«Non è molto comodo, vero? Viaggiare di domenica presenta sempre qualche problema. Perché non aspettano fino a lunedì mattina?»

«Perché la signora Duncan-Smith sarà al suo club di Audley Square durante il fine settimana e ha già fissato una stanza anche per loro. Poi andranno insieme nel Wiltshire con la macchina, lunedì mattina presto.»

«E tu? Ti dispiace restare sola?»

«No, affatto. Oh, mi mancheranno, ma penso che potrò finalmente portarmi alla pari con il lavoro. E potrò passare più tempo qui, ad aiutarti con le bozze. Non credere che avrò paura. Posso capire questo sentimento, e a volte mi sorprendo quasi a fingere di essere spaventata, quando penso alle cose più orribili per mettere alla prova i miei nervi. Di giorno va benissimo. Ma quando viene sera e me ne sto lì seduta accanto al fuoco, lo immagino fuori, al buio, che mi spia e attende. È questo senso di una minaccia invisibile e non conoscibile che risulta così inquietante. È un po' come la sensazione che mi dà la centrale: la presenza di una forza imprevedibile e pericolosa proprio qui, sul promontorio, una forza che non sono in grado né di controllare, né di comprendere.»

«Il Fischiatore non è come la centrale» disse Alice. «L'energia nucleare si può comprendere e controllare. Ma quest'ultimo delitto è una grossa seccatura per Alex. Alcune segretarie vivono nei dintorni, e andavano a casa in autobus o in bicicletta. Adesso sta cercando di trovare il modo di farle riaccompagnare dai dipendenti muniti di macchina, ma con i turni di lavoro la riorganizzazione è più complicata del previsto. Ci sono ragazze che sono ormai terrorizzate e dicono di essere disposte ad accettare un passaggio solo se chi le accompagna è un'altra donna.»

«Ma non penseranno davvero che sia un collega, qualcuno della centrale?»

«Non pensano per niente, è questo il guaio. L'istinto ha la meglio, e per istinto sospettano di ogni uomo, soprattutto se non dispone di un alibi per gli ultimi due omicidi. E poi c'è Hilary Robarts. Va a nuotare quasi tutte le sere fino alla fine di ottobre, e a volte anche per tutto l'inverno. E intende continuare a farlo. Può darsi che le probabilità che muoia assassinata siano una su un milione, ma è un gesto di spavalderia che costituisce un cattivo esempio. A proposito, mi dispiace per ieri sera, non è stata una cena molto riuscita. Dovevo invitare Miles e Hilary, ma non avevo idea che si detestassero tanto. Non so perché. Forse Alex lo sa, ma non sono abbastanza incuriosita da chiederglielo. E tu, come trovi il nostro nuovo residente poeta?»

«Simpatico» disse Meg. «Pensavo incutesse soggezione, invece non è vero. Siamo andati insieme fino alle rovine dell'abbazia. Sono meravigliose, al chiaro di luna.»

«Adeguatamente romantiche, per un poeta» disse Alice. «Sono contenta che tu non abbia giudicato deludente la sua compagnia. Domenica notte ci sarà la luna piena: perché non vieni a cena da noi, tornando dalla stazione? Poi andremo insieme alle rovine. Ti aspetterò intorno alle nove e mezza. Probabilmente ci saremo solo noi due. Di solito, dopo il fine settimana in città, Alex va alla centrale.»

«Mi piacerebbe davvero molto, Alice, ma preferisco di no» declinò Meg in tono di rammarico. «Preparare le valigie e accompagnarli sarà un grosso impegno e quando tornerò da Norwich sarà meglio che me ne vada a letto. E poi non avrò fame. Comunque potrei fermarmi solo un'ora: la signora Duncan-Smith ha detto che chiamerà da Liverpool Street per avvertirmi che sono arrivati bene.»

Diversamente dal solito, Alice si asciugò le mani e la accompagnò fino alla porta. Meg si chiese per quale motivo, quando aveva parlato della cena e della passeggiata con Adam Dalgliesh, non aveva accennato alla misteriosa figura femminile intravista fra le rovine. Non era tanto il timore di darle troppo peso - senza la conferma di Dalgliesh, poteva darsi che si fosse sbagliata davvero - no, a trattenerla era qualcos'altro, una riluttanza che non riusciva a spiegare né a capire. Quando arrivarono alla porta, Meg guardò oltre la curva dell'assolato promontorio ed ebbe un attimo di straordinaria percezione in cui le parve di diventare improvvisamente conscia di un altro tempo, di una realtà diversa che esisteva simultaneamente a quella in cui stava vivendo lei. Il mondo esterno era rimasto lo stesso, ma vedeva ogni dettaglio con occhio più acuto: il pulviscolo che danzava nel fascio di sole contro il pavimento di pietra, la durezza di ogni lastra consunta sotto i suoi piedi, i segni dei chiodi sulla grande porta di quercia, ogni singolo filo d'erba che cresceva in mezzo all'erica. La cosa strana era che l'altro mondo si era impossessato della sua mente: e lì non c'era il sole, ma solo un'oscurità eterna in cui risuonavano zoccoli di cavallo e scalpiccio di passi umani, alcune rudi voci maschili e un bisbiglio incoerente simile a un'enorme marea che stesse risucchiando la sabbia di tutte le spiagge del mondo. E poi c'era un sibilo e un crepitio di fascine, un'esplosione di fuoco, quindi un secondo di spaventoso silenzio, spezzato solo dall'acuto grido di una donna.

«Tutto bene, Meg?» chiese la voce di Alice.

«Be', per un momento mi sono sentita strana, ma ora è passato tutto. Sto benissimo, grazie.»

«Hai lavorato troppo. Troppo da fare, in quella casa. E la notte scorsa non è certo stata riposante. Forse l'effetto dello shock ha solo tardato un po' ad arrivare.»

«Avevo detto al signor Dalgliesh che non avevo mai avvertito la presenza di Agnes Poley in questa casa. Ma sbagliavo. È qui. È rimasto qualcosa di lei.»

Vi fu un attimo di silenzio, prima che l'amica rispondesse. «Immagino dipenda dal tuo modo di interpretare il tempo. Se, come sostengono certi scienziati, può procedere a ritroso, allora forse lei è ancora qui, ancora viva, e brucia in un rogo eterno. Ma io non la percepisco mai, sai, non mi è mai apparsa. Forse non le sembro comprensiva. Per me i morti sono morti. Se non riuscissi a crederlo, penso che non potrei continuare a vivere.»

Meg si accomiatò e si avviò risolutamente lungo il promontorio. I Copley, alle prese con il tormentoso problema di scegliere ciò che dovevano portare con sé per una visita di durata incerta, sarebbero diventati ansiosi se non l'avessero vista tornare in tempo. Quando giunse sulla cresta del promontorio, si voltò e scorse Alice ancora ferma sulla soglia, mentre alzava la mano in un gesto che sembrava più una benedizione che un saluto. Soltanto allora rientrò nel cottage.

 

LIBRO III

Domenica 25 settembre

 

19

 

Alle otto e un quarto di domenica sera, Theresa aveva terminato anche l'ultimo compito. Decise che poteva riporre il libro di aritmetica e dire al padre che era stanca e voleva andare a letto. L'aveva aiutata a lavare i piatti dopo la cena, una cena a base degli avanzi dello spezzatino a cui aveva aggiunto un po' di carote in scatola; poi si era piazzato come sempre davanti al televisore, sprofondato nella poltrona malconcia vicino al camino spento, con la bottiglia di whisky appoggiata per terra accanto a lui. Sarebbe rimasto lì fino al termine dell'ultimo programma, fissando lo schermo senza osservare veramente le immagini in bianco e nero. A volte era quasi spuntata l'alba quando Theresa, ancora sveglia, sentiva il suo passo pesante sulla scala.

Il signor Jago aveva telefonato poco dopo le sette e mezza. Theresa aveva risposto dicendo che papà era nella baracca a dipingere, e che non poteva disturbarlo. Non era vero. Papà era andato alla latrina in fondo al giardino. Ma lei non avrebbe mai osato dirlo al signor Jago, così come non si sarebbe mai sognata di andare a chiamare il padre, di bussare alla porta della latrina. A volte, con una percezione stranamente adulta, pensava che suo padre prendesse la torcia elettrica e, anche senza averne bisogno, andasse in quel bugigattolo dalla porta incrinata e con il comodo sedile, solo perché lì gli sembrava di stare in un rifugio, in un luogo riparato dal cottage e dal disordine e dalla confusione, dai pianti di Anthony e dai suoi inutili sforzi di prendere il posto della madre. Ma lui doveva essere stato sul punto di tornare indietro. Aveva sentito il telefono e, quando era rientrato, le aveva chiesto chi fosse.

«Hanno sbagliato numero» aveva mentito Theresa e, per abitudine, aveva subito mormorato fra sé e sé un atto di contrizione. Era contenta che suo padre non avesse parlato con il signor Jago, altrimenti avrebbe provato la tentazione di andare a incontrarsi con lui al Locai Hero, nella certezza di poterla lasciare sola un paio d'ore, e quella sera era invece importantissimo che non abbandonasse il cottage. Gli era rimasta solo mezza bottiglia di whisky: l'aveva controllato. Lei sarebbe stata via per non più di quaranta minuti e, se fosse scoppiato un incendio, una segreta paura ereditata dalla madre, papà non sarebbe stato troppo sbronzo per poter salvare Anthony e le gemelle.

Gli schioccò un rapido bacio su una guancia ispida che puzzava di liquore, trementina e sudore. Come sempre, suo padre alzò una mano e le arruffò affettuosamente i capelli. Era l'unico gesto d'affetto che le rivolgesse. Per il resto, tenne lo sguardo fisso sul vecchio televisore in bianco e nero, dove le solite facce domenicali si lasciavano intravedere dietro la cortina di un intermittente effetto neve. Theresa sapeva che, una volta richiusa la porta della stanza in cui lei dormiva con Anthony, lui non l'avrebbe più disturbata. Dopo la morte della madre, suo padre non era più entrato in camera da letto quando c'era dentro lei, né di giorno, né di notte. E aveva notato anche la differenza nel suo modo di comportarsi verso di lei: era quasi una sorta di formalità, come se in poche settimane fosse cresciuta e diventata donna. La consultava come un'adulta sulle spese, sul pranzo e sulla cena, sui vestiti per le gemelle, addirittura quando il furgone aveva qualche problema. Ma c'era un argomento che non affrontava mai: la morte di sua madre.

Il letto era proprio sotto la finestra. Si inginocchiò, scostò le tendine e lasciò che il chiaro di luna entrasse nella stanza, frugasse gli angoli e irradiasse la sua luce misteriosa sul letto e sul pavimento di legno. La porta della cameretta dove dormivano le gemelle era spalancata; andò a controllare che dormissero, e per un attimo rimase a fissare le due figure raggomitolate una accanto all'altra sotto la coperta. Si chinò ad ascoltare il sibilo sommesso del loro respiro. Non si sarebbero svegliate prima dell'indomani mattina. Chiuse la porta e tornò nella sua stanza. Come sempre, Anthony era sdraiato sulla schiena, le gambe allargate come un ranocchio, la testolina girata di lato e le braccia protese verso l'alto come se cercasse di afferrarsi alle sbarre del lettino. Si era liberato della coperta, e Theresa gliela rimise delicatamente a posto. L'impulso di prenderlo in braccio, così forte, era quasi doloroso. Abbassò invece la sponda del lettino e per un attimo appoggiò la testa accanto a quella del fratello. Anthony aveva le labbra un po' imbronciate, le palpebre erano pellicole percorse da venature sottili e sotto di esse Theresa si immaginò i suoi occhi.

Quindi tornò sul letto, spinse i due cuscini sotto le coperte e li dispose in modo da simulare la sagoma di un corpo di ragazzina. Era molto improbabile che suo padre venisse a dare un'occhiata, ma se fosse accaduto, nel chiaro di luna non avrebbe visto un letto vuoto. Si chinò a prendere la borsa di tela a tracolla in cui aveva preparato ciò che le serviva: una scatola di fiammiferi, una candela, il temperino e la lampada tascabile. Poi spalancò la finestra.

Il promontorio era inondato dalla luce argentea che lei e sua madre avevano sempre amato. In quelle notti, tutto diventava magico: gli affioramenti di roccia sembravano isole di carta stagnola increspata sull'erba immobile, e la siepe incolta in fondo al giardino era un boschetto mistico trafitto dai raggi della luna. Più oltre, simile a uno scialle di seta, si stendeva il mare, immenso. Per un momento rimase ferma, trattenendo il respiro e richiamando a sé tutte le forze. Poi scese sul tetto piatto. Era coperto di tegole, e Theresa avanzò con infinita prudenza. Avvertiva le pietre scabre sotto la suola delle scarpe. Il salto fino a terra era di circa due metri, ma con l'aiuto della grondaia ce la fece senza troppe difficoltà. Quindi si avviò di corsa nel giardino, tenendosi abbassata, in direzione della tettoia di legno fradicio dietro la baracca dove suo padre dipingeva: la tettoia dove tenevano le biciclette. Liberò la propria, la spinse sull'erba, poi la sollevò al di sopra del varco nella siepe per non usare il cancello. Solo quando fu al sicuro sul viottolo dove un tempo passava la vecchia ferrovia costiera, montò in sella e cominciò a pedalare verso nord, verso la frangia di pini e le rovine dell'abbazia.

La vecchia ferrovia passava dietro la pineta che costeggiava la spiaggia, ma in quel tratto il percorso era meno incassato nel terreno. Presto anche quella piccola depressione si sarebbe appiattita e nulla, nemmeno le vecchie traversine marce, sarebbe rimasto a indicare il luogo in cui erano transitati i treni che portavano intere famiglie vittoriane, armate di palette e secchielli, enormi bauli e bambinaie, verso le vacanze estive in riva al mare. Meno di dieci minuti più tardi, Theresa arrivò sul culmine del promontorio. Spense il fanale della bicicletta, smontò per assicurarsi che non ci fosse nessuno in vista, e si spinse verso le onde.

Presto le apparvero le cinque arcate spezzate dell'abbazia, splendenti nel chiaro di luna. Si soffermò un attimo ad ammirarle in silenzio: sembrava un edificio irreale ed etereo, immateriale, fatto di una luce che al primo tocco si sarebbe dissolta. A volte, quando come in quel momento si avvicinava all'abbazia guidata dal chiarore degli astri, la sensazione di incorporeità era così forte che Theresa stendeva la mano per toccarne le pietre e nel sentirle tanto dure e ruvide provava una sorta di scossa fisica. Appoggiò la bicicletta al muretto di pietra e raggiunse il punto in cui un tempo doveva trovarsi la grande porta occidentale dell'abbazia, quindi penetrò fra le rovine.

Era proprio nelle notti di luna piena che lei e sua madre organizzavano le loro piccole spedizioni. Sua madre diceva: «Andiamo a parlare coi frati», e venivano fin lì con le biciclette, si incamminavano in complice silenzio fra gli archi in rovina, oppure si fermavano tenendosi per mano dove in passato sorgeva l'altare, e ascoltavano ciò che avevano ascoltato i monaci, solo in maniera più remota: il rombo malinconico del mare. Era lì, lo sapeva, che sua madre preferiva pregare, perché su quel terreno consacrato dagli anni si sentiva più a suo agio che nello sgraziato edificio alle porte del villaggio, dove padre McKee andava a dire messa ogni domenica.

Ricordava la sua ultima visita in casa, brevissima, quando suo padre lo aveva accompagnato alla porta, mentre padre McKee diceva: «La sua cara mamma, che Dio le conceda la pace, vorrebbe che Theresa venisse regolarmente alla messa e alla confessione. La signora Stoddard-Clark verrebbe a prenderla volentieri, in macchina, poi potrebbero andare insieme a pranzo al Grange. Non pensa che alla bambina farebbe piacere?». Poi, la voce di suo padre: «Sua madre non è qui. Dio ha voluto toglierle la madre. Ora Tess è sola e decide da sola. Quando avrà voglia di venire alla messa ci verrà, e si confesserà quando avrà qualcosa da confessare».

Lì l'erba cresceva alta, costellata da ciuffi di fiori secchi, e il terreno era così accidentato che Theresa doveva stare attenta a dove metteva i piedi. Passò sotto l'arco più grande, dove un tempo la finestra orientale aveva brillato in un tripudio di vetri colorati. Adesso era soltanto un occhio vuoto attraverso il quale poteva scorgere il luccichio del mare e, più in alto, la luna. Alla luce della lampada tascabile, senza far rumore, Theresa si mise all'opera. Si avvicinò al muro con il temperino in mano e cominciò a cercare una pietra larga e piatta che doveva formare la base del suo altare. In pochi minuti ne trovò una e si aiutò a estrarla con la lama del coltello. Ma dietro la pietra c'era nascosto qualcosa, qualcosa di simile a un sottile pezzetto di cartone infilato nella fenditura. Lo tirò fuori e lo aprì. Era la metà di una cartolina illustrata della facciata occidentale dell'abbazia di Westminster. Nonostante mancasse la metà destra, Theresa ne riconobbe subito le torri gemelle. Sul retro vi trovò scritte alcune righe, un messaggio che al chiaro di luna non poteva riuscire a leggere e che peraltro non era nemmeno troppo ansiosa di decifrare. Sembrava una cartolina recente, ma il timbro era anche quello illeggibile ed era impossibile scoprire per quanto tempo fosse rimasta nascosta lì dentro. Forse ce l'aveva messa qualche turista per gioco, durante l'estate. Ma la cosa non la preoccupava affatto, anzi, assorta com'era non la interessava neppure. Era il tipo di messaggio segreto che le sue amichette lasciavano l'una per l'altra nascosto nel capanno delle biciclette a scuola, o che si passavano furtivamente di tasca in tasca. Per un attimo esitò, provando quasi la tentazione di strapparla, poi la rimise scrupolosamente al suo posto.

