispondevano alle invocazioni e si alternavano alla sua nella lettura dei versetti dei salmi. Quando si erano trasferiti nella Vecchia Canonica, il signor Copley aveva detto a Meg, gentilmente e senza imbarazzo: «Ogni giorno reciterò nel mio studio le due funzioni principali, ma non deve sentirsi obbligata a partecipare se non lo desidera».

Meg aveva deciso di prendervi parte, dapprima per cortesia e col tempo perché quel rituale quotidiano, quelle belle cadenze quasi dimenticate l'avevano incantata e avevano dato alla sua giornata un ritmo piacevole. Lo studio, più di tutte le altre stanze di quella solida casa brutta ma comoda, sembrava rappresentare una sicurezza inviolabile, una roccaforte in una terra desolata, contro la quale i ricordi e i rancori dei tempi della scuola, i piccoli fastidi della vita quotidiana, e persino l'orrore del Fischiatore e la minaccia rappresentata dalla centrale nucleare si scagliavano invano. Probabilmente il suo aspetto non era molto cambiato da quando il primo parroco vittoriano ne aveva preso possesso. Una parete era occupata dalla libreria che conteneva una biblioteca teologica raramente consultata dal signor Copley, o almeno così pensava Meg. La vecchia scrivania di mogano di solito era sgombra, e lei sospettava che il reverendo passasse gran parte del tempo sulla poltrona a guardare il giardino. Le restanti tre pareti erano coperte di fotografie: la squadra di canottaggio dei tempi dell'università, con i rematori che portavano ridicoli berrettini e avevano un'espressione seria sulle facce baffute; gli ordinandi del suo corso di teologia; e poi gli acquerelli insipidi dalle cornici dorate, ricordi di viaggio di qualche antenato vittoriano; acqueforti della cattedrale di Norwich, la navata di Winchester, il grande ottagono di Ely. A lato del camino vittoriano stava un crocifisso. Meg aveva idea che fosse antico, probabilmente prezioso, ma non aveva mai osato chiederlo. Il corpo del Cristo era quello di un giovane, contratto nella sofferenza dell'agonia, con la bocca aperta che sembrava gridare un'esclamazione di trionfo o forse di sfida al Dio che l'aveva abbandonato. Nello studio non c'era niente altro che potesse risultare inquietante o carico di significato: mobili, oggetti, foto e quadri parlavano di ordine, di certezze, di speranza. Ora, mentre bussava e restava in attesa che il signor Copley la invitasse a entrare, Meg pensò che era venuta a chiedere conforto alla stanza tanto quanto a chi la occupava.

Il reverendo era seduto in poltrona con un libro sulle ginocchia. Fece per alzarsi con una rigida goffaggine, ma lei disse: «Non si disturbi, la prego. Vorrei parlarle in privato se ha un attimo da dedicarmi».

Notò subito il lampo d'ansia negli sbiaditi occhi azzurri e capì che aveva paura che lei volesse licenziarsi. Così si affrettò ad aggiungere: «Come ecclesiastico. Vorrei consultarla come ecclesiastico».

Il signor Copley mise da parte il libro. Era quello che aveva scelto il venerdì precedente alla biblioteca itinerante insieme alla moglie, l'opera più recente di HRF Keating. I Copley amavano i polizieschi, e a Meg dava un po' fastidio che dessero per scontato che spettasse a lui leggerli per primo. Il ricordo inopportuno del blando egoismo domestico del signor Copley assunse per un momento un'importanza sproporzionata, e Meg si chiese come poteva aver pensato che fosse in grado di aiutarla. Eppure era giusto criticarlo per le precedenze che la stessa Dorothy Copley aveva stabilito e applicato dolcemente per cinquantatré anni? Si disse che era venuta a consultare il religioso, non l'uomo. In fondo non le sarebbe venuto in mente di chiedere all'idraulico come trattava moglie e figli prima di lasciargli riparare lo scaldabagno.

Il signor Copley le indicò una seconda poltrona e Meg la tirò di fronte all'altra. Il reverendo mise tra le pagine un segnalibro di pelle, posò il romanzo con grande delicatezza, come se fosse stato una reliquia, e vi appoggiò sopra le mani. A Meg sembrava che si fosse raccolto in se stesso e si tendesse un po' in avanti, con la testa china, quasi fosse in un confessionale. Ma lei non aveva nulla da confessargli: voleva solo rivolgergli una domanda, una domanda che con la sua cruda semplicità arrivava a toccare il cuore della sua fede cristiana, indiscussa ma non priva di dubbi. «Se ci succede di trovarci di fronte a una decisione, un dilemma» chiese, «come possiamo sapere cosa è giusto?»

Ebbe l'impressione di vedere la tensione che si allentava sul volto mite del reverendo, come se fosse lieto di scoprire che l'interrogativo era meno grave di quanto avesse temuto. Tuttavia ci volle un po' di tempo prima che rispondesse.

«Ce lo dirà la nostra coscienza, se sapremo ascoltarla.»

«Quella voce esile, come la voce di Dio?»

«Non come, Meg. La coscienza è la voce di Dio, dello Spirito Santo che è in noi. In occasione della Pentecoste noi preghiamo perchè ci venga donata la capacità di applicare il retto giudizio in tutte le cose.»

«Ma come possiamo essere sicuri che quella che sentiamo non sia la nostra voce, la voce dei nostri desideri inconsci?» insistette dolcemente Meg. «Il messaggio che attendiamo deve essere mediato attraverso la nostra esperienza, la nostra personalità, i nostri bisogni interiori. Possiamo liberarci dagli inganni e dai desideri del nostro cuore? Non è possibile che la nostra coscienza ci dica ciò che più vogliamo sentire?»

«A me non risulta. Di solito la coscienza mi ha guidato contro quelli che erano i miei desideri.»

«O contro quelli che al momento credeva fossero i suoi desideri.»

Ma era un'insistenza eccessiva. Il reverendo Copley rimase in silenzio, socchiudendo gli occhi come se cercasse ispirazione nei vecchi sermoni, nelle vecchie omelie, nei testi che gli erano familiari. Infine disse: «Ho notato che è utile pensare alla coscienza come a uno strumento, magari uno strumento a corde. Il messaggio sta nella musica; ma se non teniamo in ordine lo strumento e non lo usiamo esercitandoci regolarmente, otterremo soltanto una risposta imperfetta».

A Meg venne in mente che il reverendo Copley era stato un violinista dilettante. Ormai aveva le mani troppo deformate dai reumatismi per suonare, ma conservava ancora il suo violino dentro la custodia, sul mobile d'angolo. La metafora poteva significare qualcosa per lui, ma a Meg non diceva molto.

«E anche se la mia coscienza mi suggerisce ciò che è giusto» riprese Meg,«intendo giusto secondo la legge morale o la legge civile, ciò non mi solleva necessariamente da tutte le responsabilità. Supponiamo che obbedendo a questa voce, facendo quanto mi consiglia la coscienza, io causi un danno, metta in pericolo qualcun altro.»

«Dobbiamo fare ciò che è giusto, e lasciare a Dio le conseguenze.»

«Ma ogni decisione umana deve tener conto anche delle conseguenze probabili: questo significa decidere. Come si può separare la causa dall'effetto?»

«Sarebbe utile se mi dicesse che cosa la turba...» ribatté il reverendo Copley. «Se ritiene di potermelo dire...»

«Non si tratta di un mio segreto e quindi non posso rivelarlo. Ma le farò un esempio: supponiamo che io sappia che una certa persona ruba regolarmente al datore di lavoro. Se la smaschero, la farò licenziare; il suo matrimonio sarà in pericolo, la moglie e i figli ne soffriranno. Allora potrei concludere che il negozio o la ditta per cui lavora può permettersi di rimetterci qualche sterlina ogni settimana, pur di evitare tante sofferenze a degli innocenti.»

Copley rimase per un po' in silenzio, quindi disse: «La coscienza potrebbe suggerirle di parlare con il ladro anziché con il suo datore di lavoro... spiegargli che sa come stanno le cose e convincerlo a smettere. Naturalmente il ladro dovrà rendere il denaro che ha rubato, anche se mi rendo conto che questo potrebbe presentare qualche difficoltà pratica».

Meg rimase a osservarlo mentre si misurava con quel problema, e con la fronte aggrottata evocava l'ipotetico ladro, marito e padre, cercando di dare un contesto alla questione morale. Poi gli chiese: «E se non volesse o non potesse smettere di rubare?».

«Come sarebbe a dire, se non potesse? Se rubare fosse una smania irresistibile, allora ovviamente avrebbe bisogno dell'aiuto di un medico. Sì, certo, sarebbe doveroso provare, anche se non nutro mai una particolare fiducia nel successo delle psicoterapie.»

«Diciamo allora che il ladro non vuole smettere, oppure che promette di farlo ma continua a rubare.»

«Lei dovrà ancora fare ciò che le suggerisce la coscienza. Non sempre possiamo prevedere le conseguenze. Nel caso che mi ha proposto, lasciare che i furti proseguano incontrollati equivarrebbe a essere conniventi con il disonesto. Una volta scoperto cosa succede non può fingere di non saperlo, non può sottrarsi alle sue responsabilità. La conoscenza comporta sempre una responsabilità: e questo vale per Alex Mair alla centrale di Larksoken come vale in questo studio. Lei dice che i figli ne soffrirebbero se lei ne parlasse, ma sono già danneggiati dalla disonestà del padre, come è danneggiata la moglie che ne trae beneficio. Poi bisogna considerare gli altri dipendenti; potrebbero essere sospettati a torto. La disonestà, se non venisse scoperta, potrebbe aggravarsi al punto che alla fine la moglie e i figli del ladro si troverebbero in guai anche più gravi. Ecco perché è meglio impegnarci a fare ciò che è giusto e lasciare le conseguenze a Dio.»

Meg avrebbe voluto ribattere: "Anche se non siamo più sicuri che Dio esista? Anche se ci sembra soltanto un altro modo per sottrarci alle responsabilità che, come mi ha appena detto anche lei, non possiamo e non dobbiamo eludere?". Ma si accorse, con una punta di rimorso, che il reverendo aveva l'aria stanca, e notò l'occhiata che stava lanciando al libro.

Il signor Copley aveva fretta di tornare all'ispettore Ghote, il gentile investigatore indiano di Keating, che nonostante tutte le incertezze alla fine sarebbe arrivato in porto. Succedeva sempre così nei romanzi: i problemi si potevano risolvere, si poteva sconfiggere il male e far trionfare la giustizia... e la morte stessa era soltanto un mistero destinato a essere chiarito nell'ultimo capitolo. Il reverendo Copley era vecchio, e non era giusto disturbarlo. Meg avrebbe voluto posargli la mano sul braccio e dirgli che non doveva preoccuparsi. Invece si alzò e, usando per la prima volta il nome che le venne spontaneo alle labbra, pronunciò la consolante menzogna.

«La ringrazio, Padre, mi è stato molto utile. Adesso è tutto chiaro. So cosa devo fare.»

 

52

 

Ogni svolta e ogni ostacolo sul sentiero che dal giardino conduceva al cancello sul promontorio le era così familiare che Meg quasi non aveva bisogno di seguire il raggio traballante della torcia elettrica. Il vento, che a Larksoken era sempre capriccioso, sembrava essersi un po' placato, ma quando Meg raggiunse un dosso e scorse la luce della porta del Martyr's Cottage, una potente raffica la investì come se volesse strapparla da terra e riportarla in un turbine nella pace della Vecchia Canonica. Lei non vi si oppose; si chinò un po' controvento, con la testa bassa, la borsa a tracolla che le batteva contro il fianco, e si strinse la sciarpa intorno alla testa, trattenendola con entrambe le mani, fino a quando il vento si placò di nuovo e le fu possibile raddrizzarsi. Anche il cielo era tormentato; le stelle splendevano fulgide ma irraggiungibili, la luna pareva barcollare freneticamente tra i frammenti di nubi come una fragile lanterna di carta. Mentre proseguiva a fatica verso il Martyr's Cottage, Meg ebbe la sensazione che l'intero promontorio vorticasse intorno a lei nel caos, tanto da non capire più se il rombo che le riecheggiava nelle orecchie era causato dal vento, dal battito del suo cuore o dal mare in burrasca. Quando alla fine raggiunse ansante la porta di quercia, per la prima volta le venne in mente Alex Mair e si chiese che cosa avrebbe fatto se l'avesse trovato in casa. Le parve strano non aver considerato prima quell'eventualità; eppure sapeva che non poteva affrontarlo... almeno per il momento. Le venne ad aprire Alice. «Sei sola?» chiese Meg.

«Sì, sono sola; Alex è a Larksoken. Entra.»

Meg si tolse il cappotto e la sciarpa e li appese nel corridoio, quindi seguì Alice in cucina. Doveva averla interrotta mentre correggeva le bozze, perchè Alice si andò a sedere alla scrivania, girò la poltroncina e guardò con aria solenne Meg che come al solito aveva preso posto sulla poltrona accanto al fuoco. Per qualche istante nessuna delle due parlò. Alice indossava una lunga gonna di lana marrone con una camicetta abbottonata fino al collo e, sopra al completo, una casacca senza maniche a righe marroni e nocciola, che arrivava quasi a toccare il pavimento. Quell'abbigliamento le conferiva una dignità ieratica, un aspetto quasi sacerdotale di compostezza e solennità, ma anche di calma e disinvoltura assolute. Nel camino ardeva un piccolo fuoco di legna che riempiva la stanza di un pungente odore autunnale, mentre il vento, attutito dagli spessi muri cinquecenteschi, sospirava e gemeva bonariamente nella canna fumaria. Ogni tanto una folata discendeva per il camino e i ceppi divampavano sibilando. L'abbigliamento di Alice, la luce del fuoco, l'odore della legna che bruciava, più intenso del profumo di erbe e di pane caldo, erano familiari e graditi a Meg: avevano il sentore delle tante serate tranquille trascorse insieme. Ma quella sera era tutto terribilmente diverso. Dopo quella sera forse non avrebbe più potuto sentirsi a casa sua in quella cucina.

«Ti ho interrotta?» chiese.

«È evidente, ma ciò non significa che non sia un'interruzione gradita.»

Meg si chinò per estrarre dalla borsa a tracolla una grossa busta gialla.

«Ti ho portato le prime cinquanta pagine delle bozze. Ho fatto come mi avevi chiesto: ho letto il testo cercando solo gli errori di stampa.»

Alice prese la busta e, senza guardarla, la posò sulla scrivania. «È quello che volevo. Sono ossessionata dall'esattezza delle ricette al punto che a volte i refusi mi sfuggono. Spero che non sia stato troppo faticoso.»

«No, anzi, mi sono piuttosto divertita. Mi ha ricordato Elizabeth David.»

«Non troppo, spero. La trovo così meravigliosa che temo sempre di lasciarmi influenzare da lei.»

Di nuovo cadde il silenzio. Meg pensò che quella conversazione sembrava un copione... non erano due estranee, ma si parlavano come persone che devono misurare quello che dicono perché su di loro incombono pensieri pericolosi. Fino a che punto la conosceva? Che cosa le aveva raccontato di sé? Soltanto pochi dettagli della vita con suo padre, frammenti di informazioni, qualche frase buttata là tra le chiacchiere come un fiammifero che cade e illumina per un momento i contorni di un vasto terreno inesplorato. Meg invece le aveva confidato quasi tutto della sua storia, l'infanzia, il problema razziale a scuola, la morte di Martin. Ma quell'amicizia era mai stata un rapporto tra pari? Alice era la persona che sapeva più cose di Meg, e tutto ciò che Meg conosceva di lei era la sua estrema abilità di cuoca.

Si accorse che l'amica la guardava con un'espressione quasi interrogativa. «Non sarai venuta fin qui con questo ventaccio solo per riconsegnarmi cinquanta pagine di bozze...» disse Alice.

«Ti devo parlare.»

«Be', eccoci qua...»

Meg sostenne il suo sguardo inflessibile e riprese: «Quelle due ragazze, Caroline e Amy... La gente dice che sono state loro a uccidere Hilary Robarts. Lo credi anche tu?».

«No. Perché me lo domandi?»

«Perché non ci credo neppure io. Pensi che la polizia cercherà di attribuire a loro il delitto?»

La voce di Alice era calma. «Non direi. Non è un'idea piuttosto teatrale? E perché dovrebbero farlo poi? L'ispettore capo Rickards mi sembra un uomo onesto e coscienzioso, anche se non particolarmente intelligente.»

«Be', a loro farebbe comodo, no? Le due sospette sono morte; il caso è chiuso e niente più delitti.»

«Erano davvero sospettate? A quanto pare godi della confidenza di Rickards assai più di me.»

«Non avevano alibi. Quel tecnico di Larksoken con cui Caroline era apparentemente fidanzata... Jonathan Reeves, no?... ecco, a quanto pare ha confessato che quella notte non erano insieme. Caroline gli aveva imposto di mentire. Ormai quasi tutti lo sanno a Larksoken. E naturalmente tutto il paese ne parla. George Jago ha telefonato per dirmelo.»

«Dunque le due ragazze non avevano alibi. Ma ci sono tanti altri che non ce l'hanno... tu, per esempio. Non avere un alibi non è una prova di colpevolezza. Neppure io ce l'ho, tra l'altro. Sono rimasta in casa tutta la sera, ma dubito di poterlo provare.»

E quello, finalmente, era il momento che aveva dominato i pensieri di Meg fin da quando era stato commesso il delitto, il momento della verità che tanto aveva temuto. Muovendo a fatica le labbra aride, disse: «Ma tu non eri in casa, vero? Hai detto all'ispettore capo Rickards che c'eri, mentre io ero seduta qui quel lunedì mattina. Ma non è vero».

Vi fu un momento di silenzio. Poi Alice rispose con calma: «È per questo che sei venuta?».

«Lo so che si può spiegare; è addirittura ridicolo domandarlo. Ma ce l'ho in mente da tanto tempo. E tu sei mia amica. Un'amica dovrebbe poter chiedere. Dovrebbe esserci sincerità, confidenza, fiducia.»

«Chiedere... chiedere cosa? Devi proprio parlare come una consulente matrimoniale?»

«Chiedere perché hai raccontato alla polizia che alle nove eri qui. Non c'eri: c'ero io. Dopo la partenza dei Copley ho sentito all'improvviso il bisogno di vederti. Ho provato a telefonare, ma mi ha risposto la segreteria telefonica. Non ho lasciato messaggi: non ne avevo motivo. Sono venuta qui e il cottage era deserto. Le luci erano accese in salotto e in cucina, e la porta era chiusa a chiave. Ho provato a chiamarti: lo stereo andava a volume altissimo e la casa era invasa da una musica trionfale. Ma non c'era nessuno.»

Alice tacque per un momento. Infine rispose imperturbabile: «Ero uscita a fare una passeggiata per godermi il chiaro di luna. Non aspettavo visite improvvise. Non ricevo mai visite improvvise, a parte le tue, e ti credevo a Norwich. Ma ho preso la precauzione più ovvia nei confronti di un eventuale intruso: ho chiuso la porta. Come hai fatto a entrare?».

«Con la chiave. Non puoi averlo dimenticato, Alice. Me l'avevi data un anno fa, e da allora l'ho sempre tenuta.»

Alice la guardò e Meg scorse sul suo volto l'affiorare di un ricordo, di un rammarico e, prima di distogliere lo sguardo, addirittura di un sorriso malinconico. «L'avevo dimenticato! Completamente! È straordinario. Non mi sarei preoccupata, anche se l'avessi ricordato. Dopo tutto credevo che fossi a Norwich. Ma no, non lo ricordavo. Abbiamo tante chiavi del cottage, qui e a Londra. Tu però non mi hai mai rammentato di averne una.»

«L'ho fatto una volta, all'inizio, e tu mi hai risposto di tenerla. Che sciocca sono stata! Pensavo che la chiave significasse qualcosa: amicizia, fiducia, il segno che il Martyr's Cottage era sempre aperto per me. Mi avevi detto che un giorno forse mi sarebbe capitato di dovermene servire.»

Alice scoppiò in una sonora risata. «E te ne sei servita. Che ironia! Comunque non è da te entrare senza essere invitata, in mia assenza. Non l'hai mai fatto.»