Proseguì lungo il muro, trovò un'altra pietra adatta e alcune più piccole che le servivano per sostenere la candela. Completò in fretta il suo piccolo altare. Poi accese la candela. Lo sfrigolio del fiammifero risuonò innaturalmente forte e il lampo di luce improvvisa la lasciò quasi abbagliata. Fece scivolare alcune gocce di cera sul sasso, poi vi piazzò sopra la candela puntellandola con altri piccoli ciottoli. Quindi sedette a gambe incrociate e fissò la fiammella. Sapeva che sua madre sarebbe venuta, invisibile ma presente, silenziosa ma pronta a parlare con chiarezza. Doveva solo attendere con pazienza e fissare la luce immobile della candela.

Cercò di svuotare la mente d'ogni cosa, tranne delle domande che era venuta a porle, ma la morte della madre era ancora troppo recente e dolorosa per poterne escludere il ricordo.

La mamma non aveva voluto morire in ospedale, e papà le aveva promesso che non sarebbe successo. L'aveva sentito mentre glielo prometteva. Sapeva che il dottor Entwhistle e l'infermiera del distretto si erano opposti. C'erano stati frammenti di conversazioni che lei non avrebbe dovuto ascoltare ma che, mentre se ne stava in silenzio nel buio della scala, dietro la porta di quercia del salotto, le erano giunti chiaramente alle orecchie come se anche lei si fosse trovata al capezzale di sua madre.

«Lei ha bisogno di un'assistenza continua, signora Blaney, più di quella che posso garantirle io. E starebbe meglio in ospedale.»

«Qui sto bene. Ho Ryan e Theresa. Ho lei. Siete tutti buoni con me. Non ho bisogno di altro.»

«Io faccio quello che posso, ma due volte al giorno non bastano. È chiedere troppo a suo marito e a Theresa. Sì, certo, ha sua figlia, ma ha appena quindici anni.»

«Voglio stare con loro. Voglio che rimaniamo tutti insieme.»

«Ma se si spaventano... È difficile, sa, per dei bambini.»

E poi la voce gentile ma implacabile, esile e resistente come un giunco, carica dell'egoismo ostinato dei moribondi: «Non si spaventeranno. Crede che lo permetteremmo? Non c'è nulla di spaventoso nella nascita e nella morte, se gli è stato insegnato come si deve».

«Ci sono cose che non si possono insegnare ai bambini, signora Blaney, cose che si possono conoscere soltanto con l'esperienza.»

E lei, Theresa, aveva fatto il possibile per convincere tutti che andava bene così, che poteva cavarsela. Aveva fatto ricorso a piccoli sotterfugi. Prima che arrivassero l'infermiera Pollard e il dottore, lavava le gemelle, faceva indossare loro degli abitini puliti e cambiava il pannolino ad Anthony. Era fondamentale che le cose apparissero sotto controllo, di modo che il dottor Entwhistle e l'infermiera non potessero dire che papà non ce la faceva. Un sabato aveva preparato le ciambelle e le aveva solennemente offerte sul piatto migliore del servizio, quello preferito da sua madre, con le rose dipinte a colori delicati e i fori lungo il bordo per infilarvi un nastro. Ricordava ancora l'espressione imbarazzata del dottore, quando aveva detto: «No, grazie, Theresa, ora no».

«La prego, ne prenda una: le ha fatte papà.»

E prima di andarsene, il dottore aveva detto a suo padre: «Forse lei può sopportarlo, Blaney, ma io no.»

Solo padre McKee sembrava notare gli sforzi di Theresa. Padre McKee, che parlava come un irlandese alla televisione, tanto che lei sospettava che lo facesse apposta, per scherzo, e si adoperava sempre per ricompensarlo con una risata.

«Oh, è proprio grande, come tenete il cottage tirato a lucido. Anche la Beata Vergine potrebbe mangiare sul pavimento, qui. Le ha fatte tuo papà, vero? Ottime, ottime. Guarda, me ne metto una in tasca per mangiarla più tardi. E adesso, da brava figliola, prepara una bella tazza di tè mentre parlo con tua madre.»

Theresa cercava sempre di non ripensare alla notte in cui avevano portato via la mamma. Si era svegliata a quei terribili lamenti, era come se un animale ferito si stesse aggirando intorno al cottage; poi si era accorta che il suono non proveniva dall'esterno. Il terrore improvviso, la figura di suo padre stagliata sulla soglia della camera da letto, che le ordinava di restare lì, di non uscire, di badare a tenere tranquilli i più piccoli... Aveva sbirciato dalla finestra della stanzetta, mentre le gemelle la fissavano dal letto, anch'esse spaventate, e aveva visto arrivare l'ambulanza. Poi c'erano stati i due uomini con la barella che avevano trasportato via una sagoma avvolta nelle coperte e ormai silenziosa. Si era precipitata giù per le scale, avventandosi contro le braccia del padre che cercava di trattenerla.

«No, meglio di no. La riporti dentro.»

Non sapeva chi avesse pronunciato quelle parole. Ma era riuscita a divincolarsi e aveva rincorso l'ambulanza che svoltava in fondo al viottolo, percuotendo gli sportelli chiusi con i pugni. Allora suo padre l'aveva sollevata e ricondotta in casa. Ricordava ancora la sua forza, l'odore e la consistenza ruvida della sua camicia, e i suoi ultimi, disperati tentativi di sgusciare via. Non aveva più rivisto sua madre. Era così che Dio aveva esaudito le sue preghiere, le preghiere di una donna che aveva chiesto di poter restare a casa... Sua madre aveva desiderato così poco, e tutto quello che padre McKee poteva dire non bastava ancora a farle perdonare il Signore.

Il freddo della notte settembrina si insinuava attraverso i jeans e la maglia, facendole dolere le reni. Per la prima volta la sfiorò il dubbio. Poi, in un tremito della fiamma della candela, sua madre fu con lei, e tutto andò a posto.

C'erano tante cose che doveva chiedere. I pannolini di Anthony, ad esempio: quelli usa-e-getta erano costosi e ingombranti da portare, e sembrava che papà non se ne rendesse conto. Sua madre disse che poteva usare quelli di spugna e lavarli. E poi le gemelle: non trovavano simpatica la signora Hunter, che veniva a prenderle per accompagnarle al gruppo di gioco. Le gemelle dovevano essere educate con lei, non dovevano sempre fare tutte quelle storie. Lei faceva del suo meglio. Era importante che continuassero a frequentare il gruppo di gioco, rispose la madre, era importante per il papà: Theresa doveva farglielo sapere. E poi c'era lui, il papà, un intero mucchio di cose: non andava spesso al pub perché non voleva lasciarli soli, ma in casa il whisky non mancava praticamente mai. Sua madre disse che non doveva preoccuparsi: papà ne aveva bisogno, adesso, ma presto avrebbe ripreso a dipingere e avrebbe smesso di bere tanto. Ma se si fosse ubriacato davvero e ci fosse stata un'altra bottiglia in casa, Theresa avrebbe fatto bene a nasconderla. Non doveva temere che papà si arrabbiasse, perché non si sarebbe mai arrabbiato con lei.

La comunicazione silenziosa continuò. Theresa era come in trance e guardava la cera della candela consumarsi lentamente. Poi non ne rimase più. Sua madre se n'era andata. Prima di spegnere la candela, grattò via con il temperino le tracce di cera dalla pietra. Era importante non lasciare segni. Poi rimise le pietre nel muro. Ora le rovine non avevano altro da offrirle che il freddo e il vuoto. Era ora di tornare a casa.

Una stanchezza improvvisa la vinse. Le sembrava impossibile che le gambe potessero ricondurla fino alla bicicletta e non sopportava l'idea del percorso accidentato attraverso il promontorio. Non sapeva quale impulso la spingesse oltre la grande finestra orientale, fino al ciglio dello strapiombo. Forse era il bisogno di ritrovare le forze, di guardare il mare illuminato dalla luna, di ristabilire per un attimo la perduta comunione con la madre. Invece, la sua mente fu afferrata da un ricordo alquanto diverso, recente, un ricordo di quello stesso pomeriggio, così spaventoso che non ne aveva parlato neppure alla madre. Rivide la macchina rossa che sfrecciava lungo il viottolo verso lo Scudder's Cottage. Aveva chiamato i bambini dal giardino, li aveva portati di sopra e aveva chiuso la porta del salotto. Ma più tardi si era accostata a origliare. Le sembrava di non poter dimenticare neppure una parola di quella conversazione.

Prima la voce di Hilary Robarts: «Questo posto era assolutamente inadatto per una donna che doveva fare lunghi spostamenti per la radioterapia. Lei doveva sapere che era già ammalata, quando ha deciso di prenderlo in affitto, doveva sapere che non ce l'avrebbe mai fatta».

E poi suo padre: «Immagino fosse convinta che dopo la sua morte anch'io non avrei potuto farcela. Quanti mesi le aveva dato? Fingeva di preoccuparsi per lei, ma mia moglie sapeva cosa aveva in mente. Veniva a controllare il suo dimagramento ogni settimana, non è così?, quante ossa in più le spuntavano sotto la pelle, di quanto si erano ristretti i suoi polsi. Non ci vorrà ancora molto, pensava. Ha fatto davvero un ottimo investimento, con questo cottage: ha investito sulla morte di mia moglie e le ha reso la vita un inferno, nelle sue ultime settimane».

«Non è affatto andata così. Non scarichi su di me le sue colpe, piuttosto. Dovevo venire qui, c'erano cose che dovevo vedere. La macchia d'umidità in cucina, il tetto che lascia filtrare la pioggia. Lei è stato il primo a dire che avevo molti doveri, come padrona di casa. E se non se ne andrà di qui, sarò costretta a chiederle un aumento d'affitto. Quello che paga adesso è un'inezia. Non copre neppure le spese delle riparazioni.»

«Ci provi, allora. Si rivolga al tribunale. Dica che vengano a vedere. La proprietà è sua, ma ci abito io. E pago regolarmente l'affitto. Non può buttarmi fuori, non sono mica uno stupido.»

«Sì, adesso paga l'affitto, ma per quanto potrà permetterselo, ancora? Finché faceva l'insegnante part-time poteva anche cavarsela, ma non vedo proprio come potrà farcela adesso. Immagino si consideri un artista, ma in realtà lei non è altro che un pittorucolo da strapazzo specializzato in schifezze per i turisti, convinti che un originale di quart'ordine sia preferibile a una bella stampa. Ma non si vendono bene, i suoi quadri, vero? I quattro acquerelli che Acworth ha in vetrina sono lì da settimane, e cominciano a ingiallire. Persino i turisti stanno diventando più esigenti: le schifezze non si vendono solo perché costano poco.»

Ma le gemelle, stanche di restare prigioniere, si erano messe a litigare e Theresa aveva dovuto correre di sopra ad annunciare che ormai mancava poco, ma che non dovevano uscire prima che la strega se ne fosse andata. Era tornata da basso, ma questa volta le era stato sufficiente fermarsi sul quinto gradino della scala: là dentro stavano gridando.

«Voglio sapere se è stata lei a mandare quella donna, quella maledetta assistente sociale che è venuta a spiarmi e a fare domande su di me ai miei figli. L'ha mandata lei?»

La voce della strega era calma, ma Theresa aveva sentito ogni parola. «Non sono tenuta a rispondere. Se ho avvertito le autorità, be', era ora che qualcuno si decidesse a farlo.»

«Mio Dio, che razza di carogna! È disposta a tutto, pur di buttarci fuori da questo maledetto posto, eh? Quattrocento anni fa quelle come lei finivano sul rogo. Se non fosse per i bambini la ammazzerei con le mie mani. Non voglio che finiscano nelle braccia dell'assistenza sociale solo per togliermi questa soddisfazione, ma per Dio, non mi induca in tentazione. Quindi fuori. Fuori dal mio cottage! Fuori dal mio giardino! Prenda il suo affitto e ringrazi il cielo di essere ancora viva. E non si azzardi più a interferire con la mia vita privata. Mai più, mai più!»

La strega aveva detto: «Non faccia l'isterico, non sa fare altro: minacce e violenze, solo e sempre questo. Se le autorità locali affidassero quei bambini all'assistenza, ci guadagnerebbero soltanto. Oh, lo so che le piacerebbe uccidermi, quelli come lei reagiscono sempre così, di fronte alla ragione. Mi ammazzi, e vedrà che lo stato provvederà ai suoi figli per i prossimi quindici anni. È ridicolo e patetico».

E poi ancora la voce di suo padre, che non gridava più e addirittura era così sommessa, che Theresa aveva stentato ad afferrare le parole: «Se l'ammazzo, nessuno metterà mai le mani su di me o sui miei figli. Nessuno!».

Il ricordo di quella scena portò con sé la collera, e la collera la scosse nelle gambe e parve restituirle un po' di forza. Adesso poteva pedalare fino a casa. Ed era tempo che se ne andasse. Fu allora che vide. La spiaggia non era più deserta. All'improvviso cominciò a tremare come un cucciolo e indietreggiò sotto l'arco. Verso nord c'era una donna che scendeva correndo verso il mare, dalla pineta, con i capelli scuri ondeggianti e il corpo bianco seminudo. E gridava, gridava trionfante. Era la strega. Era Hilary Robarts.

 

20

 

Hilary cenò presto. Non aveva fame, ma prelevò dal freezer un pane francese e lo scaldò nel forno, poi si cucinò un'omelette alle erbe. Lavò i piatti e lasciò la cucina in ordine, prese i documenti dalla cartella, sedette al tavolo del salotto e si mise al lavoro. Doveva preparare una relazione sulla riorganizzazione del suo dipartimento, evidenziando dati e cifre e illustrando il riassetto del personale. Era un compito importante per lei, e in condizioni normali le sarebbe anche piaciuto. Sapeva che qualcuno poteva trovare da ridire sulla sua gestione del personale, ma nessuno era mai riuscito a criticarla come organizzatrice e amministratrice. Mentre riordinava i fogli si chiese se tutto ciò le sarebbe mancato, quando lei e Alex si fossero sposati e trasferiti a Londra. Si sorprese però nel constatare che tutto sommato le importava pochissimo: quella parte della sua vita era ormai chiusa, l'avrebbe abbandonata senza alcun rammarico. Il cottage troppo ordinato che non aveva mai sentito veramente suo e mai lo sarebbe stato, la centrale, persino l'attuale incarico. Ad attenderla c'era una vita diversa. Il lavoro di Alex, la sua nuova posizione di moglie, gli inviti alle persone giuste, qualche lavoro di volontariato scelto con cura, i viaggi... E poi ci sarebbe stato un figlio, il figlio di Alex.

Il bisogno irresistibile di avere un figlio era diventato ancora più forte in quell'ultimo anno, ed era cresciuto in maniera inversamente proporzionale all'interesse fisico manifestato nei suoi confronti da Alex. Cercava di convincersi che una relazione, così come un matrimonio, non poteva restare sempre allo stesso livello di eccitazione sessuale o emotiva, e che in sostanza fra loro nulla era cambiato e nulla sarebbe mai potuto cambiare. Quale partecipazione emotiva e fisica c'era stata, all'inizio del rapporto? Be', a quel tempo le andava bene così, non aveva desiderato nulla di più di quanto Alex era disposto a dare, era stato un soddisfacente scambio di piacere, aveva provato l'orgoglio di essere la sua amante quasi ufficiale e il brivido della dissimulazione quando erano insieme in compagnia d'altri, uno scrupolo non necessario né tantomeno serio, ma capace di trasmetterle una forte carica erotica. Avevano giocato a un bel gioco: i saluti pseudo formali prima delle riunioni e in presenza di estranei, le visite bisettimanali di Alex al suo cottage... Quando era arrivata a Larksoken, aveva cercato un appartamentino moderno a Norwich e, per qualche tempo, ne aveva preso in affitto uno vicino al centro. Ma una volta iniziata la relazione, per lei era diventato necessario stargli vicino, così si era trovata una casa a meno di quattrocento metri dal Martyr's Cottage. Sapeva che Alex era troppo orgoglioso e arrogante per farle visita di nascosto, sgattaiolando nella notte come uno studentello eccitato, ma d'altronde lì non c'era alcun bisogno di umilianti finzioni: il promontorio era sempre deserto. E Alex non si tratteneva mai tutta la notte. Lo scrupoloso razionamento della compagnia sembrava quasi un aspetto imprescindibile della loro relazione. E in pubblico si comportavano come semplici colleghi: lui aveva sempre scoraggiato la mancanza di formalità, se non fra pari grado, disapprovando qualunque forma di cameratismo troppo facile. Nella centrale vigeva una disciplina rigorosa come a bordo di una nave da guerra.