«Ma come potevo sapere che non eri in casa? Le luci erano accese, e sentivo la musica. Quando ho suonato per la terza volta e non sei venuta ad aprirmi, ho temuto che ti fossi sentita male e che non ce la facessi a chiedere aiuto. Allora ho aperto la porta; sono entrata in un mare di musica meravigliosa. L'ho riconosciuta: la Sinfonia in sol minore di Mozart. Era la preferita di Martin. Hai scelto un pezzo stupendo.»

«Non l'ho scelto, ho soltanto acceso lo stereo. Cosa pensi che avrei dovuto scegliere? Una messa da requiem per onorare il trapasso di una cosa che si chiama anima e in cui io non credo?»

Meg continuò come se non avesse sentito: «Sono venuta in cucina. La luce era accesa anche qui. Era la prima volta che mi trovavo da sola in questa stanza. All'improvviso mi sono sentita come un'estranea. Ho sentito che io non c'entravo con questo posto, che non avevo nessun diritto di essere qui. Perciò me ne sono andata senza lasciarti un biglietto».

«Hai ragione» ribatté tristemente Alice. «Non avevi diritto di essere qui. E avevi tanto bisogno di vedermi che hai attraversato tutta sola il promontorio prima di sapere che il Fischiatore era morto?»

«Non avevo paura. Il promontorio è così deserto: non ci sono posti per nascondersi, e sapevo che una volta arrivata al Martyr's Cottage sarei stata con te.»

«No, tu non ti spaventi facilmente, è vero. E adesso hai paura?»

«Non di te. Ho paura di me stessa, di quello che sto pensando.»

«Dunque il cottage era vuoto. C'è altro? Evidentemente deve esserci qualcos'altro.»

«Il messaggio registrato sulla tua segreteria telefonica» disse Meg. «Se l'avessi davvero ascoltato alle otto e dieci, avresti telefonato alla stazione di Norwich e mi avresti lasciato detto di chiamarti. Sapevi che i Copley non erano contenti di andare a trovare la figlia, e sul promontorio non lo sapeva nessun altro. Avresti telefonato, Alice. Alla stazione avrebbero potuto trasmettere un annuncio con gli altoparlanti, e io avrei potuto riaccompagnarli subito a casa. Ci avresti pensato, ne sono proprio sicura.»

«Una bugia raccontata a Rickards che poteva essere dettata dalla convenienza, dal desiderio di evitare fastidi, o al massimo potrebbe essere un esempio di negligenza e insensibilità. È tutto qui?»

«Il coltello. Quello al centro del blocco di legno: non c'era. Sul momento non aveva nessun senso; però il blocco aveva un'aria così strana. Ero così abituata a vedere quei cinque coltelli in ordine decrescente, ognuno al suo posto. Adesso c'è, e c'era anche quando sono venuta il lunedì dopo il delitto. Ma domenica sera non c'era.»

"Non puoi continuare a usarlo!" avrebbe voluto gridarle. "Alice, non usarlo!" Invece si sforzò di continuare, di mantenere un tono molto calmo, senza cercare rassicurazione o comprensione.

«E l'indomani mattina, quando hai telefonato per riferirmi che Hilary era morta, non ho detto nulla della mia visita. Non sapevo che cosa pensare. Non sospettavo di te: sarebbe stato impossibile, lo è anche adesso. Ma avevo ancora bisogno di tempo per riflettere. Solo più tardi ho trovato la forza di venire da te.»

«E hai trovato qui anche l'ispettore capo Rickards. Mi hai sentita mentre gli mentivo, hai visto che il coltello era di nuovo al suo posto, ma non hai parlato allora e non hai parlato in seguito... Neppure, presumo, ad Adam Dalgliesh.»

Era una frecciata astuta. «Non l'ho detto a nessuno» ribatté Meg. «Come avrei potuto farlo, prima di averti parlato? Sapevo che dovevi avere una ragione per mentire, una ragione che consideravi valida.»

«E poi, a poco a poco immagino, forse controvoglia, hai cominciato a capire quale poteva essere la ragione?»

«Non credevo che avessi ucciso Hilary. Pronunciare queste parole, sospettare di te sembra impossibile, persino ridicolo. Ma il coltello non era al suo posto, e tu non eri in casa. Avevi mentito, e non riuscivo a capire perché. Non lo capisco neppure adesso. Mi chiedo chi cerchi di proteggere. E a volte... scusami, Alice.... a volte mi domando se eri presente quando lui l'ha uccisa, se stavi di guardia, se hai assistito al delitto, se addirittura lo hai aiutato a tagliare i peli.»

Alice era immobile, le mani affusolate posate sulle ginocchia, le pieghe della gonna che sembravano scolpite nella pietra. «Non ho aiutato nessuno» disse. «E nessuno ha aiutato me. C'erano soltato due persone sulla spiaggia, io e Hilary. L'ho progettato da sola e l'ho fatto da sola.»

Rimasero per un momento in silenzio. Meg sentiva un gran gelo. Aveva ascoltato quelle parole e sapeva che erano la verità. Forse l'aveva sempre saputo? Non starò mai più con lei in questa cucina, pensò, non ritroverò mai più la pace e la sicurezza che avevo conosciuto qui dentro. E chissà perché le tornarono in mente tutte le volte che era stata seduta su quella poltrona a osservare Alice che preparava i dolci... setacciava la farina su un piano di marmo, aggiungeva i pezzetti di burro ammorbidito, poi le uova, e con le dita affusolate mescolava il tutto, incorporando a poco a poco la farina, dando forma alla sfera lucente dell'impasto. «Sono state le tue mani» disse. «Le tue mani che le hanno stretto la cintura intorno alla gola, le tue mani che hanno tagliato il pelo, che le hanno inciso la L sulla fronte. L'hai progettato da sola e l'hai fatto da sola.»

«C'è voluto coraggio» rispose Alice, «ma forse meno di quanto immagini. Ed è morta in fretta, facilmente. È una fortuna andarsene soffrendo così poco. Non ha avuto neppure il tempo di provare terrore. Ha avuto una morte più facile di quella che spetta a tanti. Quello che è avvenuto poi non ha avuto importanza. Almeno per lei, né per me. Era morta. Solo quello che si fa ai vivi richiede emozioni forti: coraggio, odio, amore.»

Rimase in silenzio per un momento, poi continuò: «Non lasciarti prendere dalla foga; ricordati che per dimostrare che sono un'assassina ci vogliono prove, i sospetti non bastano. E tu non puoi provare nulla. D'accordo, dici che il coltello mancava, ma è la tua parola contro la mia. E se anche mancava, potrei dire che ero andata a fare una passeggiata sul promontorio e che l'assassino ne ha approfittato».

«E poi l'ha rimesso a posto? Non poteva neppure sapere che quel coltello fosse lì.»

«Certo che avrebbe potuto saperlo. Lo sanno tutti che sono una cuoca, e i cuochi usano coltelli affilati. E perché non avrebbe dovuto rimetterlo dove l'aveva trovato?»

«Come avrebbe fatto a entrare? La porta era stata chiusa a chiave.»

«Anche su questo c'è solo la tua parola. Dirò che l'avevo lasciata aperta. Lo fanno tutti qui sul promontorio.»

Meg avrebbe voluto gridarle di non incominciare a tramare altre menzogne, pregarla che almeno tra loro ci fosse la verità. «E il ritratto, la finestra sfondata... anche questo è stata opera tua?»

«Naturalmente.»

«Ma perché? Perché tante complicazioni?»

«Era necessario. Mentre aspettavo che Hilary uscisse dall'acqua ho visto Theresa Blaney. È apparsa all'improvviso sul ciglio della scogliera, accanto alle rovine dell'abbazia. Si è fermata solo per un attimo, poi è sparita. Ma l'ho vista: era inconfondibile nella luce della luna.»

«Ma se lei non ti ha vista, se non era là quando hai... quando Hilary è morta...»

«Non capisci? Voleva dire che suo padre non avrebbe avuto un alibi. Mi è sempre sembrata una ragazzina sincera, con una severa educazione religiosa. Se avesse detto alla polizia che quella notte era fuori sul promontorio, Ryan si sarebbe trovato in una brutta situazione. E anche se avesse avuto il buon senso di mentire, per quanto avrebbe retto? La polizia l'avrebbe interrogata con delicatezza, Rickards non è un bruto. Ma per una ragazzina sincera è difficile mentire in modo convincente. Quando sono tornata qui ho ascoltato i messaggi sulla segreteria telefonica. Avevo pensato che Alex avrebbe potuto cambiare idea e chiamarmi. Soltanto allora, troppo tardi, ho sentito il messaggio di George Jago e ho capito che non sarebbe più stato possibile attribuire il delitto al Fischiatore. Dovevo dare un alibi a Ryan Blaney. Quindi ho provato a telefonargli per dirgli che sarei passata a ritirare il quadro, ma non riuscendo a mettermi in contatto ho capito che dovevo andare allo Scudder's Cottage al più presto.»

«Avresti potuto prendere il ritratto, bussare alla porta per avvertirlo e vederlo. Sarebbe stata una prova sufficiente per dimostrare che era in casa.»

«Ma sarebbe sembrata una forzatura. Ryan aveva detto chiaro e tondo che non voleva essere disturbato, che dovevo limitarmi a prendere il quadro. Aveva insistito su questo punto in presenza di Adam Dalgliesh. Non un individuo qualunque, ma l'investigatore più intelligente di Scotland Yard. No, avevo bisogno di una scusa valida per bussare e parlare con Ryan.»

«Perciò hai messo il ritratto nel portabagagli della tua macchina e a lui hai detto che non era nella baracca?» A Meg sembrava incredibile che l'orrore potesse venire momentaneamente superato dalla curiosità, dal bisogno di sapere. Era come se stessero discutendo i complicati preparativi di una gita.

«Proprio così» confermò Alice. «Difficilmente Ryan avrebbe pensato che fossi stata io a portarlo via, appena un minuto prima. Ed è stato molto utile che fosse ubriaco. Non era completamente sbronzo come ho detto a Rickards, ma di certo non era in condizioni di uccidere Hilary Robarts e tornare allo Scudder's Cottage prima delle dieci meno un quarto.»

«Neppure in furgone o in bicicletta?»

«Il furgone era guasto, e lui non ce l'avrebbe fatta a reggersi in sella. Tanto più che se fosse stato fuori l'avrei incontrato per strada. La mia testimonianza metteva al sicuro Ryan da qualsiasi sospetto anche se Theresa avesse confessato di essersi allontanata dal cottage. Dopo averlo lasciato sono tornata indietro. Il promontorio era deserto. Mi sono fermata al bunker appena il tempo di buttarci dentro le scarpe. Non avrei potuto bruciarle se non sul fuoco dove avevo già bruciato la carta e lo spago che avvolgevano il ritratto, ma sarebbero rimaste le tracce della gomma e un odore persistente. Non immaginavo che la polizia le avrebbe cercate perché non pensavo di aver lasciato impronte. Ma anche se le avessero trovate, niente avrebbe potuto collegare quelle scarpe al delitto. Le ho lavate bene sotto il rubinetto all'aperto prima di sbarazzarmene. Avrei potuto rimetterle nella cesta, ma non osavo aspettare e sapevo che quella notte, dato che eri partita per Norwich, la porta sul retro della Vecchia Canonica sarebbe stata chiusa a chiave.»

«E allora hai buttato il ritratto attraverso la finestra del cottage di Hilary?»

«Dovevo liberarmene, in un modo o nell'altro. Così sarebbe sembrato un atto di vandalismo e di odio, un indizio che avrebbe fatto sospettare di molti, e non solo degli abitanti del promontorio. Complicava ancora di più le cose, ed era un elemento in più in favore di Ryan. Nessuno avrebbe mai creduto che fosse disposto a distruggere una sua opera. Ma lo scopo era duplice: volevo entrare al Thyme Cottage. Il quadro mi è servito a sfondare la finestra quanto bastava per passare.»

«Ma era terribilmente pericoloso. Avresti potuto tagliarti, o infilarti una scheggia di vetro nelle scarpe. In quel momento portavi le tue, ti eri già sbarazzata delle Bumble.»

«Ho esaminato con cura le suole, e sono stata molto attenta. Hilary aveva lasciato le luci accese al pianterreno, così non ho nemmeno avuto bisogno della torcia elettrica.»

«Ma perché? Cosa cercavi? Cosa speravi di trovare?»

«Niente. Volevo liberarmi della cintura. L'ho arrotolata per bene e l'ho messa nel cassetto della camera da letto, fra tutte le altre cinture, le calze e i fazzoletti.»

«Ma se la polizia l'avesse esaminata non ci avrebbe trovato le impronte di Hilary.»

«E neppure le mie: avevo ancora i guanti. Comunque, perché avrebbero dovuto esaminarla? Avrebbero pensato che l'assassino aveva usato la sua cintura e l'aveva portata via. Il posto meno verosimile in cui nascondere l'arma del delitto sarebbe stato il cottage della vittima. Per questo l'ho scelto. E anche se avessero deciso di esaminare tutte le cinture e tutti i guinzagli del promontorio, dubito che sarebbero riusciti a trovare impronte utili su una striscetta di pelle toccata da decine di mani.»

«Ti sei data molto da fare per assicurare un alibi a Ryan. E gli altri innocenti che potevano essere sospettati?» chiese Meg amaramente. «Tutti correvano questo pericolo, e lo corrono ancora adesso. Non hai pensato a loro?»

«C'era una persona sola di cui mi importava: Alex. E lui aveva il più solido degli alibi. Doveva passare attraverso i controlli del servizio di sicurezza per entrare e per uscire dalla centrale.»

«Pensavo a Neil Pascoe» ribatté Meg, «ad Amy, Miles Lessingham, e a me stessa.»

«Nessuno di voi è un padre responsabile di quattro figli senza madre. Ritenevo improbabile che Miles Lessingham non fosse in grado di presentare un alibi; e se non lo era, non c'erano comunque indizi a suo carico. Come sarebbe stato possibile? Non era lui l'assassino. Ma ho l'impressione che abbia intuito chi è stato. Lessingham non è uno sciocco. Tanto, anche se lo sa, non lo dirà mai. Neil Pascoe e Amy potevano fornirsi un alibi a vicenda. E tu, mia cara Meg, credi davvero che si possa sospettare di te?»

«Quando Rickards mi ha interrogata, ho proprio avuto l'impressione di essere tra i sospetti. Mi è sembrato di tornare di nuovo nella sala delle riunioni a scuola, di fronte alle facce di marmo degli accusatori, con la certezza che mi avessero già giudicata colpevole... e il dubbio di esserlo davvero.»

«I possibili guai degli innocenti, te compresa, non venivano al primo posto nella scala delle mie priorità.»

«E adesso lascerai che attribuiscano l'omicidio a Caroline e Amy, tutte e due morte e tutte e due innocenti?»

«Innocenti? Oh, del delitto, certo... Forse hai ragione tu, e la polizia troverà più comodo presumere che siano state loro due insieme, o almeno una delle due. Dal punto di vista di Rickards è meglio avere due persone sospette morte, piuttosto che non essere in grado di arrestare un colpevole. E loro non ne risentiranno. I morti trascendono il male: quello che hanno fatto e quello che i vivi possono fare a loro.»

«Ma non è giusto!»

«Meg, quelle due sono morte. Morte! Non ha nessuna importanza. Giustizia è solo una parola, e loro sono al di là del potere delle parole. Non esistono più. La vita è ingiusta. Se ti senti in dovere di fare qualcosa per rimediare all'ingiustizia, pensa ai vivi. Alex aveva diritto a quel nuovo incarico.»

«E Hilary Robarts non aveva diritto alla vita? Lo so, non era simpatica e non era neppure felice. Non ha parenti stretti che la piangano, non lascia figli piccoli, ma tu le hai tolto una cosa che nessuno potrà più restituirle. Non meritava di morire. Forse nessuno lo merita, almeno non in quel modo. Oggi non si impiccano più nemmeno persone come il Fischiatore. Abbiamo imparato qualcosa dai tempi di Tyburn, dai tempi del rogo di Agnes Poley. Nulla di ciò che Hilary Robarts ha fatto meritava di essere punito con la morte.»

«Non sto dicendo che meritasse di morire. Non ha importanza che fosse felice o non avesse figli, né che potesse essere utile a qualcuno. Sto solo dicendo che io la volevo morta.»

«Mi sembra una malvagità così enorme che non riesco a capirla. Alice, hai commesso un peccato atroce.»

Alice scoppiò a ridere. Era una risata squillante, quasi felice; sembrava davvero divertita. «Meg, non finisci mai di sorprendermi. Usi certi termini che non appartengono più al vocabolario comune e neppure a quello della Chiesa, credo. Le implicazioni di quella parola sono al di fuori della mia comprensione. Ma se vuoi vedere la cosa in chiave teologica, pensa a Dietrich Bonhoeffer: "A volte dobbiamo voler essere colpevoli". Bene, io voglio essere colpevole.»

«Essere colpevole, sì. Ma senza sentirti colpevole. E questo deve averti reso tutto più semplice.»

«Oh, ma io mi sento colpevole. Mi hanno fatto sentire colpevole sin da quando ero piccola. E se sei convinta di non aver neppure il diritto di esistere, allora una colpa in più non fa nessuna differenza.»

È una lezione che non dimenticherò mai, pensò Meg, non potrò mai dimenticare quello che sta succedendo qui, questa sera. Ma devo sapere tutto. Anche la verità più dolorosa è preferibile a una mezza verità. «La sera che sono venuta qui per dirti che i Copley sarebbero andati dalla figlia...»

«Quel venerdì dopo la cena» disse Alice. «Tredici giorni fa.»

«Soltanto? Mi sembra che sia successo in un'altra dimensione. Mi avevi invitata a cena da te al mio ritorno da Norwich... L'avevi deciso perché doveva far parte del tuo alibi? Volevi servirti anche di me?»

Alice la guardò. «Sì» rispose. «Scusami. Avresti dovuto arrivare qui verso le nove e mezzo, e io avrei avuto il tempo di tornare e farmi trovare con la cena in caldo nel forno.»

«Ma l'avresti preparata prima. Non avresti corso rischi, tanto Alex era alla centrale.»

«Sì, era il mio piano. Quando hai rifiutato non ho insistito. Sarebbe sembrato sospetto in seguito, come se avessi cercato di costituirmi un alibi. E tanto non avresti cambiato idea, vero? Non lo fai mai. Ma già il fatto di averti invitata sarebbe stato utile. Di solito un'assassina non invita a cena un'amica per la sera del delitto.»

«E se avessi accettato, se fossi venuta alle nove e mezzo... Tenuto conto del cambiamento dei tuoi piani, sarebbe stato un problema, no? Non avresti potuto andare allo Scudder's Cottage per fornire un alibi a Ryan Blaney. E non avresti potuto sbarazzarti delle scarpe e della cintura.»

«Le scarpe sarebbero state il problema più grosso. Non pensavo che le avrebbero collegate al delitto, ma dovevo liberarmene prima dell'indomani mattina. Non avrei potuto spiegare come mai le avevo io. Probabilmente le avrei lavate e nascoste, in attesa di riportarle alla Vecchia Canonica il giorno dopo. Comunque avrei trovato un modo di fornire un alibi a Ryan. Ti avrei detto che non riuscivo a mettermi in contatto per telefono e che dovevamo andare ad avvertirlo della morte del Fischiatore. Ma sono soltanto delle ipotesi. Non mi preoccupavo, avevi detto che non saresti venuta e sapevo che non l'avresti fatto.»

«E invece sono venuta. Non a cena, ma sono venuta.»

«Già. Perché, Meg?»

«La depressione dopo una giornata pesante, il dispiacere per la partenza dei Copley, il bisogno di vederti. Non volevo che mi offrissi la cena. Ho mangiato presto e poi mi sono incamminata sul promontorio.»