Ma la relazione, iniziata in modo così contenuto dal punto di vista emotivo e sociale, era deteriorata nel disordine, nella smania e nella sofferenza. Hilary sapeva in quale esatto momento il bisogno di un figlio aveva cominciato a trasformarsi in una vera e propria ossessione: era stato quando l'infermiera di quella clinica discreta e costosissima aveva portato via, senza quasi nascondere la propria disapprovazione e un certo disgusto, la bacinella in cui nel sangue tremolavano i tessuti del feto. Il suo grembo così depredato si stava vendicando. Non era riuscita a celare ad Alex quel desiderio, sebbene sapesse che lui era di opinione assolutamente contraria. Le sembrava ancora di sentire la propria voce, lamentosa come quella di una bambina viziata, e rivedeva la sua espressione quasi divertita di finto sgomento dietro la quale, Hilary lo sapeva bene, stava in agguato un'autentica ripugnanza.

«Voglio un figlio.»

«Non guardare me, tesoro, è un esperimento che non sono disposto a ripetere.»

«Tu hai un figlio, sano, vivo, affermato: il tuo nome, i tuoi geni, continueranno nel tempo.»

«Non ci ho mai tenuto. Charles non esiste per me.»

Aveva cercato di togliersi quella ossessione, di imporre alla propria mente solo immagini sgradevoli, le notti in bianco, l'odore, la dipendenza continua, la mancanza di privacy, le conseguenze sulla carriera. Inutile. Reagiva razionalmente a un'istanza in cui l'intelletto era impotente. A volte si domandava se non stesse per caso impazzendo, e non riusciva più a controllare i propri sogni, uno in particolare. L'infermiera, sorridente, in camice bianco e mascherina, le adagiava il neonato fra le braccia, e lei osservava il suo visino dolce, ancora agitato dal trauma della nascita. Poi l'infermiera rientrava di corsa, scura in volto, e portava via il piccino. «Non è suo, signora Robarts, non ricorda? Il suo lo abbiamo già buttato nel gabinetto.»

Alex non aveva bisogno di un altro figlio. Ne aveva già uno, e con esso realizzava la sua speranza di vicaria immortalità. Forse era stato un genitore inetto, di certo un estraneo, ma era pur sempre padre e aveva tenuto fra le braccia il proprio figlio. E questo non era privo d'importanza per lui, qualunque cosa si ostinasse a fingere di credere. Charles era venuto a trovarlo l'estate precedente, un gigante di bronzo dorato, con le gambe robuste e i capelli schiariti dal sole, ed era passato per la centrale come una meteora, incantando le impiegate con il suo accento americano e il suo fascino da adone. Alex era apparso sorpreso e un po' sconcertato, inaspettatamente orgoglioso di quel ragazzo, e aveva reagito con goffaggine e battute un po' pesanti. «Dov'è il giovane barbaro? A nuotare? Si accorgerà che il Mare del Nord non è Laguna Beach.» «Mi ha detto che intende studiare legge a Berkeley, quando avrà finito ci sarà un posto ad aspettarlo nello studio del patrigno. Scommetto che fra un po' Liz mi scriverà per annunciare che si è fidanzato con una studentessa di buona famiglia.» «Riesco persino a sfamarlo. Alice mi ha lasciato una ricetta per gli hamburger. Tutti i ripiani del frigo vomitano carne macinata e il suo bisogno di vitamina C mi sembra eccessivo: non faccio altro che spremere arance.»

Hilary si era sentita fremere d'imbarazzo e risentimento: l'orgoglio e lo spirito goliardico le erano sembrati così fuori posto, quasi degradanti. Era come se, al pari delle sue dattilografe, fosse rimasto affascinato dalla presenza fisica del figlio. Alice Mair era partita alla volta di Londra due giorni dopo l'arrivo di Charles; Hilary si chiedeva se l'avesse fatto apposta per lasciare che padre e figlio potessero godersela un po' insieme, o se, e per quanto ne sapeva di lei era molto più possibile, aveva provato riluttanza all'idea di passare il proprio tempo a cucinare per il ragazzo e ad assistere agli imbarazzanti eccessi di paternalismo del fratello.

Pensò di nuovo alla sua ultima visita, quando l'aveva riaccompagnata a casa dopo cena. Lei si era mostrata contraria alla proposta di offrirle una scorta, ma Alex era venuto ugualmente, proprio come Hilary desiderava in realtà. Dopo averla ascoltata attentamente, le aveva detto senza alzare la voce: «Mi sembra un ultimatum».

«Io non lo chiamerei così.»

«E come lo chiameresti, allora: ricatto?»

«Dopo quello che c'è stato fra noi, lo chiamerei giustizia.»

«Accontentiamoci di ultimatum, invece. Giustizia è un concetto troppo grandioso per le mie orecchie. E come ogni ultimatum, dovrà essere preso in considerazione. Di solito si fissa un limite di tempo. Qual è il tuo?»

«Ti amo» gli aveva risposto Hilary. «Con il tuo nuovo incarico avrai bisogno di una moglie. Io sono la donna che fa per te. Potrebbe funzionare. Farei in modo che funzionasse. Ti renderei felice.»

«Non so se sono capace di essere felice. Forse più di quanto sarebbe mio diritto, ma la felicità non è un dono di qualcuno, di Alice o di Charles, di Elizabeth o tuo. Non lo è mai stata.»

Poi si era avvicinato e l'aveva baciata sulla guancia. Lei si era voltata dalla sua parte, ma Alex l'aveva gentilmente allontanata. «Ci penserò.»

«Vorrei annunciare molto presto il nostro fidanzamento.»

«Immagino che tu non stia pensando a un matrimonio in chiesa con i fiori d'arancio, le damigelle d'onore e la marcia nuziale di Mendelssohn...»

Lei aveva detto: «Non voglio che ci rendiamo ridicoli, adesso o dopo. Mi conosci abbastanza per saperlo da solo».

«Capisco. Allora un'apparizione rapida e indolore all'ufficio di stato civile? Ti farò sapere la mia decisione domenica sera, quando sarò rientrato da Londra.»

«A sentirti sembra una cosa piuttosto formale» aveva ribattuto Hilary.

«Quanto dev'esserlo la risposta a un ultimatum, no?»

L'avrebbe sposata e, entro tre mesi, avrebbe capito che lei aveva ragione. Avrebbe vinto perché in questo la sua volontà era più forte di quella di Alex. Ricordava ancora le parole di suo padre: «Viviamo una volta sola, figlia mia, ma possiamo viverla come vogliamo. Solo gli stupidi e i deboli sono costretti a vivere come schiavi. Hai la salute, la bellezza, l'intelligenza. Puoi prenderti ciò che vuoi. Ti bastano coraggio e volontà». Nonostante la montagna di sofferenze passate, lui aveva vissuto a modo suo, e altrettanto avrebbe fatto lei.

Adesso, Hilary cercò di accantonare il pensiero di Alex e del loro futuro per concentrarsi su ciò che doveva fare. Ma era impossibile. Irrequieta, attraversò la cucina e passò nel salottino sul retro, dove teneva i vini. Prese una bottiglia di Borgogna e un bicchiere, e versò. Alla prima sorsata, avvertì il bruciore di un lievissimo graffio all'angolo della bocca: come si poteva bere da un bicchiere scheggiato? Infastidita, ne prelevò un altro e vi rovesciò il contenuto del primo. Stava per gettare il bicchiere difettoso, quando esitò, il piede puntato sul pedale del portaimmondizia. Faceva parte del servizio da sei regalatole da Alex. Il difetto, che non aveva notato fino a quel momento, era minimo: poco più di una ruvidità sull'orlo. Poteva tenerlo per metterci i fióri. Le sembrò di vederli: bucaneve, primule, rametti di rosmarino. Quando ebbe finito di bere, lavò i due bicchieri e li ripose capovolti nello scolapiatti, poi lasciò la bottiglia stappata sul tavolo. Il vino era ancora troppo freddo, ma nel giro di un'ora avrebbe raggiunto la temperatura giusta.

Era il momento della nuotata quotidiana, poco dopo le nove, e quella sera non si sarebbe presa il disturbo di ascoltare le notizie alla radio. Salì in camera da letto, si spogliò completamente, indossò gli slip di un bikini nero e sopra la tuta bianca e blu. Quindi infilò un paio di vecchi sandali di cuoio macchiato e indurito dall'acqua di mare. Dall'attaccapanni nel corridoio prese un medaglione d'acciaio attaccato a un laccio di pelle e vi attaccò la Yale che si metteva al collo quando andava a nuotare. Gliel'aveva regalato Alex in occasione del suo ultimo compleanno. Lo toccò, sorrise e sentì, forte come il contatto del metallo sotto le dita, la certezza della speranza. Poi prese una torcia elettrica dal cassetto del tavolo in anticamera, chiuse con cura la porta e si avviò alla spiaggia con l'asciugamano gettato sulle spalle.

Sentì il profumo della resina dei pini ancora prima di attraversare la distesa di tronchi ruvidi e snelli. Dal viottolo sabbioso, coperto di aghi caduti, alla spiaggia erano appena cinquanta metri. Lì era più buio e la luna si affacciava a tratti, mentre navigava maestosa sopra le alte guglie degli alberi, mostrandosi e nascondendosi, così che per qualche secondo Hilary dovette accendere la torcia. Uscì da quella massa di ombre e scorse davanti a sé la sabbia imbiancata dalla luna e il tremolio luccicante del mare. Lasciò cadere l'asciugamano nel solito punto, una piccola conca al margine del bosco, si sfilò la tuta e sollevò le braccia sopra la testa.

Poi si tolse i sandali, scalciando, e cominciò a correre sulla stretta fascia di ghiaino, sulla sabbia polverosa prima della battigia, sopra i segni levigati della spuma, sguazzò fra le onde minuscole che sembravano rompersi senza fare rumore e finalmente si tuffò nella pace purificatrice. Il freddo, intenso come una fitta dolorosa, la obbligò a soffocare un grido. Ma come sempre passò quasi subito, e le parve che l'acqua, scorrendole sulle spalle, avesse assimilato il calore del suo corpo permettendole di nuotare in un piccolo bozzolo di autosufficienza. Si allontanò dalla riva a bracciate regolari ed energiche. Sapeva per quanto tempo poteva trattenersi in acqua senza pericoli: cinque minuti. Poi, il freddo l'avrebbe stretta di nuovo nella sua impietosa morsa e lei avrebbe dovuto uscire.

Smise di nuotare per un momento e rimase a galleggiare sul dorso, osservando la luna. La magia funzionò, come ogni giorno: frustrazioni, paure, collere si dissolsero, e Hilary si sentì pervadere da una felicità che avrebbe potuto chiamare estasi, se solo estasi non fosse stata una parola troppo pomposa per quella dolcissima pace. E con la felicità tornò l'ottimismo. Tutto sarebbe andato per il meglio. Avrebbe lasciato che Pascoe sudasse per un'altra settimana, poi avrebbe ritirato la querela. Era un individuo troppo poco importante perché lei lo odiasse. E il suo avvocato aveva ragione: Scudder's Cottage poteva anche aspettare. Acquistava valore di mese in mese, e nel frattempo l'affitto veniva regolarmente pagato. Dunque non ci perdeva nulla. Le irritazioni quotidiane del lavoro, le gelosie professionali, i risentimenti... cosa contava tutto ciò? Quella parte della sua vita stava ormai per concludersi. Amava Alex, Alex l'amava e avrebbe compreso la ragionevolezza delle sue richieste. Si sarebbero sposati. Avrebbe avuto un figlio da lui. Tutto era possibile. E poi, per un attimo, un'altra pace, ancora più profonda, si impossessò di lei: una pace in cui nulla importava più. Era come se le meschine preoccupazioni della carne venissero spazzate via e lei fosse uno spirito disincarnato che aleggiava libero guardando il proprio corpo disteso sotto la luna. E provò un dolce senso di rammarico per quella creatura arenata sulla terra, che solo in un elemento estraneo, l'acqua, poteva trovare quella pace languida ma transitoria.

Era tempo di tornare. Scalciò vigorosamente voltandosi a pancia in giù e riprese a nuotare verso riva, verso la figura silenziosa che la attendeva nell'ombra, fra gli alberi.

 

21

 

Dalgliesh aveva trascorso la domenica mattina rivisitando la cattedrale di Norwich e St. Peter Mancroft, prima di pranzare in un ristorante alla periferia della città dove, due anni addietro, lui e la zia avevano consumato insieme un pasto senza pretese ma cucinato alla perfezione. Ma anche lì, con il tempo le cose erano cambiate. L'esterno e l'arredamento erano rimasti gli stessi, tuttavia non gli ci volle molto per accorgersi che il proprietario e lo chef erano nuovi. Il pasto, che arrivò con prontezza sospetta, era stato chiaramente cucinato altrove e quindi riscaldato; il fegato alla griglia era una fetta granulosa di carne grigia non meglio identificata, coperta da una salsa sintetica e glutinosa e accompagnata da patate poco cotte e cavolfiori spappolati. Non era un pranzo che meritasse un vino, ma si consolò con un po' di Cheddar e dei cracker, prima di dare inizio al programma pomeridiano: una visita alla chiesa quattrocentesca di St. Peter e St. Paul, a Salle.

Negli ultimi quattro anni, raramente gli era capitato di andare a trovare la zia senza accompagnarla a Salle, e nel testamento aveva espresso il desiderio che le sue stesse ceneri venissero sparse senza cerimonie, da lui solo, nel cimitero della chiesa. Dalgliesh sapeva che la chiesa aveva esercitato sulla zia una forte influenza, ma non gli risultava che fosse una donna religiosa, e quella richiesta l'aveva un po' sorpreso. Si aspettava che volesse far spargere le proprie ceneri sul promontorio, in terra libera, o che non lasciasse proprio istruzioni in merito, considerando quel rito un espediente di poco valore, indegno di riflessioni da parte sua o di fatiche da parte del nipote. Ma adesso Dalgliesh aveva un compito da svolgere, e per lui aveva un'importanza sorprendente. Nelle ultime settimane era stato assillato dal rimorso di un dovere incompiuto, come se a perseguitarlo fosse uno spirito irrequieto. Quell'insistente bisogno di rituali da parte dell'uomo, di riconoscimento formale di un momento di passaggio, lo aveva sempre lasciato perplesso. Forse sua zia l'aveva compreso, e aveva pensato a provvedervi in maniera discreta.

All'altezza di Felthorpe abbandonò la B1149 e imboccò una strada di campagna. Non era necessario consultare la cartina: la magnifica torre quattrocentesca con le sue quattro guglie era un punto di riferimento inconfondibile. Si avviò in quella direzione percorrendo le strade semideserte, sopraffatto dalla piacevole sensazione di starsene tornando a casa. Gli sembrava strano che accanto a lui non vi fosse la figura spigolosa della zia, e che di quella personalità un po' enigmatica ma poderosa non restasse che un pacchetto avvolto nella plastica, stranamente pesante, colmo di ceneri bianche. Quando raggiunse Salle, parcheggiò la Jaguar sul vialetto della chiesa e proseguì a piedi nel cimitero. Come sempre, lo colpì che una chiesa della bellezza e imponenza di una cattedrale dovesse ergersi in quel punto isolato; eppure, al contempo, sembrava perfettamente a posto fra quei campi silenziosi, e creava un effetto non tanto di grandiosa maestà quanto di pace rassicurante. Per qualche minuto rimase in ascolto senza udire nulla, neppure il canto di un uccello o il frinire di un insetto fra l'erba alta. Alla debole luce del sole, gli alberi che lo circondavano erano ammantati dal primo oro autunnale. L'aratura era terminata e la crosta bruna dei campi si stendeva nella quiete domenicale fino all'orizzonte lontano. Dalgliesh girò a passo lento intorno alla chiesa, mentre il peso del pacchetto gli gravava nella tasca della giacca. Era lieto di aver scelto un momento tra un servizio religioso e l'altro, e si chiedeva se non sarebbe stato corretto, forse addirittura necessario, ottenere il consenso del parroco prima di realizzare il desiderio della zia. Ma si disse che ormai era tardi per pensarci, e che era meglio evitare lunghe spiegazioni e complicazioni. Si avviò verso il margine orientale del cimitero, aprì il pacchetto e rovesciò la cenere come in una libagione. Vi fu un bagliore argenteo e ciò che restava di Jane Dalgliesh scintillò tra i fragili steli autunnali e le erbe ormai alte. Conosceva le parole di rito per quell'occasione, le aveva udite abbastanza spesso dal padre. Ma quelle che improvvisamente gli salirono alle labbra appartenevano ai versi dell'Ecclesiaste scolpiti sulla lapide davanti al Martyr's Cottage, e in quel luogo al di fuori del tempo, accanto alla dignità della grande chiesa, gli parve che fossero appropriati.

La porta occidentale era aperta. Prima di lasciare Salle, passò un quarto d'ora nella chiesa, riscoprendo antichi piaceri: osservare gli intagli del coro, raffigurazioni di contadini, un prete, mammiferi e uccelli, un drago, un pellicano che nutriva i suoi piccoli; sfilare davanti al pulpito medievale, che dopo cinquecento anni conservava ancora tracce della colorazione originale; toccare la transenna, andare ad ammirare la grande finestra orientale che un tempo era stata un trionfo di vetri rossi e verdi, ma che ora lasciava entrare soltanto la lìmpida luce di Norwich. Mentre la porta occidentale si chiudeva alle sue spalle, Dalgliesh si domandò quando sarebbe tornato ancora in quei luoghi... se vi sarebbe mai tornato.