Ma c'era qualcos'altro che Meg doveva chiedere. «Sapevi che Hilary andava a nuotare dopo aver visto l'inizio del notiziario. Immagino che questo lo sapessero in molti. E ti sei preoccupata di fornire un alibi a Ryan Blaney per le nove e un quarto o poco più tardi. E se il cadavere fosse stato scoperto solo il giorno seguente? La scomparsa di Hilary sarebbe stata notata quando non si fosse presentata in ufficio il lunedì. Le avrebbero telefonato per sentire se era malata. Poteva darsi che si arrivasse al lunedì sera prima che qualcuno cominciasse a indagare. E si poteva pensare che fosse andata a nuotare al mattino anziché la sera prima.»

«Un patologo è in grado di stabilire l'ora della morte con una certa precisione. E poi sapevo che l'avrebbero ritrovata quella notte. Sapevo che Alex aveva promesso di passare da lei al ritorno dalla centrale. Stava andando al cottage quando ha incontrato Adam Dalgliesh. E adesso sai tutto, mi pare, a parte il dettaglio delle scarpe da ginnastica. Sono passata dal giardino sul retro della Vecchia Canonica, la domenica pomeriggio sul tardi. Sapevo che avrei trovato la porta aperta e che a quell'ora voi stavate prendendo il tè. Avevo portato una sacca con qualche cianfrusaglia, caso mai qualcuno mi avesse visto. Ma non mi ha visto nessuno. Ho preso un paio di scarpe morbide, più o meno della mia misura. E ho preso anche una delle cinture.»

Restava una domanda, la più importante. «Ma perché?» chiese Meg. «Alice, devo saperlo. Perché?»

«È una domanda pericolosa, Meg. Sei sicura di voler veramente conoscere la risposta?»

«Devo conoscerla. Devo tentare di capire.»

«Non ti basta che Hilary fosse decisa a sposare Alex e che io fossi decisa a impedirlo?»

«Non è per questo che l'hai uccisa. Non può essere. C'era qualcos'altro. Deve esserci qualcos'altro.»

«Hai ragione. Immagino che tu abbia il diritto di sapere. Hilary ricattava Alex. Avrebbe potuto impedire che ottenesse quell'incarico e, se anche lui l'avesse ottenuto, gli avrebbe reso impossibile svolgerlo con successo. Aveva il potere di distruggere la sua carriera. Toby Gledhill le aveva detto che Alex aveva evitato di pubblicare i risultati della loro ricerca perché avrebbero potuto pregiudicare il successo dell'indagine preliminare sulla possibilità di installare un secondo reattore a Larksoken. Avevano scoperto che alcuni dati dei modelli matematici erano più critici di quanto si fosse pensato. Quelli che si opponevano alla costruzione del nuovo reattore nella centrale avrebbero sfruttato questa informazione per causare ritardi e per scatenare il panico.»

«Vuoi dire che Alex aveva falsificato i risultati?»

«No, sarebbe stato incapace di fare una cosa simile. Si era limitato a ritardare la pubblicazione degli esperimenti. Saranno resi pubblici entro un mese o due. Ma si tratta di quel genere di dati che, una volta arrivati alla stampa, possono causare danni irreparabili. Toby era quasi sul punto di consegnarli a Neil Pascoe, ma Hilary l'ha dissuaso: erano troppo preziosi per sprecarli così. Voleva servirsene per indurre Alex a sposarla. Gliel'ha detto quando lui l'ha riaccompagnata a casa dopo la cena. Più tardi, quella stessa sera, Alex me l'ha raccontato e io ho capito cosa dovevo fare. L'unico altro modo in cui avrebbe potuto convincerla a tacere sarebbe stato promuoverla amministratrice effettiva di Larksoken. E questo per lui era quasi impossibile come falsificare un risultato scientifico.»

«Vuoi dire che l'avrebbe sposata?»

«Forse ci sarebbe stato costretto. Ma anche se l'avesse fatto, fino a che punto sarebbe stato sicuro? Hilary avrebbe continuato a conoscere la verità finché fosse rimasta viva. E che vita sarebbe stata per Alex, legato a una donna che si era fatta sposare con un ricatto, una donna che lui non voleva, che non poteva rispettare né amare?»

Poi Alice soggiunse, così sottovoce che Meg la sentì appena: «Dovevo ad Alex una morte».

«Ma come potevi essere tanto sicura da ucciderla? Perché non hai provato a parlarle, a convincerla, a farla ragionare?»

«Le ho parlato. Sono andata da lei quella domenica pomeriggio. Ero lì quando è venuta la signora Jago a consegnare il giornale della chiesa. Si può dire che fossi andata a offrirle la possibilità di salvarsi. Non potevo ucciderla senza essere certa che fosse necessario. Questo significava fare ciò che non avevo mai fatto: parlarle di Alex, cercare di persuaderla che il matrimonio non sarebbe stato nell'interesse di nessuno dei due, indurla a lasciarlo in pace. Ma avrei fatto meglio a risparmiarmi quell'umiliazione. Non ci sono state discussioni, con lei era impossibile. Non ragionava neppure, inveiva contro di me come un'ossessa.»

«E tuo fratello?» chiese Meg. «Sapeva di questa visita?»

«Non sa nulla. Non gliel'ho detto allora e neppure in seguito. Ma lui mi aveva confidato cosa intendeva fare: prometterle di sposarla e poi, una volta ottenuto l'incarico, rimangiarsi l'impegno. Sarebbe stato un disastro. Non aveva capito con che donna aveva a che fare, appassionata, disperata. Era figlia unica di un uomo ricco, un po' viziata e un po' trascurata. Per tutta la vita aveva cercato di competere con il padre e aveva imparato che puoi avere ciò che vuoi se hai il coraggio di prendertelo. E il coraggio l'aveva. Era ossessionata da Alex, e soprattutto dal desiderio di avere un figlio. Gli diceva che le doveva un figlio. Alex credeva che Hilary fosse come uno dei suoi reattori, addomesticabile... che fosse possibile calare in quella turbolenza l'equivalente delle barre di acciaio al boro e imbrigliarne la potenza scatenata. Quando ho lasciato Hilary, quel pomeriggio, ho capito che non avevo scelta. Domenica era il termine ultimo. Alex aveva promesso di passare al Thyme Cottage di ritorno dalla centrale. Per lui è stata una fortuna che io sia arrivata prima.

«Forse la cosa peggiore è stata aspettare che rientrasse a casa quella notte. Non osavo telefonare alla centrale. Non potevo essere certa che fosse solo nel suo ufficio o nella sala dei computer, e non era mai successo che gli telefonassi per chiedergli quando sarebbe tornato. Sono rimasta ad aspettare per quasi tre ore. Immaginavo che sarebbe stato Alex a trovare il cadavere. Quando si fosse accorto che Hilary non era al cottage, la cosa più naturale sarebbe stata cercarla sulla spiaggia. Avrebbe trovato il cadavere e avrebbe telefonato dalla macchina alla polizia e poi a me per avvertirmi. Quando la sua telefonata non è arrivata, ho cominciato a pensare che Hilary non fosse morta, che non fossi riuscita a ucciderla. Immaginavo Alex che si prodigava, le praticava la respirazione artificiale, e lei che riapriva lentamente gli occhi. Ho spento le luci e sono andata in salotto a osservare la strada. Non è arrivata un'ambulanza: sono arrivate le macchine della polizia. Tutto l'apparato di un omicidio. Ma Alex non tornava.»

«E quando è tornato?» chiese Meg.

«Abbiamo parlato pochissimo. Ero andata a letto, perché dovevo comportarmi come avrei fatto normalmente, non aspettarlo alzata. È venuto in camera mia per dirmi che Hilary era morta, e come era stata uccisa. Ho chiesto: "Il Fischiatore?". E Alex ha risposto: "La polizia dice di no. Il Fischiatore era già morto prima che Hilary venisse uccisa". Poi mi ha lasciata. Non credo che potessimo sopportare di stare insieme, in quell'atmosfera carica di tutti i nostri pensieri inespressi. Ma avevo fatto ciò che dovevo, e ne valeva la pena. L'incarico era suo. Ormai non glielo toglieranno, dopo la conferma. Non possono silurarlo perché sua sorella è un'assassina.»

«E se scoprissero perché l'hai fatto?»

«Non lo scopriranno. Siamo soltanto in due a saperlo, e non te l'avrei detto se non potessi fidarmi di te. Del resto dubito che ti crederebbero, senza la conferma di un'altra testimonianza. Ma Toby Gledhill e Hilary Robarts, gli unici due che avrebbero potuto confermare, sono morti.» Dopo un momento di silenzio, Alice disse: «Tu avresti fatto altrettanto per Martin».

«Oh, no. No.»

«Non come l'ho fatto io, non credo che saresti capace di ricorrere alla forza fisica. Ma se fossi stata sulla riva del fiume mentre lui annegava e avessi avuto il potere di decidere chi dei due doveva morire e chi doveva vivere, avresti esitato?»

«Naturalmente no. Ma sarebbe stato diverso. Non avrei programmato un annegamento, non l'avrei voluto.»

«O se ti avessero detto che milioni di persone sarebbero vissute più sicure se Alex avesse avuto un incarico che lui solo è capace di svolgere, ma a prezzo della vita di una donna... allora avresti esitato? È stata la scelta che ho dovuto compiere. Non chiudere gli occhi, Meg. Io non l'ho fatto.»

«Ma uccidere... come ti è potuta sembrare una soluzione? Uccidendo non si è mai risolto nulla.»

«Oh, si risolvono tante cose, invece» scattò Alice. «Conosci la storia, no? Senza dubbio lo sai.»

Meg era sfinita dalla stanchezza e dalla sofferenza. Avrebbe voluto che smettessero di parlare. Ma non era possibile: c'erano ancora troppe cose da dire. «Cosa hai intenzione di fare?» chiese.

«Questo dipende da te.»

Attingendo dall'orrore e dalla disperazione, Meg trovò il coraggio. Trovò anzi qualcosa di più del coraggio: l'autorità. «Oh, no!» disse. «Non dipende da me. Non è una responsabilità che ho cercato, e non la voglio.»

«Ma non puoi sbarazzartene. Sai quello che sai. Chiama l'ispettore Rickards, puoi usare il mio telefono.» Vedendo che Meg non si muoveva, Alice continuò: «Non farmi scene drammatiche alla EM Foster. Se dovessi scegliere fra tradire il mio Paese e tradire un mio amico, spero che avrei il fegato di tradire il Paese».

«Questa è una di quelle frasi brillanti che in realtà o non vogliono dir niente o sono del tutto idiote» osservò Meg.

«Qualunque cosa tu decida di fare, ricorda che non potrai riportare Hilary in vita» disse Alice. «Hai molte possibilità, ma questa no. Scoprire la verità è una grande soddisfazione per il nostro ego... chiedilo ad Adam Dalgliesh. E ancor più lusinghiero per la vanità umana è pensare di poter vendicare gli innocenti, ricostruire il passato, far trionfare la giustizia. Ma non è possibile. I morti restano morti. Puoi soltanto far soffrire i vivi nel nome della giustizia, della punizione o della vendetta. Se questo ti soddisfa, allora fallo, ma non credere che sia un grande merito. Qualunque cosa tu decida, so che non tornerai indietro sulle decisioni prese. So che posso crederlo, e che posso fidarmi di te.»

Meg la guardò negli occhi e notò che lo sguardo che Alice le restituiva era serio, ironico, pieno di sfida, ma non supplichevole. «Vuoi un po' di tempo per riflettere?» si sentì chiedere.

«No, è inutile. Ora so che cosa devo fare. Dovrò parlare, ma preferirei che lo facessi tu.»

«Allora lasciami tempo fino a domani. Quando avrò detto tutto, non avrò più privacy. Ci sono diverse cose che devo sbrigare: le bozze, gli affari da mettere in ordine... Vorrei ancora dodici ore di libertà. Se puoi accordarmele te ne sarò grata. Non ho il diritto di volere di più, ma questo te lo chiedo.»

«Ma quando confesserai dovrai indicare un movente» osservò Meg, «dovrai dare una ragione, qualcosa di credibile.»

«Oh, ci crederanno. Gelosia, odio, il risentimento di una zitella nei confronti di una donna che aveva il fascino di Hilary, che viveva come viveva lei. Dirò che voleva sposarlo, portarmelo via dopo tutto quello che avevo fatto per lui. Mi giudicheranno una nevrotica in menopausa, in preda a un momento di follia. Una passione contro natura, sessualità repressa. È così che gli uomini parlano delle donne come me. È il tipo di movente che ha senso per uno come Rickards. Ed è quello che gli fornirò.»

«Anche se significa finire a Broadmoor? Potresti mai sopportarlo, Alice?»

«Be', è una possibilità: o il manicomio o la prigione. È stato un delitto premeditato con estrema cura. Neppure il più abile degli avvocati potrà farlo passare per un omicidio colposo, commesso in un momento di pazzia. E comunque, quanto al vitto non credo che ci sia molto da scegliere tra Broadmoor e una prigione.»

Meg ebbe la sensazione che per lei non ci sarebbero state mai più certezze. Non soltanto il suo mondo interiore era andato in frantumi, ma anche gli oggetti familiari del mondo esterno non avevano più una realtà. Lo scrittoio di Alice, il tavolo da cucina, le sedie impagliate, le file di tegami lucidi, i fornelli... tutto sembrava immateriale, destinato a scomparire al minimo tocco. Si accorse di essere sola nella cucina, Alice era uscita. Si appoggiò alla spalliera della poltrona e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il volto di Alice era chino su di lei, immenso, simile a una luna piena. Alice le stava porgendo un bicchiere. «È whisky. Bevi, ne hai bisogno.»

«No, Alice, non posso. Davvero. Sai che detesto il whisky, mi dà la nausea.»

«Questo non te la darà. A volte il whisky è l'unico rimedio possibile. Come in questo momento: bevi, Meg.»

Meg si sentiva tremare le ginocchia, mentre lacrime brucianti cominciavano a scorrerle irrefrenabili in rivoli salati sulle guance, sulla bocca. Pensò: non è possibile. Non può essere vero. Ma aveva avuto la stessa sensazione anche quando la signorina Mortimer l'aveva chiamata durante la lezione, l'aveva fatta sedere di fronte a lei nel salottino della direzione e le aveva dato la notizia della morte di Martin. Bisognava pensare l'impensabile, credere l'incredibile. Le parole continuavano a significare ciò che avevano sempre significato: omicidio, morte, sofferenza, angoscia. Vedeva la bocca della signorina Mortimer che si muoveva, sentiva le frasi sconnesse che ne uscivano come fumetti, e notava che doveva essersi tolta il rossetto prima di quel colloquio. Forse aveva pensato che soltanto due labbra nude potessero dare quell'annuncio spaventoso. Rivedeva quelle due irrequiete mezzelune di carne e il primo bottone del cardigan della signorina Mortimer che penzolava, sostenuto da un filo, e sentiva la propria voce che diceva: «Signorina Mortimer, sta per perdere un bottone».

Strinse il bicchiere fra le dita. Le sembrava che fosse diventato immensamente grande, e pesante come un sasso. L'odore del whisky le rivoltava lo stomaco, ma non aveva la forza di resistere. Si portò il bicchiere alle labbra, lentamente. Il volto di Alice era ancora vicinissimo al suo, i suoi occhi la fissavano. Bevve il primo sorso, e stava per rovesciare indietro la testa e trangugiare l'intero contenuto quando si sentì togliere il bicchiere dalla mano con gentile fermezza. «Hai ragione Meg» disse la voce di Alice, «il whisky non ti è mai piaciuto. Preparo il caffè e poi ti riaccompagno alla Vecchia Canonica.»

Un quarto d'ora più tardi Meg aiutò Alice a lavare le tazze del caffè come se fosse la conclusione di una serata qualsiasi, poi si incamminarono insieme sul promontorio. Il vento soffiava alle loro spalle e Meg aveva la sensazione che stessero quasi volando nell'aria, come streghe, e che i loro piedi sfiorassero appena le zolle erbose. Arrivate davanti alla porta della Canonica Alice chiese: «Cosa farai questa notte, Meg? Pregherai per me?»

«Pregherò per tutt'e due.»

«Purché non ti aspetti che mi penta: non sono religiosa, lo sai, e la parola pentimento non ha significato per me... A meno che non voglia dire rammarico perché qualcosa che hai fatto è andato meno bene di quanto speravi. Stando a questa definizione non ho molto di cui pentirmi, se non del fatto che tu, mia cara Meg, non sappia riparare un'automobile rotta.»

Poi, come spinta da un impulso improvviso, la afferrò per le braccia. La stringeva così forte che le faceva male. Per un momento Meg pensò che Alice stesse per baciarla, invece allentò la presa e lasciò ricadere le mani. Le rivolse un saluto brusco e se ne andò.

Meg infilò la chiave nella serratura e aprì la porta, poi si girò a guardare, ma Alice era scomparsa nell'oscurità. Il singhiozzo convulso, che per un momento le era incredibilmente sembrato un pianto di donna, era soltanto la voce del vento.

 

53

 

Dalgliesh aveva appena finito di dividere le ultime carte della zia quando squillò il telefono. Era Rickards. La voce, forte ed euforica, giungeva nitida come se la sua presenza riempisse la stanza: sua moglie aveva partorito una bambina un'ora prima. Telefonava dall'ospedale. La moglie stava bene e la bimba era una meraviglia. Aveva appena pochi minuti; al momento le infermiere si stavano occupando di Susie, ma tra poco sarebbe potuto tornare da lei.

«È venuta a casa appena in tempo, signor Dalgliesh. È stata un vera fortuna, no? E la levatrice ha detto che raramente ha visto un travaglio così rapido per una primipara. Sei ore appena. Tre chili e quattro... un bel peso. Pensi che volevamo proprio una bambina. La chiameremo Stella Louise. Louise è il nome della madre di Susie, così la vecchia sarà contenta.»

Mentre posava il ricevitore dopo aver fatto a Rickards le sue calorose congratulazioni, che aveva il sospetto fossero state giudicate appena sufficienti, Dalgliesh si chiese come mai avesse avuto l'onore di quella comunicazione. Ne concluse che l'ispettore, travolto dalla felicità, stava telefonando a tutti i conoscenti a cui la notizia poteva interessare, tanto per occupare i minuti che dovevano passare prima di poter tornare a fianco della moglie. Le sue ultime parole erano state: «Non so dirle cosa si prova, signor Dalgliesh».

Ma Dalgliesh se lo ricordava. Per un momento rimase così, con il ricevitore ancora caldo sotto la mano, e affrontò quella che gli sembrava una reazione troppo complessa rispetto all'evento, tanto normale e prevedibile. Di malavoglia dovette ammettere che almeno in parte quella che provava era invidia. Si chiese se fosse stato il suo soggiorno sul promontorio, il senso della transitorietà e insieme della continuità della vita umana, l'eterno ciclo di nascita e morte, oppure la scomparsa di Jane Dalgliesh, l'ultima parente che gli restava, a fargli desiderare per un momento con tanta intensità di avere anche lui un figlio vivo.

Durante la conversazione non avevano fatto parola del delitto. Senza dubbio Rickards l'avrebbe considerata un'intrusione quasi indecente nella sua personale e sacrosanta felicità. E dopo tutto, non c'era più molto da dire. Rickards gli aveva chiaramente lasciato capire che considerava chiuso il caso. Amy Camm e la sua amante erano morte, ed era improbabile che la loro colpevolezza venisse dimostrata. La ricostruzione che le incriminava era chiaramente imperfetta: Rickards non aveva ancora le prove che una delle due donne conoscesse i dettagli dei delitti del Fischiatore, ma ormai quello era un particolare di minore importanza agli occhi della polizia. Poteva darsi che qualcuno avesse parlato. Qualche informazione frammentaria, captata dalla Camm al Locai Hero, poteva essere stata usata per ricostruire i fatti. Poteva darsi che fosse stata la stessa Robarts a dirlo alla Amphlett; e quello che non sapevano, potevano averlo indovinato. Il caso poteva venire ufficialmente classificato come irrisolto, ma ormai Rickards si era convinto che fosse stata la Amphlett, con l'aiuto della Camm, a uccidere Hilary Robarts. Quando si erano incontrati per pochi minuti la sera prima, Dalgliesh aveva ritenuto doveroso esporgli un punto di vista diverso e aveva discusso le proprie considerazioni con calma e logica. Rickards però gli aveva rivolto contro i suoi stessi argomenti.