Quando arrivò a casa, era già sera. Il pranzo gli era rimasto un po' sullo stomaco e aveva meno fame del previsto. Riscaldò l'avanzo di zuppa del giorno prima, mangiò qualche cracker con formaggio e un po' di frutta. Quindi accese il fuoco e sedette sulla bassa poltrona ad ascoltare il concerto per violoncello di Elgar, dando inizio al riordino delle foto della zia. Le estrasse dalle buste sbiadite separandole sul piano del tavolino di mogano. Era un compito che gli metteva un velo di malinconia, e ogni tanto una scritta sul retro di una stampa, il ricordo di un viso o di un aneddoto gli causava una fitta di rimpianto. Il concerto era un accompagnamento perfetto. Le note lamentose evocavano quelle lunghe, calde estati edoardiane che conosceva solo tramite i romanzi e le poesie, la pace, la certezza, l'ottimismo dell'Inghilterra in cui era nata sua zia. E c'era il fidanzato, ridicolmente giovane, strizzato nella sua uniforme da capitano. La foto portava la data del 4 maggio 1918, una settimana prima che morisse in guerra. Per un attimo Dalgliesh fissò intento quel bel volto che, Dio lo sapeva, doveva aver assistito a chissà quali orrori, eppure non parlava. Girò la foto e si accorse che sul retro c'era un messaggio scritto a matita, in greco. Il giovane doveva aver studiato i classici a Oxford e la zia aveva imparato il greco con il padre. Ma per Dalgliesh si trattava di una lingua sconosciuta: il segreto dei due fidanzati era al sicuro per sempre. La mano che aveva tracciato quelle lettere ormai sbiadite era morta da settant'anni, e la mente che le aveva concepite da più di due millenni. Nella stessa busta c'era una foto della zia, più o meno alla stessa età. Doveva essere quella che aveva spedito al fidanzato al fronte, o che gli aveva consegnato come ricordo prima della partenza. In un angolo spiccava una macchia rosso-bruna, probabilmente sangue. Forse la foto le era stata restituita con il resto degli effetti personali del caduto. La zia portava una gonna lunga e una camicetta abbottonata fino al collo; rideva, e aveva i capelli pettinati in due bande ai lati del viso e annodati al di sopra delle tempie. Aveva sempre avuto un'aria distinta, ma adesso, quasi trasalendo di sorpresa, Dalgliesh si accorse che era stata anche bella. E la sua morte l'aveva reso libero di compiere un atto di voyeurismo che, in vita, sarebbe parso ripugnante a entrambi. La zia non aveva distrutto le foto. Realista com'era, doveva ben aver saputo che altri occhi avrebbero finito per guardarle; ma forse l'estrema vecchiaia aveva annullato in lei quelle meschine considerazioni dettate dalla vanità, così come da anziani la mente si distacca gradualmente dagli inganni e dai desideri della carne. Con un senso di irrazionale riluttanza, quasi di tradimento, Dalgliesh gettò le due fotografie nel fuoco e le osservò arricciolarsi, annerire ed esplodere in un soffio di cenere.

Che fare poi degli sconosciuti, delle donne sotto i cappelli immensi e carichi di nastri e di fiori, dei gruppi di gitanti in bicicletta, degli uomini con i calzoni alla zuava, delle signore con le gonne a campana e le pagliette? Che fare delle feste di nozze, con gli sposi seminascosti dietro i giganteschi bouquet e gli invitati raggruppati secondo una precisa gerarchia, gli occhi fissi sull'obiettivo come se lo scatto dell'otturatore potesse arrestare il tempo per un secondo e decretare l'importanza di quel rito di passaggio, legando il passato ormai ineluttabile al futuro ancora imprevedibile? Da adolescente, aveva avuto l'ossessione del tempo. Per settimane, prima delle vacanze estive, provava un senso di trionfo al pensiero di averlo acciuffato per i capelli e di poter dire: "Corri, tempo, corri quanto vuoi: la vacanza verrà. Oppure, se devi, procedi lentamente, e i giorni dell'estate dureranno più a lungo". Ora, nella mezza età, non conosceva un piacere promesso che conservasse ancora il potere di arrestare l'inesorabile marcia delle ruote di quel carro. E c'era una sua foto, nell'uniforme della scuola privata, scattata da suo padre nel giardino della parrocchia, uno sconosciuto buffamente abbigliato con un berretto e un blazer a righe che stava quasi sull'attenti e fronteggiava l'obiettivo quasi sfidando il terrore di dover lasciare quella casa. Sbarazzarsene fu un sollievo.

Quando il concerto terminò e la mezza bottiglia di Borgogna fu vuota, Dalgliesh radunò le foto superstiti, le mise nel cassetto dello scrittoio e decise di scacciare la malinconia con una passeggiata in riva al mare prima di andare a letto. Era una notte troppo calma e bella per sprecarla in nostalgie e futili rimpianti. L'aria era straordinariamente immobile e persino l'eco del mare gli giungeva smorzata. Le acque si stendevano pallide e misteriose sotto la luna piena e il fulgore delle stelle. Per un momento si soffermò sotto le pale del mulino, quindi si avviò a passo deciso sul promontorio, verso nord, oltre la fascia di pini. Tre quarti d'ora più tardi decise di raggiungere la spiaggia. Sul pendio sabbioso rischiò di scivolare un paio di volte e davanti a sé scorse i blocchi squadrati di cemento, semisepolti, e i riccioli di ferro arrugginito che ne scaturivano come bizzare antenne. Il chiaro di luna, forte come l'ultima luce del sole al tramonto, alterava la consistenza della spiaggia e ogni granello di sabbia pareva illuminato separatamente, ogni ciottolo era misteriosamente unico. All'improvviso provò l'infantile impulso di mettere i piedi nell'acqua. Si tolse le scarpe, infilò i calzini nella tasca della giacca, annodò i lacci e si appese le scarpe al collo. L'acqua, dopo la prima sensazione di freddo, sembrò livellarsi alla sua stessa temperatura corporea. Avanzò deciso lungo la frangia delle onde, voltandosi ogni tanto a guardare le impronte impresse nella sabbia, come faceva da bambino. Ormai era all'altezza della fascia di pini. Sapeva che un sentiero l'attraversava addentrandosi sul promontorio: passava davanti al cottage di Hilary Robarts e sfociava sulla strada principale. Era la via più facile per tornare indietro senza doversi arrampicare sulle scogliere friabili più a sud. Sedette sulla ghiaia e affrontò il consueto problema: usare un fazzoletto troppo piccolo per eliminare dalle dita dei piedi la sabbia umida e tenace. Quando ebbe terminato l'impresa, si infilò calze e scarpe e riprese la marcia sui ciottoli.

Giunto alla sabbia finissima della parte superiore della spiaggia, si accorse che qualcuno era stato lì prima di lui. Alla sua sinistra correva una fila di orme dirette verso la battigia. Naturalmente doveva trattarsi dei piedi di Hilary Robarts, uscita per la sua solita nuotata serale. Inconsciamente, notò com'erano nitide. Hilary doveva aver lasciato la spiaggia circa un'ora e mezza prima, ma in quella notte senza vento le impronte erano chiarissime come se fossero state fatte da pochi minuti appena. Il sentiero fra gli alberi si apriva davanti a lui e spariva inghiottito dalle ombre della pineta. La notte si fece improvvisamente più buia: una nube bassa, nero-bluastra, aveva coperto la luna, e i suoi bordi frastagliati brillavano di luce argentea.

Dalgliesh accese la torcia elettrica e puntò il raggio sul sentiero. Di nuovo, alla sua sinistra scorse qualcosa. Qualcosa di bianco, forse un foglio di giornale, un fazzoletto, o un sacchetto di carta. Si avvicinò spinto da un filo di curiosità. E poi la vide. La faccia stravolta parve avventarsi contro di lui e restare sospesa nel chiarore della torcia, come una visione uscita da un incubo. Paralizzato, Dalgliesh si sentì assalire da un misto di incredulità e orrore, e nel riconoscere quel volto si sentì balzare il cuore nel petto. Giaceva in una depressione poco profonda di erba schiacciata, un'area incavata in cui il verde della vegetazione bastava a celare il corpo alla vista finché non gli si arrivava vicinissimo. Sulla destra, un lembo compresso sotto il cadavere, c'era un telo da spiaggia a righe rosse e blu, e sopra il telo, uno accanto all'altro, due sandali e una torcia elettrica. Poi, ordinatamente piegata, quella che sembrava una tuta da ginnastica bianca e blu. Doveva essere stato il bordo della tuta ad attirare il suo sguardo. La morta giaceva supina, la testa rivolta verso di lui e gli occhi sbarrati, dai quali sembrava partire ancora un ultimo, disperato appello. Il ciuffo di peli era stato spinto sotto il labbro superiore e lasciava scoperti i denti, creando l'immagine di un coniglio in atteggiamento ringhiante. Un pelo nero era posato di traverso sulla guancia, e Dalgliesh provò l'impulso quasi irresistibile di chinarsi a toglierlo. Il corpo era coperto soltanto dagli slip di un bikini nero, abbassati sulle cosce. Si vedeva chiaramente il punto in cui i peli erano stati tagliati. La lettera L, al centro della fronte, sembrava incisa con molta precisione: le due linee si incrociavano ad angolo retto. Tra i seni appiattiti dalle areole scure e i capezzoli appuntiti, bianchissimo contro la pelle bruna delle braccia, c'era un medaglione metallico a forma di chiave, appeso a una strisciolina di cuoio. E mentre la osservava facendo lentamente scorrere la luce della torcia elettrica sul corpo, la nube si spostò dal viso e la donna apparve esangue, pallida come la sabbia, e risaltò bianca come fosse giorno.

Dalgliesh era abituato all'orrore: poche manifestazioni della crudeltà, della violenza e della disperazione umane gli erano sconosciute. Era troppo sensibile per osservare freddamente un corpo violato con rozza indifferenza, ma solo in un altro caso recente, l'ultimo, quella sensibilità gli aveva procurato qualcosa di più di un fastidio momentaneo. E, almeno, con Paul Berowne era stato avvertito a priori. Questa era la prima volta che gli capitava di imbattersi per caso in una donna assassinata. E mentre la guardava, la sua mente si soffermò sulla differenza che passava tra la reazione di un esperto convocato sulla scena del delitto, che sa cosa aspettarsi, e quel contatto improvviso con la violenza di un folle. Rimase colpito sia dalla differenza, sia dal distacco che gli permetteva di prenderla in considerazione.

Si inginocchiò a toccare una coscia. Era gelida e sembrava di gomma gonfiata. Se avesse premuto, sicuramente sarebbe rimasto il segno delle sue dita. Le passò delicatamente la mano fra i capelli. Erano ancora umidi alle radici, ma le punte si erano già asciugate. Faceva caldo, per essere settembre. Guardò l'orologio: le dieci e trentatré. Ricordò che qualcuno aveva detto, anche se non rammentava chi e quando, che Hilary Robarts aveva l'abitudine di andare a fare una nuotata serale poco dopo le nove. Gli indizi forniti dalle sue condizioni fisiche confermavano ciò che gli sembrava più probabile: che fosse morta da meno di due ore.

Sulla sabbia non c'erano altre orme, a parte le sue e quelle della morta. Ma la marea si stava ritirando. Doveva aver raggiunto l'altezza massima verso le nove, anche se la polverosità del tratto superiore della spiaggia lasciava pensare che non fosse arrivata fino alla depressione. Comunque, il percorso che l'assassino doveva aver seguito passava attraverso il bosco: lo stesso seguito anche dalla vittima. Lì aveva goduto della protezione degli alberi e aveva trovato un posto nell'ombra da cui spiare senza esser visto. Il terreno, con la sua coltre di aghi di pino, difficilmente avrebbe rivelato la presenza di orme, ma era ugualmente importante non calpestarlo. Muovendosi con attenzione, Dalgliesh si allontanò a ritroso dal cadavere e percorse una ventina di metri verso sud, lungo un dosso di ghiaia fine. Facendosi luce con la torcia elettrica e tenendosi quasi chino, passò nel folto dei pini, spezzando al suo passaggio i rami più fragili e bassi. Di certo nessuno era passato di lì. Nel giro di pochi minuti si ritrovò sulla strada; altri dieci minuti di buon passo e sarebbe stato al mulino. Ma il telefono più vicino si trovava di sicuro nel cottage di Hilary Robarts. Era molto probabile che fosse chiuso a chiave, e Dalgliesh non intendeva commettere un'effrazione per entrare a tutti i costi. Lasciare indisturbata la casa della vittima era importante quasi quanto non toccare nulla sulla scena del delitto. Vicino al cadavere non c'erano borse: solo i sandali e la torcia posati nella conca, la tuta e il telo rosso e blu. Forse Hilary Robarts aveva lasciato la chiave a casa e il cottage era aperto. Sul promontorio, dopo l'imbrunire, pochi si sarebbero preoccupati di lasciare la porta di casa aperta per una mezz'oretta. Valeva la pena di prendersi cinque minuti per andare a verificare.

Thyme Cottage, visto dalle finestre del mulino, gli era sempre parso la casa meno interessante di tutto il promontorio. Era rivolto verso l'entroterra, una costruzione squadrata con un cortile pavimentato di ciottoli al posto del giardino e finestre panoramiche moderne che distruggevano il fascino di un tempo e lo facevano apparire un ibrido impersonale, più adatto forse a un comprensorio rurale che a quella zona selvaggia e tormentata dal mare. Su tre lati i pini crescevano così attaccati alla casa, che quasi ne sfioravano i muri. Dalgliesh si era spesso domandato per quale motivo Hilary Robarts avesse deciso di vivere proprio lì, anche se indubbiamente si trattava di un punto comodo per andare alla centrale. Dopo la cena da Alice Mair, tuttavia, credeva di avere scoperto il perché della sua strana e antiestetica scelta. Al pianterreno tutte le luci erano accese; il grande rettangolo della finestra panoramica di sinistra toccava quasi terra e il quadrato più modesto sulla sua destra doveva corrispondere alla cucina. In condizioni normali, tutta quella luce sarebbe stata un rassicurante segno di vita, un rifugio dalle ataviche paure della foresta e di quel promontorio deserto e argentato sotto la luna piena. Ma ora, quelle finestre illuminate e prive di tende non facevano che intensificare il senso di disagio, e mentre si avvicinava al cottage gli parve che sulle vetrate, simile a un negativo sviluppato a metà, aleggiasse l'immagine di quel viso morto e sfigurato.

Qualcuno lo aveva preceduto. Scavalcò il muretto di pietra e vide che il vetro della finestra panoramica era stato rotto quasi del tutto. Piccole schegge brillavano come gemme sul selciato. Si fermò a guardare, in piedi tra i frammenti, gli occhi puntati sul salotto. La moquette era a sua volta costellata di pezzi di vetro, che ammiccavano come lune argentee. Evidentemente, il colpo era stato sferrato dall'esterno, e Dalgliesh notò subito quale oggetto era stato usato allo scopo: sotto di lui, sul tappeto, c'era il ritratto di Hilary Robarts. Era stato tagliato fin quasi alla cornice da due coltellate ad angolo retto che formavano la lettera L.

Non tentò nemmeno di controllare se la porta era aperta. Non alterare la scena era più importante che risparmiare dieci o quindici minuti di tempo. Hilary Robarts era morta: affrettarsi era giusto, ma non vitale. Tornò sulla strada e si incamminò verso il mulino, quasi correndo. Poi sentì il rumore di una macchina, si voltò e vide i fari che si avvicinavano velocemente da nord. Era la BMW di Alex Mair. Dalgliesh si piazzò in mezzo alla strada e agitò la torcia. La macchina rallentò fino ad arrestarsi. Dalgliesh andò al finestrino di destra e Mair, la faccia sbiancata dalla luna, lo guardò per un attimo con un'intensità seria e profonda, come se sapesse che quell'incontro era importante.

«Purtroppo ho una gran brutta notizia» esordì Dalgliesh. «Hilary Robarts è stata assassinata. Ho appena trovato il cadavere. Devo arrivare a un telefono.»

La mano posata sul volante si contrasse, poi si rilassò. Gli occhi fissi sui suoi divennero guardinghi, ma quando Alex Mair parlò, lo fece con voce controllata. Aveva tradito un'emozione solo nello spasmo involontario della mano. «Il Fischiatore?» chiese.

«Pare di sì.»

«Ho il radiotelefono in macchina.»

Senza aggiungere una sola parola, Mair aprì la portiera, scese e si tenne da parte mentre Dalgliesh passava due esasperanti minuti nel tentativo di contattare Rickards. Non c'era, ma lasciò un messaggio e chiuse la comunicazione. Alex Mair si era allontanato una trentina di metri dalla macchina e fissava lo sfolgorio della centrale come se volesse dissociarsi da quanto stava accadendo.

Poi tornò indietro. «L'avevamo avvertita di non andare a nuotare da sola, ma da quell'orecchio non voleva proprio sentirci. Comunque, non credevo neanch'io che il pericolo potesse essere tanto imminente e reale... E forse la pensavano così tutte le vittime, fino a che non è stato troppo tardi. "A me non può succedere..." E invece succede. Però è straordinario comunque, quasi incredibile. La seconda vittima di Larksoken. Dov'è, adesso?»

«Nella fascia di pineta verso la spiaggia, dove andava a nuotare di solito, immagino.» Mair mosse un passo in direzione del mare. «Non può farci nulla. Tornerò indietro io ad aspettare la polizia.»

«So che non posso fare nulla, ma voglio vederla lo stesso.»

«Meglio di no. Meno gente sulla scena, meglio lavora la polizia.»

Mair si voltò di scatto verso di lui. «Mio Dio, Dalgliesh, ma non smette mai di pensare come un poliziotto? Ho detto che voglio vederla.»