«È una donna autosufficiente. L'ha detto lei. Ha una sua vita, una professione: perché dovrebbe prendersela se lui si sposa? Quando si è sposato la prima volta non ha cercato di impedirglielo. E lui non ha bisogno di protezione. Riesce a immaginare Alex Mair che fa qualcosa se non vuole? È il tipo di uomo che morirà quando farà comodo a lui, non a Dio.»

«La mancanza di un movente è la parte più debole della mia ricostruzione» aveva ammesso Dalgliesh. «Ed è vero che non ho l'ombra di una prova, ma Alice Mair corrisponde a tutti i requisiti: sapeva in che modo uccideva il Fischiatore; sapeva dove si sarebbe trovata la Robarts poco dopo le nove; non ha alibi; sapeva dove trovare le scarpe da ginnastica ed è abbastanza alta per portarle; aveva la possibilità di gettarle nel bunker mentre tornava dallo Scudder's Cottage. Ma c'è qualcos'altro, no? Penso che questo delitto sia stato commesso da qualcuno che non sapeva della morte del Fischiatore quando ha ucciso, ma che l'ha saputo poco dopo.»

«Molto ingegnoso, signor Dalgliesh.»

Dalgliesh aveva provato l'impulso di ribattere che non era ingegnoso, era soltanto logico. Rickards si sarebbe sentito in dovere di interrogare di nuovo Alice Mair, ma non avrebbe concluso nulla. E il caso non era di sua competenza. Fra due giorni sarebbe tornato a Londra. Se quelli dell'MI5 volevano qualcos'altro avrebbero dovuto arrangiarsi: aveva già interferito più di quanto fosse giustificabile, e senza dubbio molto più di quanto gli andasse di fare. Si disse che sarebbe stato disonesto dare la colpa a Rickards o all'assassino se quasi tutte le decisioni che aveva intenzione di prendere e che l'avevano attirato sul promontorio erano ancora in sospeso.

Quel guizzo inaspettato di invidia aveva indotto in lui un blando disgusto verso se stesso, e la situazione non migliorò quando gli venne in mente che aveva lasciato nella stanza in cima alla torre il libro che stava leggendo, una biografia di Tolstoj a cura di AN Wilson. Gli dava una soddisfazione e una consolazione di cui al momento aveva grande bisogno. Chiuse la porta del mulino, girò intorno alla torre, accese la luce e salì all'ultimo piano. Fuori il vento infuriava ululando come un branco di demoni impazziti; ma lì, nella piccola stanza a cupola, regnava un silenzio straordinario. La torre esisteva da più di centocinquant'anni e aveva resistito a bufere più violente. Istintivamente aprì la finestra sul lato est e lasciò che il vento penetrasse come una forza tumultuosa e purificatrice. E in quel momento vide, al di là del muretto di pietra che circondava il patio del Martyr's Cottage, una luce alla finestra della cucina. Non era una luce normale. Mentre la osservava, notò che prima guizzava, poi sembrava spegnersi per tornare a palpitare di nuovo, e rafforzarsi in un bagliore rossastro. Altre volte aveva visto una luce come quella e sapeva che cosa significava. Il Martyr's Cottage stava bruciando.

Scese precipitosamente le due scale a pioli che collegavano i piani del mulino, corse in salotto, si fermò solo il tempo necessario per telefonare ai vigili del fuoco e all'ambulanza. Per fortuna non aveva ancora messo la macchina in garage. Pochi secondi più tardi stava sfrecciando a tutta velocità sul terreno sconnesso del promontorio. La Jaguar si fermò con un sobbalzo, e Dalgliesh corse alla porta principale. Era chiusa a chiave. Per un attimo pensò di sfondarla con la macchina, ma era di quercia antica e molto solida; tanto più che avrebbe perso secondi preziosi per far manovra e accelerare. Corse sul lato della casa, si lanciò verso il muro e lo scavalcò, lasciandosi cadere nel patio posteriore. Gli bastò un attimo per scoprire che anche la porta sul retro era sprangata. Era certo di sapere chi c'era là dentro; avrebbe dovuto raggiungerla passando dalla finestra. Si sfilò la giacca e se l'avvolse intorno al braccio destro; poi aprì il rubinetto esterno e si bagnò la testa e il tronco. L'acqua gelida gli gocciolava di dosso quando piegò il gomito e batté con tutte le sue forze contro il vetro. Ma la lastra era robusta, fatta apposta per resistere ai venti invernali. Dovette arrampicarsi sul davanzale e aggrapparsi all'intelaiatura della finestra per sferrare calci violenti. Finalmente il vetro cadde all'interno e le fiamme balzarono contro di lui.

Sotto la finestra c'era un doppio lavello. Lo superò, boccheggiando nel fumo, si lasciò cadere sulle ginocchia e cominciò a strisciare verso di lei. Era distesa fra la stufa e il tavolo, rigida come una statua. I capelli e gli indumenti erano in fiamme, e lei era immobile con gli occhi sbarrati, lambita dalle lingue di fuoco. Ma il suo viso era ancora intatto e quegli occhi sembravano fissarlo con un'intensità tale, piena di folle rassegnazione, da fargli balenare in mente l'immagine di Agnes Poley, come se la tavola e le sedie incendiate fossero le fascine crepitanti del martirio, e misto all'odore acre del fumo sentì il lezzo della carne che bruciava.

Cercò di trascinare via il corpo di Alice Mair, ma era incastrato e il bordo della tavola in fiamme le era caduto sulle gambe. Doveva guadagnare qualche secondo: si avvicinò al lavello, tossendo e barcollando, aprì al massimo i due rubinetti, afferrò un tegame, lo riempì e buttò più volte acqua sulle fiamme. In un piccolo tratto il fuoco sibilò e cominciò a spegnersi. Dalgliesh allontanò a calci i tizzoni, riuscì a issarsi in spalla il corpo di Alice Mair e prese a muoversi in direzione della porta. Ma i catenacci erano incastrati e così incandescenti che era impossibile persino toccarli. Doveva portarla fuori attraverso la finestra che aveva sfondato. Ansimando per lo sforzo, la spinse oltre il lavello, ma il corpo rigido si impigliò nei rubinetti e ci volle una tormentosa eternità per liberarlo, spingerlo avanti e farlo cadere all'esterno. Aspirò l'aria pura, si afferrò all'orlo del lavandino e cercò di sollevarsi. All'improvviso non sentì più la forza nelle gambe: gli si piegavano, tanto che dovette reggersi con le braccia per non ripiombare tra le fiamme. Fino a quel momento non si era accorto del dolore, ma ora si sentiva straziare le gambe e la schiena come se una muta di cani lo stesse sbranando. Non riuscì a tendere la testa fino ai rubinetti aperti, però allungò le mani e si buttò l'acqua sulla faccia come se quel refrigerio benedetto potesse attenuare il tormento delle gambe. A un tratto fu assalito dalla tentazione quasi irresistibile di lasciarsi andare, di ricadere nel fuoco piuttosto che compiere l'impossibile sforzo della fuga. Fu la follia di un solo attimo, ma lo spronò a un ultimo tentativo disperato. Si aggrappò ai rubinetti, uno per mano, e lentamente a fatica, si issò sul lavello. Le ginocchia trovarono un appiglio sul bordo e poté spingersi avanti, verso la finestra. Il fumo vorticava intorno a lui, le grandi lingue di fiamma ruggivano. Il rombo gli feriva le orecchie, riecheggiava sul promontorio... e Dalgliesh non sapeva più se quello che sentiva era il grido del fuoco, del vento o del mare. Poi con un ultimo sforzo si lasciò cadere sulla massa inerte di Alice Mair. Il suo corpo non bruciava più; gli indumenti erano stati divorati dal fuoco e aderivano come brandelli anneriti a ciò che restava delle sue carni. Dalgliesh si alzò a fatica e, barcollando, si avvicinò al rubinetto esterno. Lo raggiunse un attimo prima di perdere i sensi, e l'ultima cosa che udì fu il sibilo del getto d'acqua al contatto coi suoi vestiti incendiati.

Riaprì gli occhi un minuto più tardi. Le pietre erano dure sotto la sua schiena ustionata, e quando tentò di muoversi una fitta di dolore gli strappò un grido. Non aveva mai conosciuto una sofferenza così immane. Un viso pallido come la luna si chinò su di lui. Riconoscendo Meg Dennison, Dalgliesh pensò alla cosa carbonizzata che giaceva sotto la finestra, e riuscì a balbettare: «Non guardi. Non guardi».

Ma lei rispose dolcemente: «È morta. Era inevitabile, ho dovuto guardarla».

Poi Dalgliesh non la riconobbe più. La sua mente disorientata era in un altro luogo e in altro tempo. All'improvviso, tra la folla accorsa a guardare e i soldati armati di picca che circondavano il patibolo, scorgeva Rickards che gli diceva: «Ma non è una cosa, signor Dalgliesh. È una donna». Chiuse gli occhi. Le braccia di Meg Dennison lo cinsero. Girò il viso e glielo premette contro la giacca, addentando la lana per non gemere. Due mani fresche gli si appoggiarono sul volto.

«Sta arrivando l'ambulanza» disse lei. «La sento. Resti immobile, mio caro. Andrà tutto bene.»

L'ultimo suono che Dalgliesh udì fu il clangore della campana dell'autopompa: dopodiché ricadde nell'incoscienza.

 

EPILOGO

Mercoledì 18 gennaio

 

Venne metà gennaio prima che Adam Dalgliesh tornasse al Larksoken Mill, in una giornata di sole in cui l'aria era così mite che il promontorio sembrava immerso nella luminosa trasparenza di una primavera precoce. Meg aveva promesso di passare a salutarlo al mulino nel pomeriggio; mentre attraversava il giardino sul retro della Vecchia Canonica per avviarsi sul promontorio, vide che erano già fioriti i primi bucaneve e si chinò a guardare le delicate corolle bianche e verdi che tremavano nella brezza. Il terreno era soffice sotto i suoi piedi e, in lontananza, uno stormo di gabbiani volteggiava come una pioggia di petali candidi.