Questo non è un mio caso, pensò Dalgliesh, e non posso fermarlo con la forza. Ma almeno avrebbe potuto fare in modo che il percorso in linea retta per raggiungere il cadavere restasse intatto. Senza aggiungere altro, si avviò e Mair lo seguì. Perché insisteva tanto per vedere il cadavere? Forse per assicurarsi che fosse veramente morta, il bisogno istintivo di uno scienziato che chiede sempre conferme alla vita? Oppure cercava di esorcizzare un orrore che sapeva forse più terribile nell'immaginazione che nella realtà? O c'era forse un'ossessione più profonda, la necessità di renderle omaggio nel silenzio e nella solitudine della notte, prima che la polizia arrivasse con tutto il suo spoetizzante armamentario e violasse per sempre l'intimità che li aveva accomunati?

Quando Dalgliesh lo condusse a sud del sentiero battuto che portava alla spiaggia, avventurandosi nell'oscurità fra i tronchi di pini, Mair lo seguì senza fare commenti. La luce della torcia elettrica brillò sui rametti spezzati dal suo passaggio precedente, sulle pigne secche e su una vecchia lattina malconcia. Nel buio, l'intenso odore di resina sembrò farsi più acuto e penetrante, spargendosi nell'aria come una droga e rendendo difficoltosa la respirazione; eppure, la notte non era afosa, e non era nemmeno il culmine dell'estate.

Qualche minuto dopo sbucarono nella candida frescura della spiaggia e, come uno scudo curvilineo di argento battuto, scorsero lo splendore del mare sotto la luna. Si fermarono per un momento fianco a fianco, ansimando come se avessero superato una prova particolarmente faticosa. Le orme di Dalgliesh erano ancora ben visibili sulla sabbia asciutta, al di sopra dell'ultima riga di ciottoli. Le seguirono fino ai piedi del cadavere.

Non voglio essere qui, pensò Dalgliesh, non voglio essere con lui... mentre la guardiamo nuda. Gli sembrava che tutti i suoi sensi si fossero improvvisamente acuiti in maniera innaturale, e si sentiva stordito da quella luce fredda e debilitante. Le membra sbiancate, la cornice di capelli scuri, il rosso e il blu così sgargianti del telo da spiaggia, i ciuffi d'erba avevano la chiarezza unidimensionale di una foto a colori. L'attesa accanto al corpo fino all'arrivo della polizia sarebbe stata ancora tollerabile: era abituato alla compagnia priva di esigenze di chi era morto da poco. Ma con Mair di fianco, si sentiva alla stregua di un voyeur. Fu quel senso di ripugnanza, più che una forma di delicatezza, a spingerlo in disparte, per guardare nel buio del bosco, pur restando consapevole di ogni minimo movimento e respiro della figura alta e rigida che fissava la morta con l'attenzione concentrata di un chirurgo.

Poi Mair disse: «Il medaglione che ha al collo. Gliel'ho regalato io il ventinove agosto per il suo compleanno. Ha la grandezza giusta per contenere la sua Yale, la chiave di casa. L'ho fatto fare nell'officina di Larksoken: sono capaci di grandi finezze, sul serio».

Dalgliesh aveva una grande esperienza in fatto di manifestazioni dello stato di shock. La voce di Mair si fece di colpo aspra. «In nome di Dio, Dalgliesh, non possiamo coprirla?»

Con che cosa? pensò lui. Pretende forse che tolga il telo da sotto il cadavere? «No, mi dispiace» disse invece. «Non dobbiamo assolutamente toccarla.»

«Ma è opera del Fischiatore, Cristo, mi sembra evidente, no? Lo ha detto anche lei.»

«Il Fischiatore è un assassino come tutti gli altri. Porta qualcosa sulla scena del delitto e quando se ne va lascia qualcos'altro. E quel qualcosa potrebbe costituire una prova. È un uomo, non una forza della natura.»

«Quanto ci mette la polizia ad arrivare?»

«Non dovrebbe tardare ancora molto. Non ho potuto parlare con Rickards, ma si metteranno in contatto con lui. Resterò io ad aspettare, se vuole andarsene. Qui non può essere di nessun aiuto.»

«Rimarrò finché l'avranno portata via.»

«Sarà un'attesa lunga, se non riusciranno a trovare subito il patologo.»

«Aspetterò comunque.»

Senza aggiungere altro, Mair si voltò e scese fino al mare, lasciando una serie di impronte parallele a quelle di Dalgliesh. Dalgliesh si diresse verso la fascia di ghiaia e sedette, le braccia strette intorno alle ginocchia, restando a guardare la figura che camminava nervosamente avanti e indietro lungo la battigia. Se prima esisteva la possibilità di rilevare delle tracce dalla sabbia, adesso qualunque indizio sarebbe stato cancellato. Ma era un pensiero ridicolo: nessun assassino aveva mai lasciato su una vittima un'impronta più chiara del Fischiatore. E allora, perché provava quell'inquietudine, la sensazione che la situazione fosse in realtà meno semplice e chiara di quanto apparisse?

Si mise più comodo e si preparò ad attendere. La luce fredda della luna, il ritmo costante delle onde e la presenza del cadavere che si andava irrigidendo alle sue spalle gli inducevano una dolce malinconia, sprofondandolo nella contemplazione della morte... compresa la propria. Timor mortis conturbat me. E pensò: quando siamo giovani corriamo grandi rischi perché per noi la morte non è reale. La giovinezza è ammantata di immortalità, solo con la mezza età diventiamo consapevoli di quanto sia transitoria la vita. E la paura della morte, per quanto irrazionale, era sicuramente naturale, sia che la si considerasse un annientamento totale, sia un rito di passaggio. Ogni cellula del corpo era programmata per la vita; tutte le creature sane si aggrappavano alla vita fino all'ultimo respiro. Com'era difficile da accettare, e al contempo confortante, la graduale rivelazione che il nemico universale potesse finalmente assumere le sembianze di un amico. Forse il fatto che il processo della scoperta conferisse dignità alla morte individuale, anche a quella dei meno attraenti, dei meno importanti, faceva parte del fascino del suo lavoro e, nel suo interesse quasi eccessivo per gli indizi e i moventi, rispecchiava un altro fascino: quello perenne che l'uomo prova nei confronti del mistero della mortalità, fornendo l'illusione consolante di un universo morale in cui l'innocenza poteva essere vendicata, il diritto riaffermato, l'ordine ristabilito. In realtà, nulla veniva mai ristabilito, certamente non la vita, e l'unica giustizia riaffermata era quella incerta degli uomini. Il suo lavoro aveva per Dalgliesh un fascino che trascendeva la sfida intellettuale o l'opportunità che gli offriva per mantenere la sua rigorosa privacy. Ma adesso aveva ereditato abbastanza denaro da non aver più bisogno nemmeno di quel fascino. Era stata forse quella l'intenzione della zia? Aveva forse inteso dirgli, con quel suo testamento intransigente: eccoti sufficiente denaro da rendere inutile ogni altra attività al di fuori della poesia? È tempo che tu compia una scelta, caro nipote.

Quello del Fischiatore non era il suo caso e non lo sarebbe mai stato; ma per forza d'abitudine cronometrò l'arrivo della polizia, e passarono trentacinque minuti prima che udisse il rumore delle macchine approssimarsi alla pineta. I poliziotti arrivarono seguendo il percorso da lui indicato, facendo un certo chiasso. Rickards comparve per primo, in compagnia di un tizio più giovane e massiccio, seguito alla spicciolata da quattro agenti sovraccarichi. Dalgliesh, che si alzò per andare loro incontro, ebbe l'impressione di trovarsi di fronte a un gruppo di astronauti, uomini dai lineamenti squadrati e sbiancati dalla luce aliena, che trasportavano voluminose attrezzature inquinanti. Rickards fece un cenno di saluto ma non parlò se non per presentare il suo sergente, Stuart Oliphant.

Insieme si avvicinarono al cadavere e rimasero a guardare ciò che restava di Hilary Robarts. Rickards respirava pesantemente, come se avesse corso, e Dalgliesh ebbe la sensazione che irradiasse intorno a sé energia e agitazione. Oliphant e i quattro agenti scaricarono il materiale e rimasero in silenzio, un po' in disparte. Dalgliesh aveva la sensazione che fossero tutti attori di un film in attesa del "si gira" da parte del regista, o, al contrario, in attesa che qualcuno gridasse "stop", nel qual caso il gruppetto si sarebbe sciolto, la vittima si sarebbe tirata a sedere e avrebbe cominciato a massaggiarsi gambe e braccia, lamentandosi dell'intorpidimento e del freddo.

Poi, senza staccare gli occhi dal corpo, Rickards chiese: «La conosceva, signor Dalgliesh?».

«Hilary Robarts, vice amministratrice della centrale di Larksoken. L'ho conosciuta giovedì scorso, a una cena offerta dalla signorina Mair.»

Rickards si girò verso Alex Mair, che se ne stava immobile con le spalle voltate al mare, ma così vicino alla risacca da dare l'impressione che le onde gli passassero sui piedi. Non si mosse, aspettando che Rickards lo invitasse a raggiungerlo.

«Il dottor Alex Mair» disse Dalgliesh. «È il direttore di Larksoken. L'ho chiamata con il radiotelefono dalla sua macchina. Ha detto che resterà qui finché non porteranno via il corpo.»

«Allora dovrà aspettare a lungo. Il dottor Alex Mair, dunque. Ho letto molto di lui. Chi ha trovato il cadavere?»

«Io. Credevo di averlo detto chiaramente quando ho telefonato.»

Forse Rickards stava deliberatamente cercando di ottenere informazioni che conosceva già, oppure i suoi uomini erano di una straordinaria inettitudine quando si trattava di riferire un messaggio.

Rickards si rivolse ora a Oliphant: «Vada a spiegargli che ci metteremo parecchio. Qui non è di nessun aiuto, solo d'impiccio. Lo convinca a tornarsene a casa e a mettersi a letto. Se non riesce a persuaderlo, glielo ordini. Domani gli parlerò io». Attese che Oliphant si allontanasse un poco, quindi lo richiamò: «Oliphant... se proprio non vuole muoversi, gli dica almeno di mantenersi a distanza. Non dovrà avvicinarsi più di così. Poi faccia piazzare gli schermi intorno al corpo. Questo gli rovinerà un pò il divertimento».

Era proprio il genere di crudeltà gratuita che Dalgliesh si attendeva da lui. In quell'uomo c'era qualcosa che non andava, qualcosa di più profondo dello stress professionale causato dalla vista di un'altra vittima del Fischiatore. Era come se un'ansia personale, riconosciuta solo in parte e malamente repressa, si fosse scatenata di fronte al cadavere sublimandosi trionfalmente in prudenza e disciplina.

Dalgliesh provò un senso di fastidio e indignazione. «Quello non è un voyeur» disse. «Se tutto va bene, in questo momento non è nemmeno lucido. Conosceva personalmente e intimamente la vittima. Hilary Robarts era uno dei suoi collaboratori più importanti.»

«Non può fare assolutamente niente per lei, ormai, non potrebbe fare nulla nemmeno se fosse stata la sua amante.» Poi, come riconoscendo l'implicito rimprovero, Rickards aggiunse: «Okay, vado a parlargli».

Cominciò a correre goffamente sulla ghiaia; Oliphant lo udì, si voltò e insieme proseguirono a passo normale verso la silenziosa figura che attendeva in riva al mare. Dalgliesh osservò la scena. I tre si misero a parlare, poi si girarono e risalirono la spiaggia, Alex Mair fra i due poliziotti come un detenuto sotto scorta. Rickards tornò accanto al cadavere, ma era chiaro che Oliphant stava riaccompagnando Alex alla macchina. Accese la torcia elettrica e si addentrò nel bosco. Mair esitò. Aveva ignorato il corpo come se non fosse nemmeno più lì, ma ora lanciò a Dalgliesh uno sguardo intenso, a confermare che fra loro era rimasto qualcosa in sospeso. Poi: «Buonanotte» mormorò frettolosamente, e si accinse a seguire Oliphant.

Rickards si astenne da qualsiasi commento in merito al cambio di decisione da parte di Mair e alla propria capacità di persuasione. «Niente borsetta» disse.

«La chiave di casa è nel medaglione che porta al collo.»

«Ha toccato il cadavere, signor Dalgliesh?»

«Soltanto la coscia e i capelli, per sentire se erano ancora umidi. Il medaglione è un regalo di Mair, me l'ha detto lui.»

«La vittima abitava qui vicino, vero?»

«Avrà di certo visto il suo cottage mentre veniva qui. È dall'altra parte della pineta. Ci sono andato dopo aver trovato il cadavere. Pensavo che fosse aperto e che avrei potuto telefonare. In realtà c'è stato un atto di vandalismo. Hanno usato il suo ritratto per sfondare la finestra. Il Fischiatore e poi l'atto di vandalismo. Strana coincidenza, nella stessa notte.»

Rickards si voltò a fissarlo. «Può darsi, ma stavolta non è stato il Fischiatore. Il Fischiatore è morto. Si è ucciso in un albergo di Easthaven, intorno alle sei. Ho cercato di mettermi in contatto con lei per informarla.»

Si accovacciò accanto alla morta e le toccò il viso, poi le sollevò la testa e la lasciò ricadere. «Niente rigor mortis, neppure i primi sintomi. È successo nelle ultime ore, almeno così si direbbe a guardarla. Il Fischiatore è morto con altri peccati sulla coscienza, ma questo... questo...» Di scatto puntò l'indice verso il cadavere. «Questo, signor Dalgliesh, è diverso.»

 

22

 

Rickards infilò i guanti. Sotto la scivolosa guaina di lattice, le enormi dita apparivano vagamente oscene, simili a capezzoli di bovino. Si inginocchiò a esaminare il medaglione. All'interno era racchiusa la Yale: combaciava perfettamente. Rickards la estrasse. «Giusto, signor Dalgliesh, andiamo a dare un'occhiata da vicino alla finestra rotta.»

Due minuti dopo, Dalgliesh stava seguendo Rickards lungo il sentiero che conduceva all'entrata del cottage. Rickards aprì la porta ed entrarono in un corridoio che arrivava fino alla scala, affollato di numerose altre porte. Ne aprì una sulla sinistra e si ritrovarono nel salotto. Era una grande stanza che occupava un lato della costruzione in tutta la sua lunghezza, con le due finestre alle estremità e un camino. Il ritratto era a terra, a meno di tre metri dalla finestra, circondato da frammenti di vetro. I due uomini si fermarono accanto alla soglia e osservarono la scena.

Dalgliesh disse: «L'ha dipinto Ryan Blaney. Abita a Scudder's Cottage, più a sud. L'ho visto per la prima volta il pomeriggio stesso in cui sono arrivato».

«Strano modo di consegnarlo» fu il commento di Rickards. «La vittima aveva posato per lui?»

«Non credo. Blaney l'aveva dipinto per se stesso.»

Stava per aggiungere che, secondo lui, Ryan Blaney sarebbe stato l'ultimo a voler distruggere la propria opera, ma poi rifletté che in realtà non era stata affatto distrutta: rimediare ai due tagli a forma di L non sarebbe stato poi tanto difficile. E lo sfregio era preciso e deliberato come quello sulla fronte di Hilary Robarts in carne e ossa. Il quadro non doveva dunque essere stato colpito in uno scatto d'ira.

Rickards parve disinteressarsene per il momento. «Dunque viveva qui. Doveva amare molto la solitudine. Se viveva da sola, naturalmente.»

«Sì, per quel che ne so viveva sola.»

Era una stanza deprimente. Certo non mancava nulla, ma i mobili sembravano piuttosto gli scarti della casa di qualcun altro, e non il prodotto di una scelta meditata. Accanto al finto camino a gas si trovavano due poltrone in finta pelle marrone. Al centro stava un tavolo da pranzo ovale con quattro sedie scompagnate. Ai lati della finestra dalla parte della facciata c'erano scaffali a incasso, con una collezione di libri di testo e di romanzi. Due dei ripiani erano carichi di raccoglitori. Soltanto sulla parete più lunga, di fronte alla porta, qualcosa indicava che qualcuno aveva fatto di quella stanza un luogo in cui vivere. Senza dubbio, Hilary Robarts doveva aver amato gli acquerelli: la parete era letteralmente affollata di quadri, come in una galleria. Ce n'erano uno o due che Dalgliesh pensò di riconoscere, e avrebbe voluto avvicinarsi di più per esaminarli da vicino; ma era possibile che qualcuno, oltre a Hilary Robarts, fosse entrato nella stanza prima di loro, ed era indispensabile non alterare nulla.

Rickards richiuse la porta e aprì quella dirimpetto, sull'altro lato del corridoio. Era la cucina, funzionale e poco interessante, ben attrezzata ma in netto contrasto con quella del Martyr's Cottage.

Al centro dominava un piccolo tavolo di legno coperto di vinile, con quattro sedie uguali ben accostate; sopra di esso era appoggiata una bottiglia di vino, stappata, con il turacciolo e il cavatappi accanto. Nello scolapiatti c'erano due bicchieri da vino di fattura molto semplice, puliti e rovesciati.

«Due bicchieri, lavati entrambi dalla vittima o dall'assassino. Non troveremo impronte. E una bottiglia aperta. Qualcuno ha bevuto con lei» osservò Rickards.

«E se lui fosse astemio? E se invece lo fosse la Robarts?»

Con la mano guantata, Rickards sollevò la bottiglia per il collo e la girò lentamente. «Ne è stato versato circa un bicchiere. Forse avevano intenzione di tenerne un po' per dopo la nuotata.» Guardò Dalgliesh negli occhi e disse: «Non era mai venuto qui prima? Mi scusi, ma devo chiederlo a tutti quelli che conoscevano la vittima».

«Certo. No, non ero mai stato qui prima d'ora. Stasera ho bevuto del Borgogna, ma non con lei.»

«È un peccato che non l'abbia fatto. A quest'ora sarebbe ancora viva.»

«Non è affatto detto. Avrei potuto comunque andarmene mentre si stava cambiando per andare alla spiaggia. E se con lei stasera c'era qualcuno, probabilmente è proprio ciò che è accaduto.» Dalgliesh si interruppe, chiedendosi se era il caso di continuare, poi riprese: «Il bicchiere di sinistra ha una piccola incrinatura sul bordo».

Rickards lo sollevò verso la lampada centrale e lo girò lentamente fra le dita. «Vorrei avere una vista acuta come la sua. Ma non credo significhi molto.»

«Certe persone non sopportano di bere da un bicchiere incrinato. Anch'io sono così.»

«In questo caso, perché la Robarts non l'ha rotto e non l'ha buttato via? Inutile tenere un bicchiere se sai di non usarlo. Di solito, quando mi trovo di fronte a due alternative, comincio dalla più plausibile. Due bicchieri, due persone che hanno bevuto. È la spiegazione più sensata.»

E infatti era quella la base di gran parte delle speculazioni e del lavoro della polizia, pensò Dalgliesh. Solo quando l'ovvio diventava insostenibile si degnavano di esplorare l'improbabile. Ma poteva anche essere il primo passo troppo facile di un labirinto di convenzioni errate. Si chiese per quale motivo l'istinto gli suggerisse che Hilary Robarts aveva bevuto da sola. Forse perché la bottiglia era in cucina invece che in salotto. Era uno Château Talbot del '79, un vino piuttosto importante. Perché allora non portarlo in salotto e fargli onore in tutta comodità? D'altra parte, se era sola e avesse voluto semplicemente berne un sorso prima di andare a nuotare non si sarebbe presa tanto disturbo. E se due persone avevano bevuto in cucina, era stata fin troppo meticolosa nel rimettere a posto le sedie. Ma, a sembrargli veramente decisivo, era il livello del vino: perché stappare una bottiglia per versarne soltanto due mezzi bicchieri? Questo, naturalmente, non escludeva che Hilary Robarts aspettasse qualche ospite, qualcuno che più tardi avrebbe bevuto insieme a lei.

Rickards, impegnato a esaminare bottiglia ed etichetta con un interesse quasi esagerato, all'improvviso chiese in tono brusco: «A che ora ha lasciato il mulino, signor Dalgliesh?».

«Alle nove e un quarto. Ho controllato con la piccola pendola sul camino e il mio orologio.»

«Ha visto nessuno, durante la passeggiata?»

«Nessuno, e non ho nemmeno notato impronte, a parte le mie e quelle della Robarts.»

«Che cosa ci faceva sul promontorio, signor Dalgliesh?»

«Passeggiavo. Pensavo.» Stava per aggiungere "E sguazzavo con i piedi in acqua, come un ragazzino", ma si trattenne.

«Passeggiava e pensava» ripeté in tono assorto Rickards.

All'orecchio ipersensibile di Dalgliesh, il fare perplesso del collega serviva soltanto a fargli apparire eccentriche e sospette le due attività appena dichiarate. Si chiese cosa avrebbe detto se si fosse deciso a confidarsi: "Pensavo a mia zia, e agli uomini che l'avevano amata, al fidanzato morto in guerra nel 1918 e all'uomo del quale forse era stata l'amante. Pensavo alle migliaia di persone che hanno camminato lungo questa spiaggia e che adesso non ci sono più, inclusa la zia, e pensavo che da bambino detestavo il falso romanticismo di quella stupida poesia sui grandi uomini che lasciano le loro impronte sulla sabbia del tempo, poiché in sostanza è ciò che tutti possiamo sperare di lasciare: segni transitori destinati a essere cancellati dalla marea. Pensavo che non conoscevo bene mia zia, e mi chiedevo se è mai possibile arrivare a conoscere un altro essere umano se non superficialmente, comprese le donne che ho amato. Pensavo alla scontro di armate ignare, nella notte, perché nessun poeta può passeggiare in riva al mare sotto il chiaro di luna senza recitare in silenzio gli incantevoli versi di Matthew Arnold. E mi domandavo se sarei mai stato un poeta migliore, anzi, se sarei mai diventato un poeta, nell'eventualità che non avessi deciso di fare il poliziotto. Più precisamente, ogni tanto mi chiedevo se la mia vita sarebbe cambiata in meglio o in peggio dopo aver immeritatamente acquisito settecentocinquantamila sterline".

Il fatto di non essere disposto a rivelare neppure il più superficiale di quei segreti gli ispirava un irrazionale senso di colpa, quasi stesse volutamente nascondendo informazioni preziose. Dopotutto, si disse, nessun uomo avrebbe mai potuto svolgere un'attività più innocente della sua: non potevano sospettarlo. Probabilmente l'idea sarebbe parsa troppo ridicola a Rickards, anche se secondo la logica doveva ammettere che non si poteva escludere dalle indagini nessun abitatore fisso o occasionale del promontorio, nessuno che avesse conosciuto Hilary Robarts, e dunque nemmeno un funzionario di polizia. Ma Dalgliesh era un testimone. Aveva informazioni che poteva condividere o tenere per sé, e la consapevolezza di non aver nessuna intenzione di nasconderle non alterava il dato di fatto che in quel momento fra lui e il collega il rapporto non si basasse solo sulla collaborazione professionale. Dalgliesh era rimasto coinvolto nell'omicidio, che la cosa gli piacesse o no, e non aveva certo bisogno che a rivelargli quella scomoda realtà fosse proprio Rickards. Professionalmente, non era affar suo, ma lo era in quanto uomo ed essere umano.

Rimase sorpreso e leggermente sconcertato nello scoprire che quell'interrogatorio, per quanto blando, gli aveva ispirato un certo risentimento. Un uomo aveva tutto il diritto di passeggiare sulla spiaggia di notte senza essere tenuto a spiegarne le ragioni alla polizia. Personalmente, l'esperienza di quella violazione della privacy era salutare: gli permetteva di comprendere meglio l'indignazione provata dai sospettati innocenti di fronte alle domande degli agenti. E ancora una volta si accorse di quanto lo irritava sentirsi oggetto di un terzo grado. Era sempre stato così, fin dall'infanzia. «Cosa fai? Dove sei stato? Dove vai?» Era stato l'unico e desideratissimo figlio di due genitori anziani, oppresso da premure ossessive ed eccessivi scrupoli poiché in paese ogni singolo gesto del figlio del rettore non poteva certo sfuggire all'attenzione generale. E all'improvviso, lì, in quella cucina anonima e troppo ordinata, ricordò con una fitta di sofferenza la volta in cui era stata violata la sua privacy più preziosa. Ricordò l'angolo riparato, fra gli allori e i sambuchi, il verde tunnel di fronde intrecciate che conduceva ai suoi tre metri quadrati di rifugio umido e ammuffito: ricordò quel pomeriggio d'agosto, lo scricchiolio dei rami, la faccia tonda della cuoca che si sporgeva tra le foglie: «Tua madre immaginava che fossi qui, Adam. Il rettore ti cerca. Cosa ci fai, nascosto fra i cespugli? Non è meglio giocare al sole?». Dunque, l'ultimo rifugio, quel rifugio che credeva completamente segreto, era stato scoperto. Anzi, i suoi genitori ne avevano sempre conosciuto l'esistenza.

«Signore, conserva la mia intimità, te ne prego» disse.

Rickards lo guardò. «Come ha detto, signor Dalgliesh?»

«Niente, mi era venuta in mente una citazione.»

Rickards non rispose. Probabilmente stava pensando: "Be', sei un poeta, ne hai il diritto". Lanciò un ultimo sguardo sulla cucina, quasi potesse costringere il tavolo, le quattro sedie, la bottiglia stappata e i due bicchieri lavati a rivelare il loro segreto.

«Chiuderò a chiave e lascerò fuori di guardia un agente, almeno fino a domani. Devo parlare con il patologo, il dottor Maitland-Brown, a Easthaven. Darà un'occhiata al Fischiatore, poi verrà subito qui. Nel frattempo, dovrebbe già essere arrivato il biologo dal laboratorio. Ma non voleva vederlo anche lei, il Fischiatore, signor Dalgliesh? Direi che questo è il momento più adatto.»

In realtà, a Dalgliesh sembrava il momento meno adatto: una morte violenta era già abbastanza per una notte. Improvvisamente provò una nostalgia intensa per la pace e la solitudine del mulino. Ma era chiaro che prima del mattino non sarebbe riuscito a infilarsi sotto le coperte, dunque fare il difficile non aveva alcun senso. «Posso portarla io, in macchina. La riaccompagnerò a casa.»

Al pensiero di un viaggio fianco a fianco con Rickards, Dalgliesh si sentì rivoltare lo stomaco. «Se mi lascia al mulino, prenderò la mia auto. Non ho alcun motivo di trattenermi a Easthaven, una volta visto il Fischiatore, mentre può benissimo darsi che lei debba trattenersi più a lungo.»

Era un po' strano che Rickards fosse tanto pronto ad andarsene da lì, dalla spiaggia, dalla scena del delitto. Certo, aveva Oliphant e gli altri: le procedure da rispettare sul teatro di un omicidio erano consolidate e gli uomini erano indubbiamente in grado di pensarci da soli. Inoltre, fino all'arrivo del medico legale non si poteva rimuovere il corpo. Tuttavia, Dalgliesh intuiva che per Rickards era importante vedere il Fischiatore in sua presenza, e si chiese quale remoto episodio del loro passato comune poteva aver sortito come risultato quell'improvviso e ostinato bisogno.

 

23

 

Il Balmoral Private Hotel era l'ultimo edificio di una strada ottocentesca tutt'altro che di rilievo, all'estremità meno alla moda della lunga passeggiata. Le luci utilizzate durante il periodo estivo erano ancora appese fra i lampioni vittoriani, ma erano spente e penzolavano come una collana sciupata che al primo alito di vento avrebbe perso le proprie perline annerite dal tempo. La stagione si era ufficialmente conclusa. Dalgliesh parcheggiò dietro una Rover della polizia, sul lato sinistro della passeggiata. Fra la strada e il mare scintillante c'era un campo giochi per bambini, cintato da una rete metallica e con il cancello chiuso da un lucchetto, un chiosco con gli sportelli abbassati e incrostati di locandine sbiadite e mezzo strappate, di manifesti di gelati dalla forma bizzarra e dal disegno di una testa di clown. Le altalene erano state bloccate da fermi di sicurezza, ma uno dei seggiolini metallici, spinto dal vento, batteva ritmicamente contro un sostegno di ferro. Sullo sfondo di case scialbe, l'albergo spiccava di un azzurro che nemmeno le luci fioche dei lampioni riuscivano a smorzare. La lampada del portico illuminava un cartello: "Nuova gestione. Bill e Joe Carter vi danno il benvenuto a Balmoral". E un'altra insegna, più sotto, annunciava semplicemente: "Stanze libere".

Mentre attendevano di attraversare la strada per lasciar passare due macchine alla ricerca di un posteggio, Rickards disse: «È la loro prima stagione. Finora gli era andata bene, dicono, nonostante la brutta estate. Questa storia sarà un duro colpo; cominceranno ad arrivare i cacciatori di sensazioni morbose, ma i genitori ci penseranno due volte prima di portare qui i loro figli per una lieta vacanza familiare. Fortunatamente in questo periodo dell'anno non c'è molta gente. Stamattina hanno avuto due disdette, quindi restano solo tre coppie e quando il signor Carter ha trovato il cadavere erano fuori. Per adesso siamo riusciti a tenerli all'oscuro di tutto: adesso sono a letto, probabilmente dormono. Speriamo che continuino a farlo».

Il precedente arrivo della polizia doveva aver messo sull'avviso qualcuno degli abitanti del posto, ma l'agente in borghese di guardia sotto il portico aveva allontanato i curiosi, e adesso, una cinquantina di metri più avanti sulla strada, in direzione del mare, sostava soltanto un gruppetto di cinque o sei persone. Sembravano parlottare fra loro, e quando Dalgliesh prese a fissarli con insistenza, cominciarono a muoversi senza meta, quasi fosse la brezza a scuoterli in quel modo.

«Perché proprio qui, santo Dio?»

«Sappiamo perché, ci sono molte cose che ignoriamo ma sappiamo perché proprio qui. Ci lavora part-time un barista, un certo Albert Upcraft, sessantacinque anni a dir poco. Un tipo che ha buona memoria; magari non ricorda esattamente quel che è successo ieri, ma ha le idee molto chiare per quanto riguarda il passato remoto. Il Fischiatore, sembra, veniva qui da bambino. La zia, la sorella del padre, era la gerente dell'albergo vent'anni fa. Quando non c'erano molti clienti, lo invitava per una vacanza gratis e lo toglieva di torno alla madre. Accadeva soprattutto quando la madre aveva un nuovo accompagnatore, e questi non voleva bambini fra i piedi. A volte se ne stava qui per intere settimane. Non dava fastidio a nessuno. Dava una mano con il servizio, prendeva qualche mancia, frequentava persino la scuola domenicale.»

«Ora il giorno è finito» disse Dalgliesh.

«Be', il suo è finito davvero. È arrivato questo pomeriggio, alle due e mezzo. Sembra che abbia chiesto proprio quella stanza: una singola sul retro, quella che costa di meno. I Carter dovrebbero ringraziarlo, avrebbe potuto anche decidere di andarsene in grande stile nella doppia con bagno privato, vista sul mare e annessi e connessi.»

L'agente sulla porta li salutò. Entrarono nella hall, dove all'odore di vernice e lucido per mobili si mescolava quello di un disinfettante alla lavanda. Regnava una forma di pulizia quasi opprimente: la moquette a disegni floreali era coperta da una stretta banda di perspex, mentre la carta da parati era chiaramente nuova, ma ogni muro aveva un motivo diverso, e attraverso la porta spalancata della sala da pranzo si scorgevano i tavoli apparecchiati per quattro con le candide tovaglie e i vasetti di fiori artificiali: narcisi, asfodeli, rose. I due tizi che arrivarono ad accoglierli sbucando dal retro erano tirati a pomice come il resto dell'albergo. Bill Carter era un ometto azzimato che sembrava appena uscito dalle mani di una stiratrice, con le maniche della camicia bianca e i pantaloni solcati da pieghe impeccabili, e la cravatta annodata con estrema cura. La moglie indossava un abito estivo di un tessuto sintetico fiorato e un golfino bianco. Si vedeva che aveva pianto. La faccia tonda e piuttosto infantile, incorniciata dai capelli biondi e ben pettinati, era gonfia e arrossata. La delusione che mostrò nel vederli fu davvero patetica.

«Credevo foste venuti per portarlo via» disse. «Perché non potete ancora farlo?»

Senza preoccuparsi di presentare Dalgliesh, Rickards rispose in tono gentile: «Lo porteremo via, signora Carter, non tema. Ma prima deve vederlo il patologo. Non dovrebbe tardare molto».

«Il patologo? È un dottore, vero? Perché vuole un dottore? È morto, no? L'ha trovato Bill. Ha la gola tagliata, più morto di così...»

«Non resterà qui ancora per molto, glielo assicuro, signora Carter.»

«Bill dice che il lenzuolo è coperto di sangue, non ha voluto che entrassi. Ma io non ci tengo a vedere. E la moquette... rovinata. Le macchie di sangue non vengono più via, lo sanno tutti. Chi pagherà la moquette e il letto? Oh, e io che credevo che finalmente le cose cominciassero a funzionare... Perché è tornato per farlo proprio qui? Non è stato un gesto riguardoso, no, davvero.»

«Purtroppo non era un uomo eccessivamente riguardoso, signora Carter.»

Il marito le cinse le spalle con un braccio e la condusse via. Dopo mezzo minuto era di ritorno. «È lo shock, naturalmente. È sconvolta. Del resto, chi non lo sarebbe? Conosce la strada per andare di sopra, signor Rickards. Il suo agente è ancora lassù. Se non le dispiace, questa volta preferirei non salire.»

«D'accordo, signor Carter, conosco la strada.»

All'improvviso, Certer tornò a voltarsi e disse: «Lo porti via in fretta, signore, per l'amor di Dio!».

Per un attimo Dalgliesh ebbe l'impressione che anche lui stesse piangendo.

Non c'era ascensore. Dalgliesh seguì Rickards su per tre piani di scale, lungo uno stretto corridoio che portava sul retro e svoltava a destra ad angolo retto. Un giovane agente si alzò dalla sedia piazzata di fronte alla porta, aprì e si fece da parte. L'odore parve uscire in una violenta folata, un intenso effluvio di morte e di sangue.