La Jaguar era parcheggiata davanti al mulino, e attraverso la porta spalancata un raggio di sole penetrava nella stanza spoglia. Dalgliesh era in ginocchio, intento a riporre nelle casse gli ultimi libri ereditati dalla zia. I quadri, già imballati, erano appoggiati al muro. Meg si inginocchiò accanto a lui e cominciò ad aiutarlo passandogli i volumi. «Come vanno le gambe e la schiena?» chiese.

«Ancora un po' rigide, e ogni tanto le cicatrici mi fanno prurito. Ma sembra che stiano guarendo bene.»

«Niente più dolori?»

«Niente più dolori.»

Lavorarono per qualche minuto in un silenzio amichevole, poi Meg disse: «So che non vuole sentirlo, ma le siamo tutti riconoscenti per quello che sta facendo per i Blaney. L'affitto che chiede per il mulino è irrisorio, e Ryan lo sa».

«Non è per fargli un favore» rispose Dalgliesh. «Cercavo una famiglia del luogo che fosse disposta ad abitare qui, ed era la scelta più logica. Dopo tutto è una casa un po' speciale. E se Blaney si fa degli scrupoli perché l'affitto è basso, può considerarsi una specie di custode. Anzi, forse dovrei essere io a pagare lui.»

«Sono pochi quelli che accetterebbero come custode un artista eccentrico con quattro figli. Ma il mulino andrà benissimo per i Blaney: due bagni, una vera cucina, e la torre dove Ryan potrà dipingere. Theresa sembra trasformata. Si è ripresa magnificamente dall'operazione, ed è raggiante di felicità. Ieri è venuta alla Vecchia Canonica per raccontarci che aveva misurato le stanze e stava pensando a come sistemare i mobili. Il mulino è tanto più adatto a loro dello Scudder's Cottage, anche se Alex non avesse voluto venderlo e liberarsene così per sempre. Non posso dargli torto. Sa che ha messo in vendita anche il Martyr's Cottage? Adesso che è tanto preso dal nuovo incarico, ho l'impressione che voglia tagliare ogni legame con il promontorio e i suoi ricordi. È naturale, credo. Immagino che non avrà saputo di Jonathan Reeves. Si è fidanzato con un'impiegata della centrale, Shirley Coles. E la signora Jago ha ricevuto una lettera da Neil Pascoe. Dopo un paio di false partenze, adesso ha un lavoro provvisorio come assistente sociale a Camden. Sembra cne si trovi bene. E c'è una buona notizia sul conto di Timmy... almeno suppongo che sia ouona. La polizia ha rintracciato la madre di Amy: lei e il convivente non vogliono il bambino, che verrà quindi dato in adozione. Andrà a vivere con una coppia che gli darà affetto e sicurezza.»

Meg si interruppe. Non voleva continuare a chiacchierare - temeva che a Dalgliesh non interessassero i pettegolezzi locali - ma c'era una domanda che aveva in mente da tre mesi: doveva farla, e soltanto lui poteva risponderle. Per un momento rimase in silenzio, mentre le mani lunghe e sensibili riponevano i libri nella cassa, poi disse: «Alex si è rassegnato all'idea che sia stata la sorella a uccidere Hilary? Non ho mai voluto chiederlo all'ispettore Rickards; e anche se lo facessi non me lo direbbe. Ad Alex non posso certo domandarlo, dopo l'incendio non abbiamo mai parlato di Alice o del delitto. Al funerale ci siamo scambiati appena poche parole».

Sapeva che Rickards doveva essersi confidato con Adam Dalgliesh. «Non credo che Alex Mair sia un uomo disposto a ingannare se stesso di fronte a una realtà sgradevole» rispose Dalgliesh. «Credo che sappia la verità. Ciò non significa che sia disposto ad ammetterlo di fronte alla polizia. Accetta la versione ufficiale secondo cui l'assassina è morta, ed è ormai impossibile accertare se si trattasse di Amy Camm, Caroline Amphlett o Alice Mair. Il problema è che a tutt'oggi non c'è una sola prova concreta che colleghi la signorina Mair alla morte di Hilary Robarts, e non ci sono indizi sufficienti per affibbiarle alla memoria la fama di assassina. Se fosse vissuta e avesse ritrattato la confessione che aveva fatto a lei, non credo che Rickards avrebbe potuto arrestarla. Il verdetto aperto all'inchiesta significa che non è provata neppure la teoria del suicidio. Il rapporto dei vigili del fuoco conferma che l'incendio è stato causato da un tegame di grasso bollente che si è rovesciato sul fuoco, probabilmente mentre Alice Mair cucinava, e forse provava una ricetta nuova.»

«E tutto poggia sul mio racconto, no?» commentò Meg amaramente. «La storia non proprio attendibile di una donna che in passato ha già causato polemiche e ha sofferto di un esaurimento nervoso. È apparso chiaro quando mi hanno interrogata. L'ispettore Rickards sembrava ossessionato dall'idea che avessi qualche motivo di rancore verso Alice; voleva sapere se avevamo litigato. Quando ha finito, non sapevo più se mi considerava una bugiarda calunniatrice o una complice di Alice Mair.»

Sebbene fossero passati tre mesi e mezzo, era difficile pensare a quei lunghi interrogatori senza il solito tremendo senso di sofferenza, paura e collera. L'avevano costretta a ripetere il racconto tante e tante volte, sotto quegli occhi attenti e scettici. Poteva capire perché si fossero mostrati così riluttanti a crederle: non era mai stata capace di mentire in modo convincente, e Rickards si era accorto che lei stava mentendo. Ma perché? le aveva chiesto. Che giustificazione le aveva dato Alice Mair per l'omicidio? Qual era stato il movente? Non era possibile che il fratello si trovasse costretto a sposare Hilary Robarts, e d'altra parte era già stato sposato. L'ex moglie era viva e vegeta, quindi cosa rendeva impossibile agli occhi di Alice quel secondo matrimonio? E Meg non l'aveva detto, si era limitata a ripetere ostinatamente che Alice voleva impedirlo. Aveva promesso di non parlare e non avrebbe parlato, non l'avrebbe rivelato neppure ad Adam Dalgliesh, l'unico che forse sarebbe riuscito a indurla a tanto. Una volta, quando era andata a trovarlo all'ospedale, gli aveva chiesto all'improvviso: «Lei lo sa, vero?».

E Dalgliesh aveva risposto: «No, non lo so, ma posso intuirlo. Il ricatto non è un movente insolito per un omicidio».

Ma non aveva fatto domande, e Meg gliene era grata. Ora sapeva che Alice le aveva detto la verità solo perché aveva deciso che l'indomani Meg non sarebbe stata ancora viva e non avrebbe potuto rivelarla. Aveva deciso che sarebbero morte insieme. Ma all'ultimo momento aveva cambiato idea: le aveva tolto di mano il whisky, quasi certamente drogato con un sonnifero. Alla fine Alice aveva tenuto fede alla loro amicizia; e lei avrebbe tenuto fede all'amica. Alice aveva detto che doveva una morte al fratello. Meg aveva riflettuto su quelle parole, eppure ancora adesso non riusciva a trovarvi un significato. Ma se Alice doveva una morte ad Alex, lei doveva ad Alice lealtà e silenzio. «Spero di poter comprare il Martyr's Cottage quando le riparazioni saranno finite» disse. «Ho da parte un piccolo capitale, il ricavato della vendita della casa di Londra, e mi basterà per ottenere un mutuo. Pensavo di affittare il cottage durante l'estate, per coprire le spese; e poi quando i Copley non avranno più bisogno di me, potrei andare a viverci definitivamente. Mi piace pensare che quella casa starà ad aspettarmi.»

Se Dalgliesh era rimasto sorpreso all'idea che volesse tornare in un luogo popolato da tanti ricordi traumatici, non lo disse. Come se si sentisse in dovere di spiegare, Meg continuò: «In passato sono accadute tante cose terribili agli abitanti del promontorio, non solo ad Agnes Poley, a Hilary, ad Alice, ad Amy e Caroline. Ma qui mi sento ancora a casa mia. Ho ancora la sensazione che sia il posto giusto per me, e desidero farne parte. E se al Martyr's Cottage ci sono dei fantasmi, saranno spiriti amici».

«Si è scelta un terreno molto sassoso in cui mettere radici» osservò Dagliesh.

«Forse le mie radici ne hanno bisogno.»

Un'ora dopo Meg aveva ormai pronunciato le ultime frasi di addio. La verità aleggiava inespressa tra loro, e ora che Dalgliesh se ne andava forse non si sarebbero mai più rivisti. Con un sorriso di lieta sorpresa si accorse di essersi un po' innamorata di lui. Non aveva importanza; era un sentimento che non le arrecava sofferenza, come non le arrecava speranza. Quando raggiunse il dosso sul promontorio, si voltò a guardare verso nord, in direzione della centrale, fonte di quella potente e misteriosa energia che lei non sarebbe mai riuscita a distinguere dall'immagine stranamente affascinante della nube a fungo, e al contempo simbolo dell'arroganza intellettuale e spirituale che aveva spinto Alice a uccidere. Per un secondo le parve di udire l'eco dell'ultima sirena che urlava il suo terribile messaggio sul promontorio: il male non finiva con la morte di chi l'aveva commesso. Chissà dove, in quel preciso istante, un altro Fischiatore stava forse meditando una vendetta atroce contro un mondo a cui non aveva mai sentito di appartenere. Ma tutto questo faceva parte di un futuro imprevedibile, e quella paura non era reale. La realtà era lì, in ogni raggio di sole, nell'erba che danzava sul promontorio, nel mare scintillante che si stendeva in fasce blu e viola fino all'orizzonte, solcato da un'unica vela, negli archi spezzati dell'abbazia tra cui le selci brillavano dorate alla luce dolce del sole, nelle grandi pale del mulino immobili e silenziose, nel sapore dell'aria impregnata di salsedine. Lì il passato e il presente si fondevano, e la sua vita, piena di inganni e desideri banali, sembrava solo un momento insignificante nella lunga storia del promontorio. Poi sorrise di quelle immagini fantasiose, si voltò a rivolgere un ultimo cenno di saluto all'alta figura ancora immobile sulla porta del mulino, e proseguì a passo deciso verso casa. I Copley aspettavano il tè.

 

FINE