La luce era accesa. La modesta lampada dal paralume rosa brillava sull'orrore disteso sul letto. Era una stanza molto piccola, con un'unica finestra che si apriva sul cielo e spazio appena sufficiente per un letto da una piazza, una sedia, un comodino e una cassettiera con specchio. Anche quella camera era di un lindore ossessivo, e ciò serviva a far apparire ancora più orribile l'immondo spettacolo. La gola squarciata, con i vasi sanguigni bianchi e raggrinziti, e la bocca spalancata sembravano atteggiate in un'indignata protesta per quella violazione d'ordine e decenza. Non si vedevano altre ferite, e quell'unico attacco di violenza suicida, pensò Dalgliesh, aveva certo richiesto una forza superiore a quella di cui sembrava capace la mano infantile dalle dita ricurve che giaceva posata sul lenzuolo, contratta in un guscio di sangue coagulato ormai quasi nero. Il coltello, quindici centimetri d'acciaio insanguinato, era lì accanto. Per qualche misteriosa ragione, prima di suicidarsi l'uomo si era svestito e ora indossava soltanto una canottiera, un paio di mutande e calzini corti di nylon, bluastri come un'inizio di putrefazione. Sulla sedia, di fianco al letto, era ripiegato un gessato grigio scuro, e alla spalliera stava appesa una camicia a righe azzurre, con appoggiata sopra la cravatta. Sotto la sedia le scarpe, consumate ma lucidissime. Sembravano abbastanza piccole per andar bene anche a una donna.

«Neville Potter, anni trentasei. Accidenti a lui. Difficile credere che avesse nelle braccia la forza per strozzare un pollo. Voleva incontrare il Creatore indossando l'abito della domenica, ma evidentemente ha cambiato idea. Forse gli è venuto in mente che a sua madre non sarebbe piaciuto che avesse insanguinato il vestito buono. Eh, dovrebbe conoscere quella donna, signor Dalgliesh. Sarebbe molto istruttivo. Una donna così basta per spiegare molte cose. Ma lui ci ha lasciato le prove. Sono qui, a nostra disposizione. Meticoloso, no?»

Dalgliesh girò intorno al letto, evitando di mettere i piedi sul sangue. Sul cassettone c'erano le armi e i trofei del Fischiatore: un guinzaglio arrotolato, una parrucca bionda e un berretto blu, un coltello a serramanico, una lampada a batteria ingegnosamente fissata al centro di una fascia di metallo da fissare intorno alla fronte. E poi, una piramide di peli aggrovigliati: biondi, bruni, rossi. E un foglio strappato da un notes, con un messaggio in stampatello scritto con la biro: "STA PEGGIORANDO, È L'UNICO MODO PER FERMARMI, PER FAVORE, ABBIATE CURA DI PONGO". Il "per favore" era sottolineato.

«Il suo cane. Pongo, santo Dio!» sbottò Rickards.

«Come pensava che si chiamasse? Cerbero?»

Rickards aprì la porta e si fermò, respirando profondamente, avido di aria pura. «Lui e la madre vivevano in un camping per roulotte dalle parti di Cromer. Da dodici anni. Era una specie di tuttofare: provvedeva alle riparazioni più semplici, teneva d'occhio il campeggio la notte e si occupava dei reclami. Il proprietario ne ha un altro vicino a Yarmouth, e Potter ci andava qualche volta, per dare il cambio al guardiano fisso. Un tipo solitario. Aveva un furgone e un cane. Aveva sposato una ragazza conosciuta anni fa sul posto, ma il matrimonio durò appena quattro mesi. Lei lo piantò. Forse a farla scappare furono la madre o il puzzo della roulotte. Dio sa come avesse potuto resistere per quei quattro mesi.»

«Era evidentemente una persona sospetta: avreste dovuto controllarlo prima.»

«La madre gli aveva fornito un alibi per due dei delitti. O era ubriaca e in realtà non sapeva se lui era lì o meno, oppure cercava deliberatamente di proteggerlo. Può anche darsi che non le importasse nulla» rispose Rickards con uno scatto irritato. «Certo pensavo avessimo imparato a non accettare quel genere di alibi a occhi chiusi. Voglio fare due chiacchiere con l'agente che ha parlato con loro, ma sa com'è... migliaia di controlli, colloqui, dati passati al computer. Se fosse per me, darei una dozzina di computer per un detective capace di intuire quando un testimone sta mentendo. Mio Dio, proprio non abbiamo imparato nulla dalla lezione dello Squartatore dello Yorkshire?»

«I suoi agenti hanno perquisito il furgone?»

«Oh, certo che sì, fin lì ci arrivano ancora. Ma non hanno trovato niente. Potter nascondeva altrove il suo bottino. Probabilmente andava a riprendere le sue cose ogni sera, spiava, osservava e sceglieva il momento opportuno.» Rickards guardò il guinzaglio. «Ingegnoso, no? Come dice anche la sua mamma, se l'era sempre saputa cavare, con le mani.»

Il piccolo rettangolo di cielo davanti alla finestra era di un blu quasi nero, con un'unica stella. Da quando si era svegliato immerso nel profumo di mare e di autunno, quel mattino, Dalgliesh aveva l'impressione di avere provato troppe emozioni; la giornata aveva incluso una calma e meditabonda visita sotto la volta di St. Peter Mancroft, un doloroso attacco di nostaglia indotto dai ricordi sbiaditi di uomini che non erano più, il fanciullesco piacere di sentirsi i piedi lambiti dalla spuma, e lo shock di quando aveva puntato la torcia elettrica sul volto di Hilary Robarts. Una giornata che era parsa prolungarsi interminabilmente fino ad abbracciare tutte le stagioni della vita e a dilatare il tempo. Il tempo, che per il Fischiatore si era arrestato in un fiotto di sangue. E adesso, al termine della giornata, era entrato in quella stanza che imponeva alla sua mente come un ricordo l'immagine di un ragazzetto magro, steso supino sullo stesso letto e intento a guardare la stessa stella attraverso la finestra, mentre, sul cassettone, erano disposti in ordine i trofei della giornata: le mance in monete da un penny, le conchiglie e i sassolini colorati raccolti sulla spiaggia, la striscia secca e pustolosa di un'alga.

E lui era lì perché Rickards l'aveva voluto, aveva voluto portarlo proprio in quella stanza e proprio in quel momento. Avrebbe potuto tranquillamente vedere il corpo del Fischiatore l'indomani, all'obitorio. Oppure, dato che non poteva dire di non averne il coraggio, sul tavolo dell'autopsia, per confermare ciò che peraltro non aveva nessun bisogno di conferma: quell'esile assassino non aveva nulla a che fare con lo strangolatore di Battersea, che secondo l'unico testimone era alto più di un metro e ottanta. Ma Rickards aveva avuto bisogno di pubblico, aveva avuto bisogno di Dalgliesh per scagliare contro la sua esperta e incrollabile calma tutte le amarezze e le frustrazioni di quel fallimento. Cinque donne assassinate, e l'omicida era un individuo sospettato già interrogato e scagionato all'inizio delle indagini. L'odore di quel fallimento avrebbe continuato ad aleggiargli sotto le narici molto tempo dopo che l'interesse dei media e le inchieste ufficiali avessero esaurito il loro corso. E adesso c'era la sesta morte, quella di Hilary Robarts, che forse non sarebbe morta e di sicuro non in quel modo se il Fischiatore fosse stato fermato prima. Ma Dalgliesh intuiva che ad alimentare la collera e gli scatti di brutalità verbale di Rickards era qualcosa di più personale dell'insuccesso; si chiese se non avesse per caso a che fare con la moglie e il nascituro. «Che ne sarà del cane?»

Rickards non parve notare l'assurdità della domanda. «Chi lo sa? Chi vorrà prendersi un animale che è stato dove è stato e ha visto quel che ha visto?» Abbassò gli occhi sul cadavere ormai irrigidito, poi si voltò verso Dalgliesh e disse bruscamente: «Immagino le faccia pena».

Dalgliesh non rispose. Avrebbe potuto dire "Sì, mi fa pena. Lui e le sue vittime. E anche lei mi fa pena. E anche io, ogni tanto". E pensò: ieri stavo leggendo Anatomia della malinconia. Strano. Robert Burton, quel rettore vissuto nel Leicestershire nel diciassettesimo secolo, aveva detto tutto quanto era possibile esprimere in un momento simile, e le sue parole gli tornarono alla mente come se le avesse pronunciate a voce alta: "Possiamo disporre dei loro corpi e dei loro beni, ma solo Dio può dire che ne sarà delle loro anime; la Sua misericordia può venire inter pontem et fontem, inter gladium et jugulum, tra il ponte e la sorgente, tra il coltello e la gola".

Rickards ebbe un sussulto, come se fosse colto da un improvviso brivido di freddo. Poi disse: «Almeno ha risparmiato al paese la spesa di mantenerlo per i prossimi vent'anni. Una delle ragioni addotte in favore dell'idea di tenere in vita quelli come lui invece di eliminarli è che possiamo imparare da loro e impedire che certe cose si ripetano. Ma possiamo farlo realmente? Abbiamo preso Stafford, Brady, Nielson. Quanto abbiamo imparato da loro?».

«Non vorrebbe impiccare un pazzo, spero» disse Dalgliesh.

«Non vorrei impiccare nessuno. Cercherei un metodo meno barbaro. Ma in fondo non sono pazzi, o almeno non finché non vengono presi. Fino a quel momento, se la cavano come la maggior parte della gente, poi scopriamo che sono mostri e, sorpresa sorpresa, decidiamo di classificarli pazzi. Questo ce li fa capire, ce li fa apparire comprensibili, accettabili, senza che sia più necessario considerarli umani. Non dobbiamo più usare la parola "male", e tutti si sentono meglio. Vuole vedere la madre, signor Dalgliesh?»

«Non ce n'è bisogno. Evidentemente non è il nostro uomo. Non ho pensato neppure per un momento che lo fosse.»

«Ma dovrebbe incontrarla, sa? Una vera carogna. E sa come si chiama? Lillian. L come Lillian. Sarà interessante, per lo psicologo. È stata lei a farlo diventare così, ma purtroppo non ci è dato di controllare il nostro prossimo per poi decidere chi è adatto a mettere al mondo dei figli e chi no. Immagino che quando nacque, questa Lillian dovesse provare qualcosa nei suoi confronti, dovesse almeno nutrire qualche speranza. Non poteva sapere cosa aveva messo al mondo. Lei non ha mai avuto figli, vero, signor Dalgliesh?»

«Sì, uno: è morto quasi subito.»

Rickards spinse la porta con un piede e distolse lo sguardo. «L'avevo dimenticato, mi scusi.»

Un passo deciso stava salendo le scale. Lo udirono mentre era ancora in corridoio. «Forse è arrivato il patologo» disse Dalgliesh.

Rickards non rispose. Si era avvicinato alla cassettiera, e con la punta dell'indice stava spostando il groviglio di peli sul piano di legno lucido. «C'è un campione che qui non troveremo: quello di Hilary Robarts. La scientifica controllerà per maggiore sicurezza, naturalmente, ma non ci sarà. E adesso devo cominciare a cercare un nuovo assassino. Ma Per Dio, signor Dalgliesh, questa volta lo prenderemo.»

 

24

 

Tre quarti d'ora più tardi, Rickards era di nuovo sulla scena del delitto. Sembrava aver ormai superato la fase di stanchezza e si muoveva in una dimensione spazio-temporale diversa, in cui la sua mente funzionava con innaturale chiarezza e il suo corpo era quasi totalmente privo di peso. Si sentiva una creatura della luce e dell'aria, immateriale come la scena bizzarra in cui era costretto a spostarsi, a controllare, a impartire ordini. Il disco pallido e trasparente della luna illuminava i contorni degli alberi, degli uomini e delle attrezzature scientifiche, donando loro una consistenza quasi solida e privandoli al contempo di forma ed essenza, tanto da farli apparire velati e rischiarati all'interno di involucri alieni. E, al di là delle voci maschili, gemevano lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia, lo sbattere improvviso di un telo in un soffio di brezza, il risucchio continuo della marea.

Il dottor Anthony Maitland-Brown era arrivato da Easthaven a bordo della sua Mercedes, ed era arrivato per primo. Aveva già indossato camice e maschera e stava chino di fianco al cadavere, quando Rickards lo raggiunse. Lo lasciò proseguire indisturbato. M-B detestava essere osservato mentre effettuava gli esami preliminari sulla scena del delitto, e, se qualcuno gli si avvicinava a meno di tre metri, era capace di protestare con uno stizzito: «C'è veramente bisogno di tutta questa gente intorno?». Tutta questa gente erano in genere il fotografo autorizzato della polizia, gli investigatori e il biologo, non certo passanti animati da una curiosità morbosa. Era un uomo elegante e di bell'aspetto, alto poco meno di un metro e novanta; correva voce che in gioventù qualcuno gli avesse detto che somigliava a Leslie Howard e che in seguito, per anni, si fosse sforzato di coltivare quell'immagine. Aveva alle spalle un divorzio amichevole, era piuttosto benestante perché la madre gli aveva lasciato una rendita privata e poteva dunque soddisfare senza problemi la sua passione per l'abbigliamento e l'opera. Nel tempo libero accompagnava attricette giovani e carine al Covent Garden e a Glyndebourne, dove le poverette sopportavano tre ore di noia in cambio del prestigio della sua compagnia e del brivido causato forse dal pensiero che le mani eleganti che mescevano vino e le aiutavano a scendere dalla Mercedes erano abitualmente impegnate in attività ben più bizzarre. Rickards non l'aveva mai trovato un collega facile, ma gli riconosceva la reputazione di patologo legale di prim'ordine, e Dio sapeva quanto fossero rari. Quando leggeva i referti lucidi e approfonditi delle sue autopsie, riusciva a perdonargli addirittura l'odore ripugnante del suo dopobarba.

Si allontanò dal cadavere per andare a ricevere i nuovi arrivati: il fotografo, il cameraman e il biologo. La spiaggia era stata recintata con cordoni di plastica per un tratto di cinquanta metri sul lato del luogo del delitto, e fogli di plastica erano stati stesi sul sentiero illuminato da una fila di lampade. Il sergente lo raggiunse con l'aria di chi stenta a trattenere l'eccitazione.

«Abbiamo trovato un'impronta, signore» gli comunicò subito Stuart Oliphant. «A una quarantina di metri nel bosco, signore.»

«Sull'erba, fra gli aghi di pino?»

«No, signore. Sulla sabbia. Qualcuno, forse un bambino, deve averne rovesciata un pò da un secchiello.»

Rickards lo seguì nella pineta. L'intero sentiero era stato protetto, ma in un punto sulla destra un'asticella era stata piantata nel terreno soffice. Il sergente Oliphant scostò la plastica e sollevò la cassetta che ricopriva l'orma. Nel chiarore delle lampade, spiccava nettamente: un velo di sabbia umida sugli aghi di pino e sull'erba schiacciata che copriva una superficie non superiore ai quindici centimetri per dieci e su cui era stampata l'impronta della suola di una scarpa destra.

Oliphant disse: «L'abbiamo trovata poco dopo che lei se n'era andato, signore. È una sola, ma mi sembra piuttosto nitida. Sono già state scattate le foto e le misure saranno in laboratorio in mattinata. Si direbbe una scarpa del quarantaquattro. Presto ne avremo la conferma, ma direi che non è quasi necessaria. È una scarpa da ginnastica, signore. Una Bumble. La conosce, vero? Con la sagoma di un'ape in corrispondenza del tacco. E anche sulla suola c'è il profilo di un'ape. Vede la curva dell'ala, qui? È inconfondibile».

Una scarpa da ginnastica Bumble: difficile trovare qualcosa di più riconoscibile. Oliphant continuò: «È abbastanza comune, ma non poi così tanto. Le Bumble sono la marca più cara sul mercato: le Porsche delle scarpe da ginnastica. Piacciono ai giovani ricchi. Il nome è ridicolo, ma uno dei comproprietari si chiama così. Sono in giro da un paio d'anni, non di più, ma la pubblicità è davvero incalzante».

«L'orma si direbbe piuttosto recente» osservò Rickards. «Quando è piovuto l'ultima volta? Sabato sera sul tardi, se non sbaglio.»

«Esatto, verso le undici, signore. Ha smesso prima di mezzanotte, ma è stato un bell'acquazzone.»

«E in questo tratto del sentiero non ci sono alberi. È un'impronta perfetta. Se fosse stata lasciata prima della mezzanotte di sabato sarebbe quantomeno deformata. È interessante che ce ne sia soltanto una e che sia rivolta in direzione opposta al mare. Se qualcuno con un paio di Bumble è passato dal sentiero di domenica, dovrebbe esserci qualche altra impronta dello stesso tipo nella parte alta della spiaggia.»

«Non è detto, signore. In certi punti la fascia di ghiaia arriva fin quasi al sentiero. Se fosse rimasto sulla ghiaia, non troveremmo impronte. Ma se l'orma è stata lasciata di domenica, prima che la vittima morisse, ci sarebbe ancora? Anche lei dev'essere passata di qui.»

«Certo, ma non è scontato che l'abbia calpestata. È molto sulla destra del sentiero. Però ha qualcosa di strano: troppo chiara, troppo caratteristica, troppo opportuna. Sembra quasi che sia stata lasciata di proposito per ingannare la polizia...»

«Nel negozio di articoli sportivi di Blakeney vendono le Bumble, signore. Se vuole posso mandare qualcuno a comprarne un paio del quarantaquattro appena aprono.»

«Mandi qualcuno in borghese e gli dica di comprarle senza qualificarsi. Ho bisogno di avere la conferma prima di cominciare a chiedere al vicinato di farci vedere cos'hanno nelle scarpiere. Avremo a che fare con sospettati molto intelligenti, e non voglio pasticci poprio all'inizio del caso.»

«Meglio non perder tempo, signore. Mio fratello ne ha un paio: il motivo sulla suola è inconfondibile.»

Ma Rickards non intendeva rinunciare. «Voglio la conferma, e al più presto.»

Oliphant rimise a posto la cassetta e il foglio di plastica e seguì il suo superiore fino alla spiaggia. Rickards percepiva il peso quasi fisico del risentimento, dell'antagonismo e del vago disprezzo che sembravano irradiarsi dal sergente, ma non poteva liberarsene. Oliphant aveva fatto parte della squadra delle indagini sul Fischiatore e, anche se questo era un caso diverso, sarebbe stato difficile sostituirlo senza causare problemi personali o logistici che era senz'altro meglio evitare. Durante i quindici mesi di caccia al Fischiatore, la blanda antipatia provata nei confronti del sergente era cresciuta in modo irragionevole, nonostante gli sforzi che si era imposto per contenerla, negli interessi sia dell'indagine, sia del proprio benessere. Una serie di assassinii a catena rappresentava una faccenda di per sé già abbastanza grave per non aggiungervi complicazioni di ordine personale.

Non aveva alcuna prova del fatto che Oliphant fosse un maledetto bullo: semplicemente era il suo aspetto a parlare per lui. Un metro e ottantacinque di muscoli ben disciplinati, capelli bruni, volto bello e carnoso, labbra sensuali e occhi duri, più un mento solido segnato da una profonda fossetta al centro. Rickards stentava a distogliere lo sguardo da quell'ultimo particolare: la sua ingiustificata ripugnanza l'aveva elevato al livello di deformità. Oliphant beveva troppo, ma per un poliziotto si trattava di un vizio quasi professionale, e il fatto che Rickards non fosse mai riuscito a beccarlo in stato di ubriachezza aggravava la sua colpa. Non poteva credere che un uomo fosse in grado di ingurgitare tanto alcol continuando a reggersi saldamente in piedi.

Nel comportamento verso i propri superiori, era assolutamente impeccabile: rispettoso ma non servile, e Rickards aveva la costante sensazione di non essere mai all'altezza delle sue aspettative. Fra i condannati meno sensibili in libertà condizionata, era abbastanza popolare; gli altri gli stavano saggiamente alla larga. Rickards andava ripetendosi che, se mai si fosse trovato in qualche guaio, Oliphant era l'ultimo poliziotto al mondo con cui avrebbe voluto avere a che fare. Con ogni probabilità, Oliphant l'avrebbe considerato un complimento. E da parte del pubblico non si erano mai registrati reclami a suo carico, un ulteriore e irrazionale motivo di antipatia e sospetto per Rickards. Aveva la netta impressione che, quando vi erano in gioco i suoi interessi, quell'uomo era sufficientemente subdolo da agire in senso contrario alla propria natura. Non era sposato ma, anche senza vantarsene volgarmente, riusciva a dare l'impressione che le donne lo trovassero irresistibile. Forse per molte era così, ma almeno lasciava in pace le mogli dei colleghi. Tutto sommato, possedeva gran parte delle qualità che Rickards aveva maggiormente in odio in un giovane detective: aggressività controllata solo per motivi di prudenza, un franco amore per il potere, troppa sicurezza sessuale e un'opinione eccessivamente alta delle proprie capacità. Ma non erano affatto capacità trascurabili. Oliphant avrebbe potuto come minimo diventare ispettore capo, e forse salire anche più in alto, e Rickards non se l'era mai sentita di chiamarlo con il suo soprannome: Jumbo. Anziché irritarsi per quel nomignolo puerile, Oliphant sembrava piacevolmente divertito e lo tollerava molto di buon grado, soprattutto da parte di colleghi che aveva ufficialmente autorizzato a usarlo. I mortali meno fortunati, lo usavano una volta sola.

Maitland-Brown era pronto per il rapporto preliminare. Si erse in tutta la sua statura, sfilò i guanti e li gettò a un agente, come un attore che si spoglia di un costume di scena. Non aveva l'abitudine di discutere i risultati del suo esame sul luogo del delitto, ma almeno si degnava di annunciarli.

«Domani eseguirò l'autopsia e le farò pervenire il referto entro mercoledì. Non credo ci saranno sorprese. A un primo esame, la causa della morte appare già abbastanza chiara: strangolamento. Lo strumento era un corpo liscio e largo due centimetri, forse una cintura, una cinghia o il guinzaglio di un cane. Era una donna alta e muscolosa, dunque devono aver usato una certa forza, ma non eccessiva dato il vantaggio della sorpresa. Con ogni probabilità l'assassino era in agguato fra i pini; è uscito e le ha passato la cinghia intorno al collo mentre tornava dalla nuotata. La vittima ha avuto solo il tempo di raccogliere il telo da spiaggia. Ha fatto un paio di movimenti convulsi con i piedi, lo si vede dal segno sull'erba. Direi che, in base a questi primi indizi, la morte è avvenuta fra le otto e mezza e le dieci.»

Maitland-Brown si era pronunciato, ed evidentemente non si aspettava nessuna domanda. E non ce n'era nemmeno bisogno. Tese una mano per prendere la giacca che uno degli agenti si affrettò a porgergli, e se ne andò. Rickards si aspettava quasi che accennasse un inchino.

Abbassò lo sguardo sul cadavere. Ora, con la testa, le mani e i piedi coperti di plastica, sembrava quasi un giocattolo in confezione regalo, un giocattolo per un cliente dai gusti bizzarri e costosi, un manufatto di gomma e capelli sintetici, con occhi di vetro, la simulazione di una donna vera. La voce di Oliphant parve giungere da molto lontano. «L'ispettore Dalgliesh non è tornato con lei, signore?»

«Perché avrebbe dovuto? Questo caso non è di sua competenza. Con ogni probabilità sarà già a letto.»

E vorrei tanto esserci anch'io, pensò. Gli sembrava che il giorno ormai imminente gli pesasse addosso come un fardello fisico: la conferenza stampa sul suicidio del Fischiatore, il capo della polizia, l'addetto stampa, la nuova indagine, le persone sospette da interrogare, i fatti da accertare, l'intera procedura avviata mentre la consapevolezza del precedente fallimento gli opprimeva ancora il petto. E, in un modo o nell'altro, doveva anche trovare il tempo di telefonare a Susie.

«Il signor Dalgliesh è un testimone» proseguì. «Non è qui per dirigere le indagini.»

«È un testimone, ma non un sospettato.»

«Perché no? Vive sul promontorio, conosceva la vittima, sapeva in che modo uccideva il Fischiatore. Forse non sarà un sospetto ai nostri occhi, ma dovrà comunque deporre come tutti gli altri.»

Oliphant lo fissò impassibile, poi disse: «Per lui sarà un'esperienza nuova. Spero che si diverta».

 

LIBRO IV

Lunedì 26 settembre

 

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Anthony la svegliò come faceva di solito, poco dopo le sei e mezzo. Theresa sgombrò la mente dagli strati nebbiosi del sonno, la riportò ai suoni familiari del mattino, al cigolio del letto e agli sbuffi di Anthony che si aggrappava alle sbarre e si sollevava sulle punte dei piedi. Nella stanza regnava il solito odore di talco, latte rancido e pannolini fradici. Cercò a tentoni l'interruttore della lampada, sotto il lurido paralume decorato dalla fila di Bambi, aprì gli occhi, incrociò lo sguardo di Anthony e si vide ricompensata da un grande sorriso tutto gengive, mentre il lettino tremava sotto i salti di gioia del fratello. Aprì adagio la porta della camera delle gemelle e vide che dormivano ancora: Elizabeth raggomitolata in un angolo, Marie supina con un braccio teso all'infuori. Se fosse riuscita a cambiare Anthony e a farlo mangiare prima che si agitasse, avrebbero dormito ancora per mezz'ora, altri trenta minuti di pace per suo padre.

Per amore della mamma, si sarebbe occupata di Marie ed Elizabeth finché avessero avuto bisogno di lei, e l'avrebbe fatto con tutte le sue forze; ma in particolare era affezionata ad Anthony. Per un momento rimase immobile a guardarlo e a godersi quell'attimo di gioia complice e silenziosa. Poi il fratello staccò una mano dalle sbarre, alzò una gamba in una goffa imitazione di un ballerino, cadde sul materasso, si girò sul dorso, si infilò il pugno in bocca e prese a succhiare rumorosamente. Fra poco si sarebbe stancato di quel misero surrogato. Theresa buttò le gambe giù dal letto, attese fino a quando sentì l'energia affluirle dalla testa ai piedi, poi andò al lettino, abbassò la sponda e prese in braccio il fratello. L'avrebbe cambiato da basso, su un giornale aperto sul tavolo della cucina, e poi l'avrebbe sistemato sul seggiolone perché potesse guardarla mentre gli scaldava il latte. Quando Anthony avesse finito di mangiare, le gemelle si sarebbero svegliate e lei sarebbe stata libera di aiutarle a vestirsi e prepararsi per l'arrivo della signora Hunter, incaricata di passarle a prendere per condurle al gruppo di gioco. Poi avrebbe cucinato la colazione per sé e per suo padre, prima che venisse il momento di andare con lui e Anthony all'incrocio dove la attendeva l'autobus della scuola.

Aveva appena spento il gas sotto il pentolino del latte, quando squillò il telefono. Il cuore ebbe un tuffo, poi prese a martellarle ritmicamente nel petto. Sollevò il ricevitore, augurandosi d'essere stata abbastanza svelta da impedire che suo padre si svegliasse. La voce di George Jago era alta, un po' arrochita dall'eccitazione, e aveva un tono cospiratorio. «Theresa? Tuo padre si è già alzato?»

«Non ancora, signor Jago. Sta dormendo.»

Vi fu un silenzio come se Jago riflettesse, poi: «Va bene, non disturbarlo. Quando si sveglia, digli che Hilary Robarts è morta. Ieri sera. Assassinata. L'hanno trovata sulla spiaggia».

«Vuol dire che l'ha uccisa il Fischiatore?»

«Pareva di sì. O almeno così doveva sembrare. Ma non è possibile. Anche il Fischiatore è morto, e lo era già, da tre ore e passa. Come ti ho detto ieri sera, no? Ricordi?»

«Sì, signor Jago, ricordo.»

«È stata una fortuna che ti abbia telefonato ieri sera, eh? Gliel'hai detto, al papà? Gli hai detto del Fischiatore?»

Theresa captò la nota d'ansia nella sua voce. «Sì» rispose. «Gliel'ho detto, sì.»

«Allora è tutto a posto. Riferiscigli della signorina Robarts, e digli di darmi un colpo di telefono. Devo portare una comitiva a Ipswich, ma tornerò verso le dodici. O magari potrei scambiare due parole con lui adesso, se è sveglio.»

«Non è sveglio, signor Jago. Dorme, e io devo dare da mangiare ad Anthony.»

«D'accordo, ma ricorda di dirglielo.»

«Sì, glielo dirò.»

«È proprio una fortuna che ti abbia telefonato ieri sera» insisté Jago. «Tuo padre capirà il perché.»

Theresa posò il ricevitore. Aveva le mani sudate. Le asciugò sulla camicia da notte e tornò al fornello. Ma quando prese il pentolino del latte le mani le tremavano troppo: non ce l'avrebbe mai fatta a versarlo nel collo stretto del biberon. Lo portò al lavello e, con molta attenzione, riuscì a riempirlo per metà. Poi prese Anthony in braccio e sedette sulla seggiolina davanti al camino spento. Il piccolo aprì la bocca, lei inserì la tettarella e restò a guardare mentre il fratellino cominciava la sua vigorosa poppata, gli occhi improvvisamente vacui e fissi su di lei, le manine paffute sollevate con i palmi verso il basso, simile alle zampe di un cucciolo d'animale.

In quel momento udì lo scricchiolio sulla scala e il padre entrò. La mattina non si presentava mai davanti a lei senza aver indossato il vecchio impermeabile a mo' di vestaglia, abbottonandoselo fino al collo. Il viso, sotto i capelli spettinati dal sonno, era cinereo e leggermente gonfio, le labbra di un rosso innaturale.

«Era il telefono?»

«Sì, papà. Il signor Jago.»

«Cosa voleva, a quest'ora?»

«Ha telefonato per dire che Hilary Robarts è morta. Assassinata.»

Suo padre non poteva non aver notato che lei aveva la voce diversa. Le sembrava di avere labbra così aride da apparire deformate. Chinò la testa sul fratellino perché lui non le vedesse. Ma suo padre non la guardò. Girò le spalle e disse: «È stato il Fischiatore? È stato lui a ucciderla, vero? Be', se l'è cercata».

«No, papà, non può essere stato il Fischiatore. Ricordi? Ieri sera il signor Jago ci ha telefonato alle sette e mezza per avvertirci che il Fischiatore era morto, e stamattina mi ha detto che era contento di averci telefonato, che tu sai il perché.»

Suo padre continuò a tacere. Theresa sentì il sibilo dell'acqua che scendeva dal rubinetto nel bollitore e guardò il padre portarlo al tavolo e attaccare la spina, quindi prelevare una tazza dal ripiano. Sentì il cuore batterle forte nel petto, il corpicino caldo di Anthony contro il braccio, la testolina dai morbidi capelli appoggiata sotto il mento. «Cosa intendeva dire il signor Jago, papà?»

«Intendeva dire che chi ha assassinato la Robarts voleva far ricadere la colpa sul Fischiatore, quindi la polizia sospetterà soltanto di tutti quelli che non sapevano che il Fischiatore era morto.»

«Ma tu lo sapevi, papà, perché te l'avevo detto io.»

Suo padre si voltò e disse, senza guardarla: «La tua mamma non approverebbe le bugie».

Ma non era irritato, e non la stava rimproverando. Nella sua voce non c'era nulla, se non un'enorme stanchezza. Sommessamente, Theresa disse: «Ma non è una bugia, papà. Il signor Jago ha telefonato mentre eri alla latrina. E te l'ho detto quando sei tornato».

Poi suo padre si voltò. I loro occhi si incontrarono. Theresa non l'aveva mai visto più disperato e sconfitto. «È vero, me l'hai detto. Ed è quello che racconterai alla polizia quando te lo chiederanno.»

«Certo, papà, dirò quello che è successo. Il signor Jago mi ha detto del Fischiatore e io te l'ho riferito.»

«E ricordi cosa ti ho risposto?»

La tettarella si era appiattita. Theresa la estrasse dalla bocca di Anthony e agitò il biberon per farvi entrare un po' d'aria, e il piccolo emise un lamento irritato che si smorzò solo quando la tettarella tornò fra le sue labbra.

«Mi sembra tu abbia detto che sei contento, che adesso siamo al sicuro...» disse Theresa.

«Sì» disse il padre, «adesso siamo al sicuro.»

«Vuol dire che non dovremo lasciare il cottage?»

«Come minimo, che non dovremo andarcene subito. Dipende.»

«E adesso chi sarà il padrone?»

«Non lo so. La persona alla quale l'avrà lasciato nel testamento, immagino. Forse vorranno venderlo.»

«Potremmo comprarlo noi, papà? Sarebbe molto bello se potessimo comprarlo!»

«Dipende da quanto chiedono. Ma adesso è inutile pensarci. Accontentiamoci di potercene stare tranquilli, per ora.»

«E verrà la polizia?» chiese Theresa.

«Sicuro, è molto probabile.»

«Perché verrà qui, papà?»

«Per vedere se sapevo che il Fischiatore era morto. Per chiederti se sono uscito dal cottage, ieri sera. Molto probabilmente verranno quando tornerai da scuola.»

Ma Theresa non sarebbe andata a scuola. Quel giorno non doveva assolutamente lasciare solo suo padre. E aveva una scusa pronta: i crampi all'addome. Questo, almeno, era vero. Accovacciata sulla latrina aveva visto quasi con gioia quei primi segni rossi del flusso mensile.

«Ma tu non sei uscito dal cottage, vero papà? Sono rimasta qui fino a che sono andata a letto, alle otto e un quarto. Ti ho sentito muovere, ho sentito la televisione.»

«La televisione non è un alibi» ribatté suo padre.

«Ma io sono scesa, papà, ricordi? Sono andata a letto presto, alle otto e un quarto, ma non riuscivo a dormire e avevo sete. Sono scesa poco prima delle nove per bere un po' d'acqua. Mi sono seduta a leggere sulla poltrona della mamma. Devi ricordartelo, devi. Erano le nove e mezza quando sono tornata a letto.»

Suo padre si lasciò sfuggire un gemito. «Sì, certo... certo, ricordo» disse.

All'improvviso Theresa si accorse che le gemelle erano entrate in cucina e se ne stavano fianco a fianco in silenzio, fissando il padre con occhi inespressivi. «Andate a vestirvi» disse. «Non dovete scendere così mezze nude. Prenderete un malanno.»

Obbedienti, le bimbe si girarono e sparirono su per le scale.

Il bollitore eruttava fiotti di vapore bianco. Il padre di Theresa lo spense, senza però accennare a preparare il tè. Sedette al tavolo con la testa china. Theresa ebbe l'impressione di sentirlo bisbigliare: «Sono un buono a nulla, un buono a nulla». Non vedeva la sua faccia, ma per un terribile momento ebbe l'impressione che stesse piangendo. Si alzò, continuando a reggere il biberon e ad allattare Anthony, e si avvicinò, accostandosi a lui più che poteva. «Andrà tutto bene, papà. Non hai motivo di preoccuparti. Andrà tutto bene.»

 

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